O si dimette Conte o Borrelli, di Domenico Cacopardo

Si avvicina il tempo del giudizio. Si dovrà vigilare. Potrebbe essere il tempo anche dei peggiori mercimoni, pur di salvarsi. La crisi del coronavirus sta ingombrando gli armadi di troppi scheletri, sia al centro che nelle periferie_Giuseppe Germinario

Se il politico non si dimette, deve lasciare il tecnico

 

«E allora?», mi ha scritto un lettore, dopo avere esaminato il mio J’accuse pubblicato da ItaliaOggi di ieri. E allora? Ripeto io, consapevole che il mio J’accuse può essere interessante e importante per valutare la qualità del personale di governo ma poi? Su questo «poi» vorrei intrattenermi oggi. Come accade in guerra un generale che colleziona sconfitte deve, ripeto deve, essere rimosso. Anche se è solo sfortuna, giacché, come sosteneva Napoleone Bonaparte la fortuna è una delle componenti essenziali del successo di un ufficiale.Delle due, l’una: o se ne va Giuseppe Conte o se ne va Angelo Borrelli. E, com’è evidente, è più facile sacrificare il funzionario che non il politico anche se, come nel caso del nostro premier, arrivato lì, a Palazzo Chigi, per caso e volontà dei pentastellati sconsiderati, porta sulle spalle un bel pezzo di responsabilità per le disfatte delle ultime settimane.

Il problema sarà trovare il sostituto, giacché, dopo la distruzione della pubblica amministrazione operata dai tanti irresponsabili che si sono succeduti nelle posizioni di governo, è proprio difficile individuare il soggetto giusto.

Fuori causa Guido Bertolaso, l’unico su piazza è Franco Gabrielli, il capo della Polizia. Nel chiedergli il sacrificio di fare il commissario straordinario (unico, grazie Domenico Arcuri, torna alla tua amata Invitalia) il governo dovrebbe altresì garantirgli, dopo un periodo di reggenza da parte del vice-vicario, il ritorno al Viminale. E non per fargli un favore. E poi dovrebbero essere poste in essere tutte le misure che per una ragione o per l’altra sono state accantonate o derubricate a non urgenti.

Nella tempesta, guai perdere la testa. Guardate Andrew Cuomo, governatore dello Stato di New York. Martedì sera, nella quotidiana conferenza-stampa trasmessa da Nbc, parlando in maniera piana, con i numeri ha chiarito che nel giro di un paio di settimane la pandemia crescerà tanto da rendere necessaria 140 mila posti letto con un 10% di terapia intensiva. Oggi ne abbiamo 5 mila. Quindi dobbiamo lavorare per accrescere la nostra disponibilità. E qui ha indicato le opzioni su cui sta lavorando il suo governo.

Durante la conferenza-stampa, Cuomo risponde anche alle domande di singoli cittadini. Al confronto, impietoso, Giuseppe Conte sembra uno scolaretto impreparato.

In questo discorso, c’è un elemento che non deve sfuggire: i numeri. Gli Stati Uniti affrontano qualsiasi problemi con i numeri. Possiedono statistiche e rilevazioni su ogni settore dell’economia, della società, delle attività di governo. Noi, viceversa, soffriamo di idiosincrasia per i numeri. Nel mondo, si trasformano in numeri i risultati dell’insegnamento. Da noi, i nostri docenti si oppongono, perché evidentemente dai numeri si capirà quale docente è somaro o negligente e quale è bravo.Un patologico concetto di eguaglianza, di cui siamo tributari a una parte del pensiero cattolico, espresso, tanto per intenderci, da don Lorenzo Milani.

E così i numeri danno il rating degli ospedali, dei dentisti, degli avvocati, dei commercialisti. E dei giudici: una volta accadeva che in Cassazione fossero tenute in vita le statistiche dell’attività di ogni magistrato, comprese quelle relative alle sentenze bocciate in appello.

Dai relativi numeri si faceva discendere l’idoneità o meno all’esercizio di mansioni superiori. Poi, un malinteso e corporativo principio di autonomia ha impedito che i giudici potessero essere giudicati sulla base del loro lavoro, quantità e qualità, perché tutto il gregge fosse composto da pecore tutte eguali, salvo coloro che assumevano incarichi di rilievo nelle organizzazioni di categoria.

Fra le tante cose che questa tragica pandemia spazzerà via, ci sarà probabilmente un pezzo importante dell’Italia politica, di quella economica e sociale. Forse culturale, cioè di quella parte di cultura asservita ai potenti di turno, sempre politici s’intende, anche se annidati nelle grandi mammelle distributrici di danaro costituite dalle fondazioni ex bancarie. Oggi, tornando alla pandemia, ciò che è perso è perso e quindi occorre ragionare sul da farsi domani e dopodomani.

Ci vuole qualcuno dall’efficienza garantita, non succubo delle fisime grilline, dei complessi di inferiorità di chi non è in grado di capire e di governare. E, a proposito di efficienza e sulla base dei numeri del Corona virus (a detta di molti, errati per enorme difetto), non possiamo dimenticare che questa contingenza ha mostrato a tutti gli italiani il fallimento delle regioni, dei loro politici, delle loro burocrazie. Questo sarà uno dei principali problemi del dopo.

https://www.italiaoggi.it/news/o-si-dimette-conte-o-borrelli-2434852?fbclid=IwAR03oW9CsU2fn_kVbOZ7aVk7C7V5i9lNc5Lugl3ipchmp4KpSlNsSAJFkLo

Con la guerra del petrolio, la fine dell’età d’oro per i paesi del Golfo?, di Julie KEBBI , Anthony SAMRANI 

Qui sotto un interessante articolo del quotidiano libanese OLJ sulle conseguenze della guerra delle estrazioni petrolifere connessa alla crisi pandemica_Giuseppe Germinario

Con la guerra del petrolio, la fine dell’età d’oro per i paesi del Golfo?

Un agente di cambio a Riyadh, Arabia Saudita, 10 marzo 2020. Ahmad Yosri / File Photo / ReutersUn agente di cambio a Riyadh, Arabia Saudita, 10 marzo 2020. Ahmad Yosri / File Photo / Reuters

DECRITTAZIONE Se l’esaurimento delle risorse s’inscrive nei tempi lunghi, potrebbe rimescolare le carte nella regione.

Ciò che nasce nel petrolio muore nel petrolio. Le petro-monarchie del Golfo iniziarono a diventare le potenze dominanti nel mondo arabo grazie allo shock petrolifero del 1973, avvenuto nel bel mezzo della guerra del Kippur, e pochi anni dopo la sconfitta del 1967, che segnò l’inizio della fine dei regimi pan-arabi. . Il primo intervento americano contro Saddam Hussein, poi la sua caduta, più di un decennio dopo, rafforzerà questa nuova realtà: il Golfo diventa di nuovo il centro politico del mondo arabo per la prima volta dalla morte del Profeta. L’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e persino il Qatar sono diventati, in pochi decenni, i paesi con il maggior peso, mezzi e persino influenza nella regione, nonostante una bassa demografia e una cultura politica lungi dal fare all’unanimità. Grazie ai petrodollari, il Golfo ha conosciuto in questi ultimi decenni la sua epoca d’oro, che gli ha permesso di costruire dal nulla città moderne e di sviluppare una rete di alleanze nella regione in parte basate sulla loro generosità verso paesi che non hanno le stesse risorse. Cosa sarebbero oggi la Giordania, l’Egitto e persino il Libano senza i soldi del Golfo e senza quelli delle loro diaspore che vi lavorano?

Tutta questa geopolitica è minacciata dalla crisi del coronavirus e in particolare dalla conseguente guerra petrolifera. “Penso che siamo entrati in una nuova fase, soprattutto se i prezzi del petrolio continuano a ristagnare”, ha dichiarato Joseph Bahout, ricercatore presso il Carnegie Center e specialista in Medio Oriente, contattato da L’Orient-Le Jour.

In totale, i paesi del Gulf Cooperation Council registrano quasi 4.530 casi di Covid-19, inclusi oltre 1.720 in Arabia Saudita, secondo gli ultimi dati. I bilanci che rimangono ampiamente inferiori a quelli del resto dei paesi della regione, mentre le monarchie del Golfo sono meglio armate di fronte alla pandemia, con infrastrutture ultramoderne di salute e più mezzi per applicare le misure del distanziamento sociale. Ad esempio, il re Salman dell’Arabia Saudita ha annunciato lunedì che il regno era pronto a pagare le spese per il trattamento dei pazienti con Covid-19, mentre Abu Dhabi ha recentemente aperto un  centro di contenimento del Covid- 19 con l’obiettivo di estenderlo a tutti gli emirati.

(Leggi anche: L’alleanza americano-saudita messa alla prova dalla guerra petrolifera )

Progetto ingrippato
L’epidemia potrebbe tuttavia avere conseguenze economiche. “L’impatto della pandemia sul multilateralismo, sulla cooperazione e sul commercio internazionale, nonché sulla globalizzazione sarà decisivo per i paesi del Golfo”, ha affermato Hussein Ibish, ricercatore presso l’Arab Gulf States Institute di Washington, intervistato da L ‘OLF.

Ma è la crisi petrolifera che dovrebbe far molto più male dell’epidemia stessa. Dopo aver fallito nel raggiungere un accordo con Mosca su un calo della produzione volto a mantenere alti i prezzi nonostante il calo della domanda cinese e quindi globale, Riyadh ha inondato il mercato nelle ultime settimane, causando il crollo dei prezzi. Il greggio Brent ha raggiunto $ 22,89 al barile all’inizio della settimana, il suo livello più basso dal 2002, prima di salire ieri a circa $ 30. Il regno vuole dimostrare che è ancora il giocatore dominante nel campo dell’oro nero e della quota di mercato sicura. Ma con prezzi così bassi, l’intera economia del Golfo, in gran parte dipendente dai petrodollari, è minacciata da una recessione. La strategia del regno non è sostenibile nel tempo, in particolare a causa della mancanza di riserve a Riyad in dollari (circa 500 miliardi di dollari), ma anche perché indebolisce le sue relazioni con il suo principale alleato, gli Stati Uniti, i cui produttori di scisto stanno subendo il peso del collasso dei prezzi al barile. Un gesto diplomatico a Washington o un desiderio di limitare il danno, ieri l’Arabia Saudita ha chiesto una “riunione urgente dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEC) e di altri paesi, tra cui la Russia, al fine di raggiungere un accordo equo che ristabilirà l’equilibrio dei mercati petroliferi ”, ha annunciato l’agenzia ufficiale saudita SPA. La guerra del petrolio non durerà per sempre. Ma quanto più dura, tanto più mette a repentaglio la stabilità dei paesi del Golfo e la loro capacità di attuare le loro politiche volte a uscire dal modello di economia delle rendite. “È l’intero progetto di Mohammad ben Salmane (il principe ereditario saudita) che ora viene bloccato”, riassume Joseph Bahout. Quasi tutti i paesi del Golfo hanno lanciato negli ultimi anni importanti piani di transizione economica miranti a concepire il dopo-petrolio. Ma l’attuale doppia crisi dovrebbe costringerli ad accelerare i loro modelli di transizione con mezzi limitati. “Questo mette molta pressione sui loro sforzi per creare economie post-petrolifere”, osserva Hussein Ibish. “Tutte le proiezioni indicano che se i prezzi attuali rimangono come sono, il regno avrà un deficit di bilancio molto grande per la prima volta nella sua storia nei prossimi 5-6 mesi, il che significa che il piano Vision 2030 sarà praticamente messo tra i reperti ”, ha detto Joseph Bahout. La diffusione del coronavirus e i conseguenti divieti di viaggio stanno rallentando, tra le altre cose, la campagna di apertura del regno saudita, che cerca di fare affidamento sul turismo per diversificare la sua economia. Molti eventi culturali e sportivi in ​​programma nel Golfo sono stati anch’essi cancellati o rinviati.

