ORA E SEMPRE, RESILIENZA_di Andrea Zhok

ORA E SEMPRE, RESILIENZA.
Insomma, per farla breve, stiamo approvando un piano che impegnerà la politica nazionale per i prossimi dieci anni almeno.
Nel piano, oltre ai fondi, ci sono le condizionalità, di cui alcune riecheggiano temi ben noti: riforma delle pensioni, ripianamento del debito, privatizzazioni.
Il “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” viene approvato senza alcun dibattito parlamentare degno di nota.
Di dibattito pubblico e democratico non parliamo proprio, che per la comicità ci sono spazi appositi.
In compenso a babbo morto nei prossimi mesi ce ne illustreranno i contenuti, con particolare riferimento ai nostri doveri.
Dopo tutto mica pretenderemo che sia senza contraccambi siffatta epocale munificenza? (750 miliardi per 450 milioni di cittadini, versus 1900 miliardi per 330 milioni di cittadini negli USA).
Quel che non possiamo non apprezzare è la sincerità del nome, dove campeggia il sostantivo che definisce la nuova epoca: RESILIENZA.
Non più la Resistenza, che è una tipica azione ostile e poco costruttiva, nutrita di linguaggio d’odio.
No, la nuova parola d’ordine è Resilienza, ovvero la capacità di un ente di subire traumi, urti, stress, torsioni e bastonature varie tornando monotonamente in piedi.
Praticamente un programma politico.
Vi passeremo sopra con qualche autoblindo, però poi voi non fate le vittime che non tira aria: rimettetevi in piedi, che a portare il basto ci servite pimpanti e collaborativi.

Transizione energetica o cinese?, di Samuel Furfari

Secondo la maggior parte dei politici e dei media europei, siamo in procinto di passare dal vecchio mondo dell’energia a quello della transizione energetica. Pensare che una politica così cruciale come la politica energetica possa essere riassunta nel semplicistico slogan “Salva il pianeta” mostra una mancanza di visione di come funzionerà il mondo. Sperare che l’emergenza climatica possa cambiare tutto velocemente è ingenuo, perché l’unità di tempo del sistema energetico è al massimo un decennio.

 

La transizione energetica politica chiamata anche decarbonizzazione è un pio desiderio che non si realizzerà per una serie di ragioni che vogliamo riassumere in questo forum. Questa affermazione sembrerà assurda in quanto va contro il pensiero dominante. Una piattaforma non può dimostrare, ma solo allertare. Il lettore può fare riferimento, se lo desidera, alle dimostrazioni che si trovano in una quindicina di libri e numerosi forum.

 

1. La domanda di energia può solo crescere

L’energia è la vita. Tutto – assolutamente tutto – che facciamo utilizza energia. Anche il nostro cibo è un consumo di energia di cui il nostro corpo ha bisogno per vivere. Abbiamo imparato in fisica che l’energia è lo stesso concetto del lavoro, cioè ciò che muove una forza (un peso). A meno che tu non muoia di fame, devi lavorare e quindi hai bisogno di energia. Col tempo l’energia veniva fornita dalla forza degli animali o dell’uomo. Per cucinare abbiamo utilizzato quella che oggi si chiama bioenergia, ovvero il legno. Grazie alla rivoluzione energetica, abbiamo completamente cambiato il mondo. Oggi alcuni che non hanno mai girato un pezzo di terra con una vanga sostengono un ritorno all ‘”energia muscolare”. È una loro scelta. È rispettabile, purché non lo impongano.

Si stima per il momento che ci siano 1,3 miliardi di persone nel mondo che non hanno accesso all’elettricità, di cui 290 milioni in India. Per cucinare, il 40% della popolazione mondiale dipende dalle energie rinnovabili: legno verde, carbone di legna o sterco essiccato. Brucia emettendo fumi tossici che provocano inquinamento atmosferico e morte prematura. C’è un urgente bisogno di elettrificare l’Africa come ho scritto in un libro nel 2019.

La loro ricerca della qualità della vita e la loro demografia galoppante inducono un aumento del consumo di energia. I leader di questi paesi – l’India in testa – lo sanno e hanno una sola preoccupazione: crescere e quindi consumare energia, l’energia poco costosa che noi stessi abbiamo utilizzato per garantire il nostro sviluppo: energie fossili e nucleari.

 

2. La questione energetica non è nata con la decarbonizzazione

La transizione energetica non è una nuova ricerca. La novità è chiamarla decarbonizzazione, ovvero abbandonare completamente i combustibili fossili. Dopo la seconda guerra mondiale, il periodo di crescita economica e sviluppo sociale ha permesso un cambiamento straordinario nella qualità della vita degli europei. Fu interrotta bruscamente dalla prima crisi petrolifera del 1973; il secondo nel 1979 ha avuto un impatto molto più forte. Per rispondere a una carenza geopolitica di petrolio, l’OCSE si è organizzata, in particolare creando l’Agenzia internazionale per l’energia e accumulando scorte di petrolio e prodotti petroliferi equivalenti a 90 giorni di consumo. All’epoca, abbiamo lanciato l’idea del risparmio energetico e delle “energie alternative” come venivano chiamate allora le energie rinnovabili. Non ha funzionato bene. Il vero cambiamento è stato l’arrivo del nucleare.

 

3. Energia nucleare, l’unica vera soluzione alla transizione energetica

Dopo l’avvio della CECA, i sei ministri degli esteri dei paesi fondatori si riunirono a Messina l’1 e il 2 giugno 1955 per decidere sul futuro della Comunità. Decidono di avviare la creazione del mercato comune e dell’Euratom, vale a dire la comunitarizzazione dell’elettricità nucleare civile. Hanno capito che il futuro di questa nuova comunità richiederà “energia abbondante ed economica”. I Sei stanno lanciando una transizione energetica che non è mai stata eguagliata. Vengono attuati piani ambiziosi e quando scoppia la crisi petrolifera, le centrali arrivano puntuali. Ciò ha consentito alla Francia di essere il leader europeo nell’energia nucleare.Jo Biden che segue Donald Trump ) si stanno dirigendo verso l’elettrificazione del prossimo futuro. Ma la Cina non fa affidamento esclusivamente sull’elettricità nucleare.

 

4. La Cina scommette sul petrolio

Nel 2020 Covid ha praticamente chiuso l’economia globale. Tuttavia, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia , il consumo di petrolio da 100 milioni di barili al giorno (Mb / g) nel 2019 a 91,0 Mb / g è diminuito solo del 10%. È già rimbalzato a 93,9 Mb / g nel primo trimestre del 2021 e si prevede che raggiungerà 99,2 Mb / g nel quarto trimestre del 2021. Perché? Perché l’olio non amato rimane inevitabile. I combustibili fossili sono percepiti in Francia e nell’UE più in generale come il passato, sia per le emissioni di CO 2 che generano, ma anche per la percezione indiscutibile che “non c’è più petrolio”.

Durante la crisi petrolifera appena citata, le riserve di petrolio si sono attestate a 90 miliardi di tonnellate (Gt) e avrebbero dovuto essere esaurite nel 2000; ora sono 244 Gt e dovrebbero essere esaurite in 55 anni. Le stesse ragioni che hanno determinato la crescita delle riserve sono ancora oggi presenti e ancor più affermate: nuove tecnologie e nuovi territori. Rimando il lettore ai miei numerosi scritti sull’argomento.

Inoltre, la Cina, che non si preoccupa della transizione energetica, è molto attiva nell’appropriarsi delle riserve di petrolio dove può. China National Offshore Oil Corporation (CNOOC) è il braccio del Partito Comunista Cinese responsabile della cooperazione con grandi compagnie internazionali e dell’acquisto di concessioni all’estero. Data la sua importanza strategica, nel dicembre 2020 l’amministrazione Trump ha aggiunto CNOOC alla lista nera delle “Compagnie militari cinesi comuniste”. Le sanzioni contro Cina e Iran stanno spingendo i due paesi a un accordo da 400 miliardi di dollari, afferma Forbes. L’Iran ha bisogno di vendere urgentemente petrolio per non soffocare, e la Cina ha bisogno di petrolio per la crescita economica per raggiungere l’obiettivo del Partito Comunista di essere la potenza leader del mondo entro il 2050.

Leggi anche: la  Cina di fronte al mondo anglosassone

5. La Cina fa affidamento sul gas naturale

Il petrolio è inevitabile, ma la sorpresa dell’energia è il gas naturale. Questa energia è molto poco inquinante, molto abbondante, disponibile, economica e polivalente. Nuovi paesi stanno diventando esportatori di gas naturale, competendo così con esportatori storici (Russia, Norvegia, Algeria, Qatar, Indonesia, ecc.). Gli Stati Uniti possono esportare gas di origine rocciosa (scisto) a prezzi così competitivi che stanno cercando di vietare la costruzione del gasdotto Nord Stream 2 tra Russia e Germania. L’Australia sta diventando un importante paese esportatore per il sud-est asiatico, con così tante riserve di gas disponibili. Anche il Mozambico, il secondo Paese più povero del mondo, si prepara ad esportare gas dal suo giacimento di Rovuma, in cui ha investito la CNPC di proprietà statale cinese. Più vicino a noi, ciò che sta accadendo nel Levante è un buon esempio dell’attuale rivoluzione nel gas naturale. Israele, che mancava di energia primaria, è già un esportatore di gas in Giordania e si prepara ad esportare molto di più. La Turchia di RT Erdoğan non vuole interessarsi alle sardine della ” parte appropriata di questo spazio marittimo .

Il gas naturale quando viene liquefatto (GNL) trasportato dal vettore GNL diventa un’energia che assomiglia al petrolio. Liberato dal vincolo del tubo che collega un produttore a un consumatore e viceversa, il GNL consente fluidità e dinamismo in un mercato del gas in crescita.

La Cina lo ha capito bene poiché ciascuna delle sue province marittime ha almeno un rigassificatore. Le sue 28 strutture gli forniscono energia e sicurezza competitiva poiché il paese può rifornirsi da molti paesi. Non è il caso del Turkmenistan ( quarta  riserva mondiale) che sperava di vendere grandi quantità di gas al vicino. Inoltre, il GNL arriva nell’est industriale mentre il turkmeno arriva nell’ovest, dove ci sono difficoltà con gli uiguri e dove l’industrializzazione è poco sviluppata e rimarrà senza dubbio tale per molto tempo a causa delle difficoltà con le popolazioni locali.

