Italia e il mondo

Vivere con la Russia, di Aurélien

Vivere con la Russia.

Qual è esattamente l’alternativa?

Aurélien30 luglio
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Negli ultimi due anni ho scritto diversi saggi nel tentativo di dare un’occhiata vaga al mondo post-Ucraina, tra cui uno sulle conseguenze politiche della sconfitta e uno sulla difficoltà e le conseguenze di una “vittoria” russa. Sono stato molto critico nei confronti dell’incapacità dell’Occidente di comprendere e reagire a ciò che sta accadendo, ma non ho detto molto sulle opzioni che potrebbero essere ancora concretamente aperte all’Occidente, e in particolare all’Europa, quando arriverà il momento di iniziare a raccogliere i cocci e a ripulire il sangue.

Ora, naturalmente, ricordiamo tutti il vecchio luogo comune secondo cui le previsioni sono difficili, soprattutto per quanto riguarda il futuro. Ma oggi, invece di fare previsioni, proporrò un approccio strutturato a questo problema che potrebbe aiutare a ridurre un po’ l’incertezza finale. Il primo passo è suddividere tutti i fattori rilevanti in

  • Cose che sono già accadute o che possono essere considerate tali.
  • Cose il cui sviluppo generale è abbastanza chiaro, ma su cui c’è spazio per il dibattito su come potrebbe andare a finire.
  • Tutto il resto.

Riflettendo attentamente sulle prime due categorie, possiamo in linea di principio ridurre le restanti a proporzioni più gestibili. Una volta fatto ciò, potremo valutare quale margine di manovra l’Occidente possa effettivamente avere e forse individuare alcune possibilità realistiche.

Quindi, a che punto siamo ora? Direi che ci sono almeno quattro cose che dobbiamo considerare risolte. Alcune potrebbero sorprendere qualcuno di voi.

Il primo riguarda le dimensioni e la potenza dell’esercito russo, e la base industriale e scientifica che lo sostiene. In parole povere (e lo ripeto ancora una volta), in un momento in cui l’Occidente ha ampiamente rinunciato alla sua capacità di guerra terrestre/aerea con l’impiego di metalli pesanti, i russi hanno mantenuto la loro. Non c’è nulla di magico in queste scelte: la tradizione russa è quella della guerra terrestre, e il Paese ha importanti confini terrestri. Ciò ha significato che hanno mantenuto un esercito considerevole e anche il servizio militare nazionale per produrre un gran numero di soldati addestrati. Il loro equipaggiamento è stato ottimizzato per il tipo di guerre che si aspettavano di combattere, e la struttura e la dottrina del loro esercito (sebbene si tratti di un argomento complesso) sono rimaste molto più vicine al modello della Guerra Fredda rispetto a quelle dell’Occidente. La loro industria della difesa è rimasta sotto il controllo statale e, in generale, il Paese ha mantenuto la sua tradizionale enfasi su scienza, tecnologia e ingegneria. Ha anche lavorato duramente per diventare il più possibile indipendente strategicamente. Inoltre, è un Paese vasto e diversificato, con comunicazioni terrestri con gran parte del mondo e imponenti giacimenti di materie prime. Tra le altre cose.

Niente di tutto questo cambierà. Ciò significa che il predominio militare russo sull’Occidente non è una minaccia futura, né un pericolo da evitare, è una realtà presente e, per ragioni che approfondiremo tra poco, è improbabile che cambi in tempi utili. Ora, come in precedenti saggi, vorrei sottolineare la differenza tra sistemi d’arma e capacità effettiva . I sistemi d’arma di per sé sono inutili se non forniscono la capacità di fare ciò che si desidera. Pertanto, la vera questione è se i sistemi d’arma di cui dispone un esercito consentano all’esercito di svolgere i compiti assegnati. Quindi, la capacità marittima (e soprattutto subacquea) dell’Occidente è molto buona, e probabilmente migliore di quella della Russia. Ma non vi è alcuna prospettiva evidente di un conflitto marittimo con la Russia. Allo stesso modo, i sistemi nucleari occidentali, sebbene forse meno moderni di quelli russi, sono certamente adeguati, ma i sistemi nucleari non si combattono tra loro e, almeno al momento, non vi è alcun segno che le nazioni siano abbastanza folli da impegnarsi in una guerra nucleare. Se consideriamo i compiti concreti che potrebbero essere affidati ai militari, i russi hanno una capacità di svolgere i loro compiti molto maggiore rispetto ai nostri.

Né è utile confrontare direttamente le prestazioni degli equipaggiamenti russi e occidentali, come hanno l’abitudine di fare i nerd militari. È probabile che almeno alcuni aerei da caccia occidentali siano superiori ad almeno alcuni aerei da caccia russi, ma questo deve essere prima valutato in base ai numeri e alle capacità dell’armamento principale, e poi valutato nel contesto di operazioni reali, che non riguardano giostre cavalleresche tra singoli aerei, ma piuttosto il controllo dello spazio aereo. Al momento, i russi possono controllare efficacemente lo spazio aereo molto più facilmente dell’Occidente, utilizzando missili piuttosto che aerei da combattimento. Lo stesso vale per i confronti tra carri armati, un altro argomento preferito dai nerd militari. (I combattimenti tra carri armati in Ucraina sono stati estremamente rari.)

Il secondo è l’infrastruttura politica, militare e intellettuale a supporto della capacità militare. Questo è un po’ più complicato, quindi abbiate pazienza. La guerra in Ucraina è combattuta da circa 700-800.000 soldati russi con una considerevole infrastruttura amministrativa, logistica e di comando nelle retrovie, con strutture per sostituire le perdite e riparare ciò che non può essere riparato sul campo, schierare equipaggiamenti nuovi e modificati, curare i feriti gravi, organizzare l’incessante flusso di personale e logistica in entrambe le direzioni, reclutare, addestrare, schierare e congedare un numero enorme di personale, sviluppare e acquisire nuovi equipaggiamenti, modifiche e miglioramenti, adattare dottrine e tattiche, raccogliere informazioni sul nemico e pianificare operazioni future e predisporre piani di emergenza. Tra le altre cose. Una guerra di questo tipo richiede anche una direzione strategica e operativa di alto livello e una stretta integrazione con i servizi segreti e il servizio diplomatico.

Un’infrastruttura del genere non esiste al momento in Occidente. Anche se una fata magica concedesse alle nazioni occidentali dieci volte la dotazione di equipaggiamento bellico ad alta intensità di cui dispongono attualmente, e anche se gli uffici di reclutamento fossero invasi da ondate di volontari, non ci sarebbe alcuna infrastruttura per trasformare tutto ciò in forze dispiegabili, figuriamoci in grado di sostenerle. La Russia richiama circa 300.000 coscritti all’anno in due lotti e recentemente ha assunto 30.000-40.000 volontari al mese. Al contrario, il Regno Unito recluta 12.000-15.000 militari all’anno e gli Stati Uniti circa 50.000-60.000. Queste due situazioni non sono semplicemente paragonabili, e ovviamente i russi hanno un’unica infrastruttura, mentre l’Occidente ne ha decine. I russi dispongono anche di linee di rifornimento ben consolidate e collaudate che vanno verso Occidente verso qualsiasi potenziale conflitto. L’Occidente ora non ha nulla che assomigli a questo.

I russi possiedono anche la dottrina, l’addestramento e l’esperienza per comandare un numero molto elevato di truppe a quello che viene chiamato il livello operativo di guerra, che riguarda la pianificazione militare di alto livello e i concetti progettati per raggiungere l’obiettivo politico strategico. I russi, allievi di Clausewitz, sono sempre stati bravi in questo. Un modo di vederla in pratica è considerare che ci siano generali russi in Ucraina che comandano forze pari all’intero esercito tedesco , e che a loro volta riferiscono a un ufficiale con responsabilità di livello ancora più elevato. Non credo che ci siano informazioni affidabili né sul numero di truppe in Ucraina né sugli ordini di battaglia russi, ma è sufficiente dire che i russi stanno operando su una scala e con una complessità che nessun esercito occidentale saprebbe gestire, anche se truppe ed equipaggiamenti dovessero apparire all’improvviso. Inoltre, gli eserciti occidentali dovrebbero sviluppare queste capacità organizzative e intellettuali collettivamente, mentre i russi, per definizione, sono un’unica forza che fa la stessa cosa. Questo non cambierà.

Sapere come farlo in teoria è solo una parte, ovviamente: è necessaria anche l’esperienza pratica di manovrare e combattere forze ingenti, che i russi hanno e l’Occidente no. L’Occidente può ancora studiare la teoria nelle sue accademie militari, ma il divario tra teoria e pratica è il motivo per cui i militari commettono errori quando scoppia una guerra. I tedeschi commisero errori in Polonia nel 1939 e impararono da essi. I russi commisero errori in Finlandia nel 1940 e impararono da essi. Gli eserciti del 1914 impiegarono forse un anno per comprendere la natura della guerra che stavano combattendo, e un altro paio d’anni per iniziare a trovare risposte ai problemi che poneva. Potevano farlo perché avevano la popolazione e la base militare e industriale per resistere a lungo termine. L’Occidente oggi non ce l’ha. I russi commisero diversi errori nei primi mesi della guerra in Ucraina, ma avevano la capacità di imparare da essi e apportare cambiamenti e miglioramenti. L’Occidente no. È intrappolato in una situazione paradossale: l’unico modo per acquisire esperienza in questo livello di guerra è praticarla, ma praticarla distruggerebbe le forze effettivamente presenti in Occidente, senza alcuna possibilità di sostituirle. Questo non cambierà.

Il terzo è la natura geografica. La Russia è un paese enorme, con comunicazioni terrestri con la maggior parte del mondo. In caso di conflitto con qualsiasi stato NATO, può spostare rapidamente le forze dove sono necessarie, lungo linee di comunicazione interne sicure e in gran parte al riparo dalla minaccia di attacchi. Ha anche lo spazio per concentrare ingenti forze a scopo intimidatorio, se non necessariamente per combattere. Questo non cambierà. Le forze occidentali sono sparse ovunque: si pensi per un attimo alle sfide logistiche e di altro tipo di portare le forze spagnole in Romania o le forze italiane nei Paesi Baltici, su lunghe distanze, principalmente via mare e con la costante minaccia di attacchi. Una brigata simbolica in Polonia per un periodo è una cosa. L’intero esercito francese schierato nei campi in Estonia è qualcosa di completamente diverso. Inoltre, la Russia può mantenere forze molto ingenti adiacenti ai confini della NATO per tutto il tempo che desidera. La NATO non può fare il contrario. Per estensione, la dispersione geografica significa debolezza politica. L’appartenenza alla NATO, dal Portogallo all’Islanda alla Turchia, vincolata dalla geografia e con confini con la Russia mai pianificati, ora ha pochi interessi comuni. Composta in larga maggioranza da piccoli paesi con forze militari molto limitate, e soggetta al principio secondo cui all’aumentare dei numeri in modo aritmetico, il potenziale di disunione aumenta in modo geometrico, la NATO è un’alleanza che di recente è diventata ancora più frammentata di quanto non fosse in passato. Questo non cambierà.

Gli Stati Uniti non hanno attualmente forze di combattimento terrestri di rilievo in Europa. Hanno una sola divisione corazzata negli Stati Uniti che, in teoria, potrebbe essere portata a capacità operativa e inviata oltre Atlantico, ma ciò richiederebbe mesi o addirittura anni, e non c’è un posto dove collocarla. Ci sono aerei statunitensi in Europa e potrebbero essere rinforzati in una certa misura in caso di crisi, ma è difficile immaginare come possano essere efficaci contro il tipo di difesa aerea stratificata che possiede la Russia. In ogni caso, l’idea di una base avanzata di unità militari durante la Guerra Fredda era che, in caso di crisi e di guerra, sarebbero state rafforzate da riserve mobilitate. Anche se tali riserve esistessero (il che è difficile immaginare che possano mai esistere), non esiste un’infrastruttura amministrativa e fisica per condurle dove sarebbero necessarie. In caso di crisi, la Russia potrebbe mobilitare il suo esercito e spostare le unità abbastanza rapidamente, utilizzando le sue linee di comunicazione interne. Ma immaginate, per un momento, di dover richiamare e inviare centinaia di migliaia di riservisti dalla Francia e dalla Germania in Romania, con tutto il loro equipaggiamento. Ecco perché calcoli superficiali sulla dimensione totale delle forze militari occidentali e russe non colgono il punto. Inoltre, è facile capire che una crisi politica in Svezia e alcune minacce provenienti dalla Russia potrebbero portare a massicci e costosi spostamenti di truppe verso Nord per rispondere a timori che alla fine si rivelano irrimediabilmente esagerati. C’è un limite al numero di volte in cui la NATO può giocare a questo gioco, mentre la Russia, con le sue linee di comunicazione interne, può continuare a giocarci per un po’ di tempo. Nulla di quanto sopra cambierà.

Infine, ci sono cambiamenti permanenti nella tecnologia militare. Ora, con “permanenti” non intendo che la tecnologia rimarrà la stessa per sempre, o che sarà importante come lo è ora per sempre; intendo che è stata inventata e quindi sarà disponibile in modo permanente. Ci sono due tecnologie in particolare che sono importanti in questo caso. La prima è convenzionalmente chiamata “droni”, ma è più complicata di così. Diverse tecnologie combinate consentono a veicoli volanti autonomi ma controllati a distanza in rete di attaccare bersagli con grande precisione a distanze che vanno da uno o due chilometri a diverse centinaia di chilometri oltre la linea del fronte, e questa distanza è in continuo aumento. Droni piccoli ed economici possono essere guidati manualmente verso i loro bersagli. Droni a lungo raggio possono essere inviati in modo indipendente, utilizzare i loro sensori per rilevare e attaccare i bersagli in un ordine programmato e condividere i dati di puntamento con altri droni o velivoli. I droni possono essere utilizzati per pattugliamenti e ricognizioni, per attaccare altri droni e per confondere le difese nemiche. Ciò ha due conseguenze principali.

Una è che il campo di battaglia diventa molto più trasparente. La sorpresa, sebbene non impossibile, è diventata molto più difficile, tranne che a bassa quota e in circostanze speciali come l’attacco ucraino a Kursk. Le concentrazioni di forze possono essere individuate rapidamente e questa capacità (ad esempio tramite infrarossi) è in continuo miglioramento. L’altra è che i droni hanno anche prodotto una rivoluzione in termini di precisione. I russi ora li stanno usando, in coordinamento con i missili, per attaccare bersagli molto precisi ben dietro la linea del fronte, realizzando così finalmente i sogni degli appassionati di potenza aerea di cento anni fa. Nella Seconda Guerra Mondiale, la precisione dei bombardamenti non era semplicemente sufficiente a disarmare un paese dal cielo: oggi, con i droni, sta diventando così.

Il risultato di questi due sviluppi è, in linea di principio, quello di favorire la difesa, perché è l’attaccante che deve muoversi ed esporsi. Credo di non essere il primo ad aver notato, diversi anni fa, che il campo di battaglia in Ucraina assomiglia molto al fronte occidentale della Prima Guerra Mondiale. A quell’epoca, il problema per l’attaccante era attraversare il terreno aperto tra le linee del fronte dei due schieramenti prima che il difensore potesse emergere, predisporre le proprie difese e inviare rinforzi. Filo spinato e altre fortificazioni rendevano il compito dell’attaccante ancora più difficile. Le soluzioni trovate – sbarramenti striscianti, veicoli blindati, tattiche di infiltrazione – hanno i loro analoghi oggi, ma, anche alla fine della guerra, il ruolo dell’attaccante era ancora più difficile. Tenete presente, però, che stiamo parlando solo del livello tattico e solo di un difensore in una posizione preparata e fortificata. Il fatto che le forze NATO accorse in Finlandia potessero difendersi strategicamente non conferisce loro particolari vantaggi. In effetti, i droni da ricognizione in rete possono offrire un vantaggio che ogni aggressore ha sempre desiderato: sapere quali attacchi stanno avendo successo, e quindi dovrebbero essere rafforzati, e quali stanno fallendo. Al momento, i russi hanno un vantaggio significativo in queste tecnologie e hanno il vantaggio che la condivisione dei dati all’interno di una forza armata è molto più semplice rispetto alla condivisione dei dati tra più forze. Questo non cambierà.

La seconda tecnologia è quella dei missili ad alta precisione e velocità. Si tratta di un settore in cui i russi si sono specializzati dalla fine degli anni ’40 (si sono impossessati di molti scienziati e di gran parte della tecnologia del programma tedesco V2) e hanno continuato a svilupparlo, così come le relative tecnologie di difesa missilistica difensiva. L’Occidente non ha dato la stessa importanza ai missili, preferendo gli aerei con equipaggio per entrambi gli scopi. Il risultato è che la Russia dispone oggi di un arsenale di missili ad alta precisione che possono essere lanciati da terra, da navi o da aerei, e utilizzati in combinazione con i droni. L’Occidente ha una capacità limitata contro alcuni di questi missili, ma sembra che i russi siano ora riusciti a superare una soglia tecnologica per la produzione di missili contro i quali, in linea di principio, non esiste alcuna difesa possibile, a causa della velocità con cui arrivano.

Potrebbe essere possibile, in un ipotetico momento futuro, utilizzando tecnologie non ancora concepite, distruggere questi missili nel numero necessario a respingere un attacco serio, ma ai fini pratici la situazione non cambierà. Come i droni, questi missili sono ora estremamente precisi e l’effetto di qualsiasi missile sul suo bersaglio dipende fortemente da questa precisione, poiché la potenza della testata esplosiva diminuisce molto rapidamente con la distanza. Pertanto, in alcune circostanze, i moderni missili ad alta velocità e alta precisione possono ottenere effetti che solo le armi nucleari tattiche avrebbero potuto ottenere in passato. Ciò significa che attacchi ad alta precisione possono essere condotti a distanze di centinaia di chilometri, utilizzando missili che in linea di principio non possono essere intercettati. Questo darà finalmente ai paesi le capacità che i sostenitori dei bombardieri con equipaggio umano sognavano negli anni ’20. Si tratta di una tecnologia (in realtà, una serie di tecnologie) che non può essere disinventata e che avrà un approccio trasformativo al combattimento e alla gestione delle crisi.

Passiamo ora agli elementi del futuro su cui sussistono legittimi dubbi su ciò che potrebbe accadere. Uno di questi è la debole e quasi mistica fede nell’idea di un riarmo occidentale. Ho già fatto alcune osservazioni denigratorie su questa possibilità e ho dedicato diversi saggi al motivo per cui la coscrizione non verrà reintrodotta e quindi perché le forze armate occidentali non potranno mai essere sostanzialmente più numerose di quanto non siano ora. Non intendo ripetere tutto questo. Mi limiterò a toccare un paio di punti su cui c’è legittimo margine di disaccordo, anche se non molto. Il primo è l’effetto pratico, se presente, degli annunci di forti aumenti della spesa per la difesa da parte di alcune potenze occidentali. Qui, il punto più ovvio è che si può acquistare solo ciò che è disponibile per l’acquisto. Sembra che si dia per scontato che questo denaro verrà speso per equipaggiamenti, o più colloquialmente “armi”, ma le armi non servono a nulla senza persone addestrate a usarle.

E le “armi” richiedono supporto e il supporto richiede più persone. Se avete mai visto un carro armato da combattimento trasportato, saprete che si muove su un enorme rimorchio, guidato da qualcuno con l’addestramento e l’esperienza per manovrare sessanta tonnellate di carro armato e dieci tonnellate di veicolo senza colpire nulla. Anche queste persone servono, e in effetti, nonostante tutti i discorsi sfrenati su miliardi e miliardi di questa o quella valuta, nessuno è mai stato in grado di spiegare come persone attualmente non motivate ad arruolarsi possano improvvisamente diventarlo, e in gran numero. Immagino che l’intenzione sia quella di scaricare il problema su una società di consulenza per il reclutamento. Ma la realtà è che “arruolati nella Bundeswehr, fatti addestrare e trascorri il resto del tuo impegno seduto in un campo in Polonia, ubriacandoti la sera e combattendo bande di skinhead polacchi” non funzionerà bene come slogan di reclutamento. In effetti, non c’è motivo di supporre che le forze occidentali saranno in grado di aumentare sostanzialmente di dimensioni, indipendentemente da quanti soldi vengano spesi, e ci sono molte ragioni per pensare che non sarà così. E senza riserve, gli eserciti occidentali diventerebbero istituzioni fragili, annientate dopo pochi giorni di combattimento.