(Per la cronaca:  petrolio: perché il mercato è crollato )

Rovescio della storia
Le prime monarchie del Golfo potrebbero inizialmente emergere rafforzate dalla crisi del coronavirus se il numero di morti tra loro dovesse rimanere limitato. “La gestione della crisi del coronavirus potrebbe rafforzare o indebolire la leadership dei leader del Golfo”, afferma Hussein Ibish.

Ma il rischio è che la scarsità di risorse sia a lungo termine e provochi turbolenze sulla scena interna. La stabilità dei paesi del Golfo è dovuta in particolare a un patto sociale tra governanti e governati, che conferisce al primo potere indiscutibile e al secondo uno stile di vita generalmente confortevole. Ancor più che il rafforzamento dell’autoritarismo, la crisi economica sembra essere la principale minaccia che potrebbe provocare movimenti interni di protesta. “Dobbiamo rimanere cauti nelle analisi, ma potremmo vedere nei prossimi anni la terza fase delle rivoluzioni arabe che si sarebbero giocate questa volta nel Golfo”, afferma Joseph Bahout.

La mancanza di risorse potrebbe anche avere un impatto sulla politica estera di questi paesi. Il regno è diventato negli ultimi anni, rovesciando la sua storia, un potere interventista, in particolare nello Yemen, mentre gli Emirati si mostrano orgogliosamente come Sparta del Medio Oriente. L’influenza di questi paesi dipende soprattutto dalle loro capacità finanziarie, perché presentano carenze sia sul piano militare che sul piano del “soft power”. Saranno emarginati quando la loro leadership sarà sempre stata contestata nel mondo arabo, ma anche e soprattutto da Iran e Turchia?

Le petro-monarchie possono sentirsi rassicurate trovando che questo non è un gioco a somma zero. In altre parole, se i paesi del Golfo soffrono, gli altri soffriranno altrettanto, se non di più. L’Iraq, anch’esso dipendente dal prezzo di un barile, rischia il collasso. Giordania, Egitto e persino Libano troveranno molto difficile uscire dalla crisi senza l’aiuto dei paesi del Golfo. Tanto più se dovessero risentirne i milioni di arabi che lavorano in questi paesi.

Il grande rivale iraniano, che era già stato strangolato dalle sanzioni americane, dovrebbe emergere ancora più indebolito dalla crisi del coronavirus. La Turchia e la Russia, se riusciranno a limitare il danno, potrebbero imporsi a lungo termine come le due grandi potenze della regione, tanto più se il relativo ritiro degli Stati Uniti continuerà. Ma né Mosca né Ankara hanno i mezzi per indossare il costume americano del potere egemonico in Medio Oriente e un’alleanza tra i due paesi sarebbe più fragile a causa delle loro differenze di interesse. Il doppio rebus del coronavirus e della crisi petrolifera potrebbe rimescolare le carte nella regione e mettere in discussione l’influenza dei paesi del Golfo sul mondo arabo. A beneficio di chi? Questa è tutta un’altra storia.

https://www.lorientlejour.com/article/1213059/avec-la-guerre-du-petrole-la-fin-de-lage-dor-pour-les-pays-du-golfe-.html?utm_source=olj&utm_medium=email&utm_campaign=alaune

SOLO? NIENTE AFFATTO, di Elio Paoloni

SOLO? NIENTE AFFATTO

http://italiaeilmondo.com/2020/04/01/la-solitudine-di-papa-francesco-di-angelo-perrone/

Il pezzo di Angelo Perrone, La solitudine di Papa Francesco, mi ha ricordato un post FB di Alessandro Vietti che sosteneva la tesi della cantonata mediatica a proposito della benedizione urbi et orbi:

Perché quello che ha fatto, solo, in questa Piazza San Pietro desolatamente vuota, sotto queste nuvole e questa pioggia dal sapore apocalittico, degne di un film di Ridley Scott, è stato a mio avviso quanto di più lontano ci potesse essere dalla comunicazione di un sentimento di speranza e di fiducia nel futurouna “messinscena” oltremodo tragica, surrealmente tragica, al punto da potersi dire addirittura disturbante come la migliore inquadratura di un film di David Lynch. Perché quello che resterà nell’inconscio collettivo di quell’intervento non saranno tanto le sue parole, bensì la sua immagine, la solitudine e l’impotenza dell’Uomo – di “un” uomo – di fronte alla furia cieca della Natura (del Creato) che innalza il suo urlo triste e disperato contro un cielo di piombo, cieco e sordo”.

 

Apparentemente Perrone è su un altro versante. In realtà ha la stessa impressione di Vietti e si sforza di giustificare e sublimare il “cortocircuito”.

 

Io invece non riesco proprio a capire come si possa vedervi un errore – o un inciampo – di comunicazione. E’ passato proprio ciò che andava comunicato: l’impotenza dell’uomo, la violenza della natura, l’incombere dell’Apocalisse, la consapevolezza della propria fragilità, condizione necessaria per rivolgersi a Dio.

Se anche non fosse stata voluta, era necessaria proprio la potenza di quello spettacolo, che Emiliano Ferranti descrive così: “La forza dirompente di un’immagine che è già Storia. La potenza iconica e scenografica dell’Urbe. I colori e i capricci del cielo. Forme e vuoto alternate con geometrica e sacra cadenza. Il crepuscolo di un’era. Vox clamantis nel deserto: è La Foto di un epoca che si nutre di se stessa. Di fotogrammi disorganici e frantumati. Di un’epoca di distanze abissali nel paradosso di vicinanze virtuali, di anime frantumate, di voli rasoterra. E la nostra sconfitta scolpita nello spazio, tra i marmi eterni della Grande Bellezza”.

 

Vox clamantis in deserto. Come è stato, come è e come sarà. Ma il deserto metaforico è divenuto reale. Qualcuno ha rimarcato – oltre alla solitudine del Papa – la solitudine del Cristo, la foto scattata dopo l’entrata in Chiesa del Papa, col crocifisso desolato di fronte al vuoto. E invece mai come in quel momento il Cristo miracoloso è sembrato davvero il centro del mondo. Fuori dalla clausura di San Marcello e libero da folle turistiche col cappellino da baseball sotto il solleone, eccolo abbracciare la piazza e distendere il colonnato su Roma, sul paese, sul pianeta intero. Mai si era irraggiata così la sua influenza, mai era stata così necessaria la sua benedizione. Folle di astanti mediatici la attiravano, la accoglievano, liberati dal traffico e dalle distrazioni.

 

E’ mancata, come spesso accade a quest’uomo, la genuflessione davanti al Santissimo. Ma quanti hanno potuto notarla, se è sfuggita anche a me? Non ho alcuna simpatia per Bergoglio ma quando è lì, a pregare e a benedire, vedo solo il consacrato, il tramite, il Vicario, e dimentico le fesserie che spara quando svolazza da un paese all’altro.

La speranza nel futuro che Vietti trovava troncata dalle immagini, un cattolico non la trova nelle folle, nel traffico, nel cielo azzurro: la trova – e l’ha trovata – nell’esposizione di quel cerchio di pane bianco e piatto, piccolo, con tutt’attorno il più prezioso dei metalli, mirabilmente cesellato, il fasto più ardito che l’arte umana abbia potuto concepire e realizzare, la grandiosità dell’architettura più matura e più ricca nell’audacia delle sue forme e dimensioni. Che splendeva ancor di più nell’imbrunire bluastro.

 

 

Io ho presenziato in ispirito, insieme a milioni di persone, e la commozione di fronte alla maestà della Chiesa cattolica – l’Eucaristia, il Crocifisso bagnato dalle lacrime del Cielo, la Salus Populi Romani, la preghiera in San Pietro, cuore e centro di tutto l’orbe cattolico, “il luogo, diceva Chesterton, dove tutte le verità si danno appuntamento” – maestà che non è subordinata alle qualità del papa di turno, mi hanno impedito di notare una reticenza nelle parole, quella colta da Antonio Bianco:
“Papa Francesco ha elencato una serie di “manchevolezze” (perché in tutto il suo discorso la parola “peccato” non viene mai nominata) qui riassunte: guerre e ingiustizie planetarie e  l’indifferenza verso il “grido dei poveri e il grido “del nostro pianeta gravemente malato”.

Ma se, come affermano alcuni alti prelati, e come la bimillenaria storia della Chiesa insegna, le prove che siamo chiamati a superare sono conseguenza di un avvertimento di Dio, quindi una punizione meritata dall’uomo per i suoi molteplici peccati, e se il Signore lascia che si manifestino affinché l’uomo si ravveda, comprenda e si converta tornando a Dio, alla Sua vera ed unica Chiesa, quella Cattolica, e ai suoi sacramenti, sarebbe stato opportuno un chiaro riferimento ai peccati che ammorbano il mondo contemporaneo: la negazione del primato di Dio, il non santificare le feste, l’ateismo di stato, la negazione perpetua della Verità, gli aborti, gli omicidi, i peccati di adulterio, l’eutanasia, i furti, in pratica la “normalizzazione” di ogni peccato.

