ADVERSUS L’ARTE DEL MICHELACCIO, di Massimo Morigi

ADVERSUS    L’ARTE DEL MICHELACCIO: MANGIARE, BERE E ANDARE A… SPASSO  OVVERO  STORIA  DELLA  COLONNA INFAME    OVVERO CONTRO IL CORONAVIRUS NON C’ E’ PIANO B  OVVERO NECESSITA  PIANO B   PER  CURARE IL VUOTO DI RAPPRESENTANZA IN ITALIA

 Di Massimo Morigi

 Mentre sto scrivendo, sera del 19 marzo, dopo l’ennesima mostruosa esplosione di contagi, nessuno può dire come andrà finire per l’Italia la tragedia del Coronavirus ma una cosa può essere già affermata con cristallina certezza. In Italia una democrazia rappresentativa totalmente malata sta riproducendo i meccanismi di creazione di capi espiatori che non hanno nulla da invidiare a quelli a suo tempo messi in atto dal nazifascismo e dal regime comunista staliniano.  Le misure più o meno draconiane messo in atto (con grande ritardo e quindi anche con conseguente ineludibile ma anche inutile  rigore poi) dal governo non stanno funzionando ma di chi è la colpa dell’insuccesso? Non certo di un governo totalmente non pervenuto all’inizio della crisi e mal pervenuto in questa fase ma, udite, udite, dei runner (nella inelegante e brutta lingua italiana dicesi podisti ma si sa, oltre a raccontare invereconde balle sesquipedali, la nostra classe dirigente, politici e mezzi di informazione indistintamente, hanno deciso che l’italiano è una lingua da bandire) i quali non rispettando le illuminate misure del governo in fatto di quarantena ed isolamento sociale hanno fatto sì che il contagio continuasse a diffondersi più o meno indisturbato. Insomma la nostra rovina non è più  l’ebreo ma il povero Michelaccio, che da simpatica macchietta dell’antico italico immaginario che mangia, beve e va a… spasso si è tramutato nel manzoniano untore della colonna infame. Quello che insomma sta succedendo è che una democrazia rappresentativa priva ormai del tutto di efficaci e reali meccanismi di rappresentanza ha come conseguenza inevitabile un vuoto di rappresentazione non solo politico ma anche  della realtà fisica, biologica e culturale tout court. E a dare una ulteriore pennellata  di macabra e, al tempo stesso, cenciosa coloritura a questa grandguignolesca atmosfera è l’esaltazione da parte dei mezzi di informazione dei flash mob sul balcone, dove con italica noncuranza, proprio mentre migliaia di persone muoiono in maniera schifosa, si urlano sguaiatamente allegre canzonette tipo Volare o il Cielo è sempre più blu (intanto a Bergamo lavorano i formi crematori per quelli che non ce l’hanno fatta. Piccola digressione: evidente segno della scristianizzazione della nostra società che, comunque si giudichi  la secolarizzazione in opera nelle moderne società occidentali, si traduce inevitabilmente in una evidente perdita di strategicità culturale da parte del popolo, essendo di tutta evidenza che gran parte dei cremati in tutta furia avrebbe preferito altro tipo di rito funebre e che una momentanea fossa comune con tanto  di nome e cognome di riconoscimento sulle bare avrebbe permesso poi, in un futuro più o meno lontano, un servizio funebre conforme alla sensibilità cristiana della maggior parte dei defunti e dei loro parenti). Concludo con l’intervista che il virologo Giorgio Palù ha rilasciato alla CNN nella quale l’esimio professore comincia a dubitare  che le misure del governo, proprio perché prese in ritardo, siano in grado di fermare l’epidemia  e nella quale sembra trapelare il desiderio di una sorta di piano B per uscire dalla situazione, piano B che, sembra di capire, per Palù non consisterebbe altro che nell’irrigidire ulteriormente le misure già prese ma se anche questo irrigidimento non dovesse servire …. . Qui di seguito l’URL attraverso il quale si possono leggere le dichiarazioni di Palù rese alla CNN, https://edition.cnn.com/2020/03/18/europe/italy-coronavirus-lockdown-intl/index.html  e il suo congelamento tramite la Wayback Machine, http://web.archive.org/web/20200319211048/https://edition.cnn.com/2020/03/18/europe/italy-coronavirus-lockdown-intl/index.html, insieme ad un video, all’URL https://video.ilsecoloxix.it/italia/coronavirus-quando-finira-la-quarantena-le-opinioni-di-un-matematico-e-di-un-virologo-a-confronto/58987/58967,  dove il prof. Palù intervistato avanza l’ipotesi che la velocissima progressione della pandemia in Lombardia ed anche l’altissimo tasso di mortalità che per l’infezione si registra in quella regione sia dovuta, udite, udite, alle altissime  percentuali di ospedalizzazioni effettuate per trattare i colpiti dall’infezione.  Noi non abbiamo certezze tranne una: ancor prima di un piano B per uscire dalla pandemia necessita un piano B per curare in Italia una democrazia rappresentativa in cui è saltato qualsiasi decente meccanismo di rappresentanza. Il vero dibattito   –  ed azione – che si dovrebbe mettere in atto è come dare realistica ed efficace rappresentazione politica e culturale di massa a questa consapevolezza (sulla qual cosa, Gramsci e il suo moderno principe avrebbero qualcosa da dire).

 

 

 

L’energia del virus Tra catastrofisti e futurologi, di Giulio de Martino

L’energia del virus

Tra catastrofisti e futurologi

di Giulio de Martino

 

A un secolo dall’ultima pandemia – provocata nel 1918 dal virus H1N1, conosciuta dagli storici come «influenza spagnola»[1] – il mondo affronta una nuova patogenesi: diffuso a livello planetario è il virus SARS-CoV-2. La trasformazione microbiologica sempre in atto trova condizioni decisive di facilitazione pandemica in ambienti e ecosistemi specifici, ma anche nei processi di mondializzazione. Nel 1918 fu la Grande guerra con gli spostamenti di uomini e mezzi connessi, oggi sono l’intensa geolocalizzazione produttiva e l’interconnessione economica globale.

Osservata in forma cronachistica, la pandemia da coronavirus appare connotata da elementi specifici. Non mi riferisco soltanto al substrato microbiologico da cui ha avuto origine, o al suo terreno di coltura antropico, ma al correlato psicosociale che la sta accompagnando. La velocità e la refrattarietà del virus al controllo da parte degli organismi ha messo a dura prova sia le strutture sanitarie che quelle sociali circostanti, abituate a trend calcolabili e modellizzati.

Sul versante microbiologico emergono due caratteristiche: la rapidità della replicazione e circolazione del virus (non mesi, ma giorni) e la velocità dello sviluppo della malattia (non settimane, ma giorni). Potremmo aggiungere il virus si comporta come una «variabile indipendente» e si «sceglie» sia i contesti di diffusione che quelli di estinzione. Sono caratteristiche che confliggono con la planning e la clinica del mondo industrializzato basate su malattie di tipo degenerativo e cronicizzate, quindi non contagiose né acute e con l’assunto che la medicina costituisca un business che si avvale di una scienza e di una tecnologia sempre in grado, se non di curare, almeno di diagnosticare e prognosticare[2].

In eguale difficoltà si trovano gli economisti familiarizzati con concetti come quelli di crisi e di ciclo che consentono previsioni, calcoli e soprattutto interventi di gestione delle emergenze micro e macro economiche. La situazione effettiva di fronte alla quale si trovano i decisori politici è che si possa entrare in un territorio di distruzione irreparabile delle risorse che vada anche oltre le più avanzate strategie keynesiane di recupero sistemico.

L’aspetto che appare connotare, al di sopra di altri, l’ultima pandemia è il suo essere focalizzata sul rischio piuttosto che sul pericolo. Senza giungere a parlare di una infodemia, diciamo che si tratta di una pandemia anticipata, osservata e monitorata, alla quale si può partecipare come spettatori o come astanti anche senza esserne direttamente coinvolti[3]. I numeri – tolti dalla loro assolutezza e relativizzati rispetto alle dimensioni delle popolazioni coinvolte – mostrano che la società non è omogeneamente esposta al contagio, ma soltanto ad un rischio non precisamente calcolabile. Certamente, in alcuni settori – reparti di pneumologia infettiva – i sistemi socio-sanitari si sono rivelati sottodimensionati rispetto alla domanda di assistenza, ma il numero delle vittime è globalmente marginale. Tuttavia, poiché la società si è consegnata alla rete delle comunicazioni di massa – sviluppatasi enormemente negli ultimi venti anni[4] –  il rischio virtuale si è trasformato in un pericolo poiché ogni spettatore potrebbe diventare – se si verificassero specifiche condizioni – un protagonista dell’evento.

Il carattere probabilistico della scienza e il carattere statistico dei modelli previsionali è proprio dei saperi maturi: gli epistemologi del secondo ‘900 hanno evidenziato l’impianto definitivamente stocastico delle conoscenze[5]. Nel caso del coronavirus pandemico, a causa delle modalità di circolazione delle informazioni e delle opinioni lungo le reti massmediali, l’aleatorietà delle conoscenze si è trasformata in una forma di cogenza delle ipotesi. Per questo l’olismo della risposta politica al rischio di contagio – macrodecreti e macrodirettive – è diventato preponderante rispetto alle decisioni locali e differenziate per settori e ambiti. Un’unica priorità è subentrata alle molte, variegate e complesse, criticità precedenti: «evitare il contagio e la trasmissione del virus».

Sul versante sociale, si è velocemente passati dall’Homo oeconomicus – che si orientava sulla base di una valutazione ponderata dei rischi e dei benefici e con il «Watch and Wait» – all’Homo stocasticus che trasforma ogni rischio in una minaccia e che dà sfogo a quello che viene definito come «panico sociale» o, più precisamente come «crollo della fiducia reciproca». Non ci basa su di un processo di generalizzazione del dato specifico – che la matematica sconsiglierebbe – ma su di una universalizzazione del fatto singolare che assurge a simbolo della totalità[6].

Baudrillard aveva diagnosticato la «morte del sociale» nella civiltà postmoderna come una forma di entropia e di massificazione indecifrabili che avrebbero reso equiprobabile l’evoluzione del sistema[7]. In realtà, negli sviluppi attuali, il sociale sembra piuttosto patire una «morte simulata»: indotta dai sistemi politici che si difendono dai contraccolpi della pandemia provocando – sotto forma di prevenzione e contenimento del rischio – una «entropia di stato», pianificata e controllata attraverso i dispositivi dell’informazione e dell’ordine pubblico. E’ giusto non dare connotazioni «distopiche» al «coma sociale» prescritto alle popolazioni, come pure va evitato di demonizzare – quasi costituissero una sorta di «laisser faire» epidemico – scelte differenti. Si tratta sempre e comunque – sia nella ipotesi dell’attesa del Climax che in quella della provocazione del Plateau – di strategie deliberate in vista della conservazione delle condizioni di esercizio del potere politico, condizioni che, in regime democratico e liberale, includono anche il mantenimento del consenso – anche soltanto passivo – dei cittadini[8].

Al di là degli interventi specifici sul sistema sanitario, le misure di tipo precauzionale, pur comprimendo i diritti  di libertà dei cittadini (a cominciare da quelli di opinione, di riunione e di libera impresa), utilizzano formulazioni legislative compatibili con lo stato di diritto. Si vedano il reato di dichiarazione mendace, la raccomandazione dell’autoisolamento, la quarantena fiduciaria, l’autosospensione dal lavoro: sono prescrizioni che evocano altrettante assunzioni di responsabilità da parte dei cittadini. Certamente, in un contesto di rischio virtuale, la «responsabilità» del cittadino diventa anche un dispositivo di autotutela da parte del potere politico. Se la involontarietà e la colposità diventano identiche alla dolosità, il reato non deriva dalla contestazione di una «responsabilità penale personale», ma dal non aver ottemperato alle misure precauzionali imposte, dall’aver divulgato «notizie false e tendenziose», dall’aver provocato ad altri un danno biologico che poteva essere evitato. Ciò che viene imputato, in buona sostanza, è di aver impedito che l’«allarme virtuale» lanciato dalle istituzioni si diffondesse adeguatamente nel corpo sociale. Tutto ciò conferma il carattere democratico e perversamente liberale delle misure di contenimento del rischio di contagio.

Gli stati democratici più che disciplinare le forme della libertà – come sosteneva Foucault – hanno comandato l’autosegregazione come «servitù volontaria»[9]. Nei fatti la società si è rispecchiata profondamente nelle scelte dei decisori pubblici. Lo ha fatto anche quando ha mostrato di non voler aderire ai divieti e alle proibizioni. Ciò ha evidenziato, piuttosto, una sorta di compiaciuto «masochismo» che ha attivato inconsciamente anche il gioco della trasgressione. È la logica di ogni proibizionismo che è, insieme, ragionevole cautela e adescante divieto[10].

Davanti alla «morte terapeutica» del sociale indotta dalle politiche antiepidemia, il mondo dei mass-media si è diviso. Quelli maggiori – ad esempio le trasmissioni televisive – hanno scelto di tenere un profilo basso e di condividere gli obiettivi del sistema politico. Quando si parla del SARS-CoV-19, accolgono volentieri il viso severo, ma sereno, di virologi e medici che propongono una teleologia della lotta al male. Invece, sui quotidiani e sulla rete, dove c’è un più contenuto e diluito impatto di massa, vi è spazio per gli influencer catastrofisti e per i ribelli che fanno sentire il gusto del proibito.

I catastrofisti parlano di trame internazionali, di ecatombe biologica, qualcuno di nemesi ecosistemica. Da quando si sono eclissati gli oppositori politici – oscurati dal virus e dai suoi rimbalzi che hanno disinnescato il populismo – c’è più ascolto per le profezie di catastrofe perché rendono disponibile un fattore di salvazione e un «capro espiatorio» su cui riversare il proprio disprezzo.