La seconda possibilità è che, in qualche modo, e con sufficienti incentivi finanziari, la tecnologia occidentale possa produrre equipaggiamenti in quantità e qualità sufficienti per affrontare l’attuale squilibrio. Ora, naturalmente, questo dipende dalla capacità di reclutare o arruolare personale militare in quantità che ora possiamo solo immaginare, e abbiamo appena visto quanto sia difficile. Ma potrebbe essere vero, nonostante tutto, che il massiccio aumento della domanda di servizi militari recentemente promesso possa in qualche modo tradursi in almeno un modesto aumento complessivo delle capacità?

La prima cosa da dire è che probabilmente potresti permetterti di arrivare a un reclutamento ragionevolmente completo della tua struttura attuale . Gli incentivi finanziari possono fare una certa differenza, a quanto pare, se non altro perché è stato dimostrato che disincentivi finanziari, come salari bassi, hanno l’effetto opposto. Quindi un forte aumento dei salari probabilmente produrrebbe più candidati, anche se non necessariamente idonei. Esistono una serie di potenziali trucchi da applicare, a seconda del paese, dall’istruzione universitaria gratuita, al consentire agli ex detenuti di prestare servizio, all’eliminazione della nazionalità o di altri ostacoli, e infine al semplice abbassamento degli standard di salute e forma fisica per l’ammissione, sulla base del fatto che, con sufficiente impegno, quasi chiunque può finalmente essere reso sufficientemente idoneo per prestare servizio. Dico “quasi” perché le reclute con diabete o Long Covid (tra molti altri esempi) potrebbero essere semplicemente troppo difficili da portare a termine.

Quindi, in pratica, completare le forze armate occidentali fino alle attuali dimensioni previste potrebbe essere il massimo che si possa sperare, e questo fungerebbe da verifica di realtà al massimo livello di ciò che si può realizzare, anche con cifre folli. Si potrebbero imporre obblighi rigorosi ai riservisti per spremere qualche persona in più dal sistema, in caso di necessità. E questo è tutto. Ma sicuramente si possono acquistare equipaggiamenti? Dopotutto, sicuramente più si paga, più si ottiene, no?

Beh, fino a un certo punto. Ci sono alcuni equipaggiamenti relativamente semplici da utilizzare (veicoli logistici, ad esempio) le cui scorte potrebbero essere tenute in riserva per guasti e azioni nemiche in tempo di guerra, perché potrebbero essere guidati dai riservisti richiamati, o perché gli autisti civili potrebbero essere mobilitati in base alla legislazione di emergenza. Allo stesso modo, se si perde un carro armato perché un drone ne fa saltare i cingoli o il motore si guasta, un carro armato in riserva potrebbe essere una buona idea. Successivamente, si passa ai livelli delle scorte: munizioni, ovviamente, ma anche materiali di consumo per i veicoli, cingoli di riserva per carri armati e, naturalmente, droni. La disponibilità di velivoli non è mai al 100% e l’opportunità di schierarne alcuni in riserva contribuirebbe a mantenere alto il numero di unità. Ma, ancora una volta, il denaro non basta a comprare tutto.

Il problema è che il mondo non è un negozio Amazon e il denaro non può creare capacità, né manodopera qualificata, per non parlare di materie prime, dove non ce ne sono. Un recente rapporto della Commissione Europea ha evidenziato la preoccupante percentuale di materiali importati negli armamenti europei, che vanno dai componenti esplosivi agli acciai e leghe speciali, fino ai sottogruppi elettronici. L’Europa dipende completamente dalle importazioni per 19 materiali critici utilizzati nella produzione di equipaggiamenti per la difesa, e il fornitore più importante è la Cina. Ciò che preoccupa di più è che l’Europa importa relativamente poche materie prime vere e proprie, estratte dal terreno per i beni di difesa: in molti casi, importa materiali lavorati e semilavorati, a loro volta composti da leghe, compositi ecc., provenienti da diversi Paesi. Sarebbe teoricamente possibile, a costi enormi, creare intere nuove industrie nei Paesi occidentali (gli Stati Uniti sono in una situazione altrettanto grave) per produrre, ad esempio, materie prime semilavorate. Ma nessuna somma di denaro può fornire all’Occidente giacimenti minerari che non possiede e che sono soggetti a ogni tipo di sconvolgimento immaginabile, sia naturale che politico.

I tempi in cui le aziende del settore della difesa “producevano” equipaggiamenti di difesa sono ormai lontani. Oggigiorno, le aziende del settore della difesa sono meglio descritte come “integratori di sistemi”, che prendono sottoinsiemi, sistemi di navigazione e controllo, sistemi d’arma e di controllo del fuoco, tra gli altri, e li integrano in un sistema funzionale, che cambia gradualmente nel tempo, man mano che i componenti vengono aggiornati. Questo produce molteplici punti di guasto singoli, e non necessariamente per motivi maligni. Un costruttore di gruppi di carrelli di atterraggio, ad esempio, potrebbe già lavorare a pieno regime per rifornire clienti in tutto il mondo.

La difesa è diventata vittima del neoliberismo di mercato. Così tanto è stato subappaltato, esternalizzato e delocalizzato che la realizzazione di sistemi d’arma è ora un affare di vertiginosa complessità che coinvolge molti fornitori e paesi. E come abbiamo visto, non sono necessariamente le importazioni principali a contare tanto quanto il fornitore di materie prime al subappaltatore, e in alcuni casi gli integratori di sistemi di difesa potrebbero persino non sapere chi sia. Garantire le catene di approvvigionamento, non solo per le attrezzature, ma anche per i pezzi di ricambio e le munizioni, è già abbastanza difficile. Un’espansione massiccia dei requisiti lo rende esponenzialmente più difficile.

Tutto ciò può sembrare strano. Gli appaltatori della difesa non accolgono con favore guerre e riarmo? Non si batteranno tra loro per nuovi contratti succosi? Beh, fino a un certo punto, quando si tratterà di sfruttare la capacità eccedente con una nuova produzione incrementale. Ma anche in quel caso, mentre durante la Guerra Fredda le aziende della difesa erano spesso nazionalizzate o fortemente dipendenti dalle vendite governative, ora sono dominate dalla pervasiva ossessione psicotica per i profitti dei successivi tre mesi. Il management potrebbe benissimo decidere che anche i modesti sforzi per reclutare personale extra, rimettere in funzione le linee di produzione e setacciare il mondo alla ricerca di maggiori forniture di sottoassiemi e componenti non possano essere giustificati agli azionisti. Le aziende della difesa traggono profitto da lunghi periodi di pace, quando la domanda è stabile, la produzione può essere prevista con anni di anticipo e le modifiche pianificate vengono eseguite regolarmente. Dopotutto, non c’è niente di più redditizio che vendere un anno di pezzi di ricambio per un’attrezzatura che è in servizio da vent’anni. Investimenti speculativi in nuove fabbriche, formazione di nuova forza lavoro, ricerca di nuove fonti di approvvigionamento, sviluppo di nuove tecnologie per prodotti che potrebbero non funzionare mai e non essere mai acquistati sono un vero veleno per i dirigenti odierni, ossessionati dagli MBA.

La terza possibilità è un’improvvisa esplosione di unità e determinazione tra le potenze occidentali di fronte a una Russia rinascente e a un sistema di pianificazione in grado di trasformare tale volontà politica in iniziative logiche e coerenti. Anche solo suggerire una cosa del genere, forse, è ridicolo, alla luce della confusione, del disordine, del panico, del dilettantismo e dell’ignoranza dell’ultimo decennio circa, per non parlare della mancanza di qualsiasi visione del futuro, per quanto superficiale e controversa. Come ho già suggerito , l’unica politica che unisce l’Occidente al momento è la fede cieca e il rifiuto di contemplare la realtà, nella speranza che in qualche modo, in qualche modo, si sfugga alle conseguenze dei propri errori cumulativi nei rapporti con la Russia dalla fine della Guerra Fredda. Quando quest’ultima speranza svanirà, il risultato più probabile non sarà una cupa determinazione collettiva a sopravvivere, ma piuttosto una frenesia in cui le nazioni si rivolteranno contro le altre, i politici contro i politici e gli esperti contro gli esperti, tutti alla ricerca di discolparsi e di trovare un colpevole. Il mondo, diciamo, nel 2026 sarà così al di là di ciò che i governi occidentali saranno in grado di comprendere e gestire, che il risultato sarà una paralisi istituzionale e una sorta di esaurimento nervoso collettivo. Certo, ci saranno forti dichiarazioni di sfida e appelli all’unità e alla determinazione, ma questi sentimenti saranno rivolti all’opinione pubblica occidentale, e non alla Russia, che non ne terrà conto perché non saranno supportati da nulla.

L’ultima possibilità – o meglio, l’incertezza – riguarda il grado di disponibilità dei russi a riprendere le normali relazioni dopo la fine della guerra. Stranamente, in alcuni ambienti sembra esserci la convinzione che i russi si rivolgeranno all’Occidente con un atteggiamento di umiltà, se non addirittura in ginocchio, chiedendo perdono e cercando di essere riammessi nel Sistema Internazionale (™). Non riesco a immaginare da dove provengano tali convinzioni. I russi saranno la potenza militare dominante in Europa, l’Occidente sarà incapace di opporre una seria resistenza militare e gli Stati Uniti saranno di fatto fuori dai giochi. Ciò non significa che i russi vorranno quindi espandersi militarmente verso l’Occidente, anche se ritengo sia lecito supporre che lo faranno in casi specifici, se lo riterranno essenziale per la loro sicurezza. (Anche i commentatori più anti-occidentali e filo-russi sono, a mio avviso, troppo inclini a concedere ai russi il beneficio del dubbio in casi simili). Ciò che è in gioco qui non è la futura divisione territoriale dell’Ucraina, né le circostanze esatte della fine della guerra in quel Paese. Si tratta della configurazione politica e militare dell’Europa per i prossimi 25-50 anni, e di garantire il dominio russo sull’Europa, in modo tale che non possa sorgere alcuna minaccia futura. Non posso pretendere di psicoanalizzare il carattere russo, ma dopo quello che hanno passato per molte generazioni, è probabile che saranno pronti a ricorrere a misure estreme se lo riterranno necessario. Storicamente, i russi hanno preferito l’hard power al soft power: per usare la formula di Machiavelli, preferendo essere temuti piuttosto che amati, se queste sono le uniche due opzioni.

In una certa misura, la condotta russa sarà influenzata da più ampie considerazioni di politica internazionale. Non considereranno importante creare un’impressione favorevole in Occidente, ma presteranno attenzione ai paesi BRICS e ad altri, per evitare di apparire come una minaccia o come l’ennesima potenza imperialista emergente. Cercheranno di rafforzare la propria influenza nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e in varie organizzazioni internazionali, così come presso l’Unione Africana e l’ASEAN, non perché considerino queste organizzazioni particolarmente significative di per sé, ma come un modo per diffondere potere e influenza a livello internazionale.

Se si accetta l’analisi di cui sopra, le incertezze rimanenti si dividono essenzialmente in due tipi. Il primo è la misura in cui i leader occidentali possono effettivamente accettare una posizione di inferiorità militare, e la vulnerabilità politica che ne consegue, non come una possibilità teorica ma come una realtà con cui convivere. Il secondo è l’effetto su istituzioni europee come la NATO e l’UE, che saranno probabilmente fatali, ma la cui fine potrebbe essere caotica e persino violenta. Dopo generazioni di prediche e istruzioni al mondo su cosa dovrebbe fare, è ragionevole temere che il sistema politico occidentale possa semplicemente crollare sotto tali pressioni.

A un certo punto, l’Occidente dovrà rinunciare a gesti di rabbia, indignazione ipocrita e richieste ridicole, e iniziare a capire come convivere con la Russia. E sarà alle sue condizioni. Quale altra scelta c’è? L’Occidente si trova di fronte a una Russia molto più potente, arrabbiata e potenzialmente vendicativa, che ha sacrificato vite e denaro per perseguire quelli che considera i suoi interessi fondamentali di sicurezza. Tali atteggiamenti dureranno a lungo e dobbiamo iniziare a tenerne conto fin da ora. Ciò significa, come ho suggerito, una politica moderata e non conflittuale nei confronti della Russia, orientata a preservare la sovranità nazionale e l’indipendenza politica il più possibile.

Riporterebbe inoltre l’equilibrio del potere militare in Occidente a Gran Bretagna e Francia, le uniche due potenze nucleari europee. Paesi come Germania e Polonia, che cercano di espandere le proprie forze convenzionali, stanno sprecando tempo e denaro in modo molto limitato. In passato, si sosteneva con fondatezza che i piccoli paesi dotati di forze armate capaci avrebbero potuto imporre a un invasore un costo sproporzionato rispetto a qualsiasi vantaggio. Questo non è più vero. Le forze armate di quei due paesi, inclusi quartier generali, aree di raduno, porti militari, aeroporti e depositi di rifornimento e riparazione, potrebbero essere smantellate da missili a lungo raggio in poche ore, senza che sia possibile alcuna risposta. Teoricamente, i droni russi potrebbero dare la caccia e distruggere ogni singolo carro armato e veicolo corazzato della Bundeswehr o dell’esercito polacco senza possibilità di rappresaglia.

Quindi le probabili conseguenze includono un massiccio rimescolamento delle carte in Occidente e un ritorno alle politiche di difesa nazionale e alle alleanze ad hoc. È probabile che alcuni dei nuovi membri della NATO e dell’UE vengano semplicemente lasciati a se stessi: non c’è comunque nulla che si possa fare per loro. Non è una bella prospettiva per alcuni, senza dubbio, ma dovremmo iniziare a rifletterci fin da ora. Qual è l’alternativa, esattamente?

Accordi immaginari e momento temporale, di Warwick Powell

Accordi immaginari e momento temporale

L’omertà di Pirro quando il teatro ignora le capacità materiali

Warwick Powell

29 luglio 2025

Un secondo saggio di Powell teso a dare una interpretazione sottile ed originale , controcorrente rispetto alla narrazione predominante europea, sia conformista che critica. Se dal punto di vista “dell’onda lunga della storia” e della pianificazione strategica degli apparati e dei centri di potere consolidati, il cosiddetto “stato profondo”, la tesi è largamente attendibile, nella dinamica della contingenza politica la zona grigia è molto più estesa ed attiva. Non penso che Trump miri ad ingabbiare gli Stati Uniti su priorità strategiche troppo estese per l’attuale condizione di potenza degli Stati Uniti, quanto a scomporre e frammentare i sodalizi presenti nel mondo, retaggio delle precedenti politiche imperialistiche statunitensi e delle emergenti reazioni a quelle; la presenza, al suo interno, di una grande forza politica decisamente ostile all’interventismo di matrice demo-neocon rappresenta ancora una significativa deterrenza ad una svolta trasformista così evidente. Piuttosto, mira a distruggere una delle strutture di impronta globalista ed universalista, l’Unione Europea, tra le tutte che vorrebbe debellare, comprendendo in queste anche i BRICS, che globalisti non sono; a parassitare le risorse e le residue capacità finanziarie ed economiche dei paesi europei; a sconfiggere l’asse sorosiano e neocon, fortemente radicato in Europa e rappresentato istituzionalmente dal trinomio Merz-Macron-Starmer con punto focale la Germania. È appunto la Germania, il bersaglio grosso, il nodo geografico da colpire pesantemente. La stessa Germania che si fa scudo della Unione Europea per attenuare e deviare i colpi. Di fatto, più che la scelta soggettiva della componente governativa statunitense, è la sua incoerenza e la incapacità di risolvere a proprio favore il conflitto interno agli USA a determinare le dinamiche evidenziate da Powell. Per non parlare del successo di immagine e tattico che Trump sta conseguendo, a dispetto della denigrazione pesante ai suoi danni, almeno qui in Europa, ma non solo. Non è una sfumatura di poco conto. Piuttosto che gridare al lupo d’oltre oceano, i veri alternativi realisti, che evidentemente scarseggiano paurosamente in Europa, dovrebbero concentrare gli sforzi contro chi, per stupidità e mero spirito di sopravvivenza della propria specie, sta aprendo la stalla europea e chiudendo drammaticamente e ottusamente ogni via di uscita alternativa presente negli Stati Uniti, in Russia, in Cina, in India e in Africa. Il nemico, non l’avversario, lo abbiamo in casa e dalla sua sconfitta dipenderà l’esito generale dello scontro epocale in atto. Giuseppe Germinario

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Il miosaggio contrarian di ieriche esaminava gli elementi chiave dell’accordo sul “commercio e gli investimenti” tra Stati Uniti e Unione Europea, ha suscitato qualche reazione. Questo è comprensibile quando la prima reazione è quella di vedere l’accordo come una prova della capitolazione europea. “L’Europa non ha ottenuto nulla, Trump ha ottenuto tutto”, come “capitola” la von der Leyen (VDL). La mia argomentazione implicava che questo inquadramento non ha colto alcuni elementi importanti del cosiddetto accordo, che in realtà ha dato all’élite di Bruxelles ciò che desiderava in modo particolare, senza rinunciare a molto nella sostanza. E sì, il resto dell’Europa – concepito in modo più ampio – è stato abbandonato.

Le reazioni sono state di diverso tipo.

  1. Alcune reazioni hanno respinto la possibilità che VDL possa avere sufficiente astuzia o intelligenza strategica per pensare e realizzare una tale mossa.
  2. Altri non potevano immaginare che l’UE non capitolasse, punto e basta, rinunciando alle pretese di autonomia/sovranità europea e rinunciando agli interessi economici dell’Europa (in particolare in termini di impegni ad acquistare il GNL americano ad alto costo e a fare investimenti massicci negli Stati Uniti).

Questo saggio prende spunto da queste reazioni per un’analisi più approfondita, e devo ringraziare i vari lettori per i loro commenti e le loro reazioni – anche, e forse soprattutto, quelli che hanno reagito più duramente. Questo saggio procede in tre parti.

In primo luogo, esplora queste due dimensioni in modo un po’ più dettagliato.

In secondo luogo, analizza l’impegno dell’UE a spendere 750 miliardi di dollari per le forniture di difesa degli Stati Uniti. In questo modo, spero di dare ulteriori sfumature all’argomento e di suggerire che le speranze di VDL di accalappiare gli Stati Uniti probabilmente entreranno in conflitto con i limiti industriali americani e le sue ambizioni militari altrove.

Infine, introduce un altro aspetto di una serie di accordi recenti, ossia l’impegno fittizio di altri ad acquistare altri aerei Boeing. Sebbene gli impegni all’acquisto di aerei Boeing non siano emersi nelle discussioni dell’UE, essi sono stati elementi centrali degli “accordi” raggiunti altrove. Tuttavia, la situazione della Boeing conferma che in realtà questi “accordi” sono in gran parte un teatro politico, progettato per fornire “grandi numeri” che facciano notizia.

In questo modo, si sostiene che la maggior parte di questi cosiddetti impegni di acquisto e di investimento non si concretizzeranno in tempi brevi (o non si concretizzeranno affatto), ma – almeno nel caso della Boeing – contribuiscono alla realizzazione di obiettivi di finanziarizzazione piuttosto che di risultati produttivi. L’inefficacia dell’accordo commerciale e di investimento risuona in tutto l’Atlantico. Parla della priorità del teatro sulla sostanza materiale. Ma la materialità si affermerà, come è inevitabile che sia. Le promesse monetizzate non significano nulla se i sistemi industriali non sono in grado di mantenerle.

La disgiunzione tra l’inquadramento degli interessi europei da parte di Bruxelles e quelli degli Stati membri e dei cittadini dell’UE comincia a farsi sentire. Ci si chiede se non si stia arrivando a un “momento temporale” in cui lostatus quopuò essere sufficientemente scosso per far emergere un percorso europeo alternativo. In caso contrario, sotto l’attuale leadership, è destinata a diventare ciò che ho precedentemente descritto come il “capolinea” di un impero transatlantico.

Ancora sull'”affare” UE

La prima domanda che ci si pone è se la VDL sia in grado di architettare un simile approccio. La risposta breve è “chi può saperlo con certezza”.