Noi non siamo Profeti, non conosciamo i disegni del Signore, e non possiamo affermarlo, ma chi, in cuor suo, non è stato sfiorato dall’idea che quel deserto, quella pioggia, quelle sirene spiegate, abbiano una relazione con il peccato mortale reiterato, negato ed elevato a normalità? Anche un non credente avrà potuto vederci la punizione della Hybris, del prometeismo, della divinizzazione della scienza manipolatrice.

 

No, quell’uomo non era solo; mai tanti uomini gli sono stati accanto. E non sarà mai solo: ha l’approvazione del Mondo, è in ottima compagnia. Le moltitudini adorano chi evita accuratamente di rammentare il peccato, il giudizio, l’Inferno.

 

 

 

 

PAESE CHE VAI, VIRUS CHE TROVI….SOCIALISMO CHE FAI, di Pierluigi Fagan

PAESE CHE VAI, VIRUS CHE TROVI. Rapido giro mattutino della stampa int’le (SPA,FRA,UK,GER,USA).

1) L’EUROPA. Nel gruppo euro, siamo a 15 paesi contro 4 (GER-OLA-AUS-FIN). I 4 hanno capito di aver clamorosamente sbagliato il primo round, critiche interne si sono sollevate soprattutto in Olanda ed un po’ anche in Germania. Soprattutto hanno capito di star mettendo seriamente a rischio euro ed UE. Così ora scatta l’operazione elemosina ovvero gettare in pasto alle opinioni pubbliche un marasma di ipotesi di intervento tutte largamente insufficienti, ma che possono dar l’impressione si stia facendo fattivamente qualcosa. Si parla di un fondo per la disoccupazione di 100 mld () e l’olandese Rutte, si è anche spinto fino all’idea di una donazione caritatevole da 10 mld che i Paesi “ricchi” farebbero ai “poveri”🤣. Von der Leyen ci scrive chiedendoci scusa, i tedeschi ci prendono qualche decina di malati da qualche giorno, Rutte ha chiesto scusa alla Spagna per l’infelice uscita che gli è valso quel “ripugnante” da parte del premier portoghese. L’importante è non fare nulla o poco, guadagnare tempo, minimizzare i danni d’immagine ed evitare che il “sogno europeo” venga percepito come “incubo europeo”. “Percepire”, questo è secondo questi illusionisti il problema, diagnosi che si commenta da sé. Segnalo però anche l’avvenuta gara europea per le fornitura centralizzata di miliardi di mascherine (Cina, India, Vietnam). Aspettiamoci quindi una invasione di mascherine con il logo europeista da portare tutti quando sarà obbligatorio, di modo da confermarci che l’Europa ci protegge.

2) POPOLI E GOVERNI. FAZ pubblica un sondaggio a 100.000 casi (Cambridge, Princeton, Harvard) sull’umore dei popoli. I più contenti del proprio governo sono gli austriaci, poi noi. Due terzi di consenso per Merkel, mentre così così (sotto o sopra 50%) stanno gli olandesi e svizzeri sebbene più positivi che negativi, mentre un po’ meno positivi ed un po’ più negativi francesi e spagnoli. Più di due terzi critici i britannici, più dell’80% degli americani (russi e turchi ancora peggio, secondo il sondaggio). Britannici, americani ed olandesi si auto-criticano anche come reazioni e comportamenti della popolazione all’emergenza, ma anche un po’ francesi e canadesi. Giudizi critici sull’onestà del proprio governo nel dire come stanno le cose soprattutto in USA, ma anche in Francia, Gran Bretagna e Spagna. Italia, più o meno a livello di Germania, Olanda, Svizzera e Svezia in territorio decisamente positivo.

3) CAPITALE vs SALUTE. Ovunque si mostra il conflitto tra interessi economici ed interessi sanitari. Segnalo che i governi spagnolo ovviamente ma anche francese, britannico e tedesco, sembrano voler frenare (come in Italia per altro) l’impeto a “riapriamo e fatturiamo”. Ovunque e stamane ne ho letto addirittura sulla stampa tedesca, c’è il semplice problema che noto ad alcuni fatica ad entrare in testa, della capacità ricettiva degli ospedali. Gli “altri” poi, sono indietro a noi nella tempistica di sviluppo dell’epidemia. Segnalo che oltre ovviamente a noi che abbiamo iniziato per primi e gli spagnoli che stanno sotto un treno, in termini di rapporto morti per 1 milioni di abitanti, cominciano a star maluccio anche francesi, belgi, olandesi e svizzeri, più indietro i britannici. Com’è noto i tedeschi sono invulnerabili, perché allora si preoccupino non si capisce. A proposito di tedeschi segnalo che per la terza volta in breve tempo, dopo la tempestosa riunione dei premier eurogruppo ed un messaggio alla nazione, Merkel continua a mandare messaggi vocali ma si rifiuta di comparire in video come nella conferenza stampa di ieri. Ricordo che Merkel è ufficialmente in “isolamento”, forse non si è fatta la messa in piega e non vuole mostrasi “scapigliata”?

4) SALUTIAMO L’AMERICA. Trump sta capendo in che razza di casino è capitata l’America. Diventato a fatica serio e preoccupato, pochi giorni fa ha annunciato di aspettarsi 100.000 morti poi appena qualche giorno dopo è passato a 240.000. L’America sta mostrando un livello di organizzazione pari forse solo all’Iran. Manca tutto in termini di materiali, c’è un casino tra entità federali pazzesco, non sanno dove mettere i morti e sono solo a poco più di un terzo dei nostri morti (e sono pure cinque volte più grandi di noi per non parlare della ricchezza). Non hanno fatto scattare alcun lockdown serio e quindi continueranno a contagiarsi e finire in ospedale per mesi e mesi. In più stanno fallendo compagnie di shale gas una dopo l’altra e seguiranno vari tipo di industria. La foto che gira degli homeless messi sdraiati per terra a distanza di sicurezza occupando – per “distanziamento sociale” – ognuno uno scacco dei parcheggi vuoti di Las Vegas con tutti gli alberghi vuoti a teorica disposizione dice dello stato di civiltà di quella nazione. Ricordo qualche settimana fa i commenti dei liberali italici indignati per i miseri ospedali messi su in una settimana dai cinesi, ma si sa, noi viviamo in un eterno presente e nessuno si ricorda quello che ha detto l’altro appena due giorni fa. Poi arriveranno i ghetti in rivolta e con la nazione che ha un terzo della popolazione con almeno un’arma (ma in complesso in USA ci sono più armi private che abitanti quindi alcuni hanno veri e propri arsenali), vedremo film à la Carpenter con Jena Plissken dal vivo.

Di cinesi, giapponesi, indiani, brasiliani ed africani ci occuperemo un’altra volta. A chiedere tre punti: 1) nonostante le difficoltà in cui si dibattono, i popoli si stringono al proprio leader o forse solo alla nazione detto in senso culturale, il “noi”. In emergenza, nessuno sente il bisogno di far esagerate polemiche, non è il momento, ora. Ma il momento arriverà, sembra che pochi abbiamo capito l’entità e la durata di questa storia; 2) l’epidemia è come un apparato radiografico semovente. Mano a mano che procede, rivela di ogni Paese e di ogni popolo, le nudità strutturali. Ogni giorno qualcuno scopre qualcosa di nuovo e di inaspettato, è un bagno di realismo il che in un’epoca surreale è interessante; 3) ricordo che i cinesi, a Wuhan, hanno chiuso tutto ma tutto davvero per dieci settimane. Oggi però sono alle prese con nuovi possibili focolai ed hanno richiuso Hong Kong. L’Imperial College, in uno studio -mi sembra logicamente affidabile-, ha detto settimane fa che la faccenda, a cicli di up&down, durerà probabilmente 18 mesi. Ognuno ne tragga la conclusione che crede su tempo e spazio del fenomeno.

[La foto è Associated Press, la prima agenzia di stampa del mondo ed è tratta da Time. Nulla meglio di foto+AP+Time dice dello stato delle cose occidentali]

IDEE DI SOCIALISMO SANITARIO. Oggi ci lanciamo in una semplice idea guida, un esempio di modo di ragionare che può tornare utile quando le cose saranno se non normali, meno eccezionali. Ed a tale proposito, da ieri possiamo dire -per il momento- che si vede forse la fine almeno della fase 1, quella emergenziale. L’emergenza era data da un semplice fatto, bisognava diminuire il flusso dei contagiati negli ospedali perché questi si riempivano più di quanto non si svuotassero. In quelle condizioni i morti sarebbero aumentati di molto.

In questi giorni molti hanno continuato a non darsi conto del fatto che i morti complessivi per e con coronavirus non fossero più delle normali epidemia di influenza. A parte il fatto che più di 11.000 morti in poco più di un mese sono ben più dello standard statistico delle influenze annuali, il problema principale in termini di “urgenza” (ciò che viene prime vs ciò che viene dopo) non erano solo i morti ma i bisognosi di ricovero (terapia d’assistenza respiratoria + terapia intensiva), tant’è che molti non ce l’hanno fatta, rimanendo a casa perché non c’erano posti nelle strutture ricettive. Nonostante giri da febbraio un disegnino con le curve a picco del “se non fai niente” o a curva sdraiata “se fai il lockdown”, ovvero spalmare i richiedenti ricovero bloccando i contatti sociali, come hanno capito per altro tutti i dotati di senno in tutto il mondo, vedo che molti hanno avuto insormontabili difficoltà a collegare un numero sufficiente di neuroni per capire questo fatto. Ieri però Callera ha detto che tra entrati ed usciti dagli ospedali lombardi, il saldo era solo di +2 e quei due letti in più ci sono, quindi incrociamo le dita per gli andamenti futuri e passiamo ad altro.

L’altro non è la fase 2 o 3 del coronavirus, ma quella posteriore l’epidemia. Ieri mi veniva in mente un sistema circolare di questo tipo. Lo Stato con suoi capitali, potrebbe creare un sistema che chiameremo Officine Sanitarie Nazionali. Sarebbe un network di imprese che producono, non tutto ma una buona parte dei materiali necessari al Servizio Sanitario Nazionale. Ora abbiamo avuto lo shock da mascherine, disinfettanti e ventilatori polmonari, ma ci sono anche molti farmaci con le molecole a libera produzione, solventi, vari tipi di liquidi necessari in varie terapie, strumenti diagnostici, strumenti di cura, fino ai letti reclinabili, l’arredo delle ambulanze e quant’altro d’uso comune e non solo per il coronavirus che prima o poi avremo domato. Tutto il necessario per un SSN in un Paese con un terzo di abitanti anziani quale abbiamo scoperto finalmente di essere. Una gran parte del valore di spesa della voce di bilancio “Sanità” che ogni anno lo Stato italiano deve spendere attingendo alla fiscalità generale, oltre a gli stipendi per le maestranze, se ne va per comprare tutto il necessario sul libero mercato, italiano ed estero.