All’interno dei catastrofisti si colloca il gruppo degli altermondisti: quelli di «un altro mondo è possibile», anzi imminente. Ad essi si aggiungono gli ecoambientalisti che intonano, con nuovo vigore, il salmo della «decrescita felice»[11]. Tra gli apocalittici vi è anche il gruppo dei biopolitici. Questi ultimi, memori delle arditezze del marxismo, argomentano che il «regime al potere» utilizza lo «stato di eccezione»  per rivelare il vero volto dei sistemi democratici e liberali: quello di essere dei regimi totalitari. L’errore grossolano di costoro è di mescolare la biologia (e quindi l’ecologia) con la politica e di pensare che l’utilizzo delle problematiche biomediche nelle attuali strategie pubbliche avvenga in maniera strumentale e truffaldina, come appunto accadde al tempo di Hitler e Mussolini[12]. Sfugge loro che nei regimi democratici e liberali non vi è alcun nesso diretto fra le questioni biomediche e le decisioni politiche: sempre l’ultima parola viene data agli «esperti». Da parte loro, le disposizioni di legge osservano la schietta coerenza ordinamentale: il divieto di un diritto come tutela di un altro diritto. il sistema politico – come quello economico e finanziario – si stanno certamente riposizionando, ma lo fanno al solo scopo di tutelare e potenziare i propri mezzi di esercizio modulandoli sulla base delle reazioni della società agli avvenimenti naturali. Tra le reazioni sociali – oltre alle più evidenti forme di obbedienza e di ribellione – vanno incluse anche la volontà di approfittare dell’emergenza per assicurarsi vantaggi attraverso contrattazioni di tipo non competitivo, ma piuttosto assistenziale e beneficiale.

E’ sensato spostare l’attenzione dai rischi sanitari ai pericoli per le attività economiche e relazionali, sia per quelle novecentesche (industria, trasporti, commercio), sia per quelle di sentiment postindustriale (turismo, fitness, cultura e gruppalità). In quest’ultimo ambito i cambiamenti portati dall’epidemia e dalle politiche pubbliche di neutralizzazione del sistema sociale sono massicci e di segno fortemente negativo. Molti si illudono che, passata la bufera, ognuno tornerà alle abitudini e alle attività precedenti. Più plausibilmente, la società imparerà a modificare i suoi stili di vita e di sviluppo. In buona sostanza: attraverso le procedure di sospensione giusta legge dei diritti, quarantena fiduciaria, distanziamento interpersonale, isolamento ecc. si è indotta una trasformazione del legame sociale. E’ proprio in campo psicosociale che vi sarà il cambiamento più evidente, quello che lascerà il segno. Non sarà, però, un cambiamento di tipo totalitario, bensì di tipo individuale e, insieme, reticolare. Vi si riferiscono già – oltre alle grandi aziende del WEB e alle centrali della finanza – i numerosi sviluppatori, psicologi e influencer che forniscono indicazioni e consigli, ovviamente via internet o schermo, alle persone disorientate dalla crisi e dall’emergenza.

Si può ipotizzare che quelle che oggi sono considerate come modalità secondarie e occasionali di lavoro, di formazione, di scambio di merci e relazioni potrebbero diventare modalità primarie. Quella che si definisce «economia digitale» – il sistema di produzione e scambio basato sulle tecnologie informatiche – potrebbe potenziarsi sia nell’hardware che nel software, sia online che offline, influendo sulla circolazione monetaria e su quella dei beni. Il profilo etico che prevarrà sarà quello del player, che nella letteratura è noto come Il giocatore[13]. Il player incarna il principio economico marginalistico: la ricerca del miglioramento in un contesto di scarsità e di maggior costo dei fattori di esistenza. Un soggetto decide di compiere una data azione soltanto se il sacrificio che questa comporta gli appare minore della soddisfazione che essa procura. Per questo persiste nell’azione intrapresa solo fino a quando l’incremento di sacrificio non supera l’incremento di soddisfazione. In buona sostanza, il player frammenta in segmenti uguali e piccoli il sacrificio di fronte alla decrescita degli elementi di soddisfazione, allo scopo di garantirsi una crescita meno rapida dell’insoddisfazione. Nelle relazioni di dipendenza ha convenienza ad accrescere la richiesta solo fino al punto in cui l’incremento di soddisfazione, che ricava da una nuova dose del bene, eguaglia l’incremento del sacrificio che ha dovuto compiere per ottenerlo. Cercando di massimizzare il vantaggio e di minimizzare il costo, il player cercherà allora di vendere meglio i propri prodotti e di dipendere in misura minore da quelli che deve acquistare.

Con i dispositivi blockchain, cloud e mobile si potrebbe passare dal mondo dell’«Internet of Things» (IoT) e dei social network al riassestamento dell’intero sistema di mercato e di produzione. Questo implicherà che le persone dovranno trascorrere più tempo di fronte al pc o consultando il proprio smartphone, oppure che saranno abolite le relazioni frontali («Face to Face») per sostituirle con quelle mediate dalle reti[14]? Probabilmente no. Ciò che cambierà sarà il rapporto fra l’offline e l’online: il primo diventerà più intenso e cercherà nuove modalità di riferimento al secondo. Il cambiamento avverrà, prima di tutto, all’interno della nostra mente: continuerà a essere offline, ma cercherà la connessione con le altre menti e le altre esistenze, sempre più spesso, attraverso i sistemi audiovisuali e scritturali online.

[1] Johnson Niall, Britain and the 1918-19 Influenza Pandemic. A Dark Epilogue, London and New York, Routledge, 2006.

[2]  Van Rensselaer Potter II,  Bioethics: Bridge to the Future, Prentice-Hall, 1971.

[3] Massimo Conte, Reti ed epidemie: quando il gioco si fa serio, “Complexity Education Project”, Università di Perugia, febbraio 7, 2020.

[4] Luciano Floridi, The Fourth Revolution. How the infosphere is reshaping human reality; Oxford University Press, 2014; tr. it. La quarta rivoluzione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017.

[5] Richard Feynman, Il senso delle cose (The Meaning of It All, 1998), Milano, Adelphi, 1999,

[6] Andrew Salmon, Democracies’ Covid-19 cures could be worse than the disease, in: “Asia Times”, march 18, 2020.

[7] Jean Baudrillard, All’ombra delle maggioranze silenziose. Ovvero la fine del sociale, 1978, n. ed. a cura di Dario Altobelli, Mimesis, Milano 2019.

[8] Roberto Buffagni, Epidemia coronavirus. Due strategie a confronto, L’Italia e il Mondo, 14 marzo 2020.

[9] Michel Foucault, Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica, 1975-1984, Medusa Edizioni, 2001.

[10]  Bateson, G., Jackson, DD, Haley, J. & Weakland, J., Toward a Theory of Schizophrenia, “Behavioral Science”, 1956, 1, 251-264.

[11] Luigi Ferrajoli, Il virus mette la globalizzazione con i piedi per terra, su: “il Manifesto” del 17.03.2020.

[12]  Giulio de Martino, Eutanasia del marxismo, Mimesis, 2020.

[13]  Fëdor Dostoevskij, Il giocatore, 1ª ed. originale, 1866.

[14]  Giulio de Martino, La mente virtuale, Iacobelli 2015.

FAQ CORONAVIRUS 1 del dr. Giuseppe Imbalzano

AI LETTORI_ RIFLETTETE E CHIEDETE_GIUSEPPE IMBALZANO VI RISPONDERA’

FAQ CORONAVIRUS 1

del dr. Giuseppe Imbalzano[1]

 Giuseppe Imbalzano, medico, specialista in Igiene e Medicina preventiva. Direttore sanitario di ASL lombarde per 17 anni (Ussl Melegnano, Asl Milano 2, Ao Legnano, Asl Lodi, Ao Lodi, Asl Bergamo, Asl Milano 1). Direttore scientifico progetti UE (Servizi al cliente, Informatizzazione della Medicina Generale). Si è occupato di organizzazione sanitaria, prevenzione, informatica medica, etica, edilizia, umanizzazione ospedaliera e psicanalisi.

Cosa è accaduto?

Un nuovo virus animale ha fatto il salto di specie ed ha infettato l’uomo.

È la prima volta?

No. Da sempre accade questo fenomeno tra specie che convivono insieme.

Una situazione come questa era inattesa?

No, da molti anni si preparano “piani pandemici” per evitare di farsi trovare impreparati. Non sappiamo chi sarà, ma qualcosa potrebbe succedere (e a volte succede).

E naturalmente questi piani di sicurezza e di emergenza servono per agire tempestivamente quando la situazione può essere necessaria.

Non sappiamo quando ci sarà un terremoto, ma se non siamo pronti non potremo intervenire con tempi di risposta brevissimi e utili a risolvere il problema per il bene di tutti, chiunque esso sia.

Se non si è pronti, l’intervento sarà tardivo e persino pericoloso ed inefficace.

Le ricette sono tante e se ne sceglie una per cucinare il problema.

La situazione era ignota?

Assolutamente no

Era stato attivato un sistema di allarme internazionale?

Si.

Errori e contraddizioni iniziali dalle informazioni (molto molto contraddittorie) provenienti dalla Cina?

Tanti e a lungo

E allora è indispensabile agire in modo più strutturato, organico e complessivo perché molti interventi vengono ritardati dalla assenza di informazioni tempestive e adeguate

Aerei dalla Cina che vengono fatti atterrare solo a Malpensa e a Fiumicino

Può essere sfuggito qualcuno dei nuovi arrivi? Certamente non tutto era ben determinato.

Anche prima dell’inizio della nostra riorganizzazione (infezioni che risalgono a dicembre dello scorso anno e forse prima, pipistrelli o meno)

Facile prendere il cittadino cinese chiuso in albergo già malato.

Difficile scegliere tra migliaia.

La scelta– la identificazione, secondo protocolli, per tutti i passeggeri, della ‘passenger locator card’ oltre allo scanning termometrico per i passeggeri atterrati.

La misura è efficace? Relativamente. Chi non ha febbre non è identificabile. Pare riesca a ritardare, per un periodo non lungo, lo sbarco dell’infezione nella nuova realtà territoriale.

Abbiamo più tempo per prepararci.

Sospensione dei voli dalla Cina dal 27 gennaio

La misura è efficace? Ormai l’infezione è presente in altre Nazioni e chi deve arrivare in Italia, anche dalla Cina, cerca soluzioni alternative.

E non sa neanche di essere infetto e poi malato. E gli arrivi da altre Nazioni non sono evidenti.

E se non è cinese meno ancora. E possono giungere da altre Nazioni che non abbiamo considerato. Magari italiano di ritorno.

Colpe delle scelte italiane?

Pare comunque difficile gestire un flusso tanto importante con certezze, malattia e con persone che non sono neanche identificabili.

Dare colpe? Polemiche?

Per spirito di autoflagellazione o altro?

Io l’avevo detto? Con quale spirito ed obiettivo?

Non risolve certo il problema di oggi.

Dopo numerose e lunghe informazioni non sempre chiare, con azioni locali che sospendono la circolazione interna ed esterna di 60 milioni di cittadini cinesi.

Dare colpa significa farlo nella piena gratuità di informazione. Siamo tra le Nazioni che hanno il maggiore interscambio economico con quella Nazione a livello mondiale.

I test e i tamponi, oltre ad essere stati predisposti da pochissimi giorni (gennaio), non sono infiniti e vanno testati, valutati e le raccolte di materiale devono essere idonee. Gli esami e i controlli eseguiti adeguatamente. Possono essere negativi ieri e positivi oggi. Possono essere negativi ma l’infezione può insorgere successivamente.

Solo chi ignora può pretendere o fare cose del tutto inefficaci.

Siamo in piena epidemia influenzale.

 

La sintomatologia delle due infezioni, influenza e coronavirus, è differente?

Non certo all’inizio

Come avviene l’infezione?

Semplificando, per contatto diretto (tosse, per via aerea, o contatto con le nostre mucose del materiale virale)

A che distanza? Breve – diciamo 2 metri. Questo materiale quanto resta vitale sulle superfici? Sembra alcune ore.

Si ammalano tutti?

No.

Quelli che si ammalano hanno tutti una patologia grave?

Assolutamente no.

Questo non è certo elemento che favorisca la individuazione dei casi e la soluzione dei problemi

Allora cosa è necessario fare?

Se non è arrivato nessun infetto, nulla.

Se la persona ha superato le barriere doganali nostro malgrado, sicuramente, in caso di malattia, raggiungerà il servizio sanitario in qualsiasi sede o forma, non appena ne avrà esigenza.

Perché la malattia, che per molti è del tutto insignificante, per alcuni vira in modo pericoloso in polmonite virale, non distinguibile dalle altre ma certamente neanche diagnosticabile e risolvibile senza le necessarie azioni di diagnosi e relativa cura.

E se sta male e va in pronto soccorso cosa accade?

Se il pronto soccorso è unico, se la sala d’attesa è unica, se l’ambiente è piccolo, se le persone non sono preparate, la diffusione è certa. Tutti i presenti ne verranno coinvolti.

Se l’ambiente è separato, ha tutti i sistemi di mitigazione del rischio attivati, se i test sono a disposizione e il personale ha idea che ci possa essere un problema reale e un rischio effettivo, la condizione, come nel 1770, colpisce con le pallottole i primi soldati che non sono ben protetti, ma impedisce la diffusione di un virus che non deve, perché nuovo e per il quale non abbiamo armi efficaci di contrasto, entrare nella circolarità quotidiana del nostro sistema sociale.

Ma una buona formazione, la disponibilità di strumenti di sicurezza idonei ne fanno non più dei fantaccini ma dei Signori Professionisti quali sono e di cui dobbiamo solo vantarci per competenza e professionalità di fronte al Mondo intero e dare loro rispetto.

Se non siamo preparati che accade?

Accade ciò che è accaduto.

E’ accaduto per caso o poteva essere evitato?

Chi ha portato il virus? Ormai non ci interessa se non per storia. E per polemica.

Ma non possiamo dire come sia avvenuto certamente e la polemica non risolve il problema.

Ma è possibile che sia arrivato anche prima di quando potessimo fare qualcosa.

 

[1] Giuseppe Imbalzano, medico, specialista in Igiene e Medicina preventiva. Direttore sanitario di ASL lombarde per 17 anni (Ussl Melegnano, Asl Milano 2, Ao Legnano, Asl Lodi, Ao Lodi, Asl Bergamo, Asl Milano 1). Direttore scientifico progetti UE (Servizi al cliente, Informatizzazione della Medicina Generale). Si è occupato di organizzazione sanitaria, prevenzione, informatica medica, etica, edilizia, umanizzazione ospedaliera e psicanalisi.