Si noti che la Russia ha compreso molto bene questo cambiamento di paradigma portato dal GNL. Dal 2017, il gas proveniente dalla penisola di Yamal, nella Siberia settentrionale, rifornisce i mercati asiatici, in particolare la Cina. Questo progetto da 27 miliardi di dollari è stato realizzato dalla società privata russa Novatek con Total Energy (che non può nemmeno realizzare progetti di esplorazione in Francia). Un progetto simile è in corso nella stessa area, questa volta con l’aggiunta di due società cinesi. Queste grandi manovre sul fronte del gas naturale indicano che questa energia verrà utilizzata almeno per tutto questo secolo. Il boom è ovunque da quando recentemente anche Birmania, Ghana e Senegal hanno acquisito terminali GNL. L’anno del Covid – il 2020 – ha visto il consumo di GNL aumentare dall’1 al 2%mentre il petrolio è sceso del 9% e il carbone del 4%. La Cina ha già piazzato le sue pedine del gas.

 

6. Il carbone cinese fa esplodere le emissioni di CO 2

Tra il 2018 e il 2019, la crescita delle emissioni cinesi di CO 2 ha rappresentato il 73% delle emissioni annuali totali della Francia. Il Partito Comunista ha annunciato la creazione di 250 GW di nuove centrali elettriche a carbone (l’UE ha un totale di 150 GW). Continueranno la loro crescita economica – e quindi energetica – perché non vogliono finire come l’URSS. Cioè, non si preoccupano delle emissioni di CO 2 . La loro diplomazia popolare è lì per ingannare gli ingenui che ancora credono che ridurremo le emissioni globali di CO mondiali.

Sono aumentati in tutto il mondo del 58% dall’adozione della convenzione delle Nazioni Unite sul clima nel 1992. Perché? Perché l’energia è vita e gli stati che danno la priorità al benessere delle loro popolazioni devono prima di tutto fornire ai loro cittadini energia abbondante e poco costosa. È un loro diritto. Questi stati non cambieranno di una virgola la loro strategia energetica basata sui combustibili fossili e sull’energia nucleare. Il tempo stringe per parlare dell’India, ma basti pensare che Cina e India consumano insieme quasi i due terzi del carbone mondiale per misurare quanto c’è tra le politiche europee e quindi francesi e quei paesi che stanno correndo avanti.

 

7. La nuova sicurezza dell’approvvigionamento energetico

Il Libro verde del  2000 “  Verso una strategia europea per la sicurezza dell’approvvigionamento energetico ” ha sollevato preoccupazioni circa la crescita della sua dipendenza energetica. 20 anni dopo, non è peggiorato grazie alla diminuzione dei consumi a seguito della ristrutturazione dei paesi ex socialisti, l’esternalizzazione dell’industria manifatturiera e delle grandi industrie come l’ alluminio , la diminuzione delle importazioni di carbone, il risparmio energetico e lo sviluppo dell’energia del legno, la principale energia rinnovabile (eolica e solare rappresentano solo il 2,5%energia primaria). E poi, soprattutto, i timori sollevati 20 anni fa sulla mancanza di riserve di petrolio e gas sono stati spazzati via dai fatti; tutte queste riserve sono abbondanti, varie e disponibili. Quindi sta andando tutto bene? No, è sorto un nuovo pericolo: l’ascesa al potere della Cina o per essere più precisi del Partito comunista cinese.

Sono ovunque, invadono tutte le sfere di energia del mondo. Il Washington Time stima che nell’autunno del 2020 Pechino abbia effettuato operazioni di investimento per quasi 17 miliardi di dollari nel settore energetico americano. La Cina, che è già azionista di minoranza della società Energie du Portugal (80% dell’elettricità del Portogallo), voleva monopolizzare tutte le azioni; Donald Trump si è opposto. Utili idioti nella lobby ambientalista che vogliono sviluppare veicoli elettrici e turbine eoliche non si rendono conto che dipenderanno dal Partito Comunista Cinese che controlla il mercato per i molti materiali necessari per produrre batterie e magneti per turbine eoliche, perché il mercato di cobalto è controllato dalla Cina. La Commissione Europea, che intende realizzare un “Airbus di batterie”, dovrebbe innanzitutto porsi la questione della disponibilità del litio. Tutti sanno anche che i pannelli solari provengono dalla Cina. È meno noto, ma la Cina sta investendo anche nelle centrali elettriche a carbone nei Balcani; questa elettricità “cinese” potrebbe arrivare nell’UE.

L’UE ha urgente bisogno di svegliarsi dal suo torpore verde. Il resto del mondo non crede alle energie rinnovabili moderne, perché costano molto , altrimenti non sarebbero state necessarie tre direttive europee – nel 2001, 2009 e 2018 – per obbligarne la produzione; inoltre, dall’obbligo del 2009, il prezzo dell’elettricità in Francia è aumentato del 54%. Inoltre, generano solo un quinto del tempo e possono quindi svilupparsi solo dove sono già presenti centrali termiche e nucleari.

Se l’UE vuole ancora contare un po’ nella marcia del mondo, dovrebbe abbandonare la sua politica di decarbonizzazione e la sua utopia dell’idrogeno e fare come gli altri paesi: usa energie abbondanti ed economiche e smetti di essere ossessionato dalla CO2 . L’UE pensa ingenuamente che il Partito comunista cinese lo seguirà, mentre alimentato da milioni di ingegneri prepara il dominio del mondo con l’energia. Non siamo più nel 1974, quando il colonnello Gheddafi stava cercando di allineare l’OCSE controllando il mercato del petrolio. Il pericolo oggi è la geopolitica dell’energia cinese.

https://www.revueconflits.com/transition-energetique-ou-chinoise-samuel-furfari/

Per tutti voi imprenditori: una voce per non sentirvi soli di Alessio Bini

Riceviamo e pubblichiamo_La Redazione

 

Per tutti voi imprenditori: una voce per non sentirvi soli

di Alessio Bini

Ci chiamano aziende zombie, oppure falliti.
Se invece qualcuno di noi è ancora aperto lo bollano come evasore, con mucchietti di soldi sotto al materasso. Come se poi fosse comodo dormire con mucchietti di carta che formano dei bozzi duri sotto al materasso.
In realtà, sappiamo che i nostri sonni sono turbati da altri problemi: come pagare le tasse, per esempio, che maturano nonostante i guadagni non ci siano. Oppure come pagare i dipendenti, che anche se hanno la Cassa Integrazione i pagamenti arrivano troppo tardi. O infine cosa raccontare questa volta al direttore di banca che ci chiede di versare giusto qualche centinaio di euro per rientrare sul conto…e i clienti continuano a non entrare a causa della pandemia e anche a causa della crisi che c’era anche prima del virus e che con cui abbiamo imparato a convivere dal 2008, ormai.

Se ti senti stanco di essere il punto di riferimento di tutti, quando punti di riferimento non ce ne sono più, puoi rivolgerti al nostro “Sportello per imprenditori”. Ti aiuteremo a trovare una strada, dandoti consigli utili “non convenzionali”, ma sempre nel rispetto della legge.
Noi vogliamo salvare gli imprenditori.
Lo Stato dice la massimo di voler salvare le imprese.

Per prenotarti, scrivi a segreteria@italiachelavora.org e se vuoi lascia il tuo numero di telefono. Verrà fissato un appuntamento per una call su WhatsApp.

Seguiranno altre iniziative importanti in favore delle imprese. Vsitate il nostro sito internet, per conoscerci: www.italiachelavora.org

Ecco il manifesto della nostra associazione Italia Che Lavora:

  1. Intendiamo dare voce, tutti insieme, a tutti i lavoratori autonomi e delle piccole imprese, nei confronti della politica e delle istituzioni pubbliche, per avere garantiti i nostri diritti.
    2. I lavoratori autonomi e delle piccole imprese sono cittadini e lavoratori come tutti gli altri. Hanno diritto di godere dei diritti garantiti dalla costituzione, in particolare:
    * Art. 1 – L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
    * Art. 4 – La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
    * Art. 35 – La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.
    * Art. 36 – Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunciarvi.
    * Art. 53 – Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.
  2. Intendiamo a garantire a tutti i lavoratori in partita IVA gli stessi diritti dei lavoratori dipendenti del settore privato e del settore pubblico: diritto alla salute, diritto ad avere tempo per i propri affetti, diritto ad un reddito che consenta di vivere.
  3. Intendiamo porre fine alla persecuzione fiscale dello Stato nei confronti delle partite IVA. Riduzione delle tasse: prima diamo da mangiare ai nostri figli, poi paghiamo le tasse su quello che resta. Una reale semplificazione fiscale: massimo una scadenza l’anno per gli autonomi e le piccole imprese. Spostare la tassazione dal lavoro ai grandi capitali ed alle multinazionali.
  4. Intendiamo ridurre la burocrazia: meno carta e più sostanza. Leggi semplici, chiare, scritte in modo comprensibile per tutti.
  5. Intendiamo difendere il piccolo commercio, che tiene vivi i nostri quartieri e i nostri paesi. Basta con la grande distribuzione. Basta con la concorrenza sleale delle multinazionali che non pagano le tasse.
  6. Intendiamo difendere le partite IVA dai soprusi delle banche. Salvaguardare la prima casa dalla possibilità di pignoramento.
  7. Intendiamo difendere le partite IVA dai soprusi delle grandi società fornitrici di servizi (energia, telefonia, autostrade, ecc.)
  8. Intendiamo offrire ai nostri iscritti consulenze di base e specialistiche su questioni fiscali, contenziosi con le banche, rapporti con le società erogatrici di servizi.