La cosa tra l’altro produce costi enormi per via del’enorme macchina amministrativa (ordini-fatturazioni-rendicontazione) che deve indire gare a ripetizione. In più, oltre al costo vivo dei materiali ed al costo indiretto di gestione, c’è il costo occulto delle migliaia di atti di micro o macro corruzione che affliggono la gestione della spesa pubblica in Italia. Questi tre costi sarebbero semplicemente eliminati o abbassati grandemente perché se il fornitore è unico ed è dello Stato: 1) la spesa d’acquisto del SSN diventa guadagno del produttore statale, una buona parte della spesa sanitaria annua diventa una partita di giro; 2) non c’è da mantenere alcun ipertrofico apparato amministrativo perché non c’è da fare alcuna gara, solo ordini; 3) non c’è alcuna mazzetta che gira tra privati, Regioni, partiti, ospedali e primari.

L’occupazione persa tra amministrativi degli ospedali e delle Regioni così come le maestranze che oggi lavorano in aziende private verrebbe semplicemente assorbita dal network di aziende pubbliche che crea una sorta di socialismo sanitario nazionale (SSN). Ci sarebbe ovviamente da meglio curare l’efficienza delle imprese pubbliche, un problema che il “socialismo teorico” dovrà prima o poi affrontare perché il problema c’è ed è innegabile. Ma studiando credo si possa trovarne soluzione almeno parziale. Gran parte di questi costi, rimarrebbero in Italia in quanto potremo produrre molte cose qui invece che esser dipendenti da fornitori esteri. Ovviamente questo non coprirebbe tutte le necessità. Molti farmaci speciali, macchinari particolari, strumenti troppo costosi da produrre in pochi pezzi, rimarrebbero da acquistare sul mercato. In più, altri stanziamenti in ricerca, potrebbero alimentare continuamente di idee nuove e nuove soluzioni l’upgrade tecno-scientifico delle produzioni magari competitive al punto da avere anche un loro mercato estero. Di base però, cedo che il risparmio e l’efficienza di costo e gestione, sarebbe comunque notevole. In più permetterebbe di acquisire una certa resilienza per un servizio che è sempre più necessario data l’estrema longevità dei connazionali e che non può dipendere dalle sempre più frequenti perturbazioni di quadro internazionale. Un buon servizio sanitario nazionale, ovviamente, sarebbe anche un risparmio di spesa per singoli e famiglie ed il servizio nazionale potrebbe esser implementato proprio a partire dai risparmi ottenuti fornendo materiali prodotti in casa su cui non è più necessario far profitto.

Non mi viene in mente altro modo di onorare le vite di coloro che sono morti oltre il dovuto solo perché ci siamo fatti trovare “impreparati”, che far del loro sacrificio una lezione da apprendere. Quando inizieranno le geremiadi retoriche per coprire con l’emozione empatica il disastro a cui non siamo stati in grado di far fronte, facciamoci trovare pronti con altre soluzioni che non i pianterelli di circostanza. Finiremmo con l’esser colpevoli due volte, il che è inammissibile. Glielo dobbiamo …

Perché Cina e aziende cinesi aiutano l’Italia anti Covid-19?, di Giuseppe Gagliano

Perché Cina e aziende cinesi aiutano l’Italia anti Covid-19?

di

Cina Italia

Mosse, obiettivi e strategie di Cina e aziende cinesi in Italia alle prese con l’emergenza Covid-19. L’approfondimento di Giuseppe Gagliano

Che la posizione del nostro paese sul Mediterraneo sia stata – e sia – fondamentale per la Nato e la proiezione di potenza americana è un dato di fatto. Ora è la volta della Cina che intende attraverso la Nuova Via della Seta estendere la sua influenza sul nostro Paese anche con lo scopo di limitare e contenere quello americano.

L’anno scorso, l’Italia ha firmato un memorandum d’intesa con la Cina sulla partecipazione alla Belt and Road Initiative cinese. L’Italia è stata la prima e finora l’unica nazione G7 a farlo. Dopo anni di stagnazione economica, l’Italia sperava di provocare uno stimolo necessario utile alla crescita grazie alla a una partnership economica con la Cina. Questa scelta ha determinato da parte degli alleati occidentali critiche molto dure determinando anche conflitti a livello nazionale, con una parte della coalizione governativa dell’epoca (la Lega di Matteo Salvini) che si opponeva. Allo stato attuale, la firma del protocollo d’intesa non ha portato all’Italia più contratti dalla Cina rispetto ad altri Paesi che non lo avevano fatto come ad esempio la Francia.

A marzo 2020 la situazione è cambiata. L’Italia è in preda alla crisi del coronavirus. A partire dal 20 marzo, la malattia ha ucciso oltre 3.400 italiani, più del bilancio delle vittime registrato in Cina, dove la pandemia è iniziata alla fine del 2019. All’inizio di marzo, l’Italia ha chiesto aiuto ai suoi partner dell’Unione europea. Nessuno Stato membro dell’Ue ha risposto. Inoltre, Francia e Germania hanno imposto il divieto di esportare maschere per il viso. Molti italiani si sono sentiti ingannati e umiliati dai loro partner europei.

Pechino, tuttavia, ha risposto bilateralmente e prontamente trasportato in aereo 30 tonnellate di forniture mediche a Roma. Il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio ha pubblicato un video sull’arrivo dell’aereo carico di approvvigionamento sulla sua pagina Facebook. Per la Cina è stato un trionfo a livello di soft power e di diplomazia pubblica. Se è vero che successivamente la Germania si è impegnata a fornire mascherine per il viso all’Italia e ha ospitato malati Covid-19, la narrativa nei social media era già stata plasmata: l’Unione europea ha abbandonato l’Italia e la Cina ha salvato la situazione. Di Maio si è preso il merito dell’aiuto della Cina, che ha collegato alla sua politica filo-cinese e alla sua telefonata con il ministro degli Esteri cinese Wang Yi il 10 marzo, due giorni prima della consegna delle forniture dalla Cina.

In realtà le forniture erano state inviate di comune accordo tra la Croce Rossa cinese e italiana. Come è consuetudine tra le filiali della Croce Rossa in diversi paesi, la Croce Rossa cinese ha ricambiato per l’aiuto ricevuto dalla Croce Rossa italiana solo un mese prima, quando l’Italia ha inviato 18 tonnellate di forniture a Wuhan. La chiamata tra Di Maio e Wang Yi non riguardava la donazione della Croce Rossa, ma l’acquisto da parte dell’Italia di una grande quantità di ventilatori tanto necessari per le unità di terapia intensiva.

La macchina della propaganda cinese si è affrettata a cogliere l’occasione e ha pubblicato video di italiani riconoscenti che elogiano la Cina per la sua generosità.

Oltre alla prima spedizione di forniture mediche, sbarcata a Roma il 12 marzo, la Cina ha anche inviato una seconda spedizione a Milano il 18 marzo, che è stata inviata dalle province cinesi tra cui Zhejiang, che ha una grande comunità di immigrati in Italia. Altre donazioni di società cinesi sono state destinate a regioni e città italiane che ospitano le loro controparti italiane. Guarda caso una delle società in questione è la Zte, che ha donato 2.000 maschere alla città dell’Aquila dove Zte gestisce un centro di innovazione e tecnologia 5G congiunto con l’università locale. Inoltre, Huawei ha offerto di istituire una rete di cloud computing per collegare gli ospedali italiani tra loro e con gli ospedali di Wuhan, il che specie per il Copasir solleva interrogativi sul controllo delle infrastrutture critiche e la protezione dei dati, e il colosso cinese con Fastweb ha donato tablet e smartphone a ospedali della Lombardia e del Veneto.

Grazie a questo raggio d’azione, la Cina in Italia non è più associata all’origine della pandemia o incolpata a causa della sua scarsa regolamentazione dei mercati e della soppressione delle informazioni che avrebbero potuto aiutare a sradicare la malattia in una fase precedente. La propaganda online cinese ha lavorato instancabilmente per dissociare il coronavirus da Wuhan, dove è emerso per la prima volta, e dalla Cina, e in Italia tale sforzo è ampiamente riuscito. La Cina in Italia è ora vista come un Paese che ha fornito un aiuto concreto, mentre altri partner geograficamente più vicini si sono comportati in modo egoistico, nonostante la retorica della solidarietà europea e non hanno fornito alcun aiuto.

In una recente telefonata con il Primo Ministro italiano Giuseppe Conte, il premier Xi Jinping ha colto l’occasione per lanciare una nuova “Via della seta per la salute”, da associare all’attuale Belt and Road Initiative. Nell’ambito di questa iniziativa, la Cina userebbe le lezioni apprese nella sua riuscita lotta contro il virus e le condividerebbe con i suoi partner in tutto il mondo. Poiché è probabile che la pandemia duri più mesi in tutto il mondo e poiché una pandemia simile potrebbe ripetersi, molti paesi sarebbero interessati.

La percezione tra molti in Italia è che la Cina sia riuscita a dominare il virus in breve tempo grazie alle misure rigorose e decisive che ha adottato. L’Italia è paragonata sfavorevolmente alla Cina in questo senso. Implicitamente, la governance cinese è ammirata come un sistema più efficace che aiuta a salvare vite umane e a ridurre le perdite economiche in caso di emergenza.

Ora, al di là della ingenuità dei nostri politici nostrani, che leggono la dinamica internazionale in un’ottica scevra di qualsiasi realismo politico, la Cina ha piani molto precisi per l’Italia: è interessata ai porti e alle infrastrutture dell’Italia in connessione con la Belt and Road Initiative; alla sua qualità alimentare, al design e al potenziale turistico; ai suoi hub ad alta tecnologia come L’Aquila e allo sviluppo del 5G nel paese.

In ultima analisi, l’aiuto fornito dalla Cina dovrebbe aiutare a rafforzare le relazioni sino-italiane e a preparare il terreno per una celebrazione appropriata dei 50 anni di relazioni diplomatiche a novembre.

https://www.startmag.it/mondo/antichi-consigli-di-jean-per-tutelare-la-sicurezza-economica-dellitalia/?fbclid=IwAR27BAJzGLORaztCt6GUFr30XeTvUwQaCCqmD578KBkEz02UkvDsDonjgbE

Resoconto sull’ultima spiaggia, di Antonio de Martini

L’onnipresente Roberto Buffagni , da non confondersi con l’omonima nullità leghista, ha postato il resoconto della riunione dei capi di governo europei pubblicato da El Pais.

