North Stream2: il conflitto si sposta dentro la UE, di Piergiorgio Rosso

North Stream2: il conflitto si sposta dentro la UE 1a parte – di Piergiorgio Rosso

A che punto è la costruzione del nuovo gasdotto Russia-Germania nel Baltico (North Stream-2 o NS2)? Ottenute quasi tutte le autorizzazioni di transito e ambientali – mancano quelle di Svezia e Danimarca – sembrerebbe dover avere la strada in discesa e poter mantenere l’obiettivo di primo avviamento fissato al 2019. Difficile del resto pensare diversamente considerato che il percorso del NS2 segue quello del NS1 che opera da diversi anni a pieno regime.

Anche i pareri espressi alla fine del 2017 dall’ufficio legale del Consiglio d’Europa sono risultati promettenti, nella misura in cui hanno chiarito che la direttiva UE denominata Terzo Pacchetto Energia (TEP) non si applica ai gasdotti che connettono uno Stato membro ad uno Stato terzo. L’NS2 sarebbe dunque in particolare esentato sia dall’obbligo della separazione fra proprietà dell’infrastruttura e proprietà del gas naturale trasmesso, che dall’obbligo di garantire l’accesso alla infrastruttura a terzi con tariffe eque e concorrenziali. Obbligo, quest’ultimo che cozzerebbe con lo stato di monopolista che Gazprom detiene all’esportazione del gas naturale russo.

Dunque nulla osta?

Proprio per niente: il Consiglio dell’UE è stato recentemente chiamato a discutere una proposta di emendamento alla Direttiva TEP avanzata dalla Commissione, proprio per includervi i gasdotti extra-UE. Emendamento già approvato dal Parlamento UE con osservazioni aggiuntive. Una vera e propria legge ad gasductum con la conseguenza però di applicarsi a tutti i gasdotti internazionali con implicazioni serie di compatibilità con le leggi internazionali che regolano la materia e per i rapporti istituzionali fra Stati membri e UE.

Nel caso di gasdotti sottomarini, il transito nelle Zone Economiche Esclusive (EEZ) degli Stati – distinte dalle acque territoriali – è regolato da una Convenzione delle Nazioni Unite (UNCLOS) che garantisce i diritto di transito a certe condizioni di sicurezza ed ambientali.

L’ufficio legale del Consiglio d’Europa ha dichiarato in data 1.3.2018 che tale estensione di applicabilità della Direttiva TEP contrasterebbe il diritto internazionale negli art. 56 e 58 dell’UNCLOS. Ora è la politica che deve decidere.

Che gli Stati membri dell’UE abbiano un crescente fabbisogno di gas naturale è certo, una volta deciso di uscire gradualmente dal nucleare e dal carbone per la produzione di elettricità. Che questo gas naturale debba essere importato, è altrettanto ovvio dato che la produzione interna, già insufficiente, cala costantemente. Che esso venga per circa il 40% dalla Federazione Russa, beh questo non sta bene né agli Stati russofobi del Centro ed Est Europeo né agli Stati Uniti che vorrebbero eliminare o ridimensionare questa leva di influenza politica e strategica in mano al loro principale competitore geopolitico.

Anche, se possibile, esportando il loro GNL, ma questo è secondario.

Ciò che è veramente essenziale per gli USA è che il gas naturale russo destinato all’Europa continui a passare prevalentemente attraverso l’Ucraina e la Polonia come ora – nonostante le frequenti interruzioni già subite nella storia recente – e non certo per sostenere quelle economie con la tariffa di transito pagata da Gazprom, ma perché questi due Paesi si prestano volentieri a cedere agli USA il potere di interdizione che la loro posizione geografica consente. Oggi loro sono in mezzo al “gasdotto” che collega Russia ed Europa occidentale; con il NS2 – ed il Turkish Stream, che però ora è bloccato sulle rive del Mar Nero in Turchia – finirebbero invece in coda all’infrastruttura, ricevendo gas naturale dalla Germania.

Lo scontro fra Commissione e Consiglio d’Europa è dunque decisivo per questa partita, ma non solo. Qualora dovesse prevalere la Commissione, il NS2 forse si farebbe anche – ne dubitiamo – ma a condizioni capestro inerenti la regolazione dei flussi e le garanzie di transiti complementari attraverso i gasdotti esistenti in Polonia ed in Ucraina.

Ciò che rimarrebbe come implicazione preoccupante sarebbe il fatto che con la modifica alla Direttiva TEP, la separazione proprietaria e l’accesso a terzi dovrebbe essere garantito a tutti i gasdotti offshore che collegano Paesi membri con terzi: che fine farebbero gli italiani Greenstream (Libia), Transmed(Algeria) e TAP (Azerbajan)? Sarà Gentiloni a discutere in Consiglio d’Europa la questione? Potrà l’Italia mantenere il diritto di “determinare le condizioni di utilizzo delle sue risorseenergetiche” e di “scegliere fra diverse fonti energetiche” (art. 194/Trattato UE)?

Con la modifica proposta e la conseguente necessità di ridiscutere i termini dei contratti internazionali relativi ai gasdotti di trasmissione, la Commissione UE sarebbe in grado di influenzare e bloccare tali possibilità, riservandosi un diritto di veto a suo favore, dovesse uno Stato membro contrattare delle esenzioni con la controparte terza.

Gli Stati membri della UE, ma in particolare l’Italia, dovrebbero interrogarsi se davvero conviene loro concedere tali poteri alla Commissione, – che facilmente si traslerebbero agli elettrodotti – mettere a rischio la loro sicurezza energetica e le future opportunità di connessioni con Stati terzi, per il solo scopo di bloccare una singola infrastruttura.

Forse la Commissione vuole approfittare delle tensioni fra Russia e NATO per estendere i suoi poteri nei confronti dei Paesi membri?

North Stream2: il conflitto si sposta dentro la UE (2a parte) – di Piergiorgio Rosso

Nel testo precedente informavamo dell’intenzione della Commissione Europea di cambiare il diritto applicabile ai gasdotti transnazionali per permettere alla Commissione stessa di determinare le condizioni contrattuali applicabili al commercio di gas naturale trasportato in quegli stessi gasdotti. Con lo scopo di controllare direttamente quantità e prezzi del gas naturale trasportato da Gazprom attraverso il North Stream2 (NS2) a favore di Polonia e Ucraina. Col rischio – per ora per fortuna del tutto ipotetico e teorico – di estensione di tale intervento della Commissione sul regime contrattuale vigente nei gasdotti transnazionali di interesse nazionale italiano (dalla Libia, Tunisia, Russia e – nel prossimo futuro – Azerbaijan).

Il nuovo governo dovrà affrontare la questione non sappiamo precisamente quando, ma sicuramente in tempi brevi perché la vicenda NS2 ha subito in questi giorni una significativa accelerazione.

Il 7 giugno u.s. la Svezia ha rilasciato a Gazprom le autorizzazioni al passaggio ed alla gestione del gasdotto nella sua Zona Economica Esclusiva (ZEE) per un tratto di circa 510 km. Ora manca all’appello solo la Danimarca che potrebbe aderire alle preoccupazioni esternate dagli USA sul rischio che il gasdotto russo potrebbe essere dotato di stazioni di ascolto sottomarino mettendo a rischio la sicurezza delle navi NATO. Ridicolo … (i tubi del NS1 già ci sono in fondo al mare Baltico …) ma tant’è. Gazprom ha fatto sapere che nel caso la Danimarca non concedesse l’autorizzazione è allo studio un cambiamento di percorso in acque internazionali.

Siamo stati recentemente in Germania a Greifswald dove l’attuale NS1 opera da anni e dove dovrebbe “atterrare” anche l’NS2 per constatare lo stato dei lavori. La movimentazione degli spezzoni di tubi da preparare, saldare e depositare in mare è continua ed il deposito dei pezzi occupa un’intera valletta vicino al porto di Sassnitz (vedi foto).

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Siamo pertanto portati a credere che la costruzione del NS2 non si fermerà facilmente, troppo avanzata la preparazione dei materiali e la fase autorizzativa è ormai quasi alla fine. Sia Gazprom che il portavoce del Cremlino Dimitry Peskov infatti hanno confermato che i lavori di deposizione del gasdotto nel mare della ZEE svedese cominceranno entro fine anno.

In questo contesto il Presidente ucraino Petro Poroschenko ha giocato la sua ultima carta, annunciando di essere al lavoro per creare un – non meglio definito – consorzio di imprese europee disponibili a gestire i gasdotti ucraini evitando così la costruzione del NS2. L’iniziativa avrebbe – ca va sans dire – l’appoggio degli USA. Poroschenko starebbe “attivamente negoziando con la Germania” su questa proposta.

E’ evidente che le pressioni su A. Merkel affinché fermi il gasdotto NS2 stanno raggiungendo l’acme, contando sulle difficoltà che l’attuale coalizione di governo tedesco ha su vari fronti: immigrazione, riforma dell’eurozona, dazi commerciali, insolite ispezioni in Deutsche Bank.

Si rinforza a nostro parere l’ipotesi secondo cui la via d’uscitache i tedeschi stanno esaminando prevede la costruzione del NS2 ma con una diversa regolazione dei gasdotti transnazionali, affidata ad organismi dell’UE.

Con conseguenze per ora inimmaginabili per i nostri interessi nazionali.

i link originari sono:

http://www.conflittiestrategie.it/north-stream2-il-conflitto-si-sposta-dentro-la-ue-di-piergiorgio-rosso

http://www.conflittiestrategie.it/north-stream2-il-conflitto-si-sposta-dentro-la-ue-2-di-piergiorgio-rosso

CAOS MIGRANTI/ “Politica in Africa e caos in Libia, tutte le colpe della Francia”_tratto da ilsussidiario.net

Pubblichiamo una intervista al generale in pensione Marco Bertolini sul tema della gestione dei flussi migratori

CAOS MIGRANTI/ “Politica in Africa e caos in Libia, tutte le colpe della Francia”

tratto dal sito http://www.ilsussidiario.net/News/Esteri/2018/6/23/CAOS-MIGRANTI-Politica-in-Africa-e-caos-in-Libia-tutte-le-colpe-della-Francia-/826985/

Per il generale MARCO BERTOLINI bisogna insistere a bloccare ogni rotta via mare dalla Libia, perché al momento non è possibile inviare forze militari ai confini subsahariani

Il presidente francese Emmanuel Macron (LaPresse)Il presidente francese Emmanuel Macron (LaPresse)

Circa l’80% del patrimonio economico dei paesi cosiddetti subsahariani, le ex colonie francesi come il Niger, la Repubblica Centrafricana, il Ghana, il Senegal, il Mali, è gestito direttamente da Parigi in cambio di pseudoaiuti economici. La moneta di riferimento è il franco, cosa che li assoggetta economicamente ancor di più a Parigi. Qui, ci ha detto il generale Marco Bertolini (ex comandante del Coi, a capo di operazioni speciali in Libano, Somalia, Balcani e Afghanistan), la Francia ha migliaia di soldati impegnati in azioni di guerra a favore di una parte piuttosto che l’altra. Per Parigi basta che rimanga il predominio francese: “Qui la Francia non ha mai fatto niente per bloccare i flussi di migranti che si recano in Libia, dopo aver fatto saltare quel tappo che si chiamava Gheddafi e che teneva lontani questi flussi”. Per Bertolini, un blocco delle frontiere libiche del sud da parte di contingenti militari è praticamente impossibile, l’unica maniera è aumentare il blocco fino a farlo diventare totale delle rotte via mare.