È possibile che glieffettidell'”accordo” sono quelli che ho descritto nel pezzo originale non presuppone che siano premeditati o intenzionali. Potrebbe essere semplicemente una funzione del caso. Detto questo, il “gioco” in questione non è particolarmente complicato. Se l’imperativo principale della von der Leyen era quello di mitigare il rischio che gli Stati Uniti abbandonassero la difesa dell’Europa, allora “concedere” su tutti gli elementi “non essenziali” non è né complicato né difficile da concepire. Infatti, ironia della sorte, proprio come Trump ha usato i dazi come leva di politica non commerciale, la von der Leyen ha usato anche la concessione di dazi sulle merci dell’UE verso gli Stati Uniti come contrappeso a misure che incentivano gli Stati Uniti a impegnarsi per la sicurezza dell’Europa.

Non aveva una mano forte, ma ha giocato con quello che aveva per raggiungere un unico obiettivo: mitigare il rischio che gli Stati Uniti abbandonassero le priorità di sicurezza dell’Europa come lei – e quelli del du-umvirato di Bruxelles – vedevano le cose. In questo caso, mi riferisco sia alla Commissione europea che alla NATO. I rappresentanti di questi due organismi hanno lavorato instancabilmente per trascinare gli Stati Uniti nelle guerre europee e per rendere difficile per l’America uscirne. In una certa misura (la qualifica è qualcosa che discuto più avanti), ci è riuscita – per progetto o per caso.

In ogni caso, se la VDL non è stata astuta, la critica successiva alla VDL è che ha subordinato completamente l’Europa agli interessi americani. Ciò presuppone che gli altri elementi dell’accordo siano materialmente significativi. Se lo fossero, l’etichetta di “trattato ineguale” avrebbe un peso. Se, invece, gli altri elementi dell'”accordo” sono vuoti, allora l’accusa di capitolazione in queste ultime discussioni può sembrare vera, ma non dovrebbe essere confusa con la materialità dei loro effetti e con ciò che questo implica.

Sulle tariffe

La questione delle tariffe vede gli Stati Uniti imporre il 15% sui prodotti importati dall’UE e l’UE avere zero tariffe sui prodotti americani importati. Criticare questo presuppone che il parametro di riferimento sia l’equivalenza tariffaria. Questo significa ammettere che il quadro di reciprocità di Trump è quello che conta, ma su questioni di commercio i prezzi relativi bilaterali possono essere compresi in modo significativo solo facendo riferimento alle rispettive strutture di ciascuna economia in questione e al più ampio regime di produzione e commercio che coinvolge altre parti. Un aumento generale delle tariffe sui beni importati in America, con aliquote simili, non modifica in modo significativo le differenze di prezzo relative.

Ricominciamo dalle basi. Le tariffe aumentano i costi per le imprese e i consumatori statunitensi, non per i produttori stranieri. Quando si applica un dazio del 15% alle merci europee, l’onere ricade sulle imprese americane, che assorbono la perdita nei loro margini o la trasferiscono in prezzi più alti. In misura minore, alcuni esportatori possono anche assorbire parte dell’onere riducendo i propri costi, ma questa non è l’esperienza generale.

E soprattutto, le tariffe influenzano i modelli commerciali solo se spostano la competitività relativa. In questo caso, semplicemente, non sta accadendo. Se gli Stati Uniti impongono una tariffa del 15% sui beni dell’UE e tariffe simili sulle importazioni da altri Paesi, la posizione relativa dell’Europa non cambia. Le imprese europee non sono state escluse. Piuttosto, vengono inserite in una matrice universale di protezionismo americano. In questo contesto, le tariffe diventano un rumore di fondo, non un segnale direzionale. Tutti sono colpiti allo stesso modo, quindi nessuno è strategicamente svantaggiato. Anzi, l’Europa potrebbe addirittura guadagnarci in termini relativi, non essendo trattata peggio dei concorrenti.

Peggio ancora (dal punto di vista di Washington), i tassi di cambio potrebbero adeguarsi. Se le tariffe statunitensi riducono i ricavi delle esportazioni dell’UE o la domanda esterna, è probabile che l’euro si indebolisca rispetto al dollaro, compensando completamente l’impatto delle tariffe. Una tariffa del 15% potrebbe essere semplicemente contrastata da un deprezzamento del 10% della valuta, lasciando invariati i prezzi effettivi in termini di dollaro. Il tasso overnight UE-USA ha mostrato un deprezzamento dell’euro. Vediamo se questo rimane in vigore per un periodo significativo.

Consideriamo ora la giustificazione principale delle tariffe, ovvero l’idea che esse incentivino le aziende a rilocalizzare la produzione negli Stati Uniti. Questa teoria dipende da una semplice equazione: la penalizzazione dei costi indotta dalle tariffe deve essere maggiore dello svantaggio di operare negli Stati Uniti. Ma è improbabile che questa equazione sia valida ai livelli tariffari emergenti del 15-20%. Nella maggior parte dei settori, in particolare quello manifatturiero, lo svantaggio in termini di costi di operare negli Stati Uniti rispetto ai centri di produzione offshore può facilmente superare il 30-40%, se si tiene conto dei salari, dei costi dei terreni, della conformità e delle spese generali di regolamentazione. Una tariffa del 15% non colma questo divario.

In effetti, abbiamo uno squilibrio tra l’entità della sanzione e quella dell’incentivo. La tariffa è abbastanza alta da interrompere le catene di approvvigionamento e danneggiare i margini di profitto, ma non abbastanza da rendere il reshoring economicamente conveniente.

E anche se i numeri funzionassero, il premio per il rischio politico di investire negli Stati Uniti è aumentato notevolmente. La percezione che la politica commerciale e industriale americana sia irregolare, politicamente motivata e di breve durata è ormai profondamente radicata. Per molte aziende, la risposta logica non è quella di trasferirsi negli Stati Uniti, ma di diversificarsi completamente. Come minimo, le aziende potrebbero semplicemente cercare di aspettare i prossimi anni e vedere se le cose si sistemano dopo Trump.

Il risultato è un regime tariffario che non raggiunge nessuno degli obiettivi dichiarati. Non rende l’industria statunitense più competitiva. Non induce il reshoring. Non sposta i flussi commerciali in modo strategico. Piuttosto, aumenta i costi interni, erodendo il potere d’acquisto. Crea incertezza nelle catene di approvvigionamento globali, nella misura in cui sono esposte ai capricci della politica americana, il che contribuisce a minare la credibilità dell’America come partner economico stabile.

Detto questo, l’effetto di un’aliquota tariffaria fissa varierà da settore a settore e da linea di prodotto a linea di prodotto. Questa è l’inevitabile conseguenza dell’applicazione di strumenti spuntati come questo a contesti altamente variabili. Non sorprende quindi che alcuni settori dell’UE abbiano reagito a gran voce contro l’accordo tariffario, e il più ovvio è laFederazione delle industrie tedesche. Paradossalmente, i lavoratori americani del settore auto e le case automobilistiche hanno criticato l’accordo tariffario raggiunto con il Giappone. È probabile che si verifichino oscillazioni e aggiustamenti, il che è ben lontano dalla “reciprocità tariffaria” come punto di riferimento economico significativo.

Sul GNL

Se la questione delle tariffe produce effetti discontinui, le promesse sul GNL sono palesemente irrealistiche e vuote.

In primo luogo, possiamo notare che la domanda di gas dell’UE èè diminuita del 18% dal 2021, riducendo le importazioni complessive.. L’iniziativa REPowerEUmira a eliminare il gas russo(gasdotto + GNL) entro il 2027. In questo contesto, nel 2024 gli Stati Uniti saranno il principale fornitore di GNL dell’UE, seguiti da Russia, Qatar e Algeria. GliGli Stati Uniti rappresentano circa il 45-50% delle importazioni di GNL dell’UE.. Seguono la Russia (15-18%), il Qatar (~11%), l’Algeria, la Nigeria e la Norvegia.Algeria, Nigeria e Norvegia contribuiscono con quote minori.. Gli Stati Uniti.è salita al 50,7% nel primo trimestre del 2025.con la Russia che fornisce ~17% e il Qatar ~10,8%. In termini di volume, ciò si traduce in quanto segue:

  • Stati Uniti ~50-56bcm;
  • Russia ~7-20bcm;
  • Qatar ~11-12bcm; e
  • Altri ~20-25bcm.

Per stimare i valori in dollari rispetto a questi volumi, i prezzi tipici del GNL nel 2024 sono compresi tra 30-40 euro per MWh (≈ 32-43 dollari/MWh). Con 112 bcm ≈ 112 miliardi di m³ ≈ 84 milioni di tonnellate (conversione approssimativa), e l’equivalente in MWh, si ottiene quanto segue:

  • 1 m³ ≈ 10,55 kWh, che si traduce in 112 bcm ≈ 1.181 TWh, con il risultato di 1.181 miliardi di kWh / 1 MWh = ~1.181 TWh.
  • A 40 $/MWh che si traduce in circa 47 miliardi di dollari totali nel 2024.

In alternativa, anche le stime dell’industria si allineano:L’UE ha speso 6,3 miliardi di euro solo per il GNL russo fino al 2024.(~21 bcm). Si arriva quindi alle seguenti stime di equivalenti finanziari per ciascuno dei principali fornitori di GNL all’Europa:

  • Importazioni totali di GNL: ~112 bcm per un valore di ≈ 45-50 miliardi di dollari nel 2024;
  • Dagli Stati Uniti (45-50 %): ~50 bcm, per un valore di ≈ 20-25 miliardi di dollari;
  • Dalla Russia (15-18 %): ~17-20 bcm, per un valore di ≈ 6-8 miliardi di dollari;
  • Dal Qatar (~11 %): ~12 bcm, per un valore di ≈ 4-5 miliardi di dollari; e
  • Altri (20-25 %): ~22-28 bcm, per un valore di ≈ 10-12 miliardi di dollari.

L’accordo commerciale energetico tra Stati Uniti e Unione Europea prevede obiettivi ambiziosi (ad esempio, 250 miliardi di dollari all’anno di acquisti energetici). Tuttavia, come me, altri – come riportato daReuters– hanno messo in dubbio la fattibilità, data la capacità attuale. L’obiettivo di 250 miliardi di dollari annui di scambi energetici tra Stati Uniti e Unione Europea è fondamentalmente irrealizzabile, sia per motivi strutturali legati all’offerta che per motivi legati alla domanda.

Per quanto riguarda l’offerta, ovvero la capacità di GNL degli Stati Uniti, esistono vincoli reali lungo l’intera catena di approvvigionamento. Iniziamo con i vincoli relativi alle materie prime competitive dal punto di vista dei costi. Le esportazioni di GNL negli Stati Uniti dipendono dal gas naturale proveniente dai giacimenti di scisto (principalmente Permian e Haynesville). La produzione nazionale di gas si è stabilizzata o ha rallentato la crescita a causa della pressione degli investitori per la disciplina del capitale e dei venti contrari della regolamentazione. Non c’è un surplus significativo che possa sostenere un raddoppio o una triplicazione delle esportazioni di GNL, nonostante l’aggiunta di capacità (Golden Pass, Plaquemines e Corpus Christi Stage III). Ci sono anche colli di bottiglia nella liquefazione e nel carico. La capacità di liquefazione degli Stati Uniti è esaurita. Nel 2024, la capacità operativa sarà di circa 14 miliardi di piedi cubi al giorno (Bcf/d) (≈ 145-150 bcm/anno). Le espansioni previste (ad esempio, Golden Pass e Plaquemines) non entreranno in funzione su scala fino al 2026-2028, e anche in quel caso non raggiungeranno i volumi impliciti di 250 miliardi di dollari all’anno. A questo si aggiungono i vincoli di trasporto. Il GNL richiede navi cisterna criogeniche specializzate (Q-Flex, Q-Max, ecc.) e c’è già una carenza globale di navi metaniere. Le tariffe di noleggio sono elevate e la pipeline di costruzione è in arretrato. Anche se la fornitura statunitense fosse disponibile, non ci sono abbastanza navi cisterna per trasferirla in Europa. Infine, sia negli Stati Uniti che nell’UE vi sono limitazioni in termini di infrastrutture dei terminali. Molti terminali di rigassificazione dell’UE operano vicino alla capacità. Le nuove unità di rigassificazione galleggianti (FSRU) sono utili, ma non possono assorbire centinaia di bcm aggiuntivi da un giorno all’altro.

Per quanto riguarda la domanda, esistono anche vincoli materiali. Come si è detto, dal 2021 la domanda di gas nell’UE è diminuita del 18% circa. Ciò è dovuto alla contrazione industriale, all’aumento dell’efficienza energetica e alla sostituzione con le energie rinnovabili. Le importazioni di GNL sono diminuite di 22 miliardi di metri cubi solo nel 2024. C’è anche la saturazione degli stoccaggi. Lo stoccaggio di gas in Europa è stagionalmente pieno entro l’autunno. Ulteriori acquisti di GNL resterebbero inutilizzati o deprimerebbero ulteriormente i prezzi di mercato, rendendoli commercialmente non convenienti. La sensibilità ai prezzi dei mercati europei solleva inoltre seri dubbi sulla capacità del mercato UE di assorbire le presunte forniture americane aggiuntive. A ~10-12$/MMBtu, gli acquirenti dell’UE non possono permettersi di bloccare grandi volumi a lungo termine senza la certezza della domanda. Gli acquirenti industriali esitano a firmare contratti a lungo termine. L’incertezza sulle politiche di decarbonizzazione e il timore di incagliare gli asset, oltre alla disponibilità di alternative più economiche come il gasdotto norvegese e le fonti rinnovabili, contribuiscono a smorzare l’entusiasmo per i contratti a lungo termine. Infine, ma non meno importante, l’attuale politica energetica dell’UE mira a eliminare gradualmente il gas, compreso il GNL, entro la metà degli anni 2030. Impegnarsi in grandi volumi di GNL dagli Stati Uniti è in contraddizione con gli obiettivi di zero netto e di indipendenza energetica, creando ancora una volta incertezza nel mercato per le decisioni aziendali.

L’ipotesi che la von der Leyen non fosse a conoscenza della realtà del mercato del GNL sembra alquanto fantasiosa. Il fatto che abbia poi affermato che gli Stati Uniti offrono il GNL migliore e più economico (quando è dimostrabile che è più costoso del gas russo) può far pensare che sia fuori dalla sua portata su questi temi. Forse. Più caritatevolmente si potrebbe adottare una difesa ispirata a Trump: è solo un’iperbole d’effetto. In ogni caso, poco importa se conosce o meno lo stato delle esportazioni di GNL dagli Stati Uniti o la realtà dei vincoli del settore e della catena di approvvigionamento. Come ho discusso nel pezzo originale, il problema non riguarda le intenzioni di acquisto, ma la capacità fisica. Questa non è sufficiente a soddisfare gli importi di spesa previsti, a meno che non si verifichi un aumento significativo dei prezzi.

Sugli investimenti

Per quanto riguarda la questione degli “investimenti”, come per il cosiddetto accordo con il Giappone, ci sono pochi dettagli significativi che possano aiutare a dare un senso all’impegno. Proprio come nel caso del Giappone, l’UE guadagna ingenti dollari grazie al suo surplus commerciale con gli Stati Uniti, che anima le costernazioni di Trump. Questi dollari devono essere riciclati e lo sono. Gran parte di questi va in obbligazioni statunitensi.

Se il cosiddetto “accordo” sugli investimenti dovesse spostare i dollari detenuti dall’UE in altre attività americane, ci sono pochi dettagli su come ciò avverrà, per non parlare di come potrebbe essere applicato. La vacuità della “promessa” di VDL è confermata danotizieche l’UE ha ammesso di non poter garantire la consegna dei 600 miliardi di dollari perché questi devono provenire dal settore privato. Per quanto riguarda il fatto che sia un contentino per Trump, è del tutto chimerico.

Un commento su Interessi

Ora, tutto questo rende von de Leyen più o meno un vassallo americano? La mia tesi è che nulla di tutto ciò è contrario a questa configurazione fondamentale, anche se forse la nozione di potenza subimperialepotenza subimperiale– come introdotto da Clinton Fernandes per descrivere il rapporto dell’Australia con gli Stati Uniti – è più appropriato. In ogni caso, qualunque sia l’etichetta, l’affermazione che Bruxelles vede gli interessi europei come fondamentalmente allineati al soddisfacimento degli interessi americani, in modo da mantenere gli Stati Uniti impegnati con l’Europa su questioni di sicurezza, non è incoerente con l’argomentazione parallelamente avanzata sopra e nel pezzo originale, secondo cui la VDL non ha finito per rivelare molto che fosse di significato materiale (piuttosto che teatrale/simbolico).

A parte l’osservazione sullo status subimperiale dell’UE, possiamo fare altre due osservazioni. In primo luogo, se l’interesse dei responsabili di Bruxelles era principalmente legato al rischio che gli Stati Uniti abbandonassero la sicurezza dell’Europa, allora il calcolo era semplice: tutto il resto può e deve essere subordinato al mantenimento dell’implicazione americana nelle questioni di sicurezza europee. La capitolazione agli Stati Uniti su questioni ritenute secondarie ha permesso alla von der Leyen di ottenere l’unica cosa che le interessava. Il fatto che questa “cosa” possa essere contraria ad altri interessi europei non invalida il fatto che la von der Leyen abbia ottenuto ciò cheleivoleva.

Naturalmente questo mette in evidenza la natura degli “interessi europei”, come questi vengono inquadrati e rifratti attraverso le varie priorità specifiche degli Stati membri. Così, mentre Bruxelles – attraverso la von der Leyen – può aver dato priorità all’impegno degli Stati Uniti nei confronti delle questioni di sicurezza europee attraverso promesse di vario tipo, non tutti gli Stati membri vedranno le cose in questo modo. Infatti, sia il Primo Ministro francese che la Federazione delle industrie tedesche si sono espressi contro l’accordo. In alcuni ambienti europei è evidente e palpabile la rabbia per quello che viene visto come un tradimento degli interessi europei da parte di VDL.

Comprare dal MIC statunitense

La promessa di aumentare gli ordini dal complesso militare industriale statunitense è stata una delle caratteristiche principali dell'”accordo”. Questo ha fatto leva su tutto ciò che si sa di Trump, e non sorprende che abbia funzionato. La mia argomentazione iniziale è che questo impegno vincola effettivamente gli Stati Uniti agli interessi di sicurezza dell’Europa per molto tempo a venire; semmai, la riflessione che segue suggerisce che questo vincolo è discutibile a causa dei limiti di capacità associati al sistema militare industriale americano.

Von der Leyen ha promesso che nei prossimi anni l’Europa effettuerà nuovi ordini netti per 750 miliardi di dollari alle aziende americane del settore della difesa. Non sono state fornite tempistiche.

Il problema di questa promessa? È un miraggio. La base industriale della difesa degli Stati Uniti sta già funzionando ad alta capacità. Le commesse per il futuro – soprattutto per il Dipartimento della Difesa (DoD) americano – hanno già fatto sentire il loro peso sulla produzione futura. Se la NATO e l’UE si accodano ora con nuovi ordini massicci, di fatto escludono le ambizioni strategiche americane nell’Indo-Pacifico. Un sistema di produzione progettato per acquisti incrementali non può semplicemente scalare al ritmo o al volume immaginato. Il risultato è una collisione incombente tra la domanda globale apparente e la realtà industriale.

Cominciamo con i fatti. I sei principali appaltatori statunitensi del settore della difesa – Lockheed Martin, RTX (Raytheon), Northrop Grumman, General Dynamics, Boeing e L3Harris – generano complessivamente oltre 270 miliardi di dollari di fatturato annuo (2024), la maggior parte dei quali proviene da contratti governativi statunitensi. La Lockheed Martin, la più grande di tutte, ha avuto un fatturato di circa 71 miliardi di dollari nel 2024, di cui circa il 65% legato direttamente al Pentagono e circa il 26% derivante dalle esportazioni, soprattutto verso gli alleati attraverso le Foreign Military Sales.

