UN CRESCENTE MALESSERE FRANCESE NEI CONFRONTI DELL’ALLEANZA, di Hajnalka Vincze

Qui sotto ancora un articolo particolarmente interessante di Hajnalka Vincze sul dibattito e le divergenze, forse il conflitto, che si sta insinuando tra i paesi della NATO. A parere dello scrivente pecca però di un certo ottimismo riguardo l’anelito autonomista di Macron. Le sue parole e i suoi propositi dichiarati stridono con i suoi atti concreti, in primo luogo con la salvaguardia strenua del complesso militare industriale francese. Macron è l’artefice, ma sul solco almeno delle due precedenti presidenze, degli atti più compromettenti riguardanti l’esposizione di AIRBUS alle mire dell’industria aeronautica americana, la liquidazione, dietro pesanti ricatti e pressioni di ogni tipo, di Alstom energia, in particolare la produzione di turbine a General Electric, la cessione ai fondi americani del settore della trasmissione e componentistica interna dell’aereonautica. I risultati cominciano a vedersi rapidamente, a cominciare dalla perdita di controllo del settore della manutenzione delle turbine dei sommergibili e delle centrali nucleari e dallo svuotamento e trasferimento negli States del grande centro ricerche di Parigi. Per non parlare della pesante esposizione militare in Africa, legata malinconicamente alla condiscendenza americana. Una classe dirigente che non vuole e non sa difendere i propri settori strategici, tanto più se legati alla difesa, non può ambire credibilmente ad assumere  la direzione di una linea europea di politica estera e di difesa realmente autonoma dagli Stati Uniti; tanto più che ad essa si accompagna una politica predatoria particolarmente gretta, subalterna alla Germania, ai danni di potenziali ed imprescindibili sostenitori, in primo luogo l’Italia, di questa presunta ambizione. Una politica tesa piuttosto a spingere le vittime verso lidi più scontati e ad acuire i conflitti intraeuropei. Conoscendo la provenienza e il retroterra culturale, il brodo di coltura del personaggio, la sua vanagloria e prosopopea nascondono o conducono ad altri propositi se non suoi, “pauvre homme”, certamente dei suoi mentori. Paragonarlo a de Gaulle mi pare quindi un po’ troppo generoso. Buona lettura_Giuseppe Germinario

OLTRE LE CRITICHE DI MACRON ALLA NATO: UN CRESCENTE MALESSERE FRANCESE NEI CONFRONTI DELL’ALLEANZA

Istituto di ricerca sulla politica estera – Nota del 26 novembre 2019

Parlando, in un’intervista a The Economist , della “morte cerebrale” dell’Alleanza atlantica, il presidente Macron poteva sicuramente essere certo di provocare l’ira dei suoi omologhi europei. Se ha scelto di imbarcarsi in questo, è perché lo vede come una necessità urgente. A un anno dalle prossime elezioni americane e con l’affondamento della Brexit, si sta chiudendo una finestra di opportunità senza precedenti. Questo allineamento unico dei pianeti, che secondo la visione francese avrebbe dovuto finalmente portare i partner dell’UE sulla strada dell’autonomia strategica, non ha davvero dato i suoi frutti.

Peggio ancora, la maggior parte dei governi europei, confrontati senza mezzi termini alla realtà della loro dipendenza dagli Stati Uniti, sembrano preferire gesti di fedeltà discreta ma concreta nei confronti dell’America. Agli occhi di Parigi, è tutt’altro che logico. Ma, come giustamente ha detto l’ex consigliere di Tony Blair, Robert Cooper, a proposito di Europa e di autonomia: “il mondo non segue la logica, procede per scelte politiche” . Il presidente francese ha quindi deciso di esporre la scelta che attende gli europei secondo lui – per quanto “drastica” .

La minaccia che la Francia percepisce

Agli occhi di Parigi, anche se la possibilità di un disimpegno americano menzionata più volte dal presidente Trump avrebbe dovuto provocare uno slancio “autonomista”, la maggior parte dei partner europei preferisce piuttosto una tensione atlantista. L’alternativa era già stata esposta in un acceso scambio di opinioni presso il Centro europeo per le relazioni estere nel 2011, tra il britannico Nick Witney (ex direttore dell’Agenzia europea per la difesa) per il quale vige l’alternativa di avere una difesa europea autonoma oppure “vivere in un mondo guidato da altri “ e dal tedesco Jan Techau (direttore degli affari europei alla Carnegie Endowment), che vede nell’autonomia europea un ” villaggio Potemkin “che dovrebbe essere rimosso a favore di “un’intensa preoccupazione per il legame transatlantico” . Se la retorica europea nell’era di Trump a volte prende in prestito le arie della prima visione, le azioni, d’altra parte, vanno nella seconda direzione. Sulla NATO, in particolare, per placare il presidente Trump, gli europei sono pronti a far evolvere l’organizzazione in una direzione che, per loro, significa più abbandono e confinamento nella dipendenza.

(Credito fotografico: CNN)

Questa inclinazione è stata evidenziata in un esercizio di simulazione di alto livello, le cui conclusioni sono state pubblicate alla fine di settembre. L’ultimo Körber Policy Game , organizzato congiuntamente da un think-tank tedesco (lo stesso in cui il Segretario Generale della NATO ha pronunciato il suo discorso quando è stata pubblicata sulla stampa l’intervista al presidente francese) e il prestigioso IISS ( International Institute for Strategic studi) Britannici, in un consesso di esperti e funzionari di Francia, Germania, Regno Unito, Polonia e Stati Uniti. Divisi in squadre nazionali, si trovarono di fronte a uno scenario fittizio in cui l’America si ritira dalla NATO e alla sua partenza seguono molteplici crisi scoppiate nell’Europa orientale e meridionale. I risultati sono illuminanti. È emerso, tra le altre cose, che invece di raccogliere la sfida della propria sicurezza, “la maggior parte delle squadre” ha cercato piuttosto, inizialmente, di convincere gli Stati Uniti a tornare alla NATO, a spese di essa cedere a “concessioni prima inimmaginabili” . Ciò lascia pochi partner propensi alla visione “autonomista” sostenuta dalla Francia.

L’urgenza che prova Parigi

La scelta del momento non è banale. L’intervista a The Economist ha avuto luogo tre giorni dopo la conferenza stampa in cui Macron ha dichiarato di essere indignato per il modo in cui ha appreso, tramite tweet, del ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria, seguito dall’incursione turca nel Paese: “mette in discussione anche il funzionamento della NATO. Mi dispiace dirlo, ma non si può fingere ”. In realtà, per quanto spettacolare possa essere l’episodio siriano, è solo l’ultimo di una serie di atti, composta da sanzioni extraterritoriali, abbandono del trattato sul controllo degli armamenti, pressioni commerciali e altre decisioni unilaterali percepiti come umilianti dagli altri membri dell’Alleanza – tranne per il fatto che quest’ultimo incidente è avvenuto a malapena un mese prima della prossima riunione dei leader della NATO. Il timore di Parigi è che per convincere il presidente Trump, gli europei cederanno troppo su temi come la designazione della Cina come nuovo nemico comune , l’inclusione dello spazio tra i teatri delle operazioni della NATO o ancora l’accesso degli Stati Uniti ai programmi di armamento finanziati dall’UE con il denaro dei contribuenti europei.

In effetti, la Francia continua a sostenere una “rifocalizzazione” della NATO, in contrapposizione alla sua crescente pressione ai confini dell’UE. sforzi degli Stati Uniti dalla fine della guerra fredda hanno portato a “globalizzare” la NATO , in modo che il maggior numero di settori sono trattati nel quadro della NATO, che, come ha detto Joachim Bitterlich, ex consigliere del cancelliere Kohl: “gli americani si trovano in una situazione conveniente perché hanno l’ultima parola e tutto dipende da loro”. Precisamente, Parigi è preoccupata che su un numero crescente di dossier (oltre la Cina, lo spazio e gli armamenti, si tratta anche di cyber, energia, intelligenza), gli alleati europei – presi dal panico dalle ricorrenti minacce del presidente Trump di “moderare il suo impegno” – acconsentano al trasferimento di competenze nazionali e / o europee alla NATO. E lasciarsi bloccare ancora di più in una situazione di dipendenza.

Il bersaglio scelto da Macron

Non è un caso che al centro delle domande di Macron sull’Alleanza vi sia l’articolo 5 – quello che incarna la difesa collettiva, in altre parole il fatto che un attacco contro un alleato è considerato un attacco contro tutti gli stati membri. Tradizionalmente, è per non compromettere questa garanzia di protezione degli Stati Uniti che gli alleati europei fanno concessioni e testimoniano, come osserva Jeremy Shapiro, ex pianificatore e consigliere del Dipartimento di Stato americano, “di un patologico compiacimento e eccessiva deferenza “ verso gli Stati Uniti. Il paradosso, sotto il presidente Trump, è che evidenzia in maniera cruda e pubblica questa logica transazionale dell’Alleanza, mentre mette in dubbio ,ancora e sempre , le sue fondamenta. Per la Francia, è un vantaggio. Come lo ha dichiarato il ministro degli affari europei Nathalie Loiseau nel 2017: “Mentre le parole del presidente americano potrebbero aver creato una certa confusione riguardo al suo attaccamento all’Alleanza atlantica, l’interesse ad un’autonomia strategica dell’Unione. Europea è apparsa molto più chiaramente di prima a molti dei nostri partner europei. Ne eravamo convinti; altri lo sono molto di più oggi rispetto a ieri . 

Solo che gli atti non seguono. Emmanuel Macron ha quindi deciso di insistere sul fatto che “il garante di ultima istanza non ha più le stesse relazioni con l’Europa. Ecco perché la nostra difesa, la nostra sicurezza, gli elementi della nostra sovranità, devono essere pensati a pieno titolo ” . E il Presidente ha continuato: la NATO “funziona solo se il garante dell’ultima risorsa lavora come tale. Direi che dobbiamo rivalutare la realtà di cosa sia la NATO in termini di impegno degli Stati Uniti d’America ” . Alla domanda se “l’articolo 5 funziona” o no, ha risposto “Non lo so, ma che cosa sarà l’articolo 5 domani?” “ . Fare attenzione a specificarlo“Non è solo l’amministrazione Trump. Devi guardare cosa sta succedendo molto profondamente dalla parte americana . ” In realtà, ciò che dice non è né nuovo né eccezionale. La British Trident Commission , ad esempio, è giunta praticamente alle stesse conclusioni nel 2014. Composta, tra l’altro, da ex ministri della difesa, affari esteri e ex capo dello staff della difesa, fu incaricato di rivedere i meriti del rinnovo dell’arsenale nucleare del Regno Unito. Arrivarono alla spinosa domanda: “Possiamo contare sugli Stati Uniti per avere la capacità e la volontà di fornire  [protezione] indefinitamente, almeno entro la metà del 21 ° secolo?” “ E ha risposto che“Alla fine, è impossibile rispondere” . La differenza con Macron è che gli inglesi si preoccupavano principalmente di “non inviare un messaggio sbagliato sulla credibilità” della protezione americana, mentre il presidente francese desidera, al contrario, avvisare e provocare un soprassalto tra i suoi Partner europei.

La rinnovata visione francese

Nonostante le reazioni indignate di esperti e funzionari , le osservazioni del presidente francese erano tutt’altro che “bizzarre”. Al contrario, sono in linea con la tradizione gaullista-mitterandiana che Macron ha deciso di esporre già, davanti agli ambasciatori, nel suo ultimo discorso annuale . La chiave di volta di questa visione è sempre stata la nozione di sovranità – un termine che Macron pronuncia venti volte in The Economist. Questo ritorno alle basi richiede tre osservazioni. Primo: l’imperativo dell’autonomia non è mai stato diretto contro gli Stati Uniti. Nel pensiero francese, o manteniamo la nostra sovranità su qualsiasi paese terzo, oppure no. Se gli europei decidono di farne a meno in un caso, in particolare nei confronti dell’America, le matrici di soggiogazione che ciò implica (la perdita delle proprie capacità materiali e la mancanza di potere psicologico) le metteranno in balia di qualsiasi altro potere in futuro. In altre parole, non assumendo la sua piena autonomia, l’Europa diventerà, domani, una facile preda per chiunque. Come spiega Macron: “L’Europa, se non si considera una potenza, scomparirà” .

(Credito fotografico: Financial Times)

Secondo: nella visione francese, la sovranità, oltre ad essere un imperativo strategico, è anche una condizione sine qua non della democrazia. Senza indipendenza dalle pressioni esterne, ha poco senso votare per i cittadini. Macron ha chiaramente messo in luce questo legame intrinseco alla vigilia delle ultime elezioni europee: “Se accettiamo che altre grandi potenze, compresi gli alleati, compresi gli amici, si mettano in condizione di decidere per noi, la nostra diplomazia, la nostra sicurezza, allora non siamo più sovrani e non possiamo più guardare in modo credibile alle nostre opinioni pubbliche, ai nostri popoli dicendo loro: decideremo per voi, venite, votate, venite e scegliete. “ È la stessa idea che ha sostenuto davanti agli ambasciatori, ricordando loro: “È un’aporia democratica che consiste nel fatto che il popolo può scegliere sovranamente leader che non avrebbero più il controllo su nulla. E così, la responsabilità dei leader di oggi è di darsi anche le condizioni per avere il controllo sul loro destino . 

Infine: oltre questo ritorno all’essenza stessa del gollismo, l’intervista di Macron a The Economist segna anche il desiderio di riconnettersi con un atteggiamento, con un modo specificamente francese di fare diplomazia. Infatti, dal suo fragoroso rifiuto della guerra in Iraq, la Francia si è comportata come spaventata dalla sua audacia: aveva in parte abbandonato la sua posizione di “cavaliere solitario”, a favore della ricerca di compromessi e del cosiddetto pragmatismo . Senza molto successo. Il punto di forza della diplomazia francese è sempre stata la sua capacità di assumere una posizione chiara, affermare principi ovvi e tradurli in termini pratici con logica implacabile – al punto che i suoi interlocutori si sono trovati esposti, di fronte alle loro incoerenze. . Questo è esattamente ciò che Macron sta cercando di fare ora riguardo alla NATO. Di fronte alla palese umiliazione da parte dell’amministrazione Trump, deplorare pubblicamente la loro situazione di dipendenza. Il presidente francese li chiama quindi, semplicemente, a “trarne le conseguenze” .

Il testo è la versione originale dell’articolo originale: Hajnalka Vincze, Beyond Macron’s Sovversive NATO Commenti: France’s Growing Unease with the Alliance , Foreign Policy Research Institute ( FPRI ), 26 novembre 2019.