Generale, in un modo o nell’altro, prima con Minniti adesso con Salvini, ci si sta avvicinando a un blocco dei flussi migratori via mare verso l’Italia. Il problema però è che i migranti continuano ad arrivare in Libia attraverso la frontiera sud, quella del Sahara. Bloccare quell’ingresso con contingenti di polizia militare sarebbe fattibile?

Il termine polizia militare è un termine poco corretto. Può essere utile spostare forze militari sia nei paesi subsahariani che in Libia per cercare di contenere lì sul posto i flussi migratori. Questo però non può prescindere da accordi con paesi che hanno una loro sovranità, indipendenza, una loro dignità. Accettare forze straniere non tutti sono disposti a farlo, altrimenti saremmo già presenti.

Basterebbe tenere le forze militari dentro i confini libici, o no?

E a chi chiediamo l’autorizzazione? Ad Haftar, a Serraj, ai tuareg del Sahara? Non possiamo andare senza permessi e imporre la nostra presenza, ci possiamo andare se siamo richiesti e accettati. Non vedo uno qualunque dei due attuali governi libici disposti ad accettare una presenza militare italiana. Noi abbiamo già a Misurata dei militari, un ospedale da campo e dei consiglieri militari ma sono presenze poco significative. L’idea di bloccare i confini sahariani è interessante ma al momento del tutto teorica.

Già ai tempi del ministro Pinotti il parlamento con accordo bipartisan si era detto disposto a togliere truppe italiane da paesi come l’Afghanistan o il Kosovo e mandarli in Africa.

Si era pianificato di andare in Niger, ma solo per addestrare le loro forze militari contro i jihadisti. Il ministro della Difesa nigerino aveva detto sì ma quello degli Esteri no e tutto è finito lì.

Quindi considera questa strada del tutto impraticabile?

La nostra presenza sarebbe importante in quei paesi per rinsaldare vincoli economici e diplomatici, ma al momento la strada da percorrere è ancora quella di togliere quel magnete che c’è in mare, le navi Ong e di altri paesi europei, che danno ai trafficanti la certezza che il loro carico sarà preso da qualcuno. Ci vuole dello stomaco almeno all’inizio, possono esserci anche incidenti ma a lungo andare si risparmiano vite. Una volta che non ci fosse più nessuno in mare pronto a portare i migranti in Italia, questo mercato dovrebbe finire. Navi Ong che operano sottocosta alla Libia sono un obiettivo facilissimo da raggiungere per chiunque dopo poche miglia in gommone.

Potrebbero volerci anni, non crede? Intanto la Libia continuerebbe a riempirsi di migranti fino a diventare una sorta di bomba che implode su se stessa.

Certamente, infatti questa azione sul mare va integrata anche da misure come quelle che ha detto lei, va fatta una pressione molto forte sui governi africani, dobbiamo pretendere che blocchino questo traffico, usando armi economiche e diplomatiche, mettendo in gioco quel po’ di forza se ancora l’abbiamo.

C’è poi la presenza francese in questa parte dell’Africa che è totalizzante, difficilmente accetterebbe la presenza su territori da cui ha vantaggi economici enormi di altre nazioni, non crede?

Infatti, a maggior ragione. In quei paesi la Francia sì che ha voce in capitolo, ha in mano l’economia, le monete locali hanno come riferimento il franco, ma non ha mai fatto niente per aiutare a interrompere il flusso che la Francia stessa ha innescato togliendo il tappo che si chiamava Gheddafi. La Francia ha nel Subsahara  migliaia di soldati, se volesse fare qualcosa lo potrebbe fare. Se parlasse con quei governi si otterrebbero risultati. Noi possiamo farlo con la Libia ma al momento manca un interlocutore.

(Paolo Vites) 

la geopolitica dell’acqua- intervista ad antonio de martini 2a parte

qui sotto la seconda parte dell’intervista registrata integralmente il 22 aprile scorso con la prima parte già apparsa sul sito al seguente link

http://italiaeilmondo.com/2018/06/13/la-geopolitica-dellacqua-intervista-ad-antonio-de-martini-1a-parte/

L’intervista si conclude con una nota di speranza inusuale di questi tempi. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

MACHIAVELLI, di Teodoro Klitsche de la Grange

MACHIAVELLI

Non è stata dedicata soverchia attenzione alla ricorrenza del 500° anniversario del “Principe”. A dispetto del fatto che – a quanto sembra – sia l’opera italiana più tradotta al mondo e che da quando fu scritta, nessuno, che si sia occupato di politica (filosofia, scienza della politica, storia), abbia potuto fare a meno di confrontarvisi, si assiste a un anniversario celebrato con poca pompa e qualche nascosto imbarazzo.

Scrive Di Lello che “non si tratta di un dettaglio, ma di un sintomo (certo uno dei tantissimi, pur sempre un sintomo) di caduta culturale ed ideale”[1].

Che il pensiero di Machiavelli dia fastidio, e lo dia all’establishement culturale e politico italiano, in particolare  di sinistra, è evidente. Tutta la melassa delle buone intenzioni e dei buoni sentimenti, sintetizzata nel “buonismo” è proprio l’antitesi delle concezioni di Machiavelli. A servirsi di quelle di un suo epigono moderno, come Pareto, l’unica cosa che certe zuccherose e commoventi prediche attestano è lo stato di decadenza delle élites che le tengono e del popolo che le sta ad ascoltare. Il Segretario fiorentino ha, nei confronti di quelle, la funzione attribuitagli da Foscolo, in sintesi: mostrare che il re è nudo. Dietro buoni propositi e discorsi edificanti c’è la ricerca e soprattutto la conservazione di un potere, ormai senescente e anche (e soprattutto) perciò buonista. Realismo politico significa demistificare il nucleo essenziale dell’apparato egemonico costruito dal secondo dopoguerra in poi e specialmente negli ultimi vent’anni. Il pensiero di Machiavelli è infatti quanto di più politicamente scorretto si possa immaginare. A cominciare dal nucleo: “perché ogni uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene ruini intra tanti che non sono buoni”; da qui, dalla concezione “problematica” della natura umana, l’esigenza del realismo in politica e la ricerca della “verità effettuale della cosa” (cioè dell’approccio concreto). Le conseguenze del quale non si riflettono solo sulla politica (prassi e teoria) ma anche sul pensiero giuridico-istituzionale. Come esiste una condotta ispirata al Segretario fiorentino, c’è una concezione dello Stato e della costituzione fondata sui medesimi presupposti: pessimismo  antropologico (almeno relativo), realismo politico, ricerca della “verità effettuale delle cose”[2]. E del pari, Machiavelli si occupa più volte  – anche se spesso implicitamente – del rapporto tra politico e diritto.

2.0 Contrariamente a quanto ritenuto da molti nostri contemporanei, nel segretario  fiorentino la politica è decisiva e il diritto segue; il rapporto è acutamente inquadrato da Machiavelli nel primato della politica (e del politico).

Nel XVIII capitolo del principe scrive “sono dua generazione di combattere: l’uno con le leggi, l’altro, con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie”. Tale espressione è stata in genere connessa allo specifico argomento lì trattato (quomodo fides a principibus sit servanda), in particolare sul rapporto tra astuzia (golpe) e forza (lione). Tuttavia l’espressione può essere interpretata anche in un altro senso; che è quello chiarito da Machiavelli subito dopo: che il Principe, soprattutto il Principe  nuovo è “spesso necessitato, per mantenere lo Stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alle comunità, contro alla religione”. Enumera cose che per un uomo del suo, e anche del nostro tempo, sono più care e sacre del diritto, onde si può immaginare se il Principe non possa anzi debba operare contro questo. Anche se nel pensiero nostro contemporaneo è il diritto a non poter essere mai violato (con le conseguenze più bizzarre e, peggio ancora, dannose). Perché, prosegue Machiavelli “nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati”. In diverse parole qui come in altri passi del Principe e dei Discorsi , Machiavelli (fonda e) rivendica l’autonomia del politico, che non deriva da altra “essenza”, come scrive Freund. Non c’è giudice del principe, e l’unico criterio di giudizio è se ha attinto il fine di conservare lo Stato: il che significa non solo il (di esso) potere, ma anche l’esistenza (e la “buona” esistenza) dei sudditi[3].

Il rapporto tra politico e diritto  (legge, ordine, organizzazione istituzionale) è confermato dal XXXIV capitolo del I° libro dei Discorsi, dove Machiavelli tesse l’elogio della dittatura romana: nei frangenti eccezionali, il dittatore conserva lo Stato infrangendo il diritto e gli ordini (cioè l’ordinamento costituzionale – o, meglio, parte di esso) “perché senza uno simile ordine le cittadi con difficultà  usciranno degli accidenti istraordinari. Perché gli ordini consueti nelle repubbliche hanno il moto tardo non potendo alcuno consiglio né alcuno magistrato per se stesso operare ogni cosa, ma avendo in molte cose bisogno l’uno dell’altro … E perciò le repubbliche debbano intra loro ordini avere uno simile modo” e subito dopo “Perché quando in una repubblica manca uno simile modo, è necessario o servando gli ordini rovinare, o per non rovinare rompergli” E’ l’ordinamento stesso che deve prevedere organi straordinari, dotati anche della facoltà di sospendere, derogare, modificare il diritto vigente: “Talchè mai fia perfetta una repubblica se con le leggi sue non ha provisto a tutto, e ad ogni accidente posto il rimedio e dato il modo a governarlo”.

La Costituzione italiana è bellissima (come dice un noto attore) e quel che è peggio, è considerata così perfetta da non poter essere cambiata, onde è chiaro che il pensiero di Machiavelli è in contrasto con tali affermazioni, perché la stessa non prevede né competenza né misure per lo stato d’eccezione ed è quindi, date le affermazioni del Segretario fiorentino, imperfetta, e da cambiare (di corsa).