Queste aziende non sono inattive. La maggior parte è già al completo con anni di anticipo. Il portafoglio ordini della Lockheed supera i 150 miliardi di dollari e altri hanno code pluriennali simili. Che si tratti di jet da combattimento, missili di precisione, sistemi di difesa aerea o sottomarini, le linee di produzione sono a pieno regime. In molti casi, i tempi di consegna variano da 18 mesi a cinque anni, e questo senza un nuovo aumento della domanda globale.

Ora entra in gioco la nuova promessa europea. Di fronte al duplice shock della guerra russa in Ucraina e dell’erosione della fiducia nelle garanzie americane a lungo termine, i Paesi dell’UE e della NATO stanno correndo per modernizzare ed espandere i propri arsenali. Tuttavia, la maggior parte di essi non dispone di un’industria della difesa nazionale sufficientemente solida da essere in grado di produrre rapidamente. La risposta? Comprare americano. La Germania sta già acquistando F-35. La Polonia sta acquistando carri armati HIMARS e Abrams. I Paesi baltici vogliono più Javelin. Il Regno Unito sta aumentando gli ordini di difesa aerea di fabbricazione statunitense. Questo è solo l’inizio.

Alla vigilia dell’incontro Trump-VDL, gli europei avevano concordato di creare fondi per la militarizzazione che avrebbero finanziato l’espansione industriale nazionale. Poiché il Regno Unito non fa formalmente parte dell’UE, gli è stato detto che gli sarebbe stata addebitata una tassa per partecipare alla prevista espansione del fabbisogno europeo. Tutto questo era un teatrino. La capacità industriale europea non avrebbe mai potuto soddisfare le ambizioni. Ma ha creato un’atmosfera che ha fatto sì che Washington ne prendesse atto. L’idea che l’UE o i suoi membri possano espandere la spesa per la difesa, ma che gli Stati Uniti ne siano esclusi, non è stata accolta con favore all’interno della Beltway.

In ogni caso, l’offerta di acquistare ulteriori 750 miliardi di dollari di materiale per la difesa dagli Stati Uniti ha placato Trump e qualsiasi preoccupazione residua che Washington potesse avere di “perdersi”. Se le ambizioni europee si tradurranno in 750 miliardi di dollari di nuovi ordini da parte delle aziende statunitensi nel prossimo decennio, si aggiungeranno agli attuali acquisti degli Stati Uniti, che a loro volta si stanno espandendo a causa delle crescenti tensioni con la Cina. Ciò significa che gli ordini europei saranno in diretta concorrenza con la strategia indo-pacifica dell’America.

Il perno del Pentagono verso l’Asia si basa molto sulla sua capacità di dispiegare sistemi avanzati – caccia, sottomarini, ipersonici, fuochi a lungo raggio – in nome della deterrenza nei confronti della Cina. Ma questi sistemi sono costruiti dalle stesse aziende a cui ora si chiede di rifornire l’Europa su larga scala. A differenza delle economie di guerra degli anni ’40, oggi la produzione di difesa è ad alta tecnologia, strettamente regolamentata e difficile da scalare. Gli Stati Uniti non dispongono più di migliaia di fabbriche inattive che possono essere convertite da un giorno all’altro. Né hanno un’eccedenza di manodopera qualificata, di materiali rari o di catene di fornitura integrate.

Anche un ipotetico afflusso di 750 miliardi di dollari di nuovi ordini da parte degli alleati della NATO si scontrerebbe con colli di bottiglia produttivi pluriennali. Non si tratta di beni commerciali che possono essere affrettati. Le piattaforme d’arma comportano un’ingegneria complessa, un rigoroso controllo di qualità, lunghi cicli di collaudo e, in molti casi, controlli sulle esportazioni o restrizioni di sicurezza che rallentano l’integrazione nelle forze armate straniere. Molti sottosistemi critici – avionica, propulsione, guida – provengono da subappaltatori poco diffusi che operano a loro volta ai margini.

Inoltre, gli appaltatori statunitensi del settore della difesa non sono incentivati a incrementare bruscamente la produzione. In quanto società quotate in borsa, preferiscono margini stabili e prevedibili a una domanda volatile e basata su picchi. Le impennate della domanda generano carenze che fanno salire i prezzi, ma lasciano sostanzialmente inalterato il volume complessivo. A meno che i governi non siano disposti ad assumersi completamente i rischi della capacità inutilizzata, il settore privato non investirà miliardi in un’espansione speculativa. Né è probabile che il Pentagono permetta ai suoi principali fornitori di dare priorità agli ordini europei rispetto ai requisiti statunitensi. È proprio questo il dibattito in corso sul fatto che gli Stati Uniti possano permettersi di consegnare sottomarini all’Australia, dati i limiti di produzione.

Questo ci porta a un dilemma strategico: l’America non può armare contemporaneamente l’Europa e l’Asia nella misura prevista. Qualcosa deve cedere.

Se gli Stati Uniti continuano a espandere le proprie forniture, impegnandosi al contempo a fungere da arsenale primario per l’Europa, rischiano di diluire la propria attenzione strategica e di minare la deterrenza nell’Indo-Pacifico. Al contrario, se le aziende statunitensi danno priorità agli ordini europei per ottenere entrate a breve termine, potrebbero lasciare l’America esposta proprio nel teatro in cui sostiene che si deciderà il futuro dell’ordine globale.

La realtà materiale ha l’ultima parola. I vincoli evidenti nel sistema militare industriale statunitense non sono i soli. Sono evidenti anche in un’altra componente chiave di altri accordi commerciali conclusi nelle ultime settimane: l’impegno di vari Paesi ad acquistare più aerei Boeing.

Sulla Boeing

I recenti annunci di Trump – che hanno fatto parlare di “ordini” di aerei dall’Arabia Saudita, dal Qatar, dall’Indonesia e dal Giappone – sono stati presentati come trionfi della capacità di concludere accordi. Questi impegni fittizi, che secondo quanto riferito riguardano oltre 350 aerei Boeing, sono stati presentati come vittorie per la produzione, l’occupazione e la diplomazia americana.

Ma se si toglie la spettacolarizzazione, ciò che emerge non è una rinascita del settore manifatturiero, bensì lafinanziarizzazionedelle promesse industriali. È improbabile che questi accordi, in gran parte sotto forma di memorandum d’intesa (MOU) non vincolanti, vengano realizzati durante il mandato di Trump o anche negli anni immediatamente successivi. L’attuale arretrato di quasi 5.000 aerei della Boeing richiederebbe già più di un decennio per essere smaltito a pieno regime.

Qual è il punto?

Questi “accordi” non riguardano la consegna. Si tratta divalutazione. Si tratta diasset narrativi– costrutti finanziari orientati al futuro che possono essere sfruttati oggi per rafforzare la liquidità, l’affidabilità creditizia o il capitale politico di un’azienda. E nel frattempo i titoli dei giornali sono un ottimo teatro politico.

L’arretrato – anche quando non è contrattualmente esecutivo – diventa uno strumento finanziario, che consente all’azienda di raccogliere debiti, strutturare finanziamenti o emettere titoli garantiti da attività basati sulla promessa implicita di entrate future.

Dagli ordini agli strumenti

Boeing, come molte grandi aziende industriali, non registra questi MOU come entrate o attività di bilancio. Ma questo non significa che siano privi di significato in termini finanziari. Svolgono un ruolo sottile ma potente nell’architettura finanziaria di Boeing.

I backlog, una volta sufficientemente “solidi”, servono spesso come giustificazione economica per gli accordi di finanziamento. Il debito strutturato può essere costruito sulla base delle entrate future previste. I pre-pagamenti dei clienti possono essere registrati come passività che compensano la liquidità corrente, mentre le attività di produzione convertono le promesse narrative in attività come l’inventario e i crediti. Anche quando i contratti non procedono, la semplice presenza di un accordo politicamente approvato può ungere le ruote della finanza.

Ciò non è dissimile dalle operazioni sfortunate di Greensill Capital, che forniva finanziamenti a fronte di vendite future previste, ma non realizzate. La differenza sta nella scala e nell’approvazione. Mentre il modello di finanziamento di Greensill è crollato sotto il peso di ipotesi sbagliate, i protocolli d’intesa Trump-Boeing sono sostenuti dalla legittimità del teatro politico e dal sostegno sistemico dei mercati finanziari affamati di rendimento.

Il capitalismo nell’era dell’anticipazione

Quello che Trump ha favorito non è un rinnovamento industriale, ma un caso da manuale diaccumulazione finanziarizzata. In questo regime, la produzione economica reale diventa secondaria rispetto alla circolazione di crediti finanziari su flussi di reddito futuri attesi – e spesso speculativi. Lo Stato svolge un ruolo cruciale di supporto. Non si limita a deregolamentare, macostruirel’impalcatura dei mercati finanziari trasformando lo spettacolo politico in una garanzia finanziaria utilizzabile.

È questo che rende gli “accordi” Trump-Boeing così rivelatori. Sono privi di contenuti industriali a breve termine, ma ricchi di utilità finanziaria. I memorandum d’intesa non impegnano Boeing a rispettare i tempi di consegna, né rappresentano contratti esecutivi che attivano il riconoscimento dei ricavi. Ma possono ancora essere utilizzati per strutturare il debito, rassicurare i creditori, sostenere i prezzi delle azioni e fornire liquidità alla Boeing proprio perché il capitalismo finanziario non richiede più risultati tangibili. Richiedenarrazioni credibili.

Il caso della Boeing non riguarda solo un’azienda o un ex presidente. Si tratta della mutazione in corso del capitalismo stesso, in cui i giganti della produzione vengono valutati meno in base a ciò che costruiscono e più in base a come monetizzano il loro futuro. L’economia reale diventa un palcoscenico per la produzione simbolica, mentre gli strumenti finanziari si nutrono di speculazione. Gli accordi di Trump con i Boeing non sono falsi. Sono probabilmente peggiori:finanziariamente reali ma materialmente vuoti. Sono l’esempio di un sistema in cui le promesse industriali sono utilizzate come armi per l’ingegneria dei bilanci e le figure politiche giocano il ruolo di intermediari non per ottenere risultati, ma per creare l’apparenza di attività che possono essere valutate e scambiate.

Se la Boeing consegnerà mai quei 350 aerei, sarà un miracolo della produzione. Ma allo stato attuale, la vera consegna sta già avvenendo, non sulle piste o sulle catene di montaggio, ma nei dipartimenti di finanza strutturata delle banche d’investimento e negli algoritmi speculativi del capitale globale.

L’inutilità di Pirro di accordi immaginari.

Cosa lega in definitiva questi fili? L’impegno di spesa dell’UE per la difesa, le promesse di investimento che non possono essere applicate, i teatrali “ordini” di Trump per i Boeing e le manovre e le offerte dell’élite di Bruxelles per l’acquisto di GNL americano nonostante i vincoli materiali; è la crescente divergenza tra spettacolo politico e realtà materiale. L’intera serie di accordi di Trump appare sempre più vuota. Sono pieni di grandi numeri ma poveri di dettagli. Sono distaccati dai vincoli dei sistemi reali e spesso comportano costi strategici di opportunità che sono in contrasto con altre priorità americane. In molti casi si tratta di vittorie di Pirro.

Dal punto di vista della von der Leyen, la logica è chiara: ha giocato una mano limitata e ha ottenuto ciò che desiderava di più, ossia un continuo impegno americano per la sicurezza in Europa. Secondo i suoi calcoli, cedere su questioni secondarie come le alte tariffe sulle esportazioni dell’UE, le tariffe zero sulle merci statunitensi, un’offerta di investimento non realizzabile, un impegno sul GNL che sfida la realtà e un simbolico ordine militare futuro di 750 miliardi di dollari era un prezzo tattico che valeva la pena di pagare per legare gli Stati Uniti all’architettura di difesa dell’Europa.

Ma questa strategia, se c’è stata, è costruita su fondamenta fragili. Se non c’era una strategia e tutto è avvenuto per caso, allora gli americani sono più ingenui. L’ipotesi che queste promesse si trasformino in una leva reale ignora i limiti strutturali della base industriale della difesa statunitense. Gli appaltatori americani sono già sotto pressione, le loro pipeline di produzione sono state rivendicate per anni, i loro incentivi sono legati più alla crescita del portafoglio ordini che alle consegne effettive.

Peggio ancora, la mossa politica della von der Leyen ha messo in luce la fragilità del consenso europeo. Le forti reazioni del Primo Ministro francese e della Federazione delle industrie tedesche sottolineano quanto sia sottile il mandato di Bruxelles. Se da un lato la von der Leyen si è assicurata l’attenzione degli americani, dall’altro ha approfondito le fratture all’interno dell’UE subordinando gli interessi economici e strategici dei principali Stati membri a una visione centralizzata e altamente contestabile.

L’offerta di GNL non fa che amplificare l’irrealtà. È più che probabile che Bruxelles sappia che gli Stati Uniti non possono fornire i volumi di gas promessi a prezzi competitivi. L’idea che il GNL statunitense sia “più economico e migliore” è puro teatro. In pratica, l’Europa continuerà ad acquistare gas da un’ampia gamma di fornitori, compresa, silenziosamente, la Russia. Le dimensioni energetiche dell’accordo sono quindi simboliche, non strutturali.

Nel frattempo, le “vittorie” di Trump – massicce esportazioni di prodotti per la difesa e centinaia di vendite di aerei Boeing – non sono più reali. Gli ordini di aeromobili sono perlopiù protocolli d’intesa inapplicabili, che difficilmente si concretizzeranno entro un decennio. Servono invece come asset narrativi, strumenti di valutazione, di finanziamento e di comunicazione politica. E gli ordini di difesa promessi dall’Europa? Potrebbero non raggiungere mai le fabbriche americane in quantità significative. Anche se lo facessero, stresserebbero un sistema già sull’orlo del baratro. In questo senso, anche le vittorie di Trump sono di Pirro. Guadagna i titoli dei giornali, ma siede su un settore della difesa che non può dare risultati, su un panorama strategico sempre più incoerente e su una base industriale che si affatica sotto il peso della sua stessa inflazione simbolica. L’intera vicenda mette in luce il fallimento non solo del coordinamento transatlantico, ma anche della capacità svuotata della produzione americana e delle disfunzioni della politica finanziarizzata.

Su entrambe le sponde dell’Atlantico, e altrove, questi accordi riflettono una realtà preoccupante: stiamo scambiando gli annunci per i risultati, il ritardo per la capacità e la narrazione per la sicurezza. La vera consegna in questo ciclo non sono armi, gas o aerei. Si tratta invece di titoli di giornale, leva finanziaria e illusioni politiche. Queste illusioni possono essere redditizie nel breve periodo. Ma sono fragili. E quando arriva il momento della consegna – non delle promesse, ma della capacità – potrebbero non reggere.

Questo “accordo”, che ha provocato reazioni rabbiose in varie parti d’Europa, si tradurrà in un’azione politica significativa e in un cambiamento? Se le priorità di Bruxelles – la sua concezione dell’interesse europeo – sono in contrasto con quelle degli Stati membri e dei cittadini in generale, allora forse – solo forse – stiamo raggiungendo quella che Walter Benjamin chiama una “rottura temporale”, un momento in cui le masse superano la loro insensibilità e la loro serialità intorpidita e trovano un modo per fare breccia.

È una domanda per entrambe le sponde dell’Atlantico.

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Il grande intreccio, di Warwick Powell

Il grande intreccio

Il colpo di grazia europeo che lega per sempre gli Stati Uniti alla sicurezza europea

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Warwick Powell

28 luglio 2025

Nel mondo dell’alta politica e del teatro geopolitico, la percezione conta spesso più della realtà. E nessuno gioca a questo teatro meglio di Donald Trump. La scorsa settimana, Trump e la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen sono usciti da un incontro ricco di foto, pubblicizzando una serie di accordi economici e di sicurezza “storici”. Il Presidente degli Stati Uniti si è vantato di centinaia di miliardi di investimenti europei, contratti energetici e acquisti di armi; un accordo così unilaterale che sembrava che l’Europa avesse semplicemente ceduto la propria autonomia strategica per conquistare “papà”.

Ma se si guarda al di sotto della pomposità, emerge un quadro diverso. Paradossalmente, non si tratta di una debolezza europea in sé (o di un vassallaggio, come sarebbero tentati di dire gli europei che provano disgusto per se stessi), ma di una strategia europea di intrappolamento da una posizione di relativa debolezza. Semmai, questo “accordo” inserisce gli Stati Uniti più profondamente nell’architettura economica e di sicurezza dell’Europa, non il contrario. E lo fa utilizzando l’unica cosa a cui Trump non può resistere: l’illusione di vincere.

L’adulazione funziona e l’Europa ha irretito gli Stati Uniti nelle sue priorità di sicurezza per gli anni a venire.

Gli impegni principali

L’accordo, così com’è, consiste in quattro pilastri fondamentali:

  1. Tariffe del 15% sulle esportazioni dell’UE negli Stati Uniti, in cambio del mantenimento di tariffe zero sulle importazioni statunitensi;
  2. 600 miliardi di dollari di investimenti europei negli Stati Uniti;
  3. “Centinaia di miliardi di dollari” in acquisti di armi da parte degli Stati Uniti e
  4. 750 miliardi di dollari di importazioni di GNL nei prossimi tre anni (250 miliardi di dollari all’anno).

A prima vista, sembra una capitolazione geopolitica. Ma la matematica e la logistica raccontano una storia molto diversa.

GNL: La realtà si oppone

Cominciamo con il numero più audace: 750 miliardi di dollari di acquisti di GNL in tre anni. Nel 2024, l’UE ha importato circa 45 miliardi di metri cubi (bcm) di GNL statunitense, per un valore di circa 16-19 miliardi di dollari. Solo nella prima metà del 2025, l’UE ha importato altri 46,5 miliardi di metri cubi, arrivando a quasi 93 miliardi di dollari per l’intero anno; ciò equivale a circa 33-39 miliardi di dollari, ipotizzando prezzi di mercato di 10-12 dollari/MMBtu.

In breve, l’UE dovrebbe aumentare il volume e/o il prezzo di oltre sei volte per raggiungere l’obiettivo annuale di 250 miliardi di dollari. Questo non è lontanamente fattibile. I terminali di esportazione di GNL e la capacità di trasporto degli Stati Uniti sono già esauriti. L’infrastruttura di rigassificazione europea è in affanno. Non c’è abbastanza capacità inutilizzata, su entrambe le sponde dell’Atlantico, per soddisfare un simile accordo.

Eppure, la promessa è stata fatta. La Von der Leyen sa che non è in grado di mantenerla, quindi è stata una promessa facile da fare.

In pratica, questo significa un consolidamento a lungo termine del commercio energetico tra Stati Uniti e Unione Europea. Vincola gli esportatori americani di GNL alla domanda europea per gli anni a venire. Blocca il settore energetico statunitense in dipendenze logistiche, finanziarie e di prezzo transatlantiche, escludendo al contempo altri potenziali acquirenti (in particolare in Asia) e distraendo Washington dallo sviluppo di una strategia energetica veramente globale.

Per quanto riguarda gli Europei, questa situazione, con il passare del tempo, potrà effettivamente fornire loro una certa leva. Nel settore dell’energia, la dipendenza si estende in entrambi i sensi. Il rischio per l’UE è che questi accordi possano scoraggiare la creazione di partenariati energetici al di fuori degli Stati Uniti – dal Nord Africa, all’Asia centrale, o persino alla rete di idrogeno verde della Cina.

Acquisti di armi: Una garanzia di sicurezza a senso unico

Sul fronte della difesa, l’impegno dell’UE ad acquistare “centinaia di miliardi di dollari” di equipaggiamenti militari statunitensi consolida ulteriormente il complesso industriale transatlantico. I membri europei della NATO stanno già aumentando la spesa per la difesa, ma destinarla quasi interamente ai sistemi statunitensi – F-35, batterie Patriot e HIMARS – non è solo una decisione di acquisto. È un blocco strategico.

Impegnandosi a fornire armi agli Stati Uniti, l’Europa si assicura che la base militare-industriale americana sia profondamente legata ai bilanci, alle politiche e ai cicli di approvvigionamento europei. Anche se Trump, o qualsiasi altro futuro presidente, volesse “uscire dall’Europa”, l’industria degli armamenti statunitense ha ora tutte le ragioni per continuare a fare pressioni per una politica incentrata sull’Europa. Con i miliardi sul tavolo, la sicurezza diventa una garanzia a senso unico: L’Europa paga, gli Stati Uniti restano. Questa è in realtà una “vittoria” per von der Leyen quanto per Trump.