LE VIE DELLA NATO NELL’UNIONE EUROPEA a cura di Luigi Longo

LE VIE DELLA NATO NELL’UNIONE EUROPEA

a cura di Luigi Longo

 

 

Nel mio scritto su L’europa tra le vie della nato, le vie della seta e le vie dell’energia. Prima parte, apparso su questo sito, così precisavo: << Le vie della Nato, ovverosia degli Stati Uniti, sono vie che preparano scenari di guerra e l’Europa per la prima volta nella storia sarà teatro passivo di future guerre! >> e così concludevo: << Cosa farà l’Europa? Quali vie intraprenderà? Sono pessimista nell’accezione di Ennio Flaiano << Essere pessimisti circa le cose del mondo e la vita in generale è un pleonasmo, ossia anticipare quello che accadrà […].>>. Abbiamo, purtroppo, sub-decisori europei (in particolare quelli italiani per la loro peculiarità storica) che sono dei rubagalline (il significato pieno del termine è nel film Totò, Peppino e i fuorilegge, regia di Camillo Mastrocinque del 1956) e hanno le facce da servi (per il prosieguo della definizione delle facce rimando alla magnifica sintesi fatta da Giorgio Gaber nel brano Mi fa male il mondo dell’album “E pensare che c’era il pensiero”, 1995). Sub-decisori inaffidabili e pericolosi per la maggioranza delle popolazioni. Sono i cotonieri lagrassiani, soggetti politici espressione di una sfera economica caratterizzata da modelli di produzione superati e tecnologicamente arretrati (di processo e di prodotto), che hanno venduto l’anima e i relativi paesi per n’anticchia di potere e non sanno andare oltre una visione economica delle relazioni internazionali.

In Europa ci vorrebbe un Gelsomino dalla voce potentissima che, con l’aiuto di un moderno Principe, sconfiggesse la prepotenza e l’arroganza e ristabilisse la verità e l’ordine per traghettare l’Europa fuori dalla servitù statunitense e pensare una Europa (espressione di una recuperata sovranità politica delle nazioni) dei dialoghi e dei confronti tra mondi diversi (Occidente e Oriente) >>.

Qui propongo tre letture che trattano lo stesso argomento, il trasferimento delle bombe nucleari USA dalla Turchia alla base Usaf di Aviano (Pordenone), che mettono in evidenza diversi elementi di riflessione. La prima di Dario Furlan (La base Usaf di Aviano è pronta ad ospitare le bombe atomiche dalla Turchia, apparsa su www.ilmessaggero.it, 28/12/2019) che sottolinea la messa a disposizione totale del territorio con le sue configurazioni spaziali militari; la seconda di Alberto Negri (Atomiche da Erdogan: perché la notizia è credibile e fondata, apparsa su www.ilmanifesto.it, 31/12/2019) che rivela il ruolo antitetico polare dei sovranisti e dei sub-decisori servi; la terza di Manlio Dinucci (50 bombe nucleari Usa dalla Turchia ad Aviano, apparsa su www.ilmanifesto.it, 31/12/2019 e www.voltairenet.org, 1/1/2020) che denuncia l’Italia come la migliore servitù europea cui affidare gli strumenti di guerra degli USA.

 

 

 

 

LA BASE USAF DI AVIANO È PRONTA AD OSPITARE LE BOMBE ATOMICHE DALLA TURCHIA

di Dario Furlan

 

 

Base Usaf pronta ad accogliere le scomode bombe atomiche turche. Quest’anno, infatti, Babbo Natale potrebbe portare in dono alla Base Usaf di Aviano (Pordenone) una cinquantina di confetti atomici. Da svariati mesi è sotto osservazione quella che potrebbe essere considerata una sorta di inaffidabilità in chiave Nato del presidente turco Erdogan, più vicino a Putin che a Trump.

Una situazione che potrebbe indurre gli Stati Uniti, che in Anatolia usufruiscono della Base aerea di Incirlik con annessi depositi di bombe nucleari di propria pertinenza, a trasferire questo arsenale atomico in un avamposto alternativo del Vecchio Continente. E il sito prescelto sarebbe l’aeroporto pordenonese Pagliano e Gori, sede di uno Stormo dell’Usaf (il 31esimo Fighter Wing) a capacità nucleare. Tale eventuale decisione sarebbe presa specie in considerazione della comprovata fedeltà dell’Italia, che sul tema atomiche non batte ciglio, qualunque sia il colore del governo nazionale (corsivo mio).

 

 

I PRECEDENTI

 

Dell’ipotesi di traslocare le bombe da Incirlik ad Aviano se ne parlò già nel 2016 allorché Erdogan, mentre reprimeva duramente il tentativo interno di un golpe militare, aveva additato gli Usa tra i possibili fiancheggiatori del colpo di stato. In tal senso aveva addirittura fatto staccare l’energia elettrica alla Base, interrompendo l’attività operativa del locale contingente americano impegnato nella lotta contro l’Isis. L’episodio andò faticosamente risolto (sebbene la tensione tra Usa e Turchia si fosse pericolosamente alzata) ma in tempi recenti gli attriti si sono riacutizzati con la vicenda del popolo curdo, alleato di Washington nella caccia all’Isis, altresì nemico storico di Ankara.

 

 

IL GENERALE

 

Dato il crescente antiamericanismo in Turchia e la volontà di Erdogan di avvicinarsi alla Russia, abbiamo urgentemente bisogno di ricollocare le nostre bombe atomiche presenti a Incirlik, e la loro nuova casa potrebbe essere la Base aerea di Aviano in Italia, dato che da un punto di vista logistico non dovrebbe essere troppo difficile. A rilasciare questa esplicita dichiarazione a Bloomberg (multinazionale operativa nel settore dei mass media con sede a New York) è stato il noto Charles Chuck Wald, generale a quattro stelle dell’Air Force in pensione, già comandante del 31esimo Fighter Wing di Aviano dal 1995 al 1997. Molti ricordano la sua presenza in Pedemontana come a dir poco ingombrante, specie quando lasciò metaforicamente il segno sui tavoli degli amministratori locali, onde far capire che il Progetto Aviano 2000 (mega opera infrastrutturale destinata ad allocare stormo e famiglie al seguito) non doveva trovare ostacoli di sorta. Come in effetti è stato, ciclopica burocrazia italica a parte (corsivo mio).

 

 

IL TRISTE PRIMATO

 

Da Incirlik potrebbero quindi sbarcare ad Aviano una cinquantina di bombe nucleari, che si aggiungerebbero alle circa 30 già qui immagazzinate, almeno secondo quanto ripetutamente divulgato dagli analisti del settore. Questi ultimi hanno inoltre recentemente reso noto che al Pagliano e Gori si stanno apportando specifiche migliorie, quali il rafforzamento delle misure anti intrusione, nonché la costruzione di una nuova clinica, ovvero i laboratori nei quali si provvede alla periodica manutenzione di questi particolari e delicati ordigni. Le dichiarazioni del generale Wald sono ancor più autorevoli di quel che sembra: l’ex comandante conosce infatti a menadito l’aeroporto di Aviano, sa quante atomiche vi sono già custodite e, soprattutto, quante altre ancora se ne possono immagazzinare. E a questo punto Aviano acquisirebbe un discutibile primato: diverrebbe il maggior deposito atomico presente in Europa Occidentale.

 

 

ATOMICHE DA ERDOGAN: PERCHÉ LA NOTIZIA È CREDIBILE E FONDATA

di Alberto Negri

 

 

L’Italia finisce l’anno con la possibile opzione di diventare una delle maggiori potenze atomiche europee. Senza volerlo e a sua insaputa, come quasi tutta la nostra politica estera.

Che si esprime in Libia con geometrica inconsistenza, esposta nella conferenza stampa di fine anno da uno smarrito premier Conte che di questo passo stanotte confonderà i colpi d’artiglieria di Tripoli e i raid aerei del generale a Haftar con i tradizionali botti di Capodanno.

Gli americani, dunque, potrebbero trasportare le testate atomiche dalla Turchia alle basi italiane come quella di Aviano. Il nostro ministero della Difesa afferma che si tratta di una notizia infondata: di testate atomiche in Italia ce ne sono già oltre 70 e se si aggiungessero quelle americane nella base di Incirlik sfonderemmo ogni record, superando anche la Germania (ma dietro a Gran Bretagna e Francia). Non solo la notizia non è infondata come affermano le fonti ufficiali del governo italiano, appare invece possibile se non addirittura probabile. A rivelare l’ipotesi all’agenzia americana Bloomberg è stato infatti il generale Charles Chuck Wald dell’Air Force, ora in pensione ma che è stato comandante ad Aviano e continua a rivestire incarichi nella Amministrazione Usa.

In Italia il generale Wald si dimostrò un grande decisionista con pressioni sulle autorità locali per ottenere il via libera al grande Progetto Aviano 2000: imponenti infrastrutture e abitazioni per lo stormo e le famiglie dei militari. La decisione Usa sarebbe la conseguenza del riavvicinamento di Erdogan a Putin, sancito dalla vendita ad Ankara delle batterie anti-missile russe S-400: è la prima volta che un Paese Nato acquista armi da Mosca e per questo alla Turchia è stata congelata la consegna dei nuovi caccia F-35 e si annunciano sul reiss turco nuove sanzioni – secondo l’informato quotidiano israeliano Haaretz.

Se il trasferimento si concretizzasse i bunker americani in provincia di Pordenone dove ci sono già una cinquantina di atomiche diventerebbero il deposito nucleare più grande d’Europa. L’Italia viene considerata da sempre un’alleata fedele, a prescindere dal colore dei governi e questo esecutivo appare prono come gli altri ai voleri Washington vista la confidenza di Trump con il «l’amico Giuseppi» (Conte) – nonché con il «sovranista» Salvini che con la Lega regna in Friuli Venezia Giulia – e la recente visita a Roma del segretario di Stato Usa Mike Pompeo con il quale abbiamo parlato di parmigiano ma glissando su ogni seria questione strategica, Libia compresa. Gli americani, quindi, contano che non ci sia opposizione alla possibile richiesta (corsivo mio).

Dell’ipotesi di un trasferimento dalla Turchia dell’arsenale atomico si parlò già nel 2016, ai tempi del tentato golpe, quando Erdogan sospettava che Washington fosseo dietro l’operazione e che comunque non l’avesse osteggiata, anzi. Infatti a Incirlick furono ospitati alcuni aerei da rifornimento che consentirono ai caccia F-16 dei ribelli di minacciare Istanbul e Ankara. Incirlik, da cui dovevano partire i raid contro l’Isis, fu chiusa allora per un paio di settimane. Prepariamoci quindi con i botti di Capodanno ad accogliere il prossimo arrivo del Dottor Stranamore americano.

 

 

50 BOMBE NUCLEARI USA DALLA TURCHIA AD AVIANO

di Manlio Dinucci

 

 

«Cinquanta testate nucleari sarebbero pronte a traslocare dalla base turca di Incirlik, in Anatolia, alla base Usaf di Aviano, in Friuli Venezia Giulia, in quanto gli Usa diffiderebbero sempre più della fedeltà alla Nato del presidente turco Erdogan»: lo ha riportato in questi giorni Il Gazzettino (il giornale del Nordest, soprattutto del Friuli Venezia Giulia), per evidente coinvolgimento territoriale, citando quanto dichiarato dal generale a riposo Chuck Wald della Us Air Force in una intervista all’agenzia Bloomberg del 16 novembre scorso [1]. Una conferma di quanto documenta da tempo il manifesto.

«Appare probabile – scrivevamo il 22 ottobre [2] – che, tra le opzioni considerate a Washington, vi sia quella del trasferimento delle armi nucleari Usa dalla Turchia in un altro paese più affidabile. Secondo l’autorevole Bollettino degli Scienziati Atomici (Usa), la base aerea di Aviano può essere la migliore opzione europea dal punto di vista politico, ma probabilmente non ha abbastanza spazio per ricevere tutte le armi nucleari di Incirlik. Lo spazio si potrebbe però ricavare, dato che ad Aviano sono già iniziati lavori di ristrutturazione per accogliere le bombe nucleari B61-12». La nostra notizia allora non venne ripresa (corsivo mio).

ORA IL COORDINATORE nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli, chiede al governo se conferma la notizia e di portare subito il problema alla valutazione del parlamento, poiché l’Italia verrebbe «trasformata nel maggiore deposito di armi nucleari d’Europa e questo silenzio del governo italiano è inaccettabile»; la stessa cosa chiede in un comunicato Rifondazione comunista: fatto singolare, entrambe le forze politiche non stanno in Parlamento. Il governo italiano da parte sua fa sapere che «la notizia è priva di fondamento». Non spiega però perché i maggiori esperti Usa di armi nucleari ritengano la base di Aviano «la migliore opzione europea dal punto di vista politico» per il trasferimento delle bombe da Incirlik. Il governo continua dunque a tacere – a partire dalle atomiche già stoccate ad Aviano e a Ghedi – e lo stesso fa il parlamento, perché la questione delle armi nucleari Usa in Italia è tabù. Sollevarla vorrebbe dire mettere in discussione il rapporto di sudditanza dell’Italia verso gli Stati uniti (corsivo mio).

L’ITALIA continua così ad essere base avanzata delle forze nucleari Usa. Secondo le ultime stime della Federazione degli scienziati americani, in ciascuna delle due basi italiane e in quelle in Germania, Belgio e Paesi Bassi vi sarebbero attualmente 20 B-61, per un totale di 100 più 50 a Incirlik in Turchia. Nessuno però può verificare quante siano in realtà. I governi italiani hanno sempre taciuto; come tace la Regione Friuli Venezia Giulia guidata dalla Lega «sovranista». Dalle stime risulta che gli Usa stiano diminuendo il loro numero, e non è tranquillizzante. Si preparano infatti a sostituirle con le nuove bombe nucleari B61-12. A differenza della B61 sganciata in verticale, la B61-12 si dirige verso l’obiettivo guidata da un sistema satellitare ed ha la capacità di penetrare nel sottosuolo, esplodendo in profondità per distruggere i bunker dei centri di comando. Il programma del Pentagono prevede la costruzione a partire dal 2021 di 500 B61-12, con un costo di circa 10 miliardi di dollari. Non si sa quante B61-12 verranno schierate in Italia né in quali basi, probabilmente non solo ad Aviano e Ghedi. Come risulta dallo stesso bando di progettazione pubblicato dal ministero della Difesa, i nuovi hangar di Ghedi potranno ospitare 30 caccia F-35 con 60 bombe nucleari B61-12, il triplo delle attuali B-61 (il manifesto, 28 novembre 2017).

Allo stesso tempo, gli Usa si preparano a schierare in Italia e in Europa missili nucleari a gittata intermedia (tra 500 e 5500 km) con base a terra, analoghi agli euromissili eliminati dal Trattato Inf firmato nel 1987 da Usa e Urss. Accusando la Russia (senza alcuna prova) di averlo violato, gli Usa a guida Trump si sono ritirati dal Trattato, cominciando a costruire missili della categoria prima proibita: il 18 agosto hanno testato un nuovo missile da crociera e il 12 dicembre un nuovo missile balistico in grado di raggiungere l’obiettivo in pochi minuti. Contemporaneamente rafforzano lo «scudo anti-missili» sull’Europa. Nella sua «risposta asimmetrica» la Russia comincia a schierare missili ipersonici che, in grado di raggiungere una velocità di 33.000 km/h e di manovrare, possono forare qualsiasi «scudo» (corsivo mio).

È QUINDI una situazione molto più pericolosa di quanto dimostri la già allarmante notizia del probabile trasferimento delle atomiche Usa da Incirlik ad Aviano. In tale situazione domina il silenzio imposto dal vasto schieramento politico bipartisan responsabile del fatto che l’Italia, paese non-nucleare, ospiti e sia preparata a usare armi nucleari, violando il Trattato di non-proliferazione che ha ratificato. Responsabilità resa ancora più grave dal fatto che l’Italia, quale membro della Nato, si rifiuta di aderire al Trattato sulla proibizione delle armi nucleari votato a grande maggioranza dall’Assemblea delle Nazioni Unite.