Andrebbe letta ( è in inglese) per capire quel che la nostra stampa non racconta.

L’ho chiosata con un commento che riporto : “Dal resoconto pare evidente che la lepre di cui vanno a caccia è in primis l’Italia; che l’antagonista vero della Merkel è stato Sanchez ; che la Merkel è consapevole di star combattendo per la sopravvivenza politica sua, del suo governo e del suo partito; che Macron non sta con noi italiani e spagnoli, ma interviene sul metodo dandoci un appoggio indiretto per assumere sul finale una posizione arbitrale.

Non credo ci sia altra possibilità di sbloccare la situazione se non il “ mezzocoronabond” ossia dei bond garantiti da una “ coalizione di chi ci sta” che potrebbe essere costituita da Italia , Spagna e due o tre dei paesi che hanno firmato l’iniziativa.

Una garanzia congiunta di sei/otto paesi sarebbe certamente migliore di collaterali di un solo paese e se dovesse fallire significherebbe la fine della EU come entità reale.

Il fatto che Conte non sia il capocordata della contestazione e che le decisioni vadano dall’Eurogruppo ( ministri delle finanze) ai capi di governo non può che essere che chiarificatore.

Lunghi e puntigliosi controlli sanitari alla frontiera – nelle prossime due settimane- dei prodotti caseari e floreali germano olandesi potrebbero rivelarsi determinanti. “

A queste considerazioni telegrafiche che ho fedelmente riprodotto, aggiungerei l’impressione che la Merkel ha dato segni di nervosismo e che la politica migliore sia non quella delle minacce – tipica ammissione di debolezza – ma della prosecuzione di una iniziativa informale accompagnata dall’esercizio del veto in maniera da bloccare l’istituzione e contemporaneamente far marciare l’iniziativa informale che non sarebbe contraria né alla lettera né allo spirito dei trattati. Potrebbe persino esercitare una qualche attrattiva per gli inglesi senza far loro abbandonare le posizioni isolazioniste.

La responsabilità di una eventuale crisi o rottura sarebbe quindi esclusivamente tedesca.

La Germania ha già messo in difficoltà la NATO con lo scontro aperto Trump Merkel e le ripetute ripicche con la Turchia che della alleanza rappresenta ancora l’ala destra.

Una rottura – con addebito – del legame EU e conseguentemente del patto di consultazione Adenauer-De Gaulle del 1967, nonché le frizioni a est per la vicenda Ucraina e le sanzioni alla Russia per la Crimea, lascerebbero isolata la vecchia signora in compagnia di Olanda, Finlandia e Austria.

Hitler nel 45 aveva più amici.

https://english.elpais.com/economy_and_business/2020-03-28/do-we-have-a-deal-pedro-an-inside-look-at-the-clash-between-eu-leaders-at-coronavirus-summit.html?fbclid=IwAR0ONZokAYPdH7lJgSc0PPtK9ntgvk1W_JSZJVJE7vRw_6xUm0BL-SlUt5w

Lezioni dalla risposta dell’Italia al Coronavirus di Gary P. Pisano , Raffaella Sadun e Michele Zanini

Qui sotto un interessante articolo della HBR con il quale trae un primo bilancio dell’approccio italiano alla crisi del coronavirus. Riflessioni in linea con le considerazioni già portate avanti da questa testata e dalle prossime ben più critiche ed approfondite che seguiranno.Buona lettura_Giuseppe Germinario

Mentre i politici di tutto il mondo lottano per combattere la rapida pandemia di Covid-19, si trovano in un territorio inesplorato. Molto è stato scritto sulle pratiche e le politiche utilizzate in paesi come Cina, Corea del Sud, Singapore e Taiwan per reprimere la pandemia. Sfortunatamente, in gran parte dell’Europa e degli Stati Uniti, è già troppo tardi per contenere Covid-19 nella sua infanzia, ei politici stanno lottando per tenere il passo con la pandemia in espansione. Nel fare ciò, tuttavia, stanno ripetendo molti degli errori commessi all’inizio in Italia, dove la pandemia si è trasformata in un disastro. Lo scopo di questo articolo è di aiutare i politici statunitensi ed europei a tutti i livelli a imparare dagli errori dell’Italia in modo che possano riconoscere e affrontare le sfide senza precedenti presentate dalla crisi in rapida espansione.

Nel giro di poche settimane (dal 21 febbraio al 22 marzo), l’Italia è passata dalla scoperta del primo caso ufficiale Covid-19 a un decreto del governo che essenzialmente vietava tutti i movimenti di persone all’interno dell’intero territorio e la chiusura di tutti i attività commerciali essenziali. In questo brevissimo periodo, il paese è stato colpito da niente meno che da uno tsunami di forza senza precedenti, punteggiato da un flusso incessante di morti. È senza dubbio la più grande crisi italiana dalla seconda guerra mondiale.

Alcuni aspetti di questa crisi – a cominciare dai suoi tempi – possono senza dubbio essere attribuiti alla semplice e semplice sfortuna (“sfortuna” in italiano) che chiaramente non era sotto il pieno controllo dei politici. Altri aspetti, tuttavia, sono emblematici dei profondi ostacoli che i leader in Italia hanno affrontato nel riconoscere l’entità della minaccia rappresentata da Covid-19, nell’organizzare una risposta sistematica ad essa e nell’apprendere dai primi successi nell’implementazione – e, soprattutto, dai fallimenti.

Vale la pena sottolineare che questi ostacoli sono emersi anche dopo che Covid-19 aveva già avuto un impatto completo in Cina e alcuni modelli alternativi per il contenimento del virus (in Cina e altrove) erano già stati implementati con successo. Ciò che suggerisce è un fallimento sistematico nell’assorbire e agire sulle informazioni esistenti rapidamente ed efficacemente piuttosto che una completa mancanza di conoscenza di ciò che dovrebbe essere fatto.

Ecco le spiegazioni per quel fallimento – che si riferiscono alle difficoltà di prendere decisioni in tempo reale, quando si sta verificando una crisi – e ai modi per superarle.

Riconosci i tuoi pregiudizi cognitivi. Nelle sue fasi iniziali, la crisi di Covid-19 in Italia non assomigliava affatto a una crisi. Le dichiarazioni iniziali sullo stato di emergenza sono state accolte dallo scetticismo sia da parte del pubblico che da molti membri nei circoli politici, anche se diversi scienziati hanno avvertito del potenziale di una catastrofe per settimane. In effetti, alla fine di febbraio alcuni importanti politici italiani si sono impegnati nella stretta di mano pubblica a Milano per sottolineare che l’economia non dovrebbe andare nel panico e fermarsi a causa del virus. (Una settimana dopo, a uno di questi politici fu diagnosticato Covid-19.)

Reazioni simili sono state ripetute in molti altri paesi oltre all’Italia ed esemplificano ciò che gli scienziati comportamentali chiamano pregiudizio di conferma  – una tendenza a cogliere informazioni che confermano la nostra posizione preferita o ipotesi iniziale. Minacce come le pandemie che si evolvono in modo non lineare (ovvero iniziano in piccolo ma si intensificano in modo esponenziale) sono particolarmente difficili da affrontare a causa delle sfide dell’interpretazione rapida di ciò che sta accadendo in tempo reale. Il momento più efficace per agire con forza è estremamente precoce, quando la minaccia sembra essere piccola, o anche prima che ci siano casi. Ma se l’intervento funziona davvero, sembrerà a posteriori come se le azioni forti fossero una reazione eccessiva. Questo è un gioco che molti politici non vogliono giocare.

L’incapacità sistematica di ascoltare gli esperti evidenzia i problemi che i leader – e le persone in generale – hanno capito come comportarsi in situazioni terribili e altamente complesse in cui non esiste una soluzione facile. Il desiderio di agire fa sì che i leader facciano affidamento sul loro intestino o sulle opinioni del loro cerchio interno. Ma in un momento di incertezza, è essenziale resistere a quella tentazione e invece impiegare il tempo per scoprire, organizzare e assorbire la conoscenza parziale che è dispersa in diverse tasche di competenza.

Evita soluzioni parziali. Una seconda lezione che si può trarre dall’esperienza italiana è l’importanza degli approcci sistematici e dei pericoli delle soluzioni parziali. Il governo italiano ha affrontato la pandemia di Covid-19 emanando una serie di decreti che aumentavano gradualmente le restrizioni all’interno delle aree di blocco (“zone rosse”), che venivano poi espanse fino a quando non si applicavano infine all’intero paese.

In tempi normali, questo approccio sarebbe probabilmente considerato prudente e forse anche saggio. In questa situazione, ha fallito per due motivi. Innanzitutto, non era coerente con la rapida diffusione esponenziale del virus. I “fatti sul campo” in qualsiasi momento non erano semplicemente predittivi di quale sarebbe stata la situazione pochi giorni dopo. Di conseguenza, l’Italia ha seguito la diffusione del virus piuttosto che prevenirlo . In secondo luogo, l’approccio selettivo potrebbe aver involontariamente facilitato la diffusione del virus. Considera la decisione di bloccare inizialmente alcune regioni ma non altre. Quando il decreto che annunciava la chiusura dell’Italia settentrionale è diventato pubblico, ha fatto esplodere un massiccio esodo nell’Italia meridionale, senza dubbio diffondendo il virus in regioni in cui non era presente.

Ciò dimostra ciò che è ormai chiaro a molti osservatori: una risposta efficace al virus deve essere orchestrata come un sistema coerente di azioni intraprese contemporaneamente. I risultati degli approcci adottati in Cina e Corea del Sudsottolinea questo punto. Mentre la discussione pubblica sulle politiche seguite in questi paesi spesso si concentra su singoli elementi dei loro modelli (come test approfonditi), ciò che caratterizza veramente le loro risposte efficaci è la moltitudine di azioni che sono state intraprese contemporaneamente. Il test è efficace quando è combinato con una traccia di contatto rigorosa e la traccia è efficace fintanto che è combinata con un sistema di comunicazione efficace che raccoglie e diffonde informazioni sui movimenti di persone potenzialmente infette e così via.

Queste regole si applicano anche all’organizzazione del sistema sanitario stesso. Sono necessarie riorganizzazioni all’ingrosso all’interno degli ospedali (ad esempio, la creazione di flussi di cure Covid-19 e non Covid-19). Inoltre, è urgentemente necessario un passaggio dai modelli di assistenza incentrati sul paziente a un approccio basato sul sistema comunitario che offre soluzioni pandemiche per l’intera popolazione (con un’enfasi specifica sull’assistenza domiciliare). La necessità di azioni coordinate è particolarmente acuta in questo momento negli Stati Uniti.