Allo stesso tempo, l’Europa evita il duro lavoro di costruire la propria base industriale o di coordinare serie iniziative di produzione congiunta. L’incentivo a perseguire una vera autonomia strategica svanisce. Questo è senza dubbio motivo di preoccupazione per molti europei, ma dal punto di vista della von der Leyen, questo non è un problema. Coinvolgere gli Stati Uniti nelle priorità di sicurezza europee è stato e rimane l’obiettivo più importante per loro.

Investimenti e specchi

Poi ci sono i misteriosi 600 miliardi di dollari di investimenti europei. Non ci sono scadenze, né meccanismi di esecuzione o di controllo, né settori identificati. Molto probabilmente, questo “impegno” è poco più di un riconfezionamento dei flussi di capitale in corso, ovvero imprese con sede nell’UE che acquistano obbligazioni, azioni o forse stabilimenti statunitensi per evitare i dazi.

In realtà, si tratta solo del riciclaggio da parte dell’UE delle eccedenze di dollari generate dal commercio con gli Stati Uniti e con gli altri mercati dollarizzati. Non ci sono nuovi investimenti netti. Si tratta solo di un’operazione politica di facciata. Ma l’effetto iperbolico è potente. Crea l’apparenza di una vittoria transazionale per Trump.

Le analogie con il disfacimento dell'”accordo” con il Giappone sono sorprendenti.

Tariffe doganali: Uno strumento senza denti che fa più male all’America.

Il titolo di apertura sulle tariffe – 15% sui beni dell’UE esportati negli Stati Uniti, con l’impegno da parte dell’UE di azzerare le tariffe sui beni statunitensi – è in gran parte irrilevante. Le tariffe sono pagate dagli importatori, non dagli esportatori. Quindi il costo è sostenuto dai consumatori e dalle imprese americane, non dai produttori europei.

Inoltre, questa struttura tariffaria è più o meno in linea con quanto proposto da Trump per gli altri partner commerciali. Il fatto che l’UE non riceva un trattamento peggiore rispetto agli altri è di per sé una piccola vittoria: preserva la competitività relativa. In altre parole, l’UE si comporta come se avesse concesso qualcosa, pur non perdendo nulla di rilevante.

Ad un occhio inesperto, questo sembra un caso da manuale della strategia “America First” di Trump. In pratica, però, si tratta di un autogol economico che realizza il contrario del suo intento.

Innanzitutto, non dimentichiamo che le tariffe sono pagate dagli importatori, non dagli esportatori. Quando gli Stati Uniti impongono una tariffa del 15% sui beni europei, il costo non è sostenuto dai produttori europei, ma dalle imprese e dai consumatori statunitensi. Gli importatori devono assorbire il costo o trasferirlo sotto forma di prezzi più alti.

Una tariffa del 15% sulle importazioni dall’UE non cambia sostanzialmente la competitività relativa dei costi tra Europa e Stati Uniti. Si tratta di economie ad alto reddito e ad alta regolamentazione, in cui il costo del lavoro e la produttività sono già strettamente allineati. L’imposizione di un dazio del 15% sui prodotti di origine europea può incidere marginalmente sui margini di profitto, ma non è neanche lontanamente paragonabile al vantaggio di costo del 30-40% che le aziende cercano di ottenere prima di riconsiderare i luoghi di produzione.

Di fatto, il regime tariffario relativo normalizza le condizioni europee con quelle applicate a Cina, Messico e altri paesi secondo la visione del mondo di Trump. L’UE non viene penalizzata in modo esclusivo, ma solo assorbita in una matrice generale di protezionismo generalizzato. Questo lo rende, paradossalmente, un vantaggio per l’Europa. Le sue merci non sono meno competitive di quelle di altri fornitori globali sul mercato statunitense.

Ma soprattutto, l’aliquota tariffaria è un errore di calcolo strategico.

Se l’obiettivo di Trump è riportare la produzione in patria, allora il 15% è troppo basso per farlo. Ma se l’obiettivo è semplicemente quello di aumentare le entrate (che in effetti è un’emorragia di liquidità dall’economia americana) e punire gli importatori, allora lo sta facendo, ma al costo di un aumento dei prezzi dei fattori produttivi per i produttori americani e dei prezzi al consumo in generale. È il peggiore dei due mondi: impone costi di attrito all’economia americana senza ottenere alcun cambiamento strutturale nella geografia della produzione.

In parole povere, il 15% è abbastanza doloroso da danneggiare imprese e famiglie, ma non abbastanza da modificare le decisioni di localizzazione della produzione.

Questo ci lascia con una verità imbarazzante. Trump ha bloccato l’aumento dei costi per gli americani, senza creare nuovi incentivi per il reshoring o gli investimenti nazionali. Nel migliore dei casi, questo protegge alcuni settori storici. Nel peggiore dei casi, accelera l’inflazione, alimenta l’inefficienza della catena di approvvigionamento e lascia le imprese americane bloccate tra l’aumento dei costi dei fattori produttivi e la stagnazione della domanda dei consumatori.

Nel frattempo, l’Europa fa la figura della cooperativa. L’UE offre zero tariffe sui beni statunitensi, anche se le esportazioni statunitensi verso l’UE sono inferiori a quelle europee verso gli Stati Uniti e anche se molti dei beni scambiati (ad esempio aerei, prodotti farmaceutici, servizi finanziari) sono insensibili ai prezzi o regolati da contratti a lungo termine. L’impatto commerciale netto è quindi minimo, mentre l’ottica politica appare generosa.

Intrappolamento strategico in azione

Ingrandendo l’immagine, emerge un classico caso di sovraimpegno come intrappolamento. Trump è lusingato, giocato e strategicamente legato da un’élite europea che comprende perfettamente la logica transazionale dell’ex (e forse futuro) presidente degli Stati Uniti.

Offrendo cifre gonfiate, numeri da prima pagina e “grandi vittorie”, l’UE garantisce che:

  • L’industria della difesa statunitense sia finanziariamente legata all’Europa;
  • Il settore energetico statunitense è legato all’Europa, ma con una capacità limitata di fornire effettivamente i numeri dichiarati, il che significa che gli acquirenti europei tornano comunque sul mercato;
  • Il sistema finanziario statunitense continua ad assorbire capitali europei, il che è solo una funzione del persistente surplus commerciale europeo nei confronti degli Stati Uniti.
  • Qualsiasi tentativo da parte degli Stati Uniti di ridurre la propria impronta europea comporterebbe un enorme costo economico interno.

In effetti, l’Europa ha creato un intralcio strategico per gli Stati Uniti negli affari di sicurezza europei con il pretesto della sottomissione. Trump pensa di vincere, ma la realtà strutturale è che gli Stati Uniti sono gravati da maggiori responsabilità, maggiori aspettative e maggiore esposizione economica.

Il vero gioco: Distrazione multipolare

Ciò che più colpisce è come questo “accordo” distolga l’attenzione e la capacità degli Stati Uniti da altri teatri critici, in particolare il cosiddetto Indo-Pacifico. Le risorse necessarie per adempiere anche solo a una frazione di questi impegni europei escluderanno la larghezza di banda per Taiwan, la Corea del Sud, il Mar Rosso o il Mar Cinese Meridionale. In altre parole, il tanto auspicato pivot verso l’Asia è minato dagli impegni verso l’Europa.

L’Europa, spesso caricaturata come ingenua dal punto di vista geopolitico, qui agisce con fredda precisione. Se Trump vuole un mondo transazionale, l’Europa si è appena trasformata nella più grande transazione sul tavolo, una transazione così grande da distrarre Washington da altre priorità strategiche.

Il silenzioso colpo da maestro dell’Europa

Non si tratta, contrariamente alle apparenze, di una semplice storia di deferenza europea. È un silenzioso colpo d’astuzia da una posizione di relativa debolezza politica. Von der Leyen ha dato a Trump l’illusione di dominare, ancorando al contempo gli Stati Uniti al progetto europeo – militarmente e politicamente.

E il bello di tutto ciò? Nessuna di queste cose viene applicata in modo significativo. Questo perché nulla di tutto ciò è reale. I volumi non possono essere consegnati, il denaro non si materializzerà completamente e l’acquisto di armi richiederà decenni. Ma gli impegni hanno già ridisegnato le aspettative, le dinamiche lobbistiche e la pianificazione strategica.

Trump voleva vincere. L’Europa gli ha regalato una vittoria così grande da essere in realtà una trappola.

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China e India alla corte di Ursula la disgregatrice_di Cesare Semovigo

China e India alla corte di Ursula la disgregatrice

Negli ultimi anni, la posizione della Cina e dell’India all’interno dei BRICS è apparsa sempre più ambivalente, soprattutto alla luce delle tensioni globali e dei mutati rapporti di forza tra Occidente e Oriente.

Modi a Cipro ha lanciato il guanto al Dragone e benché condividano una parte di cammino nei Brics , i loro destini possiamo scommetterci usciranno dai binari , fino ad impattare .

Da un lato, entrambi i paesi si presentano come leader dell’emergente blocco economico-politico alternativo a quello occidentale, promuovendo la multipolarità e contestando il dominio euroatlantico.

Dall’altro, sia Pechino che Nuova Delhi coltivano interessi nazionali divergenti e strategie talvolta contraddittorie, soprattutto quando si tratta di relazioni economiche con l’Unione Europea. Tale doppiezza si riflette, ad esempio, nella reticenza ad assumere posizioni univoche sul conflitto ucraino, nel tentativo di tutelare sia i legami strategici con Mosca sia i rapporti commerciali vitali con Bruxelles.

La Russia, osservando questa dinamica, fatica a fidarsi del tutto dei due giganti asiatici: da un lato cerca di consolidare il proprio asse strategico con la Cina – partner essenziale dopo l’isolamento imposto dall’Occidente e peraltro fallito – dall’altro si mostra sempre più diffidente verso l’India, storica alleata ma oggi oscillante tra i BRICS e le tentazioni di apertura ai mercati e alle tecnologie occidentali . Quello che per ora è stato l’unico vero successo dell’amministrazione Trump , disossare i conflitti interni ai Brics , corteggiando con successo l’India , mandare un messaggio a Pechino e dimostrare a Mosca quanto il cammino verso la moneta alternativa al dollaro non sarà una gita di piacere .

Nonostante i toni fermi adottati nei confronti della Cina, la postura dell’Unione Europea appare sempre più contraddittoria e miope. A dominare è una linea dettata dagli interessi del blocco anglosassone – con la BCE spesso prona alle pressioni dei mercati finanziari – a discapito di una reale autonomia strategica continentale , dove il vero nemico dichiarato e obbiettivo finale è l’attacco sistematica del risparmio privato in salsa iper digitalizzata .

L’UE, invece di affermare un’agenda estera indipendente e coerente con gli interessi profondi dei cittadini europei , delle imprese agisce troppo spesso da “secchione” della NATO o delle direttive di Washington e Londra, penalizzando le proprie industrie e disperdendo risorse in una competizione che non sembra poter vincere. In questa veste, rischia di compromettere quella stessa vocazione di potenza equilibratrice che avrebbe il potenziale di giocare a suo vantaggio su scala globale.

Paradossalmente, l’attuale atteggiamento dell’Unione Europea assomiglia più a quello di un “guastatore” che si inserisce negli equilibri tra Cina, India e Russia non per dettare nuove regole del gioco, ma per ostacolare gli altri dall’esterno, mosso più da frustrazione che da progettualità politica.

La fragilità economica post-Brexit, le divisioni interne fra stati membri e la gestione spesso dogmatica da parte della BCE delle crisi finanziarie lasciano l’UE in una posizione di debolezza strutturale; ne consegue una spasmodica ricerca di visibilità nelle crisi internazionali, spesso a scapito della propria credibilità ed efficacia.

Più che un attore consapevole, Bruxelles rischia così di ridursi a spettatrice rumorosa e, di fatto, impotente nelle grandi trasformazioni dell’ordine mondiale in atto.

La partita sotto traccia si chiama Africa

Il continente africano è diventato un campo di confronto strategico non secondario ma centrale, anche se spesso trattato “sotto traccia” rispetto ai riflettori su Pechino e Nuova Delhi .
Nel 2024 i BRICS si sono ampliati includendo Egitto ed Etiopia, e partner come la Nigeria, confermando che il continente è parte integrante delle strategie di queste due potenze.

Tanto la Cina quanto L’India competono, oltre che cooperare, per l’influenza in Africa.

Pechino ha consolidato negli anni una presenza economico-infrastrutturale capillare (nuova Via della Seta, investimenti diretti, prestiti), mentre l’India ha rilanciato la propria agenda africana puntando su scambi, tecnologia e formazione, cercando di presentarsi come alternativa meno invasiva e più “paritaria”.

La visita di Modi nel 2025 in paesi africani chiave indica che Nuova Delhi mira a capitalizzare l’assenza di Xi Jinping e a guadagnare visibilità come portavoce genuino del Sud Globale.

Rispetto alla filosofia Russa ben ancorata alle tradizione sovietiche riguardo alla cooperazione con l’Africa , entrambe si adoperano come tutti gli outsider quando entrano in un nuovo mercato .
La delicatezza e condizioni favorevoli accompagnate da investimenti ( soprattutto la Cina ) hanno avuto il merito di stimolare e incrinare entropicamente un teatro incancrenito dal metodo post-coloniale occidentale .

L’ultimo bilaterale Russo Francese infatti aveva sul tavolo anche le emergenze di Parigi in quei territori che l’arroganza transalpina , sbagliando , aveva dato per troppo tempo come scontate .

Certe convergenze potrebbe essere state trovate proprio per ottiche interne di casa Brics .

Una mano lava l’altra se si tratta di evitare uno sbilanciamento delle influenze verso Pechino nel vastissimo supermercato africano delle terre rare.

Modi e Xi cercano di presentarsi come difensori degli interessi africani per legittimare un ruolo egemonico nei nuovi assetti multipolari – una dinamica che alimenta sia cooperazione diplomatica che tensione competitiva.

Chiaramente a parte settori molto specifici vista l’abbondanza in patria , Mosca gioca una partita diversa , meno ancorata alla necessità ma più politicamente orientata . La sensazione che la Russia sia stata costretta ad irrigidire certi atteggiamenti nei confronti dei due alleati , soprattutto tra gli analisti non è un mistero .

La situazione incandescente delle tensioni guerreggiate nel Kivu
e la quasi per niente sorprendente manovra del Dipartimento di Stato Usa, con Rubio come arbitro nell’auto-eleggersi come mediatore , potrebbe aggiungere chiarezza al caos controllato che vedremo in Africa negli anni a venire .

L’Europa in Africa : Può Accompagnare Solo
Comprimari per disperazione

L’Unione Europea, seppur storicamente presente in Africa, sta vivendo una fase di crisi strategica. La sua postura, spesso percepita come subalterna agli interessi anglo-americani, la penalizza nel competere con il dinamismo e la liquidità consistente delle potenze asiatiche.

Tale marginalità , termine che risuona quasi come un complimento esagerato , rischia di relegare Bruxelles a spettatrice, mentre Pechino e Nuova Delhi investono per presidiare risorse critiche e alleanze diplomatiche nella regione.

Nel delineare la partita tra UE, India, Cina e in side la Russia, si deve dunque sottolineare come l’Africa sia divenuta sempre più il “terreno di contesa decisiva”: la centralità africana, apparentemente marginale nei vertici UE-India-Cina, è in realtà il vero discrimine del futuro ordine mondiale, spazio dove si misurano capacità di proiezione strategica, influenza sulle nuove narrazioni egemoniche del “nuovo multipolarismo”.

Inserire questa chiave di lettura rafforza l’argomento che l’evoluzione delle rivalità e delle possibili convergenze tra Delhi e Pechino avrà un impatto profondo e diretto sulle traiettorie di crescita, con ovviamente gli interessi locali all’ultimo posto, stabilità e come collettore per la politica africana in cerca di nuove alleanze – e, per incrocio, sulla posizione globale della Ue.

Tuttavia, permane una ambivalenza fortemente disomogenea tra cooperazione Sud-Sud e la crescente competizione asimmetrica, il cui epicentro rimane sempre più a sud del Sahara; fattore che porterà di fatto Parigi e la Ue lontane dalla partita .
Insomma alla vecchia Europa rimarranno più problemi che opportunità, e probabilmente , a questo cerino per rappresentanza e orgoglio dovrà restare aggrappata .

La Russia

La Russia adotta una strategia diversa, meno improntata alla retorica del “partenariato paritario” e più centrata su obiettivi di influenza politica e militare.

Mosca sostiene regimi attraverso forniture militari, addestramento ed impiego di gruppi paramilitari (come Wagner), agendo spesso con modalità che non nascondono la ricerca di vantaggio, senza la pretesa di “fare del bene” o di essere partner allo stesso livello .

Non troppo lontano nel tempo molti di noi ricorderanno bene le sorti delle pattuglie dei “Musicisti” accerchiate e sterminate proprio dai guerriglieri Berberi nel triangolo di terra , di tutti e di nessuno , tra il Mali e la Libia .

Esattamente le stesse milizie che durante l’anarchia seguita all’imbarazzante guerra illegale per porre fine al regime del Colonnello , trasferirono nelle proprie basi, alcuni dicono appoggiati dal cielo da imprecisate forze aeree occidentali, buona parte dell’arsenale di Gheddafi .

Questa franchezza russa , per certi versi “cinica”, differenzia il suo approccio, indifferente al camuffamento dei suoi fini, pur sollevando altrettanti interrogativi su effetti e stabilità a lungo termine.

Questa distinzione non deve mitizzare il modello russo, ma piuttosto riconoscerne l’estremo realismo e quella cautela che anche durante la Smo , in molti abbiamo sottolineato .

Cesare Semovigo

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L’esercito americano è in grossi guai, di Michael Vlahos

L’esercito americano è in grossi guai

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I leader statunitensi stanno portando le forze armate sulla strada dell’autodistruzione.

The_Last_Stand,_by_William_Barnes_Wollen_(1898)

Michael Vlahos

27 luglio 202512:03

https://elevenlabs.io/player/index.html?publicUserId=cb0d9922301244fcc1aeafd0610a8e90a36a320754121ee126557a7416405662

I grandi cambiamenti in ambito militare sono tipicamente definiti “rivoluzione” o “trasformazione” e riguardano quasi sempre l'”innovazione” e l'”adattamento” alle nuove tecnologie. Tuttavia, la forma più importante – e più preoccupante – di cambiamento di solito non è guidata dalla tecnologia;

Semplicemente, è la perdita di efficacia militare, che spesso si manifesta con un declino rapido. Le forze armate che hanno raggiunto lo status di “guerra di punta” in una battaglia vittoriosa e decisiva possono – e lo fanno – perdere rapidamente il loro vantaggio in combattimento. Un esempio estremo è l’esercito americano durante la guerra civile americana. Nel 1865 era il più grande esercito del mondo. Nel giro di pochi mesi è stato smobilitato, la sua esperienza è sparita.

Naturalmente, in parte questo è naturale. Gli eserciti legionari di lungo corso vengono prosciugati da anni di pace. I veterani segnati dalle battaglie invecchiano e si ritirano, e i giovani capi d’assalto si ergono finalmente a comandare un esercito di giovani ufficiali inesperti in combattimento. La prossima volta perderanno. Questo è il modo in cui vanno le cose.

A volte, quando un avversario sorprende con una nuova “arma prodigiosa”, la tecnologia può improvvisamente spostare i paletti dell’efficacia militare. Ma ci sono altri modi, probabilmente più probabili, in cui una forza da “guerra di punta” può perdere il suo vantaggio, e in fretta. Ecco quattro strade non tecnologiche per un rapido declino militare, con esempi storici che dovrebbero risultare familiari. Così come il pericolo, che risiede in un disfacimento che passa inosservato o negato, e quindi non affrontato, finché non è troppo tardi per porvi rimedio.