 

 

 

[1] “Turkey Is the World’s New Nuclear Menace. An interview with General Chuck Wald on NATO’s nukes at Incirlik air base and whether the Turks are friends or enemies”, Tobin Harshaw, Bloomberg, November 16, 2019.

[2] “Erdogan vuole la Bomba”, di Manlio Dinucci, Il Manifesto (Italia) , Rete Voltaire, 22 ottobre 2019.

 

 

 

LA MASCHERA E IL VOLTO, di Augusto Sinagra

LA MASCHERA E IL VOLTO

Diceva Luigi Pirandello che nella vita si incontrano molte maschere e pochi volti.
Ora le maschere cominciano a cadere e i volti sono davvero inquietanti.
Non so chi gli ha scritto il discorso di fine anno, ma il figlio di Bernardo Mattarella, tra le tante prevedibili banalità e omissioni, ha detto una cosa inquietante: “Quando perdiamo il diritto di essere differenti, perdiamo il privilegio di essere liberi”. Sembra una bella riflessione, ma non è così.
Viviamo da tempo una situazione in cui non vi è più traccia di diritto ad essere “differenti”.
Il concetto potrebbe essere declinato in molti sensi: in senso democratico e politico, in senso costituzionale con riguardo ai diritti e alle libertà di esser differenti nella manifestazione delle idee, nel diritto di associazione e di manifestazione, nel diritto di professare qualsivoglia fede religiosa (il tutto con l’unico limite dell’ordine pubblico), e in tanti altri sensi ancora. Ma non è così da tempo
La negazione della differenza è stata icasticamente e violentemente proclamata dal Capo-sardine (l’uomo di Prodi e compagni) il quale con riferimento al Sen. Matteo Salvini ha dichiarato in modo impudente che Salvini “ha il diritto di parlare ma non di essere ascoltato”.
Questa situazione di pretesa e violenta adesione al “pensiero unico”, negatrice di ogni differenza, è nota a tutti a cominciare dal figlio di Bernardo Mattarella. Stampa e TV non parlano più di sbarchi illegali di sedicenti “profughi” per impedire, appunto, un giudizio differente.
Allora i casi sono due: o il Capo dello Stato è in malafede e non denuncia, come sarebbe suo dovere, la situazione di diffusa violenza morale e cioè di negazione del “diritto alla differenza”, oppure non si rende conto di quello che dice o di quello che altri scrivono per lui. Non mi stupirei: non gli riconosco particolare acume né adeguata preparazione giuspubblicistica. Lo considero poco “attrezzato”.
A fronte delle violenze fisiche, morali e politiche volte a conculcare il “diritto alla differenza” il “Nostro” ha aggiunto che perdendo il diritto alla differenza, si perde “il privilegio della libertà”.
No! Qui reagisco con maggiore decisione e fermezza: la libertà non è privilegio, la libertà è conquista (anche a costo della vita), la libertà di ognuno, ma prima ancora la libertà collettiva del Popolo, dovrebbe essere condizione di normalità e mai privilegio. La libertà è diritto costituzionale che affonda le sue radici nella filosofia della politica che costruisce l’ordine democratico.
L’altra maschera che è caduta, mostrando un volto peraltro già noto, è quella del pampero argentino.
Mi riferisco allo strattonamento da lui subito in Piazza San Pietro e alla sua reazione di bacchettamento delle mani di una signora asiatica che trattenevano la sua.
Umanamente lo capisco, ma lui dovrebbe essere il Vicario di Cristo, e Cristo è bontà e misericordia come attesta l’Evangelista Matteo (se non mi sbaglio) a proposito della donna che voleva in tutti i modi toccare la Sua tonaca per guarire dalla malattia.
Come Vicario di Cristo il gesto del pampero è stato ingiustificabile. Ricordo quando nel 2009 Papa Benedetto XVI dentro la Basilica di San Pietro ruzzolò per terra per l’entusiasmo di una fedele. Egli si rialzò, le rivolse un sorriso e accennò una carezza. Quel che colpisce nell’episodio del pampero è stata l’espressione del suo viso iracondo.
Gli occhi sono lo specchio dell’anima e quegli occhi non hanno riflesso un’anima buona.
Così anche il pampero argentino ha confermato quale sia il suo vero volto, togliendosi la maschera.
Ancora buon anno a tutti e che Dio ci protegga.
AUGUSTO SINAGRA

P.S. Il discorso di Capodanno del figlio di Bernardo Mattarella nel 2018 ha avuto 5.133.000 ascolti; 4.905.000 nel 2019. Dunque, in netto calo. In ogni caso, calcolando una presenza in Italia di circa 50.000.000 televisori su una popolazione di circa 60.000.000 di persone, si può ben dire che il consueto discorso di fine anno non è stato seguito da nessuno, nonostante le bugie e le mistificazioni della stampa asservita.

La constatazione del multipolarismo, con Piero Visani

La gran parte dei paesi emergenti e degli stati egemoni stanno constatando l’affermazione del multipolarismo. Alcuni, in primo luogo gli Stati Uniti, sembrano ancora incerti se prenderne atto o tentare il ripristino di una condizione unipolare. Parlare di incertezza è però un eufemismo. Da quelle parti lo scontro politico sta assumendo toni sempre più feroci, destinati ad assumere forme drammatiche in caso di vittoria di Trump. Una vittoria della componente conservatrice, per meglio dire demo-conservatrice, rischia di ricacciare la politica estera americana nell’avventurismo più bieco. Altri paesi al contrario sono fautori sempre più convinti della condizione multipolare. Nel mezzo alcune potenze regionali cercano di approfittare con spregiudicatezza degli spazi offerti dalla competizione sempre più accesa. Solo l’Europa, in essa in particolare la Germania e soprattutto l’Italia, appare riottosa a prendere atto della svolta. I paesi europei, dibattuti tra velleità di potenza e remissività supina, sempre però all’ombra dell’egemone d’oltreatlantico, sembrano vivere in un limbo di nostalgia destinato ad essere loro fatale. I tempi stringono. Qui sotto le considerazioni amare e realistiche di Piero Visani, uno studioso e un commis che come pochi conosce molto bene limiti, tanti e virtù, poche, della nostra classe dirigente. Buon Anno e buon ascolto_Giuseppe Germinario 

Il buontempone, di Giuseppe Germinario

Giornalista francese: “negli Stati Uniti avete un tasso di disoccupazione molto basso; in Francia è invece molto alto. Come mai, quale è la ricetta?”

Trump: “Forse perché noi abbiamo un presidente migliore del vostro…”

https://twitter.com/rbehrouzdo/status/1210970428199624709?s=12&fbclid=IwAR1uP9w_EUA2alxgvyy15PnXsb7XxcrqbSv2-qemLnZwIs_YAblWP07bZcA

Sono sicuro che i bacchettoni e gli indignati delle due sponde dell’Atlantico, quasi tutti ben allignati nel campo democratico-progressista, sapranno cogliere il senso e lo spirito esatto di questa battuta nell’ego e nella presunzione smisurata di Donald Trump. Un motivo in più per rendercelo più simpatico. Buon Anno a tutti, bacchettoni e non_Giuseppe Germinario

Il recupero dello spirito dei Tory, di Grey Connolly

Qui sotto un articolo molto significativo che offre una chiave interpretativa originale dell’esito delle elezioni britanniche e della scelta dirimente, oggetto centrale del contenzioso politico, della Brexit- Il testo offre spunti particolarmente interessanti per spingere anche in Italia ad una analisi della trasformazione delle correnti politiche che rifugga dall’ostinata collocazione della totalità di esse nei vecchi parametri di destra/sinistra degli ultimi tre decenni. Una dinamica particolarmente difficile da decifrare per le grette ambiguità e la scarsa consapevolezza di classi dirigenti italiche così timorose e inette nell’affrontare gli scenari geopolitici e i problemi interni al paese da nascondere i termini sostanziali del contenzioso sul tappeto. Un atteggiamento che impedisce di cogliere le possibilità di costruzione di un blocco sociale e politico alternativo sufficientemente ampio e maggioritario e di comprendere la natura del dibattito sia pure sotto traccia in corso in particolare nelle formazioni politiche riemerse o emerse negli ultimi tempi come la Lega e il M5S. Una scarsa lungimiranza che sta portando alla crisi e relegando alla insignificanza le nasciture formazioni che continuano a fibrillare nel cosiddetto bacino sovranista_Giuseppe Germinario

Il recupero dei Tory

Grey Connolly

“Signori, il partito Tory, a meno che non sia un partito nazionale, non è niente.” —Benjamin Disraeli

Nella sua ultima campagna nel 1951, il Primo Ministro laburista, Clemente Attlee, concluse il suo discorso alla conferenza laburista citando il Gerusalemme del poeta William Blake:

Non smetterò di combattere mentalmente,
Né la mia spada dormirà nella mia mano:
Finché non abbiamo costruito Gerusalemme,
Nella terra verde e piacevole dell’Inghilterra.

Mentre Attlee si accingeva a perdere l’incarico a favore di Winston Churchill nel 1951 – il Labour sarebbe rimasto senza potere per 13 anni – è stato il Labour di Attlee che ha costruito gran parte dello stato britannico su quello che il governo di Churchill in tempo di guerra (in cui Attlee aveva servito come ministro) aveva creato durante la seconda guerra mondiale.

Clemente Attlee e il suo governo laburista avevano arruolato la Gran Bretagna nella NATO, costruito un’arma atomica britannica, sostenuto le cause del mondo libero in Grecia e Corea del Sud e costruito gran parte dell’establishment della sicurezza e dell’intelligence alleata che, fino ad oggi, attraversa il globo. Anche il peggior critico riconoscerebbe il ruolo svolto nella creazione della Gran Bretagna moderna da Clement Attlee e, anche, dal suo segretario agli esteri, l’ex leader sindacale Ernest Bevin, che Churchill considerava il miglior laburista conosciuto nella sua vita. Come Margaret Thatcher direbbe di Attlee, ‘Ero un suo ammiratore. Era un uomo serio e un patriota. Era tutto sostanza e niente spettacolo. ‘ L’altra creazione di Attlee – che, va notato, era sostenuta sia dai conservatori che dai liberali (il progenitore del SSN, Sir William Beveridge, era lui stesso un liberale) – era il National Health Service, che nessun politico britannico attenta se non al rischio della propria carriera politica.

Se Churchill e lo spirito di sfida a Dunkerque e alla Guerra Lampo si aggirano sempre dal lato conservatore della politica, mettendo in ombra lo stigma dell’appagamento di Chamberlain, così lo spirito pervade il governo di Major Attlee, timido avvocato e coraggioso e dignitoso veterano di Gallipoli e del fronte occidentale, che guidò una Gran Bretagna formalmente vittoriosa attraverso la sostanza di un austero dopoguerra.

Cito Attlee e Churchill, ma dovrei anche menzionare l’ex primo ministro Harold Macmillan, uno degli ultimi grandi del partito Tory. A modo loro, tutti e tre gli uomini sono stati gli ultimi veramente britannici tra i recenti primi ministri: tutti avevano condiviso le esperienze formative delle trincee della Grande Guerra, tutti erano rimasti inorriditi dalle conseguenze di quella guerra e quindi dagli effetti della depressione sulla società britannica, ciascuno aveva ricoperto i ruoli più critici nel secondo sforzo di guerra della Gran Bretagna, e tutti furono, fondamentalmente per il nostro tempo, o profondamente contrari alla Gran Bretagna che si impigliava nel progetto europeo o, nel caso di Macmillan, fingevano semplicemente di essere entusiasta.

Nel mentre, in questo 2019, questi uomini potrebbero apparire come fantasmi di un passato lontano, la verità è che questi tre uomini e le loro eredità non sono mai stati così rilevanti negli ultimi tre anni dal referendum sulla Brexit, in particolare in questi ultimi giorni, dal terremoto elettorale del 12 dicembre. Prendendo in prestito da Sir Isaac Newton, se Boris Johnson ha visto più avanti di qualsiasi altro nel futuro elettorale, è perché Johnson era disposto a guardarsi indietro e quindi poggiarsi sulle spalle di giganti come questi tre uomini.

Bisogna dirlo, gli inglesi sono sempre stati i più strani e diffidenti riguardo il progetto europeo. Gli inglesi avevano combattuto Napoleone, il Kaiser e i nazisti, in lunghe guerre, e avevano mantenuto un impero globale sul quale, si diceva, il sole non tramontava mai. L’Unione europea era, al contrario, una confederazione formata dai francesi e dai tedeschi – i vecchi nemici – e, con loro, da quelle “nazioni” che erano state le loro conquiste storiche. Gli inglesi non si erano mai arresi a Parigi e a Berlino e, nel corso dei secoli, avevano sempre combattuto contro di loro, con le parole di Churchill, “se necessario, da soli”. La consapevolezza britannica di se stessa fu forgiata nella dura sfida con i nemici continentali e con i loro sconvolgimenti: un duro Tommy agita perpetuamente il pugno, con aria di sfida, contro il nemico storico. Quindi, in termini storici, la questione elettorale, specialmente dopo il congedo del 2016, riguardava sempre la nazione britannica, questi “isolani offshore”, la loro storia e il loro futuro.

Le elezioni generali del 2019 sono state, quindi, più rilevanti della fortuna di qualsiasi singolo politico, e certamente non sono state decise dalla biografia di una sola persona, nemmeno da una figura controversa come il leader laburista, Jeremy Corbyn. La sua biografia colorata o sovversiva, a seconda del punto di vista, era ben nota nel 2017, quando Corbyn ha fatto molto bene alle elezioni britanniche in cui, secondo la saggezza convenzionale, non era selezionabile. Tutti sapevano tutto di Corbyn il radicale nel 2017 eppure milioni avrebbero votato ancora per Corbyn e il suo partito. Non c’era nulla che impedisse a Corbyn di fare altrettanto bene nelle elezioni generali del 2019.

No, ciò che è cambiato negli ultimi due anni è stato il cambiamento sia dei conservatori che dei partiti laburisti. I Tories sono tornati alle loro posizioni storiche di sostegno alla società del dovere e all’opposizione a un progetto europeo “straniero”, mentre il Labour ha cessato di puntare ai voti della sua gente, come Corbyn sembrava aver promesso nel 2017, e invece ha puntato al “New Labour “per strattonare indietro il partito e guidarlo verso la destinazione preferita della” terza via “blairiana: la Gran Bretagna come solo un’altra stella sulla bandiera europea. In qualche modo il partito che Corbyn ha conquistato nel 2015 ha voltato le spalle, ancora una volta, non solo alla fiera tradizione orgogliosa e elettoralmente proficua di Attle, ma, sulla questione stessa dell’Europa, allo stesso Corbyn, per tornare invece, ancora una volta, per ragioni che nessuna persona ragionevole può articolare, al partito londinese di Tony Blair.