Più in generale nella concezione di un certo costituzionalismo contemporaneo (e più in generale di teoria generale del diritto) s’inverte il rapporto tra diritto e politica. In Machiavelli la politica è autonoma, mentre il diritto è eteronomo, perché al di esso fondamento v’è la decisione politica. E’ il sovrano che decide se conservare, modificare, sospendere il diritto. E’ il pouvoir , a servirsi dei concetti (e dei termini) di Hauriou, a garantire l’ordre (anche) attraverso il droit. L’altro “punto” di eteronomia del diritto, ovvero rispetto alla morale, è talvolta anch’esso completamente omesso, talvolta travisato (o depotenziato).

Tanto per farne un esempio (tra tanti) particolarmente rilevante della lontananza tra il pensiero di Machiavelli e quello di taluni nostri contemporanei: anche chi ammette un certo “tasso” di morale nel diritto v’include quasi esclusivamente ciò che rileva per lo stato sociale contemporaneo, ovvero in particolare, la distribuzione del reddito a favore delle classi e dei cittadini più disagiati.

Non capita invece di leggere della connessione esistente tra diritti e doveri nelle costituzioni e negli Stati, anche contemporanei, né tra alcuni specifici doveri. Per essere chiari: il diritto di esercitare funzioni pubbliche (art. 51 Cost. italiana vigente) cioè di partecipare a decidere il destino della comunità è strettamente correlato e quello di pagare le imposte (art. 53), ma ancor più a quello di difendere la Patria (art. 52). Anche per un lettore distratto di Machiavelli, è chiara l’importanza che questi da all’ “arme proprie” (v. per il solo Principe, i capp. XII-XIV)[4]. Ammoniva che “chi dice impero, regno, principato, repubblica, chi dice uomini che comandano, cominciandosi dal primo grado e discendendo infine al padrone d’un brigantino, dice giustizia e armi”[5]; senza queste è impossibile preservare la libertà, e ovviamente, l’esistenza politica. Per cui il rapporto tra morale (meglio sittlichkeit nel senso di Hegel) e diritto è essenzialmente (anche se non esclusivamente) quello segnato dall’adempimento dei doveri legati alle funzioni pubbliche esercitate o rivestite. Anche la concezione machiavelliana  della virtù si muove nello stesso solco: al Principe è necessaria virtù per sapere fronteggiare gli eventi, come per poterne approfittare.

Quindi di “morale” si può parlare prendendo atto che si tratta di una morale che ha poco a che fare con quella che per ciò s’intende; il contributo di quest’ultima al diritto c’è, ma accanto a quello dell’ “altra” morale (quella, per così dire, “pubblica” e non “privata”).

3.0 Scrive Machiavelli nel Proemio dei Discorsi che, contrariamente a quanto accade per il diritto (le “leggi civili”), per la medicina, per le arti “nell’ordinare le republiche, nel mantenere li stati, nel governare e’ regni, nello ordinare la milizia ed amministrare la guerra,  nel iudicare e’ sudditi, nello accrescere l’imperio, non si trova principe nè republica  che agli esempi degli antiqui ricorra”; e continua scrivendo che, a suo giudizio ciò dipende dalla mancanza di comprensione (“non avere vera cognizione delle storie per non trarne leggendole quel senso … che le hanno in se”). E si meraviglia perché “infiniti che le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono, senza pensare altrimenti di imitarle, iudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il sole, li elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di potenza da quello che gli erano antiquamente”. In altri termini Machiavelli sostiene che, essendo la natura umana sempre la stessa, e di conseguenza, si direbbe oggi, le regolarità del politico, i problemi da risolvere sono sempre i medesimi e quindi assai simili i rimedi. “Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile, e come ne è piena di esempi ogni istoria, è necessario a chi dispone una repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro qualunque volta ne abbiano libera occasione”.[6] Per cui, chi ordinasse uno Stato presupponendo i cittadini tutti virtuosi, i popoli (e i governi) vicini tutti benevoli, realizzerebbe un pessimo prodotto (peraltro di durata breve).

Ma cos’è oggi quella “immaginazione della cosa” che il Segretario fiorentino addita come la via maestra per ordinare male gli Stati?

L’immaginazione è feconda d’illusioni, e delle più varie; proviamo a ricordarne alcune, le principali.

La prima è quella, direttamente opposta alla concezione delle “regolarità” sopra ricordate (e che Aron chiamava “principio di perennità”) e cioè che si può trovare la formula per cambiare la natura umana o quanto meno correggerla ed eliminare o ridurre l’incidenza di alcune “regolarità”. Ne abbiamo avuto un esempio nel secolo scorso col comunismo, il cui nucleo consisteva nel credere che mutando i rapporti di produzione sarebbe mutata anche la natura umana. Un tipo di sostituzione del politico con l’economico. Abbiamo visto com’è finito. Ma l’aspirazione a sostituire la politica (e il politico) con altro, che s’intravede già in un noto passo biblico del deutero – Isaia, continua – anche se meno rumorosamente, in altre forme, provando con altri tipi di attività umane. Soprattutto col diritto: sono già manifeste aspirazioni di ciò nel testo (ma soprattutto nelle carenze del testo) costituzionale (ad esempio la mancata previsione e disciplina dello stato d’eccezione); ma che comunque sono poca cosa rispetto a quanto circola a livello di opinione pubblica, e in non poche concezioni degli “addetti ai lavori”. Ad esempio tra gli idola tribus il più frequentato è quello che fare politica equivale a legiferare; e che i problemi si risolvono con le leggi. Dimenticando che buona parte dell’attività dello Stato è politica “pura” non riconducibile a norme (e ancor più a un contenuto normativo applicabile). E’ una legge (in senso formale) una dichiarazione di guerra? o l’approvazione di un trattato? O l’applicazione del diritto, che è distinta dalla legiferazione, ma che incide in modo decisivo sul diritto effettivamente osservato?

Una tale aspirazione ha portato, inversamente, a promulgare delle leggi essenzialmente per il loro carattere (e il relativo benefico ritorno) propagandistico; ben sapendo che sarebbero state poco o punto applicate. Anche la dottrina costituzionalista ha risentito di tale illusione che Freund chiama dell’ “imperialismo giuridico”: discute quasi sempre di “norme” e di “principi” (con variazioni sui valori) e assai poco di “organizzazione”, di “poteri” e di “principi (di forma politica)”; sembra peraltro si sia dimenticato che, nella costituzione la cosa più importante è chi la possa abolire, abrogare, sospendere. Cioè il potere costituente. Poco frequentata è anche la sovranità da quando (nella Germania di Weimar) ha cominciato a diffondersi l’idea della costituzione senza Sovrano (che a Machiavelli sarebbe sembrata una boutade).

L’altra fallacia ricorrente e quella della Costituzione per sempre, come le tavole mosaiche (scriveva Miglio con ironia). Nel duplice senso della perennità e dell’immodificabilità. Che è proprio l’inverso della storicità degli ordinamenti (e delle costituzioni) e della necessità di conformarsi alle situazioni concrete. E che oltre che col pensiero di Machiavelli è proprio all’opposto del dato storico. Machiavelli lo ripete spesso, non solo nel passo (sopra citato) dei Discorsi sulla dittatura romana; ed è poi conseguenza logica del principio di corruzione – e dei “cicli politici” – di ogni regime[7]. La corruzione fa si che “se un ordinatore di repubblica ordina in una città uno di quelli tre stati, ve lo ordina per poco tempo, perché nessuno rimedio può farvi a fare che non sdruccioli nel suo contrario”. Per cui dalla monarchia si passa all’aristocrazia e poi alla democrazia: ogni passaggio è preceduto dalla conversione dello Stato nella forma degenere (da monarchia a tirannide e così via)[8]. “E questo è il cerchio nel quale girando tutte le repubbliche si sono governate e si governano: ma rade volte ritornano ne’ governi medesimi, perché quasi nessuna republica può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazioni e rimanere in piede”: perché per lo più viene assoggettata.

Tutte tali forme di governo sono di breve durata: “sarebbe atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi. Dico adunque che tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne’ tre buoni e per la malignità che è ne’ tre rei”. A Roma il tutto fu risolto “sendo in una medesima città il Principato, gli Ottimati e il governo Popolare”. D’altra parte, scrive Machiavelli, “sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino, e a molte cose che la ragione non t’induce, t’induce la necessità; talmente che avendo ordinata una republica atta a mantenersi non ampliando, e la necessità la conducesse ad ampliare, si verrebbe a tor via i fondamenti suoi ed a farla rovinare più tosto”. È la (necessità dell’) esistenza politica (cioè le situazioni concrete) a determinare l’ordinamento costituzionale e non viceversa.

Quindi l’aspirazione – pretesa a costruire un “ordine” valido per sempre è contraria alla concezione di Machiavelli. Il segretario fiorentino, contrariamente a quanto spesso oggi opinato, dava della Costituzione un giudizio storico-oggettivo, mentre oggigiorno prevale uno ideologico-soggettivo. Ossia, secondo il pensatore fiorentino, una costituzione è valida quando consente la durevole conservazione e l’accrescimento dello Stato, e non se è conforme a impostazioni ideologiche e conseguenti norme e/o principi (ancor più se è “bella” o, più spesso, “buona”). La costituzione romana, il “compromesso” costituzionale dei tre principi (monarchico, aristocratico e democratico) è ammirato dal fiorentino perché ha consentito a Roma di espandersi e dominare il mondo mediterraneo per diversi secoli, e ancor più se si considera la successiva costituzione imperiale. Valori, principi, norme-manifesto, disposizioni programmatiche e altro sono estranei al pensiero di Machiavelli (o secondari); d’altra parte non si capisce a che titolo un ordinamento costituzionale costruito con tante buone intenzioni ma durato qualche decennio e magari finito in catastrofe, possa essere apprezzato perché “bello”.

Altro carattere decisivo della costituzione (dell’ordinamento) secondo Machiavelli è che occorre ordinare la comunità, di guisa da coinvolgere e così “integrare”, in particolare nelle repubbliche, quanti più cittadini possibile. Parimenti l’elogio che fa dei tribuni della plebe è perché gli stessi costituiscono una magistratura di mediazione (e quindi d’integrazione) tra patriziato e plebe[9].