 

Stati Uniti, enigmi strategici_conversazione con Gianfranco Campa

Biden ha annunciato il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan dopo vent’anni di ostilità. Trump cacciato dalla porta, ma che entra dalla finestra. Per un fronte che dovrebbe chiudersi, se ne riaprono almeno due ancora più pericolosi. Intanto opzioni che durante la guerra fredda erano un tabù, strumenti di deterrenza con un semplice tweet appaiono ora fruibili con agghiacciante indifferenza. Ma negli States chi detiene il controllo delle leve?Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vg2nxl-stati-uniti-enigmi-strategici-conversazione-con-gianfranco-campa.html

SOVRASTRUTTURALISMO ENDEMICO, di Andrea Zhok

SOVRASTRUTTURALISMO ENDEMICO
Per 14 mesi ci hanno raccontato l’epopea di “Aperturisti” contro “Rigoristi”, come se fosse un grande dilemma morale.
Il grido di battaglia dei primi era l’invocazione dell’inviolabilità della Libertà. Quello dei secondi la sacertà di ogni singola Vita Umana.
Per 14 mesi abbiamo seguito quest’appassionante vicenda in uno snervante alternarsi di colpi di scena, con il succedersi, in una dialettica senza sintesi, di isterie di senso opposto.
C’era la settimana in cui la parola d’ordine sui giornali era “Il paese deve ripartire!”, e quella in cui era “Il contagio è fuori controllo!”
Il paese, inizialmente unito, saldo e disposto anche al sacrificio, è stato sbrindellato con la creazione di un’apparente opposizione di principio, su cui si sono infrante amicizie, disfatti progetti politici, e in cui si è pervenuti all’ennesima frammentazione in una guerra di tutti contro tutti: la situazione più facile da guidare docilmente in qualsivoglia direzione.
E pensare che ciò sia stato fatto avendo in mente una direzione, che si è stati strumentalizzati per uno scopo, sarebbe quasi consolante.
Invece qui l’unico fine è come al rodeo: stare in sella il più a lungo possibile, e tutto il resto è noia.
Ebbene, oggi, dopo 14 mesi di gloriose battaglie ideali, i malati di Covid continuano ad aspettare a casa test che arrivano con dieci giorni di ritardo, se arrivano, avendo come baluardo contro la malattia un po’ di tachipirina fai-da-te e, i più fortunati, il saturimetro comprato in farmacia, sperando nella buona sorte che non degeneri in polmonite interstiziale, perché da lì all’obitorio il passo può essere abbastanza lesto.
Per altre malattie, in ospedale è comunque meglio non andarci, se non sei moribondo, perché i contagi ospedalieri sono stati spettacolari e ripetuti (come lo erano già prima del Covid: nel 2019 si sono contati 49.000 morti per infezioni ospedaliere).
Quanto alla “battaglia del Covid”, con i relativi dati sulla mortalità italiana in rapporto al numero dei contagi, il quadro è eloquente.
Italia: 3.842.079 casi, 116.366 morti (mortalità 3%)
UK: 4.383.572 casi, 127.225 morti (mortalità 2,89%)
Germania: 3,116,950 casi, 80,387 morti (mortalità 2,5%)
Spagna: 3.407.283 casi, 76.981 morti (mortalità 2,26%)
Francia: 5.224.321 casi, 100.404 morti (mortalità 1,9%)
Svizzera: 632.399 casi, 10.503 morti (1,58%)
Insomma, persino il devastato sistema sanitario inglese, mai più rimessosi dopo la cura Thatcher, presenta dati migliori.
E gli stessi che hanno tagliato il sistema ospedaliero per anni ce li siamo trovati in televisione su ogni canale a spiegarci come non fosse affatto vero, che non c’erano stati tagli (semmai “razionalizzazioni”), e che comunque non era quello il problema. (O, in alternativa, che sì, forse un problemino c’era, ma che in fondo era colpa nostra, perché non volevamo usare il MES.)
Ecco, ora, il punto è semplice, ed è una costante in questo paese.
A noi piace tanto presentare i problemi come se fossero sempre grandi ed eroiche questioni morali, profonde visioni del mondo, incommensurabili e non negoziabili.
Su questi giochi di contrapposizione ci campa, è comprensibile, una fetta di professionisti dell’informazione, che amano la narrazione per grandi opposizioni in quando vivacizza la narrativa e nutre di polemiche i Talk Show, che sennò l’audience langue.
Ma soprattutto su questi giochi ci campa una classe politica che inscena grandi battaglie di principio, il cui solo scopo è conservarsi in sella cavalcandole, aizzando la plebe a “prendere posizione”.
Insomma soggetti la cui negoziabilità sul mercato politico è leggenda si fanno vessilliferi di battaglie ideali la cui sola funzione è essere stabilizzatori del potere (inclusa la propria fettina).
Di contro, in questo paese sembra che lo sguardo al funzionamento concreto, all’organizzazione materiale delle cose faccia schifo a tutti. Insomma è volgare prosa, mentre noi siamo nati poeti e moralisti della politica.
Questa disposizione onnicomprensiva la potremmo chiamare “sovrastrutturalismo”: dei processi reali nella società noi non ci occupiamo; non vogliamo che nessuno ci parli degli anelli intermedi, dell’olio negli ingranaggi, dell’organizzazione, delle soluzioni pragmatiche, delle specifiche di sistema, dei ‘decreti attuativi’, ecc.
E quando il teatro dei “grandi principi” inizia a stancare, quando qualcuno inizia a capire di essere preso per il naso da questo teatrino dei massimi sistemi senza costrutto, et voilà, ecco pronta la soluzione di riserva nella forma di un’ideologia supplementare, sotto mentite spoglie: l’Efficientismo (“Fare, fare, fare!”), con le correlate invocazioni ai Tecnici, la promozione trombona delle “Eccellenze”, ecc.
Dopo qualche mese o anno di questa ideologia di riserva, una volta che il gioco si scopre gradatamente, ecco che la giostra può proseguire come prima.
Ecco, in 14 mesi dall’inizio della pandemia si potevano fare mille interventi di dettaglio, a livello ospedaliero, di cure territoriali, di uniformazione di criteri e comunicazione a livello nazionale, di accesso a terapie disponibili (care, ma disponibili), e poi come organizzazione dei trasporti, come selezione accurata dei rischi settore per settore, ecc.
Invece no.
Abbiamo vissuto 14 mesi di tiramolla psicologico, con presunte alte motivazioni etiche sullo sfondo, ma senza cambiare niente nei funzionamenti del sistema. (E accetto scommesse che non è finita: l’annuncio della Grande Riapertura mentre navighiamo sui 400 morti al giorno e con terapie intensive ancora sopra il livello di guardia ci garantisce almeno un’altra ripartenza della giostra delle chiusure.)
Questo “sovrastrutturalismo” endemico è la somma tra un generale processo di dequalificazione dei ceti politici, che ha investito tutto l’Occidente, e alcune specifiche caratteristiche italiche, tra cui un certo amore per la teatralità e la passione agonistica, dove alla fine noi vogliamo sapere se vince il Papa o l’Imperatore, e che non ci si annoi con dettagli superflui.
Nessuno ne è esente, neppure i “Tecnici”. Cos’altro è, infatti, l’uscita di Draghi sul “dittatore Erdogan” se non l’improvvisata di qualcuno che vuole anche lui il suo quarto d’ora da “cavaliere dell’ideale”.
E poi, quando arriva il conto, che se ne occupi la servitù.
In questo quadro, discutere se il ministro Speranza deve o non deve andarsene è solo l’ennesima occasione per chiacchierarsi addosso a colpi di ‘simboli’ e fantasmi di ‘idee’, come se il problema fosse cambiare il nome del fantino senza accorgersi che chiunque vada in sella frusta da tempo un cavallo morto (sapendo di farlo).
Ecco, vorrei tanto chiudere con un brillante consiglio su come se ne esce, solo che non ne ho davvero idea.

Ciad: le chiavi per la comprensione passano attraverso il riconoscimento dei fondamenti dell’etno-clan, non attraverso incantesimi democratici_di Bernard Lugan

Nell’attuale incertezza, nonostante le voci, i giochi politici, le dichiarazioni di tutte le parti, le domande sul futuro del G5 Sahel, del gioco sempre più “chiaro” della Turchia, della Russia, della Cina e delle visite turistiche della Francia, l’importante è riconoscere che la questione del Ciad è prima di tutto etno-clanica.
Lo Zaghawa, il Toubou di Tibesti (il Teda), il Toubou di Ennedi-Oum Chalouba (il Daza-Gorane) e gli arabi di Ouadaï sono divisi in una moltitudine di sottogruppi. Tutti sommati, costituiscono meno di un quarto della popolazione del Ciad. Democraticamente, cioè parlando “occidentale”, non contano quindi poiché qualsiasi elezione “equa” li rimuoverebbe matematicamente dal potere. Tuttavia, costituiscono la frazione dominante di ciò che è diventato il Ciad. È intorno alle loro relazioni interne a lungo termine, alle loro alleanze, alle loro rotture e alle loro riconciliazioni più o meno effimere che la storia del paese è stata scritta dall’indipendenza. È intorno a loro che si sono combattute tutte le guerre in Ciad dal 1963. È dalle loro relazioni che dipende il futuro del paese, essendo la maggioranza della popolazione solo spettatrice-vittima dei loro crepacuori e delle loro ambizioni. Questo è difficile da capire per gli universalisti democratici nel mondo occidentale.
Per riassumere la domanda:
– Idriss Déby Itno era Zaghawa del clan Bideyat. Tuttavia, gli Zaghawa sono così divisi che, dal 2004, i fratelli Timan e Tom Erdibi, i suoi nipoti, sono in guerra con lui. Come si posizioneranno ora i vari clan Zaghawa nella lotta per il potere? Questa è la prima domanda.
– Il nuovo capo di stato, Mahamat Idriss Déby, uno dei figli di Idriss Déby Itno, è di madre Gorane. Gorane è il nome arabo del Toubou di Ennedi e Oum Chalouba la cui lingua è Daza. Lui stesso ha sposato un Gorane. Da qui la sfiducia di alcuni Zaghawa che ritengono che lui sia solo in parte loro. Anche se in passato più che strette alleanze hanno potuto associare regolarmente Zaghawa e alcuni clan Gorane, cosa faranno quelli dei Gorane che hanno seguito Idriss Déby? C’è una seconda grande domanda.
– Hinda, la moglie preferita di Idriss Déby Itno, è un’araba di Ouadaï. Favorita da Idriss Déby, il suo clan che faceva parte del primo circolo presidenziale è odiato sia dagli Zaghawa sia da quelli dei Gorane che hanno seguito il marito. Qual è dunque il futuro del circolo arabo Ouadaïan che ruota attorno a Hinda? Se ci fosse una rottura con lui, la tripla alleanza etno-clan formata da Idriss Déby si ridurrebbe quindi a due, ovvero una frazione Zaghawa e una frazione Gorane.
Un’altra grande domanda riguarda i ribelli che si dividono in tre principali movimenti militari. Due sono emanazioni di alcuni clan Toubou-Gorane che non hanno perdonato Idriss Déby per essersi ribellato contro Hissène Habré, lui stesso Gorane del clan Anakaza della regione di Oum Chalouba:
– Idriss Déby ha perso la vita combattendo contro il Fatto (Fronte per l’Alternanza e la Concordia in Ciad). Fondato nell’aprile 2016 da Mahamat Mahdi-Ali, il Fact originariamente riuniva Toubou che parlava Daza, quindi principalmente Toubou-Gorane di Ennedi. In Libia il Fatto ha combattuto con le milizie di Misurata contro le forze del maresciallo Haftar. Oggi è armato dalla Turchia che lo utilizza nella sua spinta verso la regione peri-Chadic, una rinascita contemporanea della grande politica ottomana di un tempo il cui obiettivo era il controllo dell’Africa centrale e delle sue risorse in avorio e schiavi.
– Nel giugno 2016, i Toubou del clan Kreda che sono anche parlanti di Daza hanno lasciato il Fatto per seguire Mahamat Hassane Boulmaye che ha fondato il Ccmsr (Consiglio del comando militare per la salvezza della Repubblica).
– L’Ufr (Unione delle forze di resistenza), fondata nel 2009, è composta essenzialmente da alcuni clan Zaghawa e Tama. Questo movimento ha anche combattuto contro le forze del generale Haftar in Libia. È lui che l’aviazione francese ha fermato la sua marcia su N’Djamena nel febbraio 2019. L’Ufr avrebbe fornito il suo sostegno al Fatto.
Destabilizzata dalla sua morte, l’alchimia etno-clan formata da Idriss Déby Itno è attualmente in subbuglio. Se, grazie alle sue rivalità interne e al regolamento di conti che incombono, i Toubou riscoprono la loro unità, come nel 1998 quando Youssouf Togoïmi fondò il Mdjt (Movimento per la democrazia e la giustizia in Ciad) per unire gli oppositori di Toubou a Idriss Déby, e se l’una o l’altra delle frazioni o sotto-frazioni della vecchia matrice etnico-clan formata intorno a Idriss Déby, si unisse ai ribelli, il regime di suo figlio sarebbe quindi estremamente indebolito.
Tutto il resto, a cominciare dagli infiniti riferimenti allo Stato di diritto, dal canto del “buon governo” e dagli artificiali incantesimi allo svolgimento delle elezioni, è purtroppo, e in realtà, solo chiacchiere europee.
Per tutto ciò che riguarda la storia delle complessità delle relazioni etniche ciadiane, si rimanda al mio libro: Le guerre del Sahel dalle origini ai giorni nostri . Nel numero di maggio di Afrique Réelle che gli abbonati riceveranno all’inizio del mese, un dossier sarà dedicato alla questione del Ciad.
Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan .

LA PARITÁ DELLE ARMI, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA PARITÁ DELLE ARMI

Comincia male l’annunciata riforma della giustizia tributaria. C’informa il comunicato congiunto dei Ministeri interessati che, in Cassazione “il contenzioso tributario rappresenta una delle componenti principali dell’arretrato accumulato (50.000 i ricorsi pendenti stimati a fine 2020, con una percentuale di riforma delle decisioni di appello del 45%)”, per concludere che la riforma della giustizia tributaria è “coerente con le indicazioni dell’Unione Europea”, la quale notoriamente non ha un’opinione lusinghiera della giustizia italiana in genere.

Ciò che preoccupa è che si sia iniziato col consueto richiamo alla pletora di ricorsi e all’arretrato, ossia guardando il problema non dall’angolo visuale dei contribuenti, ma da quello dell’amministrazione. Prendere le mosse dal quale, come scriveva Marx, è logico per una visuale burocratica, tendente naturalmente a confondere l’interesse dell’ufficio o dei burocrati allo stesso addetti con quello, generale, dello Stato. Il quale non è solo e tanto la deflazione del contenzioso, ma che il diritto sia applicato (con giustizia) e lo sia in tempi e modi appropriati.

Ancor più nel caso dell’Italia contemporanea dove la “deflazione” è stata (asseritamente) realizzata a dispetto dei diritti dei cittadini e dell’interesse generale, percorrendo le strade di espedienti rivolti a rendere più difficoltoso l’esercizio delle azioni giudiziarie e la realizzazione delle domande nei confronti delle P.P.A.A. (non solo di quella finanziaria): dall’aumento dei costi alla prescrizione di norme volte a rendere più complicato e defatigante l’esecuzione di sentenze e giudicati, a prassi finalizzate a scoraggiare il ricorso alla giustizia contro atti e comportamenti delle PP.A.A. (come l’uso della condanna alle spese dei cittadini come deterrente alla proposizione delle azioni giudiziarie).

Dato che ci si aspetta la ripetizione sui media mainstream delle usuali giustificazioni accompagnate dalle ovvie argomentazioni da causidico (del tipo se aumento i costi e ne riduco l’utilità le cause calano) e senza voler ripetere, a tale proposito, quanto scriveva Jhering in quel best-seller che fu “La lotta per il diritto”, è utile ricordare brevemente quel che è scritto nella Costituzione e, parimenti, ciò che pensava M. Hauriou.

Nella “costituzione più bella del mondo” è stata inserita (da decenni) una modifica implementativa dell’art. 111 della Costituzione (al fine, tra l’altro, anche di adeguarsi alla giurisprudenza europea). Attualmente il secondo comma dispone che “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. È tale condizione di parità, la quale per esserlo deve comprendere anche alcuni diritti sostanziali – e non solo processuali – ad essere, anche se non l’unica, quella più disattesa nella normativa (e nella prassi) vigente. Sia in maniera manifesta che indiretta e non apparente, ovvero con norme che di fatto si applicano quasi sempre solo alla parte privata e non a quella pubblica, come quelle che limitano i mezzi di prova. Altre prevedono esplicitamente un trattamento differente: ad esempio l’esecuzione esattoriale, onde l’esattore può pignorare i beni senza rivolgersi a un giudice (applicazione estensiva del principio dell’esecutività degli atti); il che oltre alla disparità di trattamento comporta la realizzazione immediata del credito, mentre, nel caso inverso la perdita di almeno uno-due anni. O quelle che escludono la possibilità di esecuzione avverso le PP.AA., o che la rendono assai difficile aggiungendovi oneri e obblighi del privato e prevedendo termini più lunghi, tutti inesistenti tra privati. E potremmo continuare per qualche pagina, solo a citare articoli e commi istituenti privilegi, deroghe, alterazioni delle parità, di converso sempre vigente tra parti private.

Ma qualcuno potrebbe obiettare che la parità tra poteri pubblici e diritti dei privati verso questi è impossibile. Ed ha pienamente ragione, Un grande giurista come Hauriou distingueva, già oltre un secolo fa, due diritti (e due giustizie correlative). Il primo, il diritto comune, conseguente alla sociabilité umana, generato al di fuori delle istituzioni, e che comunque comporta  una giustizia tra parti in condizioni di parità (Dike). L’altro, quello istituzionale, disciplinare, interno, caratterizzato dall’essere gerarchico e che di fronte ai Tribunali le parti non sono uguali l’una all’altra (Temi). E la cui sorgente (source) è l’organizzazione sociale. Senza questa disparità di trattamento, sostanziale e processuale, nessuna istituzione, soprattutto lo Stato, può stare in piedi, e ciò non è altro che un aspetto, il principale, della giudiziarizzazione del presupposto politico del comando-obbedienza. Ma di questo ho scritto già ed evito di ripetermi.

Quello che è sicuro è che negli ultimi decenni l’ambito di Temi è stato esteso a dismisura e applicato a materie non connotate da un interesse pubblico impellente e prevalente, ma semplicemente finalizzato a non pagare debiti, ad esigere crediti, di eliminare diritti d’ostacolo e semplificare, a loro scapito, la realizzazione di pretese infondate. Per cui la proposta più semplice per riformare la giustizia tributaria è quella di ridurre la disparità. Far crescere Dike e dimagrire Temi. Così se è impossibile far prevalere  sempre giudizi in condizione di parità, è auspicabile ridurne la disparità: parafrasando Orwell, se non sempre si può essere uguali, almeno si può essere meno disuguali.