Dal 2017 in poi, con, prima, Theresa May e poi Boris Johnson, i conservatori, infine, hanno voltato le spalle agli eccessi di Thatcherismo degli zombi e alle infiltrazioni liberali degli anni ’80, per riportare i Tories dove un tempo si trovavano come un partito naturale di governo per la maggior parte dei britannici. Sia May che Johnson sono animali politici – sono ex studenti politici e non veri credenti – e non sono altri Churchill. Ma erano entrambi abbastanza esperti da sapere che la vecchia filosofia Tory – l’etica di Pitt e Wilberforce, che avevano resistito a Napoleone e abolito la tratta degli schiavi, e il Torismo di ” una unica nazione ” di Disraeli, che aveva dato il voto al lavoratore —È stato quello con il più ampio richiamo storico e che, una volta fatto la campagna, aveva, prima di Heath, Thatcher ed Europa, assicurato un’egemonia conservatrice sui banchi della Camera dei Comuni. Con il Whiggismo di Thatcher e John Major esorcizzato, si potrebbe vedere il rilancio dell’ideale di “Red Tory”, in particolare nella frase di maggio, “Riusciamo o falliamo insieme”.

Allo stesso tempo, anche il partito Labour parlamentare britannico era cambiato e divenne un partito del “remain”. Il Labour che diventava un partito del “remain” era, semplicemente, un disastro moralmente, oltre che un disastro a livello elettorale. I minatori di Durham, per tutta la loro storia e fatica, non potevano mai, secondo la stima del New Labour, importare tanto quanto le classi generose della City, un calcolo che, se fatto in tutto il Regno Unito, avrebbe portato alla rovina nelle urne .

Guardando alla storia del Labour, anche il peggior critico di Jeremy Corbyn ammetterebbe che i suoi vecchi predecessori della sinistra, come Hugh Gaitskell e Tony Benn, qualunque cosa avessero sbagliato, avevano ragione di opporsi all’entrata britannica e quindi all’adesione all’Unione Europea, la Comunità e Unione Europea. Gaitskell riconobbe, giustamente, che l’adesione al progetto europeo sarebbe stata la fine della sostanza di uno stato-nazione britannico, mentre Benn, più chiaramente, vide l’ovvio problema posto dalla Gran Bretagna che si univa a qualsiasi istituzione in cui il popolo britannico non poteva liberarsi dei loro presunti governatori. Che gli ultimi tre anni di ostruzionismo di Bruxelles e dei rimanenti abbia visto adempiere le loro profezie è semplicemente la più amara delle ironie.

Quindi, al momento del circo di Westminster fatto di ostruzione e contenzioso sulla Brexit nel 2019, quello che si vedeva era un partito Tory che cresceva solo nel suo appello alla centralità della Gran Bretagna, mentre il Labour si era progressivamente incastrato nel vicolo cieco del Remainerismo. Forse non sorprende che Corbyn non potesse vedere la trappola che aveva consentito al suo partito di organizzare per sé, pensando che l’approvazione sui social media del “Westminster Village” avrebbe superato l’ovvia richiesta, specialmente nelle aree di dissenso del Labour, per la partenza britannica dall’Unione Europea. Le vittorie del partito Brexit di Nigel Farage alle elezioni europee di maggio sono state un messaggio che il nuovo partito laburista riteneva di poter ignorare. Quel Farage stava ottenendo il sostegno nelle stesse aree della Gran Bretagna in cui l’eredità di Attlee era ed è più apprezzata; un evidente presagio del destino elettorale volutamente ignorato da un media privo di cognizione.

Il risultato della ribellione elettorale del 12 dicembre è che i Tories hanno infranto il “Muro rosso” settentrionale e conquistato seggi nel nord del Galles e di Inghilterra che, finora, non sono mai stati o quasi mai rappresentati se non dai laburisti. Non si trattava solo di un’elezione, ma di una ribellione contro un’istituzione politica che aveva trascorso più di tre anni nel tentativo di negare la Brexit che 17,4 milioni di britannici (di ogni classe e provenienza) avevano sostenuto con i loro voti.

I conservatori di Boris Johnson hanno ora una schiacciante maggioranza parlamentare e un mandato rinnovato – il terzo dopo il referendum del 2016 e i Tories vincitori delle elezioni generali del 2017 su una piattaforma di congedo – per portare la Gran Bretagna, finalmente, fuori dall’Unione Europea. Ciò che della sovranità britannica è stata persa in quasi 50 anni fa sarà ora recuperata. Resta la sfida dei conservatori di riunire il Regno Unito, di ricucire le ferite dell’Unione britannica e, inoltre, di garantire che la frangia celtica britannica, così alienata da un’élite londinese e da un’economia finanziaria, ritenga che le loro legittime lamentele vengano affrontate all’interno dell’Unione britannica. Come Disraeli, il fondatore del moderno partito Tory, ha giustamente osservato: “Non c’è nulla di meschino, gretto o esclusivo nel vero carattere del Toryismo. Dipende necessariamente da simpatie allargate e aspirazioni nobili, perché è essenzialmente nazionale “.

Considerando più a lungo, tuttavia, il futuro dei Tories come movimento politico, è il caso che, almeno dalla Rivoluzione francese, la ragion d’essere del conservatorismo in tutto il mondo di lingua inglese era e rimane l’utilizzo della legge e del potere dello stato per aiutare a conservare e tenere insieme la società costituente. Non si tratta solo di rendere giustizia, ma di riconoscere la realtà che le ingiustizie irrisolte e i sistemi truccati seminano semplicemente i semi del disordine futuro.

A tal fine, è giunto il momento che Tories (non solo nel Regno Unito, ma in tutto il mondo di lingua inglese) deplori, ancora una volta, la distruzione spesso sfrenata delle comunità ad opera del capitalismo e, nelle parole di una generazione Tory più anziana, ripudiare gli aspetti spiacevoli e inaccettabili del capitalismo. In breve, è passato molto tempo per scacciare i Whigs e le loro repellenti perversioni ed egoismi dai ranghi della Destra. La missione di Tory è, ancora una volta, far rispettare lo stato di diritto, garantire la sicurezza e la solvibilità dello stato-nazione e, ancora una volta, inclinare la cultura e i suoi costumi a favore di ciò che rende una vita fiorente e virtuosa, come soprattutto a migliorare la vita delle classi lavoratrici, medie e, soprattutto, regionali e rurali. È tempo che un toryismo di ” noi” sostituisca l’insidioso Whiggism di ” me” .

A distanza di un secolo, possiamo vedere che il socialismo è stato provato e ha fallito, e dovremmo anche ammettere, con la fine della “post guerra-fredda”, che anche il liberalismo è stato provato e ha fallito. Tra i popoli di lingua inglese, in particolare, il socialismo e il liberalismo, nella loro avarizia e laicità, sono credenze estranee. Entrambi erano credi di minoranze rumorose ma piccole, che cercavano di usare la legge e lo stato per attuare il loro utopismo – sia di guerra di classe che di indulgenza individuale – ai danni di famiglie e comunità che desideravano controllare i propri destini e vivere la propria vita.

Insomma, la lezione delle convulsioni elettorali degli ultimi anni non riporta a Destra o Sinistra, o semplicemente insider contro outsider, ma, più semplicemente, che la nazione conta più delle astrazioni liberali. E quindi che l’abbraccio bipartisan del liberalismo – da Thatcher a Major a Blair a Brown a Cameron – aveva portato a società grossolane, e in una frase, perennemente in pericolo di “disgregazione”. Il problema non è risolto da più statalismo ma da un senso di solidarietà comunitaria: l’idea biblica che abbiamo doveri, diritti, obblighi e libertà, che siamo concittadini della res publica insieme, che siamo, infatti, custodi di nostra sorella e nostro fratello.

È opportuno, quindi, finire, come ho iniziato, con la citazione di Gerusalemme di Attlee. Sarebbe difficile immaginare un leader laburista, in particolare di stampo Blairista del brutto “terzo wayism”, sapendo chi era William Blake o quali domande Blake poneva nella sua poesia, figuriamoci seguendo l’esempio di Attlee. Le domande dei liberali moderni sono molto più “razionali”: che cos’è ” moderno “? Cosa è ” progressivo “? Cosa penseranno gli altri di noi? La protesta di Blake di due secoli fa contro la distruzione della Gran Bretagna tradizionale da parte della rivoluzione industriale sembra quasi singolare per il liberale moderno, sempre desideroso di seguire il “progresso” ovunque il suo zeitgeist porti, qualunque sia il costo.

Eppure la poesia di Blake sarebbe diventata, nel secolo scorso, l’inno nazionale cantato da così tanti perché è stato reso popolare e messo in musica da Sir Hubert Parry nel 1916 durante il momento più critico del trauma della Grande Guerra. Le parole di Blake, scartate ai suoi tempi, sarebbero diventate l’inno nazionale britannico, cantato in chiese, scuole, campi da calcio e in lontani teatri di guerra. La popolarità e la longevità dell’inno di Blake e la sua determinazione a recuperare ciò che era stato perso, parla di un antico desiderio britannico di ” casa “.

Quando questa storia recente e queste elezioni sismiche, a un secolo dalla Grande Guerra, guardando al futuro, le vecchie domande si erano sempre presentate al popolo britannico: quali saranno le relazioni britanniche con l’Europa? E come preservare il meglio e riformare il peggio di “casa” propria? Dopotutto, esiste una società contraria al Thatcherismo, e ci sarà ancora uno stato-nazione indipendente contro la Terza Via?

Per il prossimo futuro, la prima domanda è stata risolta dagli elettori, mentre la seconda è nelle mani del nuovo parlamento a maggioranza conservatrice.

L’ultima domanda – che dire di noi? – rimane la più interessante su cui riflettere. I proclami mentali di cui parla Blake saranno traditi per compromessi rassicuranti? Le spade dormiranno in mani troppo timide per combattere buoni combattimenti? Gerusalemme sarà costruita in terre verdi e piacevoli? Tutte queste domande eterne attendono ancora le loro risposte.

Grey Connolly è avvocato e scrittore di Sydney.

https://meanjin.com.au/blog/the-tory-restoration/?fbclid=IwAR1LHNri9iEApLZIZsDeGNtk7ePI9y_zlSJpWTc7LZVLTCMj9SM1py_I54A

Bibbiano sei mesi dopo, con Paolo Roat

A sei mesi dalla formalizzazione delle indagini sulla gestione degli affidamenti dei minori a Bibbiano, la questione, dopo anni di sottovalutazione e di compiacenze , ha assunto finalmente una rilevanza nazionale. Manca ancora la consapevolezza che la stessa abbia una dimensione nazionale che riguarda la gran parte delle province. Ne parliamo ancora una volta con Paolo Roat, Presidente Dipartimento Tutela Minori del CCDU (www.ccdu.org)_Giuseppe Germinario

Sardine e sfera pubblica, di Vincenzo Costa

Sardine e sfera pubblica
Un’analisi filosofica

Il fenomeno “Sardine” ha suscitato una vasta discussione e tornare su di esso potrebbe essere ozioso. E tuttavia, vi è un’angolatura che non ho visto emergere, e che forse vale la pena di sorvegliare, a partire dalla domanda: se a minare la democrazia è lo svuotamento della sfera pubblica, il fenomeno sardine rappresenta qualcosa che rivitalizza la sfera pubblica o è, invece, un suo ulteriore momento di tracollo? Rappresenta un elemento di ripresa democratica o solo un momento dell’irreversibile crisi della democrazia?

Questioni non filosofiche
Prima di affrontare la questione filosofica è bene circoscriverla, e a questo fine è necessario escludere le altre domande, tutte pertinenti e necessarie, ma non di carattere filosofico, e su cui del resto esistono molti resoconti e riflessioni interessanti facilmente rintracciabili su FB. Le sardine sono state “progettate”? Scadono con le elezioni emiliane? Esisterebbero senza i media che le fanno esistere? Servono a drenare voti dal M5s verso il PD? Sono funzionali al PD o, sfuggendo di mano a chi le ha inventate, potrebbero essere il becchino del vecchio PD?

Tutte questioni serie, che qui lasciamo da parte, poiché implicano un’analisi empirica che non è il nostro tema. Il nostro tema è appunto se esse sono un segno di vitalità democratica o un segno di decadenza irreversibile della democrazia e se rappresentano un avanzamento o una regressione culturale. Le sardine sono un elemento che, se non certamente di matrice socialista, è almeno di radice liberale? O rappresentano una rottura con lo stesso pensiero liberale, almeno nei suoi momenti più alti? Per rispondere a queste domande cercherò di indicare alcune caratteristiche che secondo alcuni pensatori fondamentali del pensiero liberale sono essenziali alla sfera pubblica democratica.

Alcuni problemi filosofici posti dal movimento delle sardine

1) Secondo la Arendt, «agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano» (Vita activa). Dunque, un movimento rende viva la sfera pubblica in quanto prende posizione, genera magari conflitto, perché nel conflitto e nel dissenso le identità prendono forma. Se il dissenso viene demonizzato, si sterilizza la sfera pubblica, la si svuota, e se un movimento assume come proprio programma questa demonizzazione, chiamandola “odio”, allora mira a sterilizzare la sfera pubblica.

2) Secondo Amartya Sen la sfera pubblica è decisiva perché svolge una funzione protettiva, «perché dà voce alle persone svantaggiate o trascurate» (L’idea di giustizia). In questo modo si rivitalizza la democrazia, perché questa diviene un luogo dove pretese di giustizia possono essere fatte valere, ed è chiaro che avanzare pretese di giustizia significa anche sviluppare sentimenti di odio verso privilegi, prebende e familismi: l’odio contro l’ingiustizia è un cardine della democrazia. Ora, se un movimento si rifiuta sistematicamente di dire qualcosa, di dare voce a qualcosa, e se si presenta come autoreferenziale, esso mira a creare una sfera pubblica che ha perso la propria funzione protettiva. Non da voce a niente e criminalizza chi cerca di dare voce e chi, sentendosi vittima di ingiustizia, esige un riconoscimento e un mutamento delle regole che presiedono all’ingiustizia reale.

3) Indipendentemente dalle intenzioni – e io non ho dubbi che le persone che partecipano a quelle adunate siano persone perbene e di buoni sentimenti – se guardiamo il fenomeno delle sardine dal punto di vista dei suoi effetti, dunque sistemico e indipendentemente dalle intenzioni delle singole persone e anche degli organizzatori, un dato emerge con chiarezza: esso ha imposto a tutti noi (me compreso in questo istante) di parlare di loro. Determinano l’agenda di ciò che può essere discusso, e poiché non veicolano altri contenuti, essi non permettono che si parli di problemi: impongono se stessi alla discussione. Così facendo, tuttavia, saturano la discussione pubblica e RIMUOVONO tutti gli altri problemi, che non trovano più spazio nella sfera pubblica (mediatica): i temi della disoccupazione giovanile, della deindustrializzazione, dell’immigrazione etc., cioè tutti i problemi dotati di contenuto spariscono dalla visibilità. In questo modo, la ragione critica non può più esercitarsi, gira a vuoto, non ha oggetti e temi su cui agire, per cui è la nozione stessa di ragione ad essere rimossa ed emarginata. Per così dire, il “sapere aude” del buon Kant, il suo abbi il coraggio di pensare viene rimosso, poiché pensare significa criticare, e la differenza tra criticare e avere sentimenti di “odio” (l’uso delle parole conta, e basterebbe dire “di indignazione” per cambiare tutto) diviene colpa: gli indignati non esprimono indignazione verso il sorpruso, il privilegio e l’ingiustizia, ma solo odio.