Nel “Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze a instanza di Papa Leone” delinea una nuova costituzione per Firenze, che assicuri il potere al Papa Medici. Riteneva che “La cagione perché Firenze ha sempre variato spesso nei suoi governi è stata perché in quella non è stato mai né republica né principato che abbi avute le debite qualità sue; perché non si può chiamar quel principato stabile, dove le cose si fanno secondo che  vuole uno e si deliberano con il consenso di molti: né si può credere quella republica esser per durare, dove non si satisfà a quelli umori a’ quali non si satisfacendo le republiche rovinano” e delinea un nuovo assetto costituzionale che, conservando l’essenza del potere a casa Medici, distribuisse poteri, cariche e competenze dando un ruolo nel governo della città “a tre diverse qualità di uomini che sono in tutte le città; cioè i primi, i mezzani e gli ultimi”; ordinandoli in tre collegi, con differenti poteri e competenze perché “senza satisfare all’universale, non si fece mai alcuna republica stabile”, il tutto mantenendo ai Medici “tanta autorità… quanto ha tutto il popolo di Firenze”.

Distribuendo potere e competenze, il Segretario fiorentino delinea un modello costituzionale fondato sull’integrazione di forze reali, rendendone partecipi gli uomini più in vista delle relative “classi” sociali. Machiavelli integra col (e nel) potere e non (o preferibilmente che) con le norme.

Il che fa del Segretario fiorentino anche uno dei “precursori” del concetto di costituzione materiale[10]; ma è parimenti vero che Machiavelli comprenda lo Stato come realtà vitale e la costituzione “come un ordine vitale, che cerca di realizzare un’immagine determinata di una realtà e di una totalità di vita politiche”[11]. A servirsi della terminologia e dei concetti di Smend la concezione di Machiavelli è, come quella del giurista tedesco, basata sullo Stato come unione di volontà e questa si realizza attraverso l’integrazione “Lo Stato esiste solo perché e in quanto si integra continuamente, si costruisce nei e a partire dai singoli – e in questo processo continuo consiste la sua essenza di realtà sociale spirituale”[12] e come scrive Smend “L’effetto di integrazione esercitato dagli organi può derivare dalla loro esistenza, dal loro processo di formazione e dal loro funzionamento” e prosegue “L’effetto di integrazione degli organi deriva dalla loro esistenza – cioè in prima istanza dall’esistenza di organi politici in senso stretto”[13].

Peraltro diversamente da molti costituzionalisti contemporanei i quali pensano che la costituzione sia il testo scritto e solo quello, il pensiero di Machiavelli presuppone quello che sarà secoli dopo enunciato apertis verbis da De Maistre, che nella costituzione “ciò che è più fondamentale ed essenzialmente costituzionale non potrebbe (ne saurait) esserci scritto”[14]. In particolare il precetto fondamentale salus rei publicae suprema lex (con la conseguente necessità e legittimazione delle “rotture” della legalità anche costituzionale) non è scritto in nessuna delle costituzioni: ciò non toglie che, almeno finché una sintesi politica voglia esistere, lo si debba osservare. Santi Romano perciò riteneva la necessità fonte di diritto, superiore alla legge[15]: anche in questo si manifesta la “discendenza” da Machiavelli, che proprio dalla necessità, legittima “rotture” e deroghe al diritto, alla costituzione, alla religione. A proposito della quale, è noto, oltre alla concezione di questa come strumento della politica, ma soprattutto come la consideri il fondamento della città ben ordinata: “dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d’uno principe che sopperisca ai di ferri della religione nel disinteresse rispetto al rapporto tra religione (teologia) e politica, è emerso anche qualche curioso tentativo che vorrebbe fondarne un surrogato prescindendo da “sacro” e da “Dio”, e sostituendoli con un misto di morale privata e imperativi categorici. Una concezione strabica verso il privato e, proprio perciò inadatta a fondare (e mantenere) una società pubblica[16].

  1. Quanto sopra ricordato è solo parte di ciò che di costituzionalistico si può ricavare dagli scritti di Machiavelli.

Le idee generali che li caratterizzano sono quelle del realismo (giuridico) il quale individua nella realtà – e nelle leggi, anche sociali – un dato non modificabile dell’uomo; e nell’esistenza della comunità e dell’istituzione  lo scopo (finale), che relativizza norme, principi, valori, interessi particolari. Secondariamente della coerenza e congruità (anche interna) dell’istituzione: non si può costituire una forma politica durevole che non abbia coerenza e congruità sia nella forma che rispetto alla “materia” cioè alla situazione concreta, sociologica e geopolitica in primo luogo (senza qui considerare altro).

Il che è connesso al carattere “tecnico” del pensiero di Machiavelli. Carl Schmitt scrive al riguardo che il “nocciolo vero” del pensiero di Machiavelli è di essere “dominato da un interesse prevalentemente tecnico”; tale aspetto non è limitato ad attività e risultati più strettamente politici (guerre, alleanze, trattati), ma anche all’ordinamento del potere[17]. Questa “tecnicità” fa si che passino in secondo piano sia “principi” che valori e norme[18]. È la situazione concreta a determinare quale sia la forma di governo più adatta[19] a una sintesi politica in un determinato momento storico. D’altra parte il criterio di validità di una forma politica è dato – come sopra scritto – della durata e dai risultati e non dalla corrispondenza a  norme, valori e principi. Anche questa concezione condivisa nei secoli successivi da tanti[20].

D’altra parte la razionalità del pensiero del Segretario fiorentino, e l’illusorietà di quello di taluni contemporanei è provato da una constatazione: che una costituzione “bellissima” colma di enunciazioni accattivanti di principi e valori condivisi ma inadatta all’azione e all’esistenza politica non serve neppure a conservare quei principi e quei valori che vi sono proclamati (e spesso branditi contro gli avversari politici). Più prima che poi guerre, rivoluzioni, o quelle forme di ostilità “parabelliche” (come gli attacchi della finanza internazionale) costringeranno a eliminarla o riformarla (o a perdere la sintesi politica). Ma se la costituzione è congrua, anche la protezione di quelli è (meglio) assicurata. Bonald sosteneva che la costituzione è il modo di esistenza di un popolo, a conservare il quale (e con esso i relativi rapporti, valori, leggi fondamentali) serve.

L’esistente prevale sul normativo (senza il primo viene meno il secondo: ma non è vero l’inverso): è questa la lezione che Machiavelli (e il realismo) ci da ancora oggi. A non capirlo o a volerlo non capire, anche nell’organizzare le istituzioni si trova “più presto la  ruina che la perservazione sua”.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Area, maggio 2013

[2] A chiarimento del carattere “problematico” e  “pessimistico relativo” della natura umana, l’uso di queste espressioni è finalizzato a distinguere le concezioni pessimistiche spesso identificate in due pensatori come S. Agostino e S. Tommaso. Più pessimista il primo, meno il secondo, come noto (e dibattuto). L’ascrizione di Machiavelli al pessimismo antropologico “relativo” (o moderato o “tomista”) è, a mio avviso, determinata sia dal richiamo costante (e pieno) al libero arbitrio, (alla virtù che contiene la fortuna) e alla necessaria prudenza che ne consegue che alla non adesione all’autoritarismo conseguente logicamente dal pessimismo agostiniano; così ben testimoniato da Lutero e da Calvino (ma anche da Bossuet) con la dottrina cioè del “diritto divino soprannaturale”, per cui al cristiano non è consentito opporsi (resistere) all’autorità costituita.

[3] Si può desumere anche un altro senso di quella frase, che considera legge, forza e modi di combattere: che ambedue sono finalizzati a creare l’ordine, a creare, mantenere, aumentare il potere (comando/obbedienza) ma il tutto esula dai limiti di questo scritto.

[4] Ma ne tratta anche nel Principe in altri capitoli, nonché in tante opere anche “occasionali”, come i discorsi per l’ordinamento della milizia  fiorentina.

[5] V. Discorso dell’ordinare lo Stato di Firenze alle armi.

[6] Discorsi I, III (i corsivi sono nostri).

[7] v. R. Aron, trad. it. in Machiavellie le tirannie moderne, Roma 1998, p. 104.

[8] v. Discorsi, 1, II.

[9] v. Discorsi 1, III.

[10] Il quale, come noto si deve – nell’epoca moderna – a Lassalle “Gli effettivi rapporti di potere che sussistono in ogni società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicché queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono” v. trad. it. di C. Forte in Behemoth n. 20 p. 6 (da qui l’esigenza di coordinare, organizzare detti rapporti) e a Costantino Mortati che ne coniò il termine “Rimanendo nell’ordine di idee per ultimo esposte di una raffigurazione della costituzione che colleghi strettamente in sé la società e lo stato, è da ribadire quanto si è detto sull’esigenza che la prima sia intesa come entità già in sé dotata di una propria struttura, in quanto ordinata secondo un particolare assetto in cui confluiscano, accanto ad un sistema di rapporti economici, fattori vari di rafforzamento, di indole culturale, religioso ecc., che trova espressione in una particolare visione politica, cioè in un certo modo d’intendere e di avvertire il bene comune e risulti sostenuta da un insieme di forze collettive che siano portatrici della visione stessa e riescano a farla prevalere dando vita a rapporti di sopra e sotto-ordinazione, cioè ad un vero assetto fondamentale” v. Istituzioni di diritto pubblico, Padova 1975 Vol. I° p. 30.

[11] v. Rudolf Smend ora in Costituzione e diritto costituzionale (raccolta di scritti) trad. it. Milano 1988, p. 287.

[12] Op. cit., p. 76.

[13] Op. cit., p. 162.

[14] Des Constitutions politiques, I.

[15] V. “ Talvolta le leggi scritte accordano, in casi di necessità, al potere esecutivo la facoltà di emanare decreti o ordinanze … Ma anche quando tali leggi scritte mancano, o sono inadeguate alla situazione che si è formata, e persino quando espressamente vietano che si faccia uso di poteri eccezionali e straordinari questi potranno essere assunti ed esercitati in forza della necessità. Come la consuetudine, anzi a maggior ragione, data la sua maggiore energia la necessità è fonte autonoma del diritto, superiore alla legge. Essa può implicare la materiale e assoluta impossibilità di applicare, in certe condizioni, le leggi vigenti e, in questo senso, può dirsi che «necessitas non hablet legem». Può anche implicare l’imprescindibile esigenza di agire secondo nuove norme da essa determinate e, in questo senso, come dice un altro comune aforisma, la necessità fa legge. In ogni caso, «salus rei publicae suprema lex» v. Diritto costituzionale generale, Milano 1947 p. 92 (il corsivo non virgolettato è nostro).

[16] Discorsi I, 11.

