Il recupero dello spirito dei Tory, di Grey Connolly

Qui sotto un articolo molto significativo che offre una chiave interpretativa originale dell’esito delle elezioni britanniche e della scelta dirimente, oggetto centrale del contenzioso politico, della Brexit- Il testo offre spunti particolarmente interessanti per spingere anche in Italia ad una analisi della trasformazione delle correnti politiche che rifugga dall’ostinata collocazione della totalità di esse nei vecchi parametri di destra/sinistra degli ultimi tre decenni. Una dinamica particolarmente difficile da decifrare per le grette ambiguità e la scarsa consapevolezza di classi dirigenti italiche così timorose e inette nell’affrontare gli scenari geopolitici e i problemi interni al paese da nascondere i termini sostanziali del contenzioso sul tappeto. Un atteggiamento che impedisce di cogliere le possibilità di costruzione di un blocco sociale e politico alternativo sufficientemente ampio e maggioritario e di comprendere la natura del dibattito sia pure sotto traccia in corso in particolare nelle formazioni politiche riemerse o emerse negli ultimi tempi come la Lega e il M5S. Una scarsa lungimiranza che sta portando alla crisi e relegando alla insignificanza le nasciture formazioni che continuano a fibrillare nel cosiddetto bacino sovranista_Giuseppe Germinario

Il recupero dei Tory

Grey Connolly

“Signori, il partito Tory, a meno che non sia un partito nazionale, non è niente.” —Benjamin Disraeli

Nella sua ultima campagna nel 1951, il Primo Ministro laburista, Clemente Attlee, concluse il suo discorso alla conferenza laburista citando il Gerusalemme del poeta William Blake:

Non smetterò di combattere mentalmente,
Né la mia spada dormirà nella mia mano:
Finché non abbiamo costruito Gerusalemme,
Nella terra verde e piacevole dell’Inghilterra.

Mentre Attlee si accingeva a perdere l’incarico a favore di Winston Churchill nel 1951 – il Labour sarebbe rimasto senza potere per 13 anni – è stato il Labour di Attlee che ha costruito gran parte dello stato britannico su quello che il governo di Churchill in tempo di guerra (in cui Attlee aveva servito come ministro) aveva creato durante la seconda guerra mondiale.

Clemente Attlee e il suo governo laburista avevano arruolato la Gran Bretagna nella NATO, costruito un’arma atomica britannica, sostenuto le cause del mondo libero in Grecia e Corea del Sud e costruito gran parte dell’establishment della sicurezza e dell’intelligence alleata che, fino ad oggi, attraversa il globo. Anche il peggior critico riconoscerebbe il ruolo svolto nella creazione della Gran Bretagna moderna da Clement Attlee e, anche, dal suo segretario agli esteri, l’ex leader sindacale Ernest Bevin, che Churchill considerava il miglior laburista conosciuto nella sua vita. Come Margaret Thatcher direbbe di Attlee, ‘Ero un suo ammiratore. Era un uomo serio e un patriota. Era tutto sostanza e niente spettacolo. ‘ L’altra creazione di Attlee – che, va notato, era sostenuta sia dai conservatori che dai liberali (il progenitore del SSN, Sir William Beveridge, era lui stesso un liberale) – era il National Health Service, che nessun politico britannico attenta se non al rischio della propria carriera politica.

Se Churchill e lo spirito di sfida a Dunkerque e alla Guerra Lampo si aggirano sempre dal lato conservatore della politica, mettendo in ombra lo stigma dell’appagamento di Chamberlain, così lo spirito pervade il governo di Major Attlee, timido avvocato e coraggioso e dignitoso veterano di Gallipoli e del fronte occidentale, che guidò una Gran Bretagna formalmente vittoriosa attraverso la sostanza di un austero dopoguerra.

Cito Attlee e Churchill, ma dovrei anche menzionare l’ex primo ministro Harold Macmillan, uno degli ultimi grandi del partito Tory. A modo loro, tutti e tre gli uomini sono stati gli ultimi veramente britannici tra i recenti primi ministri: tutti avevano condiviso le esperienze formative delle trincee della Grande Guerra, tutti erano rimasti inorriditi dalle conseguenze di quella guerra e quindi dagli effetti della depressione sulla società britannica, ciascuno aveva ricoperto i ruoli più critici nel secondo sforzo di guerra della Gran Bretagna, e tutti furono, fondamentalmente per il nostro tempo, o profondamente contrari alla Gran Bretagna che si impigliava nel progetto europeo o, nel caso di Macmillan, fingevano semplicemente di essere entusiasta.

Nel mentre, in questo 2019, questi uomini potrebbero apparire come fantasmi di un passato lontano, la verità è che questi tre uomini e le loro eredità non sono mai stati così rilevanti negli ultimi tre anni dal referendum sulla Brexit, in particolare in questi ultimi giorni, dal terremoto elettorale del 12 dicembre. Prendendo in prestito da Sir Isaac Newton, se Boris Johnson ha visto più avanti di qualsiasi altro nel futuro elettorale, è perché Johnson era disposto a guardarsi indietro e quindi poggiarsi sulle spalle di giganti come questi tre uomini.

Bisogna dirlo, gli inglesi sono sempre stati i più strani e diffidenti riguardo il progetto europeo. Gli inglesi avevano combattuto Napoleone, il Kaiser e i nazisti, in lunghe guerre, e avevano mantenuto un impero globale sul quale, si diceva, il sole non tramontava mai. L’Unione europea era, al contrario, una confederazione formata dai francesi e dai tedeschi – i vecchi nemici – e, con loro, da quelle “nazioni” che erano state le loro conquiste storiche. Gli inglesi non si erano mai arresi a Parigi e a Berlino e, nel corso dei secoli, avevano sempre combattuto contro di loro, con le parole di Churchill, “se necessario, da soli”. La consapevolezza britannica di se stessa fu forgiata nella dura sfida con i nemici continentali e con i loro sconvolgimenti: un duro Tommy agita perpetuamente il pugno, con aria di sfida, contro il nemico storico. Quindi, in termini storici, la questione elettorale, specialmente dopo il congedo del 2016, riguardava sempre la nazione britannica, questi “isolani offshore”, la loro storia e il loro futuro.

Le elezioni generali del 2019 sono state, quindi, più rilevanti della fortuna di qualsiasi singolo politico, e certamente non sono state decise dalla biografia di una sola persona, nemmeno da una figura controversa come il leader laburista, Jeremy Corbyn. La sua biografia colorata o sovversiva, a seconda del punto di vista, era ben nota nel 2017, quando Corbyn ha fatto molto bene alle elezioni britanniche in cui, secondo la saggezza convenzionale, non era selezionabile. Tutti sapevano tutto di Corbyn il radicale nel 2017 eppure milioni avrebbero votato ancora per Corbyn e il suo partito. Non c’era nulla che impedisse a Corbyn di fare altrettanto bene nelle elezioni generali del 2019.

No, ciò che è cambiato negli ultimi due anni è stato il cambiamento sia dei conservatori che dei partiti laburisti. I Tories sono tornati alle loro posizioni storiche di sostegno alla società del dovere e all’opposizione a un progetto europeo “straniero”, mentre il Labour ha cessato di puntare ai voti della sua gente, come Corbyn sembrava aver promesso nel 2017, e invece ha puntato al “New Labour “per strattonare indietro il partito e guidarlo verso la destinazione preferita della” terza via “blairiana: la Gran Bretagna come solo un’altra stella sulla bandiera europea. In qualche modo il partito che Corbyn ha conquistato nel 2015 ha voltato le spalle, ancora una volta, non solo alla fiera tradizione orgogliosa e elettoralmente proficua di Attle, ma, sulla questione stessa dell’Europa, allo stesso Corbyn, per tornare invece, ancora una volta, per ragioni che nessuna persona ragionevole può articolare, al partito londinese di Tony Blair.

Dal 2017 in poi, con, prima, Theresa May e poi Boris Johnson, i conservatori, infine, hanno voltato le spalle agli eccessi di Thatcherismo degli zombi e alle infiltrazioni liberali degli anni ’80, per riportare i Tories dove un tempo si trovavano come un partito naturale di governo per la maggior parte dei britannici. Sia May che Johnson sono animali politici – sono ex studenti politici e non veri credenti – e non sono altri Churchill. Ma erano entrambi abbastanza esperti da sapere che la vecchia filosofia Tory – l’etica di Pitt e Wilberforce, che avevano resistito a Napoleone e abolito la tratta degli schiavi, e il Torismo di ” una unica nazione ” di Disraeli, che aveva dato il voto al lavoratore —È stato quello con il più ampio richiamo storico e che, una volta fatto la campagna, aveva, prima di Heath, Thatcher ed Europa, assicurato un’egemonia conservatrice sui banchi della Camera dei Comuni. Con il Whiggismo di Thatcher e John Major esorcizzato, si potrebbe vedere il rilancio dell’ideale di “Red Tory”, in particolare nella frase di maggio, “Riusciamo o falliamo insieme”.

Allo stesso tempo, anche il partito Labour parlamentare britannico era cambiato e divenne un partito del “remain”. Il Labour che diventava un partito del “remain” era, semplicemente, un disastro moralmente, oltre che un disastro a livello elettorale. I minatori di Durham, per tutta la loro storia e fatica, non potevano mai, secondo la stima del New Labour, importare tanto quanto le classi generose della City, un calcolo che, se fatto in tutto il Regno Unito, avrebbe portato alla rovina nelle urne .

Guardando alla storia del Labour, anche il peggior critico di Jeremy Corbyn ammetterebbe che i suoi vecchi predecessori della sinistra, come Hugh Gaitskell e Tony Benn, qualunque cosa avessero sbagliato, avevano ragione di opporsi all’entrata britannica e quindi all’adesione all’Unione Europea, la Comunità e Unione Europea. Gaitskell riconobbe, giustamente, che l’adesione al progetto europeo sarebbe stata la fine della sostanza di uno stato-nazione britannico, mentre Benn, più chiaramente, vide l’ovvio problema posto dalla Gran Bretagna che si univa a qualsiasi istituzione in cui il popolo britannico non poteva liberarsi dei loro presunti governatori. Che gli ultimi tre anni di ostruzionismo di Bruxelles e dei rimanenti abbia visto adempiere le loro profezie è semplicemente la più amara delle ironie.

Quindi, al momento del circo di Westminster fatto di ostruzione e contenzioso sulla Brexit nel 2019, quello che si vedeva era un partito Tory che cresceva solo nel suo appello alla centralità della Gran Bretagna, mentre il Labour si era progressivamente incastrato nel vicolo cieco del Remainerismo. Forse non sorprende che Corbyn non potesse vedere la trappola che aveva consentito al suo partito di organizzare per sé, pensando che l’approvazione sui social media del “Westminster Village” avrebbe superato l’ovvia richiesta, specialmente nelle aree di dissenso del Labour, per la partenza britannica dall’Unione Europea. Le vittorie del partito Brexit di Nigel Farage alle elezioni europee di maggio sono state un messaggio che il nuovo partito laburista riteneva di poter ignorare. Quel Farage stava ottenendo il sostegno nelle stesse aree della Gran Bretagna in cui l’eredità di Attlee era ed è più apprezzata; un evidente presagio del destino elettorale volutamente ignorato da un media privo di cognizione.

Il risultato della ribellione elettorale del 12 dicembre è che i Tories hanno infranto il “Muro rosso” settentrionale e conquistato seggi nel nord del Galles e di Inghilterra che, finora, non sono mai stati o quasi mai rappresentati se non dai laburisti. Non si trattava solo di un’elezione, ma di una ribellione contro un’istituzione politica che aveva trascorso più di tre anni nel tentativo di negare la Brexit che 17,4 milioni di britannici (di ogni classe e provenienza) avevano sostenuto con i loro voti.

I conservatori di Boris Johnson hanno ora una schiacciante maggioranza parlamentare e un mandato rinnovato – il terzo dopo il referendum del 2016 e i Tories vincitori delle elezioni generali del 2017 su una piattaforma di congedo – per portare la Gran Bretagna, finalmente, fuori dall’Unione Europea. Ciò che della sovranità britannica è stata persa in quasi 50 anni fa sarà ora recuperata. Resta la sfida dei conservatori di riunire il Regno Unito, di ricucire le ferite dell’Unione britannica e, inoltre, di garantire che la frangia celtica britannica, così alienata da un’élite londinese e da un’economia finanziaria, ritenga che le loro legittime lamentele vengano affrontate all’interno dell’Unione britannica. Come Disraeli, il fondatore del moderno partito Tory, ha giustamente osservato: “Non c’è nulla di meschino, gretto o esclusivo nel vero carattere del Toryismo. Dipende necessariamente da simpatie allargate e aspirazioni nobili, perché è essenzialmente nazionale “.

Considerando più a lungo, tuttavia, il futuro dei Tories come movimento politico, è il caso che, almeno dalla Rivoluzione francese, la ragion d’essere del conservatorismo in tutto il mondo di lingua inglese era e rimane l’utilizzo della legge e del potere dello stato per aiutare a conservare e tenere insieme la società costituente. Non si tratta solo di rendere giustizia, ma di riconoscere la realtà che le ingiustizie irrisolte e i sistemi truccati seminano semplicemente i semi del disordine futuro.

A tal fine, è giunto il momento che Tories (non solo nel Regno Unito, ma in tutto il mondo di lingua inglese) deplori, ancora una volta, la distruzione spesso sfrenata delle comunità ad opera del capitalismo e, nelle parole di una generazione Tory più anziana, ripudiare gli aspetti spiacevoli e inaccettabili del capitalismo. In breve, è passato molto tempo per scacciare i Whigs e le loro repellenti perversioni ed egoismi dai ranghi della Destra. La missione di Tory è, ancora una volta, far rispettare lo stato di diritto, garantire la sicurezza e la solvibilità dello stato-nazione e, ancora una volta, inclinare la cultura e i suoi costumi a favore di ciò che rende una vita fiorente e virtuosa, come soprattutto a migliorare la vita delle classi lavoratrici, medie e, soprattutto, regionali e rurali. È tempo che un toryismo di ” noi” sostituisca l’insidioso Whiggism di ” me” .

A distanza di un secolo, possiamo vedere che il socialismo è stato provato e ha fallito, e dovremmo anche ammettere, con la fine della “post guerra-fredda”, che anche il liberalismo è stato provato e ha fallito. Tra i popoli di lingua inglese, in particolare, il socialismo e il liberalismo, nella loro avarizia e laicità, sono credenze estranee. Entrambi erano credi di minoranze rumorose ma piccole, che cercavano di usare la legge e lo stato per attuare il loro utopismo – sia di guerra di classe che di indulgenza individuale – ai danni di famiglie e comunità che desideravano controllare i propri destini e vivere la propria vita.

Insomma, la lezione delle convulsioni elettorali degli ultimi anni non riporta a Destra o Sinistra, o semplicemente insider contro outsider, ma, più semplicemente, che la nazione conta più delle astrazioni liberali. E quindi che l’abbraccio bipartisan del liberalismo – da Thatcher a Major a Blair a Brown a Cameron – aveva portato a società grossolane, e in una frase, perennemente in pericolo di “disgregazione”. Il problema non è risolto da più statalismo ma da un senso di solidarietà comunitaria: l’idea biblica che abbiamo doveri, diritti, obblighi e libertà, che siamo concittadini della res publica insieme, che siamo, infatti, custodi di nostra sorella e nostro fratello.

È opportuno, quindi, finire, come ho iniziato, con la citazione di Gerusalemme di Attlee. Sarebbe difficile immaginare un leader laburista, in particolare di stampo Blairista del brutto “terzo wayism”, sapendo chi era William Blake o quali domande Blake poneva nella sua poesia, figuriamoci seguendo l’esempio di Attlee. Le domande dei liberali moderni sono molto più “razionali”: che cos’è ” moderno “? Cosa è ” progressivo “? Cosa penseranno gli altri di noi? La protesta di Blake di due secoli fa contro la distruzione della Gran Bretagna tradizionale da parte della rivoluzione industriale sembra quasi singolare per il liberale moderno, sempre desideroso di seguire il “progresso” ovunque il suo zeitgeist porti, qualunque sia il costo.

Eppure la poesia di Blake sarebbe diventata, nel secolo scorso, l’inno nazionale cantato da così tanti perché è stato reso popolare e messo in musica da Sir Hubert Parry nel 1916 durante il momento più critico del trauma della Grande Guerra. Le parole di Blake, scartate ai suoi tempi, sarebbero diventate l’inno nazionale britannico, cantato in chiese, scuole, campi da calcio e in lontani teatri di guerra. La popolarità e la longevità dell’inno di Blake e la sua determinazione a recuperare ciò che era stato perso, parla di un antico desiderio britannico di ” casa “.

Quando questa storia recente e queste elezioni sismiche, a un secolo dalla Grande Guerra, guardando al futuro, le vecchie domande si erano sempre presentate al popolo britannico: quali saranno le relazioni britanniche con l’Europa? E come preservare il meglio e riformare il peggio di “casa” propria? Dopotutto, esiste una società contraria al Thatcherismo, e ci sarà ancora uno stato-nazione indipendente contro la Terza Via?