 

COMUNITÁ E CRISI DA CORONAVIRUS, di Teodoro Klitsche de la Grange

COMUNITÁ E CRISI DA CORONAVIRUS

L’emergenza sanitaria ha fatto riscoprire a gran parte dei media il senso della comunità. Elzeviristi, attori, cantanti, politici, pensatori (veri e presunti), prelati constatano – e spesso auspicano – che la crisi ha ricostituito il senso e i rapporti di appartenenza collettiva. Secondo la maggior parte sarebbe stato distrutto da trent’anni di neo-liberismo; secondo altri da una globalizzazione che tende – neppure occultandolo – a demolire tutte le appartenenze particolari; altri  vi aggiungono diverse cause. La stragrande maggioranza mostra così sorpresa di questo collegamento tra crisi e crescita del senso (e dei vincoli) comunitari; ma di questo stupore la cosa più stupefacente è proprio che si sorprendano.  Perché il collegamento tra crisi e comunità è uno dei più noti da (almeno) venticinque secoli; tenendo conto che Tönnies nel “definire” la comunità ricorre alla “perfetta unità delle volontà umane come stato originario o naturale” nonostante la separazione empirica. A tale riguardo occorre che i vincoli comunitari prevalgano sulle differenze individuali, le quali non possono estendersi oltre un certo limite “perché al di là di esso viene soppressa l’essenza della comunità in quanto unità del differente”.

E dato che gli uomini sono tutti dotati di intelletto e volontà, oltre che di diverse attitudini, tendenze ed opinioni, di passare quel limite c’è sempre il rischio, come ci sono situazioni che lo facilitano ed altre che, di converso, rinsaldano i vincoli comunitari, tra cui le crisi. La più considerata delle quali da sempre è la guerra, e l’antagonista necessario, ossia il nemico, come già diceva Eschilo nelle Eumenidi: “E scambio ci sia di gioie nella comune concordia; e unanime odio ai nemici: delle molte calamità unica medicina è questa ai mortali”; e anche nel secolo scorso ne abbiamo avuti tanti esempi dall’Union Sacrée ai “gabinetti di guerra” composti da tutti i partiti (o quasi tutti), riflesso istituzionale dell’unità della nazione e della volontà di vittoria.

Meno compulsato è il rapporto tra crisi (non belliche) e vincoli comunitari; quello che l’Italia sta correndo in questi mesi, aggredita da un nemico che non è un gruppo umano, ma, come spesso nelle situazioni d’emergenza, un fatto naturale, come il terremoto (cui purtroppo siamo abituati) o le inondazioni.

In tutti questi casi il potere pubblico governa con misure eccezionali in deroga alla normativa ordinaria, la quale presuppone, come scrive Schmitt, una situazione normale, e pertanto diventa inadatta in una eccezionale. I giuristi lo hanno evidenziato, spiegato e ricondotto a principi: dalla necessità come fonte di diritto di Santi Romano, alla “forza che sacrifica il diritto per salvare la vita” di Jhering, tra gli altri.

Tutte riconducibili alle funzione di salvaguardia dell’esistenza ordinata della comunità da parte dell’istituzione politica (Hauriou).

Una spiegazione più “stretta” del rapporto tra crisi e comunità l’ha dato René Girard con la sua concezione del rapporto tra violenza e sacro. Secondo lo studioso francese, la crisi dissolve l’ordine sociale, ma dato che una comunità non può esistere senza ordine, attraverso il meccanismo vittimario (il capro espiatorio che viene sacrificato e dopo sacralizzato) lo si ricostituisce. L’esempio che (tra i tanti) Girard indica è l’ “Edipo re”, con la pestilenza che affligge Tebe, la scoperta della “colpa” di Edipo, la punizione che il re si auto infligge, prima di andare in esilio.

A prescindere dalla spiegazione del sacro, è chiara in Girard la relazione tra crisi e ordine comunitario, vincoli sociali, concordia (che in effetti significa cum cordia, ossia unione dei cuori id est pace e unità sociale, con relativizzazione dei conflitti intra-comunitari tra cives e relativa violenza). La concezione di Girard poggia tutta sul fond teologico dell’ordinamento, mentre quelle dei giuristi tengono conto prevalentemente sulla couche giuridico-istituzionale (Hauriou). La crisi così si configura come un indebolimento dei rapporti comunitari, ma anche come il passaggio a un ordine “altro” basato su elementi (totalmente e più spesso parzialmente diversi): dalla più semplice sostituzione del vertice (un re succede a un altro, come a Tebe dopo l’auto-esilio di Edipo) a quella del regime politico (da monarchico a aristocratico o democratico); a quella della “tavola dei valori” (come, quasi sempre, nelle rivoluzioni e nei mutamenti costituzionali moderni).

Tutti connotati da un rafforzamento/ricostruzione del senso (e dei vincoli) comunitari. I quali, senza voler annichilire il contrapposto (da Tönnies) idealtipo della società, sono quelli necessari all’esistenza di  una comunità, politica in primo luogo, Onde le crisi sono la transizione tra (diversi) ordini. È solo il quantum (dei vincoli e caratteri) del tipo ideale comunità (rispetto al contrapposto società) a connotarle rispetto alle situazioni normali. Contrariamente a quello che si pensa (o pensava) nei paraggi del politicamente corretto, per il quale la società globale d’individui commercianti e consumatori, è il destino.

Teodoro Klitsche de la Grange

CORONAVIRUS! UN’ANALISI SEMPLICE, MA NON TROPPO SEMPLICISTICA di Francesco Esposito

Riflessioni numeriche sulla diffusione del Coronavirus

Un’analisi rudimentale, sicuramente semplice, ma (si spera) non troppo semplicistica

La situazione globale

I dati sono raccolti da fonti diverse e riorganizzati paese per paese.

Siccome i vari focolai nazionali (e anche quelli più locali) sono comparsi in periodi diversi, se considerassimo la data avremmo grafici molto spostati l’uno rispetto all’altro e ci perderemmo le somiglianze. Considereremo quindi i dati a partire dal giorno in cui siano stati trovati più di 500 casi. Il giorno 1 in Cina corrisponde al 22 gennaio ed erano presenti 554 casi. In Italia invece il giorno 1 è il 27 febbraio ed i casi 588. L’intervallo temporale massimo è, per ora, di 60 giorni. Ovviamente la maggior parte dei paesi non ha dati completi ma si fermano attorno 15esimo giorno, poichè lo scoppio europeo è molto più recente.

 

Il primo passo è visualizzare il grafico con l’andamento dell’epidemia (ormai pandemia) nei vari paesi.

Le curve sembrano avere delle somiglianze marcate. Tali somiglianze sono più evidenti nei primi giorni, in cui ci sono i dati di tutte le nazioni.

Qualche osservazione:

  • La Spagna (in verde) sembra procedere addirittura “peggio” della Cina;
  • La Germania (in rosa) nell’ultimo giorno disponibile (ovvero il 13, corrispondente per loro al 17 marzo) ha più casi di quanti ne avessimo noi, ovvero ne ha 9367. Per noi il 13-esimo giorno era il 10 marzo e avevamo 9114 casi;

 

Chiaramente per capire quanto il Coronavirus sia duro per una nazione non basta considerare il numero di positivi, ma si devono considerare morti e posti in terapia intensiva. Purtroppo però i numeri sono talmente sbilanciati da risultare sospetti. Infatti in Germania risultano 2 ricoverati in terapia intensiva al giorno 13, in Italia ne risultavano 877. Verosimilmente il modo di contare i pazienti in terapia intensiva è significamente diverso. Francia e Spagna hanno ricoverati in terapia intensiva compatibili con quelli italiani. Invece gi USA sono allineati alla Germania, infatti ne hanno ad oggi 12 su oltre 7mila positivi.

Discorso simile per i morti ed il tasso di mortalità. Una differenza significativa si può attribuire a come il virus colpisca la popolazione: infatti colpendo la fascia più anziani ci saranno ovviamente più morti, al contrario colpendo la fascia più giovane i decessi scenderanno. Quali siano le fasce colpite inizialmente è fondamentalmente questione di fortuna. Nel tempo, in condizioni di espansione libera del virus, la differenza si azzererebbe, poichè sarebbero colpite egualmente tutte le fasce d’età. In Germania e Korea del Sud, per inciso, la popolazione colpita è molto giovane, mentre in Italia è molto più anziana. Inoltre anche la distribuzione complessiva della popolazione incide sul numero di morti (e quindi sul tasso di mortalità). Ciò non toglie che numeri così diversi fra l’Italia e la Germania producano il sospetto che ci siano diversi criteri per il conteggio dei decessi per Coronavirus.

 

Un’ulteriore questione da approfondire è quella dei positivi, infatti non tutti i paesi hanno la stessa strategia di controllo dei positivi. Per esempio in Korea del Sud sono stati effettuati tamponi a tappeto per trovare i positivi, così come da noi è stato fatto in alcune zone del Veneto. Al contrario gli Stati Uniti ne hanno fatti molti meno in rapporto alla popolazione, per ragioni legate alla struttura della sanità e probabilmente per l’iniziale sottovalutazione del rischio.

 

Mettendo in scala logaritmica l’asse y per “zoomare”, si vede ancora meglio quanto le curve si somiglino, con l’eccezione della Korea del Sud, che ha un andamento apparentemente diverso, con crescita praticamente (e fortunatamente, per loro) nulla.

La situazione italiana

Scendendo nel dettaglio italiano, la Lombardia al giorno 20 (cioè 17 marzo per noi) rappresentava il 46,41% dei positivi.

C’è una differenza notevole fra i morti in Lombardia (al giorno 20 erano 1640) e quelli nel resto d’Italia (che IN TOTALE erano 863). Dunque in Lombardia c’era il 65,55% dei morti totali.

Questo giustifica un’analisi che separi la Lombardia dal resto d’Italia.

Ad onor del vero la distribuzione della mortalità è molto disomogenea: per esempio l’Emilia Romagna ha il 16% dei morti totali, che rappresenta il 40% del totale dei morti in tutta Italia meno la Lombardia; in Piemonte il 5% del totale (133 in valore assoluto).

In Veneto invece, rispetto al numero di contagiati, ci sono meno morti.

 

Un punto da tenere a mente, come detto e ridetto in TV, è che le misure di contenimento mostrano effetti dopo il periodo di incubazione del virus, quindi gli effetti si vedono dopo un periodo che va dai 5 ai 14 giorni.

Se oggi qualcuno infettasse 10mila persone, non potremmo farci nulla anche se lo sapessimo e ne vedremmo gli effetti sulla curva dopo l’incubazione. Quindi se anche scoprissimo che in Puglia siano arrivati centinaia di infetti a generare nuovi focolai, l’esplosione avverrebbe in ritardo di vari giorni.

Inoltre, difficilmente il famoso picco sarà uno solo. Ne seguiranno probabilmente altri, così come seguiranno in Cina alla ripresa delle normali attività.

Fermo restando che fare previsioni precise è impossibile, le misure di allontanamento sociale (cioè simil-coprifuochi, distanze minime e simili) potrebbero dover essere mantenute a lungo.

Si nota bene che nei primi giorni l’espansione del virus in Lombardia è stata più forte che nel resto d’Italia, ma da qualche giorno la tendenza è invertita. Questo è probabilmente dovuto a due fattori:

  • in primo luogo l’isolamento forzato (e la chiusura delle scuole) è cominciato prima,
  • in secondo luogo ci sono stati massicci spostamenti verso il sud.

L’effetto complessivo degli spostamenti verso il sud potrebbe non essere ancora visibile in toto, visto che il tempo di incubazione può arrivare circa a due settimane e gli spostamenti sono continuati fino a due giorni fa (cioè 16 marzo). Comunque gli spostamenti dell’8 marzo sono probabilmente già incorporati nel grafico (che arriva al 17 e copre il tempo di incubazione medio di 7 giorni).

Gli spostamenti comportano da un lato lo sgravio degli ospedali del Nord, alleggeriti di nuovi potenziali casi, dall’altro l’apertura di nuovi focolai al Sud. Ciò non è comunque positivo, giacchè un conto è spostare i malati dagli ospedali del Nord a quelli del Sud via SSN, un altro conto aprire “volutamente” focolai altrove, senza certezze sulla loro evoluzione.

 

Un altro punto interessante è che la curva lombarda abbia la stessa “forma” di quella italiana (e delle altre nazioni). Ciò significa di fatto che i singoli focolai (anche se in realtà in Lombardia non c’è un singolo focolaio, ma molti insieme) si comportano come la curva globale. Questo a sua volta ci può aiutare nel formulare ipotesi successive: una volta raggiunto il (primo) picco in Lombardia è probabile che seguirà anche altrove. Allo stesso modo, se allentando le misure di controllo in Lombardia si dovesse notare una forte ripresa, sarebbe molto probabile che seguirebbero altri picchi anche nel resto d’Italia. In questo senso la Lombardia potrebbe essere la cartina al tornasole dell’efficacia della lotta al virus, per via dell’anticipo con cui sembra procedere.

 

La domanda (da cui dipenderà la tenuta del SSN) dei prossimi giorni sarà: le altre regioni arriveranno ai numeri della Lombardia?

Dividendo i dati regione per regione si nota che i candidati primari potrebbero essere Emilia Romagna e Veneto. Per le altre regioni l’isolamento dovrebbe aver bloccato la crescita della curva, e lì la domanda critica sarà: cosa succederà quando la vita riprenderà più-o-meno normalmente?

 

Guardando questi grafici si nota, in modo molto rozzo, che almeno per quanto riguarda le prime regioni per numero di contagi la distribuzione rimane fondamentalmente la stessa nonostante la scala dei contagi aumenti.

Sempre con enorme approssimazione potremmo dire che il rapporto Lombardia vs Emilia Romagna sia circa 4 a 1. Dunque si potrebbe forse sperare che lì i numeri non raggiungano quelli della Lombardia.

Quest’ultimo grafico sembra confermare che i contagi in Emilia Romagna e Lombardia crescano nello stesso modo, mantentendo quasi fisso il rapporto di circa 4 a 1 osservato prima.

 

Seguiranno articoli analoghi sulla mortalità e l’ospitalizzazione, la situazione internazionale e qualche previsione.

Referenze e link utili

 

 

Per altre informazioni: youbiquitous.net oppure instagram.com/fesposi

I COSTI DEL NON FARE O DEL NON FARE BENE, del dr Giuseppe Imbalzano

Il dottor Giuseppe Imbalzano ha letto il mio articolo su I due stili strategici di gestione dell’epidemia a confronto[1] e mi ha scritto questa lettera di commento, che pubblichiamo ringraziandolo di cuore.