Teodoro Klitsche de la Grange

SOVRANO E’ CHI DECIDE E DECIDE CHI HA IL POTERE DI DECIDERE, di Pierluigi Fagan

SOVRANO E’ CHI DECIDE E DECIDE CHI HA IL POTERE DI DECIDERE. Il 20 gennaio, Joe Biden prende ufficialmente possesso della Casa Bianca, sei giorni dopo cade il Governo Conte, tre settimane dopo, entra in carica il Governo Draghi. Tre settimane dopo si dimette da segretario PD Zingaretti e pochi giorni dopo torna dalla legione straniera francese lo sbiadito Letta. Molinari a nomina Exor quindi casa Agnelli, è già direttore di Repubblica da un anno. I primi di Aprile, il nuovo ed indaffarato Presidente del Consiglio italiano trova il tempo per far la sua prima visita estera in Libia dove si sta tentando una via di stabilizzazione ancora incerta basata su un governo di origine affaristico-tripolitana, ovvero la parte salvata dalla capitolazione contro le armate di Haftar (Egitto, Russia, Emirati Arabi, Francia), dalla Turchia. Ma qualche giorno dopo, il cauto e diplomatico Draghi dà del dittatore a Erdogan nel mentre il capo del governo libico e con lui mezzo governo si reca in Turchia a portare omaggi e prender ordini. Nel mentre, un ragazzo campano già quasi leader di un movimento politico dai contorni imprecisi, già Ministro degli Esteri di un governo che guardava con amicizia alla Russia e viepiù alla Cina, diventa il primo straniero ricevuto ufficialmente a Washington dal piccolo ma coriaceo Blinken. Il crash course atlantista di Di Maio è spettacolare: German Marshall Fund, Brooking Institute, Atlantic Council, tra quelli che si possono citare, ma -in questi casi- è norma vi siano anche incontri più riservati, brevi, chiari e precisi. NYT, infine, incorona pubblicamente Draghi come nuovo perno di una Europa rinascente ora che Merkel tramonta, la Germania diventerà oggetto di instabilità dilaniata da crisi di leadership, mentalità inadeguata ai tempi (sotto il profilo economico e monetario), capitolo Nord Stream, ambiguità filo-russe e filo-cinesi. Draghi serve anche a contenere, ma con persuasione, Macron e la strana coppia (che in verità non si ama affatto sul piano personale), oltreatlantico è già brandizzata “Dracon”. Macron viene per secondo come si vede, per esigenze di sonorità del neologismo forse, perché a sua volta indebolito dalla perdita dell’asse con Merkel e dalla prossima resa dei conti elettorali tra un anno verso la quale Le Pen sta assumendo un peso sempre più solido e potenzialmente convincente.
Se Mattarella è, per via di ordinamento giuridico, il perno condizionante ogni evoluzione di quadro politico italiano commissariato dagli Stati Uniti negli ultimi settanta a passa anni e se Draghi è il nuovo statista italiano quale l’Italia non ha più dai tempi del centro-sinistra (Andreotti, Moro, Craxi), ma con più prestigio internazionale non certo politico ma economico-bancario che conta anche di più, vorrei dire due cose su Letta, ma appena accennate.
Saprete che Letta dopo esser stato uno dei tanti vuoti a perdere delle eterne baruffe chiozzotte italiche in cui governi senza potere si alternano come in una eterna commedia dell’arte che l’Autore non sa più come terminare dilatando finti colpi di scena che ormai non hanno alcun senso, da decenni e decenni, deve aver ricevuto il saggio consiglio di andar a fare l’Erasmus della Grande Politica in Francia, diventando addirittura direttore della più prestigiosa scuola di affari politici internazionali Sciences-Po (1872). Sebbene, l’ultima versione ufficiale on line dei membri della Commissione Trilaterale, non lo riporti, fino ad un mese fa risultava attivo membro del think tank atlantista fondato nel 1973 da Rockefeller, Kissinger e Brzezinsky. Nel Comitato esecutivo, siedono Mario Monti e Paolo Magri dell’ISPI. Altri italiani sono: Dassù (vice-Ministro affari esteri governi Monti e Letta, Aspenia, Aspen Institute, Fondazione Italia USA, LUISS), Vittorio Grilli ora JP Morgan ma ai tempi di Ciampi braccio operativo di Draghi al Tesoro, l’ex ignota giornalista RAI Monica Maggioni che dopo una lunga visita negli Stati Uniti divenne uno dei pochi giornalisti autorizzati a seguire dal di dentro (embedded) l’invasione Bush dell’Iraq fino a diventare magicamente presidente della RAI sotto il governo Renzi. Abbiamo poi manager, banchieri e Tronchetti Provera e fino a poco tempo fa c’era anche Maurizio Molinari.
A due anni dalla fondazione, nel pieno della crisi degli anni ’70, la Trilateral che do per nota ai lettori nella sua essenza, ispirazione e ruolo, dà mandato a tre studiosi di fare una analisi strategica sul momento occidentale. Ne esce il famoso rapporto “La crisi della democrazia” di Cozier, Watanuki e l’ineffabile Huntington (quello dello “Scontro delle Civiltà” Garzanti, 1996), edito in Italia con prefazione di Gianni Agnelli. In sostanza, il rapporto avvertiva i committenti che per il sistema occidentale le cose andavano a mettersi in sempre più complicata prospettiva e se non si poneva rimedio alle vampate democratiche generate dai processi politici degli anni ’60 e ’70 ritenuti eccessivamente politicizzati, cioè “democratici”, gli ordini di sistema sarebbero inevitabilmente collassati. Tradotto, non era la democrazia ed esser in crisi era la crisi ad esser generata dalla democrazia o meglio se non generata, peggiorata sino alle più estreme conseguenze. Inizia così un movimento di pensiero poco noto agli studiosi che si sveglieranno solo ad anni Novanta inoltrati quando si cominciò a parlare di “post-democrazia”. Per via delle magiche sincronie tra immagini di mondo – think tank – mondo dei saperi e delle conoscenze ufficiali, l’anno dopo il rapporto Trilateral, a Stoccolma riscoprono un dimenticato economista austriaco tale Friedrich von Hayek e gli danno addirittura un Nobel (1974). Ma per esser più chiari, due anni dopo lo danno anche a Milton Friedman. Così inizia la temperie neoliberista, da analisi, strategie, narrazioni, simboli, che fertilizzano menti e consessi da cui nascono processi poi concretizzati da Thatcher prima e Reagan poi, fino al Washington Consensus (1989) e poi al WTO (1994). Analizzati dagli economisti, questi quadri teorici sono in realtà di natura politica e geopolitica.
Sul piano della teoria, possiamo farla semplice: da metà anni ’70 inizia un teorizzato processo di costante diminuzione della democrazia occidentale poiché la società politica va in conflitto con la società di mercato e la società di mercato è l’ordinatore degli Stati Uniti d’America che è l’ordinante del sistema occidentale. In Italia c’è un partito che si chiama Partito Democratico che ha oggi un segretario che va in giro a parlare di giovani, donne, diritti umani, erasmi e nuovi mondi sostenibili, il quale è membro storico di un think tank che da decenni pilota la de-democratizzazione occidentale.
Ma chi se ne frega. Tutti presi dalla critica neoliberale, anticapitalista, dai sovranismi, dai populismi, dalla critica culturale del politicamente corretto, dalla settimana di “poltrone e sofà” o da quella omofoba, dalla moneta sovrana o come fosse Antani con la scappellamento a destra (lo scappellamento è sempre “a destra”), dai palpitamenti per Putin con brividini euro-asiatici, o il fiero Johnson o il divino Trump, a nessuno viene in mente di fare una serie riflessione politica sulla democrazia. A volte si avverte un vasto a diffuso disagio sul termine, parlo di gente normale, tra noi stessi.
La democrazia è una entità concettuale sconosciuta in teoria politica. Non c’è nel pensiero liberale se non come democrazia delle élite così come nacque più di tre secoli fa in Inghilterra, non c’è nella teoria marxista (neo-post, cinquanta sfumature di Marx), è appena trainata in secondo piano da quella socialista, è aborrita da tutti gli elitisti, odiata dai conservatori, dai fascisti, dai nazionalisti, dai vari mélange di rossobrunisti, financo dai progressisti, dai né di destra-né di sinistra, seppellita dalle ambigue nebbiosità mentali dei post moderni e dei biopolitici fino ai chierici dei tre monoteismi ed i sacerdoti scientisti e gli intelligenti artificiali. Se ne occupano attivamente solo gli americani ed il loro giro largo di affiliati e se ne occupano per svuotarla sistematicamente di senso reale per usarne il brillante simulacro che è un “sotto il vestito niente”, un caso paradigmatico di conflitto schizoide tra parola e cosa.
Sovrano è chi decide in auto-nomia, cioè di chi è in grado di darsi la legge (nomos) da sé (auto) altro che Schmitt. E se ne non sei in grado, arruolati in una delle tante offerte di vociante servitù volontaria, anche quella critica, l’importante è parlar d’altro, lascia fare, lascia passare, lascia pensare, non ti preoccupare, puoi anche lamentarti tanto se non hai una teoria forte a riguardo, non capirai neanche di cosa si sta parlando.

Il Maghreb e le sue sfide per l’Europa, di Antonia Colibasanu

Proseguiamo con l’analisi dell’area mediterranea che ha per perno principale gli interventi di Antonio de Martini, ma che si avvale del contributo di altri analisti. E’ un’area cruciale per l’Italia anche se la sua classe dirigente, negli ultimi due decenni, non riesce che andare a rimorchio spesso e volentieri di uno o l’altro degli attori più intraprendenti protagonisti in quella zona_Giuseppe Germinario

Il Maghreb e le sue sfide per l’Europa

I paesi della regione hanno un passato complicato con le potenze europee e tra di loro.

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È in corso una battaglia per l’influenza sul Mediterraneo. Il suo fronte più contestato è a est, dove i progetti turchi sui giacimenti petroliferi hanno messo Ankara direttamente contro Grecia e Cipro e indirettamente contro il loro benefattore, la Francia. A volare sotto l’orizzonte dei radar, tuttavia, è un’altra gara tra Turchia e Francia sul confine più meridionale del Mediterraneo: il Maghreb.

La Francia è la principale potenza europea nella regione. Per i paesi del Maghreb, i rapporti con Parigi erano una necessità politica ed economica; il commercio, gli investimenti e l’influenza francesi, alcuni dei quali residui del colonialismo, erano troppo importanti da rinunciarvi. Ma da allora le cose sono leggermente cambiate. La Francia non dispone più del potere di una volta e lo sconvolgimento politico provocato dalle rivolte della Primavera araba ha inaugurato diversi nuovi governi. La Francia considera la regione importante per la sua sicurezza, ma ha bisogno di riequilibrare la sua posizione alla luce di queste nuove sfide.

Questo spiega in parte perché il primo ministro francese ha annullato il suo viaggio in Algeria il 9 aprile. Ha detto che la cancellazione era dovuta alle preoccupazioni per la pandemia, ma è difficile ignorare quanto si siano deteriorate le relazioni tra i due paesi. Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da tensioni diplomatiche. A gennaio, ad esempio, il presidente francese Emmanuel Macron si è rifiutato di scusarsi ufficialmente per l’occupazione francese dell’Algeria. Ad aprile, il capo dell’esercito algerino ha invitato pubblicamente la sua controparte francese, che pensava di essere venuta per discutere di cooperazione militare, a consegnare le mappe dei siti di test nucleari abbandonati.

Ma le questioni franco-algerine non sono solo questioni franco-algerine. Svolgono un ruolo negli affari di quasi tutte le aree del Maghreb – in particolare il Sahara occidentale , il territorio conteso nel vicino Marocco – che confliggono con le ambizioni turche in Nord Africa.

Una questione divisiva

L’8 aprile, il partito di Macron ha annunciato che avrebbe aperto un ufficio nella città marocchina meridionale di Dakhla, situata nel Sahara occidentale. La dichiarazione è arrivata pochi giorni dopo che CMA CGM, la principale società di trasporti e logistica francese, ha aperto una filiale in tutti i porti marocchini, compreso Dakhla. Gli sforzi di Parigi per rafforzare l’influenza nel Sahara occidentale hanno portato molti a sospettare che il governo si stia preparando a riconoscere la sovranità del Marocco sul territorio.

La regione è una questione divisiva all’interno della politica marocchina. Il Sahara occidentale è stato sotto il controllo spagnolo fino al 1974 ed è stato annesso dal Marocco nel 1975. Ciò ha portato a un conflitto armato di 16 anni tra il governo marocchino e il Polisario, un gruppo politico composto dal popolo saharawi della regione e sostenuto dal rivale regionale, l’Algeria. Nel 1991 è stato raggiunto un cessate il fuoco mediato dalle Nazioni Unite e il Marocco si è impegnato a indire un referendum sull’indipendenza. Il referendum non è mai avvenuto e il Polisario prosegue la sua battaglia.

L’etnia saharawi considera come propria patria il territorio occupato del Sahara occidentale. I nordici credono che sia semplicemente un’altra parte del regno marocchino.

La regione rimane sotto il controllo del Marocco. L’ONU la considera un’area di conflitto, mentre l’Algeria sostiene la sua indipendenza. Da quando il Marocco e l’Algeria hanno ottenuto l’indipendenza, sono stati in conflitto al loro confine, che rimane chiuso e contestato anche oggi.

Per l’Algeria, la priorità strategica fondamentale è il controllo dei territori meridionali che ne minacciano la sicurezza. L’economia algerina dipende dalla produzione di energia e la maggior parte delle sue riserve e dei suoi impianti di produzione si trovano nel sud. Le porose frontiere del deserto e l’attività militante hanno costretto l’Algeria a stabilire un sistema di forte sicurezza su due fronti separati: il Mali a sud-ovest e la Tunisia e la Libia a est. Per proteggere il sud-ovest, l’Algeria ha stabilito una partnership strategica con la Mauritania, che confina con la maggior parte del Sahara occidentale, rendendo il Marocco l’unico vicino sfidante per l’Algeria nel Maghreb.


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Il Marocco, d’altra parte, non ha le risorse di idrocarburi dei suoi vicini per sostenere le spese per la difesa. Ha invece investito nelle sue relazioni con gli Stati Uniti e i regni arabi del Golfo e con la Francia.