4) Edmund Husserl ha caratterizzato il discorso come una funzione che è all’opera se e solo se si parla di qualcosa, su qualcosa e in vista di qualcosa. Vietandosi e vietando un discorso su contenuti il fenomeno sardine modifica (forse irreversibilmente) la modalità discorsiva nella sfera pubblica e della ragione democratica: viene imposto un metadiscorso, cioè non si dice qualcosa, ma si opera un’interdizione. Il fenomeno delle sardine mi pare cerchi di imporre un discorso che non fa vedere il reale ma, ponendo condizioni di “forma espressiva”, interdice un discorso che deve necessariamente vertere su contenuti, e dunque su interessi: si impone il silenzio, e non appena si parla si rischia di essere tacciati di propagatore di odio.

In questo modo viene rimossa la vitalità stessa dei sistemi democratici, poiché, per dirla con Lyotard, «parlare è combattere, nel senso di giocare, e gli atti linguistici dipendono da un’agonistica generale» (La condizione postmoderna). La sfera pubblica non può somigliare al salotto borghese e a un luogo di buone maniere senza menomare la sua vitalità e svuotare di significato la democrazia.

Equiparare violenza verbale a violenza fisica significa esercitare una violenza enorme, imporre un modello di discorso che appartiene solo a un ristretto gruppo e imporlo a tutti. In questo senso, il fenomeno delle sardine opera una torsione della sfera pubblica, poiché genera la colpa: chiunque nutra sentimenti di ostilità, maturati a partire dalla sua condizione svantaggiata e dal fatto di subire privilegi, deve sentirsi colpevole, deve interpretare se stesso come invidioso.

ESIGENZE DI GIUSTIZIA VENGONO INTERPRETATE E DIFFUSE COME ESPRESSIONI DI ODIO.

5) Tutto questo è solidale con l’idea secondo cui non si deve prendere posizione su niente, perché a questo fine ci sono “i competenti”, questa entità un poco mitica che ha preso il posto di Dio e rappresenta il nuovo dio nell’epoca della secolarizzazione. Ed in questo modo si sviluppa un performativo potente: si prefigura la soppressione della democrazia, dell’idea secondo cui le decisioni che riguardano tutti devono essere prese da pochi, e di fatto, nel suo apparente non prender partito, il fenomeno delle sardine prende partito su una questione epocale e fondamentale, che implica la fine della democrazia: propone l’idea secondo cui i problemi politici sono in realtà problemi amministrativi, per cui la politica perde di senso e la partecipazione rappresenta un limite alla razionalità delle decisioni prese. Una prospettiva temuta da un liberale come Habermas (si veda Scientifizzazione della politica e opinione pubblica) e tristemente prevista da Lyotard.

6) Infine, se compariamo il liberalismo di Locke con quello di John Stuart Mill emerge come il fenomeno delle sardine rappresenti, da un punto di vista culturale, un FENOMENO REGRESSIVO, poiché dalla prospettiva di Mill regredisce a quella di Locke. Per Locke, infatti, la sfera pubblica non ha funzioni politiche, poiché il potere dell’opinione pubblica è un mero potere di “privata censura”: la sfera pubblica non deve servire a formare una volontà politica, e in questo senso non vi è spazio per una sfera pubblica democratica. Il potere di decidere non appartiene al popolo e l’idea fondamentale della nostra carta costituzionale non sarebbe stata recepita. Al contrario, Per Stuart Mill «le classi lavoratrici diverranno anche meno disposte di quanto non siano attualmente a lasciarsi guidare e governare, e dirigere nella via che dovrebbero seguire, dalla semplice autorità e prestigio dei loro superiori».

Prefigurando un liberalismo democratico, Mill notava che «i poveri sono sfuggiti alle redini dei loro educatori e non si possono più governare o trattare come bambini. È alle loro stesse qualità che si deve ora affidare la cura del loro destino». E’ così evidente che, dal punto di vista filosofico, siamo di fronte a un regressione dal liberalismo avanzato di Mill a quello di Locke. O, se volete, ad un abbandono del liberalismo di Mill, di Tocqueville e di Schumpeter, a favore di quello di von Hayek, secondo cui bisogna sottrarsi alla “tirannide” democratica, sostituendo alla democrazia una demarchia, al cui interno al popolo non è concesso di governare, perché, appunto come indica Sartori, si tratta, insomma, di affidare le decisioni importanti concernenti la libertà e il mercato a istituzioni diverse da quelle democratico-rappresentative (Hayek, legge legislazione giustizia), cioè ai competenti.

In questo senso, il fenomeno Sardine non rappresenta solo una rottura con tutta la tradizione socialista, ma anche una rottura con il liberalismo democratico: un’involuzione del pensiero liberale. Non è il terreno di resistenza contro le tendenze illiberali della destra, ma un altro aspetto di un medesimo processo di decomposizione delle società democratiche. Con il movimento delle sardine il processo di sterilizzazione e svuotamento della sfera pubblica ha raggiunto una soglia critica.

 

La Turchia nel Mediterraneo, di Antonio de Martini

Il Mediterraneo sta tornando ad essere un campo di azione strategico nelle dinamiche geopolitiche. Il Mediterraneo non è più da tempo il Mare Nostrum ed è sempre meno il mare di ogni paese rivierasco. L’intervento militare in Libia nel 2011 voleva essere un tassello importante della politica di neutralizzazione di qualsiasi velleità di autonomia politica di un paese arabo e nordafricano, di ghettizzazione e isolamento della Russia di Putin ad opera degli Stati Uniti di Bush e Obama. Una politica del caos che avrebbe dovuto rendere impraticabili ed impervi alle potenze emergenti di Russia e Cina quei territori. Avrebbe dovuto riservare momenti di gloria e quote di bottino a potenze regionali come la Francia, perfettamente allineate al corso obamiano. A distanza di otto anni quell’intervento ha messo invece a nudo i limiti di quella strategia, la velleità e la vanagloria delle ambizioni francesi, la drammatica remissività, la fellonia suicida, l’inconsistenza e crollo di credibilità dell’azione politica dell’Italia. Ha consentito al contrario l’emersione di potenze regionali molto più dinamiche ed efficaci del blocco dei paesi europei, ha accentuato le contraddizioni interne alla NATO, interrotto la fase di arretramento della Russia, stabilizzato la presenza cinese. Un dinamismo che sta spiazzando soprattutto i paesi europei. https://www.nordicmonitor.com/2019/12/full-text-of-new-turkey-libya-sweeping-security-military-cooperation-deal-revealed/?fbclid=IwAR13hKfY9YN7j_lrzd10wIoRTN6qRACPRJPJQ-xFikwLY1m0vfUco8iuwHY Buon ascolto_Giuseppe Germinario

storia e ricordi, di Gianfranco la Grassa

UN PO’ DI STORIA RECENTE PER GLI IGNARI

 

  1. Da qualche punto debbo cominciare questa mia breve (e fin troppo succinta) memoria della storia che abbiamo attraversato da molti decenni a questa parte. Intanto partirò da una premessa di tipo personale. Ho aderito al comunismo nel 1953. Mi trovai subito immerso nei dubbi e perplessità, direi perfino in opposizione, quando uscì l’articolo di Togliatti su “Nuovi Argomenti” nel 1956 con la “trovata” della “via italiana al socialismo”. In quell’anno fui contrario al XX Congresso del PCUS (tenutosi a febbraio) e poi ammirai l’intervento di Concetto Marchesi all’VIII Congresso del Pci (verso la fine del ‘56), in cui svillaneggiò Krusciov, il meschino ricostruttore delle vicende dello stalinismo in chiave puramente personalistica e come si trattasse del frutto di una psiche “disturbata” e tendenzialmente criminale; con metodo insomma del tutto simile a quello, criticato dai comunisti (almeno da quelli che conoscevano un po’ il marxismo), quando si parla di Hitler folle e “mostro”, ricostruendo la storia in base a simili fatue categorie interpretative. Ricordo che Togliatti andò a stringere la mano a Marchesi dopo l’intervento e ciò rinsaldò il mio atteggiamento critico di fronte a quello che ho sempre considerato l’opportunismo dell’allora segretario piciista. Nell’ottobre del ’56 fui senza esitazioni per l’intervento in Ungheria, non approvando però l’atteggiamento incerto dei sovietici (una prima mossa aggressiva frettolosa e poco giustificata, poi l’arresto dell’operazione, infine la repressione troppo brutale).

Accettai inoltre quel fatto per ragioni che oggi si direbbero “geopolitiche”. Ritenevo un disastro che si sbriciolasse il campo avverso a quello atlantico (guidato e comandato dagli Usa). Cominciai tuttavia a chiedermi quale “coincidenza” ci fosse tra il “socialismo” imparato sui testi marxisti e quello in atto. Si ammette sempre una discrepanza tra teoria e realizzazioni pratiche, tuttavia mi sembrava che fosse venuta in evidenza una distanza “leggermente” eccessiva. Fui poi disturbato dal comportamento dei vertici del PCI (della “via italiana al socialismo”) nei confronti di chi traballò e fu preso da naturali dubbi, come ad es. Di Vittorio, di cui si dice che fu perquisito a casa e intimidito da parte di una sorta di “polizia interna” (che a mio avviso era giusto esistesse, ma non per agire con somma rozzezza e brutalità) mossa da quello che si riteneva allora una specie di “ministro dell’interno” del partito (lo stesso che nel 1978, in costanza di rapimento Moro, fece il viaggio, detto ridicolmente “culturale”, negli USA). E’, però, soltanto un “si dice”, mi raccomando, non prendetelo per sicuramente vero.

L’anno successivo (’57), fui comunque sostanzialmente dalla parte del “gruppo antipartito” nel PCUS (Malenkov-Molotov-Scepilov-Kaganovič), perché Krusciov mi appariva un opportunista rozzo e furbastro. I quattro furono espulsi dal partito, dopo alterne vicende: iniziale maggioranza nella Direzione del partito e poi in minoranza nel successivo Comitato Centrale, convocato d’urgenza dal segretario e che, come sempre accade quando si passa ad un numero piuttosto consistente di “esseri umani”, era zeppo di tirapiedi silenziosi e conformisti. Ciò mi allontanò ancor di più dalle posizioni del PCI, sempre allineato con Mosca e dunque ormai con la mediocrità del krusciovismo.

Da allora accentuai la mia critica al partito in quanto “revisionista” (pensavo ad una riedizione, “riveduta e s-corretta”, del kautskismo) e mi avvicinai sempre più ai comunisti cinesi (allora non ancora divisi in “linea nera” di Liu-sciao-chi e “rossa” di Mao, divisione che avvenne nel ’66 con la “rivoluzione culturale”; è ovvio che le definizioni di “nera” e “rossa” erano di marca maoista). Quando nel ’60 si svolse a Mosca il Congresso degli 81 partiti comunisti (di tutto il mondo), si precisò la lontananza fra cinesi e russi e mi sentii viepiù consenziente con i primi. Infine vi fu la “crisi di Cuba” (ottobre 1962), su cui occorre un racconto a parte, data la somma di bugie raccontate. Nel 1963, si precisò con nettezza il dissidio ormai inconciliabile tra PCUS e PCC (in cui era ancora in auge Liu-sciao-chi) con il violento scambio di accuse contenute nelle lettere che si scambiarono i comitati centrali dei due partiti. Alle critiche al PCUS, i cinesi aggiunsero due importanti interventi (in specie il secondo) contro Togliatti e il PCI. Da allora ruppi in modo definitivo con il partito; per un bel po’ di tempo mi aggirai nella gruppistica (quella di tendenza m-l), da cui però mi allontanai nel corso degli anni ’70 (in specie dopo la morte di Mao nel settembre 1976).

Poiché ero però allievo del maggiore economista di tale partito (fra l’altro, l’unico citato assieme a Togliatti nel secondo degli interventi cinesi contro i comunisti italiani), in definitiva mantenni aperti i canali con esso e quindi ebbi modo di sapere molte “cosette”. In fondo ho avuto contatti amichevoli con membri dei vertici del PCI (sorprenderebbe sapere qualche “grosso” nome, che non posso fare), senza mai chiedere alcun favore ma solo notizie (assai interessanti e sovente non di dominio pubblico). Frequentai anche molto “Critica marxista”, fui pubblicato dagli Editori Riuniti, ecc. ecc. Tuttavia, ero nel contempo impegnato in tutto quell’ambaradan che fu detto “extraparlamentare”; vedevo come fumo negli occhi, perché ne rilevavo le ascendenze fondamentalmente anticomuniste (non solo antipiciiste), le correnti poi dette “operaiste” (e più tardi dell’“autonomia”) e fui più vicino ai cosiddetti emme-elle, ma certo con tanto sconcerto per la sclerosi e dogmatismo delle loro posizioni, salvo rarissimi casi.

  1. Passarono gli anni, morì nel giugno ‘63 il “Papa buono” (il primo della “S.S. Trinità” costituita da Giovanni XXIII, Kennedy e Krusciov), a novembre fu assassinato il presidente americano, nell’agosto ’64 morì Togliatti e in ottobre fu rimosso il leader sovietico. Si arrivò al fatidico ’68 (preceduto in Italia da un ’67 già turbolento) e anni successivi che, come ben si sa, furono definiti “anni di piombo” (quelli ’70 soprattutto) o del “terrorismo rosso”, mentre invece sono stati anni in cui quest’ultimo (indubbiamente messosi in moto dissennatamente) fu ampiamente infiltrato e sfruttato (insieme a quello, “secondario”, detto nero) per una serie di “giochi delittuosi” posti invece in atto dai vari Servizi dei paesi dei “due campi”. Venni a conoscenza abbastanza presto di quanto fosse falso il “racconto” che si stava facendo (e che continua ancor oggi!) di quel “terrorismo”. Ricordo intanto l’importante evento della repressione sovietica in Cecoslovacchia nel 1968, che questa volta condannai, ma più che altro per critica al cosiddetto “socialimperialismo” Urss e senza aderire minimamente alle idee, anzi aborrite, di Dubcek e soci; idee invece condivise da assai deboli “antirevisionisti”, in particolare dai “manifestaioli” in Italia che mostrarono fin da allora di non essere migliori dei piciisti. Alla fine degli anni ’60 iniziarono “discreti” contatti tra PCI e “ambienti statunitensi”; prese insomma avvio il lento e molto coperto trasferimento del PCI verso “ovest”. In un certo senso, se si vuol fissare una data, si deve indicare il 1969; detto “per inciso”, in quell’anno Berlinguer divenne vicesegretario.