L’apprendimento è fondamentale. Trovare il giusto approccio di implementazione richiede la capacità di apprendere rapidamente sia dai successi che dai fallimenti e la volontà di cambiare le azioni di conseguenza. Certamente, ci sono preziose lezioni da trarre dagli approcci di Cina, Corea del Sud, Taiwan e Singapore, che sono stati in grado di contenere il contagio abbastanza presto. Ma a volte le migliori pratiche possono essere trovate proprio accanto. Poiché il sistema sanitario italiano è altamente decentralizzato, diverse regioni hanno provato diverse risposte politiche. L’esempio più evidente è il contrasto tra gli approcci adottati dalla Lombardia e dal Veneto, due regioni limitrofe con profili socioeconomici simili.

La Lombardia, una delle aree più ricche e produttive d’Europa, è stata colpita in modo sproporzionato da Covid-19. Al 26 marzo, detiene il triste record di quasi 35.000 nuovi casi di coronavirus e 5.000 morti in una popolazione di 10 milioni. Il Veneto, al contrario, è andato molto meglio, con 7000 casi e 287 decessi in una popolazione di 5 milioni, nonostante si sia assistito a una diffusione sostenuta della comunità all’inizio.

Le traiettorie di queste due regioni sono state modellate da una moltitudine di fattori al di fuori del controllo dei responsabili politici, tra cui la maggiore densità di popolazione della Lombardia e il maggior numero di casi quando è scoppiata la crisi. Ma sta diventando sempre più evidente che anche le diverse scelte di salute pubblica fatte all’inizio del ciclo della pandemia hanno avuto un impatto.

In particolare, mentre la Lombardia e il Veneto hanno applicato approcci simili al distanziamento sociale e alle chiusure al dettaglio, il Veneto ha adottato un approccio molto più proattivo al contenimento del virus. La strategia veneta era articolata su più fronti:

  • Test approfonditi su casi sintomatici e asintomatici precoci.
  • Tracciamento proattivo di potenziali positivi. Se qualcuno è risultato positivo, sono stati testati tutti nella casa di quel paziente e anche i suoi vicini. Se i kit di test non erano disponibili, erano auto-messi in quarantena.
  • Una forte enfasi sulla diagnosi e l’assistenza domiciliare. Ove possibile, i campioni sono stati raccolti direttamente dalla casa di un paziente e quindi elaborati nei laboratori universitari regionali e locali.
  • Sforzi specifici per monitorare e proteggere l’assistenza sanitaria e altri lavoratori essenziali. Includevano professionisti del settore medico, quelli in contatto con popolazioni a rischio (ad es. Operatori sanitari nelle case di cura) e lavoratori esposti al pubblico (ad es. Cassieri di supermercati, farmacisti e personale dei servizi di protezione).

Seguendo le indicazioni delle autorità sanitarie del governo centrale, la Lombardia ha optato invece per un approccio più conservativo ai test. Su base pro capite, finora ha condotto la metà dei test condotti in Veneto e si è concentrato molto più solo sui casi sintomatici – e finora ha fatto investimenti limitati in tracciabilità proattiva, assistenza domiciliare e monitoraggio e protezione dell’assistenza sanitaria lavoratori.

Si ritiene che l’insieme delle politiche attuate in Veneto abbia notevolmente ridotto l’onere per gli ospedali e ridotto al minimo il rischio di diffusione di Covid-19 nelle strutture mediche, un problema che ha avuto un forte impatto sugli ospedali lombardi Il fatto che politiche diverse abbiano prodotto risultati diversi in regioni altrimenti simili avrebbe dovuto essere riconosciuto fin dall’inizio come una potente opportunità di apprendimento. I risultati emersi dal Veneto avrebbero potuto essere utilizzati per rivedere presto le politiche regionali e centrali. Tuttavia, è solo negli ultimi giorni, un mese intero dopo lo scoppio in Italia, che la Lombardia e altre regioni stanno prendendo provvedimenti per emulare alcuni degli aspetti dell ‘”approccio veneto”, che includono la pressione del governo centrale per aiutarli a rafforzare il loro capacità diagnostica.

La difficoltà nel diffondere le nuove conoscenze acquisite è un fenomeno ben noto sia nelle organizzazioni del settore privato che in quelle del settore pubblico. Ma, a nostro avviso, l’accelerazione della diffusione della conoscenza che sta emergendo da diverse scelte politiche (in Italia e altrove) dovrebbe essere considerata una priorità assoluta in un momento in cui “ogni paese sta reinventando la ruota”, come ci hanno detto diversi scienziati. Perché ciò accada, specialmente in questo momento di maggiore incertezza, è essenziale considerare diverse politiche come se fossero “esperimenti”, piuttosto che battaglie personali o politiche, e adottare una mentalità (così come sistemi e processi) che faciliti imparare dalle esperienze passate e attuali nel trattare con Covid-19 nel modo più efficace e rapido possibile.

È particolarmente importante capire cosa non funziona. Mentre i successi emergono facilmente grazie ai leader desiderosi di pubblicizzare i progressi, spesso i problemi vengono nascosti a causa della paura della punizione o, quando emergono, vengono interpretati come fallimenti individuali – piuttosto che sistemici. Ad esempio, è emerso che all’inizio della pandemia in Italia (25 febbraio), il contagio in un’area specifica della Lombardia avrebbe potuto essere accelerato attraverso un ospedale locale, dove un paziente Covid-19 non era stato diagnosticato correttamente e isolato. Nel parlare ai media, il primo ministro italiano ha fatto riferimento a questo incidente come prova di inadeguatezza gestionale presso l’ospedale specifica. Tuttavia, un mese dopo è diventato più chiaro che l’episodio avrebbe potuto essere emblematico di un problema molto più profondo: che gli ospedali tradizionalmente organizzati per fornire cure incentrate sui pazienti sono mal equipaggiati per fornire il tipo di assistenza focalizzata sulla comunità necessaria durante una pandemia.

La raccolta e la diffusione di dati è importante. L’Italia sembra aver sofferto di due problemi relativi ai dati. All’inizio della pandemia, il problema era la scarsità di dati . Più specificamente, è stato suggerito che la diffusione diffusa e inosservata del virus nei primi mesi del 2020 potrebbe essere stata facilitata dalla mancanza di capacità epidemiologiche e dall’incapacità di registrare sistematicamente picchi di infezione anomala in alcuni ospedali.

Più recentemente, il problema sembra essere di precisione dei dati . In particolare, nonostante il notevole sforzo che il governo italiano ha dimostrato nell’aggiornamento periodico delle statistiche relative alla pandemia su un sito Web accessibile al pubblico, alcuni commentatori hanno avanzato l’ipotesi che la notevole discrepanza nei tassi di mortalità tra l’Italia e altri paesi e all’interno dell’italiano le regioni possono (almeno in parte) essere guidate da diversi approcci di prova. Queste discrepanze complicano la gestione della pandemia in modi significativi, perché in assenza di dati realmente comparabili (all’interno e tra i paesi) è più difficile allocare risorse e capire cosa sta funzionando dove (ad esempio, cosa inibisce la traccia efficace della popolazione).

In uno scenario ideale, i dati che documentano la diffusione e gli effetti del virus dovrebbero essere il più possibile standardizzati tra le regioni e i paesi e seguire la progressione del virus e il suo contenimento a livello sia macro (statale) che micro (ospedaliero). La necessità di dati a livello micro non può essere sottovalutata. Mentre la discussione sulla qualità dell’assistenza sanitaria viene spesso svolta in termini di macroentità (paesi o stati), è noto che le strutture sanitarie variano notevolmente in termini di qualità e quantità dei servizi offerti e delle loro capacità manageriali, anche all’interno degli stessi stati e regioni. Invece di nascondere queste differenze di fondo, dovremmo esserne pienamente consapevoli e pianificare di conseguenza l’allocazione delle nostre risorse limitate. Solo disponendo di buoni dati al giusto livello di analisi, i politici e gli operatori sanitari possono trarre le giuste conclusioni su quali approcci stanno funzionando e quali no.

Un approccio decisionale diverso

C’è ancora un’enorme incertezza su cosa debba essere fatto esattamente per fermare il virus. Diversi aspetti chiave del virus sono ancora sconosciuti e oggetto di accesi dibattiti e probabilmente rimarranno tali per un considerevole periodo di tempo. Inoltre, si verificano ritardi significativi tra il tempo di azione (o, in molti casi, l’inazione) e gli esiti (sia infezioni che mortalità). Dobbiamo accettare che una comprensione inequivocabile di quali soluzioni funzioneranno probabilmente richiederà diversi mesi, se non anni.

Tuttavia, due aspetti di questa crisi sembrano essere chiari dall’esperienza italiana. Innanzitutto, non c’è tempo da perdere, vista la progressione esponenziale del virus. Come capo della Protezione Civile italiana (l’equivalente italiano della FEMA) metterlo , “Il virus è più veloce la nostra burocrazia.” In secondo luogo, un approccio efficace nei confronti di Covid-19 richiederà una mobilitazione simile alla guerra – sia in termini di entità delle risorse umane che economiche che dovranno essere impiegate, nonché l’estremo coordinamento che sarà richiesto in diverse parti della salute sistema di assistenza (strutture di prova, ospedali, medici di base, ecc.), tra entità diverse sia nel settore pubblico che privato, e la società in generale.

Insieme, la necessità di un’azione immediata e di una massiccia mobilitazione implicano che una risposta efficace a questa crisi richiederà un approccio decisionale che è tutt’altro che normale. Se i politici vogliono vincere la guerra contro Covid-19, è essenziale adottarne uno che sia sistemico, dia la priorità all’apprendimento ed è in grado di ridimensionare rapidamente gli esperimenti di successo e identificare e chiudere quelli inefficaci. Sì, questo è un ordine elevato, soprattutto nel mezzo di una crisi così enorme. Ma data la posta in gioco, deve essere fatto.

https://hbr.org/2020/03/lessons-from-italys-response-to-coronavirus

La solitudine di Papa Francesco, di Angelo Perrone

La solitudine di Papa Francesco

 

Le immagini di papa Francesco da solo nelle piazze e nelle strade di Roma, deserte per il coronavirus, sono il simbolo di un’epoca impaurita dal pericolo che il contagio passi attraverso la vicinanza umana. Se il contatto fisico è demonizzato, tutte le abitudini sociali sono sconvolte. Eppure la presenza solitaria del papa nella città vuota ricorda che ci sono molti modi per essere vicini agli altri, e che c’è una distanza dalle persone che è segno di solidarietà e partecipazione

 

di Angelo Perrone *

 

Papa Francesco, solo nella grande piazza di San Pietro a Roma, svuotata dal virus. Un’immagine piena di suggestione, che racchiude i significati più sconvolgenti di questa epidemia. Il pericolo del contagio, la necessità della lontananza fisica per sfuggire alla contaminazione, e provare così a venirne a capo. Un colpo d’occhio sorprendente, che il 27 marzo arriva nelle nostre case, attraverso lo schermo, e che rimane a lungo nella mente.