Per il prossimo futuro, la prima domanda è stata risolta dagli elettori, mentre la seconda è nelle mani del nuovo parlamento a maggioranza conservatrice.

L’ultima domanda – che dire di noi? – rimane la più interessante su cui riflettere. I proclami mentali di cui parla Blake saranno traditi per compromessi rassicuranti? Le spade dormiranno in mani troppo timide per combattere buoni combattimenti? Gerusalemme sarà costruita in terre verdi e piacevoli? Tutte queste domande eterne attendono ancora le loro risposte.

Grey Connolly è avvocato e scrittore di Sydney.

https://meanjin.com.au/blog/the-tory-restoration/?fbclid=IwAR1LHNri9iEApLZIZsDeGNtk7ePI9y_zlSJpWTc7LZVLTCMj9SM1py_I54A

Bibbiano sei mesi dopo, con Paolo Roat

A sei mesi dalla formalizzazione delle indagini sulla gestione degli affidamenti dei minori a Bibbiano, la questione, dopo anni di sottovalutazione e di compiacenze , ha assunto finalmente una rilevanza nazionale. Manca ancora la consapevolezza che la stessa abbia una dimensione nazionale che riguarda la gran parte delle province. Ne parliamo ancora una volta con Paolo Roat, Presidente Dipartimento Tutela Minori del CCDU (www.ccdu.org)_Giuseppe Germinario

Sardine e sfera pubblica, di Vincenzo Costa

Sardine e sfera pubblica
Un’analisi filosofica

Il fenomeno “Sardine” ha suscitato una vasta discussione e tornare su di esso potrebbe essere ozioso. E tuttavia, vi è un’angolatura che non ho visto emergere, e che forse vale la pena di sorvegliare, a partire dalla domanda: se a minare la democrazia è lo svuotamento della sfera pubblica, il fenomeno sardine rappresenta qualcosa che rivitalizza la sfera pubblica o è, invece, un suo ulteriore momento di tracollo? Rappresenta un elemento di ripresa democratica o solo un momento dell’irreversibile crisi della democrazia?

Questioni non filosofiche
Prima di affrontare la questione filosofica è bene circoscriverla, e a questo fine è necessario escludere le altre domande, tutte pertinenti e necessarie, ma non di carattere filosofico, e su cui del resto esistono molti resoconti e riflessioni interessanti facilmente rintracciabili su FB. Le sardine sono state “progettate”? Scadono con le elezioni emiliane? Esisterebbero senza i media che le fanno esistere? Servono a drenare voti dal M5s verso il PD? Sono funzionali al PD o, sfuggendo di mano a chi le ha inventate, potrebbero essere il becchino del vecchio PD?

Tutte questioni serie, che qui lasciamo da parte, poiché implicano un’analisi empirica che non è il nostro tema. Il nostro tema è appunto se esse sono un segno di vitalità democratica o un segno di decadenza irreversibile della democrazia e se rappresentano un avanzamento o una regressione culturale. Le sardine sono un elemento che, se non certamente di matrice socialista, è almeno di radice liberale? O rappresentano una rottura con lo stesso pensiero liberale, almeno nei suoi momenti più alti? Per rispondere a queste domande cercherò di indicare alcune caratteristiche che secondo alcuni pensatori fondamentali del pensiero liberale sono essenziali alla sfera pubblica democratica.

Alcuni problemi filosofici posti dal movimento delle sardine

1) Secondo la Arendt, «agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano» (Vita activa). Dunque, un movimento rende viva la sfera pubblica in quanto prende posizione, genera magari conflitto, perché nel conflitto e nel dissenso le identità prendono forma. Se il dissenso viene demonizzato, si sterilizza la sfera pubblica, la si svuota, e se un movimento assume come proprio programma questa demonizzazione, chiamandola “odio”, allora mira a sterilizzare la sfera pubblica.

2) Secondo Amartya Sen la sfera pubblica è decisiva perché svolge una funzione protettiva, «perché dà voce alle persone svantaggiate o trascurate» (L’idea di giustizia). In questo modo si rivitalizza la democrazia, perché questa diviene un luogo dove pretese di giustizia possono essere fatte valere, ed è chiaro che avanzare pretese di giustizia significa anche sviluppare sentimenti di odio verso privilegi, prebende e familismi: l’odio contro l’ingiustizia è un cardine della democrazia. Ora, se un movimento si rifiuta sistematicamente di dire qualcosa, di dare voce a qualcosa, e se si presenta come autoreferenziale, esso mira a creare una sfera pubblica che ha perso la propria funzione protettiva. Non da voce a niente e criminalizza chi cerca di dare voce e chi, sentendosi vittima di ingiustizia, esige un riconoscimento e un mutamento delle regole che presiedono all’ingiustizia reale.

3) Indipendentemente dalle intenzioni – e io non ho dubbi che le persone che partecipano a quelle adunate siano persone perbene e di buoni sentimenti – se guardiamo il fenomeno delle sardine dal punto di vista dei suoi effetti, dunque sistemico e indipendentemente dalle intenzioni delle singole persone e anche degli organizzatori, un dato emerge con chiarezza: esso ha imposto a tutti noi (me compreso in questo istante) di parlare di loro. Determinano l’agenda di ciò che può essere discusso, e poiché non veicolano altri contenuti, essi non permettono che si parli di problemi: impongono se stessi alla discussione. Così facendo, tuttavia, saturano la discussione pubblica e RIMUOVONO tutti gli altri problemi, che non trovano più spazio nella sfera pubblica (mediatica): i temi della disoccupazione giovanile, della deindustrializzazione, dell’immigrazione etc., cioè tutti i problemi dotati di contenuto spariscono dalla visibilità. In questo modo, la ragione critica non può più esercitarsi, gira a vuoto, non ha oggetti e temi su cui agire, per cui è la nozione stessa di ragione ad essere rimossa ed emarginata. Per così dire, il “sapere aude” del buon Kant, il suo abbi il coraggio di pensare viene rimosso, poiché pensare significa criticare, e la differenza tra criticare e avere sentimenti di “odio” (l’uso delle parole conta, e basterebbe dire “di indignazione” per cambiare tutto) diviene colpa: gli indignati non esprimono indignazione verso il sorpruso, il privilegio e l’ingiustizia, ma solo odio.

4) Edmund Husserl ha caratterizzato il discorso come una funzione che è all’opera se e solo se si parla di qualcosa, su qualcosa e in vista di qualcosa. Vietandosi e vietando un discorso su contenuti il fenomeno sardine modifica (forse irreversibilmente) la modalità discorsiva nella sfera pubblica e della ragione democratica: viene imposto un metadiscorso, cioè non si dice qualcosa, ma si opera un’interdizione. Il fenomeno delle sardine mi pare cerchi di imporre un discorso che non fa vedere il reale ma, ponendo condizioni di “forma espressiva”, interdice un discorso che deve necessariamente vertere su contenuti, e dunque su interessi: si impone il silenzio, e non appena si parla si rischia di essere tacciati di propagatore di odio.

In questo modo viene rimossa la vitalità stessa dei sistemi democratici, poiché, per dirla con Lyotard, «parlare è combattere, nel senso di giocare, e gli atti linguistici dipendono da un’agonistica generale» (La condizione postmoderna). La sfera pubblica non può somigliare al salotto borghese e a un luogo di buone maniere senza menomare la sua vitalità e svuotare di significato la democrazia.

Equiparare violenza verbale a violenza fisica significa esercitare una violenza enorme, imporre un modello di discorso che appartiene solo a un ristretto gruppo e imporlo a tutti. In questo senso, il fenomeno delle sardine opera una torsione della sfera pubblica, poiché genera la colpa: chiunque nutra sentimenti di ostilità, maturati a partire dalla sua condizione svantaggiata e dal fatto di subire privilegi, deve sentirsi colpevole, deve interpretare se stesso come invidioso.

ESIGENZE DI GIUSTIZIA VENGONO INTERPRETATE E DIFFUSE COME ESPRESSIONI DI ODIO.

5) Tutto questo è solidale con l’idea secondo cui non si deve prendere posizione su niente, perché a questo fine ci sono “i competenti”, questa entità un poco mitica che ha preso il posto di Dio e rappresenta il nuovo dio nell’epoca della secolarizzazione. Ed in questo modo si sviluppa un performativo potente: si prefigura la soppressione della democrazia, dell’idea secondo cui le decisioni che riguardano tutti devono essere prese da pochi, e di fatto, nel suo apparente non prender partito, il fenomeno delle sardine prende partito su una questione epocale e fondamentale, che implica la fine della democrazia: propone l’idea secondo cui i problemi politici sono in realtà problemi amministrativi, per cui la politica perde di senso e la partecipazione rappresenta un limite alla razionalità delle decisioni prese. Una prospettiva temuta da un liberale come Habermas (si veda Scientifizzazione della politica e opinione pubblica) e tristemente prevista da Lyotard.

6) Infine, se compariamo il liberalismo di Locke con quello di John Stuart Mill emerge come il fenomeno delle sardine rappresenti, da un punto di vista culturale, un FENOMENO REGRESSIVO, poiché dalla prospettiva di Mill regredisce a quella di Locke. Per Locke, infatti, la sfera pubblica non ha funzioni politiche, poiché il potere dell’opinione pubblica è un mero potere di “privata censura”: la sfera pubblica non deve servire a formare una volontà politica, e in questo senso non vi è spazio per una sfera pubblica democratica. Il potere di decidere non appartiene al popolo e l’idea fondamentale della nostra carta costituzionale non sarebbe stata recepita. Al contrario, Per Stuart Mill «le classi lavoratrici diverranno anche meno disposte di quanto non siano attualmente a lasciarsi guidare e governare, e dirigere nella via che dovrebbero seguire, dalla semplice autorità e prestigio dei loro superiori».

Prefigurando un liberalismo democratico, Mill notava che «i poveri sono sfuggiti alle redini dei loro educatori e non si possono più governare o trattare come bambini. È alle loro stesse qualità che si deve ora affidare la cura del loro destino». E’ così evidente che, dal punto di vista filosofico, siamo di fronte a un regressione dal liberalismo avanzato di Mill a quello di Locke. O, se volete, ad un abbandono del liberalismo di Mill, di Tocqueville e di Schumpeter, a favore di quello di von Hayek, secondo cui bisogna sottrarsi alla “tirannide” democratica, sostituendo alla democrazia una demarchia, al cui interno al popolo non è concesso di governare, perché, appunto come indica Sartori, si tratta, insomma, di affidare le decisioni importanti concernenti la libertà e il mercato a istituzioni diverse da quelle democratico-rappresentative (Hayek, legge legislazione giustizia), cioè ai competenti.

In questo senso, il fenomeno Sardine non rappresenta solo una rottura con tutta la tradizione socialista, ma anche una rottura con il liberalismo democratico: un’involuzione del pensiero liberale. Non è il terreno di resistenza contro le tendenze illiberali della destra, ma un altro aspetto di un medesimo processo di decomposizione delle società democratiche. Con il movimento delle sardine il processo di sterilizzazione e svuotamento della sfera pubblica ha raggiunto una soglia critica.

 

La Turchia nel Mediterraneo, di Antonio de Martini

Il Mediterraneo sta tornando ad essere un campo di azione strategico nelle dinamiche geopolitiche. Il Mediterraneo non è più da tempo il Mare Nostrum ed è sempre meno il mare di ogni paese rivierasco. L’intervento militare in Libia nel 2011 voleva essere un tassello importante della politica di neutralizzazione di qualsiasi velleità di autonomia politica di un paese arabo e nordafricano, di ghettizzazione e isolamento della Russia di Putin ad opera degli Stati Uniti di Bush e Obama. Una politica del caos che avrebbe dovuto rendere impraticabili ed impervi alle potenze emergenti di Russia e Cina quei territori. Avrebbe dovuto riservare momenti di gloria e quote di bottino a potenze regionali come la Francia, perfettamente allineate al corso obamiano. A distanza di otto anni quell’intervento ha messo invece a nudo i limiti di quella strategia, la velleità e la vanagloria delle ambizioni francesi, la drammatica remissività, la fellonia suicida, l’inconsistenza e crollo di credibilità dell’azione politica dell’Italia. Ha consentito al contrario l’emersione di potenze regionali molto più dinamiche ed efficaci del blocco dei paesi europei, ha accentuato le contraddizioni interne alla NATO, interrotto la fase di arretramento della Russia, stabilizzato la presenza cinese. Un dinamismo che sta spiazzando soprattutto i paesi europei. https://www.nordicmonitor.com/2019/12/full-text-of-new-turkey-libya-sweeping-security-military-cooperation-deal-revealed/?fbclid=IwAR13hKfY9YN7j_lrzd10wIoRTN6qRACPRJPJQ-xFikwLY1m0vfUco8iuwHY Buon ascolto_Giuseppe Germinario

storia e ricordi, di Gianfranco la Grassa

UN PO’ DI STORIA RECENTE PER GLI IGNARI

 

  1. Da qualche punto debbo cominciare questa mia breve (e fin troppo succinta) memoria della storia che abbiamo attraversato da molti decenni a questa parte. Intanto partirò da una premessa di tipo personale. Ho aderito al comunismo nel 1953. Mi trovai subito immerso nei dubbi e perplessità, direi perfino in opposizione, quando uscì l’articolo di Togliatti su “Nuovi Argomenti” nel 1956 con la “trovata” della “via italiana al socialismo”. In quell’anno fui contrario al XX Congresso del PCUS (tenutosi a febbraio) e poi ammirai l’intervento di Concetto Marchesi all’VIII Congresso del Pci (verso la fine del ‘56), in cui svillaneggiò Krusciov, il meschino ricostruttore delle vicende dello stalinismo in chiave puramente personalistica e come si trattasse del frutto di una psiche “disturbata” e tendenzialmente criminale; con metodo insomma del tutto simile a quello, criticato dai comunisti (almeno da quelli che conoscevano un po’ il marxismo), quando si parla di Hitler folle e “mostro”, ricostruendo la storia in base a simili fatue categorie interpretative. Ricordo che Togliatti andò a stringere la mano a Marchesi dopo l’intervento e ciò rinsaldò il mio atteggiamento critico di fronte a quello che ho sempre considerato l’opportunismo dell’allora segretario piciista. Nell’ottobre del ’56 fui senza esitazioni per l’intervento in Ungheria, non approvando però l’atteggiamento incerto dei sovietici (una prima mossa aggressiva frettolosa e poco giustificata, poi l’arresto dell’operazione, infine la repressione troppo brutale).

Accettai inoltre quel fatto per ragioni che oggi si direbbero “geopolitiche”. Ritenevo un disastro che si sbriciolasse il campo avverso a quello atlantico (guidato e comandato dagli Usa). Cominciai tuttavia a chiedermi quale “coincidenza” ci fosse tra il “socialismo” imparato sui testi marxisti e quello in atto. Si ammette sempre una discrepanza tra teoria e realizzazioni pratiche, tuttavia mi sembrava che fosse venuta in evidenza una distanza “leggermente” eccessiva. Fui poi disturbato dal comportamento dei vertici del PCI (della “via italiana al socialismo”) nei confronti di chi traballò e fu preso da naturali dubbi, come ad es. Di Vittorio, di cui si dice che fu perquisito a casa e intimidito da parte di una sorta di “polizia interna” (che a mio avviso era giusto esistesse, ma non per agire con somma rozzezza e brutalità) mossa da quello che si riteneva allora una specie di “ministro dell’interno” del partito (lo stesso che nel 1978, in costanza di rapimento Moro, fece il viaggio, detto ridicolmente “culturale”, negli USA). E’, però, soltanto un “si dice”, mi raccomando, non prendetelo per sicuramente vero.

L’anno successivo (’57), fui comunque sostanzialmente dalla parte del “gruppo antipartito” nel PCUS (Malenkov-Molotov-Scepilov-Kaganovič), perché Krusciov mi appariva un opportunista rozzo e furbastro. I quattro furono espulsi dal partito, dopo alterne vicende: iniziale maggioranza nella Direzione del partito e poi in minoranza nel successivo Comitato Centrale, convocato d’urgenza dal segretario e che, come sempre accade quando si passa ad un numero piuttosto consistente di “esseri umani”, era zeppo di tirapiedi silenziosi e conformisti. Ciò mi allontanò ancor di più dalle posizioni del PCI, sempre allineato con Mosca e dunque ormai con la mediocrità del krusciovismo.