Quel che dice va ascoltato con molta attenzione, perché il dottor Imbalzano ha le competenze e l’esperienza necessaria per parlare a ragion veduta: si veda qui un piccolo estratto dal suo curriculum professionale.

Giuseppe Imbalzano, medico, specialista in Igiene e Medicina preventiva. Direttore sanitario di ASL lombarde per 17 anni (Ussl Melegnano, Asl Milano 2, Ao Legnano, Asl Lodi, Ao Lodi, Asl Bergamo, Asl Milano 1). Direttore scientifico progetti UE (Servizi al cliente, Informatizzazione della Medicina Generale). Si è occupato di organizzazione sanitaria, prevenzione, informatica medica, etica, edilizia, umanizzazione ospedaliera e psicanalisi._Roberto Buffagni

P.S.: ci diamo del tu perché coetanei, ma sinora non ci conoscevamo.

 

Carissimo Roberto,

Hai uno stile forte, una concatenazione e una liquidità, una armonia nella lettura che affascina per semplicità e decisione, immediato, salta agli occhi e entra nel cuore.

Ma pensavi d’essere stato cattivo, deciso, e invece, sei stato buono, delicato, quasi pietoso.

Il tuo pennello sorprende per la durezza dei valori che esprimi, ma è stato al di sotto della realtà.

Hai scoperto il nervo e le lacune del mondo civile.

Quel che serve, quello che dovrebbe essere, quello che dovrebbero conoscere.

Il costo infinito.

Per fare prevenzione di comunità è necessario avere un sistema già operativo e pronto all’intervento sempre e comunque. Un impegno che pochi hanno, una rete pronta sempre.

La Germania, GB e le altre Nazioni non hanno un sistema di prevenzione sanitario sempre pronto, attivo, e universale.

Che si preoccupi della salute e del benessere dei cittadini, che lavori sempre e verifichi ed allontani i pericoli e i rischi che abbiamo, che si presentano, che si manifestano improvvisamente, laboratori di sanità pubblica, servizi per la sicurezza degli alimenti e per la nutrizione, di igiene ambientale, degli ambienti confinati, alle vaccinazioni, ai controlli per l‘acqua e quanto sia utile per l’intera comunità, oltre alla medicina del lavoro per la sicurezza dei lavoratori.

Costa ed è vero, ma è un sistema silenzioso e prezioso, è il nostro sistema di garanzia.

Non è solo costo, per fortuna non infinito, ma vigilanza costante, rigoroso strumento e barriera per il nostro benessere. E il tempo di gestire e formare il personale, di creare medici ed esperti solo per la sicurezza non è né breve né semplice.

E se c’è una infezione individua i casi e li assiste e li protegge, e protegge tutti noi.

Selezione della specie

Con questa infezione abbiamo scoperto che esiste un nuovo modello di selezione umana, della comunità, basato sul rapporto costo /utilità, “abituatevi a perdere i vostri cari”.

Non che non ci fosse in passato, Sparta docet, ma così lucida, chiara e definita, forse non l’abbiamo mai ascoltata negli ultimi 75 anni.

E in una culla della democrazia, della Magna Charta, della Costituzione, del diritto moderno.

La selezione non della razza, ma dell’utilità.

“Hai reso tutto quello che potevi al tuo Paese, hai bisogno di pensione e medicine, di badanti, carrozzine e di carezze, beh, adesso grazie.”

Un bel risparmio per il Welfare Nazionale.

Con occhi pungenti, lucidi, ben biondo e alla moda di oggi, scapigliato.

Ma senza sforzi particolari, anzi, una bella sforbiciata di inutili soggetti.

Un Flauto Magico e tanti anziani dietro (non bambini, questa volta).

Le infezioni non colpiscono gli anziani per forza, questa in particolare ha un tropismo verso le età non infantili (forse per “l’eccesso” di vaccinazioni dei bambini, come si sta cercando di capire) e come tutte le malattie, tende ad infierire su alcune categorie in particolare (anziani e patologie cronico degenerative nel nostro caso).

La scelta biologica ideale (e poi dicono che non l’hanno creata in laboratorio in Inghilterra…)

Ma tranquilli, colpisce tutti, senza preoccuparsi della carta di identità, dell’anno e del secolo di nascita.

Magari non muoiono, ma hanno bisogno di cure anche loro.

E poi tutta la famiglia del malato, se lo lasciano in casa con gli altri.

Ma il virus lo hanno creato difettoso!

Ahi ahi ahi la genetica!

È letale ad una certa età, ma non sempre è lieve per gli altri.

Per molti, diciamo 80%, passa veloce e non si sente per nulla o quasi, ma per il 20% più o meno dopo una settimana cominciano i guai, ossigeno, terapia intensiva, rianimazione o ECMO. E farmaci. E assistenza in ospedale.

Ma dove li trovo se i malati, mal educati di loro, si presentano, in ambulanza, tutti insieme?

E non solo quelli passati di età e buoni solo a chiedere pensioni, assistenza e medicine.

Ci sono autisti, elettricisti, idraulici, operai, vigili urbani, pompieri, poliziotti, soccorritori, medici ed infermieri tutti insieme e non sempre, adesso, che salvano la vita agli altri.

Selezioniamo anche lì, prima di spendere per chi non sopravvivrà sicuramente. Ma tra questi, chi ha più diritto? E poi hanno anche la pretesa di essere assistiti per due o tre settimane. E poi non è finita ancora.

Ah, ma erano rimasti a casa?

E allora tra 7 giorni dobbiamo ospitare tutta la famiglia.

Ma non abbiamo più posti!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

E allora siamo tranquilli, non dobbiamo decidere più.

E anche i giovani perdono la vita in questa roulette dello Stato dove esce sempre e soltanto lo zero.

E non è più l’1% atteso e tanto benefico per lo Stato

Ma, e di più, non hanno età e nome e cognome

Si ammala il 60%?

No, assolutamente.

Non faranno in tempo.

Neanche la fortuna di ammalarsi con la collaborazione di questo prezioso corredo virale nuovo nuovo nuovo.

I nostri esperti internazionali devono aver studiato su un notissimo libro di virologia, igiene e programmazione sanitaria, di un quasi Premio Nobel- Ammiocuggino ha gli orecchioni

Cos’è successo, che non ce ne siamo accorti?

Che si ammalano quelli che hanno maggiori rischi per sede o per lavoro

Personale sanitario- personale viaggiante- autisti- servizi h24 con scopertura di turni e sospensione di servizi

Ospedali- trasporti- servizi essenziali (elettricità gas acqua carburante supermercati consegne a domicilio banche assicurazioni borsa pensioni stipendi computers semafori e treni, prodotti per la sicurezza farmacie ossigeno, spazzatura e tutto ciò che è socialmente utile, polizia, esercito, pompieri, e tutto quello che vi viene in mente, il sistema di sicurezza, il sistema sociale, telefoni e cellulari, il pc da cui state leggendo und so weiter)

E così sia.

E cadaveri ovunque, nella peggiore rappresentazione di una peste indotta e lasciata correre.

Ed è poco più di una influenza, come molti si sono affaccendati a raccontare dalle Poltrone e dal loro ruolo di Amministratori.

Tutto il sistema sociale viene sospeso e l’intera Nazione è paralizzata

Ma questo molto molto molto prima che il 60% venga colpito dall’infezione

Malta la possiamo soccorrere, e fino ad un certo punto

La GB no

Il ponte sotto la Manica è bloccato e tutto il Paese è isolato

I traghetti non hanno carburante e manca elettricità per i servizi

I fari saranno spenti

E nessuno che raccolga la gomena se vogliamo attraccare

E la rete 5G sarà disponibile alle generazioni future di polacchi che arriveranno sull’isola

Non è fantascienza, è fantasia di chi immagina che tutto vada e segua in modo ordinato la pellicola, il film, la narrazione che si è creata e che ci racconta.

Che forse Alain Deneault abbia ragione che siamo governati da una mediocrazia?

«Non c’è stata nessuna presa della Bastiglia, niente di paragonabile all’incendio del Reichstag, e l’incrociatore Aurora non ha ancora sparato un solo colpo di cannone. Eppure di fatto l’assalto è avvenuto, ed è stato coronato dal successo: i mediocri hanno preso il potere»

Ed è il tradimento del patto democratico, io ti eleggo e tu mi proteggerai e mi farai vivere meglio, tranquillo e a lungo.

Un patto fondamentale della nostra comunità. Della democrazia.

Chi avrà fatto un intervento di prevenzione dello sviluppo infettivo ed eradicato l’infezione (come da indicazioni dell’OMS) invece avrà preservato la propria popolazione a rischio e il proprio sistema sociale di supporto alla gestione della comunità

Un vero progetto criminale, l’altro.

E senza arrivare al 60% perché non ci sarà più popolazione vivente dopo pochi giorni

L’acqua non arriverà più e il cibo non sarà disponibile, la polizia non sarà attiva e tutti gli incidenti non saranno assistiti

Le proiezioni di Johnson o altri sono fatte da chi non sa dove e perché vive bene.

I morti non saranno 100.000

E chi andrà in GB per soccorrere dovrà essere ben protetto perché le salme saranno infinite.

E i topi, vivi, pulluleranno a milioni.

Non ricevendo più cibo nelle fogne usciranno tutti. E loro sono indenni dall’infezione.

Gli altri animali, quelli che necessitano di cure ed assistenza, non ci saranno più.

Chernobyl nel suo sarcofago di cemento sarà una cartolina da primavera rigogliosa.

Le centrali nucleari non saranno più governate e armi, aerei, missili e bombe atomiche saranno preda di chi arriverà per primo.

L’effetto Dunning-Kruger è una distorsione cognitiva a causa della quale individui poco esperti in un campo tendono a sopravvalutare le proprie abilità auto valutandosi, a torto, esperti in quel campo, mentre, per contro, persone davvero competenti tendono a sminuire o sottovalutare la propria reale competenza. Come corollario di questa teoria, spesso gli incompetenti si dimostrano estremamente supponenti (da Wikipedia).

E sono ovunque.

Forse i costi del non fare superano i benefici del fare.

 

 

[1] http://italiaeilmondo.com/2020/03/14/epidemia-coronavirus-due-approcci-strategici-a-confronto-di-roberto-buffagni/

CORONAVIRUS EPIDEMIC: TWO STRATEGIC APPROACHES IN COMPARISON, by Roberto Buffagni

Un lettore di italiaeilmondo.com, il signor Andrea Ferrari della https://www.capstan.be/ , impresa internazionale nel campo delle traduzioni per imprese, privati, enti pubblici, con grande gentilezza e generosità ha messo a disposizione le capacità professionali sue proprie e dei suoi collaboratori, e ha tradotto gratuitamente in inglese e francese l’articolo di Roberto Buffagni I due stili strategici di gestione dell’epidemia a confronto, pubblicato qui: http://italiaeilmondo.com/2020/03/14/epidemia-coronavirus-due-approcci-strategici-a-confronto-di-roberto-buffagni/

L’autore e italiaeilmondo.com ringraziano di cuore Andrea Ferrari (traduzione in inglese)  Pierluigi Emma (traduzione in francese) la https://www.capstan.be/ e i suoi collaboratori.

A reader of italiaeilmondo.com, Mr. Andrea Ferrari of https://www.capstan.be/ , international company in the field of translations for companies, individuals, public authorities, with great kindness and generosity made available his own and his collaborators’ professional skills, translating for free  into English and French the commentary by Roberto Buffagni The two strategic styles of epidemic management in comparison, originally published here: http://italiaeilmondo.com/2020/03/14/epidemia-coronavirus-due-approcci-strategici-a-confronto-di-roberto-buffagni/

The author and italiaeilmondo.com would like to warmly thank Andrea Ferrari (English translation) Pierluigi Emma (French translation) https://www.capstan.be/  and its collaborators.

 

 CORONAVIRUS EPIDEMIC: TWO STRATEGIC APPROACHES IN COMPARISON, by Roberto Buffagni

The two strategic styles of epidemic management in comparison

Traduzione di Andrea Ferrari

I propose a hypothesis regarding the different strategic styles of epidemic management adopted in Europe and elsewhere. Let me stress that this is a mere hypothesis–to substantiate it would require statistical, epidemiological, and economic expertise that I do not have and that cannot be improvised. I thus welcome all criticism and objections, even the most radical.

The hypothesis is as follows: the strategic style adopted to manage the epidemic faithfully reflects the ethics and presumed national interest and political priorities of States and, to a lesser extent, of nations and peoples. The choice of the strategic style of management is decidedly political.

There are essentially two strategic management styles:

  1. There is no fight against contagion, everything is focused on the care of the sick (German, British, partially French model).
  2. The contagion is counteracted by containing it as much as possible with emergency measures to isolate the population (Chinese, Italian, South Korean model).

Those who choose Model 1 make a cost/benefit calculation, and consciously choose to sacrifice a quota of their population. The magnitude of this quota will depend on the response capacity of the national healthcare infrastructure, and in particular on the number of places available in intensive care. As far as I understand, the Coronavirus has the following characteristics: high contagiousness, limited percentage of fatal outcomes (direct or due to complications), but relatively high percentage (around 10%, it seems) of patients in need of treatment in intensive care wards. If this is the case, in the event of a massive contagion of the population–in Germany, for example, Angela Merkel foresees 60-70% of people infected–no national health service will be able to provide the needed treatment to the entire percentage of patients that need intensive therapy. A proportion of these are thus sentenced to death in advance. The proportion of the population pre-sentenced to death will depend on the capacity of the health system, the demographic composition of the population (older people are at greater risk), and other unpredictable factors such as possible mutations of the virus.

The rationale for this decision seems to be as follows:

  1. The adoption of Model 2 (containment of infection) has devastating economic costs.
  2. The proportion of the population that is pre-condemned to death is largely made up of elderly and/or already sick people, and therefore their disappearance not only does not compromise the functionality of the economic system but if anything favours it, by alleviating the costs of the pension system and health and social care in the medium term, and by moreover triggering an economically expansive process thanks to inheritance. As has already happened in the great epidemics of the past, inheritance will increase the liquidity and assets of young people with a higher propensity to consume and invest than their elders.
  3. Above all, the choice of Model 1 increases the relative economic-political power of the countries adopting it compared to their competitors adopting Model 2, who must bear the devastating economic damage it entails. By taking advantage of the difficulties of their competitors in Model 2 countries, companies in Model 1 countries will be able to take their place quickly, gaining significant market shares and imposing on them, in the medium term, their economic and political hegemony.