L’immagine più ampia

Il Marocco e l’Algeria sono i paesi più sviluppati della regione del Maghreb. L’area è unita dalle montagne dell’Atlante e dalla sua storia condivisa di dominazione ottomana ed europea. L’Algeria era una colonia francese mentre il Marocco era un protettorato spagnolo e francese e la Tunisia un protettorato francese. Gli ottomani cercarono di raggiungere Gibilterra, ma nessuna delle province del Maghreb era sotto il loro stretto controllo. Tutto questo può essere spiegato dalla geografia: mentre il Marocco si affaccia sull’Oceano Atlantico, che lo rende più difficile da dominare, gli altri due sono stati del Mediterraneo. Strategicamente, però, sia la Francia che gli ottomani volevano raggiungere Gibilterra, quindi dovevano mantenere un attento rapporto con il Marocco.

Laddove le relazioni franco-marocchine sono sempre state relativamente buone, Parigi ha lentamente perso terreno in Algeria e Tunisia dal 2011. La crisi economica europea ha indebolito l’economia francese, quindi le ex colonie hanno iniziato a vedere meno commercio e investimenti francesi in arrivo. Entrambi sono diventati sempre più instabili, ma l’Algeria è stata duramente colpita a partire dalla metà del 2014, quando i prezzi del petrolio hanno iniziato a diminuire. Senza riforme economiche in atto e senza investimenti e aiuti francesi, entrambi i paesi hanno assistito a un aumento delle proteste che hanno innescato un cambiamento politico. Naturalmente è cresciuto anche il sentimento antifrancese.


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Molti nel Maghreb hanno dovuto cercare un sostituto della Francia. Si inserisce la Turchia che vuole rivendicare l’influenza persa dalla caduta dell’Impero Ottomano. Dal 2011, la Turchia ha sostenuto le rivolte popolari che hanno rovesciato gli autocrati della regione, ha sostenuto i movimenti islamici e ha promosso l’immagine della Turchia come difensore del mondo musulmano.

In termini pratici, la Turchia ha concentrato la sua strategia sul commercio e sugli investimenti. L’approccio ha funzionato meglio in Algeria, dove più di 1.200 aziende turche hanno aperto un’attività. Mentre l’Algeria è diventata il quarto fornitore di gas della Turchia negli ultimi dieci anni, la Turchia è diventata il terzo importatore di prodotti algerini. La Turchia ottiene una fonte affidabile di energia a basso costo e l’Algeria ottiene un successo economico nel contenzioso.


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Per la Tunisia, le aperture turche sono state una fonte sia di progresso che di attrito. Gli sforzi di Ankara per far rivivere i siti e le comunità musulmane non si sono tradotti in gran parte in una partnership commerciale e di investimento. Il commercio è cresciuto notevolmente dopo il 2011, soprattutto a vantaggio della Turchia, poiché le imprese tunisine locali, in particolare quelle che lavorano nel settore tessile, sono state colpite dai prodotti turchi a basso costo. Ciò ha costretto il governo di Tunisi a reimporre alcuni dazi all’importazione nel 2018.

Da allora Tunisi si è rivolta a Parigi per chiedere aiuto. Nel 2020, i due hanno firmato un accordo quadro triennale del valore di 350 milioni di euro (420 milioni di dollari) per “sostenere le politiche pubbliche tunisine in vari campi” e Parigi ha anche inviato supporto medico nella lotta contro il COVID-19. In cambio, Parigi preme sull’attuale leadership tunisina per organizzare il 50 ° anniversario dell’Organizzazione Internazionale della Francofonia, una mossa simbolica per una società che rimane divisa. Tuttavia, il sostegno locale al modello culturale turco sfida il governo a estendere i legami con la Francia.

Il Marocco è stato il paese più difficile da corteggiare per la Turchia. L’accordo di libero scambio che hanno firmato nel 2004 è stato rivisto nell’ottobre 2020, aumentando le tasse sui beni turchi importati fino al 90%. Per il Marocco, la motivazione alla base era tanto politica quanto economica. Non solo le merci turche a buon mercato stavano invadendo il suo mercato, ma i funzionari volevano placare altri alleati come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, che sono concorrenti naturali della Turchia. La mossa è giustamente vista come supporto per il boicottaggio informale dei prodotti turchi guidato dai sauditi.

Implicazioni

Il conflitto diplomatico tra Francia e Turchia non è nuovo. Tuttavia, la crescente guerra di parole tra i presidenti turco e francese sta acuendo le tensioni tra la Turchia e i suoi alleati del Golfo come il Qatar da una parte, e tra la Francia e gli alleati del Golfo come gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita dall’altra. Potrebbe avere lo stesso effetto nel Maghreb, dove gli schieramenti stanno diventando sempre più chiari. Le cose saranno probabilmente più complicate per la Tunisia, dove Francia e Turchia stanno spingendo per ottenere maggiore influenza.

La religione, in particolare l’Islam, è diventata sempre più una questione controversa in Francia. Quasi il 10 per cento della popolazione francese si identifica come musulmana e, secondo quanto riportato dai media, la maggior parte dei quartieri più poveri conosciuti come “banlieues” sono abitati da immigrati ritenuti appartenenti, nella loro maggioranza, alla fede islamica. Molti immigrati in Francia provengono dal Maghreb: un terzo del totale e circa 100.000 in più di quanto ha ricevuto da altri paesi dell’Unione europea. Nel 2019, la comunità di immigrati algerini in Francia era di circa 850.000 unità. Circa 300.000 della popolazione francese sono tunisini. Poiché la Turchia sta influenzando la politica di entrambe le ex colonie francesi, è probabile che le loro popolazioni, comprese quelle che entrano in Francia da questi paesi in cerca di opportunità economiche, siano ugualmente influenzate dalla diplomazia culturale turca.


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Nel Maghreb, più paesi riconoscono la regione del Sahara occidentale come parte del Marocco (anche in modo non ufficiale), più tutto ciò potrebbe alimentare le tensioni con l’Algeria. Considerando l’attuale contesto economico, né il Marocco né l’Algeria vogliono un conflitto in piena regola. Tuttavia, la storia mostra che i paesi non possono sempre controllare l’entità delle tensioni, in particolare nelle aree montuose e desertiche dove le escalation apparentemente minori possono intensificarsi rapidamente. La situazione non è agevolata dal fatto che Algeri e Rabat hanno intrapreso una corsa agli armamenti circa 15 anni fa, con entrambi i paesi che accumulavano le loro scorte per un potenziale conflitto. Il confine – e il Maghreb in generale – necessita di una sorveglianza ravvicinata poiché qualsiasi conflitto tra i due paesi coinvolgerebbe la Turchia e la Francia, con ripercussioni sulla sicurezza e stabilità dell’Europa nel suo insieme.

https://geopoliticalfutures.com/the-maghreb-and-its-challenges-for-europe/

Il punto di svolta, di Carlo Lancellotti

Negli ultimi anni, numerosi libri si sono cimentati con la percezione che stiamo vivendo un periodo di declino sociale e culturale. Possiamo annoverare in questa categoria The Benedict Option di Rod Dreher , Why Liberalism Failed di Patrick Deneen e The Decadent Society di Ross Douthat . Una nuova aggiunta a questo genere, che tuttavia riguarda anche l ‘”ascesa” che ha preceduto il “declino” e le lezioni che possiamo trarne per andare avanti, è The Upswingdi Robert D. Putnam e Shaylyn Romney Garrett. In un impressionante tour de force della ricerca sociologica, gli autori analizzano una vasta gamma di dati statistici riguardanti quattro aree della vita americana tra il 1895 e il 2020 (economia, politica, società e cultura) e rilevano un modello “macro-storico” comune . In tutte e quattro le aree, durante la prima metà del periodo la società americana è passata da “I” (che è usato come abbreviazione per disuguaglianza economica, polarizzazione politica, isolamento sociale e individualismo culturale) a “Noi” (che significa un sistema, un grado significativo di cortesia politica, più solidarietà sociale e una cultura più comunitaria). Ma poi, intorno al 1960 “accadde qualcosa” e il pendolo iniziò a oscillare nella direzione opposta. Organizzando adeguatamente i dati,Putnam e Romney Garret sono in grado di tracciare un grafico generale (a forma di U capovolta) che riassume questa traiettoria “I-We-I”. La parte ascendente del grafico parte dall’età dell’oro, attraversa l’era progressista e il New Deal e culmina nel consenso culturale e politico degli anni ’50. Profondamente imperfetto, che rimpiazzava i neri americani e le donne, questo accordo era ancora uno di più ampia solidarietà sociale e minore disuguaglianza di quanto non fosse stato nell’Età dell’Oro. La tappa discendente comprende i turbolenti anni ’60 e ’70, la rivoluzione Reagan e gli ultimi decenni, portando all’attuale situazione di minore solidarietà e cortesia, e aumento dell’isolamento e della disuguaglianza superando l’era progressista e il New Deal culminata nel consenso culturale e politico degli anni ’50. 

Oltre ad essere un libro interessante a sé stante, The Upswing ha attirato la mia attenzione nella mia qualità di traduttore inglese delle opere del filosofo politico italiano Augusto Del Noce (1910–1989). Del Noce era un perspicace critico sociale e storico della cultura, il quale già negli anni Sessanta sosteneva che gli anni immediatamente prima e dopo il 1960 avevano segnato un grande cambiamento epocale, quello che Putnam e Romney Garret chiamano appropriatamente un “punto di svolta”. La prospettiva di Del Noce era strettamente filosofica e culturale, ma penso che integri l’analisi di The Upswing sotto due aspetti.

In primo luogo, Del Noce scrive da una prospettiva europea e guarda all’evoluzione della cultura occidentale nel suo insieme, mentre Putnam e Romney Garret si concentrano strettamente sugli Stati Uniti. Mentre questo è abbastanza giustificato per quanto riguarda l’economia e la politica, lo è meno quando dobbiamo cercare di comprendere la cultura e la società; molte delle trasformazioni culturali e sociali che descrivono (ad esempio, la rivoluzione sessuale, il consumismo, l’espansione di istruzione) si sono svolte quasi contemporaneamente in molti paesi diversi e probabilmente sono meglio comprese da un punto di vista più internazionale.

In secondo luogo Del Noce, come filosofo, può concentrarsi sulla logica interna della vita culturale e intellettuale in una misura che non è possibile in uno studio sociologico. Una delle scoperte più interessanti di Putnam e Romney Garret è che nel dopoguerra i cambiamenti economici e sociali sembrano essere leggermente ritardati rispetto ai cambiamenti culturali. La cultura è cambiata prima; seguirono cambiamenti economici e sociali più ampi. Come spiegano, questo non ci consente di concludere che le dinamiche culturali da sole abbiano guidato il “punto di svolta”, perché gli interessi materiali e politici hanno certamente esercitato anche la causalità in una complessa rete di circuiti di feedback. Tuttavia, le idee hanno sicuramente giocato un ruolo significativo. Putnam e Romney Garret illustrano questa interconnessione di causalità citando un passaggio sorprendente di Max Weber: “Non le idee, ma gli interessi materiali e ideali governano direttamente la condotta degli uomini. Eppure, molto spesso le “immagini del mondo” [ Weltanschauungen , visioni del mondo] che sono state create dalle “idee” hanno, come i commutatori, determinato i binari lungo i quali l’azione è stata spinta dalla dinamica di interesse “.