Da allora accentuai la mia critica al partito in quanto “revisionista” (pensavo ad una riedizione, “riveduta e s-corretta”, del kautskismo) e mi avvicinai sempre più ai comunisti cinesi (allora non ancora divisi in “linea nera” di Liu-sciao-chi e “rossa” di Mao, divisione che avvenne nel ’66 con la “rivoluzione culturale”; è ovvio che le definizioni di “nera” e “rossa” erano di marca maoista). Quando nel ’60 si svolse a Mosca il Congresso degli 81 partiti comunisti (di tutto il mondo), si precisò la lontananza fra cinesi e russi e mi sentii viepiù consenziente con i primi. Infine vi fu la “crisi di Cuba” (ottobre 1962), su cui occorre un racconto a parte, data la somma di bugie raccontate. Nel 1963, si precisò con nettezza il dissidio ormai inconciliabile tra PCUS e PCC (in cui era ancora in auge Liu-sciao-chi) con il violento scambio di accuse contenute nelle lettere che si scambiarono i comitati centrali dei due partiti. Alle critiche al PCUS, i cinesi aggiunsero due importanti interventi (in specie il secondo) contro Togliatti e il PCI. Da allora ruppi in modo definitivo con il partito; per un bel po’ di tempo mi aggirai nella gruppistica (quella di tendenza m-l), da cui però mi allontanai nel corso degli anni ’70 (in specie dopo la morte di Mao nel settembre 1976).

Poiché ero però allievo del maggiore economista di tale partito (fra l’altro, l’unico citato assieme a Togliatti nel secondo degli interventi cinesi contro i comunisti italiani), in definitiva mantenni aperti i canali con esso e quindi ebbi modo di sapere molte “cosette”. In fondo ho avuto contatti amichevoli con membri dei vertici del PCI (sorprenderebbe sapere qualche “grosso” nome, che non posso fare), senza mai chiedere alcun favore ma solo notizie (assai interessanti e sovente non di dominio pubblico). Frequentai anche molto “Critica marxista”, fui pubblicato dagli Editori Riuniti, ecc. ecc. Tuttavia, ero nel contempo impegnato in tutto quell’ambaradan che fu detto “extraparlamentare”; vedevo come fumo negli occhi, perché ne rilevavo le ascendenze fondamentalmente anticomuniste (non solo antipiciiste), le correnti poi dette “operaiste” (e più tardi dell’“autonomia”) e fui più vicino ai cosiddetti emme-elle, ma certo con tanto sconcerto per la sclerosi e dogmatismo delle loro posizioni, salvo rarissimi casi.

  1. Passarono gli anni, morì nel giugno ‘63 il “Papa buono” (il primo della “S.S. Trinità” costituita da Giovanni XXIII, Kennedy e Krusciov), a novembre fu assassinato il presidente americano, nell’agosto ’64 morì Togliatti e in ottobre fu rimosso il leader sovietico. Si arrivò al fatidico ’68 (preceduto in Italia da un ’67 già turbolento) e anni successivi che, come ben si sa, furono definiti “anni di piombo” (quelli ’70 soprattutto) o del “terrorismo rosso”, mentre invece sono stati anni in cui quest’ultimo (indubbiamente messosi in moto dissennatamente) fu ampiamente infiltrato e sfruttato (insieme a quello, “secondario”, detto nero) per una serie di “giochi delittuosi” posti invece in atto dai vari Servizi dei paesi dei “due campi”. Venni a conoscenza abbastanza presto di quanto fosse falso il “racconto” che si stava facendo (e che continua ancor oggi!) di quel “terrorismo”. Ricordo intanto l’importante evento della repressione sovietica in Cecoslovacchia nel 1968, che questa volta condannai, ma più che altro per critica al cosiddetto “socialimperialismo” Urss e senza aderire minimamente alle idee, anzi aborrite, di Dubcek e soci; idee invece condivise da assai deboli “antirevisionisti”, in particolare dai “manifestaioli” in Italia che mostrarono fin da allora di non essere migliori dei piciisti. Alla fine degli anni ’60 iniziarono “discreti” contatti tra PCI e “ambienti statunitensi”; prese insomma avvio il lento e molto coperto trasferimento del PCI verso “ovest”. In un certo senso, se si vuol fissare una data, si deve indicare il 1969; detto “per inciso”, in quell’anno Berlinguer divenne vicesegretario.

Sembravano allora maggioritari nel partito gli “amendoliani” (il cui n. 2 era Napolitano), corrente (pur se non riconosciuta formalmente in nome dell’unità del partito, che si pretendeva ancora leninista) cui apparteneva anche il mio Maestro, corrente cui si deve l’espulsione di quelli de “Il Manifesto”. Il gruppo amendoliano era considerato appunto l’avversario principale (quello più “revisionista”) nell’ambito del piciismo. In effetti, detto gruppo era sostanzialmente socialdemocratico, critico del socialismo di tipo sovietico; peraltro con critiche non del tutto errate a quello che era un semplice statalismo esasperato, ormai incapace di promuovere un vero sviluppo. Vi era in esso una propensione ormai piuttosto evidente verso il capitalismo; solo moderata da più che fumosi e mai seriamente attuati propositi di sedicenti “riforme di struttura” e di “programmazione democratica” al posto della pianificazione statalista, con idee poco chiare circa la pretesa superiorità delle imprese “pubbliche” rispetto alle “private”. Insomma, fu evidente la debolezza teorica (del “marxismo all’italiana”) e anche l’ambiguità della loro linea politica. Gli “amendoliani” (almeno nella maggior parte) erano comunque contrari all’atlantismo (Usa) e quindi considerati tutto sommato filosovietici nell’ambito del PCI; furono dunque i più radicali avversari dei gruppuscoli extraparlamentari, che oscillavano tra il filo-maoismo (e la rivoluzione culturale) e il dubcekismo opportunista e filo-occidentale (soprattutto apprezzato da quelli del “Manifesto”).

Nel 1972 venne eletto segretario Berlinguer con l’appoggio di un composito assembramento di cui fece parte l’ormai “fu” (almeno per me) amendoliano Napolitano e la sedicente sinistra ingraiana, che aveva fili di collegamento con la gruppistica tramite i “manifestaioli”. Da allora, il cambio di casacca piciista procedette con più sicurezza e, nel contempo, prudenza; venne via via in evidenza l’“eurocomunismo”, l’ideologia che mascherava tale processo e cercava di dare dignità allo spostamento di campo nello schieramento internazionale.

  1. Nel 1967 vi fu il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia (e venne ucciso in Bolivia il Che Guevara, altro argomento su cui occorrerebbe un discorso a parte). Tale colpo di mano militare fu chiaramente appoggiato dagli USA (nella sua politica “ufficiale”), mentre vide ovviamente contrario lo schieramento sovietico e l’insieme dei partiti comunisti occidentali. Quel regime non fu mai ben saldo, pur se si parlò di contatti con ambienti “destri” in Italia e qualcuno ebbe paura di eventi simili pure da noi (il cui unico risultato in definitiva fu il gustoso film di Monicelli “Vogliamo i colonnelli”). Nel 1973 il regime militare greco entrò in piena crisi e l’anno successivo ebbe termine; con l’instaurazione, però, di una “democrazia” apertamente filo-occidentale, di fatto filo-atlantica e pro-Usa, quindi avversaria del campo detto socialista. E questo era comunque il reale scopo perseguito dagli Usa con il colpo di Stato.

Le posizioni tra il 1967 e il ’74 nel nostro campo capitalistico sembravano molto chiare e nette: gli Usa per i colonnelli, l’Europa tiepida, in certi casi perfino antipatizzante ma senza troppo irritare il perno del campo stesso; i comunisti, orientati “ad est”, decisamente avversari dei militari. La politica è però sempre assai meno limpida delle sue apparenze e delle declamazioni “in pubblico”. Dati “ambienti statunitensi” (diciamo così, la qual cosa è in fondo sufficientemente corretta) si rendevano conto della debolezza del regime greco e quindi tramavano sotto traccia pure con l’opposizione “democratica” greca per preparare l’eventuale cambio di regime come poi avvenne. In queste trattative entrava pure una parte dei comunisti greci, la minoranza, mentre la maggioranza restava ostile e vicina all’Urss. La parte minoritaria costituì il “partito comunista dell’interno”, che si collegò con il nascente “eurocomunismo”, il cui centro direttivo si trovava nella parte ormai maggioritaria del PCI. Fu durante quel periodo che si accentuarono (almeno così si può arguire) i contatti tra i suddetti “ambienti statunitensi” e date correnti del PCI e, tramite queste, con il partito comunista greco dell’interno; colloqui non irrilevanti per quanto avvenne poi in Grecia nel 1974: caduta del regime, vittoria elettorale di “Nuova Democrazia”, partito appena fondato da Konstantinos Karamanlis, governo “democratico” (conservatore) che iniziò il suo iter filo-Nato.

In quegli anni, fra l’altro, ebbi modo di venire coinvolto di striscio nella vicenda. Nel 1971 avrei dovuto andare proprio in quel paese e incontrare qualcuno che apparteneva ai “comunisti dell’interno” (i futuri “eurocomunisti” con il PCI). Purtroppo, ho come soli testimoni le mie orecchie e la mia vista; non posso provare per conto di chi ci dovevo andare e chi dovevo incontrare. Da questa vicenda trassi però in seguito idee piuttosto precise su ciò che stava accadendo con i cambiamenti di campo in atto. Alla fine rifiutai di recarmi in Grecia perché mi sembrava troppo pericoloso, ma tutto sommato – come appunto capii meglio un po’ dopo – sarei stato protetto abbastanza (e proprio da certi “ambienti” USA) anche se certamente i colonnelli avrebbero masticato amaro e potevano quindi farmi qualche scherzo tipo “incidente” o qualcosa del genere.

In ogni caso, per quanto all’inizio assai sorpreso della proposta fattami di andare “laggiù” (io ero ben conosciuto come comunista e quindi certo non favorevole a quel regime), pian piano afferrai poi cosa stava avvenendo in certi ambienti dell’“opposizione” in Italia. Di più non posso chiarire, ma ebbi prove discrete di quanto sto raccontando circa gli spostamenti di “campo” in quel periodo. Non compresi comunque subito che aveva preso avvio, tra fine anni ’60 e inizio ’70, lo spostamento di almeno alcune frange della “destra” (amendoliana), che permisero l’ascesa a posizioni di comando nel PCI di coloro che furono fondamentali per il suo lento orientarsi verso l’atlantismo, sempre però assai ambiguo almeno fino all’accettazione della Nato, anche questa iniziata fin dal 1972, ma molto ambigua e “mascherata” per alcuni anni.

General Augusto Pinochet (L) poses with Chilean president Salvador Allende, 23 August 1973 in Santiago.
ANSA

  1. Ancora più rilevanti per comprendere dati fatti riguardanti il “comunismo” italiano (ma anche più in generale) – accaduti in quegli anni, che sono pure fondamentali per meglio valutare il nostro presente, a partire dal periodo susseguente al crollo dell’Urss, alla truffaldina operazione “mani pulite”, ecc. ecc. – furono gli eventi svoltisi nello stesso periodo in Cile. Cerchiamo di essere ordinati, cosa non tanto facile data la somma di eventi, tra cui si deve trascegliere tacendone una buona parte. Se non vado errato – ma certamente ricerche storiche finalmente oneste sarebbero necessarie – nella seconda metà degli anni ’60 vi fu notevole corresponsione di interessi tra settori Dc (con Moro in testa) e il presidente democristiano cileno Eduardo Frei. Gli accordi portarono fra l’altro alla nascita di un’agenzia stampa (con sede a Roma), che si espanse a tutto il Sud America, poi ai tre continenti del Terzo Mondo ed infine su scala globale, autonomizzandosi rispetto all’originario contesto (oggi non esiste più già da tempo). Ciò introdusse anche correnti imprenditoriali italiane in Cile e altri paesi sudamericani, ma non penso proprio che questo abbia infastidito più che tanto gli USA.

Nel 1970, Allende vince le presidenziali in Cile. Frei, da allora, si sposta nettamente verso gli Stati Uniti e certamente non si oppose (penso proprio il contrario) alla preparazione del colpo di Stato di Pinochet dell’11 settembre 1973. Credo non debba esservi nemmeno dubbio che la scelta di Frei abbia determinato frizioni con settori non irrilevanti della Dc italiana e con Moro in particolare. Nello stesso tempo, come già era avvenuto in Grecia, vi furono sicuramente “ambienti statunitensi” che non parteciparono alla preparazione del colpo di Stato, sempre per il principio che è sempre necessario esistano soluzioni di ricambio per l’eventualità della non riuscita di determinati progetti più “radicali”. Indubbiamente, la storia successiva dimostrò che il colpo di Stato di Pinochet fu più solido di quelli dei colonnelli greci, durò sedici e non sette anni. Tuttavia, non credo proprio che abbiano mai cessato di sussistere i suddetti ambigui ambienti negli USA; sempre pronti all’eventuale sostituzione di determinati progetti con altri di tipo detto (ridicolmente) “democratico”.

Il PCI – o meglio certi settori dello stesso, ormai a noi ben noti, già in azione con i comunisti greci (dell’interno) durante il regime dei colonnelli – si mosse in questa situazione che ancora una volta si presentò chiara nella sua “ufficialità”: condanna del colpo di stato da parte del partito italiano (assieme a tutti gli altri partiti comunisti), contrarietà anche di altre forze politiche nostrane (ed europee, contrarietà molto ben contenuta), appoggio smaccato a Pinochet da parte degli Stati Uniti, apparentemente in tutti i loro ambienti poiché è ovvio che le “forze di riserva” si tengano sempre ben coperte e tramino in gran segreto per l’eventualità di diverse soluzioni future. Subito dopo il colpo di Stato, esce in tre puntate (su “Rinascita”) un lungo articolo di Berlinguer (ricordo: segretario dal 1972 per la convergenza dei settori ex amendoliani, di cui già detto, e anche della sedicente corrente di sinistra, ecc. sul suo nome), in cui si condanna ufficialmente il colpo di Stato, si accusano dello stesso gli USA; però…..

Il però era un’apparentemente togliattiana valutazione intrisa di “realpolitik”, che taluni vollero assimilare alla scelta di Palmiro nella famosa “svolta di Salerno” del 1944, necessitata dai patti di Yalta e dal voler evitare la stessa sorte che toccò ai comunisti greci; sorte, lo si scorda sempre, che si compì per essi nel 1949 dopo aver avuto perfino il sopravvento in dati periodi, almeno fino al 1947. Anno in cui si ebbe la rottura tra Jugoslavia e URSS e l’uscita della prima dal Cominform; evento da cui conseguì l’impossibilità di adeguati aiuti (soprattutto dell’URSS) ai compagni greci poiché gli jugoslavi (geograficamente vicini a quel paese) li impedirono. Ci fu poi la sostituzione di Markos (notevole capo militare) con il molle Zachariadis al comando delle truppe comuniste greche con risultati complessivamente catastrofici: annientamento di vasti settori di queste ultime e uccisione di decine di migliaia di militanti.

Berlinguer, con “buon senso” (appunto tra virgolette), ricordò che comunque l’Italia era parte del campo capitalistico (l’“occidente”) strutturato attorno ad un’alleanza militare, la Nato, controllata dagli Stati Uniti. Per evitare che anche l’Italia corresse pericoli di tipo cileno, bisognava secondo il suo parere almeno in parte “abbozzare” e accettare realisticamente la nostra posizione atlantica. In un certo senso, si può dire che da qui parte, o almeno si rinforza, l’idea del cosiddetto “eurocomunismo”, da ritenersi in qualche modo il successore, riveduto e (s)corretto, dell’invenzione togliattiana denominata “via italiana al socialismo”. Qui si pensa meno in termini italiani, nazionali, e invece più europei. Sembrò un allargamento di visione prospettica; in realtà, significò che il Pci, sfruttando la sua posizione di maggiore partito comunista d’occidente (e il più “radicato tra le masse popolari” del proprio paese, chiara impostazione ideologica del problema), si candidò a far da organo di collegamento e traino di tutte le frazioni interne ai partiti comunisti occidentali – primi fra tutti quelli francese e spagnolo, ma con ramificazioni minori pure verso i partiti comunisti orientali (dunque pure in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, paesi “socialisti” in genere) – frazioni ormai preoccupate dell’evidente (salvo che per alcuni “frastornati”) indebolimento dell’Unione Sovietica (soprattutto dovuto alla struttura sociale interna, non tanto quale potenza militare) e che dunque si prepararono cautamente al cambio di campo.

S’intensificarono, tramite alcuni “ambasciatori”, i rapporti tra Pci e i suddetti ambienti statunitensi (quelli delle “soluzioni alternative”), che culmineranno nel 1978, chiudendo solo la prima fase, con il viaggio dell’alto esponente del Pci negli Usa; un viaggio ridicolmente e inutilmente presentato (salvo forse che per la “base”, costituita dai soliti credenti) come culturale, mentre si ebbero molti riservati incontri ben più significativi e coinvolgenti. Riparleremo più avanti di questo viaggio, avvenuto in fortuita coincidenza con il rapimento Moro; fortuita in quanto coincidenza temporale, non ne sono invece sicuro quale rapporto causa/effetto. Le mene “atlantiche” del Pci non avrebbero avuto senso senza l’avvio di quello che fu il “compromesso storico” con la Dc, un compromesso tutt’altro che scevro di antagonismo e di insinuante tentativo piciista di arrivare un giorno a sostituirla come bastione di un regime solidamente pro-occidentale (cioè pro-Usa), nella sostanza meno ambiguo di Dc e Psi verso l’est europeo, gli arabi, ecc. (pur se, ufficialmente, il Pci restò a lungo vicino a personaggi come Arafat, ecc.). Comunque, è tutto da ricostruire storicamente, non come fatto da storici “di sinistra” cui deve andare tutto il nostro disprezzo.