Sembravano allora maggioritari nel partito gli “amendoliani” (il cui n. 2 era Napolitano), corrente (pur se non riconosciuta formalmente in nome dell’unità del partito, che si pretendeva ancora leninista) cui apparteneva anche il mio Maestro, corrente cui si deve l’espulsione di quelli de “Il Manifesto”. Il gruppo amendoliano era considerato appunto l’avversario principale (quello più “revisionista”) nell’ambito del piciismo. In effetti, detto gruppo era sostanzialmente socialdemocratico, critico del socialismo di tipo sovietico; peraltro con critiche non del tutto errate a quello che era un semplice statalismo esasperato, ormai incapace di promuovere un vero sviluppo. Vi era in esso una propensione ormai piuttosto evidente verso il capitalismo; solo moderata da più che fumosi e mai seriamente attuati propositi di sedicenti “riforme di struttura” e di “programmazione democratica” al posto della pianificazione statalista, con idee poco chiare circa la pretesa superiorità delle imprese “pubbliche” rispetto alle “private”. Insomma, fu evidente la debolezza teorica (del “marxismo all’italiana”) e anche l’ambiguità della loro linea politica. Gli “amendoliani” (almeno nella maggior parte) erano comunque contrari all’atlantismo (Usa) e quindi considerati tutto sommato filosovietici nell’ambito del PCI; furono dunque i più radicali avversari dei gruppuscoli extraparlamentari, che oscillavano tra il filo-maoismo (e la rivoluzione culturale) e il dubcekismo opportunista e filo-occidentale (soprattutto apprezzato da quelli del “Manifesto”).

Nel 1972 venne eletto segretario Berlinguer con l’appoggio di un composito assembramento di cui fece parte l’ormai “fu” (almeno per me) amendoliano Napolitano e la sedicente sinistra ingraiana, che aveva fili di collegamento con la gruppistica tramite i “manifestaioli”. Da allora, il cambio di casacca piciista procedette con più sicurezza e, nel contempo, prudenza; venne via via in evidenza l’“eurocomunismo”, l’ideologia che mascherava tale processo e cercava di dare dignità allo spostamento di campo nello schieramento internazionale.

  1. Nel 1967 vi fu il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia (e venne ucciso in Bolivia il Che Guevara, altro argomento su cui occorrerebbe un discorso a parte). Tale colpo di mano militare fu chiaramente appoggiato dagli USA (nella sua politica “ufficiale”), mentre vide ovviamente contrario lo schieramento sovietico e l’insieme dei partiti comunisti occidentali. Quel regime non fu mai ben saldo, pur se si parlò di contatti con ambienti “destri” in Italia e qualcuno ebbe paura di eventi simili pure da noi (il cui unico risultato in definitiva fu il gustoso film di Monicelli “Vogliamo i colonnelli”). Nel 1973 il regime militare greco entrò in piena crisi e l’anno successivo ebbe termine; con l’instaurazione, però, di una “democrazia” apertamente filo-occidentale, di fatto filo-atlantica e pro-Usa, quindi avversaria del campo detto socialista. E questo era comunque il reale scopo perseguito dagli Usa con il colpo di Stato.

Le posizioni tra il 1967 e il ’74 nel nostro campo capitalistico sembravano molto chiare e nette: gli Usa per i colonnelli, l’Europa tiepida, in certi casi perfino antipatizzante ma senza troppo irritare il perno del campo stesso; i comunisti, orientati “ad est”, decisamente avversari dei militari. La politica è però sempre assai meno limpida delle sue apparenze e delle declamazioni “in pubblico”. Dati “ambienti statunitensi” (diciamo così, la qual cosa è in fondo sufficientemente corretta) si rendevano conto della debolezza del regime greco e quindi tramavano sotto traccia pure con l’opposizione “democratica” greca per preparare l’eventuale cambio di regime come poi avvenne. In queste trattative entrava pure una parte dei comunisti greci, la minoranza, mentre la maggioranza restava ostile e vicina all’Urss. La parte minoritaria costituì il “partito comunista dell’interno”, che si collegò con il nascente “eurocomunismo”, il cui centro direttivo si trovava nella parte ormai maggioritaria del PCI. Fu durante quel periodo che si accentuarono (almeno così si può arguire) i contatti tra i suddetti “ambienti statunitensi” e date correnti del PCI e, tramite queste, con il partito comunista greco dell’interno; colloqui non irrilevanti per quanto avvenne poi in Grecia nel 1974: caduta del regime, vittoria elettorale di “Nuova Democrazia”, partito appena fondato da Konstantinos Karamanlis, governo “democratico” (conservatore) che iniziò il suo iter filo-Nato.

In quegli anni, fra l’altro, ebbi modo di venire coinvolto di striscio nella vicenda. Nel 1971 avrei dovuto andare proprio in quel paese e incontrare qualcuno che apparteneva ai “comunisti dell’interno” (i futuri “eurocomunisti” con il PCI). Purtroppo, ho come soli testimoni le mie orecchie e la mia vista; non posso provare per conto di chi ci dovevo andare e chi dovevo incontrare. Da questa vicenda trassi però in seguito idee piuttosto precise su ciò che stava accadendo con i cambiamenti di campo in atto. Alla fine rifiutai di recarmi in Grecia perché mi sembrava troppo pericoloso, ma tutto sommato – come appunto capii meglio un po’ dopo – sarei stato protetto abbastanza (e proprio da certi “ambienti” USA) anche se certamente i colonnelli avrebbero masticato amaro e potevano quindi farmi qualche scherzo tipo “incidente” o qualcosa del genere.

In ogni caso, per quanto all’inizio assai sorpreso della proposta fattami di andare “laggiù” (io ero ben conosciuto come comunista e quindi certo non favorevole a quel regime), pian piano afferrai poi cosa stava avvenendo in certi ambienti dell’“opposizione” in Italia. Di più non posso chiarire, ma ebbi prove discrete di quanto sto raccontando circa gli spostamenti di “campo” in quel periodo. Non compresi comunque subito che aveva preso avvio, tra fine anni ’60 e inizio ’70, lo spostamento di almeno alcune frange della “destra” (amendoliana), che permisero l’ascesa a posizioni di comando nel PCI di coloro che furono fondamentali per il suo lento orientarsi verso l’atlantismo, sempre però assai ambiguo almeno fino all’accettazione della Nato, anche questa iniziata fin dal 1972, ma molto ambigua e “mascherata” per alcuni anni.

General Augusto Pinochet (L) poses with Chilean president Salvador Allende, 23 August 1973 in Santiago.
ANSA

  1. Ancora più rilevanti per comprendere dati fatti riguardanti il “comunismo” italiano (ma anche più in generale) – accaduti in quegli anni, che sono pure fondamentali per meglio valutare il nostro presente, a partire dal periodo susseguente al crollo dell’Urss, alla truffaldina operazione “mani pulite”, ecc. ecc. – furono gli eventi svoltisi nello stesso periodo in Cile. Cerchiamo di essere ordinati, cosa non tanto facile data la somma di eventi, tra cui si deve trascegliere tacendone una buona parte. Se non vado errato – ma certamente ricerche storiche finalmente oneste sarebbero necessarie – nella seconda metà degli anni ’60 vi fu notevole corresponsione di interessi tra settori Dc (con Moro in testa) e il presidente democristiano cileno Eduardo Frei. Gli accordi portarono fra l’altro alla nascita di un’agenzia stampa (con sede a Roma), che si espanse a tutto il Sud America, poi ai tre continenti del Terzo Mondo ed infine su scala globale, autonomizzandosi rispetto all’originario contesto (oggi non esiste più già da tempo). Ciò introdusse anche correnti imprenditoriali italiane in Cile e altri paesi sudamericani, ma non penso proprio che questo abbia infastidito più che tanto gli USA.

Nel 1970, Allende vince le presidenziali in Cile. Frei, da allora, si sposta nettamente verso gli Stati Uniti e certamente non si oppose (penso proprio il contrario) alla preparazione del colpo di Stato di Pinochet dell’11 settembre 1973. Credo non debba esservi nemmeno dubbio che la scelta di Frei abbia determinato frizioni con settori non irrilevanti della Dc italiana e con Moro in particolare. Nello stesso tempo, come già era avvenuto in Grecia, vi furono sicuramente “ambienti statunitensi” che non parteciparono alla preparazione del colpo di Stato, sempre per il principio che è sempre necessario esistano soluzioni di ricambio per l’eventualità della non riuscita di determinati progetti più “radicali”. Indubbiamente, la storia successiva dimostrò che il colpo di Stato di Pinochet fu più solido di quelli dei colonnelli greci, durò sedici e non sette anni. Tuttavia, non credo proprio che abbiano mai cessato di sussistere i suddetti ambigui ambienti negli USA; sempre pronti all’eventuale sostituzione di determinati progetti con altri di tipo detto (ridicolmente) “democratico”.

Il PCI – o meglio certi settori dello stesso, ormai a noi ben noti, già in azione con i comunisti greci (dell’interno) durante il regime dei colonnelli – si mosse in questa situazione che ancora una volta si presentò chiara nella sua “ufficialità”: condanna del colpo di stato da parte del partito italiano (assieme a tutti gli altri partiti comunisti), contrarietà anche di altre forze politiche nostrane (ed europee, contrarietà molto ben contenuta), appoggio smaccato a Pinochet da parte degli Stati Uniti, apparentemente in tutti i loro ambienti poiché è ovvio che le “forze di riserva” si tengano sempre ben coperte e tramino in gran segreto per l’eventualità di diverse soluzioni future. Subito dopo il colpo di Stato, esce in tre puntate (su “Rinascita”) un lungo articolo di Berlinguer (ricordo: segretario dal 1972 per la convergenza dei settori ex amendoliani, di cui già detto, e anche della sedicente corrente di sinistra, ecc. sul suo nome), in cui si condanna ufficialmente il colpo di Stato, si accusano dello stesso gli USA; però…..

Il però era un’apparentemente togliattiana valutazione intrisa di “realpolitik”, che taluni vollero assimilare alla scelta di Palmiro nella famosa “svolta di Salerno” del 1944, necessitata dai patti di Yalta e dal voler evitare la stessa sorte che toccò ai comunisti greci; sorte, lo si scorda sempre, che si compì per essi nel 1949 dopo aver avuto perfino il sopravvento in dati periodi, almeno fino al 1947. Anno in cui si ebbe la rottura tra Jugoslavia e URSS e l’uscita della prima dal Cominform; evento da cui conseguì l’impossibilità di adeguati aiuti (soprattutto dell’URSS) ai compagni greci poiché gli jugoslavi (geograficamente vicini a quel paese) li impedirono. Ci fu poi la sostituzione di Markos (notevole capo militare) con il molle Zachariadis al comando delle truppe comuniste greche con risultati complessivamente catastrofici: annientamento di vasti settori di queste ultime e uccisione di decine di migliaia di militanti.

Berlinguer, con “buon senso” (appunto tra virgolette), ricordò che comunque l’Italia era parte del campo capitalistico (l’“occidente”) strutturato attorno ad un’alleanza militare, la Nato, controllata dagli Stati Uniti. Per evitare che anche l’Italia corresse pericoli di tipo cileno, bisognava secondo il suo parere almeno in parte “abbozzare” e accettare realisticamente la nostra posizione atlantica. In un certo senso, si può dire che da qui parte, o almeno si rinforza, l’idea del cosiddetto “eurocomunismo”, da ritenersi in qualche modo il successore, riveduto e (s)corretto, dell’invenzione togliattiana denominata “via italiana al socialismo”. Qui si pensa meno in termini italiani, nazionali, e invece più europei. Sembrò un allargamento di visione prospettica; in realtà, significò che il Pci, sfruttando la sua posizione di maggiore partito comunista d’occidente (e il più “radicato tra le masse popolari” del proprio paese, chiara impostazione ideologica del problema), si candidò a far da organo di collegamento e traino di tutte le frazioni interne ai partiti comunisti occidentali – primi fra tutti quelli francese e spagnolo, ma con ramificazioni minori pure verso i partiti comunisti orientali (dunque pure in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, paesi “socialisti” in genere) – frazioni ormai preoccupate dell’evidente (salvo che per alcuni “frastornati”) indebolimento dell’Unione Sovietica (soprattutto dovuto alla struttura sociale interna, non tanto quale potenza militare) e che dunque si prepararono cautamente al cambio di campo.

S’intensificarono, tramite alcuni “ambasciatori”, i rapporti tra Pci e i suddetti ambienti statunitensi (quelli delle “soluzioni alternative”), che culmineranno nel 1978, chiudendo solo la prima fase, con il viaggio dell’alto esponente del Pci negli Usa; un viaggio ridicolmente e inutilmente presentato (salvo forse che per la “base”, costituita dai soliti credenti) come culturale, mentre si ebbero molti riservati incontri ben più significativi e coinvolgenti. Riparleremo più avanti di questo viaggio, avvenuto in fortuita coincidenza con il rapimento Moro; fortuita in quanto coincidenza temporale, non ne sono invece sicuro quale rapporto causa/effetto. Le mene “atlantiche” del Pci non avrebbero avuto senso senza l’avvio di quello che fu il “compromesso storico” con la Dc, un compromesso tutt’altro che scevro di antagonismo e di insinuante tentativo piciista di arrivare un giorno a sostituirla come bastione di un regime solidamente pro-occidentale (cioè pro-Usa), nella sostanza meno ambiguo di Dc e Psi verso l’est europeo, gli arabi, ecc. (pur se, ufficialmente, il Pci restò a lungo vicino a personaggi come Arafat, ecc.). Comunque, è tutto da ricostruire storicamente, non come fatto da storici “di sinistra” cui deve andare tutto il nostro disprezzo.

In ogni caso, non mi sembra che la Dc sia rimasta complessivamente tranquilla. Credo che i settori più favorevoli all’avvicinamento del PCI agli statunitensi (e dunque al “compromesso storico”) fossero in sostanza guidati da Cossiga (comunque questi ne fu un esponente assai importante). Costui, dopo “mani pulite”, sembrò prendere negli anni ‘90 posizioni di contrasto con gli USA. Lui stesso rivelò che, quando nella stampa americana s’iniziò a fare troppo spesso il suo nome in merito a quell’operazione giudiziaria, ottenne infine il silenzio minacciando di fare cenno ai contatti tra Stati Uniti e mafia siciliana per favorire la costruzione della base a Comiso con una “opportuna” azione tesa a mitigare la contrarietà dei partiti del cosiddetto arco costituzionale. Non credo siano serviti tanto questi ricatti quanto i rapporti con “amici” statunitensi che zittirono quelli che lo importunavano. Non a caso, ben dopo “mani pulite”, nel ’99, Cossiga (per sua stessa ammissione) fu al centro delle operazioni trasformistiche che portarono al governo D’Alema, giudicato il migliore per un “corretto” comportamento italiano di appoggio incondizionato all’aggressione clintoniana alla Jugoslavia.

  1. Tornando indietro agli anni ‘70, credo che Moro avesse una buona conoscenza dei fatti e fosse molto sospettoso e prudente nei confronti dell’avvicinamento (conflittuale, e non lo si prenda per bisticcio di parole) tra PCI e certi ambienti democristiani, pure loro pronti a notevoli mutamenti di prospettiva su pressione di certi “ambienti” statunitensi. Per quanto posso capire, il dirigente diccì – poi rapito e ucciso; e la si smetta di dire dalle BR – fosse in ciò seguito da Fanfani, mentre Andreotti come al solito si “destreggiò”; pagò più tardi, ma anche da “mani pulite” in poi sopportò in silenzio e con pazienza che passasse la buriana, garantendo una segretezza (di quanto avvenuto negli anni ’70) che infine lo premiò, cosa non accaduta ad altri (ad es. a Craxi, che era stato a suo tempo favorevole a contatti tali da almeno cercare di salvare Moro). All’inizio degli anni ’70, il PSI faceva già da lungo tempo parte del cosiddetto centro-sinistra al governo, ma fu solo dopo il ’76 (ascesa di Craxi, ecc.) che si mise in più accesa competizione con il PCI; e anche la direzione del partito socialista prese atto, secondo la mia opinione, delle pericolose manovre del “nuovo” PCI di avvicinamento agli USA.