In primo luogo, l’ascesa o la rinascita inaspettata di una potenza rivale può spostare drasticamente i termini dell’efficacia militare. Si tratta di un cambiamento relativo, ma molto reale. Nel 1860 l’esercito francese, per fama, era il migliore del mondo. Nei cinque anni precedenti aveva sconfitto in battaglia aperta sia il secondo che il terzo esercito del mondo. Tuttavia, solo sei anni dopo, lo stimato esercito austriaco fu sconfitto da una nuova nazione, la Confederazione tedesca, che non aveva alcuna reputazione militare. Invece di avviare una riforma dell’Armée da cima a fondo e una mobilitazione nazionale, tuttavia, la superba ma troppo piccola forza di volontari francese si affidò a una tecnologia “rivoluzionaria” come la potente Mitrailleuse. Quando, solo quattro anni dopo, la Francia si trovò a fare i conti, la sconfitta non fu solo completa, ma anche vergognosa.

In secondo luogo, c’è il richiamo dell’abitudine a combattere contro eserciti minori. Negli ultimi due decenni del XIX secolo (1878-1899), l’esercito e la marina britannici hanno combattuto contro Ashanti, Zulu, Afghani, Egiziani, Sudanesi (due volte) e hanno affrontato le armate dello Zar con le sole navi di ferro – e ovunque, ogni volta, la vittoria è stata loro. Eppure si trattava di “piccole guerre” contro combattenti tribali e surclassati. Quando, tuttavia, l’esercito britannico si imbatté negli afrikaner, il “massimo modello di generale maggiore moderno” fu scioccamente e ripetutamente umiliato: nomi come Majuba, Stormberg, Magersfontein e Colenso scossero l’Impero. La Corona britannica aveva bisogno di un numero di truppe 10 volte superiore – raccolte da tutto l’impero mondiale – per sconfiggere finalmente i commando boeri. Eppure, solo otto anni dopo la vittoria nella Seconda guerra boera, il Parlamento consegnò l’intero Sudafrica all’ex nemico, con la consolazione di diventare un Dominion britannico. Il peggio doveva ancora venire, nella Prima Guerra Mondiale.

In terzo luogo, c’è la tentazione di vivere nella leggenda della “guerra di punta”. Il Dio della Guerra del XVIII secolo, Federico il Grande, trasformò la Prussia, con la forza della volontà, da un principato del Sacro Romano Impero a una Grande Potenza europea a tutti gli effetti, al pari di Gran Bretagna, Francia, Austria e Russia. Il suo curriculum di battaglie richiedeva un paragone con le divinità belliche dell’antichità: Mario, Scipione e Cesare. L’esercito di Federico, assiduamente creato, plasmò la sua mente collettiva alla sua visione della guerra. Molto tempo dopo la sua morte, Soldaten e Generalen si consideravano unti. Un testimone celeste era stato passato, per sempre. Entra in scena Napoleone. Lo Stato Maggiore prussiano ebbe un intero decennio per osservare il nuovo modo di fare la guerra che Napoleone aveva creato. Si scoprì che i compiaciuti prussiani non erano la progenie spirituale di Friedrich der Große, dopo tutto. Il loro esercito fu sgretolato in un solo giorno a Jena-Auerstedt. Undici giorni dopo, Bonaparte cavalcava in trionfo attraverso Berlino.

In quarto luogo, c’è l’esercito svuotato dalle agende in patria. In questo caso, l’America è il nostro esempio storico di rapido declino. La chiamiamo guerra del Vietnam. Nel 1965, gli Stati Uniti consegnarono alla battaglia forse il miglior esercito che l’America abbia mai mandato in guerra. Contrariamente a quanto si dice, solo uno su otto era stato arruolato. La guerra di Corea era solo 12 anni nel passato e la Seconda Guerra Mondiale solo 20. Eppure, appena sette anni dopo, l’esercito americano era distrutto. Perché? Se si mandano milioni di uomini in battaglia, senza una missione di riferimento e senza una misura della vittoria, tutti i sacrifici saranno vani e ne seguirà una demoralizzazione mortale. A questo si aggiunge una proverbiale “pugnalata alle spalle”: la stessa élite al potere che ha mandato questo esercito in battaglia si è voltata e lo ha tradito. I soldati americani sono stati additati per l’orrore-fallimento di una guerra mal concepita, mentre i “migliori e più brillanti” che l’hanno resa possibile sono stati risparmiati dalla resa dei conti che meritavano.

Quindi, l’esercito americano oggi ha perso la sua efficacia militare e come dovrebbe essere valutato alla luce di questi quattro scenari storici di declino militare?

Per quanto riguarda il primo scenario, l’ascesa rapida e inaspettata di un rivale: è facile. La Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese è spuntata dal nulla in poco più di un decennio, superando una Marina statunitense un tempo impareggiabile. Inoltre, tutta la sua potenza è concentrata dove conta, mentre l’USN è sparpagliata ovunque. Quando Pechino ha fatto il suo tentativo di diventare una potenza navale di livello mondiale dopo il 2012, Washington ha continuato ad arrancare in alto mare. E continua a farlo ancora oggi, solo in misura maggiore.

Per quanto riguarda la Russia, le élite della politica estera americana hanno a lungo pensato che potesse essere scacciata come una zanzara. Nel 2014 era semplicemente “una stazione di servizio con le atomiche”. Nel 2022, hanno dichiarato che era destinata a crollare, abbattendo il dittatore Putin e il suo odioso regime. Negli ultimi tre anni e mezzo – mentre una stoica Russia si mobilitava per vincere la sua guerra in Ucraina – il nostro sogghignante disprezzo è rimasto impassibile. Il narcisismo e la negazione della NATO, e la sua fede incrollabile nelle armi “che cambiano le carte in tavola”, hanno portato l’Occidente guidato dagli Stati Uniti sull’orlo di una vergognosa sconfitta.

Che dire del secondo scenario, che consiste nel gloriarsi di aver battuto dei pugili da strapazzo? Nel caso dell’America, c’era poco da gloriarsi. Vent’anni di “piccole guerre”, “conflitti irregolari” e “controinsurrezioni” – durante i quali sono stati uccisi milioni di persone – non hanno portato a nessuna vittoria e talvolta a umilianti sconfitte. Ricordiamo anche che nel 1878 sei goffe corazze di ferro britanniche affrontarono un esercito russo alle porte di Costantinopoli. Al contrario, quest’anno le “superportaerei” della Marina statunitense, gli incrociatori missilistici, i jet da combattimento e i droni non sono riusciti a intaccare o a scoraggiare la determinazione dei “primitivi” tribali Houthi dello Yemen.

Per quanto riguarda il terzo scenario, quello di una vittoria militare passata contro una potenza regionale, le forze armate americane sono emerse dalla loro “guerra delle 100 ore” all’inizio degli anni Novanta contro il malvagio e baffuto Saddam come divinità della guerra incarnata: uno stato di trascendenza che le élite statunitensi erano convinte di raggiungere per sempre. Per un decennio dopo il 1991, il mondo dei soldati si è crogiolato sul suo olimpo, assicurato dai discorsi sulla “fine della storia” che il loro mandato era immortale. Dottrine militari come “Operazioni rapide e decisive” e “Operazioni basate sugli effetti” – e la conseguente presunzione che gli Stati Uniti potessero fare qualsiasi cosa – erano le ortodossie del momento. Come per tutte le ortodossie, la verità era un anatema e la realtà si è presto riaffermata con forza. La guerra in Iraq lanciata da George W. Bush nel 2003 è stata come un lento naufragio di un treno, che ha messo a nudo questi deliri di divinità. Eppure si continuava a crederci, ostinatamente.

Il quarto scenario, l’isolamento a casa, si è sviluppato nelle forze armate dopo il 2009 e si è intensificato dopo il 2020. Le élite (blu) al potere hanno dichiarato una trasformazione della vita americana che va sotto il nome di “woke”. Inoltre, il loro programma più ampio richiedeva un “Partito d’Avanguardia” che, attraverso una legge federale, avrebbe guidato una metamorfosi militare, che a sua volta sarebbe diventata la punta della lancia per un cambiamento radicale a livello nazionale.

La direttiva principale di tutte le forze armate – vincere le guerre – è stata abbandonata dai regimi blu che hanno anteposto la loro urgente agenda sociale alla difesa della nazione. Come ha influito questo sull’efficacia militare degli Stati Uniti? In primo luogo, il reclutamento è crollato, poiché gli uomini stoici del cuore dell’America sono stati sempre più allontanati da un esercito che sembrava privilegiare la diversità razziale e di genere rispetto all’efficacia in combattimento.

Se a questo si aggiunge una forte spinta a normalizzare e privilegiare pubblicamente le richieste LGBTQ+, e la sostituzione del merito con le quote, non è difficile immaginare un incidente militare. L’amministrazione Trump ha fortunatamente posto fine a gran parte della follia. Una traiettoria post-2024 della politica di difesa blu avrebbe fritto l’efficacia militare degli Stati Uniti in un decennio. Tuttavia, l’ingegneria sociale nelle forze armate americane ha avuto conseguenze deleterie.

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L’alto comando militare è responsabile della marcia dell’America lungo le prime tre strade del rapido decadimento. Per quanto dura, questa corrosione è una loro responsabilità. Solo una riforma radicale potrà arrestare l’emorragia accelerata dalla loro cupidità, corruzione, vanità e arroganza;

La responsabilità della quarta, e più oscura, strada verso il declino, tuttavia, è della leadership civile. Quando i funzionari eletti e i loro incaricati politici abbandonano i soldati per qualsiasi slogan che prometta potere politico, questo tradimento diventa il moltiplicatore di forza di un rapido declino. Questa negligenza politica crea una ferita aperta, che intacca la volontà del soldato di combattere, sacrificarsi e sopportare le privazioni;

I leader politici e militari americani hanno la volontà e la competenza per correggere la rotta? Forse, ma solo nella prossima guerra, quando sarà troppo tardi. Dopo di che, finiranno per essere una triste nota a piè di pagina della storia, e le forze armate da loro guidate, un tempo invidiate dal mondo, saranno viste come il modello stesso di una forza combattente che – con gli occhi spalancati – ha marciato ciecamente verso il tragico declino e la caduta.

Informazioni sull’autore

Michael Vlahos

Michael Vlahos è uno scrittore e autore del libro Fighting Identity: Sacred War and World Change. Ha insegnato guerra e strategia alla Johns Hopkins University e al Naval War College e collabora settimanalmente al John Batchelor Show.

Tramonto sull’impero Potëmkin: la sconfitta di Ursula da parte di Trump è un grande spettacolo teatrale, ma poco altro?

Tramonto sull’impero Potëmkin: la sconfitta di Ursula da parte di Trump è un grande spettacolo teatrale, ma poco altro?

Simplicius
30 luglio

Trump ha fatto scalpore questa settimana con la sua sostanziale sottomissione economica dell’Europa, annunciando i dazi del 15%, di fronte a una Ursula von der Leyen, la “Regina delle Larve”, inchinata e servile. Ma come per ogni cosa che sgorga dalla fontana della vittoria dell’amministrazione Trump, ci sono sfumature più sottili che meritano un esame più attento.

Un ringraziamento speciale all’analista residente William Schryver per averci segnalato il recente articolo di un collega di Substacker che ha elaborato un’argomentazione convincente sul perché il grande “colpo di stato dell’UE” di Trump potrebbe in realtà non essere stato altro che un’altra bufala esagerata:

Substack di Warwick Powell

Il grande intreccio

Nel mondo dell’alta politica e del teatro geopolitico, la percezione spesso conta più della realtà. E nessuno interpreta questo teatro meglio di Donald Trump. La scorsa settimana, Trump e la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen sono usciti da un incontro ricco di foto ricordo, decantando una serie di accordi “storici” in materia economica e di sicurezza. Il Presidente degli Stati Uniti si è vantato di…

Per saperne di più

2 giorni fa · 145 Mi piace · Warwick Powell

A dire il vero: ci sono molti modi di vedere la questione, e molti non sono d’accordo con questa particolare prospettiva, ma vale comunque la pena di rifletterci. Il fatto che dobbiamo persino discutere se tali “enormi benefici” stiano avendo un effetto rigenerante sugli Stati Uniti, suppongo, sia di per sé un brutto segno: il continuo strombazzare cifre astronomiche – centinaia di miliardi risparmiati dal DOGE qui! Un altro lotto da dodici cifre intascato dai dazi lì! – non si traduce mai direttamente in qualcosa di tangibile. Certo, è ancora tutto giovane e dobbiamo concedere più tempo affinché queste cose si sedimentino strutturalmente, ma siamo tutti stanchi di anni di vuote campane di vittoria.

Powell inizia la sua esegesi con una dichiarazione con cui sono d’accordo: la percezione conta più della realtà, più che mai oggi nel nostro mondo sempre più “simulato”, dove il denaro e le economie stesse non sono altro che strumenti di debito e valuta fiat iper-indebitati e ampiamente sopravvalutati.

Prosegue sostenendo che il “colpo di stato” senza precedenti di Trump sulla misera Ursula è stato in realtà un trionfo europeo sulla narcisista nettarina facilmente adulabile.

Ma guardando oltre la retorica, emerge un quadro diverso. Paradossalmente, non si tratta di una debolezza europea in sé (o di un vassallaggio, come gli europei che si disprezzano sarebbero tentati di dire), ma di una strategia europea di intrappolamento da una posizione di relativa debolezza. Semmai, questo “accordo” intrappola gli Stati Uniti ancora più profondamente nell’architettura economica e di sicurezza europea, non il contrario. E lo fa sfruttando l’unica cosa a cui Trump non può resistere: l’illusione di vincere.

Il suo ragionamento è che praticamente tutte le promesse chiave dell’accordo sono fasulle o impossibili da mantenere, inclusi i 600 miliardi di dollari di investimenti europei negli Stati Uniti, i 750 miliardi di dollari di acquisti di GNL dagli Stati Uniti e simili. Anche l’accordo tariffario del 15%, che ha fatto notizia, viene ignorato come impotente per una ragione intelligente: la percentuale non è abbastanza alta da innescare trasferimenti di linee di produzione, ad esempio negli Stati Uniti, ma è appena sufficiente a gravare tutti con prezzi più alti e più debito, senza realmente incidere sui cambiamenti economici strutturali desiderati a beneficio del popolo americano. Powell lo definisce “il peggio di entrambi i mondi”:

[Ciò] impone costi frizionali all’economia statunitense senza determinare alcun cambiamento strutturale nella geografia della produzione. In parole povere, il 15% è un costo sufficientemente elevato da danneggiare imprese e famiglie, ma non abbastanza elevato da modificare le decisioni sulla localizzazione della produzione.

Nota rapida: alcuni sostengono che il 15% sia sufficientemente basso da far sì che siano gli importatori a pagarlo anziché il consumatore, ma si tratta di un’interpretazione un po’ da principianti, se si pensa davvero che la responsabilità non verrà in qualche modo scaricata sui consumatori. Le aziende importatrici hanno molti trucchi con cui possono fingere di farsi carico dei costi e comunque recuperarli dal consumatore: ad esempio, si limitano a “svuotare” un altro prodotto nazionale non correlato per compensare le perdite. E anche se non lo facessero, si tratta pur sempre di aziende americane, il che ha effetti economici composti a lungo termine sull’intero Paese, che a loro volta si trasferiscono al consumatore.

Oppiacei per le masse: Shylock in capo e membro del circo tariffario Barker afferma che l’UE “pagherà i dazi”: bugie così glabre che brillano!

https://www.newyorker.com/magazine/2025/07/28/donald-trumps-tariff-dealmaker-in-chief

Si potrebbe obiettare: ma questi “prezzi più alti” e le difficoltà dei consumatori sono bilanciati dalla promessa dell’UE di investimenti monumentali nell’economia statunitense, con i già citati trilioni di dollari in GNL e altri cosiddetti acquisti. Il problema è che queste cifre sembrano inventate, nella stessa pratica ormai diffusa a cui assistiamo così regolarmente in Ucraina, dove, ad esempio, sono stati promessi missili Patriot solo per vedere la Germania e altri ammettere di non avere idea di chi stia pagando cosa o come arriverà.

Analogamente, Powell sostiene che 750 miliardi di dollari in acquisti di GNL in tre anni siano ridicoli, data la semplice matematica di base:

Cominciamo con la cifra più audace: 750 miliardi di dollari di acquisti di GNL in tre anni. Nel 2024, l’UE ha importato circa 45 miliardi di metri cubi (bcm) di GNL dagli Stati Uniti, per un valore di circa 16-19 miliardi di dollari. Solo nella prima metà del 2025, ne ha importati altri 46,5 miliardi di metri cubi, sulla buona strada per quasi 93 miliardi di metri cubi per l’intero anno; ovvero circa 33-39 miliardi di dollari, ipotizzando prezzi di mercato di 10-12 dollari/MMBtu.

In breve, l’UE dovrebbe aumentare sia il volume che il prezzo di oltre sei volte per raggiungere l’obiettivo annuale di 250 miliardi di dollari. Ciò non è minimamente fattibile.

Solo un giorno dopo, questa opinione è stata confermata da diversi esponenti del mainstream:

https://www.politico.eu/article/eus-600bn-us-investment-will-come-exclusively-from-private-sector/

Dopo aver promesso di investire 600 miliardi di dollari nell’economia statunitense, l’UE ha ammesso di non avere il potere di darne seguito. Questo perché si prevede che i fondi provengano esclusivamente da investimenti del settore privato, su cui Bruxelles non ha alcuna autorità.

L’articolo sopra riportato spiega che la Commissione UE ha già ammesso, poche ore dopo la firma del “grande accordo”, che l’investimento promesso sarebbe arrivato da società private a cui non erano stati offerti incentivi per una cosa del genere, il che significa che l’intera farsa non è altro che un’altra vuota messa in scena di “pensieri illusori”, pensata per smorzare i toni con un breve momento di pubbliche relazioni.

Ma l’idea che si potesse contare sul settore privato per fornire tale livello di investimenti è stata accolta con scetticismo.

“Questa parte dell’accordo è in gran parte performativa”, ha dichiarato a POLITICO Nils Redeker del think tank Jacques Delors Centre. “[L’UE] non è la Cina, giusto? Quindi nessuno può dire alle aziende private quanto investono negli Stati Uniti”.

Al giorno d’oggi, praticamente tutta la politica estera viene condotta in questo modo. Il ritmo del nostro mondo digitale iperconnesso ha creato una sorta di simulacro in cui nessuna esagerazione, menzogna o assurdità è eccessiva, purché possa essere rapidamente spazzata via da una ancora più grande. Se non ce n’è una disponibile, i maghi dei media mainstream hanno il compito di agitare le mani su qualche nuova “crisi” o “oltraggio” per coprire le tracce di ciò che deve essere dimenticato.

Ma perché, vi chiederete, Powell giunge infine alla conclusione che l’accordo non è semplicemente un ologramma, ma al contrario un astuto trionfo degli europei in decadenza? La risposta risiede in una tesi convincente: l’obiettivo principale della Regina Maggot era quello di intrappolare Trump e gli Stati Uniti nella politica europea e nella Guerra Eterna degli stati europei e profondi. Conclude:

Offrendo cifre gonfiate, numeri da prima pagina e “grandi vittorie”, l’UE garantisce che:

  • L’industria della difesa statunitense è finanziariamente legata all’Europa;
  • Il settore energetico statunitense è vincolato all’Europa, ma con una capacità limitata di raggiungere effettivamente i numeri dichiarati, il che significa che gli acquirenti europei sono comunque tornati sul mercato;
  • Il sistema finanziario statunitense continua ad assorbire capitali europei, il che è solo una funzione dei persistenti surplus commerciali europei nei confronti degli Stati Uniti; e
  • Ogni tentativo da parte degli Stati Uniti di ridurre la propria presenza in Europa comporterebbe ora un enorme costo economico interno.

Di fatto, l’Europa ha progettato un coinvolgimento strategico degli Stati Uniti nelle questioni di sicurezza europee, con il pretesto della sottomissione. Trump pensa di vincere, ma la realtà strutturale è che gli Stati Uniti sono gravati da maggiori responsabilità, maggiori aspettative e maggiore esposizione economica.

Ora, forse la conclusione di cui sopra è un po’ esagerata per ottenere un effetto drammatico. Senza analizzare i dati economici in modo molto più approfondito, non è chiaro quanto “astuta” o deliberata sia questa svolta europea. Ma è vero che, con il pretesto di dare all’ego di Trump una tanto necessaria vittoria economica, l’Europa è riuscita almeno a manovrarlo affinché sostenesse perennemente il MIC europeo e, per estensione, la guerra in Ucraina. Questa non è una vittoria europea , di per sé – è un grave disastro per il futuro del cittadino europeo medio – ma è una vittoria per lo stato profondo europeo, le cricche di Bruxelles e Londra controllate dalla finanza privata generazionale, il clan dei banchieri che deve mantenere il potere a tutti i costi e non può permettere a un sistema rivale di emergere sulla scena globale.