Weber qui fa la distinzione tra “idee” e “interessi ideali”. Ciò che intende è che gruppi di persone possono avere un interesse a preservare un insieme di idee, o promuoverne uno nuovo, tale da andare ben oltre il fatto che quelle idee siano o meno vere. Ad esempio, i sociologi accademici hanno interesse a preservare l’idea che la sociologia accademica è un campo coerente ma difficile da capire, degna di un’impresa di alto livello con una grande sicurezza del lavoro. Gli inserzionisti hanno un interesse ideale nel promuovere il concetto che le decisioni di acquisto possono essere modellate dalla pubblicità. Le attiviste femministe hanno un interesse ideale nel promuovere il concetto che il patriarcato è potente e sinistro e che le attiviste femministe hanno molto lavoro importante da fare. Coloro che vogliono fare molto sesso senza impegno hanno un interesse ideale nel promuovere il postulato che la monogamia e il matrimonio sono istituzioni oppressive e che, per estensione, agire sul desiderio sessuale è una sorta di sana espressione di sé. Sono idee come queste che vengono costruite in “visioni del mondo”. Ci si può trovare con una visione del mondo notevolmente coerente con il proprio interesse personale.

Gruppi di persone possono avere interesse a preservare una serie di idee, o promuoverne una nuova, che va ben oltre il fatto che quelle idee siano vere o meno…. Ci si può trovare con una visione del mondo notevolmente coerente con il proprio interesse personale.

Del Noce era uno specialista nello studio di tali “visioni del mondo” come si trovano nelle opere di filosofi, artisti e intellettuali, ma anche nei media e nella cultura popolare, e delle loro logiche interconnessioni e sviluppi. In particolare, era convinto che la storia del Novecento fosse in misura insolita “storia filosofica” per quanto influenzata da idee e ideologie ereditate dal secolo precedente. Quindi, penso che le sue intuizioni contribuiscano alla discussione sulla “cultura” nel capitolo 5 di The Upswing .

In termini molto generali, Del Noce ha osservato che la cultura occidentale della metà del secolo ha risposto alle tragedie dei decenni precedenti (due guerre mondiali, il totalitarismo sovietico e nazista, l’Olocausto, la bomba atomica) riscoprendo la mentalità dell’Illuminismo .Questa mentalità era emersa per la prima volta nel diciottesimo secolo, ma poi era stata contrastata e parzialmente neutralizzata dalla cosiddetta reazione romantica, che caratterizzò il diciannovesimo secolo e la prima parte del ventesimo. Mentre il romanticismo enfatizzava un senso di continuità storica, persino un amore per il passato, l’atteggiamento dell’Illuminismo fu segnato dalla decisione di rompere con il passato e “ricominciare da capo”. E infatti dopo il 1945 studiosi, giornalisti e artisti riscoprirono gradualmente l’Illuminismo “come disposizione a dichiarare una rottura con le strutture tradizionali e criticarle inesorabilmente da un punto di vista etico, politico e sociale”. Mentre ai tempi di Voltaire il passato era il “periodo oscuro” della superstizione religiosa, negli anni Cinquanta era “fascismo”.”Ma il” fascismo “immaginato dagli uomini e dalle donne degli anni ’50 era visto, per la maggior parte, non come un fenomeno politico contingente (e moderno!), ma come l’espressione della” vecchia Europa “; una cultura immaginata essere indelebilmente oscura come Voltaire aveva immaginato la Chiesa cattolica, segnata dal nazionalismo, dall’irrazionalismo, dal tribalismo, dal razzismo, dal sessismo e così via. La percezione era che il fascismo avesse segnato il fallimento della tradizione europea; in un certo senso ne fosse il suo vero volto. Ecco perché, secondo Del Noce, i pensatori e gli scrittori degli anni Cinquanta hanno riscoperto l’Illuminismo nella sua versione più antitradizionale, perché il loro recupero ha assunto un sapore decisamente anti-autoritario (“antifascista”). Questo antiautoritarismo si è espresso come un’enfasi sull’autonomia personale e l’indipendenza dalle restrizioni sociali e nel linguaggio dell ‘”autorealizzazione” che divenne onnipresente nella cultura popolare. Opporsi a ciò era per necessità, pensavano, essere a favore della vecchia Europa che, secondo loro, ci aveva regalato l’Olocausto.

La cultura occidentale della metà del secolo ha risposto alle tragedie dei decenni precedenti riscoprendo la mentalità dell’Illuminismo…. L’atteggiamento dell’Illuminismo è stato segnato dalla decisione di rompere con il passato e di “ricominciare da capo”.

Questa disposizione neo-illuminista si manifestava anche in una chiave diversa, in tensione con la prima: un impegno per il bene dell’autoespressione dell’individuo unico andava di pari passo con un’enfasi sui valori umani universali rispetto ai valori nazionali o locali. Questi valori, tuttavia, non erano particolarmente le verità etiche universali rivendicate, ad esempio, dal cristianesimo. Il principale tra i valori universali a cui guardava il bien-pensant degli anni ’50 era quello della razionalità scientifica, che presumibilmente fornisce l’unica via possibile per allontanarsi dagli orrori del passato e consente all’umanità di entrare nell’età adulta. Di conseguenza, un atteggiamento divenuto comune negli anni precedenti al 1960 era lo scientismo, con cui Del Noce non intende la scienza in sé, ma piuttosto la visione filosofica secondo cui la scienza è l’unica vera razionalità e l’unico sano principio organizzativo della società. La controparte politica dello scientismo è la tecnocrazia, l’idea che la società debba essere diretta da “esperti”: scienziati, tecnici, manager, uomini d’affari. Questa idea era stata notoriamente avanzata alla fine del “vecchio” Illuminismo dal conte di Saint-Simon e puntualmente riemerse negli anni ’50, l’era della “rivoluzione manageriale”. Non a caso, questa fu anche l’età d’oro delle scienze sociali – sociologia, antropologia, psicologia, sessuologia, pedagogia – che raggiunsero una grande importanza non solo nel mondo accademico ma anche nella politica pubblica e persino nella cultura popolare. Allo stesso tempo la filosofia perse gran parte del suo precedente prestigio culturale, poiché molti professionisti si allontanarono dai suoi tradizionali campi di indagine (metafisica, filosofia morale) a favore di campi che ne facevano una sorta di ancilla scientiae.(filosofia analitica, filosofia della scienza). La scienza naturale, dopotutto, era la vera fonte di conoscenza. Tutto il resto era speculazione.

Un impegno per il bene dell’autoespressione dell’individuo unico è andato di pari passo con un’enfasi sui valori umani universali rispetto ai valori nazionali o locali. Questi valori, tuttavia, non erano particolarmente le verità etiche universali rivendicate, ad esempio, dal cristianesimo.

Per alcune interessanti illustrazioni americane di ciò che descrive Del Noce, rimando il lettore ai capitoli 3 e 4 di The Twilight of the American Enlightenmentda George Marsden, l’illustre storico evangelico. Quello che Marsden chiama l’Illuminismo “americano” è in realtà il difficile “matrimonio” che aveva segnato così tanto della storia degli Stati Uniti: il matrimonio tra l’Illuminismo e il protestantesimo. Quindi l’affermazione di Del Noce deve essere adattata al contesto americano dicendo che mentre in Europa la mentalità dell’Illuminismo è stata riscoperta, negli Stati Uniti (dove era già forte) si sentiva abbastanza forte da allontanarsi dalla sua difficile alleanza con il cristianesimo protestante. Con questa qualifica, Marsden concorda con Del Noce sul punto essenziale: “A tutti questi livelli della vita americana tradizionale, dai più alti forum intellettuali alle colonne di consigli quotidiani più pratici, due di queste autorità sono state quasi universalmente celebrate: l’autorità del metodo scientifico e l’autorità dell’individuo autonomo “.

Secondo Del Noce, alla grande svolta culturale alla fine degli anni Cinquanta contribuì un’altra riscoperta: quella del marxismo. Nella cultura europea il marxismo era già tornato alla ribalta dopo la seconda guerra mondiale, diventando egemonico, ad esempio, tra gli intellettuali francesi e italiani. Negli Stati Uniti, ovviamente, durante la Guerra Fredda, la cultura dominante era decisamente anticomunista. Tuttavia, secondo Del Noce, le idee marxiste avevano una portata molto più ampia del comunismo come movimento politico. Se si riconosce come nucleo del marxismo l’affermazione della priorità causale dei fattori economici-materiali, la tendenza a “spiegare ciò che è superiore attraverso ciò che è inferiore” e la teoria della “falsa coscienza” (che sostiene che si appella all’etica universale e i valori religiosi sono generalmente travestimenti per interessi economici egoistici), allora bisogna ammettere che il marxismo ha avuto una grande influenza, ad esempio, sulle scienze sociali. Mentre gli intellettuali laici generalmente rifiutavano la filosofia della storia di Marx (l’aspettativa della rivoluzione, il ruolo messianico del proletariato e così via), molti di loro aderivano ampiamente agli aspetti scientisti e materialistici del marxismo. Presi isolatamente, questi tendono a persuadere gli aderenti ad adottare un “relativismo totale”; tutti i valori sono i riflessi di circostanze storiche materiali, di gruppo o di interesse personale; non hanno validità permanente. È in questo senso, scriveva Del Noce, che “la rinascita della mentalità illuminista e la riscoperta del marxismo si sono incontrate e si sono compenetrate”.

Mentre gli intellettuali laici generalmente rifiutavano la filosofia della storia di Marx, molti di loro aderivano ampiamente agli aspetti scientisti e materialistici del marxismo. Presi isolatamente, questi tendono a persuadere gli aderenti ad adottare un “relativismo totale”: tutti i valori sono il riflesso di circostanze storiche materiali, di gruppo o di interesse personale, e non hanno validità permanente.

Già nel 1963 Del Noce ha diagnosticato che questa confluenza di temi illuministici e idee marxiste caratterizzava una “nuova” cultura, che ha variamente descritto come la società “tecnologica” o “ricca”, o come “progressismo”. Ha anche predetto che quando questa mentalità è penetrata dalle élite intellettuali nella società più ampia (attraverso l ‘”industria della cultura”, i mass media, l’istruzione pubblica, ecc.), Avrebbe prodotto precisamente alcuni degli effetti descritti in The Upswing : crescente individualismo, frammentazione sociale , diminuzione della religiosità, crescente disuguaglianza economica. Ha basato la sua previsione sul fatto che la nuova cultura era radicalmente positivistica, e quindi destinata a “demitizzare” e infine a distruggere le narrazioni simboliche e religiose che legavano insieme la società.