Nel ’76 vi fu però (sempre fortuita coincidenza?) la vittoria decisiva dell’“antifascismo del tradimento”, che falsa tutto il significato della Resistenza, divenuta “lotta di liberazione” in pieno appoggio agli “Alleati”, i nostri “liberatori”. Balle mostruose, se si pensa che, come ammise Cossiga (anche se poi ritrattò e negò), l’80% di quell’evento storico – limitato di fatto, nella sua vera rilevanza, al nord Italia (o poco più) quale autentica lotta partigiana e non chiacchiere dei savoiardi e badogliani, poi di fatto avallate almeno parzialmente dall’eccessiva “prudenza” togliattiana – fu guidato dai comunisti. Naturalmente, ci sono molti misteri da spiegare, a partire dalla frettolosa fucilazione di Mussolini con sparizione, almeno così si continua a dire, di importanti carteggi. La scusa fu che, altrimenti, gli Alleati lo avrebbero salvato. Proprio così? Soprattutto gli inglesi e Churchill lo volevano salvo? Non è che certi “comunisti”, magari, eseguendo gli ordini del comando del CLN (con aperta tendenza al compromesso togliattiano dei dirigenti comunisti in quel comando) fecero un favore agli “Alleati”, ma soprattutto agli inglesi, consegnando carteggi tra Mussolini e il premier inglese? Mah!

Resta il fatto che né Moro né Craxi si opposero (c’è da dire: “et pour cause”?) al totale travisamento della Resistenza; non lo potevano, d’altronde, giacché ridimensionava il ruolo dei comunisti, fatto che pensavano ad essi favorevole (sbagliando di grosso!). Furono fin troppo morbidi anche quando ci si prodigò nel dileggio del “fanfascismo”, nelle vignette di Craxi in camicia nera e orbace, ecc. E si trattava di un chiaro sintomo di come il nuovo (falso) antifascismo volesse sfruttare i meriti passati, approfittando di un ceto intellettuale infame che obnubilò ogni effettiva memoria storica, per accusare di fascismo chiunque intralciasse il “compromesso storico”, cioè la “riabilitazione atlantica” del PCI. L’“antifascismo del tradimento” – lanciato fra l’altro con “Repubblica”, giornale non a caso uscito proprio nel 1976 – fece dimenticare l’infamia di badogliani e savoiardi, fu patrocinato anzi da ambienti repubblicani, dichiaratisi semmai eredi di “Giustizia e Libertà” (che ebbe uomini insigni, sia chiaro, non i miserabili allignanti in quel giornalaccio), ben foraggiati dai “cotonieri” italiani, in particolare dalla Fiat e dagli eredi degli ambienti industriali italiani fascistoni fino al 25 luglio ’43 – effettiva caduta del “fascismo” al “Gran Consiglio” diretto da Achille Grandi con arresto di Mussolini e sua “custodia” al Gran Sasso, da cui fu liberato dai tedeschi scesi in Italia dopo il voltafaccia settembrino del Re e di Badoglio – per poi voltare rapidamente gabbana e innamorarsi dei “liberatori” (si dice che alcuni ambienti “industriali” abbiano iniziato segrete trattative con i già chiari vincitori della guerra già a fine ’42).

Quell’“antifascismo del tradimento” attaccò appunto i settori che più sospettavano e temevano il “compromesso storico”, ma che commisero l’errore di non prenderlo di petto con molta energia, cosa che alla fine li perdette. E li attaccò esattamente come fa oggi; chiunque si oppone alle sue losche trame, all’asservimento totale del paese agli Usa, è immediatamente tacciato di fascismo. Va dichiarato senza mezzi termini che questo “antifascismo” è da quarant’anni il veleno responsabile dello sbriciolamento politico, sociale e culturale d’Italia. Ha apportato danni, putrefazione, viltà estrema, servilismo. E’ veramente il più grande pericolo degenerativo che sta correndo il nostro paese dall’Unità ad oggi. O lo si ferma o si è perduti per molti e molti anni. Non lo si ferma, però, con l’altrettanto meschino e antistorico anticomunismo dell’attuale “destra”, né con il liberismo d’accatto; non ci siamo proprio. Occorre ben altra forza politica, che ancora non appare minimamente in formazione; soprattutto perché tre quarti di secolo di “democrazia” (del tutto falsa e imbelle) hanno istupidito anche gran parte della popolazione, perfino le masse più popolari.

 

  1. Dobbiamo fermarci un momento a pensare e analizzare, sempre via ipotesi, quanto stava avvenendo nel campo “socialista” centrato sull’Urss. Devo tralasciare tutta la questione del decisivo dissidio sovietico-cinese in cui s’inserì, nei primi anni ’70, l’azione Kissinger-Nixon, non raggiungendo grandi successi per gli ostacoli frapposti a quello che, io penso, verrà infine rivalutato come un non banale presidente americano, fatto fuori dall’FBI con il “Watergate” (su indicazione di ben precisi centri statunitensi portatori di altra strategia). Qui mi limito a considerare brevemente le difficoltà interne dell’Urss, che non potevano non riverberarsi sui paesi dell’area ad essa sottomessa.

Con la liquidazione di Krusciov (1964) si mise termine ad una serie di operazioni sconnesse e contraddittorie, che rappresentavano un grosso pericolo per la seconda superpotenza mondiale; sia per quanto concerne la coesione all’interno sia per il possibile sgretolamento della sua sfera d’influenza esterna. Tuttavia, si congelò la situazione sociale e politica, si dichiarò una soltanto formale e decrepita ortodossia ideologica, ormai priva di presa. Si cercò di tenere saldo un blocco sociale (ed è già tanto forse definirlo così) formato dai vertici del partito – con gli alti dirigenti dei grandi “Kombinat”, nominati da detti vertici politici per meriti di fedeltà, non certo per capacità direttive manageriali – e dagli strati inferiori, esecutivi, dei lavoratori salariati trattati ancora, del tutto stancamente, da Classe Operaia, il presunto soggetto operativo nella “costruzione” del socialismo (primo stadio) e poi comunismo. Il famoso principio marxista del socialismo, “a ciascuno secondo il suo lavoro”, venne interpretato in senso meramente quantitativo, in quanto durata e pesantezza del lavoro; non per la qualità, così come intendeva Marx che – oltre al fatto di pensare tale classe formata, insieme, “dal primo dirigente all’ultimo giornaliero” – aveva fatto distinzione tra lavoro “semplice” e “complesso”, un’ora del quale valeva quale multiplo dell’ora del primo. Vi erano operai delle mansioni inferiori che prendevano un salario (pur sempre basso) non inferiore a quello di molti quadri intermedi (o anche medio-alti, salvo i “boss” legati al partito) e perfino a quello di ricercatori in importanti centri di elaborazione scientifica e tecnica.

In un sistema industriale in crescita, è ormai dimostrato che gli operai, se si considerano tali solo quelli svolgenti mansioni prevalentemente esecutive o addirittura manuali (non l’“associazione dei produttori” di cui parlava Marx), diminuiscono di peso perfino numericamente, per non parlare del loro contributo ad una industrializzazione sempre più sofisticata. Crescono invece rapidamente gli strati intermedi (i “ceti medi”), e non soltanto in ambito strettamente produttivo. Ed infine, dato l’evidente fallimento totale di una cogente pianificazione – dall’alto e dall’esterno delle diverse unità produttive, che non vengono affatto a formare un tutto unico, compatto, omogeneo – diventa fondamentale lo strato manageriale: e non semplicemente tecnico, bensì specificamente dotato in senso “strategico”. L’Urss, durante il ventennio brezneviano, cristallizzò la pratica legata alla vecchia ideologia “rivoluzionaria” e andò incontro a “rendimenti decrescenti” con accelerazione esponenziale, mascherata solo dalla forza (in specie militare) raggiunta in passato e da una solo apparente unità del PCUS.

Fu infine l’insieme, sempre più ampio e massiccio pur se frastagliato, degli strati sociali intermedi – ignorati per sclerosi ideologica e politica, pure responsabile del forte indebolimento economico e dunque di una effettiva stagnazione, ecc. – a scardinare l’ordinamento sovietico e a creare nel contempo lo sfacelo sociale che distrusse l’Urss. Basta con la favola del “grande” presidente Reagan (attore scadente pur se interprete in film niente male, in specie western), che avrebbe stroncato il bastione del “socialismo” (chiamato, dagli ignoranti di tutti gli schieramenti, comunismo), obbligandolo ad un surplus di spese militari. Il crollo, una vera e propria implosione, fu dovuto invece al collasso del sistema complessivo, con una direzione politica legata a impostazioni superate e incapace di comprendere i processi di trasformazione di quella “formazione sociale”, definita del tutto impropriamente socialista. Alla morte di Breznev (1982), vi fu già un primo sussulto pre-distruttivo con l’elezione a segretario del partito di Jurij Andropov, che però morì nel 1984. Il pendolo tornò a segnare l’ora di uno stretto collaboratore di Breznev, Černenko, che si spense dopo sei mesi di segretariato (marzo 1985). Venne in auge allora Gorbaciov che restò fino alla dissoluzione dell’Urss (1991), liquidò l’intero campo “socialista” euro-orientale, organizzando fra l’altro il colpo di Stato (passato per rivolta popolare) di Iliescu in Romania. Questo più che mediocre personaggio, assurto indegnamente alla direzione dell’URSS, cercò perfino di creare zizzania in Cina, dove le sue mene (con alcuni ambienti interni al PCC e al segretario del partito, subito destituito) furono assai velocemente stroncate. Dopo, la situazione precipitò in URSS con Eltsin che dissolse l’Unione sovietica alla fine del 1991. Formatasi la Russia, assai più debole e con la perdita di alcune “Repubbliche”, le sorti cominciarono a risalire molto lentamente con Primakov, ma ormai da posizioni compromesse. Infine, la ripresa di quel paese si rinsaldò con Putin. Questa è già storia dei nostri giorni e dunque tornerò adesso indietro.

  1. Dopo la cacciata di Krusciov nel 1964, l’Urss tornò solo apparentemente compatta e unitaria. In essa, per i motivi sociali sopra accennati, permanevano correnti sotterranee di opposizione, anche dentro lo stesso PCUS. Correnti che, in qualche modo, erano perfino in buon rapporto con l’“eurocomunismo” o erano comunque interessate a compromessi con l’occidente, anche a “prezzi” molto bassi, talvolta di svendita. Esse furono a lungo strettamente controllate, ma la loro opera corrosiva cresceva lentamente ed in modo coperto e cauto; soprattutto tenevano contatti con le corrispondenti frazioni dei partiti comunisti euro-orientali, infarcite dei soliti opportunisti che annusavano i mutamenti di atmosfera (pur tenuti molto segreti) e si preparavano ad ogni evenienza. Le frazioni maggioritarie – e solo apparentemente padrone assolute dei partiti: dal PCUS a quelli dei “satelliti” – non avevano capacità manovriere di grande rilievo per le carenze politico-ideologiche già accennate; esse usavano la forza e conducevano – tramite la parte più fedele dei Servizi e di altri apparati addetti ad operazioni varie anche all’estero – manovre segrete e deformate in guisa da non farne afferrare con facilità gli scopi realmente perseguiti.

Dette manovre miravano certamente a colpire e mettere in difficoltà le trame degli interessati a cedimenti compromissori più o meno gravi con l’occidente capitalistico. Lo facevano, tuttavia, in modo assai contorto, giungendo perfino a promuovere esse stesse pericolosi compromessi con gli USA e i paesi del campo capitalistico mediante mosse morbide e prudenti, alternate a scelte improntate ad estrema durezza (anche militare). Inoltre, cercavano prioritariamente di scompaginare le correnti compromissorie interne all’Urss e al “suo campo”, ma si rivolgevano pure all’esterno di quest’ultimo, imbastendo più o meno cauti e coperti rapporti con frazioni interne di alcuni partiti comunisti euro-occidentali ormai schierati in senso “atlantico”; frazioni rimaste fedeli al presunto socialismo e quindi nettamente contrarie all’eurocomunismo, ma soprattutto a chi aveva preso il sopravvento nel Pci, il principale di questi partiti, conducendolo a sempre più invischianti (e conosciuti dai Servizi dell’est) rapporti con gli USA e trasformandolo perciò nei fatti in una vera centrale di cospirazione antisovietica. In tale opera da voltagabbana, le frazioni ormai nettamente maggioritarie nel PCI sfruttarono pure il dissidio russo-cinese e, solo parzialmente, la fronda “gruppuscolare” fintasi quasi maoista; ad es. quella del “Manifesto”, che salvo lodevoli ma rare eccezioni, era la più “corrotta” fra coloro che si richiamavano, impudicamente e senza arrossire, al comunismo. Da qui gli eventi italiani degli anni ’70, degli anni detti “di piombo”.

 

  1. Nel ’68, il gruppo – composto in prevalenza, se ricordo bene, da cattolici divenuti comunisti (ma pure da comunisti “laici”), comunque tutti “ragazzi” in gamba – facente capo ad una rivista di orientamento marxista-leninista, “Lavoro politico” (una delle pubblicazioni apprezzabili di quell’area), entrò nel Pcd’I (m-l), quello che pubblicava “Nuova Unità” e che di fatto era in stretto collegamento con le “Edizioni Oriente”, nate a Milano nel ’63 con il principale compito, almeno per quanto io abbia potuto constatare, di diffondere le pubblicazioni della “Guozi Shudian”, casa editrice cinese in lingue estere, dalla quale provenivano le più importanti pubblicazioni dei comunisti di quel paese, appunto tradotte in italiano. Tralascio i rapporti da me intrattenuti con quest’area, conclusisi con una discussione (pubblica), polemica, tenutasi a Padova alla fine del maggio ’68 (proprio il 31), subito dopo la quale (ma non a causa della quale, sia chiaro) me ne andai a passare piacevolmente circa quattro mesi a Londra.

Quando tornai in autunno, trovai il Pcd’I (m-l) in scissione, con formazione della cosiddetta “linea rossa”, l’imbarazzante (perché un po’ ridicola) nascita di una “Nuova nuova Unità”, di “Nuove Edizioni Oriente”, e via dicendo. Il gruppo di “Lavoro politico” fu attivo nella scissione e nella nascita di questa “linea rossa”; va però affermato con la massima nettezza che tale gruppo si attenne, nel suo complesso, alla più assoluta legalità senza sfizi di lotte d’altro genere. E’ però vero che una parte minoritaria d’esso (con nomi poi divenuti noti) uscì sia dalla rivista sia soprattutto dal Pcd’I (anzi dai due Pcd’I ormai); e, per quanto ne so, andò a Milano dove nel ’69 fondò, immagino assieme ad altri, il “Collettivo politico metropolitano”, che gettò fuori un opuscolo programmatico non irrilevante. Da tale organismo, mi sembra proprio chiaro, nacquero le future BR. Mi dispiace di non trovare più quell’opuscolo (qualcuno certamente lo avrà) e la risposta che ne diedi, certo a circolazione assai più ridotta e totalmente ignorata, che purtroppo non trovo più. Tuttavia, la mia risposta conteneva una serie di obiezioni a quel “programma”, che a me sembra si siano rivelate con il tempo sensate.