Un’altra proposta di visione:

Come affermato in precedenza, si può sostenere che ciò a cui stiamo assistendo sia un processo di auto-assemblaggio in cui è in atto l’inevitabile fazionalizzazione del mondo post-globalista, basato sul modello della “società aperta”. E gli Stati Uniti, sapendo di non poter più controllare questo processo, né dominare le nuove fazioni emergenti, si sono semplicemente rassegnati a scomporre il mondo in sfere e a progettare un rinnovato dominio della propria sfera come una sorta di premio di consolazione. È una tattica di ritirata necessaria: se non possiamo essere padroni del mondo, saremo almeno padroni assoluti della nostra metà.

Un altro punto di vista stimolante sugli sviluppi è stato espresso da un analista francese :

Qualche pensiero casuale sull’accordo:

– Dopo una fase di “felice globalizzazione”, l’UE rischia di entrare in una fase di “felice vassallaggio”. Gli Stati Uniti sono passati dall’essere un feudatario “benigno” a uno molto più aggressivo.

-Eppure, per quanto riguarda l’imbarazzo politico, resta da vedere se tutto questo sia troppo negativo anche dal punto di vista economico. Il 15% è un male, ma sospetto che gran parte sarà pagata dai consumatori statunitensi a causa dell’inelasticità. Anche i produttori globali alternativi sono comunque soggetti a tariffe.

– Trump ama le sue “vecchie” industrie statunitensi. Cosa lo entusiasma? Che i consumatori europei comprino pick-up e SUV. Non certo le industrie del XXI secolo. Dubito fortemente che ci sia un mercato enorme per questi monster truck sovradimensionati e costosi. Immagino che persino i veicoli elettrici cinesi, fortemente tariffati, saranno molto più adatti.

– Il diavolo si nasconde nei dettagli. Questo è solo un accordo politico, la questione multimiliardaria su energia e armi che sono curioso di vedere in pratica, perché l’UE non può imporre agli stati membri di acquistare energia o armi dagli Stati Uniti. Basta guardare il recente accordo con il Giappone.

Anche lui sospetta che gran parte dell’accordo sia discutibile, mero spunto per le pubbliche relazioni. L’intera farsa globalista a questo punto consiste nel presentare un’immagine di solidarietà, crescita e “ottimismo” – una psicoterapia narcotica per le masse che annegano nell’inferno postmoderno del collasso sociale e culturale. Pensate a questi accordi come a nient’altro che un teatro kabuki volto a nascondere l’enorme stampa di debito delle banche centrali, destinata a sostenere il sistema in disgregazione ancora per un po’. A questo punto, l’ unico mandato rimasto alla cabala elitaria è quello di nascondere il degrado e presentare un’aria di “salute” e integrità strutturale sistemica – nient’altro importa loro; ma la farsa non ci inganna più.

Certo, ciò che Trump sta facendo è ancora di gran lunga superiore alla monotonia senza vita del decrepito regime di Biden. Dal punto di vista degli Stati Uniti, Trump sta almeno tentando qualcosa di radicale, piuttosto che il solito malthusianismo keynesiano iperprogressista. Ma allo stesso tempo, la crescente insulsaggine di ogni nuova “vittoria” può essere interpretata solo come una teoria del “gatto morto” che rimbalza sul declino imperiale terminale degli Stati Uniti. Tutta la pompa e la gloria associate al “trionfale” ritorno al trono di Trump sembrano essere una sorta di ultimo respiro del cadavere che si irrigidisce: tutto ciò che vediamo suona vuoto, ogni iniziativa superficiale e di breve durata; la sottile patina di foglia d’oro si sta sfaldando, rivelando un vinile consumato dal tempo.

Questo si traduce nelle “vittorie” combinate della sfera atlantista euro-americana. Siamo bombardati quotidianamente da proclami di nuove audaci iniziative, condite da sfarzi e fronzoli, ma non si fa mai nulla di concreto: la vita non migliora mai e le infrastrutture continuano a marcire. Nel frattempo, l’Oriente assiste a una crescita tangibile, con nuove città che spuntano dai deserti e ogni settimana porta annunci di nuove meraviglie ingegneristiche che stanno per essere completate, come è successo il mese scorso quando l’India ha inaugurato il ponte ferroviario di Chenab , ora il ponte ferroviario e ad arco più alto del mondo:

Oppure, proprio la settimana scorsa, quando la Cina ha dato il via al suo sbalorditivo megaprogetto: la diga idroelettrica di Motuo , che diventerà la centrale idroelettrica più grande e potente del mondo, superando persino la diga delle Tre Gole per un incredibile aumento di potenza di tre volte.

Nel frattempo, sia Trump che Biden – anni fa – hanno annunciato i loro megaprogetti infrastrutturali da oltre mille miliardi di dollari, volti a trasformare l’America, ma nessuno dei due è andato da nessuna parte né ha prodotto alcunché. Questo è il rimbalzo del gatto morto: non resta altro che qualche ultima vanagloria e promesse rubacchiate, mentre gli avvoltoi della Silicon Valley raccolgono gli ultimi resti dal cadavere.

L’unico barlume di speranza, almeno per quanto riguarda il tema dei dazi, è il seguente: il piano tariffario complessivo non è mai stato concepito come un’esclusiva estorsione di denaro, ma piuttosto come l’inizio di una riorganizzazione strutturale dell’intero sistema finanziario, prima degli Stati Uniti e, presumibilmente, del resto del mondo. Ciò è dimostrato dai ripetuti richiami di Trump agli Stati Uniti del diciannovesimo secolo e dal suo desiderio di sostituire l’imposta sul reddito con i dazi.

Pertanto, non dovremmo necessariamente deridere e giudicare ogni singola transazione tariffaria in base al suo merito, ma piuttosto dare il tempo necessario affinché l’arco più ampio del piano a lungo termine si sviluppi. Forse c’è la speranza che qualcosa nel sistema venga riorganizzato dalla graduale attuazione di questo nuovo paradigma, o meglio, ripensato. Ma in definitiva, non si può sfuggire alla sensazione che, nonostante le speranze di una più ampia ristrutturazione globale, qualsiasi beneficio ne derivi rappresenti solo il rimbalzo finale del gatto morto. I fondamenti sistemici prevalenti nel XIX e all’inizio del XX secolo semplicemente non sono più al loro posto, e la mostruosità della finanza e del capitale globali che è cresciuta dal dopoguerra probabilmente non può essere annullata nemmeno con queste lungimiranti e benintenzionate mezze misure.

A questo punto, l’unica certezza di trasformazione risiede nell’ascesa di un sistema rivale in Oriente, che alla fine porterà alla fine di quello gestito dall’Antica Nobiltà. L’unico problema: è impossibile per loro soccombere senza combattere, e dovranno scatenare una guerra di vasta portata per preservare la loro egemonia in declino.


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Trump costringe l’UE a cedere: dazi del 15% sui prodotti europei, zero su quelli americani_di Lalaina Andriamparany

Trump costringe l’UE a cedere: dazi del 15% sui prodotti europei, zero su quelli americani

La via Andriaparany

28 luglio 2025 3 minuti

Trump costringe l'UE a cedere: dazi del 15% sui prodotti europei, zero su quelli americani
Foto di History in HD / Unsplash

In un accordo che molti osservatori europei hanno definito umiliante, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha approvato quella che molti descrivono come una capitolazione: dazi del 15% su tutti i beni europei esportati negli Stati Uniti.

Donald Trump e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen a Turnbury, in Scozia, il 27 luglio 2025. Foto: Brendan Smiallowski / AFP / Scanpix / LETA

L’Unione Europea ha concordato condizioni commerciali ampiamente favorevoli con gli Stati Uniti. Donald Trump sta imponendo dazi del 15% sulle esportazioni europee, mentre i prodotti americani entreranno nel mercato europeo in esenzione da dazi. In cambio, l’UE si sta impegnando in ingenti acquisti di energia e colossali investimenti negli Stati Uniti.

Accordo per porre fine ai legami energetici con la Russia

Dopo mesi di tensione, questa domenica 27 luglio 2025, dal campo da golf di Turnberry in Scozia, Donald Trump ha ribadito il suo stile inimitabile: imponente, imprevedibile, ma a volte efficace.

Il presidente degli Stati Uniti ha imposto un dazio del 15% su tutti i prodotti europei, una misura che avrebbe potuto essere peggiore: Trump aveva inizialmente minacciato un dazio del 30%. D’altra parte, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha capitolato: non saranno applicati dazi alle esportazioni statunitensi verso l’UE, in particolare in settori chiave come agricoltura, aeronautica e semiconduttori.

Ursula von der Leyen, tuttavia, ha parlato di un “contratto enorme “, affermando che avrebbe portato una certa stabilità. Ma a quale prezzo?

Oltre agli squilibri tariffari, l’Unione europea si è impegnata a:

  • 750 miliardi di dollari in acquisti di energia dagli Stati Uniti (inclusi GNL, petrolio e nucleare),
  • 600 miliardi di dollari di investimenti diretti nell’economia statunitense, anche nel settore militare.

In altre parole, un significativo trasferimento di ricchezza verso gli Stati Uniti , presentato come un modo per ridurre la dipendenza energetica europea dalla Russia.

Sebbene alcuni settori, come quello degli alcolici francesi e quello vinicolo olandese, sperino di ottenere delle esenzioni, molti denunciano l’accordo come una strada a senso unico.

Il ministro francese Benjamin Haddad ammette “meriti occasionali” ma riconosce un “profondo squilibrio” nel patto, mentre altri leader europei invitano alla cautela.

In effetti, la Francia aveva sostenuto l’uso di misure di ritorsione commerciale. Ma questa posizione rimase marginale di fronte al peso economico della Germania, soprattutto perché personaggi come Bernard Arnault sostenevano pubblicamente un approccio di compromesso, preoccupati di preservare i propri interessi transatlantici.

L’unità europea è stata messa ancora una volta alla prova e ha ceduto sotto la pressione economica e diplomatica degli Stati Uniti.

La strategia di Trump: imporre la sua legge al commercio mondiale

L’accordo fa parte di un’offensiva commerciale più ampia guidata da Trump, che di recente ha concluso accordi simili, anche se meno svantaggiosi, con Giappone, Indonesia e Regno Unito.

Il suo obiettivo è chiaro: ridurre il deficit commerciale degli Stati Uniti, riposizionare gli Stati Uniti come forza dominante nel commercio mondiale e, soprattutto, dimostrare agli elettori americani che “l’America sta vincendo di nuovo”.

L’accordo con l’UE potrebbe generare fino a 90 miliardi di dollari di entrate tariffarie per Washington, per non parlare dei previsti investimenti europei. Nel frattempo, restano in vigore dazi punitivi su acciaio e alluminio (fino al 50%).

Trump esce da questo accordo con l’immagine di un negoziatore instancabile, che la stessa Ursula von der Leyen descrive, con strana ammirazione, come un “affarista”.

“È fantastico che abbiamo raggiunto un accordo oggi invece di giocare e poi non avere un accordo. Penso che sia l’accordo più grande di sempre”,

ha affermato Donald Trump , riferendosi probabilmente al PIL nominale combinato di Stati Uniti e Unione Europea, che rappresenta quasi la metà del globo.

Il primo ministro irlandese Michael Martin ha espresso le sue preoccupazioni: “Il commercio sarà ora più costoso e più difficile per le nostre imprese”. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz , nel frattempo, ha ribadito che “solo la stabilità e la reciprocità sono vantaggiose per entrambe le sponde dell’Atlantico”.

Quanto al primo ministro ungherese Viktor Orban, si è sempre opposto alla “linea generale di Bruxelles” e ha dichiarato ironicamente : stamattina

“Questo non è un accordo. Donald Trump si è mangiato von der Leyen a colazione.”

Ecco due motivi per cui la Francia dovrebbe respingere l’accordo commerciale UE-USA

Édouard Husson

28 luglio 2025 6 minuti

Ecco due motivi per cui la Francia dovrebbe respingere l'accordo commerciale UE-USA

La Commissione ha dimostrato definitivamente la sua incapacità e la Francia negozierebbe meglio da sola.

Ursula von der Leyen e la sua Commissione europea hanno fornito un’ulteriore prova della loro incapacità di difendere gli interessi della Francia. È ora di riconquistare la nostra indipendenza!

In un articolo pubblicato oggi, delineiamo gli elementi chiave dell’accordo commerciale concordato tra Donald Trump e Ursula von der Leyen. Qui, vorrei trarre alcune conclusioni per la Francia sul fiasco della Leyen.

Come la Francia deve ora negoziare a Bruxelles

Non entrerò qui in una discussione sulla Frexit. Credo che ormai si tratti di un dibattito teorico che non farebbe altro che rinviare l’urgente necessità di restituire alla Francia la sua indipendenza. Mi spiego: la Frexit è stata concepita, ad esempio da François Asselineau, come un copia-incolla della Brexit. Come un’uscita globale e simultanea dal Trattato di Lisbona. È un approccio che ha richiesto tre anni per essere completato. Avrebbe potuto avere senso in Francia se il dibattito fosse stato avviato durante la campagna presidenziale del 2017, sulla scia del referendum britannico; o, in caso di necessità, addirittura nel 2022.

Ora, dobbiamo immaginare un candidato indipendentista francese che raggiunga l’Eliseo nel 2027. Guiderebbe una Francia il cui debito è quasi raddoppiato da quando Emmanuel Macron è stato cooptato come presidente nel 2017 dall’élite al potere francese. E questo in un’Unione Europea in cui l’economia tedesca è essa stessa profondamente indebolita. Soprattutto, ora che la polvere della retorica della “sovranità europea” di Macron si è depositata, il panorama devastato del partenariato franco-tedesco è sotto gli occhi di tutti.

Rispetto alla Gran Bretagna del 2017, la Francia si trova in una posizione debole per un possibile negoziato globale. D’altro canto, nulla impedisce il seguente approccio:

  • Fare del debito francese un punto di forza. Una crisi del debito francese metterebbe in pericolo l’euro, e l’Unione non lo vuole. Se sapessimo come fare, ci troveremmo nella posizione di un debitore il cui banchiere è obbligato a concedere una rinegoziazione dei suoi debiti, altrimenti la banca stessa potrebbe fallire.
  • Non si tratta di negoziare per indebitarsi di più. Ma al contrario, per risparmiare. Il prossimo presidente francese, se avrà spirito di indipendenza, dovrà rinegoziare un certo numero di politiche europee che ci costano più di quanto ci fruttano. A cominciare dal mercato elettrico.
  • La questione dell’accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, tuttavia, appartiene a una categoria a parte: ad esempio, la Francia non ha bisogno di acquistare gas americano, a condizione che rilanci la sua industria nucleare civile. Il trattato con gli Stati Uniti appartiene ora a una categoria chiaramente identificabile: quella delle politiche che non richiedono il successo dell’Unione.

La Francia farebbe meglio a negoziare direttamente con gli USA

Adotto questa valutazione ufficiale del commercio franco-americano nel 2024:

Gli scambi di merci tra Francia e Stati Uniti hanno nuovamente superato la soglia dei 100 miliardi di euro, raggiungendo i 101,1 miliardi di euro, in aumento del 4,1% rispetto al 2023. Secondo i dati delle dogane francesi, sia le importazioni (+1,2% a 52,6 miliardi di euro) sia le esportazioni (+7,5% a 48,5 miliardi di euro) sono in aumento. Gli scambi di servizi hanno raggiunto i 70,4 miliardi di euro nel 2023 (ultimi dati disponibili) , in aumento di quasi il 2%, con un surplus di 15,9 miliardi di euro per la Francia. Le esportazioni francesi di servizi sono aumentate dell’1,7%, raggiungendo i 43,2 miliardi di euro, mentre le importazioni sono cresciute allo stesso ritmo, raggiungendo i 27,3 miliardi di euro.

Nel 2024, gli Stati Uniti diventano il 2° E cliente della Francia (dietro Germania e Italia), in rialzo di un posto, e i suoi 3 E fornitore, in rialzo di due posizioni. La bilancia commerciale bilaterale, ancora in deficit, si avvicina all’equilibrio a -4,1 miliardi di euro dopo i -6,9 miliardi del 2023 e il deficit storico di
-13,4 miliardi di euro nel 2022.

Le esportazioni francesi verso gli Stati Uniti sono state trainate nel 2024 dall’aeronautica (9,1 miliardi di euro, pari al 18,8% del totale), dalle bevande (4,1 miliardi di euro, pari all’8,4%) e dai prodotti farmaceutici (3,8 miliardi di euro, pari al 7,9%). Le esportazioni aeronautiche, in particolare i motori turbogetto e i loro componenti, hanno registrato la crescita più significativa in valore nel 2024 (+1,2 miliardi di euro). Seguono l’industria navale (+0,6 miliardi di euro), grazie alla consegna delle navi da crociera Utopia of the Seas a Royal Caribbean e Ilma alla Ritz-Carlton Yacht Collection, l’industria chimica (+0,5 miliardi di euro) e l’industria dei profumi e dei cosmetici (+0,5 miliardi di euro).

In termini di importazioni, i prodotti aeronautici riconquistano il primo posto (11 miliardi di euro, 20,9% del totale), davanti agli idrocarburi naturali (10,5 miliardi di euro, 19,9%) e ai prodotti farmaceutici (4,9 miliardi di euro, 9,4%). Le importazioni di idrocarburi, in particolare di gas naturale, diminuiranno nuovamente nel 2024 in valore (-1,8 miliardi di euro), mentre quelle dell’industria aeronautica (+1,6 miliardi di euro) e dei prodotti petroliferi raffinati (+1,1 miliardi di euro) aumenteranno in modo significativo. Le importazioni di prodotti farmaceutici aumenteranno leggermente (+0,2 miliardi di euro).

Tutti gli Stati Uniti contribuiscono alle relazioni economiche bilaterali , in base al loro peso economico e alle specializzazioni settoriali. Pertanto, secondo i dati dell’US Bureau of Economic Analysis, il Texas rimane il principale esportatore di beni verso la Francia, nonostante un ulteriore calo delle esportazioni (8 miliardi di dollari nel 2024, -2,8% rispetto al 2023), principalmente grazie alle sue esportazioni di prodotti energetici, seguito dal Kentucky (4,8 miliardi di dollari, +29,5% rispetto al 2023), quindi dallo Stato di New York (2,9 miliardi di dollari). Al contrario, lo Stato di New York (7,9 miliardi di dollari), il New Jersey (5,9 miliardi di dollari) e il Texas (5,3 miliardi di dollari) sono i tre principali clienti della Francia negli Stati Uniti . Oltre la metà del commercio franco-americano viene effettuato con tre regioni: Île-de-France (34,3% degli scambi), Normandia (9,5%) e Alvernia-Rodano-Alpi (9,3%).

La differenza con la Germania è evidente. Siamo praticamente in equilibrio. Perché esporci a un negoziato in cui Donald Trump era principalmente preoccupato per il deficit commerciale del suo Paese con gli Stati Uniti?

Vorrei aggiungere un punto che mi sembra essenziale. In un mondo in fase di riconfigurazione, abbiamo più bisogno degli Stati Uniti che della Germania. Una Germania riunificata non ha rispettato il patto postbellico con la Francia:

  • Ha smembrato l’ex Jugoslavia.
  • Ha spinto per l’allargamento dell’Unione Europea prima che l’inchiostro sul Trattato di Maastricht si asciugasse.
  • Da Mitterrand a Macron, ha rifiutato a tutti i governi francesi un governo economico dell’Eurozona.
  • All’inizio degli anni 2000, ha fatto tutto il possibile per ritardare i progetti di gasdotti attraverso il Mar Nero e l’Europa meridionale a favore del suo Nord Stream.
  • La Germania ha bloccato il piano di Nicolas Sarkozy per un’Unione per il Mediterraneo.
  • Dal 2004 (Rivoluzione arancione) al 2014 (Maidan), la Germania ha continuato a gettare benzina sul fuoco in Ucraina, diventando uno dei principali responsabili della frattura decennale del Paese.
  • La Germania di Angela Merkel ha continuato ad accumulare azioni solitarie: l’eliminazione graduale dell’energia nucleare civile, la politica di immigrazione di massa nel 2014-2017, il rifiuto di negoziare seriamente con David Cameron per impedire la Brexit, ecc.
  • Per quanto riguarda le questioni energetiche, la Germania ha aumentato la pressione sui governi francesi affinché abbandonino l’energia nucleare civile.