 

Lui era lì, in piedi sul palco a impartire la benedizione, a invocare il Signore che non ci lasci soli nella tempesta. Come se fosse davvero presente la gente, come se stesse rivolgendosi proprio a persone fisiche a poca distanza, guardandole negli occhi. Ma c’era solo un operatore della tv a riprendere la scena, a renderla persino struggente e malinconica in un’epoca di continua mescolanza di popoli.

 

Più lontano, oltre il margine del colonnato di San Pietro, che segna i confini del piccolo Stato e ora il divieto di avvicinamento a causa del virus, i lampeggianti della polizia. Tutti erano a casa, nessuno poteva avvicinarsi. Ancora più inquietante, nel buio silenzioso, la notte romana di inizio primavera. Nessuno è potuto entrare, ascoltare da vicino quelle parole di incoraggiamento e conforto.

 

Scena surreale, un uomo che parla accoratamente e però si rivolge al vuoto, al niente, perché la piazza che siamo abituati a vedere ricolma di gente attenta e festante, ora è desolata e silenziosa. Nessun rumore: vociare delle persone, traffico. Solo le gocce di una leggera pioggerellina di marzo, il crepitio di qualche braciere acceso a fare compagnia all’uomo anziano al centro della scena.

 

La prima volta nella storia della chiesa doveva accadere per questa epidemia da Covid, non per una guerra, un bombardamento, un assalto armato. Né per difetto di persone interessate, desiderose di ascoltare quelle parole: una mancanza di fedeli.

 

Si è concretizzato in quello spazio il paradosso di un uomo che sa dire parole di speranza, e di gente che vorrebbe venire a ascoltarle, per trovarvi conforto, ma è impedita a farlo. Un cortocircuito che rispecchia l’abnormità del coronavirus, lo sconvolgimento delle abitudini di vita. Nessun contatto tra le persone, nessun dialogo diretto e personale, tutti alla larga, lontani, la distanza è ciò che ci salverà. Forse.

 

Un messaggio di separazione umana che si replica ovunque nelle città, nei luoghi di lavoro, in quelli di divertimento; dunque anche e soprattutto in quella piazza, che diventa così simbolo tragico e allarmante di questa epoca, dei pericoli che stiamo attraversando.

 

Il papa che viene dalla strada, “pastore con l’odore delle pecore”, immagine di una Chiesa rivolta verso l’esterno, non poteva mancare di essere presente proprio nei luoghi dove si svolge la vita. Sono qui, tra voi, tra chi ha paura e chi continua a sperare. Lo aveva già fatto, in modo emblematico, il 15 marzo scorso sempre a Roma: il papa percorse un tratto di via del Corso a piedi e da solo.

 

Era un pellegrinaggio tra le chiese che custodiscono l’icona bizantina della Madonna e il crocifisso che aveva accanto a San Pietro, per manifestare il suo essere vicino alla città e a tutti coloro che patiscono in questo momento. Un gesto emblematico di solidarietà, in totale solitudine. Senza la folla a stringersi intorno, a implorare una stretta di mano.

 

Eppure, quella di papa Francesco è insieme una sfida ed un messaggio. Un segno, nel frastuono della vita. Avevamo bisogno del coronavirus per dirci che dovremmo spenderci nella solidarietà, specie davanti al dolore e alla sofferenza? Che è importante selezionare le cose dell’esistenza, scoprire il confine sottile tra l’inutile e il necessario? Dare una risposta collettiva ai problemi? La solitudine della parola sta lì, nella piazza vuota e nelle strade deserte, a rammentarci che si può essere vicini in tanti modi, e di alcuni può riuscire difficile percepire l’utilità.

 

Infatti, sembra privo di senso parlare nel buio della notte e nel silenzio dei luoghi deserti. Specie in quest’epoca che misura continuamente il consenso, che è in cerca di plauso, che mira a suscitare abbagli. Ma sarebbe sbagliato pensare che la gente non ci fosse per nulla a San Pietro o in via del Corso. Che quell’uomo predicasse davvero al vento, in angosciante e inutile solitudine.

 

Era chiusa nelle proprie case, per convinzione, oltre che per ordine delle autorità, per difendere sé stessa ma anche gli altri. Mossa non da intenti asociali, ma al contrario dalla riscoperta del senso di appartenenza ad una comunità. Dunque affatto lontana dai luoghi, piazze o strade, in cui il papa era presente. C’è una lontananza, che è segno di amore e di partecipazione.

 

* Di formazione giuridica, si occupa di diritto e politica giudiziaria. Dirige Pagine letterarie, rivista online di cultura, arte, fotografia.

 

senza né Capua, né coda, di Pierluigi Fagan

SENZA NE’ CAPUA, NE’ CODA. (Un’avvelenata) Il post è sull’uso improprio degli “esperti” nel dibattito pubblico, un problema già noto che è passato dalla sovraesposizione di economisti che non saprebbero gestire neanche il bilancio della rosticceria sottocasa, ai biologi che passano dalle piastre di Petri al crisis management con altrettanta nonchalance.

Nulla in particolare contro la signora in questione, già parlamentare della lista Monti (Scelta civica), che tutti i giorni ci spiega come si dovrebbe gestire l’emergenza da coronavirus in Italia stando a Miami, senza far i conti con il fastidioso attrito della realtà concreta. Senz’altro una “eccellenza” (mammamia questo uso smodato del vocabolario retorico mi fa venire l’orticaria), in più “donna e scienziata”, quindi mille punti, per carità. Ma “mille punti” a che gioco? in che contesto? mille punti ad un idraulico valgono anche per risolvere problemi dell’impianto elettrico? Il problema è che se aprite un qualsiasi quotidiano nazionale spagnolo, francese o inglese, scoprirete che con ritardo di una settimana, le stesse questioni che dibattiamo qua, vengono improvvisamente “scoperte” anche là. E così scopriamo tutti la stesse cose che -in breve- sono quattro:

1) mentre diventavamo tutti Paesi con concentrati di vecchi anziani che si camuffano con botulino e jeans, i nostri Paesi hanno continuato a ragionare come fossimo ai primi del Novecento quando cinque rivoluzioni tecno-scientifiche (energia, meccanica, chimica, elettrica e sanitaria) dettero lo start all’incredibile sviluppo economico del Novecento. I nostri Paesi cioè, non sono “paesi per vecchi” eppure siamo sempre più vecchi;

2) abbiamo creduto … alla favola bella che ieri ci illuse ed oggi ci delude … di un rampollo di famiglia portoghese sefardita trapiantata a Londra e proprietario di una banca (tal David Ricardo) che, due secoli fa, sosteneva che ogni Paese deve concentrarsi a produrre sempre meglio una specifica cosa e poi la scambia con altri Paesi per avere tutte le altre che non produce eppure servono per vivere. Così in ogni Paese mancano mascherine, camici, ventilatori, tamponi, reagenti chimici, farmaci ed ogni altro strumento necessario improvvisamente ed in quantità inimmaginabili per far fronte all’emergenza sanitaria. Quindi il primo che dice “facciamo a tutti i tamponi”, è pregato di tirar fuori anche i reagenti, i biologi, i laboratori e le attrezzature, altrimenti taccia.

3) come ben espresso da una studiosa politica britannica ieri sul Guardian, la nostra immagine di mondo è settata sul modo “aspettiamo di non avere scelta e poi ci adattiamo”, quando il mondo complesso funziona in modo che se non prevedi per tempo e ti attrezzi ex ante, quando ti svegli è tardi e il locomotore sulla rotaia su cui ti eri appisolato pensando di esser nel migliore dei mondi possibili, di trancia la gola;

4) pensavamo di vivere in un “mondo globale”, un grande villaggio comune mentre invece eravamo solo in un Risiko di giocatori egoisti competitivi che rubano le mascherine e la clorochina gli uni a gli altri. Pensavamo di esser in una commovente comunità degli europei ed invece stiamo in un tavolo da poker in cui si gioca a “mors tua vita mea”. Pensavamo di esser nell’era dell’informazione e della conoscenza ed invece tutti quanti non sappiamo e forse mai sapremo quanta gente ha preso davvero il virus, quanta ha l’influenza, quanta ne muore a casa, quanti tamponi davvero si fanno, quanti i ricoverati, gli ossigenati, gli intubati e soprattutto i morti. Dai cinesi ai russi, dai tedeschi a gli inglesi ed americani è gara a non dirla tutta e non turbare troppo il bambino che è in noi. Sulla “democrazia” non spendo parole, di questi tempi sparare sulla croce rossa è inelegante.

Ecco allora che quando il problema è complesso, l’esperto della frazione infinitesimale, apporta solo entropia, confusione falsa conoscenza. E giù col solito tormentone: gli economisti non sanno di biologia, i biologi di logistica, i logistici di geopolitica, i geopolitici di economia, in circoli vari sempre più larghi e senza chiusura, cioè senza né capo né coda. In questo triste momento di clamoroso fallimento cognitivo ed adattivo, ci illumina solo il terso pensiero dell’intramontabile di Ponte a Ema, il quale scuotendo sconfortato la testa diceva: “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”. Aggrappiamoci alla sua saggezza, quando i sopravvissuti avranno acquisito tutti l’immunità di gregge, finito di contare i morti, forse sarà il caso di ripartire rimettendo proprio in discussione la nozione di “gregge” e cominciar col rivedere molte cose, se non tutte visto che son tra loro interconnesse.

GOOD BYE U.E.!, di Giuseppe Angiuli

GOOD BYE U.E.!

 Il periodo che stiamo vivendo in questo primo semestre del 2020, ricco di tumultuosi cambiamenti del nostro stile di vita in coincidenza con l’influenza globale da coronavirus, sarà senz’altro ricordato sui libri di storia come un momento topico di spartiacque da una fase storica ad un’altra, un momento in cui un vecchio ordine in decomposizione cede spazio ad un nuovo ordine che prende forma e definizione in tempo reale sotto i nostri occhi.