Ricordo bene, ricordo male? Quel che ricordo di quello scritto da me criticato è la formulazione di due previsioni fondamentali, entrambe errate e foriere di sviluppi molto negativi. Innanzitutto, quella di un non troppo lontano scoppio della guerra tra “imperialismo” (USA) e “socialimperialismo” (URSS); per cui bisognava, “leninisticamente”, giocare sulle contraddizioni tra i due nemici, confidando nella tenuta della Cina maoista, di cui per la verità nessuno (per quanto ne so) immaginava la brusca svolta subito dopo la morte del “grande timoniere”. Ovviamente, mi sembra chiaro, l’idea centrale era un recondito riferimento alla “Rivoluzione d’ottobre”, avvenuta appunto verso la fine della prima guerra mondiale e nel da Lenin definito “anello debole della catena imperialistica”, in cui crollò il regime zarista; l’Italia sarebbe stata il nuovo “anello debole” in questa prevista terza guerra mondiale. La seconda previsione, su cui però ho ricordi più imprecisi, è quella di un probabile o almeno possibile colpo di Stato in Italia; il che, credo, scontasse l’impressione ricevuta da quello verificatosi nel 1967 in Grecia. Devo dire che, ancora nei primi anni ’70, in molti “giocavamo” un po’ troppo con questo timore.

In ogni caso, fui subito comunque molto contrario e critico dell’idea di entrare in clandestinità prima ancora che l’evento si producesse. Ricordo bene che ero addirittura stupefatto di simili intenzioni. Si poteva capire l’attuazione di preparativi per l’eventualità, preparativi di vario tipo e soprattutto organizzativi; e, se volete, anche in riferimento alla creazione di alcuni “depositi d’armi”. Tuttavia, che si proponesse l’entrata in clandestinità anticipando le mosse “dell’avversario” mi sembrava una trovata balzana, per non dire di più. Dove la mia contrarietà si espresse ancora più netta e senza esitazioni fu sulla previsione di una guerra tra le due superpotenze (con i loro alleati/subordinati al seguito) con il ripetersi di un quadro simile a quello che permise l’“ottobre bolscevico”.

Non ero ancora stato a Parigi da Bettelheim (lo feci nel 1970-71). Tuttavia, ero già ben convinto dell’ingrippamento dell’Unione Sovietica, messo in luce a partire dal XX Congresso (1956) e aggravatosi negli anni successivi. Ricordo vivaci polemiche con coloro che insistevano addirittura sulla superiorità del “socialimperialismo” in quanto “capitalismo di Stato”, pensato quale gradino superiore (e ultimo o supremo) della società capitalistica, con riferimento un po’ scolastico ad una vecchia impostazione del marxismo “d’antan”. Ho succintamente accennato sopra ai motivi dell’indebolimento dell’Urss (per non parlare dei paesi “socialisti” euro-orientali, in netta difficoltà); li avrei approfonditi ben di più a Parigi, con anche una qualche informazione sulla solo apparente coesione di quei paesi, percorsi dalle correnti che condussero al crollo dell’89 (“campo socialista” europeo) e del ’91 con dissoluzione dell’URSS dopo qualche anno di “agonia” gorbacioviana, scambiata (non da me!) per ripresa del “socialismo”. Nel ’69-’70 non avevo quelle informazioni né avevo approfondito con Bettelheim la corrosa struttura sociale sovietica. Tuttavia ero già convinto della stasi di quel paese e dunque dell’improbabilità, per me pressoché assoluta, di uno scontro mondiale tra le due superpotenze; in realtà, ne esisteva ormai una sola di effettiva, gli USA.

  1. Arriviamo quindi al punto cruciale per quanto concerne la storia italiana di quell’epoca infelice e con il quale interromperò, almeno per adesso, questo racconto. Le direzioni dei partiti comunisti dei paesi euro-orientali avevano la sensazione di pericolo per opposizioni interne, ma soprattutto perché consapevoli di un’Unione Sovietica meno forte di quanto sembrava a prima vista. La rottura con la Cina – in continuo aggravamento, che non terminò nemmeno con la svolta post-maoista del 1976, subito dopo la morte di Mao con arresto della cosiddetta “banda dei quattro (fra cui la moglie di Mao) – rendeva i pericoli ancora maggiori. E bisogna ben dire che la politica Kissinger-Nixon di “apertura” ai cinesi e a una possibile pace in Vietnam – politica non certo fiorita all’improvviso nel 1972 con il viaggio nixoniano a Pechino, poiché occorreva prepararla, senza pubblicità, prima che apparisse alla luce del giorno – rendeva il pericolo ancora più grave. Diciamo pure che gli ostacoli frapposti dall’interno al presidente statunitense, e poi la sua eliminazione tramite il “Watergate”, diedero al “campo socialista” un periodo di respiro, consentendo fra l’altro all’Urss una stretta alleanza con il Vietnam, dove esisteva una minoritaria, ma forte, corrente filo-cinese nel partito comunista, sconfitta appunto dopo gli approcci tra Cina e Usa, che diedero un loro contributo a possibili sbocchi della guerra in Vietnam con gli accordi di pace di Parigi (gennaio 1973), finiti però male anche (e direi soprattutto) a causa delle difficoltà di Nixon. Quegli accordi condussero comunque al ritiro di buona parte delle truppe statunitensi dal Vietnam del sud; il che alla fine favorì la vittoria dei nordvietnamiti e la loro conquista di Saigon nell’aprile 1975. Il Vietnam riunito si schierò infine apertamente con l’Urss ed entrò in conflitto (perfino una breve guerra di un mese nel 1979) con i cinesi.

Ripeto che tali avvenimenti diedero solo una boccata d’ossigeno al “campo socialista” europeo centrato sull’Urss; e proprio grazie alla miopia di quegli ambienti statunitensi che misero in moto la manovra contro Nixon (con l’azione del Fbi, ecc.). In ogni caso, non si può pensare che i partiti comunisti euro-orientali non avvertissero che cosa stava avvenendo. Immagino che anche importanti settori del partito comunista sovietico (anzi maggioritari nel periodo brezneviano) stessero in allerta ben conoscendo l’azione corrosiva di quelle correnti più tardi (1985) responsabili della nomina di Gorbaciov a segretario del partito. E’ ovvio che la storia avrebbe avuto ben altro andamento se in Urss si fosse compresa la necessità di smantellare quella struttura politica che cristallizzava una situazione non più confacente alla “composizione sociale” ormai in formazione nel paese.

Fra l’altro, si sarebbero dovuti regolare, in qualche modo, i conti con la Jugoslavia (avamposto più importante di quanto non si creda, anche durante la direzione titoista, di varie manovre di “infiltrazione” nel blocco sovietico provenienti da “occidente”), accomodare i rapporti pure con la Romania (costretta a rapporti amichevoli con la Cina proprio dall’atteggiamento ostile dell’Urss, sfociato poi apertamente nell’aiuto fornito al colpo di Stato di Iliescu contro Ceausescu durante la “gestione” gorbacioviana). Meno importante l’attrito con l’Albania, comunque anch’essa schierata con la Cina, pur essendo invece critica nei confronti del maoismo; e ne fanno prova gli aiuti dati da Enver Hoxha alle frazioni di cosiddetta “linea nera” nei vari, pur irrilevanti, gruppuscoli m-l, soprattutto nei paesi euro-occidentali, Italia compresa.

La posizione di debolezza dell’Urss, accompagnata dalla presenza di correnti filo-occidentali nei paesi europei “socialisti”, rendeva in ogni caso più fastidiosa la presenza nei paesi europei della NATO di partiti comunisti (rilevanti comunque solo in Francia e ancor più in Italia) con tendenza a “sbandare” (ma così nettamente soltanto nel nostro paese) in senso dichiarato riformista, in realtà di sostanziale accettazione della formazione sociale esistente in occidente, quella che veniva ritenuta “il capitalismo” in aperto antagonismo con “il socialismo”; non mi soffermo sulla questione di detta schematica contrapposizione, a tutt’oggi non risolta da politici (e storici) incompetenti e faziosi.

Una Unione Sovietica forte – con il suo “campo” (sfera d’influenza) ben controllato, con un migliore sistema di alleanze (o di non inimicizia) con Cina, Jugoslavia, ecc. – avrebbe determinato un diverso andamento degli eventi storici; per quanto ci riguarda, sarebbero stati meno forti, e immagino meno determinanti, quegli influssi che invece si produssero negli anni ’70, i cosiddetti “anni di piombo”, in cui si è posto in forte risalto il dichiarato “terrorismo rosso” (e anche nero in certi casi) per coprire le mene internazionali condotte in varia guisa in quegli anni.

La situazione era invece quella appena delineata: l’Urss apparentemente molto forte, ma in posizione di sostanziale stallo rispetto agli anni della grande ascesa (soprattutto gli anni ’30), della vittoria nella seconda guerra mondiale, dell’allargamento del “campo socialista”, ecc. Nei paesi euro-orientali, i partiti comunisti (i loro vertici ovviamente) erano consapevoli delle difficoltà esistenti soprattutto al loro interno, ma comunque aggravate da quanto avveniva, sia pure in modo poco appariscente, nel paese centrale del sistema. Vi fu la succitata boccata d’ossigeno quando si pose in mora la politica nixoniana verso la Cina (e anche il Vietnam), si verificò la creduta grande vittoria dei nordvietnamiti contro il gigante statunitense e l’altrettanto sopravvalutata crisi interna statunitense a causa di quella guerra, ecc.

Un conto sono i “movimenti” che si credono sulla cresta dell’onda e blaterano di vittorie sull’imperialismo, in via di presunto indebolimento. Un altro sono i vertici politici delle varie organizzazioni che conoscono la POLITICA (le strategie del conflitto), sanno come questa deve essere condotta, sono ben informati circa le mosse segrete di cui quella vera si sostanzia; e di cui, invece, i poveri “giovinotti” di detti “movimenti” nemmeno avevano il più blando sentore. O forse sarebbe meglio dire che alcuni ne avevano un qualche sentore, ma secondo quanto avevano deciso di far sapere (e far credere) loro i vari “Servizi”, che sono una delle nervature cruciali di detta POLITICA, quella seria e non fatta di dissennate valutazioni degli effettivi rapporti di forza esistenti.

In nessun momento degli anni ’70, i partiti comunisti, sia all’est che all’ovest, crederono a ciò che magari sostenevano ufficialmente. All’est è probabile che si comprendessero le proprie debolezze e i pericoli che si correvano. E all’ovest forse pure. L’eurocomunismo, cioè in definitiva il suo nucleo centrale, il PCI (con i vertici in mano alla nuova maggioranza), non defletté certamente mai dal suo cauto, coperto, spostamento verso l’atlantismo. Tuttavia, credo che sia rimasta molto in ombra – per il solito motivo che la storia la raccontano i vincitori – l’esistenza, soprattutto proprio in Italia, di frazioni del tutto minoritarie, ma non proprio inconsistenti, in opposizione (anche all’interno di quel partito) a simili approcci verso gli Usa e l’occidente in genere. Non credo però ci fosse una effettiva consapevolezza delle manovre “eurocomuniste”. Purtroppo, la visione ideologica del tempo faceva credere che la lotta nell’ambito del movimento comunista fosse una sorta di ripresa dello scontro tra “neokautskismo” (neorevisionismo) e neoleninismo (in buona parte identificato con il maoismo); un errore non decisivo ma comunque rilevante per far prevalere gli ambienti più opportunisti e miserabili del PCI e dei partiti consimili in altri paesi europei.

Fu in ogni caso del tutto impossibile formare un fronte in qualche misura comune – al di là delle divergenze, non solo ideologiche ma pure politiche – tra tutti quelli che si opponevano ai piciisti degli anni ’70 e seguenti: chi perché appunto neoleninista, chi invece sostanzialmente socialdemocratico (ad es. gli “amendoliani”) ma comunque relativamente favorevole ad una “ostpolitik” e chi, come fu un po’ più tardi Craxi, semplicemente antagonista della supremazia del PCI sulla “sinistra” e sospettoso del “compromesso storico”, una buona leva per l’avanzata di tale partito, ormai degenerato, lungo la via di una politica filo-occidentale con tutto ciò che comportò più tardi. Tale divisione fra gli oppositori a quel PCI favorì, infatti, quel che accadde in seguito con il viaggio “culturale” di Napolitano negli USA nel 1978; e soprattutto dopo la fine del “socialismo reale” e dell’Urss. Quanto appena ricordato può forse in parte spiegare anche l’azione di certi Servizi orientali (io penso soprattutto a quelli della  DDR e della Cecoslovacchia) per mettere comunque delle “zeppe” tra i piedi del PCI nel suo spostamento a ovest. E tra queste, almeno a mio avviso, ci fu anche un almeno iniziale appoggio alla poco assennata “lotta clandestina” (non solo delle BR), poi ampiamente sfruttata, come già detto, nell’ambito di una conflittualità tra est e ovest, ecc. ecc.

  1. Mi fermerei per il momento a questo punto per non allungare eccessivamente il mio “racconto”. Tuttavia sia chiaro che bisognerà riflettere a lungo su quanto è poi accaduto dopo la “caduta del muro” e la dissoluzione dell’URSS. In particolare in Italia, dove si è verificato un vero rovesciamento dei precedenti assetti politici tramite quella viscida manovra giudiziaria (“mani pulite”), che si prolunga ancor oggi in una continua invasione della politica da parte della sedicente “giustizia” e della “Legge”. Di questo abbiamo parlato comunque più volte nei nostri interventi; così come stiamo seguendo i netti mutamenti della politica internazionale, in cui cresce il “multipolarismo” e si accentua un dissidio politico all’interno degli USA forse più acuto che in passato e che mi sembra delineare un certo declino di quel paese, pur ancora il più potente economicamente, militarmente e anche in termini di avanzamento tecnologico.

Siamo tuttavia a mio avviso in un’epoca di “transizione” ad altra, cui dovremo faticosamente riadattarci abbandonando vecchie convinzioni senza lasciarci trasportare in visioni avveniristiche, che nemmeno la fantascienza ha avuto il coraggio di predire con tanta improntitudine e “falsa coscienza”. Lancio un ultimo avvertimento: la storia di tutto il ‘900 è stata gravemente falsificata e distorta da politicanti e storici attivi soprattutto negli ultimi decenni e che si qualificano come “sinistra”. Le nostre popolazioni non sanno un bel nulla di ciò che è stato il nostro passato. Per “risaperlo” e valutarlo adeguatamente dobbiamo rovesciare il predominio di questi falsificatori, che stanno provocando una vera crisi di cultura, di tradizioni di cui non dobbiamo per nulla vergognarci; insomma ci stanno conducendo ad una crisi della nostra civiltà. Reagiamo.

tratto da facebook

 

 

 

 

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