In ogni caso, non mi sembra che la Dc sia rimasta complessivamente tranquilla. Credo che i settori più favorevoli all’avvicinamento del PCI agli statunitensi (e dunque al “compromesso storico”) fossero in sostanza guidati da Cossiga (comunque questi ne fu un esponente assai importante). Costui, dopo “mani pulite”, sembrò prendere negli anni ‘90 posizioni di contrasto con gli USA. Lui stesso rivelò che, quando nella stampa americana s’iniziò a fare troppo spesso il suo nome in merito a quell’operazione giudiziaria, ottenne infine il silenzio minacciando di fare cenno ai contatti tra Stati Uniti e mafia siciliana per favorire la costruzione della base a Comiso con una “opportuna” azione tesa a mitigare la contrarietà dei partiti del cosiddetto arco costituzionale. Non credo siano serviti tanto questi ricatti quanto i rapporti con “amici” statunitensi che zittirono quelli che lo importunavano. Non a caso, ben dopo “mani pulite”, nel ’99, Cossiga (per sua stessa ammissione) fu al centro delle operazioni trasformistiche che portarono al governo D’Alema, giudicato il migliore per un “corretto” comportamento italiano di appoggio incondizionato all’aggressione clintoniana alla Jugoslavia.

  1. Tornando indietro agli anni ‘70, credo che Moro avesse una buona conoscenza dei fatti e fosse molto sospettoso e prudente nei confronti dell’avvicinamento (conflittuale, e non lo si prenda per bisticcio di parole) tra PCI e certi ambienti democristiani, pure loro pronti a notevoli mutamenti di prospettiva su pressione di certi “ambienti” statunitensi. Per quanto posso capire, il dirigente diccì – poi rapito e ucciso; e la si smetta di dire dalle BR – fosse in ciò seguito da Fanfani, mentre Andreotti come al solito si “destreggiò”; pagò più tardi, ma anche da “mani pulite” in poi sopportò in silenzio e con pazienza che passasse la buriana, garantendo una segretezza (di quanto avvenuto negli anni ’70) che infine lo premiò, cosa non accaduta ad altri (ad es. a Craxi, che era stato a suo tempo favorevole a contatti tali da almeno cercare di salvare Moro). All’inizio degli anni ’70, il PSI faceva già da lungo tempo parte del cosiddetto centro-sinistra al governo, ma fu solo dopo il ’76 (ascesa di Craxi, ecc.) che si mise in più accesa competizione con il PCI; e anche la direzione del partito socialista prese atto, secondo la mia opinione, delle pericolose manovre del “nuovo” PCI di avvicinamento agli USA.

Nel ’76 vi fu però (sempre fortuita coincidenza?) la vittoria decisiva dell’“antifascismo del tradimento”, che falsa tutto il significato della Resistenza, divenuta “lotta di liberazione” in pieno appoggio agli “Alleati”, i nostri “liberatori”. Balle mostruose, se si pensa che, come ammise Cossiga (anche se poi ritrattò e negò), l’80% di quell’evento storico – limitato di fatto, nella sua vera rilevanza, al nord Italia (o poco più) quale autentica lotta partigiana e non chiacchiere dei savoiardi e badogliani, poi di fatto avallate almeno parzialmente dall’eccessiva “prudenza” togliattiana – fu guidato dai comunisti. Naturalmente, ci sono molti misteri da spiegare, a partire dalla frettolosa fucilazione di Mussolini con sparizione, almeno così si continua a dire, di importanti carteggi. La scusa fu che, altrimenti, gli Alleati lo avrebbero salvato. Proprio così? Soprattutto gli inglesi e Churchill lo volevano salvo? Non è che certi “comunisti”, magari, eseguendo gli ordini del comando del CLN (con aperta tendenza al compromesso togliattiano dei dirigenti comunisti in quel comando) fecero un favore agli “Alleati”, ma soprattutto agli inglesi, consegnando carteggi tra Mussolini e il premier inglese? Mah!

Resta il fatto che né Moro né Craxi si opposero (c’è da dire: “et pour cause”?) al totale travisamento della Resistenza; non lo potevano, d’altronde, giacché ridimensionava il ruolo dei comunisti, fatto che pensavano ad essi favorevole (sbagliando di grosso!). Furono fin troppo morbidi anche quando ci si prodigò nel dileggio del “fanfascismo”, nelle vignette di Craxi in camicia nera e orbace, ecc. E si trattava di un chiaro sintomo di come il nuovo (falso) antifascismo volesse sfruttare i meriti passati, approfittando di un ceto intellettuale infame che obnubilò ogni effettiva memoria storica, per accusare di fascismo chiunque intralciasse il “compromesso storico”, cioè la “riabilitazione atlantica” del PCI. L’“antifascismo del tradimento” – lanciato fra l’altro con “Repubblica”, giornale non a caso uscito proprio nel 1976 – fece dimenticare l’infamia di badogliani e savoiardi, fu patrocinato anzi da ambienti repubblicani, dichiaratisi semmai eredi di “Giustizia e Libertà” (che ebbe uomini insigni, sia chiaro, non i miserabili allignanti in quel giornalaccio), ben foraggiati dai “cotonieri” italiani, in particolare dalla Fiat e dagli eredi degli ambienti industriali italiani fascistoni fino al 25 luglio ’43 – effettiva caduta del “fascismo” al “Gran Consiglio” diretto da Achille Grandi con arresto di Mussolini e sua “custodia” al Gran Sasso, da cui fu liberato dai tedeschi scesi in Italia dopo il voltafaccia settembrino del Re e di Badoglio – per poi voltare rapidamente gabbana e innamorarsi dei “liberatori” (si dice che alcuni ambienti “industriali” abbiano iniziato segrete trattative con i già chiari vincitori della guerra già a fine ’42).

Quell’“antifascismo del tradimento” attaccò appunto i settori che più sospettavano e temevano il “compromesso storico”, ma che commisero l’errore di non prenderlo di petto con molta energia, cosa che alla fine li perdette. E li attaccò esattamente come fa oggi; chiunque si oppone alle sue losche trame, all’asservimento totale del paese agli Usa, è immediatamente tacciato di fascismo. Va dichiarato senza mezzi termini che questo “antifascismo” è da quarant’anni il veleno responsabile dello sbriciolamento politico, sociale e culturale d’Italia. Ha apportato danni, putrefazione, viltà estrema, servilismo. E’ veramente il più grande pericolo degenerativo che sta correndo il nostro paese dall’Unità ad oggi. O lo si ferma o si è perduti per molti e molti anni. Non lo si ferma, però, con l’altrettanto meschino e antistorico anticomunismo dell’attuale “destra”, né con il liberismo d’accatto; non ci siamo proprio. Occorre ben altra forza politica, che ancora non appare minimamente in formazione; soprattutto perché tre quarti di secolo di “democrazia” (del tutto falsa e imbelle) hanno istupidito anche gran parte della popolazione, perfino le masse più popolari.

 

  1. Dobbiamo fermarci un momento a pensare e analizzare, sempre via ipotesi, quanto stava avvenendo nel campo “socialista” centrato sull’Urss. Devo tralasciare tutta la questione del decisivo dissidio sovietico-cinese in cui s’inserì, nei primi anni ’70, l’azione Kissinger-Nixon, non raggiungendo grandi successi per gli ostacoli frapposti a quello che, io penso, verrà infine rivalutato come un non banale presidente americano, fatto fuori dall’FBI con il “Watergate” (su indicazione di ben precisi centri statunitensi portatori di altra strategia). Qui mi limito a considerare brevemente le difficoltà interne dell’Urss, che non potevano non riverberarsi sui paesi dell’area ad essa sottomessa.

Con la liquidazione di Krusciov (1964) si mise termine ad una serie di operazioni sconnesse e contraddittorie, che rappresentavano un grosso pericolo per la seconda superpotenza mondiale; sia per quanto concerne la coesione all’interno sia per il possibile sgretolamento della sua sfera d’influenza esterna. Tuttavia, si congelò la situazione sociale e politica, si dichiarò una soltanto formale e decrepita ortodossia ideologica, ormai priva di presa. Si cercò di tenere saldo un blocco sociale (ed è già tanto forse definirlo così) formato dai vertici del partito – con gli alti dirigenti dei grandi “Kombinat”, nominati da detti vertici politici per meriti di fedeltà, non certo per capacità direttive manageriali – e dagli strati inferiori, esecutivi, dei lavoratori salariati trattati ancora, del tutto stancamente, da Classe Operaia, il presunto soggetto operativo nella “costruzione” del socialismo (primo stadio) e poi comunismo. Il famoso principio marxista del socialismo, “a ciascuno secondo il suo lavoro”, venne interpretato in senso meramente quantitativo, in quanto durata e pesantezza del lavoro; non per la qualità, così come intendeva Marx che – oltre al fatto di pensare tale classe formata, insieme, “dal primo dirigente all’ultimo giornaliero” – aveva fatto distinzione tra lavoro “semplice” e “complesso”, un’ora del quale valeva quale multiplo dell’ora del primo. Vi erano operai delle mansioni inferiori che prendevano un salario (pur sempre basso) non inferiore a quello di molti quadri intermedi (o anche medio-alti, salvo i “boss” legati al partito) e perfino a quello di ricercatori in importanti centri di elaborazione scientifica e tecnica.

In un sistema industriale in crescita, è ormai dimostrato che gli operai, se si considerano tali solo quelli svolgenti mansioni prevalentemente esecutive o addirittura manuali (non l’“associazione dei produttori” di cui parlava Marx), diminuiscono di peso perfino numericamente, per non parlare del loro contributo ad una industrializzazione sempre più sofisticata. Crescono invece rapidamente gli strati intermedi (i “ceti medi”), e non soltanto in ambito strettamente produttivo. Ed infine, dato l’evidente fallimento totale di una cogente pianificazione – dall’alto e dall’esterno delle diverse unità produttive, che non vengono affatto a formare un tutto unico, compatto, omogeneo – diventa fondamentale lo strato manageriale: e non semplicemente tecnico, bensì specificamente dotato in senso “strategico”. L’Urss, durante il ventennio brezneviano, cristallizzò la pratica legata alla vecchia ideologia “rivoluzionaria” e andò incontro a “rendimenti decrescenti” con accelerazione esponenziale, mascherata solo dalla forza (in specie militare) raggiunta in passato e da una solo apparente unità del PCUS.

Fu infine l’insieme, sempre più ampio e massiccio pur se frastagliato, degli strati sociali intermedi – ignorati per sclerosi ideologica e politica, pure responsabile del forte indebolimento economico e dunque di una effettiva stagnazione, ecc. – a scardinare l’ordinamento sovietico e a creare nel contempo lo sfacelo sociale che distrusse l’Urss. Basta con la favola del “grande” presidente Reagan (attore scadente pur se interprete in film niente male, in specie western), che avrebbe stroncato il bastione del “socialismo” (chiamato, dagli ignoranti di tutti gli schieramenti, comunismo), obbligandolo ad un surplus di spese militari. Il crollo, una vera e propria implosione, fu dovuto invece al collasso del sistema complessivo, con una direzione politica legata a impostazioni superate e incapace di comprendere i processi di trasformazione di quella “formazione sociale”, definita del tutto impropriamente socialista. Alla morte di Breznev (1982), vi fu già un primo sussulto pre-distruttivo con l’elezione a segretario del partito di Jurij Andropov, che però morì nel 1984. Il pendolo tornò a segnare l’ora di uno stretto collaboratore di Breznev, Černenko, che si spense dopo sei mesi di segretariato (marzo 1985). Venne in auge allora Gorbaciov che restò fino alla dissoluzione dell’Urss (1991), liquidò l’intero campo “socialista” euro-orientale, organizzando fra l’altro il colpo di Stato (passato per rivolta popolare) di Iliescu in Romania. Questo più che mediocre personaggio, assurto indegnamente alla direzione dell’URSS, cercò perfino di creare zizzania in Cina, dove le sue mene (con alcuni ambienti interni al PCC e al segretario del partito, subito destituito) furono assai velocemente stroncate. Dopo, la situazione precipitò in URSS con Eltsin che dissolse l’Unione sovietica alla fine del 1991. Formatasi la Russia, assai più debole e con la perdita di alcune “Repubbliche”, le sorti cominciarono a risalire molto lentamente con Primakov, ma ormai da posizioni compromesse. Infine, la ripresa di quel paese si rinsaldò con Putin. Questa è già storia dei nostri giorni e dunque tornerò adesso indietro.

  1. Dopo la cacciata di Krusciov nel 1964, l’Urss tornò solo apparentemente compatta e unitaria. In essa, per i motivi sociali sopra accennati, permanevano correnti sotterranee di opposizione, anche dentro lo stesso PCUS. Correnti che, in qualche modo, erano perfino in buon rapporto con l’“eurocomunismo” o erano comunque interessate a compromessi con l’occidente, anche a “prezzi” molto bassi, talvolta di svendita. Esse furono a lungo strettamente controllate, ma la loro opera corrosiva cresceva lentamente ed in modo coperto e cauto; soprattutto tenevano contatti con le corrispondenti frazioni dei partiti comunisti euro-orientali, infarcite dei soliti opportunisti che annusavano i mutamenti di atmosfera (pur tenuti molto segreti) e si preparavano ad ogni evenienza. Le frazioni maggioritarie – e solo apparentemente padrone assolute dei partiti: dal PCUS a quelli dei “satelliti” – non avevano capacità manovriere di grande rilievo per le carenze politico-ideologiche già accennate; esse usavano la forza e conducevano – tramite la parte più fedele dei Servizi e di altri apparati addetti ad operazioni varie anche all’estero – manovre segrete e deformate in guisa da non farne afferrare con facilità gli scopi realmente perseguiti.

Dette manovre miravano certamente a colpire e mettere in difficoltà le trame degli interessati a cedimenti compromissori più o meno gravi con l’occidente capitalistico. Lo facevano, tuttavia, in modo assai contorto, giungendo perfino a promuovere esse stesse pericolosi compromessi con gli USA e i paesi del campo capitalistico mediante mosse morbide e prudenti, alternate a scelte improntate ad estrema durezza (anche militare). Inoltre, cercavano prioritariamente di scompaginare le correnti compromissorie interne all’Urss e al “suo campo”, ma si rivolgevano pure all’esterno di quest’ultimo, imbastendo più o meno cauti e coperti rapporti con frazioni interne di alcuni partiti comunisti euro-occidentali ormai schierati in senso “atlantico”; frazioni rimaste fedeli al presunto socialismo e quindi nettamente contrarie all’eurocomunismo, ma soprattutto a chi aveva preso il sopravvento nel Pci, il principale di questi partiti, conducendolo a sempre più invischianti (e conosciuti dai Servizi dell’est) rapporti con gli USA e trasformandolo perciò nei fatti in una vera centrale di cospirazione antisovietica. In tale opera da voltagabbana, le frazioni ormai nettamente maggioritarie nel PCI sfruttarono pure il dissidio russo-cinese e, solo parzialmente, la fronda “gruppuscolare” fintasi quasi maoista; ad es. quella del “Manifesto”, che salvo lodevoli ma rare eccezioni, era la più “corrotta” fra coloro che si richiamavano, impudicamente e senza arrossire, al comunismo. Da qui gli eventi italiani degli anni ’70, degli anni detti “di piombo”.

 

  1. Nel ’68, il gruppo – composto in prevalenza, se ricordo bene, da cattolici divenuti comunisti (ma pure da comunisti “laici”), comunque tutti “ragazzi” in gamba – facente capo ad una rivista di orientamento marxista-leninista, “Lavoro politico” (una delle pubblicazioni apprezzabili di quell’area), entrò nel Pcd’I (m-l), quello che pubblicava “Nuova Unità” e che di fatto era in stretto collegamento con le “Edizioni Oriente”, nate a Milano nel ’63 con il principale compito, almeno per quanto io abbia potuto constatare, di diffondere le pubblicazioni della “Guozi Shudian”, casa editrice cinese in lingue estere, dalla quale provenivano le più importanti pubblicazioni dei comunisti di quel paese, appunto tradotte in italiano. Tralascio i rapporti da me intrattenuti con quest’area, conclusisi con una discussione (pubblica), polemica, tenutasi a Padova alla fine del maggio ’68 (proprio il 31), subito dopo la quale (ma non a causa della quale, sia chiaro) me ne andai a passare piacevolmente circa quattro mesi a Londra.