[17]L’organizzazione politica del potere e la tecnica per conservarlo ed estenderlo differiscono a seconda delle forme statuali, rimangono però sempre qualcosa che può essere prodotto con tecniche pratiche, così come l’artista produce, secondo la concezione razionalistica, l’opera d’arte. Con il variare delle condizioni concrete – posizione geografica, carattere del popolo, concezioni religiose, struttura dei gruppi sociali dominanti, tradizioni – varia anche il metodo e si costruiscono strutture diverse” in “Die Diktatur” trad. it. di A. Caracciolo, Roma 2006, p. 29 (il corsivo è nostro).

[18] “Il Principe dal canto suo non pretende fornire giustificazioni morali o giuridiche, ma semplicemente suggerire la tecnica razionale dell’assolutismo politico” op. cit., p. 30.

[19] “Supponiamo per esempio di avere degli uomini dotati della virtù, che è il principio indispensabile per la costruzione di un ordinamento sociale repubblicano: in questo caso la monarchia non sarebbe neppure tollerata. Il tipo di energia politica che si esterna nella virtù è incompatibile con forme di governo assolutistiche, ma ammette unicamente un regime repubblicano. Il materiale umano con il quale ha da fare i conti il procedimento tecnico dev’essere dunque  diverso a seconda che ci si prefigga di stabilire un principato assoluto o una repubblica; diversamente non si conseguirebbe il risultato voluto” op. cit. p. 30.

[20] Tra cui citiamo Louis de Bonald il quale scrisse, in polemica con un libro di M.me de Staël che “La costituzione di un popolo è il modo della sua esistenza; e chiedersi se un popolo con quattordici secoli di storia, un popolo che esiste, ha una costituzione, è come interrogarsi, quando esiste, se ha il necessario per esistere; è come chiedere ad un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere… La nazione era costituita, e così ben costituita, che essa non ha mai chiesto a nessuna nazione vicina la protezione della sua costituzione… proprio perché la Francia aveva una costituzione ed una costituzione solida, si è ingrandita un re dopo l’altro, anche quando questi erano dei deboli, sempre invidiata mai scalfita; spesso turbata mai piegata; uscendo vittoriosa dai rovesci più imprevedibili con i mezzi più insospettati, e non potendo perdersi che per una mancanza di fiducia nella propria fortuna” ed aggiunge “Una costituzione completa e ben congegnata non è quella che si arresta davanti ad ogni difficoltà, che le passioni umane e la varietà degli eventi possono far nascere, ma quella che prevede il mezzo di risolverli quando questi si presentano: come il fisico robusto non è quello che impedisce e previene le malattie, ma quello che da la forza di resistervi, e di ripararne prontamente i danni” v. Louis de Bonald Observation ur l’ouvrage de M.me la Baronne de Stael, trad. it. di Teodoro Katte Klitsche de la Grange, La Costituzione come esistenza, Roma 1985, pp. 35-36.

25° PODCAST_NEL TEMPO E NELLO SPAZIO, di Gianfranco Campa

L’inchiesta sul Russiagate, con i suoi corollari, procede ormai stancamente e a tentoni. Rappresenta l’emblema dei pesanti e sistematici interventi in grado di condizionare pesantemente la condotta del Presidente Trump e di snaturare le finalità politiche originarie specie nell’agone geopolitico. Lo hanno spinto e costretto a stringere e saldare alleanze, specie in Medio Oriente, con modalità talmente ostentate da pregiudicare quasi irreparabilmente il ruolo di arbitro, sia pure di arbitro-giocatore, già compromesso con le politiche destabilizzatrici dei precedenti Presidenti Bush e Obama; ma non lo hanno atterrato e neutralizzato definitivamente. L’inerzia dello scontro, piuttosto, sta mettendo a nudo progressivamente la vana e sterile potenza del vecchio establishment. Uno ad uno i pilastri sui quali ha poggiato il proprio predominio trentennale cominciano a mostrare l’usura e crepe preoccupanti. Dal multipolarismo all’ambientalismo catastrofista, dall’interventismo esibito e giustificato dal vessillo dei cosiddetti diritti umani al globalismo fondato sullo scambio perverso tra estorsione finanziaria e deindustrializzazione di importanti aree e settori della formazione dominante, dalla cosiddetta libertà delle reti alla cosiddetta libertà di migrare, uno ad uno tutti i tabù cominciano ad essere contestati e la fede euforica in quei principi si trasforma sempre più apertamente in dubbio e in contestazione sempre più aperta.

Non solo! Lo stallo nello scontro e la perdita duratura di controllo di alcune leve fondamentali di potere e di trasmissione delle direttive stanno compromettendo la già scarsa coerenza delle condotte politiche e paralizzando la fiducia e l’efficacia dell’azione delle seconde linee sparse per il mondo. La crisi della Unione Europea, la situazione traballante di dirigenti politici sino a pochi mesi fa indiscussi, come Merkel e Macron, sono gli indizi della crisi di una intera classe dirigente e di un intero sistema di relazioni, ormai aggrappato all’esito delle prossime elezioni di medio termine negli USA, nel frattempo vagante come pecorelle smarrite. Fosse anche largamente positivo per il vecchio schieramento neocon e democratico, nulla però potrà ormai tornare come prima. La coperta americana si sta rivelando sempre più stretta per coprire l’intero planisfero. La stessa Europa è sempre meno un campo unitario di azione. Ossessionata dalla capacità di resistenza della Russia, vede con difficoltà l’emergere di altre forze concorrenti.

Sarebbe ormai più interesse del vecchio establishment americano, costretto sempre più a mettere a repentaglio la credibilità di intere istituzioni e dei personaggi chiave ad esse connessi, che del nuovo establishment in via di formazione cercare di chiudere la messinscena. La dinamica della rappresentazione ha però assunto una propria inerzia difficile da governare sino a coinvolgere autorità sino ad ora indiscusse e indiscutibili come Obama. Se vittoria potrà essere, rischia di rivelarsi una vittoria di Pirro. La vecchia talpa ha già scavato abbastanza. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

 

CHI GESTIRÀ LA FASE DI CHIUSURA DELL’ILVA DI TARANTO?, a cura di Luigi Longo

CHI GESTIRÀ LA FASE DI CHIUSURA DELL’ILVA DI TARANTO?

a cura di Luigi Longo

 

Ho sostenuto qui, qui, qui con una ragionevole ipotesi che l’Ilva di Taranto si avvierà verso la chiusura perché è incompatibile con l’allargamento della base Nato e perché gli USA ritengono Taranto e Foggia spazi fondamentali per le loro strategie nel Mediterraneo, Medio Oriente e Oriente.

L’avvio della chiusura di una impresa di livello mondiale, con il più grande impianto siderurgico d’Europa, strategica per l’economia italiana, significherà avviare l’Italia verso un più accentuato declino economico, sociale e politico; dimostrando così che siamo amministrati da sub-sub-decisori servili e stupidi ( ci vorrebbe un altro Johnathan Swift per aggiornare la follia dei decisori) nel momento in cui svendono una industria strategica ad una multinazionale facendo in modo che siano sempre più i gabinetti stranieri a decidere la sorte della nazione.

Si pone una domanda: la svendita dell’Ilva di Taranto alla Am Investco (joint venture tra AcelorMittal (85%)- multinazionale con sede in Lussemburgo con primo azionista la famiglia indiana Mittal e Marcegaglia (15%), con advisor Jp Morgan) é l’inizio della complessa fase di gestione della chiusura?

L’articolo di Comidad (L’Ilva tra nuvole tossiche e nuvole di astrazione, apparso sul sito www.comidad.org, il 14/6/2018), di seguito riportato, pone delle riflessioni che lasciano intravedere le irrisolvibili problematiche perchè l’Ilva possa continuare a produrre e fanno emergere il conflitto tra i sub-sub-decisori delle varie sfere: militare, politica, economica e ambientale, nella fase di gestione della chiusura dell’Ilva.

 

 

L’ILVA TRA NUVOLE TOSSICHE E NUVOLE DI ASTRAZIONE

di Comidad

 

 

L’ennesimo “governo del cambiamento” si è andato a scontrare con le normali emergenze”. Se il dibattito sull’ILVA di Taranto continua ad assumere gli stessi toni spesso esasperati ed esasperanti, è perché risulta astratto; risente cioè di un’assoluta mancanza di contestualizzazione. Anzitutto bisogna capire quanto ha inciso, e quanto incide tuttora, nella vicenda il fatto che lo stabilimento ILVA confini con strutture militari, tra cui una base NATO. Quale che sia il governo in Italia, la NATO ha fatto capire chiaramente che non intende mollare la presa sul Sud del Mediterraneo.
La presenza dello stabilimento ILVA a Taranto è per “caso” diventata di troppo? Ostacola con la sua presenza l’espansione delle strutture militari?
Circa tre anni fa l’allora Capo di Stato Maggiore della Marina ventilò l’ipotesi di un assorbimento dei lavoratori dell’ILVA nel personale civile della struttura militare dell’Arsenale di Taranto.
Che si tratti di un progetto abbandonato o di un progetto lasciato in sospeso, oppure di una boutade di pubbliche relazioni per far vedere quanto possono essere buoni e utili i militari, ancora non è chiaro.
Un’altra questione non da poco è cercare di stabilire quanto incida la presenza militare nell’inquinamento dell’area. Un’ILVA capro espiatorio? Certo è che nessun perito di tribunale si sentirebbe di rovinarsi l’esistenza chiamando in causa una fonte di inquinamento di origine militare. E poi col segreto militare ci sarebbe poco da fare persino se la magistratura fosse al di sopra di ogni sospetto.
Oltre la vicenda del sito di Taranto, c’è la questione della siderurgia in genere. Può esistere una siderurgia senza le sovvenzioni statali, una siderurgia di “mercato”, oppure rientra nel novero delle fiabe liberiste?
In nome del mercato si delega la produzione della gran parte dell’acciaio alla Cina, dove però i colossi dell’acciaio sono tutti statali e vanno verso una crescente cartellizzazione, sempre all’ombra della mano pubblica.
Non sarebbe molto meno oneroso per la spesa pubblica italiana una siderurgia nazionalizzata piuttosto che foraggiare il rapinatore privato di turno?
In molti settori industriali tenere in piedi la finzione del privato ha un costo esorbitante per il bilancio dello Stato che deve tappare i buchi; ma questi “sprechi” di denaro pubblico possono essere catalogati sia come costi dell’assistenzialismo per ricchi, sia come costi della lotta di classe contro il lavoro.
La fiaba liberista ci narra di governanti spendaccioni che acquistano con la spesa allegra il consenso delle masse. La realtà è l’esatto opposto: lo Stato infatti spende e paga il pedaggio alle multinazionali di turno per poter mantenere i lavoratori dei centri siderurgici sotto la spada di Damocle della perdita del posto di lavoro. La produzione siderurgica comporta infatti la presenza sul territorio di concentrazioni operaie e, per i governi, il problema è di evitare che queste concentrazioni operaie diventino, come in passato, roccaforti e punti di aggregazione dell’opposizione sociale.
Un’altra passeggiata tra le nuvole riguarda le cosiddette “bonifiche ambientali”. Persino nell’ipotesi più ottimistica, cioè che l’inquinamento di Taranto sia esclusivamente di fonte industriale e non militare, ogni bonifica costituisce un’avventura di cui non si possono quantificare costi e tempi. E ciò senza tener conto dei rischi ulteriori che comporta l’andare a smuovere strutture che hanno sedimentato scorie tossiche in stratificazioni storiche. A sentire certi discorsi sembra che il disinquinamento sia come confessarsi e farsi la comunione per ritornare puri come prima. In realtà ogni bonifica è un azzardo e le tecnologie in grado di renderlo meno azzardato non sono del tutto certe e affidabili, anche se, ovviamente, il business ambientale tende a far credere il contrario.
La storia infinita della mancata bonifica del sito di Bagnoli è stata risolta semplicisticamente dalla magistratura nei consueti schemi del caso di corruzione. Ci si propina la solita fiaba moralistica secondo cui sarebbe stato solo l’inquinamento delle anime ad impedire il disinquinamento dell’ambiente.