Two requirements are indispensable for the adoption of Model 1: a State decision-making apparatus coherently and traditionally oriented towards a particularly radical and ruthless sense of national interest (typical of the British and German cases); and strong social discipline (this is why the adoption of Model 1 by France will be problematic, and there will probably be a reconversion of the strategic choice towards Model 2).[1]

The adoption of Model 1, in short, corresponds to a decidedly warlike strategic style. The choice is to consciously sacrifice a proportion of economically and politically less useful members of the population to the advantage of greater power for the economic-political system. Otherwise said, it is the choice to get rid of the ballast so as to fight more effectively. This is in fact a typical choice made in time of war, when it is normal because it is indispensable, for example, to privilege medical care and food supplies for the armed forces versus care and food for all others (including women, old people, and children). The only limits are resources needed to keep up the morale of the population, which is equally essential for the war effort.

The States adopting Model 1, therefore, do not act as if their competitors were adversaries, but as if they were enemies, and as if economic competition were a real war, differing from “waged” war by the mere fact that armies do not take to the field. The conduct of this type of war, precisely because it is a covert war, will be particularly harsh and ruthless; neither engagement rules nor military honour, which for example prohibit the mistreatment, or worse, the killing of prisoners and civilians, the use of weapons of mass destruction, etc., are applicable here. To conclude, the choice of Model 1 privileges, in the strategic evaluation, seizing the immediate opportunity window (to gain a strategic advantage over the enemy through rapid and violent action) over the medium-long term strategic opportunity window (reinforcing national cohesion, decreasing the dependence and vulnerability of one’s own economy on others by increasing state investment and domestic demand).

 

***

Considering what has been outlined about States adopting Model 1, it is easier to describe the ethical-political style of States adopting Model 2.

In the case of China, there is no doubt that the Chinese political leadership knows very well that economic competition is a decisive component of the “hybrid war”. Indeed, it was two colonels of the Chinese General Staff, Liang Qiao and Xiangsui Wang, who developed the seminal text on “asymmetric warfare” [2]in the 1980s. I believe that the Chinese political leadership has chosen, it seems successfully, to adopt Model 2 for three fundamental reasons:

  1. a) the distinctly communitarian character of the Chinese cultural tradition, in which the liberal concept of the individual and the Christian concept of the person have little or no importance;
  2. b) the profound respect for the elderly and the ancestors, a cornerstone of Confucianism;
  3. c) a long-term strategic evaluation, which can be summarized in these two maxims by Sun Tzu, the thinker who most inspires the Chinese strategic style: “Victory is achieved when superiors and inferiors are animated by the same spirit” and “Consistent leadership allows men to develop the confidence that their environment is honest and reliable, and that it is worth fighting for”.

In other words, I think that the Chinese leadership considered that the long-term strategic advantage of preserving and even strengthening the social and cultural cohesion of its population outweighed the short-to-medium-term cost of the economic damage and the foregone opportunity to take immediate advantage of their adversaries’ difficulties.

Because there are three “paths to success”: “1. Knowing when you can or cannot fight” “2. Knowing how to use both numerous and small forces” “3. Knowing how to instil equal intentions in both superiors and inferiors”.

In the case of Italy, I believe the choice of Model 2–albeit uncertain and poorly executed–depends on the following reasons.

1) On the cultural level, the influence of pre-modern Italian and European civilization, infused as it is with pre-Christian, peasant, and Mediterranean sensibility for the family and “creaturehood”, partially absorbed by Counter-Reformation Catholicism and the Baroque; this is an influence of very long duration that continues to operate despite the Protestantization of the Catholic Church today, and despite the cultural hegemony, at least superficially, of ideological and economic liberalism.

2) Again on the cultural level, the pacifism established after the defeat in World War II, perpetuated first by the left-wing communists and the Catholic world, then by the liberal-progressive EU leaderships–a pacifism that generates comic expressions such as “soldiers of peace” and a methodical denial of the tragic dimension of history.

3) On the political level, the serious institutional disorder, whereby the levels of decision making overlap and hinder each other, as was evident in the conflict between State and Regions at the opening of the epidemiological crisis; the electoral concerns of all parties; and the fragile legitimacy of the State, which is a long-running Italian problem.

4) on the political-operational level, the astounding incompetence of the ruling class, in which decades of reverse meritocracy and a habit of dumping responsibility, decisions, and their underlying motivations on the shoulders of the European Union have induced a mindset that always leads to taking the path of least resistance. In this case, that path is precisely the choice to contain the contagion, because to choose the path of mass war triage (however you judge it, and I judge it very negatively) requires a very considerable political decision-making ability.

In other words, the Italian choice of Model 2 has superficial and conscious reasons tracing to our political and institutional defects, and deep and semi-conscious reasons tracing to the merits of civilization and culture which, almost without knowing it anymore, continue to inspire Italy, especially in difficult times. So, we have undoubtedly acted in a humane and civil way, and perhaps even a strategically far-sighted way, without really knowing why. But we have acted so, and for this we must thank our deceased ancestors, the “Lares”[1] whose cult goes back centuries and millennia albeit under different names. Without knowing it, we still honour them today by doing everything possible to save our fathers, mothers, grandparents, even if they are no longer useful.

It would make Sun Tzu and perhaps even Hegel smile to see that the two models impose operational implementation methods that are in exact opposition to their respective strategic style.

The implementation of Model 1 (we do not contain the contagion, we deliberately sacrifice a quota of the population) does not require any measure of restriction of freedom; daily life goes on exactly as before, except that many people fall ill and a not exactly predictable but not negligible percentage of them, not being able to obtain the necessary treatment for reasons of health service capacity, die.

The implementation of Model 2 (we contain the contagion to save all those who can be saved) requires instead the application of very strict measures to restrict personal freedom, and to be fully carried out would indeed require the deployment of a dictatorship, however soft and temporary, to ensure unity of command and protection of the community from the unleashing of irrational passions, i.e. from itself. Operationally, the executive direction of Model 2 should be entrusted to the armed forces, which possess both the appropriate technical skills and the appropriate rigidly hierarchical structure.

I will conclude by saying that I am glad that Italy has chosen to save all who can be saved. It is doing it awkwardly, and without really knowing why, but it is doing it. This time it is easy to say: right or wrong, my country[3].

 

 

[1] Translator’s Note: the article was written before the 16 March 2020 decision by the French government to enact shutdown measures like those taken in Italy.

[2] Qiao Liang and Wang Xiangsui, Unrestricted Warfare, Beijing: PLA Literature and Arts Publishing House, February 1999. Freely available here: https://www.c4i.org/unrestricted.pdf

[3] Translator’s Note: In English in the original

[1] see https://www.romanoimpero.com/2018/07/culto-dei-lari.html

L’ÉPIDÉMIE DE CORONAVIRUS : COMPARAISON ENTRE DEUX APPROCHES STRATÉGIQUES, de Roberto Buffagni

Un lettore di italiaeilmondo.com, il signor Andrea Ferrari della https://www.capstan.be/ , impresa internazionale nel campo delle traduzioni per imprese, privati, enti pubblici, con grande gentilezza e generosità ha messo a disposizione le capacità professionali sue proprie e dei suoi collaboratori, e ha tradotto gratuitamente in inglese e francese l’articolo di Roberto Buffagni I due stili strategici di gestione dell’epidemia a confronto, pubblicato qui: http://italiaeilmondo.com/2020/03/14/epidemia-coronavirus-due-approcci-strategici-a-confronto-di-roberto-buffagni/

L’autore e italiaeilmondo.com ringraziano di cuore Andrea Ferrari (traduzione in inglese)  Pierluigi Emma (traduzione in francese) la https://www.capstan.be/ e i suoi collaboratori.

Un lecteur de italiaeilmondo.com, M. Andrea Ferrari de https://www.capstan.be/ , société internationale dans le domaine des traductions pour les entreprises, les particuliers, les pouvoirs publics, avec une grande gentillesse et générosité a mis à disposition les compétences professionnelles à lui et à ses collaborateurs, traduisant gratuitement en anglais et en français le commentaire de Roberto Buffagni Les deux styles stratégiques de gestion de l’épidémie mis en parallèle, initialement publié ici: http://italiaeilmondo.com/2020/03/14/epidemia-coronavirus-due-approcci-strategici-a-confronto-di-roberto-buffagni/

L’auteur et italiaeilmondo.com remercient chaleureusement Andrea Ferrari (traduction anglaise) Pierluigi Emma (traduction française) https://www.capstan.be/ et ses collaborateurs.

L’ÉPIDÉMIE DE CORONAVIRUS : COMPARAISON ENTRE DEUX APPROCHES STRATÉGIQUES, de Roberto Buffagni

Les deux styles stratégiques de gestion de l’épidémie mis en parallèle

Traduzione di Pierluigi Emma

Je propose ci-après une hypothèse relative aux différents styles stratégiques de gestion de l’épidémie, adoptés en Europe et ailleurs dans le monde. J’insiste sur le fait qu’il ne s’agit que d’une hypothèse, car je n’ai, ni ne puis improviser, les compétences et les informations statistiques, épidémiologiques et économiques requises pour la valider. Les objections critiques et même radicales sont les bienvenues.

L’hypothèse est la suivante : le style stratégique de gestion de l’épidémie reflète de manière fidèle l’éthique et la façon d’entendre l’intérêt national et les priorités politiques des différents États, ainsi que, dans une moindre mesure, des nations et des peuples.

On peut distinguer essentiellement deux styles stratégiques de gestion :

  1. La contagion n’est pas combattue, on mise exclusivement sur les soins aux personnes atteintes (modèles allemand, britannique et en partie français)
  2. On combat la contagion en l’endiguant le plus possible à l’aide de mesures d’urgence d’isolement de la population (modèles chinois, italien, sud-coréen)

En choisissant le premier modèle, on effectue un calcul coûts/bénéfices et l’on opte sciemment pour le sacrifice d’un certain pourcentage de ses concitoyens. Ce pourcentage sera plus ou moins élevé selon que le potentiel de réponse du système de santé, en particulier quant aux places disponibles en soins intensifs, sera plus ou moins important. D’après ce qu’il m’est donné de comprendre, en effet, le Coronavirus présente les caractéristiques suivantes : un haut degré de contagiosité, un pourcentage limité de suites mortelles (directes ou du fait de complications), mais un taux relativement élevé (autour de 10% me semble-t-il) de malades nécessitant d’être hospitalisés en soins intensifs. Si telle est la situation, en cas de contagion massive de la population (en Allemagne, par exemple, Angela Merkel prévoit entre 60% et 70% de personnes atteintes) aucun service sanitaire national ne sera en mesure d’assurer les soins nécessaires pour tous les malades nécessitant des soins intensifs, qui seront donc à l’avance, en partie, condamnés. Le taux de pré-condamnés à mort sera plus ou moins important en fonction des capacités du système sanitaire, de la composition démographique de la population (les personnes âgées sont plus à risque), et d’autres facteurs imprévisibles, tels que d’éventuelles mutations du virus.

Le raisonnement à la base de cette décision semble être le suivant :

  1. L’adoption du deuxième modèle (endiguement de l’infection) entraîne des coûts économiques exorbitants.
  2. La part de la population condamnée à l’avance à mourir est largement composée de personnes âgées et/ou déjà malades, ce qui fait que sa disparition non seulement ne compromet pas le bon fonctionnement du système économique, mais pourrait même le favoriser, en allégeant à moyen terme les coûts du système des pensions, des soins de santé et de l’aide sociale; et en enclenchant, qui plus est, un processus d’expansion économique du fait des héritages qui, comme ce fut le cas lors des grandes épidémies du passé, augmenteront les liquidités et le patrimoine des plus jeunes, dont la propension à la consommation et à l’investissement est plus grande que celle de leurs ainés.
  3. Surtout, le choix du premier modèle accroît la puissance économique et politique des pays qui l’adoptent par rapport à leurs concurrents qui auront adopté le deuxième modèle, condamnés à affronter des dégâts économiques dévastateurs. En tirant profit des difficultés de leurs concurrents du modèle 2, les entreprises des pays du modèle 1 pourront rapidement les supplanter, en conquérant d’importantes parts de marché et en leur imposant, à moyen terme, leur propre hégémonie économique et politique.

Bien entendu, l’adoption du premier modèle suppose deux prérequis : un centre décisionnel étatique et politique logiquement et traditionnellement orienté vers une acception particulièrement radicale et impitoyable de l’intérêt national (les cas allemand et britannique sont typiques) et une forte discipline sociale (c’est la raison pour laquelle l’adoption du modèle 1 par la France s’avèrera problématique, et l’on assistera probablement à un retournement du choix vers le modèle 2).[1]

Bref, l’adoption du modèle 1 correspond à un style stratégique éminemment belliqueux. Le choix de sacrifier sciemment une partie de la population économiquement et politiquement peu utile au profit du surcroît de puissance que pourra acquérir le système économique et politique (concrètement: le choix de se débarrasser du ballast pour combattre plus efficacement), est en effet typiquement un choix nécessaire en temps de guerre, lorsqu’il est normal car indispensable, par exemple, de privilégier les soins médicaux et les ravitaillements des combattants par rapport aux soins et à la nourriture destinés aux autres – femmes, personnes âgées et enfants compris – avec pour unique borne l’entretien du moral de la population, qu’il faut tout autant soutenir.

Ainsi, les États qui adoptent le modèle 1 n’agissent pas comme si leurs concurrents étaient des adversaires, mais comme s’il s’agissait d’ennemis, et comme si la compétition économique était une véritable guerre, ne se différenciant de la guerre armée que par le fait que les armées n’entrent pas en jeu. La conduite de ce type de guerre, justement parce qu’il s’agit d’une guerre occulte, sera particulièrement dure et impitoyable, en l’absence de toute intervention d’un droit de la guerre, de l’idée d’honneur militaire qui par exemple interdit la maltraitance ou pire le meurtre des prisonniers et des civils, l’utilisation d’armes de destruction massive, etc. Pour conclure, le choix du modèle 1 privilégie, dans son évaluation stratégique, l’éventail d’opportunités immédiates (gagner par une action rapide et violente un avantage stratégique sur l’ennemi) par rapport aux opportunités stratégiques de moyen et long terme (ressouder la cohésion nationale, diminuer la dépendance et la vulnérabilité de sa propre économie par rapport à celles des autres pays, en accroissant les investissements publics et la demande intérieure).