Quando tornai in autunno, trovai il Pcd’I (m-l) in scissione, con formazione della cosiddetta “linea rossa”, l’imbarazzante (perché un po’ ridicola) nascita di una “Nuova nuova Unità”, di “Nuove Edizioni Oriente”, e via dicendo. Il gruppo di “Lavoro politico” fu attivo nella scissione e nella nascita di questa “linea rossa”; va però affermato con la massima nettezza che tale gruppo si attenne, nel suo complesso, alla più assoluta legalità senza sfizi di lotte d’altro genere. E’ però vero che una parte minoritaria d’esso (con nomi poi divenuti noti) uscì sia dalla rivista sia soprattutto dal Pcd’I (anzi dai due Pcd’I ormai); e, per quanto ne so, andò a Milano dove nel ’69 fondò, immagino assieme ad altri, il “Collettivo politico metropolitano”, che gettò fuori un opuscolo programmatico non irrilevante. Da tale organismo, mi sembra proprio chiaro, nacquero le future BR. Mi dispiace di non trovare più quell’opuscolo (qualcuno certamente lo avrà) e la risposta che ne diedi, certo a circolazione assai più ridotta e totalmente ignorata, che purtroppo non trovo più. Tuttavia, la mia risposta conteneva una serie di obiezioni a quel “programma”, che a me sembra si siano rivelate con il tempo sensate.

Ricordo bene, ricordo male? Quel che ricordo di quello scritto da me criticato è la formulazione di due previsioni fondamentali, entrambe errate e foriere di sviluppi molto negativi. Innanzitutto, quella di un non troppo lontano scoppio della guerra tra “imperialismo” (USA) e “socialimperialismo” (URSS); per cui bisognava, “leninisticamente”, giocare sulle contraddizioni tra i due nemici, confidando nella tenuta della Cina maoista, di cui per la verità nessuno (per quanto ne so) immaginava la brusca svolta subito dopo la morte del “grande timoniere”. Ovviamente, mi sembra chiaro, l’idea centrale era un recondito riferimento alla “Rivoluzione d’ottobre”, avvenuta appunto verso la fine della prima guerra mondiale e nel da Lenin definito “anello debole della catena imperialistica”, in cui crollò il regime zarista; l’Italia sarebbe stata il nuovo “anello debole” in questa prevista terza guerra mondiale. La seconda previsione, su cui però ho ricordi più imprecisi, è quella di un probabile o almeno possibile colpo di Stato in Italia; il che, credo, scontasse l’impressione ricevuta da quello verificatosi nel 1967 in Grecia. Devo dire che, ancora nei primi anni ’70, in molti “giocavamo” un po’ troppo con questo timore.

In ogni caso, fui subito comunque molto contrario e critico dell’idea di entrare in clandestinità prima ancora che l’evento si producesse. Ricordo bene che ero addirittura stupefatto di simili intenzioni. Si poteva capire l’attuazione di preparativi per l’eventualità, preparativi di vario tipo e soprattutto organizzativi; e, se volete, anche in riferimento alla creazione di alcuni “depositi d’armi”. Tuttavia, che si proponesse l’entrata in clandestinità anticipando le mosse “dell’avversario” mi sembrava una trovata balzana, per non dire di più. Dove la mia contrarietà si espresse ancora più netta e senza esitazioni fu sulla previsione di una guerra tra le due superpotenze (con i loro alleati/subordinati al seguito) con il ripetersi di un quadro simile a quello che permise l’“ottobre bolscevico”.

Non ero ancora stato a Parigi da Bettelheim (lo feci nel 1970-71). Tuttavia, ero già ben convinto dell’ingrippamento dell’Unione Sovietica, messo in luce a partire dal XX Congresso (1956) e aggravatosi negli anni successivi. Ricordo vivaci polemiche con coloro che insistevano addirittura sulla superiorità del “socialimperialismo” in quanto “capitalismo di Stato”, pensato quale gradino superiore (e ultimo o supremo) della società capitalistica, con riferimento un po’ scolastico ad una vecchia impostazione del marxismo “d’antan”. Ho succintamente accennato sopra ai motivi dell’indebolimento dell’Urss (per non parlare dei paesi “socialisti” euro-orientali, in netta difficoltà); li avrei approfonditi ben di più a Parigi, con anche una qualche informazione sulla solo apparente coesione di quei paesi, percorsi dalle correnti che condussero al crollo dell’89 (“campo socialista” europeo) e del ’91 con dissoluzione dell’URSS dopo qualche anno di “agonia” gorbacioviana, scambiata (non da me!) per ripresa del “socialismo”. Nel ’69-’70 non avevo quelle informazioni né avevo approfondito con Bettelheim la corrosa struttura sociale sovietica. Tuttavia ero già convinto della stasi di quel paese e dunque dell’improbabilità, per me pressoché assoluta, di uno scontro mondiale tra le due superpotenze; in realtà, ne esisteva ormai una sola di effettiva, gli USA.

  1. Arriviamo quindi al punto cruciale per quanto concerne la storia italiana di quell’epoca infelice e con il quale interromperò, almeno per adesso, questo racconto. Le direzioni dei partiti comunisti dei paesi euro-orientali avevano la sensazione di pericolo per opposizioni interne, ma soprattutto perché consapevoli di un’Unione Sovietica meno forte di quanto sembrava a prima vista. La rottura con la Cina – in continuo aggravamento, che non terminò nemmeno con la svolta post-maoista del 1976, subito dopo la morte di Mao con arresto della cosiddetta “banda dei quattro (fra cui la moglie di Mao) – rendeva i pericoli ancora maggiori. E bisogna ben dire che la politica Kissinger-Nixon di “apertura” ai cinesi e a una possibile pace in Vietnam – politica non certo fiorita all’improvviso nel 1972 con il viaggio nixoniano a Pechino, poiché occorreva prepararla, senza pubblicità, prima che apparisse alla luce del giorno – rendeva il pericolo ancora più grave. Diciamo pure che gli ostacoli frapposti dall’interno al presidente statunitense, e poi la sua eliminazione tramite il “Watergate”, diedero al “campo socialista” un periodo di respiro, consentendo fra l’altro all’Urss una stretta alleanza con il Vietnam, dove esisteva una minoritaria, ma forte, corrente filo-cinese nel partito comunista, sconfitta appunto dopo gli approcci tra Cina e Usa, che diedero un loro contributo a possibili sbocchi della guerra in Vietnam con gli accordi di pace di Parigi (gennaio 1973), finiti però male anche (e direi soprattutto) a causa delle difficoltà di Nixon. Quegli accordi condussero comunque al ritiro di buona parte delle truppe statunitensi dal Vietnam del sud; il che alla fine favorì la vittoria dei nordvietnamiti e la loro conquista di Saigon nell’aprile 1975. Il Vietnam riunito si schierò infine apertamente con l’Urss ed entrò in conflitto (perfino una breve guerra di un mese nel 1979) con i cinesi.

Ripeto che tali avvenimenti diedero solo una boccata d’ossigeno al “campo socialista” europeo centrato sull’Urss; e proprio grazie alla miopia di quegli ambienti statunitensi che misero in moto la manovra contro Nixon (con l’azione del Fbi, ecc.). In ogni caso, non si può pensare che i partiti comunisti euro-orientali non avvertissero che cosa stava avvenendo. Immagino che anche importanti settori del partito comunista sovietico (anzi maggioritari nel periodo brezneviano) stessero in allerta ben conoscendo l’azione corrosiva di quelle correnti più tardi (1985) responsabili della nomina di Gorbaciov a segretario del partito. E’ ovvio che la storia avrebbe avuto ben altro andamento se in Urss si fosse compresa la necessità di smantellare quella struttura politica che cristallizzava una situazione non più confacente alla “composizione sociale” ormai in formazione nel paese.

Fra l’altro, si sarebbero dovuti regolare, in qualche modo, i conti con la Jugoslavia (avamposto più importante di quanto non si creda, anche durante la direzione titoista, di varie manovre di “infiltrazione” nel blocco sovietico provenienti da “occidente”), accomodare i rapporti pure con la Romania (costretta a rapporti amichevoli con la Cina proprio dall’atteggiamento ostile dell’Urss, sfociato poi apertamente nell’aiuto fornito al colpo di Stato di Iliescu contro Ceausescu durante la “gestione” gorbacioviana). Meno importante l’attrito con l’Albania, comunque anch’essa schierata con la Cina, pur essendo invece critica nei confronti del maoismo; e ne fanno prova gli aiuti dati da Enver Hoxha alle frazioni di cosiddetta “linea nera” nei vari, pur irrilevanti, gruppuscoli m-l, soprattutto nei paesi euro-occidentali, Italia compresa.

La posizione di debolezza dell’Urss, accompagnata dalla presenza di correnti filo-occidentali nei paesi europei “socialisti”, rendeva in ogni caso più fastidiosa la presenza nei paesi europei della NATO di partiti comunisti (rilevanti comunque solo in Francia e ancor più in Italia) con tendenza a “sbandare” (ma così nettamente soltanto nel nostro paese) in senso dichiarato riformista, in realtà di sostanziale accettazione della formazione sociale esistente in occidente, quella che veniva ritenuta “il capitalismo” in aperto antagonismo con “il socialismo”; non mi soffermo sulla questione di detta schematica contrapposizione, a tutt’oggi non risolta da politici (e storici) incompetenti e faziosi.

Una Unione Sovietica forte – con il suo “campo” (sfera d’influenza) ben controllato, con un migliore sistema di alleanze (o di non inimicizia) con Cina, Jugoslavia, ecc. – avrebbe determinato un diverso andamento degli eventi storici; per quanto ci riguarda, sarebbero stati meno forti, e immagino meno determinanti, quegli influssi che invece si produssero negli anni ’70, i cosiddetti “anni di piombo”, in cui si è posto in forte risalto il dichiarato “terrorismo rosso” (e anche nero in certi casi) per coprire le mene internazionali condotte in varia guisa in quegli anni.

La situazione era invece quella appena delineata: l’Urss apparentemente molto forte, ma in posizione di sostanziale stallo rispetto agli anni della grande ascesa (soprattutto gli anni ’30), della vittoria nella seconda guerra mondiale, dell’allargamento del “campo socialista”, ecc. Nei paesi euro-orientali, i partiti comunisti (i loro vertici ovviamente) erano consapevoli delle difficoltà esistenti soprattutto al loro interno, ma comunque aggravate da quanto avveniva, sia pure in modo poco appariscente, nel paese centrale del sistema. Vi fu la succitata boccata d’ossigeno quando si pose in mora la politica nixoniana verso la Cina (e anche il Vietnam), si verificò la creduta grande vittoria dei nordvietnamiti contro il gigante statunitense e l’altrettanto sopravvalutata crisi interna statunitense a causa di quella guerra, ecc.

Un conto sono i “movimenti” che si credono sulla cresta dell’onda e blaterano di vittorie sull’imperialismo, in via di presunto indebolimento. Un altro sono i vertici politici delle varie organizzazioni che conoscono la POLITICA (le strategie del conflitto), sanno come questa deve essere condotta, sono ben informati circa le mosse segrete di cui quella vera si sostanzia; e di cui, invece, i poveri “giovinotti” di detti “movimenti” nemmeno avevano il più blando sentore. O forse sarebbe meglio dire che alcuni ne avevano un qualche sentore, ma secondo quanto avevano deciso di far sapere (e far credere) loro i vari “Servizi”, che sono una delle nervature cruciali di detta POLITICA, quella seria e non fatta di dissennate valutazioni degli effettivi rapporti di forza esistenti.

In nessun momento degli anni ’70, i partiti comunisti, sia all’est che all’ovest, crederono a ciò che magari sostenevano ufficialmente. All’est è probabile che si comprendessero le proprie debolezze e i pericoli che si correvano. E all’ovest forse pure. L’eurocomunismo, cioè in definitiva il suo nucleo centrale, il PCI (con i vertici in mano alla nuova maggioranza), non defletté certamente mai dal suo cauto, coperto, spostamento verso l’atlantismo. Tuttavia, credo che sia rimasta molto in ombra – per il solito motivo che la storia la raccontano i vincitori – l’esistenza, soprattutto proprio in Italia, di frazioni del tutto minoritarie, ma non proprio inconsistenti, in opposizione (anche all’interno di quel partito) a simili approcci verso gli Usa e l’occidente in genere. Non credo però ci fosse una effettiva consapevolezza delle manovre “eurocomuniste”. Purtroppo, la visione ideologica del tempo faceva credere che la lotta nell’ambito del movimento comunista fosse una sorta di ripresa dello scontro tra “neokautskismo” (neorevisionismo) e neoleninismo (in buona parte identificato con il maoismo); un errore non decisivo ma comunque rilevante per far prevalere gli ambienti più opportunisti e miserabili del PCI e dei partiti consimili in altri paesi europei.

Fu in ogni caso del tutto impossibile formare un fronte in qualche misura comune – al di là delle divergenze, non solo ideologiche ma pure politiche – tra tutti quelli che si opponevano ai piciisti degli anni ’70 e seguenti: chi perché appunto neoleninista, chi invece sostanzialmente socialdemocratico (ad es. gli “amendoliani”) ma comunque relativamente favorevole ad una “ostpolitik” e chi, come fu un po’ più tardi Craxi, semplicemente antagonista della supremazia del PCI sulla “sinistra” e sospettoso del “compromesso storico”, una buona leva per l’avanzata di tale partito, ormai degenerato, lungo la via di una politica filo-occidentale con tutto ciò che comportò più tardi. Tale divisione fra gli oppositori a quel PCI favorì, infatti, quel che accadde in seguito con il viaggio “culturale” di Napolitano negli USA nel 1978; e soprattutto dopo la fine del “socialismo reale” e dell’Urss. Quanto appena ricordato può forse in parte spiegare anche l’azione di certi Servizi orientali (io penso soprattutto a quelli della  DDR e della Cecoslovacchia) per mettere comunque delle “zeppe” tra i piedi del PCI nel suo spostamento a ovest. E tra queste, almeno a mio avviso, ci fu anche un almeno iniziale appoggio alla poco assennata “lotta clandestina” (non solo delle BR), poi ampiamente sfruttata, come già detto, nell’ambito di una conflittualità tra est e ovest, ecc. ecc.

  1. Mi fermerei per il momento a questo punto per non allungare eccessivamente il mio “racconto”. Tuttavia sia chiaro che bisognerà riflettere a lungo su quanto è poi accaduto dopo la “caduta del muro” e la dissoluzione dell’URSS. In particolare in Italia, dove si è verificato un vero rovesciamento dei precedenti assetti politici tramite quella viscida manovra giudiziaria (“mani pulite”), che si prolunga ancor oggi in una continua invasione della politica da parte della sedicente “giustizia” e della “Legge”. Di questo abbiamo parlato comunque più volte nei nostri interventi; così come stiamo seguendo i netti mutamenti della politica internazionale, in cui cresce il “multipolarismo” e si accentua un dissidio politico all’interno degli USA forse più acuto che in passato e che mi sembra delineare un certo declino di quel paese, pur ancora il più potente economicamente, militarmente e anche in termini di avanzamento tecnologico.

Siamo tuttavia a mio avviso in un’epoca di “transizione” ad altra, cui dovremo faticosamente riadattarci abbandonando vecchie convinzioni senza lasciarci trasportare in visioni avveniristiche, che nemmeno la fantascienza ha avuto il coraggio di predire con tanta improntitudine e “falsa coscienza”. Lancio un ultimo avvertimento: la storia di tutto il ‘900 è stata gravemente falsificata e distorta da politicanti e storici attivi soprattutto negli ultimi decenni e che si qualificano come “sinistra”. Le nostre popolazioni non sanno un bel nulla di ciò che è stato il nostro passato. Per “risaperlo” e valutarlo adeguatamente dobbiamo rovesciare il predominio di questi falsificatori, che stanno provocando una vera crisi di cultura, di tradizioni di cui non dobbiamo per nulla vergognarci; insomma ci stanno conducendo ad una crisi della nostra civiltà. Reagiamo.

tratto da facebook

 

 

 

 

VERSO LA GUERRA CIVILE. IL TRAMONTO DELL’IMPERO USA, 1a parte_di Gianfranco Campa

Qui sotto la prima di una serie di articoli di Gianfranco Campa che testimoniano ed analizzano la dinamica dello scontro politico interno agli Stati Uniti; un confronto che sta superando soglie di asprezza e violenza tali da innescare una condizione di vera e propria guerra civile strisciante. Questo sito ha dedicato all’argomento ormai decine di articoli e podcast senza però entrare direttamente nel merito di queste dinamiche. Lo scontro politico in corso non è solo espressione di una polarizzazione e frammentazione della formazione sociale americana, ma sta diventando un fattore scatenante e un moltiplicatore degli antagonismi e delle contrapposizioni irriducibili. Non è detto che una simile condizione conduca necessariamente al declino; l’esempio delle vicissitudini interne alla Roma antica deve indurre alla prudenza nelle previsioni. Con questa serie si partirà da testimonianze dirette per poi passare a considerazioni generali necessarie a comprendere non solo le dinamiche interne ma anche i riflessi geopolitici della conflitto in corso. Si vedrà che la rappresentazione istrionica e caricaturale, moralistica di questo conflitto, così in auge tra i soloni mediatici del nostro paese non fa che contribuire alla cecità e al provincialismo dei comportamenti delle classi dirigenti italiche e alla considerazione caricaturale che si stanno guadagnando nel mondo con tutta la loro buona volontà e incoscienza_Giuseppe Germinario

 

 

 

VERSO LA GUERRA CIVILE. IL TRAMONTO DELL’IMPERO USA

 

(Prima Parte)

Questa è la mia collina di armageddon, da qui combatterò la mia ultima battaglia, il mio ultimo atto

 

 

LA COLLINA DI ARMAGEDDON

 

Erano i primi giorni di servizio effettivo, giorni di smarrimento, annebbiamento mentale e fisico, seguiti ad un estenuante corso di addestramento durato sette mesi.  Ma non era finita! Ai sette mesi di accademia si aggiungevano i quattro mesi di addestramento sul campo. Quattro mesi di pratica, la prova del fuoco sulla strada, in auto, di pattugliamento con un altro agente seduto al fianco, specializzato nel valutare il rendimento ed il corretto adempimento al dovere. È sulla “strada” che devi dimostrare di aver appreso e di saper mettere in pratica i concetti di base propinati durante l’accademia di polizia. Un appuntamento giunto al quale di solito un buon 10-20% delle reclute fallisce l’obbiettivo e la realizzazione di una aspirazione.