 

se non una, quattro verità, di Antonio de Martini

LA RETE “PROSPER” E LE GRANDI ESIGENZE DI DISINFORMAZIONE, IN INTELLIGENCE SONO SEMPRE TRIPLE.

Qualche amico mi considera anti-britannico pregiudiziale.
Ammiro gli inglesi sia individualmente che come popolo.

In base a questi stessi princìpi sto dalla parte dell’Italia bestemmiando in silenzio la sorte.
Per farvi capire meglio il modus operandi Inglese che quando fa la guerra, la fa per vincere e non per ” sedersi al tavolo della pace” vi racconterò la storia della rete PROSPER.

È lunga ma molto istruttiva. Buona per una domenica calma.

Durante la guerra, esisteva il SIS ( secret intelligence service) guidato dal colonnello Stewart Menzies e – una creazione di Churchill- il SOE ( special operation executive) comandato dal colonnello, poi generale, Colin Gubbins incaricato dei sabotaggi in Europa ( ” set Europe ablaze ” ordinò Sir Winston).

I due si odiavano e si scontravano regolarmente nel JIC ( joint intelligence committee) di fronte a Churchill.

PER ORGANIZZARE LA DISINFORMAZIONE SULLO SBARCO IN SICILIA, sentite quel che organizzo Menzies, maestro di inganni inarrivabile.

Henri Dericourt, responsabile dei voli segreti con la Francia, in specie la zona di Parigi, veicolava regolarmente e fortunatamente uomini e mezzi da e per la Resistenza e i suoi servigi erano equamente forniti a SIS E SOE all’insaputa del SOE.

Nell’estate 1943 il capo della rete PROSPER (1600 persone) fu chiamato a Londra, ricevuto da Churchill in persona che gli fece capire che qualcosa bolliva in pentola in tempi brevi.

Poi Menzies gli confidò che l’invasione della Francia del nord era imminente.

Forse suggerì un paio di date e invitò alla preparazione.
Hyundai
Il capo rete rientrato in Francia, mise in allarme tutto il ” reseau “e informò i capigruppo.

Furono catturati in 600 e quattrocento passati per le armi previa tortura da una informatissima Abweher.

Dericourt fu messo sotto inchiesta, ma giunsero ordini dall’alto che fermarono tutto.

MORALE:

a) Dericourt era fedele al SIS e mostrava ai tedeschi tutti i documenti del SOE in maniera da ottenere la loro fiducia e far passare, le ben più preziose informazioni del SIS, indenni le linee.

b) la rete PROSPER era stata ” venduta” in una con i capi rete convinti di conoscere la data dell’invasione ( il capo rete si fece uccidere mediante tortura senza parlare, ma uno o due dei sottoposti parlarono prima di morire col colpo alla nuca).

c) l’operazione serviva, nelle intenzioni del SIS, ad attirare i tedeschi nel nord della Francia mentre l’operazione sbarco era prevista in Sicilia.

d) a guerra finita, si scoprì che i tedeschi non avevano abboccato e non spostarono truppe verso nord, nemmeno in misura minima.

e) messo in crisi dalle eccessive perdite, il SOE fu messo in posizione defilata e data al SIS la precedenza nell’uso dei 18 aerei leggeri che eseguivano i voli notturni sulla Francia.

f) Gubbins accusò, in pieno JIC, Menzies di aver venduto ai tedeschi moltissimi agenti SOE. ( il 50% dei voli), ma senza esito. Anzi commise un errore: ammise le pesantissime perdite.

g) Cavendish Bentick che presiedette la riunione del JIC fu così convinto che il SOE si sarebbe vendicato del colpo basso ricevuto, sia in Francia che in Inghilterra, che ordinò a Victor Rothshild
lo scienziato che collaborava coi servizi, che “se fosse morto improvvisamente, si dovesse fare una autopsia”.

Menzies era intoccabile come Dericourt , anche dopo aver fatto ammazzare , scientemente e inutilmente, quattrocento agenti comandati da un eroico ufficiale. Inglese. Il suo nome era : maggiore FRANCES SUTTIL.

Serviva per sviare i sospetti di manipolazione se le vittime fossero state solo ” stranieri”.
Pare che il primo rifiuto di De Gaulle all’ingresso inglese nella Comunità Economica Europea, sia stato chiamato “il conto di PROSPER”.

Il motivo della intoccabilità di Menzies ? Enigma, il segreto che lo legava a Churchill ed altre pochissime persone e che assicurò la vittoria finale ad Albione.

Come spiegazione ufficiale della disinformazione fatta, si propinò la versione ufficiale del falso cadavere di un ufficiale inglese affiorato sulla costa iberica con in tasca una lettera tra capi militari inglesi che accennava a uno sbarco in Sardegna..

Da questa storiella ( operazione ” Mincemeat”) fu tratto il film “The man Who never was ” ( l’uomo che non è mai esistito) con Clifton Webb, presentato a Cannes nel 1956. L’anno della firma dei trattati di Roma.

Dal punto di vista tattico, le truppe ( aerei, navi) destinate a Sardegna o Sicilia, sarebbero state comunque sul posto della battaglia, ma la gente negli anni 50 era stanca di racconti di guerra e la prese per buona.

Le ottime operazioni di disinformazione – etica a parte- sono sempre triple. Questa era quadrupla perché Dericourt serviva a proteggere la vera fonte dell’Abweher. Ma meglio non dirlo.

Adesso capite perché ci sto tanto attento, seguo e segnalo di continuo le loro azioni, vero?
Buona domenica.

Fatti di Macerata: tre domande senza risposta, di Roberto Buffagni

Fatti di Macerata: tre domande senza risposta

 

In base alle informazioni di cui dispongo, tutte ricavate dai media e dunque molto parziali, propongo all’attenzione dei lettori tre domande sull’omicidio di Pamela Mastropietro che sembrano restare senza risposta nelle risultanze delle indagini, che si sono chiuse il 15 giugno rinviando a giudizio il solo Innocent Oseghale.

1) Cadavere di Pamela Mastropietro: chi lo ha smembrato ne ha anche asportato degli organi, o no? Se sì, quali?

Sul cadavere della vittima sono state eseguite due autopsie: la prima dal dr. Antonio Tombolini, la seconda dal prof. Mariano Cingolani. Qui[1], qui[2] e qui[3] si dice che “il referto autoptico di Pamela, depositato in Procura dal medico legale Antonio Tombolini, parla di ‘depezzamento, scarnificazione, sezionamento di parti di derma, muscolatura e seni’ e denuncia la irreperibilità di alcuni organi come il cuore e parte del pube, oltre alla scomparsa della porzione di collegamento tra testa e torace, cioè del collo della ragazza.”

Qui[4] invece una fonte autorevolissima, il procuratore di Macerata dr. Giovanni Giorgio, nega recisamente che siano stati asportati organi dal cadavere, ma lo fa in una forma quanto mai ambigua: “E’ destituita di ogni fondamento la notizia relativa all’assenza di significative parti del corpo di Pamela Mastropietro, che sono state nella stragrande maggioranza recuperate e ricomposte in occasione degli accertamenti medico-legali eseguiti dal prof. Mariano Cingolani“. Si aggiunge immediatamente dopo, in una formulazione anch’essa insieme molto recisa e molto ambigua, che “Al momentosecondo il dr. Giorgio sono ‘da escludere assolutamente’  l’ipotesi di ‘antropofagia’ e di ‘riti voodoo connessi al decesso’ “ [sottolineature mie].

Che vuol dire “significative parti del corpo”? Che vuol dire “nella stragrande maggioranza recuperate e ricomposte”? Quali sono  le parti mancanti, non “significative” e non “recuperate e ricomposte”? Come si può “escludere assolutamente” ma “al momento”? Un’esclusione assoluta non è, per definizione, condizionata.

Il punto è della massima importanza per l’intellezione della dinamica dell’omicidio, perché l’asportazione di organi dal cadavere può appunto alludere alla pista dell’omicidio rituale.[5]

2) Innocent Oseghale ha smembrato da solo il cadavere della sua vittima?

Qui[6] il prof. Cingolani afferma che “Io, con gli strumenti giusti e un tavolo operatorio ci avrei messo almeno 10 ore per sezionare un corpo in quel modo, non posso credere che sia stato fatto in una vasca da bagno”. Non ho trovato smentite di questa valutazione, da parte del prof. Cingolani o di altra persona competente e autorevole. Oseghale non disponeva né di strumenti giusti, né di tavolo operatorio, né di completa formazione accademica e lunga esperienza medico-legale. Come è possibile che abbia operato da solo lo smembramento del cadavere?

3) Perché Oseghale ha messo in valigia il cadavere smembrato per poi abbandonarlo sul ciglio di un viottolo di campagna?

Non cito fonti giornalistiche perché il fatto non è controverso. Abbandonare le valigie in un luogo pubblico, benché appartato, rappresenta un grave rischio per Oseghale, che infatti proprio così viene subito scoperto. Perché lo fa? Poteva sminuzzare i resti, disperderli nelle fogne, eventualmente anche mangiarli, come suggeriscono i suoi presunti complici, oggi scagionati, Lucky Awelima e Desmond Lucky in questa intercettazione in carcere[7]. Poteva anche dissolverli nell’acido cloridrico, disseminarli in campagna o in mare, seppellirli, etc. Pare logico che a) Oseghale abbia depositato le valigie d’accordo con un complice incaricato di ritirarle b) Oseghale abbia corso il grave rischio di depositare le valigie in vista di un scopo, di lucro (vendita dei resti, utilizzabili in pratiche rituali[8]) e/o di autotutela (il complice incaricato di raccogliere le valigie gli garantiva un più sicuro occultamento dei resti).