 

***

 

À partir de ce qui vient d’être dit au sujet des États adoptant le modèle 1, il est plus aisé de décrire le style éthico-politique des États qui choisissent le modèle 2.

Pour ce qui est de la Chine, il ne fait aucun doute que le centre dirigeant politique chinois ne sache parfaitement que la guerre économique est la composante décisive de la guerre « hybride ». Ce furent même deux colonels de l’état-major chinois, Liang Qiao et Xiangsui Wang, qui élaborèrent dans les années quatre-vingt la première ébauche d’une théorie de la « guerre asymétrique »[2]. Je pense que le centre dirigeant politique chinois ait choisi – avec succès semble-t-il – d’adopter le modèle 2 essentiellement pour trois raisons :

  1. a) le caractère éminemment communautaire de la tradition culturelle chinoise, dans laquelle le concept libéral d’individu et le concept chrétien de la personne n’interviennent quasiment pas ;
  2. b) le profond respect pour les personnes âgées et les ancêtres, pivot du confucianisme ;
  3. c) une évaluation stratégique de long terme qu’on peut résumer par ces deux maximes de Sun Tzu, le penseur qui a le plus influencé le style stratégique chinois: « On remporte la victoire lorsque les supérieurs et les inférieurs sont animés par le même esprit » et « Un guide cohérent permet aux hommes de prendre confiance en l’honnêteté et en la fiabilité de leur milieu, et de penser qu’il vaille la peine de combattre pour celui-ci ». En d’autres termes, je pense que les dirigeants chinois ont estimé que l’avantage stratégique à long terme d’une préservation et même d’un renforcement de la cohésion sociale et culturelle de leurs concitoyens dépasserait le coût de court et moyen terme du dommage économique, et du renoncement à tirer promptement profit des difficultés des adversaires. Car « les chemins qui mènent au succès » sont au nombre de trois : « 1. Savoir quand on peut et quand on ne peut pas combattre ; 2. Pouvoir tirer profit aussi bien de forces nombreuses que de forces réduites ; 3. Savoir insuffler les mêmes motivations dans les supérieurs et dans les inférieurs ».

Dans le cas de l’Italie, je pense que le choix – encore qu’incertain et maladroitement mis en œuvre – du modèle 2 est dû aux raisons suivantes :

1) sur le plan culturel, l’influence de la civilisation italienne et européenne prémoderne, pénétrée de sensibilité préchrétienne, paysanne et méditerranéenne pour la famille et le concept de créature, partiellement absorbée ensuite par le catholicisme d’après la contre-réforme et par l’esprit baroque : une influence de très longue durée dont l’action ne s’est pas épuisée malgré la « protestantisation » de l’église catholique actuelle, et malgré l’hégémonie culturelle, du moins en surface, du libéralisme idéologique et du libéralisme économique;

2) toujours sur le plan culturel, le pacifisme qui s’est instauré après la défaite de la deuxième guerre mondiale et qu’ont perpétué, en un premier temps, les mouvements de la gauche communiste et le monde catholique, puis les dirigeants libéraux-progressistes de l’Union européenne ; un pacifisme donnant naissance à de drôles d’expressions comme « soldats de la paix », et à la négation systématique de la dimension tragique de l’histoire ;

3) sur le plan politique, d’un côté le grave désordre institutionnel, où les niveaux décisionnels se superposent et s’entravent mutuellement, comme dans le conflit entre État et Régions au début de la crise épidémiologique; de l’autre, les préoccupations électorales de tous les partis; puis, encore, la légitimation fragile de l’État, un vieux problème italien ;

4) sur le plan politico-opérationnel, l’ahurissante incapacité des classes dirigeantes, chez qui des décennies de sélection à l’envers et l’habitude de se décharger de ses responsabilités, de ses choix et des motivations connexes sur le dos de l’Union européenne, ont généré une forma mentis poussant à l’engagement systématique dans la ligne de moindre résistance: qui, dans le cas qui nous occupe, est justement le choix de l’endiguement de la contagion. Car pour faire le choix du triage belliqueux de masse (quel que soit le jugement qu’on porte à ce sujet, le mien étant fort négatif) il faut une très grande capacité décisionnelle au niveau politique.

En d’autres mots, le choix italien du modèle 2 se justifie par des raisons superficielles et assumées ayant trait à nos défauts politiques et institutionnels, et par des raisons profondes et quasi inconscientes ayant trait aux mérites de la civilisation et de la culture auxquelles, presque sans le savoir, l’Italie continue à s’inspirer, en particulier dans ses moments difficiles. Nous avons certes été humains et civilisés, et peut-être aussi stratégiquement clairvoyants, sans bien savoir pourquoi. Mais nous l’avons été, et nous devons en remercier nos défunts ancêtres, ces Lares[2] dont le culte, sous différents noms, se perd dans la nuit des temps ; et qu’aujourd’hui nous honorons et vénérons sans le savoir, en mettant tout en œuvre pour soigner nos parents et nos grands-parents, même s’ils ne servent plus à rien.

Sun Tzu et peut-être même Hegel souriraient en constatant que les deux modèles imposent des méthodes opérationnelles de mise en œuvre exactement opposées par rapport au style stratégique.

La mise en œuvre du model 1 (n’endiguons pas la contagion, sacrifions sciemment une partie de la population) ne demande aucune mesure de restriction de la liberté : la vie quotidienne se poursuit exactement comme avant, sauf que beaucoup tombent malades et un pourcentage, difficile à prévoir mais certes non négligeable, d’entre eux mourra faute de pouvoir bénéficier, du fait de structures médicales insuffisantes, des soins nécessaires.

La mise en œuvre du modèle 2 (endiguons l’épidémie afin de sauver tous ceux qui peuvent l’être) requiert au contraire des mesures extrêmement sévères de restriction des libertés personnelles, et exigerait même, pour être réalisé de façon cohérente, le déploiement d’une véritable dictature, aussi temporaire et douce soit-elle, afin de garantir l’unité de commandement et la protection de la communauté face au déchaînement des passions irrationnelles, c’est-à-dire d’elle-même. D’un point de vue opérationnel, la direction exécutive du modèle 2 devrait être confiée aux forces armées elles-mêmes, car elles possèdent aussi bien les compétences techniques que la structure rigidement hiérarchisée requises.

Je conclus en disant que je suis heureux que l’Italie ait choisi de sauver tous ceux qui peuvent l’être. Elle est en train de le faire maladroitement, et ne sait pas bien pourquoi elle le fait : mais elle le fait. Cette fois-ci, il est facile de déclarer : right or wrong, my country.[3]

 

[1] Liang Qiao e Xiangsui Wang, La guerre hors limites. L’art de la guerre asymétrique entre terrorisme et globalisation. Editions Rivages Poche, 2006.

[2] v. https://www.romanoimpero.com/2018/07/culto-dei-lari.html

 

[1] Note du traducteur : l’article a été rédigé avant la décision du gouvernement français du 16 mars 2020 de prendre des mesures de confinement de la population similaires à celles prises en Italie.

[2] [2] Qiao Liang and Wang Xiangsui, Unrestricted Warfare, Beijing: PLA Literature and Arts Publishing House, February 1999. Ici librement déchargeable, en anglais: https://www.c4i.org/unrestricted.pdf

 

[3] Note du traducteur : en anglais dans l’original.

La prossima fase della lotta cinese contro il Coronavirus, di Phillip Orchard. Traduzione di Piergiorgio Rosso

Un colpo da maestro. Il gruppo dirigente del Partito Comunista Cinese è riuscito in queste ultime due settimane in un miracolo. E’ riuscito a ribaltare, almeno in Europa e in Italia, la percezione della propria immagine di primo responsabile della propagazione incontrollata del coronavirus all’interno e della sua diffusione all’esterno. Il danno politico legato all’attività censoria e agli iniziali ritardi nella informazione, dovuti verosimilmente in parte a timori di ordine pubblico e di lesione di immagine e in parte alle necessità di predisposizione di un apparato operativo funzionale sono stati compensati dal successo quantomeno momentaneo nel contenimento del virus dovuto ai draconiani interventi di isolamento, pur al netto delle presumibili manipolazioni di dati che riguardano la Cina al pari degli altri paesi. Le condizioni oggettive favorevoli all’incubazione di epidemie, in parte dovute a ragioni climatiche, ma in parte a condizioni socioeconomiche, in un breve lasso di tempo sono scivolate nel dimenticatoio di fronte all’espandersi dell’emergenza e alla rimozione, alla imperdonabile sottovalutazione ed improvvisazione almeno iniziale con le quali si è affrontato il problema dei focolai rispettivamente in Iran, in Iraq, in Italia e via via negli altri paesi. La successione temporale e geografica della propagazione, al netto delle evidenti manipolazioni dei dati in corso nei vari paesi, indicano e confermano l’origine e il percorso di diffusione. A questa confusione ed allarme crescenti si sono sovrapposte delle vere e proprie campagne ossessive riguardanti l’origine artificiale del virus e la volontarietà della diffusione. Non che l’ipotesi sia inverosimile. A Wuhan ci sono laboratori appositi dediti alla ricerca e manipolazione dei virus e un incidente che possa aver provocato la fuga del virus rimane una ipotesi plausibile; manipolazioni destinati presumibilmente ad uso civile, quanto militare. Ne è seguita invece una vera e propria battaglia mediatica e di manipolazione informativa tesa ad attribuire la responsabilità a l’uno o all’altro, ai cinesi o agli americani. L’esito di questa battaglia, specie in Italia e nel gossip internettiano, sembra volgere decisamente a favore della Cina. Una schiera di adepti sembra essere colta da furore indomito nel cavalcare questa onda; furore che nella gran parte dei casi si riduce a fungere da gran cassa più o meno inconsapevole sulla base di spartiti scritti da altri. In un prossimo articolo mostreremo come l’esasperazione delle teorie più complottistiche e allarmistiche, venute alla luce negli ultimi decenni, nascono proprio da fonti equivoche di quel paese, gli Stati Uniti, oggetto degli strali dei più accaniti partigiani della polemica antiamericana. Tanto accaniti per altro, quanto dannosi alla causa del recupero delle prerogative di sovranità della nostra nazione e del nostro stato, gravemente compromesse dalla catastrofe militare del ’43 e dalla qualità delle classi dirigenti specie degli ultimi tre decenni. Si sa però che le vittorie mediatiche spesso e volentieri non coincidono con la vittoria della verità. Quest’ultima probabilmente non verrà mai alla luce. Quello che appare chiarissimo, purtroppo, specie in Italia, è la capacità di assorbimento acritico delle informazioni più astruse e la propensione partigiana di abbeverarsi fideisticamente ad una delle due fonti secondo le proprie propensioni di fedeltà e sudditanza. Entrambi i burattinai hanno agito da maestri, i cinesi più degli americani. Trump ha parlato di virus cinese; le varie ambasciate cinesi, nelle telefonate e nelle voci insinuanti fatte circolare, parlano di virus giapponese, americano, tedesco o italiano a seconda degli interlocutori. I secondi, forti della loro esperienza plurimillenaria, stanno prevalendo sui primi anche su questo aspetto, almeno per il momento. Il colpo da maestro lo si è raggiunto con la fornitura di aiuti, pervenuti all’Iran, all’Iraq e poi all’Italia a fronte di un comportamento meschino e cieco dei paesi fratelli europei e dell’assenza di un qualsiasi gesto da parte americana. Nelle more buona parte degli aiuti giunti da Pechino sono destinati alle comunità cinesi in Italia, tra le quali quella milanese che conta alcune decine di migliaia di immigrati provenienti dalla regione di Wuhan. Onore al merito della lungimirante diplomazia cinese. E onore alla sua capacità di influenza e controllo militare e “comunitario” delle proprie comunità all’estero. Decisamente sconfortante, al contrario, il comportamento dei tifosi del Bel Paese i quali pur di liberarsi dal gioco di un padrone non esitano ad accettare, a volte senza nemmeno accorgersene, di buon grado il giogo dell’altro contendente. L’esito di questo atteggiamento l’abbiamo già conosciuto in altri secoli bui, con il nostro suolo calpestato da più padroni a volte in contrasto e a volte in collusione tra di loro, comunque ai danni nostri. Se si cominciasse a mettere in secondo piano l’aspetto “affettivo” nelle relazioni internazionali e nelle logiche geopolitiche, si individuerebbero più facilmente i limiti, i punti critici e i lati oscuri dei rapporti di dominio instaurati tante dalle potenze emergenti che da quelle impegnate a difendere le posizioni egemoniche consolidate. Rappresenterebbero esattamente gli spazi di opportunità ed agibilità di una politica più autonoma ed indipendente, di costruzione di una identità nazionale politicamente più salda. Alzare la testa e saper guardare con i propri occhi comporta però dei rischi; per degli uccellini vissuti in gabbia la fuga da una porticina aperta il più delle volte si risolve comodamente con il ricovero rassicurante in un’altra gabbia. Non è detto, tra l’altro, che essa sia alla fine più accogliente. Gli sviluppi legati a questa crisi saranno tutti lì a dimostrarlo. La simpatia e l’affinità culturale verso un popolo, nella fattispecie cinese, non deve comportare una subalternità o peggio ancora la ricerca di un nuovo protettore, pena il deterioramento dei rapporti di amicizia. Buona lettura_Giuseppe Germinario

La prossima fase della lotta cinese contro il Coronavirus

[https://geopoliticalfutures.com/the-next-phase-of-chinas-fight-with-the-coronavirus/] di  Phillip Orchard – March 13, 2020

 

Il Partito Comunista Cinese vorrebbe farci sapere che sta vincendo la guerra contro il coronavirus e che tutti noi dobbiamo ringraziare Xi Jinping. Questo è stato il messaggio centrale dei media statali cinesi nelle ultime settimane, segnando un importante punto di svolta nella crisi. Internamente, la massiccia mobilitazione della Cina contro il virus sembra aver frenato la marea, con il tasso di crescita delle nuove infezioni che rallenta a valori a singola cifra e l’industria cinese che sta tornando al lavoro con cautela. E mentre l’epidemia è diventata una pandemia, le risposte a chiazze dei governi occidentali hanno messo in una luce più favorevole sia i passi falsi fatti di Pechino all’inizio, che i suoi successivi successi.