Già nei mesi precedenti oltre il 30% dei commilitoni, compagni di accademia, tra di loro alcuni amici carissimi, erano stati rispediti a casa per aver fallito uno dei 187 esami previsti durante il corso. La durezza della selezione e la concreta possibilità di fallire spinge la maggior parte dei “rookies” a sviluppare una meccanismo di autodifesa. Per molti diventare un poliziotto rimarrà solo un miraggio, un sogno mai realizzato, riposto in qualche cassetto. Per questo ti guardi intorno e cerchi di trovare quella boa,  quel salvagente che ti possa aiutare a rimanere a galla, almeno fino a quando non esci dal tunnel. I meccanismi di autodifesa per superare lo stress e gli ostacoli esistono , anche se sono più che altro espedienti emotivi che ti danno una apparente sensazione di coraggio e di adeguatezza. Chi si affida alle preghiere, chi allo yoga, chi alla bevande energetiche, chi invece alla raccomandazione di qualcuno in una posizione di potere. Tutti questi accorgimenti, lo ribadisco, non assicurano il successo nell’iter di addestramento. Neanche l’ultima soluzione, il sotterfugio può garantire la sopravvivenza; in California per arrivare ad essere poliziotto la raccomandazione non serve, gli esami non si possono aggirare o addomesticare.

Il turno comincia alle 07.00 e finisce alle 19.00. Arrivo al distaccamento 30 minuti in anticipo, entro nello spogliatoio e mi guardo intorno. UOMINI/DONNE, BUSSA PRIMA DI ENTRARE, annuncia il cartello affisso sulla porta. E` il benvenuto in un distaccamento troppo piccolo per avere spogliatoi separati. Lo stress si fa sentire. Lo yoga non lo pratico, con le preghiere ho un rapporto a dir poco conflittuale e di individui che portano l’argenteria sulla divisa non ne conosco nessuno. Un certo senso di sconforto comincia ad insinuarsi nell’anima. Dov’è il galleggiante, il canapo che mi terrà a galla aiutandomi a sopravvivere nei prossimi quattro mesi?

Il distaccamento è minuscolo, in totale dieci agenti, incluso il Chief, due sergenti e sette agenti. Per curiosità do un’occhiata alla lista affissa nella bacheca, quella dei nomi che fanno servizio in questa piccola stazione. Il mio sguardo cade sulle generalità di uno dei due sergenti. Il cognome denota una chiara origine italiana. Mi rivolgo all’altro agente che si sta preparando al servizio con me; punto il dito sul cognome del Sergente “Italiano”: “George?” (non il suo vero nome) mi chiede. “Si” gli rispondo. “Lascia perdere e sempre ‘cranky’ (irritabile), non piace a nessuno;  trenta anni di servizio, potrebbe andare in pensione, ma è qui a rompere le scatole, a rendere la vita difficile a tutti…” La speranza si affloscia come un pallone bucato, lo sconforto ritorna. Appellarsi all’italianità del sergente per un trattamento meno ostico non sembra essere l’ancora che cercavo.

 

 

Caspita! Un vero ‘greaseball”, accento compreso, non uno di quei fasulli che vengono da New York pretendendo di essere Italiani per poi scoprire che sono di seconda o terza generazione” Così mi saluta George, incrociandolo nel parcheggio del distaccamento tra le  macchine di servizio. ”Si, Italiano, ma anche americano di adozione.” gli rispondo, accennando ad un saluto quasi militare. “Okay, whatever, cambia poco; un ‘greaseball’ in questo posto dimenticato da Dio, ci mancava solo quello…”  Questo è stato di fatto il primo contatto con George; un benvenuto corrispondente alle sue propensioni comunicative, prossime al nulla. Ma nonostante tutto, l’inizio di un’amicizia che a distanza di vent’anni resiste ancora al tempo e alla lontananza.

George, di nonna genovese e nonno siciliano. Di Italiano aveva ereditato solo il piacere della pasta al pesto; un piatto che sua nonna sapeva, da buona genovese, cucinare alla perfezione. George non ha mai visitato l’Italia, ne aveva il desiderio di farlo. Tutto barca, pesca e caccia. Due matrimoni falliti alle spalle, quattro figli adulti di cui tre sposati con cinque nipoti a testimoniare e rammentargli costantemente l’età che avanza. I nipoti hanno negli anni ammorbidito la durezza di un uomo che ha sempre combattuto contro tutto e tutti. Un uomo in constante stato di guerra; sul lavoro, in famiglia, con i vicini, con gli amici (quei pochi che gli sono rimasti), con i colleghi, subordinati e superiori che fossero. George è uno degli agenti, tra quelli che ho conosciuto negli anni, rimasti coinvolti in conflitti a fuoco; era appena entrato in servizio nella ormai lontana estate del 1973. Per anni George ha visto il mondo cambiare attorno a sé, ma al cambiamento ha sempre resistito, come un vecchio dinosauro che vede l’asteroide dell’estinzione avvicinarsi a grande velocità dal cielo e, ignorandolo, continua a foraggiarsi tra l’erba.

Uno di quegli asteroidi lo colpì a tre anni dal nostro primo incontro nel parcheggio della stazione di polizia. Era il Giugno 2004; le due del mattino di un sabato come tanti. E’ l’orario più probabile per pescare conducenti in preda ai fumi dell’alcool o di sostanze stupefacenti. Parcheggio la mia enorme macchina di pattuglia, una vecchia Ford Crown Victoria, appostandomi dietro un albero, nascosto all’uscita di una curva della strada principale che attraversa la giurisdizione, con il muso della macchina rivolto nella direzione della corsia della strada. Motore acceso, luci spente, rilevatore di velocità montato sul cruscotto che segnala la velocità di ogni passaggio. Molti non si accorgono nemmeno della mia presenza; altri, i più attenti, nel buio totale colgono la sagoma della mia macchina all’ultimo momento, quando ormai il radar sul cruscotto ha rivelato la loro andatura, troppo tardi per rallentare; i più premono il piede sul pedale del freno e allo stesso tempo, colti di sorpresa, fanno oscillare la macchina verso il lato opposto dove sono parcheggiato. Il traffico è ormai ridotto quasi a nulla, passa una macchina ogni 10 minuti; mentre contemplo la decisione di abbandonare la mia caccia per tornare a pattugliare, George, l’altro collega in servizio con me quella notte, mi chiama alla radio: “Campa c’è una macchina che ho visto sfrecciare mentre arrivavo da una delle traverse, dovrebbe comparire sul tuo radar da un momento all’altro; io non ho fatto in tempo a rivelare la velocità.” “10-4 (ricevuto)” rispondo. Il tempo di rimettere a posto il microfono della radio e il rilevatore di velocità sul cruscotto si illumina come un albero di natale. Segnala 83 miglia all’ora, in una zona dove il limite è di 30. Osservo i fari del veicolo che si avvicinano verso di me a grande velocità raggiungendo e passando dalla mia postazione senza neanche rallentare di un miglio. Accendo le luci della pattuglia faccio inversione e mi lancio all’inseguimento della macchina. “E passato?” mi chiede George alla radio. “Si” rispondo io, “come un razzo” aggiungo. “Non perderlo di vista questo mentecatto” mi dice. Giusto per una frazione di secondo osservo la mia velocità sul contamiglia: 90.  Ora ho la visuale sulla macchina sospetta,  la osservo sbandare due volte quasi finendo contro uno dei pali della luce posizionati al ciglio della strada. George mi raggiunge, ora siamo in due ad inseguire; sento alla radio che altre pattuglie stanno arrivando. “Campa prendo io la posizione primaria, tu prendi quella secondaria e mantieni la comunicazione con la centrale.”  Neanche il tempo di rispondere e osservo la macchina sospetta sbandare per la terza volta, l’ultima, sino a sbattere contro il palo del semaforo abbattendolo al suolo per poi terminare la sua corsa sulla panchina degli autobus in una nube di fumo.

 “Esci di lì coglione” sento gridare fra il trambusto, il fumo e le sirene. Raggiungo George che nel frattempo con le mani cerca di aprire lo sportello del guidatore; la macchina è però un groviglio di lamiere e plastica. A malapena riesce a tirare fuori il conducente attraverso quel che rimane del finestrino, prendendolo per la testa. “Sarge” (abbreviazione per Sergente) sento gridare dietro di me  “ma non vedi che ha perso conoscenza!”. La voce non la riconosco, ma appartiene a uno degli altri agenti nel frattempo arrivati sul posto. Mi rivolgo io al Sergente “probabilmente ha subito un grave trauma, meglio aspettare i paramedici, li ho già chiamati”

 

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Che necessità c’era di estrarlo di forza dall’abitacolo della macchina quando era chiaro che non era cosciente?” La domanda del Chief era diretta a George. “Poteva avere un’arma nell’abitacolo e volevo prevenire che la impugnasse” risponde George. “La macchina era un’accozzaglia di lamiere e lui era chiaramente svenuto se non addirittura morto; la tua logica è antidiluviana. Se mai uscirà dal coma rischia di rimanere paralizzato per il resto della sua vita e sarà anche grazie a uno dei mie Sergenti che vuole sempre usare le mani anche quando non e`necessario.” replica il Chief. “Mica siamo manovali! ” si difende George. “Infatti non sei un metalmeccanico, ma un agente addestrato, un supervisore, un professionista” risponde il Chief.

Sarà l’ultima “avventura” di un uomo superato dalla storia. Un uomo che non aveva colto il cambio generazionale nel modo di interpretare e gestire le relazioni sociali, l’ultimo di una generazione di dinosauri che combattono contro i fantasmi di un cambio epocale che li spinge a isolarsi sempre di più e allontanarsi dalla civiltà attuale.

La vecchia guardia si ritrova oggi smarrita, disorientata da una propsettiva completamente diversa di interpretare il ruolo di pubblico ufficiale. Le reclute e gli agenti che vengono ora sfornati dai corsi di polizia sono addestrati secondo criteri completamente diversi da quelli in uso solo dieci anni fa. Ad un impegno già estremamente stressante e rischiosissimo si aggiunge ora anche un aspetto politico che costringe i poliziotti a riconsiderare ogni azione intrapresa sul campo. Il risultato è visibile nelle statistiche: l’aspettativa media di vita dei poliziotti americani è di 59 anni. Se le armi, gli incidenti stradali, i suicidi non uccidono prematuramente un poliziotto, ci pensano malattie cardiovascolari e tumori vari. Al primo di dicembre di quest’anno, il 2019, le statistiche ci dicono che i soli poliziotti uccisi durante un conflitto a fuoco sono aumentati del 20% rispetto al 2018, per un totale di 267 poliziotti. Una strage senza precedenti. Con il pensionamento dei vecchi dinosauri, definiti a volte (a ragione) dal grilletto troppo facile e con il reclutamento di una nuova leva  imbavagliata dal credo del politicamente corretto i risultati rifulgono nelle statistiche ferali.

George, tre mesi dopo il rimbrotto nell’ufficio del Chief, andrà in pensione concludendo una carriera, che dopo oltre trent’anni, era cambiata di riflesso ai mutamenti del mondo che gli girava intorno. George non era stato capace di cogliere, comprendere e gestire il suo impegno adattandosi ai cambiamenti.

 

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La statale 85 taglia il Wyoming da nord a sud costeggiando il confine con lo stato del Nebraska e del South Dakota. Partendo da sud, cioè dal confine col Messico, la 85 termina a Fortuna, nel Nord Dakota, al confine col Canada. La zona est del Wyoming è forse la meno bella e maestosa di questo stato che incarna il concetto stesso di frontiera americana. I maestosi parchi nazionali di Yellowstone e Grand Teton si trovano dalla parte opposta, nella zona ovest vicino al confine con l’Idaho. Nonostante ciò percorrendo la 85 e attraversando il confine con il Sud Dakota si entra nel parco nazionale del Black Hills. Le bellissime colline del Black Hills sono meglio conosciute perché all’interno accolgono il Mount Rushmore e la montagna memoriale dedicata a Crazy Horse (Cavallo Pazzo).

Vivo negli Stati Uniti da oltre trent’anni, ma la magica terra del west, con i suoi panorami maestosi, epici, pieni di straordinaria bellezza naturale, non finisce mai di stregarmi. Vivo nell’Ovest, in California, perché l’est non è mai riuscito ad entusiasmarmi. Senza togliere nulla alla cosmopolita New York, alla calda Miami, alle montagne dello Shenandoah, al verde sontuoso del Vermont, preferisco l’Ovest con i suoi spettacolari parchi nazionali: Grand Canyon, Yosemite, Yellowstone, Bryce Canyon, Glacier e tanti altri. Dai picchi della Sierra Nevada, ai deserti dell’Arizona. Dalla spettacolare costa Pacifica ai laghi di Tahoe e Powell, dagli altopiani desertici del Nevada alle praterie del Dakota, dai crateri “lunari” dell’Idaho agli Archi monumentali dello Utah,  dalla Valle della Morte al parco nazionale di Zion, l’Ovest è un affresco senza uguali nel mondo. Attraversando le strade leggendarie dell’Ovest, lontano dai grandi centri abitati, in questi ampi e maestosi spazi aperti, si rivive lo spirito pionieristico di un tempo. L’ovest è stato e torna ad essere l’ultima frontiera.

 

 

Percorrendo la 85 in Wyoming, si attraversa un paesino di nome Lusk. Nel minuscolo centro del paese si trova una nota stazione di servizio, punto di ritrovo e di sosta per i motociclisti che attraversano gli Stati Uniti sugli assi East-Ovest, Nord-Sud. Una tappa storica e obbligata per gli amanti delle Harleys. In quella stazione di servizio, due anni fa, io e mia moglie, sulla via del ritorno in California, avevamo offerto la cena a un motociclista infreddolito che aveva sostato di rientro in Colorado.

Dopo aver attraversato il centro abitato, direzione nord, molte miglia più avanti si arriva a un incrocio con una strada non asfaltata, che sfocia in ambedue lati sulla 85. Svoltando si entra nella strada sterrata che mi conduce al ranch di George. Una tenuta collocata internamente, qualche miglio lontano dalla statale. Seduto su una collinetta , il ranch di George gode di una vista panoramica libera tutto intorno da ogni ostacolo. Una proprietà di diversi ettari.

Da quando tuo figlio frequenta l’università di Bismarck mi vieni a trovare tutti gli anni” mi accoglie George. “Lo sai che, anche se devo fare una piccola deviazione per arrivare qui, non mi perderei per nessuna ragione al mondo la possibilità di prendermi un caffè con te e contemplare dalla veranda di casa tua questa splendida vista’ rispondo. “Dalla California al Nord Dakota puoi prendere l’aereo e arrivare a Bismarck in poche ore invece di metterci due giorni con la macchina.”rincara la dose George. “Si lo so, l’aereo lo prendo al ritorno, se no non potrei venire a romperti le scatole; ma se vuoi me ne vado…” gli dico scherzando. “Gianfranco tu sei noioso. La birra non ti piace. Io il vino non lo bevo, mi costringi sempre a procurami una bottiglia di rosso perché la birra la detesti, che razza di Americano sei?” Mi apostrofa con fare seccato. “Parli tu che ti scoli la birra messicana…” gli replico

Il Ranch di George non è grandissimo, ma quanto basta per tenerlo occupato dalla mattina alla sera. Le donne vanno e vengono, ma è troppo scorbutico per stringere una relazione impegnativa. Vive solo, anche se tra figli, nipoti e amici c’è sempre qualcuno a visitarlo. Cinque cavalli, una quindicina di mucche, in più cani, galline, tacchini, ma soprattutto il grande orgoglio di George,  tre bisonti che scorrazzano liberi nella terra recintata di sua proprietà, rendono la visita al ranch di George uno svago e un diversivo per sfuggire alla routine quotidiana.