Gli inquirenti dispongono di informazioni a me ovviamente precluse, e sono i soli incaricati per ufficio di fare chiarezza sui terribili fatti di Macerata. Com’è doveroso, ho il massimo rispetto per loro e il difficile compito che sono chiamati ad assolvere. L’atroce omicidio di Pamela Mastropietro ha però scosso e turbato gli animi  di tutti gli italiani, e sarebbe opportuno che per quanto possibile, pur tutelando la necessaria riservatezza, gli inquirenti illustrassero anche all’opinione pubblica le motivazioni che li hanno condotti a  prosciogliere Lucky Awelima e Desmond Lucky, e a incriminare il solo Innocent Oseghale.

 

[1] https://www.blitzquotidiano.it/cronaca-italia/pamela-mastropietro-medici-legali-autopsia-peggiore-vita-2827321/

[2] https://www.newnotizie.it/2018/02/08/la-peggior-autopsia-mai-vista-parlano-medici-visto-corpo-pamela-pezzi/

[3] http://m.dagospia.com/il-medico-legale-pamela-e-stata-mutilata-con-orrore-molti-organi-non-si-trovano-piu-166498

[4] http://www.ansa.it/marche/notizie/2018/02/15/pamela-pm-escluse-antropofagia-o-mafie_60d6a1fd-58aa-4d52-8c9b-7b59ef61e0a6.html

[5] V. J. Omosade Awolalu, Yoruba Sacrificial Practice, “Journal of Religion in Africa” Vol. 5, Fasc. 2 (1973), pp. 81-93 http://www.jstor.org/stable/1594756 ; Karin Barber, How man makes God in West Africa: Yoruba attitudes towards the Orisa, International African Institute 1981 https://www.cambridge.org/core/journals/africa/article/how-man-makes-god-in-west-africa-yoruba-attitudes-towards-the-orisa/AB2C604A49D9A4D1712082F22E2C52BA ; ma soprattutto Patrick Egdobor Igbinova, Ritual Murders in Nigeria, 1 april 1988, in “Internation Journal of Offender Therapy and Comparative Criminology” http://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1177/0306624X8803200105 e Jenkeri Zakari Okwori, A dramatized society: representing rituals of human sacrifice as efficacious action in Nigerian home-video movies, in “Journal of African Cultural Studies” Volume 16, 2003 – Issue 1 http://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/1369681032000169230 . Ne parlo nel mio precedente articolo http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/

[6] https://it.blastingnews.com/cronaca/2018/02/tutti-i-particolari-sul-depezzamento-di-pamela-mastropietro-002358745.html

[7] https://www.giornalettismo.com/archives/2660597/pamela-mastropietro-intercettazione-carcere

“Desmond: «L’ha tagliata… l’ha tagliata, l’ha tagliata», «Gli ha tolto l’intestino… è molto coraggioso (inteso Innocent Oseghale)».

Awelima: «Quell’intestino forse l’ha buttato nel bagno».

D.: «L’intestino è lungo. Come puoi buttarlo dentro al bagno?!».

A.: «L’intestino poteva tagliarlo a pezzi».

D.: «Tagliarlo in pezzettini?».

A.: «Sì. Pezzi, pezzi. Così buttava a pezzetti. Così sarebbe stato più facile… Forse lui (inteso Innocent) ha già ucciso una persona così».

D.: «Gli ha tolto tutto il cuore».

A.: «Poteva mangiarlo. Perché non l’ha mangiato?».

D.: «Poteva metterlo in frigo».

A.: «Lo metteva in frigo e cominciava a mangiare i pezzi».

D.: «Così sarebbe stato meglio per lui mangiare il corpo».

[8] v. Jenkeri Zakari Okwori, A dramatized society: representing rituals of human sacrifice as efficacious action in Nigerian home-video movies, in “Journal of African Cultural Studies” Volume 16, 2003 – Issue 1 http://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/1369681032000169230 , ma anche questo recentissimo articolo di giornale nigeriano, un caso di cronaca che si riferisce a una pratica colà molto diffusa: https://guardian.ng/news/i-killed-my-friend-took-his-heart-for-money-making-ritual-man-confesses/

Fatti di Macerata, chiuse le indagini. Chiuse davvero?, di Roberto Buffagni

Fatti di Macerata, chiuse le indagini. Chiuse davvero?

 

Ieri la Procura di Macerata ha chiuso le indagini sull’omicidio di Pamela Mastropietro. Unico indagato, Innocent Oseghale, che dovrà rispondere di omicidio volontario, vilipendio, distruzione e occultamento di cadavere, con l’aggravante di aver ucciso Pamela durante uno stupro dopo averla drogata. Sulla violenza sessuale, c’è discordia con il GIP e il tribunale del Riesame, che ritengono non sufficientemente provata la custodia cautelare per violenza sessuale. L’uomo potrebbe aver ucciso, infatti, perché colto dal panico quando vide Pamela collassare dopo l’iniezione di eroina. Per la Procura, invece, il movente scatenante fu la violenza. Oseghale avrebbe comunque violentato, ucciso e smembrato il cadavere da solo: scagionati da tutte le accuse connesse all’omicidio Lucky Awelima e Desmond Lucky, che restano in carcere per la sola accusa di spaccio. [1]

Giudicando con le informazioni di cui dispongo (i media e basta) le conclusioni delle indagini sembrano gravemente incoerenti con gli elementi disponibili. Ho illustrato un paio di settimane fa perché queste tesi accusatorie non mi persuadono: http://italiaeilmondo.com/2018/05/05/macerata-come-procedono-le-indagini_di-roberto-buffagni/ . Non vedo perché dovrei cambiare idea, a meno che scagionare Lucky Awelima e Desmond Lucky non serva ad avviare una indagine sulla mafia nigeriana, sorvegliandoli con discrezione: se è così, naturalmente mi scuso sin d’ora con gli inquirenti.

Ma se non è così, e temo proprio che non sia così, questo mi pare un esito determinato da un classico condizionamento ambientale. Nessuno dei moventi dell’omicidio, per come risulterebbero ipotizzati dall’accusa, avrebbe il minimo rapporto con la razza e la diversa cultura del colpevole, nessuna delle modalità dell’omicidio alluderebbe a complicità, precedenti o posteriori all’omicidio, della mafia nigeriana. Il modus operandi del colpevole designato, Innocent Oseghale, sempre alla luce del tenore della contestazione formulata dagli indaganti, ci presenterebbe semplicisticamente il ritratto di un balordo dai nervi fragili, un criminale dilettante che si fa prendere dal panico. La vittima ci viene presentata come un prodotto della società, della droga, del crollo dei valori e del disorientamento della gioventù in questo mondo così difficile e sordo alle esigenze, eccetera. L’unica divergenza tra le ipotesi sulla dinamica dell’omicidio riguarda proprio la vittima, e non il suo assassino: per il Procuratore Pamela è stata violentata da Oseghale, per il GIP no. Questo aspetto della vicenda – se il rapporto sessuale tra Pamela e il suo omicida sia stato consenziente o meno – è certo rilevante sul piano giudiziario e importante per i parenti di Pamela, ma non ci aiuta a capire come sono andate davvero le cose: chi l’ha uccisa e perché, chi e perché l’ha smembrata per poi depositarne il corpo fatto a pezzi sul ciglio di un viottolo di campagna.

L’impressione che ne ricavo è che gli inquirenti abbiano seguito un codice informale teso a chiudere il caso il più presto possibile e nel modo più indolore. Ovvio il dubbio e il sospetto che ne consegue: c’è sotto qualcosa di molto grosso e pericoloso, che può coinvolgere persone, enti e istituzioni che vanno comunque tutelati.

Mi sbaglio? Spero di sì, temo di no. E se il Ministero degli Interni inviasse un’ispezione della Criminalpol per dissipare i timori e i sospetti che certo non sono l’unico a nutrire? Timori e sospetti ben insinuati tra i profani, ma anche tra gli addetti ai lavori.

[1]http://www.oggi.it/attualita/notizie/2018/06/14/pamela-mastropietro-chiuse-le-indagini-per-la-procura-e-innocent-oseghale-lunico-assassino-e-stupratore/

LA FINANZA, UNO STRUMENTO DI LOTTA TRA LE NAZIONI EUROPEE SOTTOPOSTE ALLE STRATEGIE USA, 3a parte (a cura di) Luigi Longo

LA FINANZA, UNO STRUMENTO DI LOTTA TRA LE NAZIONI EUROPEE SOTTOPOSTE ALLE STRATEGIE USA

(a cura di) Luigi Longo

 

 

Propongo la lettura di quattro scritti di cui il primo sull’euro, sullo spread e sul rapporto tra l’Italia e la Germania; il secondo sul non rispetto delle regole europee da parte della Bundesbank nell’emissione dei titoli del debito pubblico; il terzo sul debito pubblico; il quarto sulla necessità di un principe che con dura energia sappia rialzare la Nazione da uno stato di degrado economico, politico e sociale.

I due scritti di Domenico de Simone, un economista “radical”, sono apparsi sul sito www.domenicods.wordpress.com, rispettivamente in data 27/5/2018 e 18/2/2014, con i seguenti titoli: 1) italiani scrocconi e fannulloni? tedeschi truffatori e falsari!; 2) Con la scusa del debito.

Lo scritto di Domenico De Leo, economista, è apparso sul sito www.economiaepolitica.it in data 7/12/2011, con il seguente titolo: L’eccezione tedesca nel collocamento dei titoli di stato.

Per ultimo propongo lo stralcio dello scritto di G.W.F. Hegel dal titolo: Il “Principe” di Macchiavelli e l’Italia che è stato pubblicato in Niccolò Macchiavelli, Il Principe, a cura di Ugo Dotti, Feltrinelli, Milano, 2011, pp. 246-248.

L’idea di questa proposta è scaturita seguendo con grande fatica la crisi politica e istituzionale che si è innescata a partire dalle elezioni politiche del 4 marzo scorso: è irritante fare analisi politiche di grandi questioni (sic) a partire dalle elezioni politiche che sono teatrini indecenti con maschere penose e tristi, così come tristi sono le relazioni di potere!

Si parla in questi giorni di questioni come la difesa dell’euro, il debito pubblico, il pareggio di bilancio, lo spread, l’Unione Europea, la Costituzione violata, eccetera, velando i veri problemi che sono quelli dati dalla mancanza di sovranità nazionale (indipendenza, autonomia e autodeterminazione) e da una Europa che non esiste come soggetto politico (non è mai esistita storicamente): questa Unione europea, economica e finanziaria è figlia delle strategie egemoniche mondiali statunitensi.