A distanza esatta di un secolo dall’influenza spagnola – che fece da sfondo alla ridefinizione degli equilibri geo-politici successivi al primo conflitto mondiale – un’altra pandemia dalla natura ed origine ancora non ben chiarite sta facendo da contorno ad un passaggio storico in cui tanti nodi gordiani stanno venendo finalmente al pettine, lasciando stupefatti molti tra noi, a cominciare da coloro che Bettino Craxi 25 anni fa ebbe a definire «i declamatori retorici dell’Europa», fautori di un «delirio europeistico che non tiene conto della realtà».

Come i fatti nudi e crudi stanno a dimostrare anche agli occhi dei più duri di comprendonio, un’Europa politicamente unita è sempre stata ben distante dall’esistere realmente, se non nella fantasia dei ben foraggiati burocrati di Bruxelles, giacchè troppo distanti sono sempre stati i tratti distintivi umani, linguistici, culturali e antropologici che storicamente connotano le sue sedicenti componenti fondanti.

Nel frangente più duro per i popoli del continente europeo, stanno crollando come castelli di sabbia tutti i principali luoghi comuni che hanno segnato un’epoca: il dovere di solidarietà tra Paesi vicini, i presunti effetti virtuosi dell’austerità finanziaria, lo stesso vincolo del pareggio di bilancio, la demonizzazione in sé e per sé della spesa pubblica e degli aiuti di Stato all’economia, tutti questi discutibili assunti su cui si è basata la narrazione conformista dell’europeismo retorico che ci stiamo lasciando alle spalle, stanno dimostrando improvvisamente il loro carattere fallace.

Al futuro remoto non possiamo mettere mani ma oggigiorno diventa senz’altro evidente che un’Europa davvero unita non potrà sicuramente esistere nel XXI° secolo, giacchè per i sistemi economici opulenti dei Paesi nordici come Germania, Olanda e loro satelliti risulterà sempre più conveniente camminare da soli con le loro gambe (apparentemente) forti piuttosto che mettere a disposizione dei popoli sottomessi della fascia latino-mediterranea i loro surplus di bilancio.

Questa U.E. è sempre stata come la fattoria degli animali di George Orwell, ossia una pseudo-comunità in cui ci sono sempre stati dei soggetti «più uguali degli altri».

Ormai il re è nudo e forse qui in Italia soltanto i visionari del PD potranno ancora non per molto raccontarci le loro frottole e panzane sullo spirito solidale dell’Europa comunitaria.

Se ormai perfino un ultra-europeista come Mattarella è giunto a mettere all’indice apertamente gli egoismi dei Paesi nordici in diretta TV, vuol dire che il super-lager U.E. è ad un passo dalla sua implosione, con tutti i suoi folli corollari a cominciare da quella maledetta moneta unica che a noi italiani in questo ventennio è costata la rinuncia ad una parte molto significativa del nostro tenore di vita e del nostro welfare (ahi, quanto erano belli gli anni ’80 del secolo scorso, vero?!).

Al punto in cui la crisi delle istituzioni comunitarie è ormai giunta, risulta oltremodo difficile immaginare o prefigurare qualsiasi ripensamento o accomodamento della Germania sulle folli regole di austerità dei trattati U.E.: i tedeschi nella storia hanno sempre perso quasi tutte le guerre decisive (e credo che perderanno anche quella in corso) giacchè troppo spesso hanno dimostrato di mancare di un requisito fondamentale di natura pre-politica, ossia la duttilità di cervello.

Hitler non riuscì a mutare strategia militare nemmeno quando i carri armati sovietici erano già a 5 chilometri di distanza da Berlino ed egli continuava ad assicurare con sussiego e baldanza ai suoi sodali che la Germania avrebbe senz’altro vinto la guerra.

Chi può pensare seriamente che la sig.ra Merkel e la Ursula Von der Lakrimen possano oggi dimostrare, alla vigilia dell’implosione del lager U.E., più duttilità di cervello di quanta ne dimostrò il Fuhrer nel 1945?

La Germania ha segato essa stessa il ramo su cui era seduta.

E’ giunto il momento per noi italiani di mollarla al suo destino, esattamente come abbiamo fatto alla nostra solita maniera ignominiosa nel 1943-45 (ossia decidendoci all’ultimo momento, quando i giochi sono ormai fatti e senza ancora avere deciso una vera strategia di uscita).

E dobbiamo farlo non perchè gli anglo-americani (che sono gli unici veri fautori di questa manovra che porterà al prossimo collasso della U.E.) siano buoni e caritatevoli o perchè intendano venire a «liberarci»: piuttosto, dobbiamo farlo perchè, esattamente come nel 1943-45, oggi non abbiamo altra scelta che quella di uscire il prima possibile dal lager a conduzione germanica in cui ci siamo fatti rinchiudere per nostra insipienza e temerarietà.

 

STA NASCENDO UN ASSE POLITICO DRAGHI-MATTARELLA?

In tanti sono sobbalzati sulla sedia dopo avere letto l’intervento di Mario Draghi sulle colonne del Financial Times di mercoledì 25 marzo 2020.

«Davanti a circostanze imprevedibili, per affrontare questa crisi occorre un cambio di mentalità, come accade in tempo di guerra», ha pontificato il super Mario nazionale con il tono stentoreo di chi non ha bisogno finanche di dimostrare la fondatezza dei propri assunti, potendo contare unicamente sul senso di prestigio e sulla deferenza suscitati nell’establishment italico dal suo ruolo e dalla sua stessa personalità.

Non crediamo di sbagliare se affermiamo che Draghi sia effettivamente uno degli uomini pubblici in assoluto più influenti tra quelli di nazionalità italica, da sempre legato ai circuiti più altolocati della finanza anglo-americana, a cominciare dal colosso Goldman Sachs con cui ha lavorato per un lungo periodo.

E quel cambio di mentalità oggi ritenuto così indispensabile ed improcrastinabile consisterebbe, ad avviso dell’ex Governatore della BCE, nel fatto che il principale problema da affrontare per le economie dei Paesi dell’eurozona non debba essere più individuato nell’inflazione (come da qualche decennio a questa parte ci era stato assicurato a reti unificate da tutti gli economisti neo-liberisti di scuola ortodossa) bensì nel pericolo imminente che «la recessione si trasformi in una depressione duratura».

E per scongiurare tale pericolo, lo stesso Draghi, ribaltando di 180 gradi quei medesimi postulati che sino ad ora lo avevano reso celebre quale sacerdote indefesso dell’austerità e dei vincoli di bilancio, ha proposto che i Governi dei Paesi europei ricorrano senza indugio ad «un aumento significativo del debito pubblico».

Pur non avendo egli spiegato attraverso quali forme e modalità dovrebbe realizzarsi tale auspicato incremento del debito pubblico, le sue parole hanno indubbiamente assunto l’oggettivo significato di una svolta strategica, di quel tipo di svolte a cui ricorrono i grandi generali, per l’appunto, in tempo di guerra.

Le reazioni a caldo degli osservatori più ingenui ed istintivi, quelli solitamente abituati a guardare il dito anziché la luna, si sono presto incentrate sulle critiche – legittime quanto ovvie e scontate – alle scellerate politiche di privatizzazioni e di austerità finanziaria che per un lungo periodo hanno visto nell’insigne super Mario uno dei più strenui interpreti ed assertori, quanto meno a partire dalla sua partecipazione al noto meeting che si tenne sul panfilo Britannia nel giugno 1992 (un consesso al quale, secondo alcuni bene informati, avrebbe discretamente preso parte anche Beppe Grillo, oggi sedotto dalle formose sirene orientali).

Ma volendo andare un po’ a fondo e provare a leggere tra le righe quale significato politico potrebbe racchiudersi nelle clamorose esternazioni di Draghi, noi proveremmo quanto meno a porci alcune domande.

Quali scenari per il breve e medio periodo si lasciano intravedere nel discorso dell’ex Governatore della BCE?

Che tipo di convergenze politiche inedite – se ve ne sono – risultano sottintese alle sue dichiarazioni?

C’è un nesso logico-politico-temporale tra l’intervento di Draghi sul Financial Times del 25 marzo scorso ed il quasi contestuale anatema anti-tedesco pronunciato da Sergio Mattarella in diretta TV la sera del 27 marzo, allorquando l’inquilino del Quirinale è apparso rivolgere un ultimo e disperato appello alle entità che reggono le sorti dell’€urozona, con delle parole che non lasciano scampo ad equivoci di sorta (avendo egli auspicato che esse «comprendano la gravità della minaccia prima che sia troppo tardi»)?

E come è spiegabile l’accoglienza positiva che verso un ipotetico Governo Draghi si è presto manifestata da personalità euroscettiche tra cui si segnalano il leader della Lega Salvini (intervenuto pubblicamente in Parlamento a favore di un ipotetico Governo guidato da super Mario) ed il direttore del quotidiano La Verità Maurizio Belpietro (autore di un editoriale con stile di panegirico, lo stesso giorno del discorso in TV di Mattarella)?

Sta forse nascendo un asse politico Mattarella-Draghi-Salvini-Meloni (con quest’ultima apparentemente più fredda di altri rispetto all’idea di un Governo di unità nazionale) che avrà il compito di accantonare la stagione di Giuseppi Conte e di assumere le redini del Paese nella fase immediatamente successiva ad una ormai assai probabile e quasi imminente implosione dell’€urozona?

Noi non disponiamo della palla di cristallo per potere fornire una compiuta risposta a ciascuno dei suddetti interrogativi.

Ciò nondimeno, siamo certi che nelle fucine della politica italiana ed internazionale oggi è in fase di preparazione uno scenario di grandi e importanti novità di portata storica.

Quanto al probabile ruolo che Mario Draghi intende ritagliarsi nella nuova stagione, riteniamo decisivo soffermarci su quella parte del suo intervento sul Financial Times in cui l’ex Governatore della BCE ha precisato che «livelli molto più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e dovranno essere accompagnati dalla cancellazione del debito privato».

A quale componente del debito privato ha inteso riferirsi Draghi?

Forse a quel debito oggi detenuto dalle grandi banche d’investimento internazionali, i cui bilanci (a cominciare da quelli di Deutsche Bank) sono pieni zeppi  di derivati tossici e di cui oggi la comunità finanziaria occidentale intende scongiurare il fallimento a catena?

 

 

Giuseppe Angiuli

1 237 238 239 240 241 336