 

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La scorsa estate ho subito una invasione di serpenti a sonagli; uno di quei viscidi ha morso una mucca del mio bestiame. Superfluo dire che gli ho spappolato la testa con un colpo di fucile” mi racconta George mentre seduti in veranda ci beviamo una bibita. “Zitto che se ti sentono gli animalisti ti fanno causa.”  gli dico. “Mi possono baciare il culo. Mica siamo in quella fogna progressista della California. Questo è il Wyoming e questa è la mia terra. Io sono il re di questa terra. Faccio ciò che voglio.  Il governo, o qualsiasi altra organizzazione per me possono andare a puttane.” mi risponde George con tono aggressivo. Prosegue con un certa concitazione  “Da questa casa, su questa collina, riesco a vedere tutto intorno alla mia proprietà. Una posizione strategica, Se mai verranno e quando verranno avranno delle sorprese poco piacevoli.“ Poi puntando il dito verso l’orizzonte George esclama ”Questa è la mia collina di armageddon; da qui combatterò la mia ultima battaglia, il mio ultimo atto

George, californiano di nascita, dopo il pensionamento, ha venduto la sua casa in San Rafael, a nord di San Francisco e si è trasferito in Wyoming. Grazie ai costi esorbitanti degli immobili in California, soprattutto nella baia di San Francisco, con i soldi della vendita della casa di proprietà dei genitori, George ha potuto trasferirsi in Wyoming comprandosi il ranch, il bestiame, la terra, tre trattori, due pickup trucks, un quad e una moto Harley. George diceva sempre che quando andava in pensione si sarebbe trasferito in Wyoming; ne era innamorato. Cosa attrae uno come George a trasferirsi nel maestoso Wyoming?

George non è l’unico poliziotto che ha lasciato la California dopo il pensionamento. L’esodo di poliziotti californiani che al termine della loro carriera si trasferiscono in altri stati è biblico, senza precedenti nella storia americana. Molti ex componenti delle forze dell’ordine scelgono l’Idaho come destinazione finale, ma anche il Wyoming, lo Utah, il Montana,  il Tennessee; il Nebraska, risultano fra i più gettonati. La maggior parte di loro preferisce vivere in campagna lontano dai maggiori centri metropolitani.

L’esodo verso questi stati non è riservato ai soli ex-componenti del mondo militare e delle forze dell’ordine: Cittadini comuni da ogni parte dell’America hanno deciso di trasferirsi negli stati “montagnosi”. Le ragioni di questo impulso migratorio sono le stesse per tanti altri che, come George, hanno abbandonato posti come la California, New York, Illinois, Pennsylvania, ma soprattutto i grandi centri metropolitani per trasferirsi nel cosiddetto redoubt states.

 

 

THE AMERICAN REDOUBT

 

 

 

Benvenuti nel redoubt americano. Che cos’è il redoubt americano? Piu semplicemente possiamo chiamarla l’ultima frontiera americana. Un pezzo di territorio che incorpora le aree geografiche del Nord Ovest-Pacifico. Include lo stato del Wyoming, del Montana, dell’Idaho e la parte orientale degli stati dell’Oregon e Washington. All’alba della nascita degli Stati Uniti, queste zone erano contese dai pionieri. La frontiera americana che si spostava verso ovest, lentamente ingoiava questi pezzi di terra, trasformandoli, malleandoli, rendendoli partecipi nella nascita della nazione a stelle e strisce. Domarli questi stati pero`non è mai stato del tutto possibile; troppo selvaggi, troppo ribelli, per conformarsi pienamente alle regole dettate della lontana Washington.  I territori del Wyoming, dello Utah, del Dakota, dell’Idaho stanno lentamente tornando ad essere terre di frontiera. L’ultima frontiera dell’impero americano, dove nelle montagne e colline del redoubt americano si terrà l’ultima battaglia fra i patrioti americani fedeli alla costituzione originaria e le forze anti-costituzionali. ”Questa è la mia collina di armageddon da qui combatterò la mia ultima battaglia, il mio ultimo atto

Il concetto di redoubt ha preso forma e si è sviluppato nel 2010, in piena presidenza Obama. Gli anni dell’amministrazione Obama hanno esasperato lo scontro in atto fra il movimento patriottico americano (da non confondere con l’idea neo-conservatrice-repubblicana) e il crescente potere governativo che negli ultimi decenni ha cominciato a pervadere sempre di più l’esistenza dei cittadini americani regolamentando la vita quotidiana. In altre parti del mondo l’intervento sociale e legislativo dei governi centrali viene visto a volte come una panacea ai problemi dei cittadini stessi: scuola, sanità, trasporti e servizi sono parte essenziale del rapporto cittadino-stato. I patrioti americani invece concepiscono un mondo diverso, con un governo centrale presente ma non impositivo, minimalista non oppressivo. Incarnano lo spirito dei primi coloni inglesi fuggiti dalla madre patria e dalla oppressione della corona inglese, arrivati nel nuovo mondo alla ricerca della libertà di religione e di espressione. I patrioti americani moderni incarnano lo spirito dei patrioti del 1776. “ Voglio meno ingerenza burocratica, meno governo; lasciatemi in santa pace.Togliete le mani dalla mie tasche e fatemi avere più controllo del mio destino” (Ronald Reagan)

 

 

Ma non è solo dal governo che scappano quelli come George e tanti altri come lui.  Scappano sì dalla tassazione asfissiante degli stati e delle contee progressiste-liberali, ma anche dal cambiamento demografico che li fa sentire emarginati, ospiti in casa propria.  Scappano da questi stati che hanno cominciato, secondo loro, a violare con leggi oppressive il sacrosanto diritto di possedere le armi. Diritto incastonato nel secondo emendamento della costituzione Americana:  “«Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto.»

 

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James Wesley Rawles è un autore americano che scrive romanzi sul tema della sopravvivenza; romanzi bevuti, letti e distribuiti tra i patrioti americani, incoraggiandoli a prepararsi alla prossima guerra civile e al caos che la caduta degli Stati Uniti porterà. Rawles si descrive come un costituzionalista tradizionale. Ex ufficiale dell’intelligence dell’esercito americano e` l’ispiratore, la mente, dell’esodo verso il redoubt americano. Anche Rawles, come George è californiano di nascita; di Livermore precisamente, un paese distante dal mio una decina di chilometri. Rawles cita la polarizzazione dei due maggiori partiti politici degli Stati Uniti,  la politicizzazione delle agenzie governative – individuando negli abusi di entità come l’FBI,  la CIA, la DIA e il Dipartimento degli Interni la causa di futuri conflitti. Rawles descrive la polizia, i tribunali e i mass media come complici delle agenzie statali e federali intente a violare i capisaldi presenti nella costituzione americana tesi a prevenire abusi da parte del governo e dei centri di potere della classe dirigente. Continua affermando che la tassazione è uno stratagemma socialista usato da un governo corrotto per “espropriare la produttività altrui e ridistribuire la ricchezza costruendo una base elettorale governo-dipendente e permanenteIl globalismo, il socialismo, la burocrazia sono inconciliabili con il patriottismo e la costituzione americana. I globalisti hanno come obiettivo la redistribuzione della ricchezza a livello globale e allo stesso tempo, attraverso il globalismo, i trattati internazionali ,  le grandi multinazionali e le leggi oppressive sull’ambiente, l’arricchimento personale di pochi a scapito della distruzione del concetto di nazioni e di popoli realmente liberi

 

 

Nel caos della futura caduta degli Stati Uniti, qualunque dovesse esserne il motivo, l’America Redoubt diventerebbe il nuovo baluardo, un nuovo soggetto geografico, dal quale, sulle ceneri della precedente, ricostruire il sogno di una nazione libera e costituzionalista; “Una nazione che diventi bastione di un nuovo cristianesimo tradizionale, libero da ogni legge o regola dettata da entità sovranazionali, globali, mondiali, con una presenza governativa ridotta al minimo essenziale. Una nuova nazione garante della libertà personale, con cittadini liberi di possedere le armi, di curarsi della propria terra come desidera, di vivere la propria vita sollevata da ogni giogo legislativo-burocratico. Mi piacerebbe vedere l’American Redoubt ritagliarsi l’autonomia necessaria rispetto a quelli che oggi conosciamo come gli Stati Uniti d’America. Vorrei vedere l’American Redoubt fondamentalmente come una roccaforte di valori tradizionali con il resto degli Stati Uniti affondare nell’oblio” afferma Rawles. Qui il blog di Rawles e dei patrioti dell’America Redbout:  https://survivalblog.com

Perché i patrioti americani hanno scelto questa area geografica per auto-esiliarsi? La risposta è da ricercare nella posizione “strategica” e politica di questa area geografica. Il Wyoming, Idaho, Montana, le parti orientali dell’Oregon e dello stato di Washington, sono a maggioranza di destra conservatrice. Sono geograficamente montagnosi, piene di risorse naturali. Secondo i patrioti dell’American Redbout la possibilità di acquistare proprietà con un esteso pezzo di terra, incluso di torrente, alberi e cacciagione, permette la completa indipendenza e quindi sopravvivenza in caso di collasso sociale. In più il fatto che le regioni sono montagnose permette a chi li conosce bene di usare il territorio a proprio favore in caso di conflitto armato. L’agenzia immobiliare survival realty  è specializzata nella vendita della perfetta proprietà da acquistare nell’America Rebout. https://www.survivalrealty.com/american-redoubt/

C`è un altro aspetto che spinge all’esodo dei patrioti americani verso il redoubt: Sono Stati in cui il diritto al possesso delle armi è regolato al minimo. L’Idaho, il Montana e il Wyoming sono considerati fra i primi dieci stati più permissivi nel possesso delle armi. Per esempio in Wyoming la legge permette il trasporto libero delle armi. Non è richiesto un permesso. Puoi andare dove vuoi con le tue armi, puoi anche mostrarle in pubblico. Non è richiesto nessun permesso e nessuna registrazione al momento dell’acquisto. Non ci sono limitazioni al numero delle armi che puoi acquistare. Non esiste nessuna legge che regola le dimensioni dei caricatori. In contrasto la California non permette l’uso di caricatori con più di 10 proiettili. Lo stato della California richiede un permesso per trasportare l’arma. Per acquistarla devi sottoporti ad un controllo per eventuali precedenti penali e problemi psichiatrici. Le armi acquistate devono essere tutte registrate. Qui in dettaglio le leggi che regolano il possesso di armi stato per stato:https://www.gunstocarry.com/gun-laws-state/#wy2

Ma chi sono e quanti sono esattamente i patrioti del redoubt? Un’inchiesta condotta dalla rivista The Economist in un articolo dell’agosto 2016 sul movimento american rebout intitolato “L’ultima Grande Frontiera”,  stimava che “migliaia di famiglie” si sono trasferite nella Redoubt  affermando che il  movimento “sta lentamente guadagnando terreno”  Quantificare l’esatto numero è impossibile perché la stragrande maggioranza delle persone che si trasferiscono sono per natura molto circospetti. Sono distaccati dal mondo mediatico-sociale. Molti di loro non hanno accesso a internet , televisione e telefono, strumenti che considerano di spionaggio e controllo. La forma di  comunicazione preferita è una battuta di caccia in cui ritrovarsi e coordinare varie idee, tra una birra, un barbeque e una sventagliata di caricatore. Wilderness living – The last big frontier | United States

La maggior parte sono cittadini che non si rispecchiano più in una nazione che sta cambiando, fedeli ancora ad una idea di America che va lentamente dissolvendosi. Sono di tutte le razze, non solo bianchi. Il rappresentante dei patrioti americani che si appresta a correre per la sedia del terzo distretto senatoriale dello stato dell’Idaho si chiama Alexander Barron, un afro-americano: https://alexanderbarron.com

I patrioti americani vengono definiti da molti, come rappresentanti di estrema destra. In realtà i patrioti americani  rifiutano il concetto di nazismo, fascismo e comunismo. Odiano entità come gli antifa e i naziskins. Sono ideologie che non collimano con la loro idea di libertà poiché vengono visti come strumenti di ideologie oppressive dei popoli, veicoli di governi autoritari; l’antitesi del credo patriottico americano che nel governo vede uno strumento di oppressione.

 

 

 

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Sposta una di quelle sagome più a destra, non vedi che che sono troppo vicine?” grido a George mentre osservando dalla distanza lo vedo posizionare i bersagli per il tiro. Non lo sento rispondere, ma anche se mi volta le spalle, realizzo mentalmente  la serie di di parolacce che probabilmente sta sussurrandomi contro. “A proposito non vedo l’AR-15- l’hai preso dal bunker?”  chiedo a George guardando di fronte a me la serie di armi appoggiate sul largo tavolo. “Bro, go fuck yourself!” esplode finalmente George, dopo il record di cinque minuti di silenzio durante I quali ha evitato di reagire alla mia prima provocazione. Ma ora la misura è colma “quando smetti di fare la parte della fighetta me lo dici. Hai riempito i caricatori?” mi chiede George. “Certo che li ho riempiti, mentre tu giocavi a bambole con le sagome. Il Remington, l’M60 e il Mossberg sono pronti , ma non vedo gli AR-15. Pensavo li avessi presi.gli rispondo.”Devo averli lasciati a casa” esclama George. “Potevi anche ricordami di portarli” mi dice con tono accusatorio. “Io sono incaricato di trasportare le cassette delle pallottole, le protezioni agli occhi e alle orecchie, tu le armi; se sei entrato in fase senile me lo dici prima, così penso a prendere e trasportare tutto io…” ribatto. “Whatever man! Let’s get it started” risponde con voce alterata.

Con l’arrivo di due amici di George, il suo poligono personale, situato all’interno della sua proprietà, si illumina come un campo di battaglia con i traccianti di fuoco che eruttano dalle canne delle nostre armi. Alla fine, circa 50 sagome e oltre mille cartucce vuote ricoprono il terreno sotto i nostri piedi. Mentre con aria soddisfatta ci stringiamo la mano complimentadoci a vicenda, mi vengono in mente le parole di George “Questa è la mia collina di armageddon, da qui combatterò la mia ultima battaglia, il mio ultimo atto

 

 

 

 

 

 

 

 

Amazon, Ibm, Microsoft e Oracle vanno all’attacco sulle commesse del Pentagono, di Giuseppe Gagliano

l caso del contratto Jedi del Dipartimento della Difesa assegnato a Microsoft. I dissidi fra Trump e Amazon. Le mosse di Ibm e Oracle. E non solo. L’approfondimento di Giuseppe Gagliano

Jeff Bezos, ceo di Amazon, ha dichiarato che gli Stati Uniti sarebbero “nei guai” se “le grandi aziende tecnologiche voltassero le spalle al Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti”. I giganti della tecnologia sono guidati da un’improvvisa sensazione patriottica o questi interessi puramente economici e finanziari, sotto le spoglie del patriottismo, sono finalizzati a dominare il mercato americano multimiliardario della difesa?

Nell’agosto 2019, Microsoft ha vinto un contratto decennale da $ 7,6 miliardi con la difesa degli Stati Uniti: il contratto DEOS (Defence Enterprise Office Solutions). L’obiettivo di DEOS è standardizzare la messaggistica collaborativa e i flussi di lavoro sotto la piattaforma Office 365, rafforzando al contempo la sicurezza informatica e la condivisione delle informazioni. Un anno prima, Microsoft aveva vinto due contratti nel settore militare e dell’intelligence.

Nel maggio 2018, la CIA ha deciso di offrire alle 17 agenzie di intelligence un pacchetto Cloud multi-operatore condiviso tra Amazon e Microsoft (Office 365). Amazon, con la sua offerta dedicata ai servizi di informazione, è dal 2013 l’unico operatore su questo mercato (per un budget stimato di oltre 600 milioni di dollari).

Nel novembre 2018, Microsoft ha vinto una rilevante gara d’appalto per fornire fino a 100.000 cuffie per la realtà virtuale HoloLens all’esercito americano per un massimo di $ 480 milioni.

Infine, il 25 ottobre 2019, il Dipartimento della Difesa (DoD) ha annunciato di aver assegnato a Microsoft il contratto JEDI per l’archiviazione dei dati nel suo cloud.

Uno studio pubblicato nell’aprile 2019 dal sito Parkmycloud mostra che Amazon rimane il leader nel mercato del cloud, posizionandosi molto più avanti di Microsoft, Google, Ibm, Oracle, con servizi cloud che rappresentano il 13% della sua attività totale nel 2018, in evoluzione con il 41% all’inizio del 2019. Amazon ha infatti milioni di clienti, tra cui Netflix, Airbnb, Palantir e GE.

Con la sua soluzione Amazon Rekognition, che identifica i volti, rileva l’età, il sesso e alcune emozioni, in fase di test con l’FBI dimostra come stia diventando uno dei maggiori appaltatori della difesa degli Stati Uniti. Amazon era quindi il grande favorito per vincere il contratto JEDI. Perché ha perso?