L’Europa è una espressione geografica storicamente data a servizio degli Stati Uniti dove i sub-dominanti vogliono tutelare i propri interessi nazionali, svolgere le proprie funzioni per accrescere il loro potere sotto l’ala protettiva e allo stesso tempo minacciosa degli Stati Uniti (egemonia nelle istituzioni internazionali e nella Nato) a scapito degli interessi della maggioranza delle popolazioni nazionali ed europee (gli scritti di Domenico de Simone e di Domenico De Leo chiariscono molto bene il ruolo di potere degli agenti strategici che usano gli strumenti della finanza nel conflitto per la difesa del posto di vassallo europeo da parte tedesca).

La crisi dell’Italia (crisi di una idea di sviluppo e di una comunità nazionale inserite in una crisi d’epoca mondiale) va vista nel ruolo che l’Italia svolge nelle strategie statunitensi: sul territorio italiano ci sono fondamentali infrastrutture (immobili e mobili) militari a servizio degli Usa, nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e in Oriente. Gli Usa-Nato stanno cambiando le città e i territori, stanno distruggendo le industrie di base, stanno rimodellando le economie dei territori; il Pentagono decide gli investimenti e le infrastrutture necessari; in definitiva hanno compromesso le basi per lo sviluppo di una discreta potenza del Paese: ci restano solo il cosiddetto made in Italy e il piccolo, medio è bello (sic). Il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, facendo gli auguri al popolo italiano per la festa della Repubblica, ha detto che “La nostra continua cooperazione economica, politica e sulla sicurezza è vitale (corsivo mio) per affrontare le sfide comuni, tra cui il rafforzamento della sicurezza transatlantica e la lotta al terrorismo in tutto il mondo”.

Lo sbandamento dei sub-decisori italiani non è dovuto alla ricerca di un percorso di sovranità nazionale, da cercare con altre nazioni europee, per ripensare un’Europa come soggetto politico autonomo ( le cui forme istituzionali sono da inventare); ma esso è dovuto al conflitto interno agli USA dove si scontrano le visioni diverse dell’utilizzo dello spazio Europa in funzione delle proprie strategie egemoniche mondiali: 1) una Europa sotto il coordinamento del vassallo tedesco e del valvassore francese con la costruzione di uno Stato europeo?; 2) una Europa delle Nazioni singole?; 3) una Europa ridisegnata con la creazione di regioni?; 4) una Europa riorganizzata in aree << secondo le linee che marcano lo sviluppo storico>>?

La nuova sintesi dei dominanti statunitensi basata su un’idea di sviluppo con una diversa organizzazione sociale ( se mai ci sarà, considerato l’atroce conflitto in atto che indica l’inizio del declino dell’impero) dirà quale Europa sarà funzionale al rilancio egemonico mondiale.

E’ bastato che alcune forze politiche sistemiche proponessero ( non a livello di azione, che presuppone ben altre analisi e ben altri processi) aggiustamenti tecnici, maggiore equità, una ri-sistemazione sistemica delle gerarchie consolidate, una maggiore difesa dei propri interessi nazionali in funzione di una migliore Europa atlantica, che la reazione del potere sub-dominante europeo (soprattutto tedesco) fosse violenta, scomposta e rozza.

Il ruolo di garante di questa Europa legata ai dominanti statunitensi, che si configurano nel blocco democratico – neocon – repubblicano ( di questo blocco sono da capire meglio gli intrecci dei decisori della sfera politica), che vogliono una Europa coordinata dal vassallo tedesco, è rappresentato, in Italia, dal Presidente della Repubblica (oggi Sergio Mattarella, ieri Giorgio Napolitano). Il gioco istituzionale di Sergio Mattarella è da inquadrare in questa logica, altrimenti non si capiscono bene le contraddizioni, i paradossi, le sbandate e le ipocrisie di tutta la sfera politica. Attardarsi sul rispetto della Costituzione da parte del Presidente della Repubblica è un non sense perché la Costituzione è una espressione dei decisori e non del popolo. Le regole, le norme, i principi che regolano i rapporti sociali di una Comunità nazionale sono in mano a pochi e non a molti. Come insegna la cultura antica, soprattutto greca, quando le regole del legame sociale non sono decise dalla maggioranza non c’è nè democrazia nè libertà.

Occorre riflettere sulla tragica situazione in cui si trova l’Italia in particolare, e più in generale l’Europa, per trovare una strada che non sia solo elettorale, che non sia solo tecnica-finanziaria, che non veda la finanza come un dominio ma come uno strumento di potere in mano agli agenti strategici sub-dominanti europei e pre-dominati statunitensi. << Oggi si parla tanto della finanziarizzazione del capitale e del suo strapotere. Magari vedendo in questo processo l’avvicinarsi di una crisi catastrofica. Ma la finanza è solo un fattore fra altri, non isolabile, dello scontro per la supremazia fra i gruppi dominanti. Il capitale finanziario insomma rappresenta i conflitti in atto tra diverse forze e strategie politiche, combattuti con l’arma del denaro. Se vogliamo allora comprendere gli squilibri e le crisi che caratterizzano il capitalismo contemporaneo dovremmo addentrarci in un complesso intreccio tra funzioni finanziarie e politiche e nelle contraddizioni tra la razionalità strategica che prefigura assetti di potere e la razionalità strumentale che mira ai vantaggi immediati dell’economia. Al fondo vi è sempre lo scontro tra gruppi dominanti.>> (Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008).

Per questo il rito delle elezioni è diventato sempre più inutile (l’esempio greco, e non solo, è significativo!) e mano a mano che si entrerà sempre di più nella fase multicentrica si renderà sempre più palese l’ideologia della partecipazione popolare alle decisioni del Paese tramite il voto elettorale, alla faccia della Costituzione!

La fase multicentrica impone una ri-considerazione sul ruolo della sovranità nazionale per ri-costruire una Europa delle nazioni sovrane che chiarisca il suo rapporto con gli USA e guardi ad Oriente.

 

Per comodità di lettura gli scritti proposti sono stati divisi e pubblicati in quattro parti, ciascuna preceduta dalla mia introduzione.

 

 

TERZA PARTE

 

 

CON LA SCUSA DEL DEBITo

di Domenico de Simone

 

 

Un paio di anni fa, un serissimo Istituto di studi economici tedesco, la Fondazione Stiftung Marktwirtschaftche significa Economia di Mercato, condotto dall’economista Bernd Raffelhüschen, molto stimato in Germania e all’estero, ha pubblicato un report a dir poco sconcertante, nel quale si dimostra che l’Italia è sì inguaiata dai debiti, ma in realtà in proiezione futura sta molto meglio di tutti gli altri paesi europei Germana compresa. La sua ricerca è stata ripresa qualche tempo fa dal Neue Zürcher Zeitung (Nzz), il più prestigioso giornale della Svizzera tedesca che nella sua edizione tematica, l’ha ampliata aggiungendo anche la Svizzera all’elenco dei paesi esaminati nella ricerca di Raffelhüschen.

Non molto stranamente, mentre in Germania e in Svizzera la ricerca ha aperto un grande dibattito ed ha avuto l’eco mediatica che meritava, in Italia ne hanno parlato in pochissimi, e nessuno dei grandi giornali che si occupano di economia, o fanno finta di occuparsene. Questo è il link ad un articolo apparso su uno dei pochi periodici on line che hanno commentato la ricerca e questo un altro.

Non è strano affatto se si pensa ai contenuti del report. Nella ricerca si distingue, infatti, tra debito “esplicito” ovvero il debito esistente e conclamato dai titoli di stato in circolazione, e quello “implicito” ovvero il debito che non appare direttamente dai conti, ma che apparirà nel tempo a causa delle politiche economiche e degli oneri effettivi assunti dagli Stati relativamente alla loro spesa pubblica. Se si sommano le due componenti, ci si accorge che l’Italia è il paese in Europa che sta meglio di tutti, poiché ha almeno in chiaro gli oneri che si sommeranno nel prossimo futuro al debito attuale. La somma delle due componenti, infatti, porta il debito complessivo dello Stato al 146% del PIL attuale, mentre per la Germania la somma risulta essere il 192,6% del PIL, poco meno della virtuosa Finlandia che raggiunge il 195,2%. Stanno molto peggio sia la Francia con il 337,5% che l’opulenta Olanda, con il 494,6% , per non parlare della Spagna, con il 548,5% e la Grecia che raggiunge il 1.016,9% del PIL attuale. Gli altri paese europei li vedete nella scheda di questo articolo. Per la cronaca, la Svizzera è buona terza nella classifica in questione, e per la loro ricerca i conti dell’Italia stanno addirittura sotto lo zero, nel senso che a lungo termine il debito italiano sarà assorbito poiché gli impegni presi sono minori delle entrate previste.

Insomma, dire che stiamo bene è tutto relativo, poiché è chiaro che anche noi stiamo messi malissimo, ma gli altri paesi d’Europa stanno messi peggio di noi, molto peggio. Allora, per quale ragione i “mercati” attaccano tanto i bond italiani, anche quelli a medio e lungo termine, mentre considerano così appetibili i titoli di stato tedeschi, francesi e olandesi? Perché i nostri BOT e CCT sono considerati alla stregua dei titoli spazzatura, mentre i bond tedeschi vanno a ruba? Con la conseguenza che noi dobbiamo onerarci di interessi molto alti per piazzare i nostri titoli di Stato mentre la Germani non paga nulla o quasi? Senza considerare che americani, inglesi e giapponesi stanno messi molto peggio di noi e della Germania, eppure i loro titoli, con tutto il QE elargito a piene mani negli ultimi anni, pagano interessi bassissimi.

Orbene la risposta è semplice. Vi farò una domanda: c’è ancora qualcuno che dubita del fatto che le scelte di acquisto degli operatori finanziari si basano su considerazioni politiche piuttosto che finanziarie? Le aste dei titoli di stato sono gestite da un numero molto ristretto di banche: nel mercato primario sono in tutto venti, e in quello secondario sono 120, di cui solo alcune sono autorizzate a fare il prezzo (market makers). C’è ancora qualcuno che ha la faccia tosta di chiamare questo schifo di potere e questa banda di rapinatori “mercato”? E quale prova più evidente di questa del servilismo e della subordinazione dei nostri politici, per non parlare dei principali media del nostro sventurato paese, ai poteri forti della finanza mondiale, e della Germania in Europa? Ancora dubbi su questo?

 

 

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