Per spiegare meglio questo punto cruciale, lasciatemi fare riferimento al classico cliché “Dio, famiglia e paese”. Questo slogan è stato sfruttato da molti politici senza scrupoli e ridicolizzato da altrettanti intellettuali sofisticati, ma indica una verità importante. Le persone si sentono unite ad altre persone se condividono quella che Del Noce chiamava una “dimensione ideale” che inevitabilmente si riferisce a ciò che chiamava “l’invisibile” o “il sacro”. Per essere unite le persone devono riconoscersi a vicenda come partecipanti a esperienze e valori universali che trascendono l’utilità individuale immediata. La religione, la famiglia e la nazionalità sono tre di queste fonti fondamentali di “sacralità”. Ora, secondo Del Noce, la società benestante tende a “dissacrarli” e di conseguenza diventa lentamente una “non società” formata da individui “atomizzati”.

Per essere unite le persone devono riconoscersi a vicenda come partecipanti a esperienze e valori universali che trascendono l’utilità individuale immediata.

Per quanto riguarda “Dio”, Del Noce sostiene che il dopoguerra ha visto nascere una nuova forma di “irreligione” ben diversa dall’ateismo tradizionale. Piuttosto che negare direttamente l’esistenza di Dio, i pensatori neo-illuministi professavano una forma di agnosticismo scientistico. Questo pretendeva di essere religiosamente “neutro” ma in realtà minò la religione a un livello più profondo, negando il valore intellettuale e pratico delle questioni religiose . Da una prospettiva scientista “queste domande irrisolvibili sono anche quelle che non ci interessano; nel senso che non interessano coloro che vogliono agire nel mondo per migliorarlo in alcun senso. ” Le questioni religiose sono irrilevanti per la vita sociale, economica e culturale, tranne che come potenziale fonte di conflitto civile, che deve essere evitato accettando che “la politica democratica può essere solo una politica de-mitologizzata”. Questo atteggiamento relega la religiosità a una sfera strettamente privata e alla fine porta a una secolarizzazione radicale, “perché erode la dimensione religiosa fino a cancellare dalla coscienza ogni traccia della questione di Dio”.

Passando alla “famiglia”, Del Noce vede uno stretto legame tra scientismo e rivoluzione sessuale, il cui quadro concettuale è stato fornito dalla rinascita della sessuologia scientifica e della psicoanalisi negli anni ’50 e ’60. L’esperienza della sessualità in quasi tutte le culture è stata una via di trascendenza, così potente che deve essere ordinata con cura. Al contrario, la “scienza” non conosce la trascendenza. La sessualità scientifica e la psicoanalisi considerano la sessualità umana come un fenomeno puramente naturale, privo non solo di significato trascendente, ma anche di finalità intrinseche (ad esempio, la procreazione). Da una prospettiva scientista, gli impulsi sessuali sono semplicemente fenomeni naturali da studiare con metodi biologici o psicologici, ma non hanno uno scopo superiore e non hanno valore simbolico oggettivo (per non parlare di sacramentale). Di conseguenza, agli uomini e alle donne della società benestante viene insegnato a non trovare nel sesso nulla che punti al di là di loro stessi.

In questo senso, la filosofia della rivoluzione sessuale è “positivismo per le masse”. Ritiene che anche le relazioni umane più intime siano essenzialmente “prive di significato” tranne che per il significato “diamo loro”. Il sesso diventa una transazione romantica (nella migliore delle ipotesi) tra individui autonomi e fondamentalmente isolati, e il matrimonio diventa molto simile a quello che nel diciannovesimo secolo era chiamato “amore libero”, cioè una libera associazione che dura finché dura l ‘”amore”. e può essere sciolto quasi a piacimento. Chiaramente, questa concezione del matrimonio “centrata sulla coppia” implica una sorta di “de-sacralizzazione” dell’idea di “famiglia”.

Un tipo simile di desacralizzazione si applica all’idea di “nazione”. Ho già accennato al carattere universalista e cosmopolita della cultura neo-illuminista emersa all’epoca della “svolta”. Aggiungo che anche in questo caso Del Noce pensa che ci sia una necessità filosofica. Le nazioni erano tradizionalmente basate su identità religiose o culturali, articolate in storie di fondazione, in “miti” ed “eroi” nazionali, che incarnavano uno scopo collettivo. Nessuno di questi ha senso da una prospettiva scientista-positivistica. Una nazione è solo una forma di organizzazione politica ed economica, completamente sostituibile da forme più efficienti. L’amore per la patria è nel migliore dei casi una reliquia romantica, nel peggiore una forma di fanatismo e fonte di una passione pericolosa. Se qualcosa, un abitante della società benestante sentirà una maggiore fedeltà alla comunità globale di manager illuminati, tecnologi, filantropi e uomini d’affari che alla sua nazione d’origine.

 

Chiaramente, a lungo termine questo è destinato a creare una frattura politica (all’interno dei paesi sviluppati) tra l’élite tecnocratica (tipicamente concentrata attorno a poche grandi “città del mondo”) e coloro che condividono il vecchio senso di identità basato sulla nazione (tipicamente che vivono in aree periferiche). Questo è solo un aspetto di un fenomeno generale che Del Noce descrive come segue: nelle società prive di un terreno comune “ideale” (religioso, filosofico) “la separazione tra la classe dirigente e le masse diventa estrema perché i membri della prima sanno che ogni argomento in termini di valori è semplicemente l’ideologia come strumento di potere “. Tutto, per loro, è già smascherato, e quelli per i quali non è smascherato lo sono. . . beh, non sono illuminati.

In sintesi, Del Noce sosteneva che in una cultura radicalmente scientista-positivistica come quella che divenne dominante in Occidente intorno al 1960 tutte le forme di “appartenenza” si indeboliscono a causa della scarsità di un terreno comune ideale. Questa rozza sintesi, ovviamente, non rende giustizia alla sua analisi. Ad esempio, non posso discutere qui le sue opinioni sui critici interni della società benestante, in particolare i movimenti di protesta degli anni Sessanta e Settanta. Mi limiterò a menzionare che, a suo parere, quei movimenti (che in un certo senso possono essere visti come i paralleli della reazione romantica al primo Illuminismo) per lo più non sono riusciti ad affrontare i fondamenti filosofici della nuova società, e in realtà spesso hanno finito per giocare nella sua mani, criticando le istituzioni “tradizionali” che in realtà ostacolavano il processo “We-to-I” (la chiesa, la famiglia,educazione liberale, ecc.).

Ma basta con l’analisi del “declino”. Del Noce ha qualcosa da dirci sulla questione sollevata in The Upswing ? Cioè, cosa ci vorrà per superare un altro punto di svolta e iniziare a muovere il pendolo nella direzione opposta: tornare indietro verso la solidarietà?

In una cultura radicalmente scientista-positivistica tutte le forme di “appartenenza” si indeboliscono a causa della scarsità di un terreno comune ideale. Cosa servirà per superare un altro punto di svolta e iniziare a muovere il pendolo nella direzione opposta: tornare indietro verso la solidarietà?

Chiaramente, ritenendo che la cultura abbia giocato un ruolo di primo piano nella svolta, Del Noce era propenso a privilegiare una sorta di “revisione culturale” per invertire la tendenza. Ciò implica, tra le altre cose, che la politica può svolgere solo un ruolo di supporto, mentre l’istruzione deve essere al centro dell’attenzione. Non a caso, l’istruzione è uno dei campi che ha sofferto di più nella società ricca-tecnologica. Privata di narrazioni e ideali, l’educazione è stata impoverita dall’utilitarismo, che si manifesta come un’enfasi sulla tecnologia nelle scienze. La politicizzazione nelle discipline umanistiche sembra essere un tentativo di recuperare un qualche senso narrativo o ideale, ma a scapito di un dibattito umano e aperto, di una curiosità rigorosa e di una connessione con idee precedenti e forse più ricche di giustizia e natura umana. (O, ovviamente, può semplicemente accadere che, poiché le facoltà umanistiche perdono la convinzione che la bellezza artistica e la verità filosofica siano oggetti di studio e contemplazione intrinsecamente meritevoli, devono giustificare la loro esistenza affermando che i loro soggetti hanno rilevanza politica, e quindi pratica).

Innumerevoli tentativi di “aggiustare” l’istruzione primaria e secondaria come se fosse un problema “tecnico” sono falliti, perché non può esserci educazione senza un’immagine organica di ciò che significa essere umani, e la cultura secolare moderna non ne ha una, o il uno che ha è inadeguato al compito. Quindi, la vera domanda che dovremmo porci è: quali risorse culturali devono essere portate al sistema educativo, e alla cultura in generale, per rendere possibile una nuova ripresa?

Non può esserci educazione senza un’immagine organica di ciò che significa essere umani, e la moderna cultura secolare non ne ha una, o quella che ha è inadeguata al compito. Quindi, la vera domanda che dovremmo porci è: quali risorse culturali devono essere portate al sistema educativo, e alla cultura in generale, per rendere possibile una nuova ripresa?

Un approccio semplice è guardare alle idee che hanno guidato la svolta precedente (quella intorno al 1960) e metterle in discussione. Invece di vivere in una relazione perennemente antagonista con il nostro passato collettivo, dobbiamo fare pace con esso, il che richiede essere in grado sia di rifiutare i suoi errori che di valutare ciò che era prezioso. Invece di ribellarci ai vincoli della religione, della famiglia e del paese, dobbiamo riconoscere ciò che Simone Weil chiamava “il bisogno di radici”. Dobbiamo capire che i valori universali possono essere realizzati solo in forme locali e contingenti. Dobbiamo imparare ad accettare i limiti, e venire a patti con il fatto che gli esseri umani non possono avere un sano rapporto con il visibile (come direbbe Del Noce) senza fare i conti in qualche modo con l’invisibile . Quest’ultima osservazione ci porta al punto critico: una nuova ripresa sarà impossibile senza adeguate risorse religiose. La buona volontà, o politiche migliori, o strumenti tecnici più avanzati semplicemente non affronteranno gli aspetti culturali della crisi. Ma la vera religione non può essere fabbricata a volontà. È necessaria una conversione. Come dice Del Noce, serve un risveglio religioso, perché religione, patria e famiglia sono ideali supremi e non strumenti pratici. Ed è certamente un punto valido che la formula corruzione optimi pessima si applichi al deterioramento che colpisce questi ideali quando sono visti, almeno in primo luogo, come strumenti pragmatici del benessere sociale. Per essere socialmente utili devono essere pensati all’interno delle categorie del vero e del bene; il contrario è impossibile. Certamente, un tale risveglio non può essere un’opera meramente umana. Ma ciò nondimeno richiede, per realizzarsi, che i cuori degli uomini siano attenti.

Allora partecipiamo.

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