E’ stata una fortuna per i propagandisti di Pechino, che ora possono richiamare l’attenzione sui trionfi della Cina e sui problemi del mondo. Il loro messaggio ha anche chiarito che Xi e il suo circolo interno emergeranno intatti dalla crisi sanitaria – e forse anche più forti. Xi ha comandato le battaglie decisive della “Guerra popolare” contro un nemico invisibile, almeno secondo i media statali intenzionati a elevare il presidente a uno status simile a quello di Mao.

Ma se Xi è al sicuro sul suo trono, il suo regno non lo è. L’economia cinese, per dirla chiaramente, è in pessime condizioni. Quasi tutti i problemi che Pechino non era riuscita a risolvere sono stati peggiorati di un ordine di grandezza dalla crisi del coronavirus. E mentre il virus che diventa globale potrebbe rappresentare un colpo di striscio alla iper-macchina cinese, la sua diffusione potrebbe benissimo chiudere le strade più promettenti del paese verso una rapida ripresa.

La battaglia di Xi

Un mese fa, il CCC stava vacillando. L’epidemia era diventata quasi incontenibile e la struttura decisionale strettamente centralizzata di Xi sommata ad una cultura della censura, erano almeno in parte responsabili. Ciò ha creato pressioni sia in patria che all’estero, costringendo Pechino ad attuare una svolta verso la “campagna dei cento fiori” di Mao, allentare le restrizioni ai rapporti indipendenti e censurare i social media con un tocco più leggero. Lo sdegno che seguì, in particolare dopo la morte del dottore Li Wenliang, fece paura a Pechino, costringendola a una serie di mosse goffe per soffocare il dissenso. Pechino fu anche costretta a rinviare il suo Congresso Nazionale annuale, su cui il PCC fa affidamento per allineare i meccanismi dello stato con la sua agenda. Per gran parte di questo tempo, lo stesso Xi era chiaramente assente dai riflettori. Quando il governo centrale ha finalmente lanciato una campagna per dimostrare il suo comando nella risposta alla crisi, non è stata guidata da Xi ma dal Premier Li Keqiang, la figura più vicina a Xi rispetto a un rivale del Comitato permanente del Politburo. Ma non appena apparve chiaro che la crisi avrebbe raggiunto il picco, all’inizio di febbraio, Xi è tornato saldamente di nuovo in scena.I pilastri del potere in Cina sono spesso descritti come “le tre P”: l’Esercito Popolare di Liberazione [PLA in inglese – NdT], il personale e la propaganda. E diventando il volto pubblico della risposta del governo, Xi ha dimostrato di controllare ciascuna di esse. All’inizio di febbraio ha schierato l’esercito, che gli risponde direttamente come presidente della Commissione militare centrale e che era stato notevolmente assente dalla risposta di gennaio, per costruire ospedali, trasportare forniture, garantire l’ordine pubblico e inviare medici in prima linea a Wuhan. Se Xi avesse perso il controllo delle nomine del personale chiave, non sarebbe stato in grado di sostituire la leadership del partito nella provincia di Hubei con una coppia di suoi fedelissimi. Infine, la macchina della propaganda è andata a tutto regime per fare del Presidente un leone. I media statali hanno iniziato a riferirsi al presidente come “il leader del popolo” e soprattutto, durante la tanto attesa visita di Xi a Wuhan questa settimana, equiparando la sua leadership nella lotta contro il coronavirus al comando di Mao sulla vittoria della guerra civile del Partito Comunista nel 1949. Questo rappresenta più di un mero simbolismo. Elevando efficacemente Xi allo status di Mao, il Partito Comunista sta legando la propria legittimità ancora più strettamente al culto della personalità di Xi, rendendo quasi impossibile per i rivali sloggiarlo.Tuttavia, ci sono almeno altre due “P” che contano. La prima è il pubblico, che per ora sembra sostenere ampiamente il PCC. A dire il vero, ci sono sacche di malcontento per la cattiva gestione di Pechino – e non solo nei circoli dei social media all’interno dei quali ingannare con astuzia i censori è diventata una forma d’arte. I medici di Wuhan non hanno smesso di parlare della soppressione da parte del governo della informazione sul virus. Un discorso particolarmente ottuso tenuto dal capo del partito di Wuhan che chiedeva una “campagna di educazione alla gratitudine” per i residenti della città prima del tour di ispezione di Xi, è stato affossato dai censori dopo aver ottenuto così tanti contraccolpi. E i video trapelati hanno mostrato che il vice premier cinese Sun Chunlan è stato inondato di insulti da cittadini in quarantena durante la sua visita a Wuhan. Ma questo deve ancora tradursi in un qualsiasi tipo di movimento di massa per le strade.Ciò è dovuto in parte al fatto che il paese è stato effettivamente bloccato. (In effetti, i sistemi di controllo digitali messi in atto per combattere la diffusione del virus saranno utili per combattere i tentativi di mobilitazione contro il governo in futuro.) Anche perché non si vede in giro nessun esponente o partito di opposizione di rilievo. (Questo è il motivo per cui qualsiasi segno di una divisione importante nel PLA o nel Politburo sarebbe così importante). Ma il potere della macchina mediatica dello stato non dovrebbe essere sottovalutato. La propaganda è più efficace quando contiene noccioli di verità. Pechino può ragionevolmente indicare i blocchi in Italia e altrove per sostenere che la sua risposta era entro i limiti accettabili e potrebbe indicare la grave carenza di maschere mediche, kit di test, letti d’ospedale e così via in luoghi come gli Stati Uniti per sostenere che, qualunque siano i suoi difetti, il modello di governo del PCC è superiore alle democrazie occidentali in una crisi.La guerra non è finitaL’altra “P” è la prosperità. La crescita a rotta di collo stava già diventando impossibile da sostenere. A febbraio l’economia si è effettivamente fermata. Circa un terzo delle imprese cinesi rimane chiuso, e molte altre operano solo a capacità parziale. Come è stato chiarito dai dati anemici sulla crescita del credito pubblicati questa settimana, le croniche difficoltà di Pechino per ottenere liquidità per le piccole e medie imprese – che rappresentano fino all’80% dell’occupazione in Cina e più della metà delle quali afferma di poter usare i loro risparmi per massimo due mesi – persistono. Anche il “sistema bancario ombra” ha toccato un minimo da tre anni, a febbraio. Questa è una buona notizia per la battaglia a lungo termine di Pechino contro prestiti sconsiderati, ma è una cattiva notizia nell’attuale contesto.Abbiamo notato che la Cina sarebbe ragionevolmente ben posizionata per un recupero a “V” una volta che potesse contenere il virus abbastanza da riavviare il suo motore di produzione, vale a dire fino a quando potesse evitare lo sfondamento dei rischi sistemici nel settore finanziario o immobiliare. Fondamentalmente quello che è successo dopo l’epidemia di SARS nel 2003. Una volta che le persone potranno effettivamente tornare a lavorare in massa, non sarà difficile riavviare i settori delle fabbriche e dei servizi cinesi.Il ritmo della ripresa dipenderà quindi principalmente dalla domanda. La massiccia spesa per gli stimoli e il settore statale aiuteranno. Ma con la perdita di massa dei salari a breve termine che potrebbe trascinare verso il basso il consumo interno per almeno un mese o più, il consumo esterno sarà di nuovo la chiave.Questo è il motivo per cui la diffusione globale della crisi è un grosso problema per la Cina, soprattutto perché sta avvenendo a un ritmo che potrebbe durare mesi e potrebbe risalire nuovamente in autunno. Interruzioni prolungate degli scambi sarebbero abbastanza gravi per le esportazioni cinesi, che sono diminuite di oltre il 17% solo a gennaio e febbraio. Più le economie europee e statunitensi rallentano, più la domanda occidentale di beni cinesi si prosciugherà. In questa luce, i peggiori scenari come quelli presentati dalle Nazioni Unite che prevedono un colpo di $2 trilioni di dollari al prodotto interno lordo globale, sembrano in qualche modo ottimisti.

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Nel frattempo, lo stress sui mercati finanziari in Occidente – combinato con la probabile spinta alle forze politiche anti-globalizzazione e l’ampia consapevolezza tra le multinazionali che le catene di approvvigionamento sono diventate eccessivamente dipendenti dalla Cina – ridurranno gli investimenti e i flussi di capitali verso la Cina. Nonostante l’impressionante capacità della Cina di individuare ogni singolo contagiato da virus in ogni singola porta delle fabbriche o degli aeroporti, non è impossibile che il virus ritorni. Altre quarantene di massa, ovviamente, potrebbero essere incalcolabilmente dirompenti. (Un lato positivo del rallentamento globale per Pechino: il crollo dei prezzi del petrolio avrà effetti contrastanti sull’economia cinese, ma nel complesso farà più bene che male.)Da quasi un decennio eravamo in attesa del prossimo grande shock che avrebbe testato la resilienza del sistema guidato dal PCC. L’ipotesi era che lo shock più probabile sarebbe venuto da forze esterne. Si scopre che lo shock è arrivato dall’interno, si è diffuso nel resto del mondo e ora sembra probabile che ritorni indietro. Non c’è nulla che i propagandisti cinesi possano fare a riguardo.

La riforma dello Stato, di Giancarlo Elia Valori

In calce un articolo particolarmente interessante di Giancarlo Elia Valori che affronta il tema della riforma dello Stato, di fatto il tema della modalità di selezione di una classe dirigente e di esercizio del potere in un contesto altro rispetto al bipolarismo, fase nella quale di fatto si è formata la classe dirigente emersa, già in stato abortivo al suo sorgere, dalle pesanti scorie di una tangentopoli mai terminata, ormai a trenta anni di distanza dal suo inizio. L’uscita di Valori ha coinciso con la drammatica crisi del coronavirus. La concomitanza non è detto che sia voluta, ma non è certo casuale. La crisi pandemica, sia pure ancora incipiente, già colpisce emotivamente le popolazioni e le stesse classi dirigenti, destruttura ulteriormente, in maniera ormai irreversibile, i residui equilibri geopolitici e il sistema di relazioni economiche fondati su una visione unipolare e multilaterale dei rapporti internazionali. Una visione accantonata formalmente dalla Russia di Putin sin dall’importante discorso alla conferenza di Monaco del 2007, ma che verrà ormai sancita definitivamente ob torto collo anche dalle élites dominanti della Cina e degli Stati Uniti lungo un percorso al cui traguardo non si può prefigurare al momento un vincitore certo. Non si deve mai trascurare in politica l’aspetto emotivo di una crisi, specie se dal carattere così dirompente, legato alle modalità stesse di esistenza delle persone e delle formazioni sociali. Accresce le esigenze di efficacia e centralizzazione del potere. Se le formazioni sociali sono sufficientemente articolate ma provviste di una identità forte la realizzazione di questa esigenza produce formazioni e soggetti coesi in grado di navigare con sufficiente autonomia nelle incertezze del multipolarismo; al contrario si rischia la formazione di élites arroccate nelle proprie cittadelle e sempre più dipendenti dal volere degli agenti esterni. Dall’articolo di Valori appare chiaramente questo sentimento. L’esigenza, però, di una redifinizione dei centri e delle modalità di esercizio non può prescindere ed è connaturata agli obbiettivi strategici e alla collocazione geopolitica delle aspiranti nuove élites di potere. La collocazione politica e specificatamente geopolitica di Valori, strettamente e indefettibilmente atlantista e filoisraeliana, tanto per stigmatizzarne un aspetto che da adito a tali perplessità da far temere la mutazione di una azione di trasformazione delle dinamiche di esercizio magari ben intenzionata in quella di una classica operazione trasformistica. Il richiamo alle grandi virtù della tradizione liberale senza citarne i macroscopici difetti, messe a nudo soprattutto nella fase politica di fine ‘800 e di fine ‘900, propedeutiche alle crisi stagnanti e logoranti successive, destano più di qualche sospetto. Una visione di “bene pubblico” insita nell’azione politica di una possibile nuova classe dirigente troppo neutra, tipicamente propria del punto di vista liberale. Non vi è cenno nell’articolo sulla funzione positiva di un conflitto sociale ben indirizzato e sulla funzione di coesione delle associazioni, in un contesto però agli antipodi di quello parassitario, remissivo e decadente dell’Italia presente; manca una caratterizzazione e distinzione tra le figure politiche trainanti ed espressive di una strategia politica e l’azione dei centri strategici più o meno presenti negli ambiti nevralgici di esercizio del potere, nonché un disvelamento delle dinamiche di conflitto interno ai centri e di relazione con i centri esterni al paese; come pure viene sottovalutata colpevolmente la funzione regressiva e ammorbante di gran parte di quei centri accademici e di elaborazione che dovrebbero formare altrimenti élites alternative. La via di formazione di queste ultime si prospetta purtroppo molto più tortuosa, defatigante, approssimativa e avulsa dai centri istituzionali principalmente preposti. Forse è chiede troppo ad un semplice articolo; l’impressione, però, è che queste omissioni svelino il limite di un tema sollevato meritoriamente. Ciò nonostante l’articolo mette in evidenza aspetti, dinamiche virtuose e punti di crisi decisivi, corroborati coraggiosamente dalla rievocazione di figure politiche, quali Cossiga, da riconsiderare e ricollocare storicamente. Buona lettura_Giuseppe Germinario

tratto da https://formiche.net/2020/03/stato-cossiga-costituzione-italia-governo-presidente-del-consiglio/

La riforma dello Stato si può fare. Le istruzioni di Valori

La riforma dello Stato si può fare. Le istruzioni di Valori

A partire dal 1991 la nostra Costituzione è cambiata. Ora si può ancora riformare lo Stato centrale. Ma bisogna stare attenti a…

Fin dal suo messaggio alle Camere del 26 giugno 1991, Francesco Cossiga ebbe chiarissimo che il sistema degli equilibri costituzionali, nel dopo-Guerra fredda, stava inevitabilmente per saltare.
Nella sua visione, c’era un insieme di processi positivi e di altri potenzialmente pericolosi, che avevano messo entrambi in crisi il grande progetto iniziale della Costituzione repubblicana: l’aumento della partecipazione popolare non direttamente politica, poi la trasformazione dei partiti, da non dimenticare nemmeno la fine dell’equilibrio bipartitico della suddetta guerra fredda, poi ancora la diversa collocazione, dopo la “caduta del Muro”, delle forze politiche, infine una ulteriore differenza del ruolo dell’Italia rispetto a quello del mondo dei due blocchi contrapposti.
La Costituzione nasceva dalla Guerra fredda. Finita quest’ultima, doveva cambiare anche la Carta fondamentale e lo Stato.