Il contratto JEDI mira a modernizzare i sistemi IT militari per facilitare l’implementazione di una nuova architettura di archiviazione cloud per l’80% dei dati. Il DoD ha deciso, al momento del lancio, di assegnare l’intero contratto a un unico fornitore, piuttosto che suddividerlo in più gare d’appalto. Ebbene, nell’aprile 2019, Microsoft e Amazon erano le uniche due società in corsa. Infatti Google aveva deciso di ritirarsi sotto la pressione dei suoi dipendenti, IBM e Oracle erano state escluse dalla gara. D’altra parte, diversi altri eventi hanno interrotto il corso di questo bando di gara fino alla decisione del 24 ottobre.

In primo luogo è stata fatta una causa su iniziativa di Oracle che accusa il DoD di aver ingiustamente strutturato questo contratto a favore di Amazon.

In secondo luogo la presenza di conflitti di interesse che coinvolgono Amazon, che ha assunto uno dei suoi ex dipendenti per passare attraverso il Pentagono durante il processo di gara. Questa accusa, ripresa da Oracle e dagli altri concorrenti, non è stata dimostrata a seguito di un’indagine del DoD.

In terzo luogo sia Oracle che Ibm, sostenute da diversi membri del congresso americano, hanno sottolineato che la scissione del contratto avrebbe potuto consentire di ottimizzare i costi del servizio offerto.

In quarto luogo, in questa offensiva, Oracle e gli altri concorrenti sono riusciti a coinvolgere il presidente americano nell’aggiudicazione di questo contratto.

Il Dipartimento della Difesa, da parte sua, afferma che “tutti i candidati sono stati trattati in modo equo e valutati secondo i criteri di valutazione stabiliti nell’invito a presentare offerte”. Le informazioni pubbliche sembrano smentire questa versione. Infatti a luglio, il presidente ha dichiarato di aver ricevuto “un numero molto elevato di denunce” dagli sfidanti di Amazon in merito all’offerta JEDI.

La strategia di Oracle e Ibm è stata quella di attaccare e occupare il campo. Oracle e i suoi lobbisti hanno capito che, con l’elezione di Donald Trump, il modus operandi è cambiato poiché il presidente non esita a interferire in modo esplicito in tutte le aree. Ciò è tanto più vero soprattutto quando si tratta di Amazon, data la relazione “ostile” tra Donald Trump e Jeff Bezos (ceo di Amazon e proprietario del Washington Post).

Questa analisi sembra confermata perché, secondo la CNBC, in un libro che verrà pubblicato l’ex segretario di Stato alla Difesa, Jim Mattis, ha sostenuto che, nell’estate del 2018, Donald Trump gli aveva chiaramente chiesto di “escludere Amazon AWS” del contratto JEDI cosa che Jim Mattis non ha fatto.

Analizzando le manovre dei concorrenti di Amazon, diventa chiaro che Oracle ha avuto un atteggiamento molto offensivo volto soprattutto ad attaccare. Con informazioni controverse e non verificate da critici e lobbisti del contratto, Oracle e Ibm sono riusciti a catturare l’attenzione del presidente Trump. Dato il suo carattere impulsivo e la sua animosità nei confronti di Jeff Bezos, l’inquilino dell’ufficio ovale si è sentito in dovere di intervenire nel processo. Oracle e Ibm nelle loro strategie ora sperano che Amazon porti la questione davanti ai tribunali federali.

Oracle e Ibm, consapevoli che sarà difficile vincere questa importante competizione, hanno deciso una strategia di attacco molto chiara. L’effetto finale cercato è quello di creare un sentimento di paura nell’opinione americana sottolineando la pericolosità di una posizione monopolistica di Amazon o Microsoft (in misura minore) nei circoli della difesa. Questo sentimento dovrebbe indurre l’opinione politica e civile a chiedere la suddivisione del contratto JEDI tra diversi attori.

Amazon non ha ancora dato una risposta chiara a tale proposito. Una cosa è tuttavia certa: qualunque sia l’esito di questo caso, è chiaro che la dipendenza del Pentagono dalla Silicon Valley è destinata ad aumentare, poiché gli investimenti delle imprese saranno sempre maggiori di quelli del governo degli Stati Uniti e ciò probabilmente determinerà l’affermarsi di un attore monopolista. Nella sua strategia di difesa, Amazon ha tutto l’interesse a conseguire questo obiettivo.

https://www.startmag.it/mondo/amazon-ibm-microsoft-e-oracle-vanno-allattacco-sulle-commesse-del-pentagono/?fbclid=IwAR2o5nt92MBRE41rlR8ZvHyDzBxnZpduaNTavt4zH5VP_eZOW_3–pvS2Hc

le bussole, di Pierluigi Fagan

ORIENTARSI DUE. Oltre a quelle già note da tempo, ecco tre belle azioni di riorientamento operate dagli Stati Uniti d’America che con Trump hanno già da tempo scelto di realisticamente accettare gli standard del nuovo mondo multipolare. Letture pigre ed offuscate da immagini di mondo poco lucide, hanno proposto la categoria dell’isolazionismo per la politica estera USA, ma solo degli idioti a trazione integrale potrebbero immaginare gli USA che si isolano. A meno di non intendere il termine “isolamento” come un prender coscienza del fatto che si è un’isola (il Nord America per certi versi lo è) e stante che le isole non sono di per loro “isolate”, solo stanno un po’ più a sé rispetto a chi abita una porzione continentale. Quindi gli USA, con Trump, non si isolano, solo tornano a prender coscienza della loro natura geografica e recedono dunque dalle impostazioni post-geografiche per cui sembrava che USA-Europa-Mondo fossero un unico sistema immateriale, a-spaziale, a-geografico. Il mondo invece sta tornando geografico ( e geostorico) e quindi chi sta su un’isola spaziata tra due oceani, sta naturalmente tra sé e sé, il che non significa affatto stia isolato nel senso di chiuso in sé.

Quindi, della serie “selezioniamo le vecchie amicizie”, ancora e sempre più amici di Israele e non più amici di Germania e fintanto che rimarrà euro ed UE, Europa. Tutte cose note da tempo, strategie perseguite con costanza, costanza strategica che molti analisti hanno negato a lungo sostenendo di aver a che fare con un metereopatico che twitta furioso secondo estro. Come se poi il centro del potere formale attuale americano fosse nelle mani di un individuo, illusione tipica di letture riduzioniste ma anche molto irrealistiche figlie di concezioni storiche anglosassoni basate sul Big man. Si noti quel non riconoscere valore di primazia giuridica internazionale (CPI) poiché ognuno ha la sua giustizia e non esiste una giustizia sovranazionale, nulla esiste nel sovranazionale, dagli accordi sul clima, ai diritti umani se non quelli decisi unilateralmente dagli USA secondo convenienza. E si noti quel mettersi accanto alle paranoie dell’ex Europa dell’est alle prese con il solito incubo geo-grafico-storico dell’immensa pianura stretta tra Germania e Russia, con evidenti ricadute anche sul mercato delle energie in cui gli USA hanno da poco ritrovato il primato produttivo.

Ma la notizia più gustosa è quella della nuova sesta forza armata, un paio di giorni appena dopo l’uscita mondiale dell’ultima puntata di Guerra Stellari. Notizia nota e più che annunciata per altro, ma sempre della serie “abbiamo un piano complesso e coordinato”. Il controllo dello spazio è la “Nuova Frontiera” e per una paese nato su quel concetto, la cosa è identitaria. Ma sotto l’identità ci sono anche le opzioni del controllo climatico con la geo-ingegneria, la corsa alle materie prime, il controllo delle telecomunicazioni future, il traino ad una nuova stagione di Ricerca&Sviluppo in ambito A.I. e tecnologie ed armi conseguenti. Nonché il sempiterno keynesismo da guerra simulata. Al casinò del gioco di tutti i giochi, il banco ora insidiato dai nuovi ricchi giocatori asiatici, reagisce aprendo un nuovo tavolo di gioco nel quale parte con un certo vantaggio che intende consolidare. “Venite a giocare anche voi” sembra dire il croupier, “venite a dissipare la vostra nuova ricchezza invece di reinvestirla nella crescita economica, quindi sociale, quindi politica, quindi geopolitica.” Schema da Guerra Fredda poiché se ha funzionato una volta, perché non riproporlo?

Insomma, il mondo è in pieno e potente movimento e chi non ha una strategia realistica per i prossimi trenta anni, sarebbe già qualcosa prendesse atto dei rischi che corre. Esattamente un secolo fa, il Poeta pubblicò i versi dettati dalla condizione di soldato di trincea esposto alla più grave delle incertezze esistenziali “Si sta come – d’autunno – su gli alberi – le foglie”. Sapendo che s’alzeranno venti potenti …

ORIENTARSI. Con il 60% dell’umanità, l’Asia, avendo da un po’ di tempo applicato alle proprie diverse forme di vita associata i principi dell’economia moderna inventata dagli anglosassoni, poi europei, poi americani, è ovvio stia diventando la massa critica economica del pianeta, fatto a noi qui già noto da tempo. A numero-peso-misura, lo rileva anche il FT su dato ONU, l’anno prossimo quel 60% peserà economicamente quanto tutto il resto del mondo. In seguito arriverà presto ad equiparare peso demografico con peso economico. L’Asia è ovviamente un sistema non una collezione di eterogenei, quindi ci saranno feedback positivi accrescitivi ed impiegherà poco tempo per quel riallineamento.

Il mondo multipolare, è fortemente legato a questa novità. In Asia ci sono almeno quattro economie di peso assoluto (Cina, India, Giappone, Corea del Sud), due giganti demografici (India e Cina) ed almeno altri due pesi massimi (Indonesia e Pakistan). Per vari motivi noti, la Russia si sta ri-orientando ad Oriente, così faranno -in parte- la Turchia e l’Iran, attirati dalla mega-gravità asiatica

Per meglio capire le logiche del nuovo mondo multipolare, è istruttivo non tutto l’ultimo numero di Limes sulla “strana coppia” Russia-Cina (abbastanza noioso), ma solo lo specifico articolo di Manoj Joshi dell’Observer Research Foundation di New Dehli. Il titolo del suo articolo deve esser stato dato dalla redazione della rivista “Scegliere di non scegliere” a proposito dei rapporti ben bilanciati che gli indiani coltivano tanto coi russi, che con gli americani, che coi cinesi. In realtà, il titolo è ampiamente sbagliato poiché applica una categoria “lo scegliere l’allineamento” o il “da che parte stare” che nel mondo multipolare non si darà proprio per diversa logica. Nel mondo multipolare, chi potrà, sceglierà di star per sé coltivando molteplici relazioni (non mettere tutte le uova nello stesso paniere), non in favore di qualcun altro. Quindi la categoria è sbagliata, desueta, sintomatica del ritardo categoriale (quindi di mentalità) con cui analizziamo il mondo. Al netto di altre questioni (ecologiche, finanziarie, tecnologiche) potrebbe esser un mondo molto divertente e potenzialmente anche più equilibrato, almeno tra civiltà e nazioni.

Poiché pare probabile che qualcuno a Westminster legga il FT, si capisce allora anche meglio del perché UK abbia sentito così forte il bisogno di darsi “mani libere”. Quando si tratta di “orientarsi”, i brit non sono secondi a nessuno essendo intrinsecamente navigatori.

Se l’anno prossimo, nel mondo, torneranno in vigore i pesi economici del 1700 speriamo non tornino in auge anche le diseguaglianze interne alle società occidentali di allora. Convincere le nostre élite che le minori condizioni di possibilità dovrebbero esser equamente ripartire non sarà per niente facile. C’è chi tutto ciò già lo sapeva da qualche decennio poiché bastavo due dati in croce per predirlo. Ed infatti è in vista di tutto ciò che qualcuno s’è preparato per tempo, il manifesto del “neoliberismo” è tutto dentro il Washington consensus, che è del 1989. Convincere gli occidentali che si dovrebbe aprire una stagione di ripensamento di tutti i fattori, per adattarsi al mondo nuovo, non sarà per niente facile. Alcuni di loro non ne vorranno proprio sentir parlare.

Urgono sperimentatori-coltivatori di nuove mentalità quindi, perché la sfida sarà “epocale”.

Quesito di fine anno, di Piero Visani

Quesito di fine anno

       Credo che la lunga lista di fallimenti che lo Stato italiano sta accumulando, con interventi resi necessari per evitare il collasso di un po’ di tutto e dare non un futuro (perché quello palesemente non esiste più) ma almeno un presente a famiglie di poveri lavoratori e risparmiatori prese solennemente per le terga, renda più urgente che mai la formulazione di un quesito fondamentale: quanto resisterà ancora lo Stato italiano prima di esplodere/implodere? Con i giovani di valore che fuggono all’estero (giustamente) per non dover mantenere a ufo una massa di adepti dell'”uno vale uno”; con l’invecchiamento demografico ormai spettrale e il sistema pensionistico al collasso; con l’intero Paese piegato sotto il peso delle tasse per mantenere il sistema politico/burocratico, il “socio occulto che fa fallire tutto e tutti”, credo che sia ormai giunto il tempo dei discorsi verticali. Quanto durerà ancora questo Paese, quanto sopravviverà al suo fallimento totale in tempo di pace?
        Personalmente, penso poco, piuttosto poco; ma so che la narrazione dominante vuole che al popolo bue venga raccontata la sempiterna fola dell’andreottiano “alla fine tutto si aggiusta”. E’ una narrazione largamente condivisa e perfino sommessamente elogiata, solo che viene dimenticata la vera “fine della storia”. In effetti, in Italia “alla fine tutto si aggiusta”, ma come “si è aggiustato” per l’avvocato Ambrosoli e – oggi – non ce n’è più solo uno, oggi lo siamo tutti noi…
       Poiché a me piace da pazzi l’humour nero, si accettano scommesse sulla data prevedibile della Boa Morte, che – considerato come si vive mediamente qui – sarà sicuramente una scelta di vita.

Cont(e)i che non tornano, di Giuseppe Masala

Continua la marcia trionfale della nostra Bilancia Commerciale.

Ieri l’Istat ha divulgato i dati sulla nostra bilancia commerciale aggiornata al mese di Ottobre 2019. Possiamo dire senza tema di essere smentiti che siamo di fronte ad una vera e propria marcia trionfale delle nostre aziende esportatrici che evidentemente sono aggressive e assolutamente competitive a livello mondiale. A livello congiunturale (ovvero raffrontando il dato su quello del mese precedente) le esportazioni sono aumentate dello 0,7% sui mercati UE e del 6,1% sui mercati extra UE. Su base annua e dunque a livello tendenziale l’aumento dell’export è pari al 4,3% trainata dal fortissimo exploit sui mercati extra UE (+ 8,3%). Dal punto di vista delle importazioni invece si rileva una diminuzione del 2,3% a livello congiunturale e del 5,8% su base annua (dato tendenziale). Il contemporaneo aumento delle esportazioni e della diminuzione delle importazioni (dovuto ovviamente a politiche economiche improntate all’austerità e alla conseguente compressione dei consumi interni) comporta un saldo della bilancia commerciale a livello congiunturale pari a + 8,057 miliardi di euro e nei primi dieci mesi dell’anno pari ad un surplus mostruoso di ben 43,038 miliardi di euro.

Non è azzardato dire che siamo una nazione che vive al di sotto (e di molto) delle sue possibilità che ormai accumula surplus di bilancia commerciale “alla tedesca”. Dunque conseguentemente siamo una nazione che risparmia molto e che consuma molto al di sotto a ciò che i conti e i rapporti con l’estero le permetterebbero. Attendiamo a questo punto l’aggregazione con le altre poste dei conti con l’estero (redditi primari, secondari, ecc. ) per vedere il saldo delle partite correnti. Ma, appare evidente che continuiamo a marciare a tappe forzate verso ulteriori record di surplus di partite correnti e verso il pareggio del Niip (Net international investment position; posizione finanziaria netta).

Inutile ricordare che un sistema-paese con posizione finanziaria netta in pareggio e con forte surplus di Bilancia Commerciale e di Saldo delle Partite Correnti è un paese solvibile ed inaffondabile e che il focus truffaldino sul livello del debito pubblico è assolutamente fuorviante perchè non tiene conto che avendo un Niip positivo significa che esso è debito detenuto da cittadini o comunque facilmente riacquistabile con risorse interne: dunque ciò significa che è un debito nei confronti di noi stessi. Ma i soloni dell’UE fanno finta di non vedere e non capire questa correlazione per motivi ideologici (“affamare la bestia”) e per costringere il paese ad ulteriori dosi di chemioausterità inutile ed insensata con il risultato di frenare lo sviluppo interno di un concorrente e con il malcelato intento di costringere i redditi figli del surplus a finanziare paesi evidentemente “figli di un Dio Maggiore” (ogni riferimento a Francia, Germania e Olanda non è casuale). E così assistiamo al paradosso di rappresentanti di paesi con i conti con l’estero completamente sfasciati – e dunque dipendenti dai capitali esteri – che fanno la morale a paesi come l’Italia in perfetto equilibrio dei conti (ogni riferimento a Dombrovskis è assolutamente voluto). Così va la vita nell’Universo Orwelliano europeo.

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