Poi, per Cossiga c’era un altro elemento strutturale da notare: tutti i partiti immaginavano, in fase costituente, di poter essere, un giorno, collocati all’opposizione, e non si sa nemmeno quanto democratica, quindi programmarono di concerto un sistema di controlli e contrappesi quasi paralizzante.

Niente esecutivi forti e stabili, quindi, solo continue e successive maggioranze deboli, temporanee, e con un grande partito di opposizione, da dover essere escluso, per ovvi motivi internazionali, dal potere: ma che comunque era presente con un meccanismo ad consociandum nelle amministrazioni locali, negli apparati (tutti) poi nel sistema economico, nel potere territoriale.
Un equilibrio paradossale tra centro e periferia che disegnava anche il flebile potere, garantito dalla Costituzione, di poter rimanere nella Nato e in Occidente.

Salvo, poi, dare al Pci e ai suoi alleati il potere di fatto di destabilizzare lentamente il Governo, ma senza destabilizzare, per quanto possibile, il Paese. Ognuno dei due schieramenti si presentava con la capacità di interdire la realizzazione dell’egemonia, termine gramsciano, all’altro. Questa, la destabilizzazione dico, la fecero altri, amici e nemici.

In quegli anni ero molto vicino a Francesco Cossiga, e di queste cose ne parlammo appassionatamente per mesi, prima del suo straordinario messaggio alle Camere. Per il presidente, finita la Guerra fredda, e trasformatasi l’entità, la natura e la forma del sistema politico italiano, occorreva riformare subito la Costituzione e l’intero Stato. Aveva ragione, come spesso gli è capitato, ma oggi siamo davvero alla morte cerebrale e fisica del nostro sistema politico.

Non mi riferisco, ovviamente, a questo o quel partito, ma l’incapacità patologica di reggere le sorti del Paese è ormai evidente in tutti i gruppi parlamentari. Dopo la crisi della fine della Guerra fredda, che parlava di noi, soprattutto di noi, con la trasformazione rapida dell’Est e dei Balcani, la nuova dimensione politica e militare del mondo arabo, la crisi programmata dei vecchi alleati africani e islamici dell’occidente, con le “primavere arabe”, poi il jihad della spada, la conclusione delle nostre alleanze nel Mediterraneo, infine la fine di un automatismo fin troppo facile, nella Nato, e anche tra noi e gli Usa, tutto doveva far pensare, nella povera testa delle nuove classi politiche, che occorreva cambiare soprattutto una cosa: l’architettura costituzionale.
Per evitare, almeno, di entrare nel XXI secolo con un vecchio automezzo degli anni ’60. Ora, siamo alla fine definitiva del sistema politico incompleto che ha seguito, rabborracciato e spesso inane, la fine della Guerra fredda.

Ed è stata la lunga epoca, invece, il post-Guerra fredda italiano, dei modesti succedanei.
Invece di pensare, le classi politiche successive alla guerra fredda si sono baloccate soprattutto con la “comunicazione”. Che non è un sostituto del pensiero, anzi. Chi sa non parla, chi non parla sa, come diceva il saggio cinese Lao-Tzu. Ovvero, abbiamo assistito, dopo la crisi del 1994, generata dall’operazione Tangentopoli, alla creazione del partito-brand pubblicitario, con il solito uomo solo al comando che, però, comanda ben poco e si annoia a far politica, che lascia fare ad altri, ma che poi seleziona i parlamentari con il criterio del casting Tv; poi abbiamo anche avuto il riciclaggio del vecchio Partito democratico Usa, in un lungo remake, con tanto di asinelli e di primarie, e ci mancavano solo gli hot dogs e la pessima senape.

Sembrava un vecchio film di Bud Spencer e Terence Hill. Quando ci si vende, in politica, è bene mascherare l’identità del compratore. Ed è morto, invece, caduto sempre nella rete della operazione Tangentopoli, che operazione infatti fu, il Centro democratico e liberale, in ossequio alla vecchia battuta, detta proprio in Assemblea Costituzionale, di Togliatti: “fuori i pagliacci”. E si perse così, nella cultura politica italiana attuale, il senso della tradizione risorgimentale, liberale, statuale.
Ed è morta proprio la tradizione risorgimentale, asse dello Stato unitario, che era stata inserita nella Costituzione Repubblicana sia dai cattolici che da socialisti, con figure del calibro di Don Sturzo, Costantino MortatiFanfaniMoroLa PiraVittorio FoaMario ZagariPaolo Rossi.

Il cattolicesimo politico è stato certamente anti-risorgimentale, ma non ha distrutto la tradizione dello Stato unitario, questo lo si deve ad altri. Ogni fenomeno politico del post-guerra fredda, in Italia, è quindi stata la continuazione, con altri mezzi, come la guerra in Von Clausewitz, della vecchia guerra fredda, ma a polveri bagnate. Il meccanismo della inutile litigiosità da spot pubblicitario è oggi lo stesso, il livello di scontro è ancora elevatissimo, ma il reale meccanismo costituzionale è figlio di una fase storica definitivamente passata e, anzi, produttrice di sventati anacronismi e inutili, pericolosi, impedimenti.

Cossiga scrisse, dopo i tentativi dell’on. Aldo Bozzi, di De Mita e di Nilde Iotti, fino alla intelligente e sfortunata operazione della Bicamerale di Massimo d’Alema, nel 1997, che venne dopo, un tracciato chiaro e inevitabile: l’uso dell’art.138 Cost. per il rinnovamento della Carta Costituzionale, la fine della sciocca diminutio capitis dell’Esecutivo, che non è un luogo di transazioni, infine il ripensamento, militare, geopolitico, economico del ruolo italiano nel Mediterraneo.

La fine, in altri termini, del vecchio sistema derivato dal Trattato di Parigi del 1947. Chi aveva vinto con il solo eroismo litigioso di De Gaulle, ma che aveva patito la vastissima Repubblica di Vichy, chi poi aveva sofferto il dramma del frazionamento della patria tedesca, con il controllo alleato perfino della emissione dei francobolli, chi aveva patito la dittatura spagnola, tutti si ritrovavano, nel post-guerra fredda, in un nuovo contesto, privo delle leve strategiche del mondo diviso in due blocchi. Era, questa, la riedizione del documento di Camaldoli, insomma, a cui partecipavano anche, lo ricordiamo, laici e cattolici. E che fu poco ascoltato, anche all’inizio. Ritornare lì è ancora essenziale. Leve, quelle strategiche, che allora si trovavano ovunque, peraltro. La pervasività della lotta tra i due blocchi non permetteva una concentrazione del potere e dell’esecutivo.

Cosa fare, allora?
a) garantire la stabilità dell’esecutivo, non tramite alchimie elettorali, ma con garanzie costituzionali, poi b) evitare il frazionismo estremo delle rappresentanze regionali, provinciali, comunali, consortili, o comunque altrimenti ordinate, c) incentrare nel duopolio presidente del Consiglio-presidente della Repubblica, senza eccessive mediazioni, la responsabilità strategica e militare della politica estera italiana, che opera a contrappassi parlamentari post-factum, ma non di più di quelli, d) riformare i servizi, ancora una volta, in modo che siano strumento efficientissimo e potente dell’esecutivo; e anche capaci di azioni efficacissime e immediate, senza inutili noie parlamentari, che casomai lavorano, lo abbiamo detto, ex post, d) riformare il comando dell’economia, che è oggi troppo policefalo e, talvolta, anche acefalo.

Il mondo è fatto di velocità, di decisioni quasi immediate, di mediazioni, quando ci sono, con entità che poco hanno a che fare con i vecchi partiti politici. Altro che Aula: oggi, chi manovra il potere reale, ha a che fare con ben altri gruppi di potere. Occorre uno Stato capace di parlare e talvolta imporsi a questi nuovi attori geopolitici, finanziari, tecnologici. Il mito del mercato che si autoregola va bene per gli studenti di economia che leggono, annoiati, certi manuali che, ai miei tempi, avrebbero fatto ridere generazioni di studiosi.

Occorre dunque velocità e accuratezza insieme dell’esecuzione dell’atto di governo, la cui verifica di legittimità, qualora occorra, è demandata ad altri organi tecnici, non solo a intermediazioni politiche. Che arrivano, se arrivano, in seconda istanza. Cosa proporre, quindi, come riforma dello Stato, dopo che la nostra Repubblica soggiace a una torma di ragazzini che credono di salvare il mondo, come in un vecchio romanzo di Elsa Morante?

1. Un sistema elettorale con una soglia accettabile e razionale per l’entrata in Parlamento, ma non è poi questo il vero problema. Occorre, invece, un sistema elettorale che possa selezionare automaticamente i “campioni” rappresentativi. Ma non è nemmeno questo il punto, addirittura. Occorre, alla fine, che il governo non possa essere sciolto da una serie di costrizioni parlamentari che riprendono il vecchio modello della guerra fredda, ma senza motivo alcuno. Per esempio, la questione militare, che è troppo “commissionata”. Oppure, la inevitabile longa manus dell’Esecutivo sulla Banca d’Italia, al di là di chiacchiere illuministe sull’autonomia, peraltro mai verificatesi nella realtà.

a) La durata del governo liberamente eletto deve essere davvero di cinque anni, con un meccanismo come la tedesca sfiducia costruttiva. Lo so bene che, in questo caso, si arriva rapidamente alla conta (o al mercato) delle vacche, ma questo è sempre l’applicazione di un vecchio detto di Voltaire, “un piccolo male per un grande bene”. Al governo devono arrivare tutte le decisioni essenziali della politica, dell’economia, della strategia globale, senza mediazioni inutili, poi esso deve trattarle, ma com grano salis, e solo quando occorre, in Parlamento. Basta con le mediazioni infinite tra commissioni, sottosegretari avversi, lobbies, apparati burocratici. Chi decide è solo il governo liberamente eletto, poi si vedrà.

b) La regolamentazione delle lobbies. 200 sono oggi le organizzazioni di interessi registrate in Parlamento dal 2017 a oggi, ma in Parlamento Europeo sono 11.882 con ben 7526 persone fisiche accreditate. Se un parlamentare non sa farsi una idea dei problemi da solo, allora vada a casa.
c) Quindi, regolamentazione durissima dei “rappresentanti di interessi”, ma anche una raccolta dei dati di prima mano che sia a disposizione di tutti i parlamentari. Certo, già Costantino Mortati riteneva che il Parlamento futuro fosse soprattutto “in Commissione”, dove si lavorano i particolari e si tralascia la retorica ufficiale, ma qui siamo arrivando a una vera e propria privatizzazione della rappresentanza politica eletta.
d) L’autonomia relativa dei corpi separati, che va sostenuta. Che saranno comandati solo dai vertici politici e non da una infinita mediazione parlamentar-partitica. Basta con la vecchia tradizione per la quale i Servizi di Sicurezza, per esempio, erano obbligati a eseguire gli ordini del Presidente del Consiglio, o alcuni gruppi del Consiglio di Stato per questa o quella corrente politica. Possibilità di interlocuzione, riserva di scelta al ministro o al presidente del Consiglio, responsabilità tecnica e anche politica (Mortati parlava di alta burocrazia come politica) delle burocrazie.

e) Espansione dei settori che davvero contano: Intelligence, controllo delle transazioni finanziarie, ordinamenti di pubblica sicurezza, Forze Armate, Ricerca & Sviluppo, politica tecnologica e di investimenti. Il resto va bene per i consorzi agrari, detto senza offesa per i Consorzi stessi.
f) Ogni scelta futura verso la stabilità del sistema politico italiano avrà a che fare soprattutto con l’ideologia europeista. Anche l’Italia, Paese fondatore, deve utilizzare l’UE à la carte, per quel che gli serve, e rendere tranquillamente inutile quello che non gli serve. Come fanno gli altri Paesi europei, peraltro.

g) La nostra naturale direzione strategica è disegnata dalla geografia: il Mediterraneo, il Medio Oriente, il Maghreb, perfino certe aree dell’Estremo Oriente. Altro non v’è. Quindi, la nostra espansione commerciale, pacifica, in accordo non necessariamente ovvio con gli alleati Nato e Ue deve essere in queste zone, non nel Nord Europa dove, come diceva Napoleone per l’Europa dell’Est, “c’è troppo pieno”. Quindi, mano libera, nei limiti del possibile, in queste aree, ma anche capacità di spostare i limiti del possibile, quando occorra.

h) Una selezione diversa delle cariche pubbliche. Basta con il gioco degli sherpa che, dopo aver fatto i ghost writers, divengono burocrati, ma iniziare a creare burocrati tramite le normali filiere che tutti i Paesi moderni usano. Ovvero le grandi università, le Scuole di eccellenza, i Centri di Ricerca, i think tank di qualità. La porta girevole tra Pubblica amministrazione e professioni, alta cultura, burocrazia, scienza, deve funzionare stabilmente. Basta con questa sceneggiata russoviana e assolutista del Concorso pubblico, si inizi la chiamata ad personam di chi ha amplissimi titoli. La burocrazia, che va riformata ab initio, deve diventare il passaggio naturale, stabile o meno, delle migliori intelligenze del Paese. Quindi, molti posti senza lista di riferimento e indipendenti (lo fa già il mercato, con le società di recruiting) e, poi, una carriera possibile dentro o fuori lo Stato. Magari, tutto questo lo potrebbe fare la presidenza della Repubblica.

i) Basta con la “immonda anzianità”, come la chiamavano i Futuristi. Chi è bravo, verificabilmente bravo, va avanti, chi è solo vecchio rimane dove è. I meccanismi giuridici si possono fare in un attimo, basta volerlo.
j) Elezione dal basso del presidente della Repubblica, che deve avere un peso politico tale da obbligare parti del sistema politico a tacere, quando occorra.
k) Unica Camera. Ma le Regioni avranno, per i loro interessi, le varie strutture di settore che già operano benissimo. Le quali comunicheranno con la presidenza del Consiglio. Se riforma dello Stato dovrà essere, sarà certamente meno ossessivamente regionalista/localista della ormai pluridecennale tradizione politica post-guerra fredda, che credeva di risolvere tutti i busillis del sistema distruggendo lo “Stato centrale”, mostro puerilmente pericoloso. Una ingenuità davvero pericolosa. Il problema è la riforma dello Stato centrale, non la sua diluizione in piccole Patrie. La Svizzera è, infatti, esattamente il contrario: una federazione fortissima e centralizzata che devolve ai Cantoni solo quello che intralcerebbe la Grosse Politik di Berna.

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