Conosciamo tutti il brutale ma sfacciato imperialismo degli Stati Uniti. Con Donald Trump, il vantaggio è il primato attribuito alla negoziazione diretta. Al contrario, l’imperialismo tedesco in Europa, pur essendo reale, si camuffa dietro le direttive dell’Unione Europea e la partecipazione al comando integrato della NATO.

Abbiamo quindi una duplice ragione per non ratificare l’accordo concluso tra la signora von der Leyen e Donald Trump e per negoziare direttamente con gli Stati Uniti. Da un lato, la Commissione europea non è in grado di difendere gli interessi dell’Europa. Dall’altro, non dobbiamo più allinearci alla politica tedesca, che era, in questo trattato, la preoccupazione principale di Donald Trump.

Il finale dell’arte, di Spenglarian Perspective

Il finale dell’arte

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Riepilogo

  • Il grande stile si completa nel periodo tardo con i rispettivi maestri di quelle arti.
  • Entrando nel periodo della civiltà, le persone possono solo guardare indietro a questo stock fisso di forme e:
    • Perfezionare le tecniche esistenti.
    • Abbandonate queste tecniche e cercate di creare un’arte espressiva che vada oltre i confini della forma rigorosa.
  • Quest’ultima ha portato alla sovversività dell’arte moderna.

Per il mio diciannovesimo compleanno , ho visitato una galleria Tate a St. Ives e, sebbene gran parte delle opere fossero altamente dimenticabili, ce n’era una che credo non dimenticherò mai. All’inizio non riuscivo a vederla perché era sul divisorio della stanza accanto, ma ho visto due persone che ne discutevano, osservandola da cima a fondo come se avesse qualcosa di interessante. La cosa mi ha incuriosito, così ho aspettato che se ne andassero prima di svoltare l’angolo, solo per essere deluso dal fatto che fosse solo una tela nera vuota. Come minimo, l’ho trovata molto divertente.

Perché l’arte moderna fa schifo? È una domanda che viene dibattuta da decenni e che ha molte risposte superficiali; in genere, queste risposte riguardano la scarsa qualità, la deviazione dalla tradizione, l’oscurantismo, l’evasione fiscale e il disprezzo assoluto per l’uomo comune e il suo ambiente – questo vale soprattutto per certi tipi di architettura moderna. Fondamentalmente, però, nella domanda si riconosce che questo è un problema del mondo moderno. Il cittadino medio del primo mondo, ricco o povero che sia, ha più che sufficiente accesso ai materiali e al tempo necessari, che si tratti di strumenti, inchiostro, colori o materiali edili, per padroneggiare qualsiasi arte scelga, ma non lo fa. Non è che John Martin, Mozart o Michelangelo non abbiano dedicato la loro vita allo studio, quindi è ragionevole che alcuni individui veramente talentuosi siano venerati per i loro veri meriti, ma non lo sono. Nell’abbondanza del mondo moderno, rispetto al passato, la nostra arte è diventata invece sovversiva, assurda, mediocre e soggettiva, a mio parere.

Perché ci sono molti modi per attaccare questa narrazione. Ad esempio, possiamo vedere con i nostri occhi che l’arte moderna fa schifo rispetto ai paesaggi di John Martin o Albert Bierstadt, ma le nostre orecchie percepiscono chiaramente che c’è una differenza qualitativa tra Beethoven e Ye, quando, a ben vedere, Ye dovrebbe essere in una galleria della Tate. Come possiamo conciliare questo con la nostra ragionevole apprensione nei confronti dello “stile artistico”?

Nell’ultimo post, abbiamo esaminato come la pittura moderna e le tecniche musicali si siano sviluppate tra il XVI e il XIX secolo, in quello che Spengler chiama il Tardo Periodo Culturale. L’arte fu secolarizzata e trovò la sua espressione più pura nella musica strumentale del XVIII secolo . Spengler dedicò a questo periodo numerose pagine, perché era ormai completo, ma non poteva dire lo stesso per il Periodo della Civiltà, che era iniziato solo con la pubblicazione de “Il tramonto dell’Occidente” alla fine degli anni ’10 del Novecento. C’è solo una sezione nel settimo capitolo che affronta il declino dell’arte e analizza gli esatti meccanismi che causano questo declino percepito. Quindi, in questo ultimo post della nostra serie “Cos’è l’arte?”, tratteremo questo periodo invernale, com’era la situazione ai tempi di Spengler, com’è oggi e come sarà in futuro.


Il periodo della civiltà apollinea abbraccia quasi perfettamente l’epoca ellenistica (323-30 a.C.) e prosegue fino al periodo imperiale dell’Impero romano, dove l’arte greca si conclude definitivamente. Il periodo della civiltà faustiana si estende dalla Rivoluzione francese a oggi e continuerà per il prossimo futuro, finché i meccanismi di cui parleremo oggi non dissolveranno completamente la struttura visibile della nostra società. Il periodo della civiltà , tuttavia, è una lenta decomposizione della cultura che procede indefinitamente, fino a quando non rimane altro che la struttura consolidata della cultura stessa. Ciò si può osservare nel modo in cui Cina e India preservarono le loro forme culturali, in politica, religione e arte, per ben duemilacinquecento anni dopo la fine di quello che Spengler identifica come il loro rispettivo periodo tardo. Ma nei primi trecento anni circa di quest’era, corrispondenti al Periodo degli Stati Contendenti e al Materialismo spirituale, questa decomposizione è eccezionale, poiché la cultura ormai morta perde le sue componenti organiche.

La sezione, intitolata “Il finale dell’arte”, si apre così:

“ L’ultima delle arti faustiane morì nel “Tristano”. Quest’opera è la gigantesca chiave di volta della musica occidentale. La pittura non ha ottenuto nulla di simile come finale – al contrario, l’effetto di Manet, Menzel e Leibl, con la loro combinazione di “luce libera” e stili antichi resuscitati, è debole .” (Vol. 1, p. 291)

Richard Wagner – “Tristano e Isotta”, Preludio

Ascolta ora · 10:58

Tristano e Isotta è un dramma musicale composto dal tedesco Richard Wagner (1813-1883) alla fine degli anni ’50 dell’Ottocento. Spengler intende dire che quando si ascolta la musica del periodo classico – Beethoven, Haydn, Bach – si possono percepire melodie, motivi e motivi distinti; tuttavia, dall’inizio alla fine, questa composizione è un’unica atmosfera sonora continua. I motivi emergono da un mare di suono informe e vi si dissolvono non appena si presentano. Wagner chiama questa “melodia infinita”, Spengler la definisce l’ultimo respiro dello spirito faustiano.

Egli paragona questo all’opera scultorea di Pergamo del primo periodo ellenistico:

“ Contemporaneamente”, nel nostro senso, l’arte apollinea giunse al suo termine con la scultura di Pergamo. Pergamo è la controparte di Bayreuth. Il famoso altare stesso, in effetti, è più tardo, e probabilmente non l’opera più importante dell’epoca; dobbiamo supporre un secolo (330-110 a.C.) di sviluppo ormai perduto nell’oblio. ” (Vol. 1, p. 291)

“Il Galata morente”, 230-220 a.C.

La città-stato greca di Pergamo, sede di opere come Il Galata morente ,e la città tedesca di Bayreuth, patria di Wagner e Franz Liszt (1811-1886), simboleggiano quest’ultimo respiro prima del tuffo nella morte. Ma anche in questi momenti, emerge un modello di critica. Nietzsche criticò Wagner per la decadenza smisurata della sua musica, insinuando che usasse la musica per manipolare le parti più deboli dell’anima con eccessiva emotività e teatralità. Questo rappresenta un calo rispetto alla sua convinzione iniziale che Wagner sarebbe stato il salvatore della musica moderna. Allo stesso modo, storici come Winckelmann, che abbiamo già accennato per la sua prima classificazione dell’arte greca arcaica e classica, criticarono la scultura “ellenistica”, ancora senza nome, definendola altrettanto emotiva ed eccessiva. In entrambi i casi, si tratta di una caduta in disgrazia, ma cosa stava realmente accadendo dietro le quinte per giustificare questi sospetti?

Spengler fornisce una diagnosi:

“ Il sintomo del declino del potere creativo è il fatto che per produrre qualcosa di rotondo e completo l’artista deve ora emanciparsi dalla forma e dalle proporzioni .” (Vol.1, p.291)

Colosso di Rodi, 280-226 a.C. (sinistra), skyline di Manhattan, oggi (centro), Volkhalle, Albert Speer, anni ’30 (destra)

Ci sono tre sintomi che Spengler identifica come corrispondenti a questa ” emancipazione “. Il primo è il gigantismo . Non si tratta dell’enormità di cattedrali o piramidi, ma piuttosto di un’eccessiva estensione di scala senza scopo. Un esempio antico di questo sarebbe il Colosso di Rodi, che era così grande che le triremi (navi) potevano passargli sotto. Il gigantismo è anche un vizio proibito degli architetti. Improvvisamente, la dimensione inizia a rappresentare il potere di massa. L’architettura romana è sempre stata una dimostrazione di potenza e potenza con i suoi vasti fori, le aule delle basiliche e i templi. Questo è a sua volta eguagliato dall’architettura dei grattacieli di oggi, come si vede nelle mille guglie di Manhattan. Ci sono anche molti progetti che non sono mai decollati. Hitler era famoso per i suoi megaprogetti. Il più iconico dei quali era la Volkhalle, ispirata al Pantheon di Roma. È nel design di questa particolare struttura che si inizia a vedere come la dimensione distrugga la forma delle forme architettoniche che impiega, e faccia sembrare la struttura gonfia.¹

Il secondo e il terzo sintomo hanno le corna intrecciate e incarnano il problema di una tecnica forzata . Nel tardo periodo, artisti come Prassitele o Haydn potevano lavorare con disinvoltura entro i limiti e i vincoli imposti sia dal materiale che dalla tecnica. Libertà e necessità erano considerate la stessa cosa, ma l’arte del secolo successivo iniziò a inciampare su se stessa per raggiungere la stessa finalità.

Spengler attribuisce questa lotta alla morte dell’anima della cultura e alla sua sostituzione con l’intelletto:

” Il destino della forma risiedeva nella razza o nella scuola, non nelle tendenze individuali. Sotto l’influsso di una grande tradizione, anche un artista minore può raggiungere il suo pieno successo, perché l’arte viva lo mette in contatto con il suo compito e il compito con lui. Oggi, questi artisti non riescono più a realizzare ciò che intendono, perché le operazioni intellettuali sono un misero sostituto dell’istinto educato e ormai estinto .” (Vol. 1, p. 292)

Tornando al primo post, una cultura eleggerà i tipi d’arte che meglio si esprimono. Nel primo periodo, l’infinito era rappresentato dallo stile gotico. Questo culminò in un insieme fisso di forme gotiche. Nel periodo estivo, l’infinito fu rappresentato dai pittori impressionisti, da Tiziano, il veneziano, a Rembrandt, l’olandese. L’arte primaverile è il modello dell’infinito religioso; l’arte estiva è il modello di un’illusione laica di infinito. Poi, l’ascesa della musica barocca e classica nel periodo autunnale elevò la musica a massima espressione di spazio infinito e sconfinato. Con Wagner, il movimento fu completato e l’arte manifestò pienamente l’idea di disincarnazione come tecnica.

“Un piacevole fardello”, William-Adolphe Bouguereau, 1895 (in alto a sinistra); “Cucito”, Ibid., 1898 (in alto a destra); “Tra la Sierra Nevada, California”, Albert Bierstadt, 1868 (in basso a sinistra); “Valle dello Yosemite”, Ibid., 1864 (in basso a destra)

È qui che otteniamo quella che Spengler chiama la “Crisi del XIX secolo “. Due destini sono lasciati all’arte una volta che ha raggiunto la sua massima espressione. Il primo destino è che l’artista si attenga alle tecniche consolidate. Diventa un perfezionista . Così facendo, preserva un momento del passato, un momento da cui la storia si è ormai allontanata. Tentare di riprodurre dipinti del Secolo d’Oro olandese di fine Ottocento è infruttuoso e finirà sempre per essere stantio e difficile, perché il perfezionista non sa cosa si provasse a essere il Rembrandt protestante nel suo studio. Conosce solo gli strumenti, i colori e la tecnica, il cadavere del periodo. Questo non significa affatto che sia negativo; significa solo che si può vedere l’Ottocento, senza sviluppi nell’espressione culturale consolidata. I miei due pittori preferiti, William-Adolphe Bouguereau (1825-1905) e Albert Bierstadt (1830-1902), sono entrambi perfezionisti di quest’epoca; hanno raffinato piuttosto che innovato e hanno prodotto opere eccezionali² . Il perfezionismo, tuttavia, si traduce anche in un senso di inadeguatezza. Liebl, Cézanne, Renoir e Manet erano tutti perfezionisti e, in molti casi, non hanno mai veramente completato le loro opere di conseguenza. Wagner ha dovuto analizzare a fondo ogni minimo dettaglio della sua opera per raggiungere Bach, Mozart e Beethoven, che non hanno mai faticato affatto perché erano maestri del loro periodo e non di un’arte .

Quando diciamo che gli artisti del tardo periodo lavoravano fluentemente, potete immaginarlo come una lingua viva. Lingua e significato si percepiscono nel momento. Ha delle regole per la comunicazione, ma si può imparare a parlare bene entro quei confini. Questo è ciò che si intende per unità di libertà e necessità. Quando la cultura muore e inizia il periodo della civiltà, bisogna immaginare che tutto ciò che rimane sia la scrittura di questa lingua, e che le persone la guardino dal futuro e comprendano cosa significasse pronunciare quelle parole. I perfezionisti sono costretti a prendere la struttura il più letteralmente possibile perché lavorano con una lingua morta che stanno facendo rivivere attraverso la tecnica. L’alternativa, il secondo destino, tratta la padronanza della lingua morta come un ostacolo all’espressione.

“Chi ha paura del rosso, del giallo e del blu? III”, Barnett Newman (1967)

Questo secondo destino è una rinuncia totale alla forma. Così facendo, la tradizione viene annientata e si viene esclusi dal linguaggio del grande stile. Non c’è esempio migliore di ciò che chiamiamo “arte moderna”. Ci sono semplicemente troppi esempi perfettamente caotici tra cui scegliere che dimostrano questo crollo di forma e tecnica. Anche il dibattito al riguardo è curioso. L’intuizione ci dice che qualcosa non va in queste opere, ma poi una brigata di intellettuali interviene per salvarle con muri di testo e accuse di fascismo. ” Chi ha paura del rosso, del giallo e del blu ?” fu un’abile trovata: l’opera, composta da tre strisce di rosso, giallo e blu, fu vandalizzata da uno studente nel 1982, sostenendo che si trattasse di un’offesa alla bandiera tedesca. In altre parole, la morale sembra essere che i fascisti hanno paura dell’arte moderna per le sue tendenze sovversive. Ma l’antifascismo dell’arte moderna è solo la giustificazione razionale, codificata in un linguaggio altamente connotato, di un’espressione più bassa, che rappresenta il crollo e la resistenza attiva della struttura artistica e della tradizione storica. La maggior parte dell’arte moderna non ha la stessa intelligenza di Rosso, Giallo e Blu, e la vera critica all’arte astratta emerge, ovvero la totale disconnessione tra materia e significato e la totale assenza di una tecnica sistematica che li unifichi.

Scrivendo questo, mi sono chiesto se la tela nera nascondesse un significato nascosto, un “Chi ha paura del rosso, del giallo e del blu?”, ed ero semplicemente troppo apatico per accorgermene. Dovevo forse essere divertito dalla mia delusione? Forse la tela era stata pensata per essere nascosta dietro l’angolo, per creare un effetto shock. È forse una dichiarazione solenne contro il fascismo implicito nell’uso di una tela bianca ? Ma se proprio devo pormi queste domande, se il dipinto non può parlare da solo attraverso la sua tecnica e il suo stile, allora la sua forma era scadente quanto un’eloquenza confusa. Accanto a queste tele bianche, se siete fortunati, troverete una dissertazione di accompagnamento che spiega cosa dovreste pensare e provare nei suoi confronti. Ma se dovete spiegarvi cosa dovete provare, allora, usando la definizione di arte di Spengler, è fondamentalmente scadente, e il paragrafo potrebbe essere appiccicato a qualsiasi vecchia opera e avere lo stesso livello di connessione.


Già un secolo fa, per Spengler era ovvio che l’arte non mirava più alla realizzazione spirituale come l’Impressionismo, l’architettura rinascimentale, la musica classica o le cattedrali romaniche. Il movente principale dell’arte era, ed è, il denaro. Questo ci porta a quella che è, senza dubbio, la mia sezione preferita dell’intero “Tramonto dell’Occidente”, dove Spengler dedica due pagine a un’analisi critica dell’arte del suo tempo.

“ Dovunque si guardi, si può trovare il compito evidentemente necessario che attende un artista del genere? Passiamo in rassegna tutte le mostre, i concerti, i teatri, e troviamo solo calzolai industriosi e sciocchi rumorosi, che si dilettano a produrre qualcosa per il mercato, qualcosa che “prenda piede” presso un pubblico per il quale arte, musica e teatro hanno da tempo cessato di essere necessità spirituali .”

Qui, Spengler attacca il fatto che la maggior parte degli artisti contemporanei si esibisca per denaro e non perché ci sia un vero significato o una vera ricerca nelle loro opere. Questo è toccante se si considera che molta “arte moderna” viene spesso utilizzata in schemi di evasione fiscale. È giusto dire che molte persone, fin da giovanissime, sognano di essere famose per le proprie passioni. Ma con l’arte di oggi, questo genera un livello di attrazione popolare piuttosto che grandi aspirazioni. Pochi vogliono essere il prossimo Michelangelo. Tutti vogliono essere una pop star, e la società di massa sponsorizza questo risultato.

“ Per un grande artista ci sono sempre stati cento superflui che hanno praticato l’arte, ma finché è durata una grande tradizione (e quindi una grande arte), anche questi hanno raggiunto qualcosa di degno. Possiamo perdonare a questi cento di esistere, perché nell’insieme della tradizione hanno costituito il fondamento per il singolo grande uomo. Ma oggi abbiamo solo questi superflui, e diecimila di loro, che lavorano l’arte “per vivere” (come se questa fosse una giustificazione!).”

Torniamo quindi a una tendenza menzionata in precedenza, ovvero che il periodo culturale concentrava la sua abilità nella razza sopravvissuta , ma dopo questo periodo, le nozioni di razza lasciano il posto all’iperindividualismo. Di conseguenza, non ci sono più grandi maestri d’arte. Certamente quelli famosi, ma la loro partecipazione a una grande tradizione artistica, che sia in Occidente, nella Grecia ellenistica, a Roma o nel Califfato abbaside, è inesistente, poiché quella tradizione si è ormai estinta. La loro arte è o una ripetizione del passato o una sua distruzione.

“ Una cosa è abbastanza certa: oggi ogni singola scuola d’arte potrebbe essere chiusa senza che l’arte ne risenta minimamente .”

Storicamente, studiare arte significava fare apprendistato con i maestri invece di seguire corsi universitari. Questo è più in linea con l’idea che i grandi artisti trasmettano le loro competenze ai loro studenti e creino una tradizione stilistica. Ma oggi, imparare l’arte significa seguire un corso inutilmente lungo, che si tratti di specializzarsi in un tipo di arte o in un insieme più ampio di belle arti, ricevendo poca o nessuna guida, rispetto a come si potrebbe immaginare che Rembrandt aiutasse i suoi studenti, e sborsando 60.000 sterline per il piacere di perseguire qualcosa in cui probabilmente si era già bravi o semplicemente non si era bravi. Non aiuta il fatto che, oggi, l’intelligenza artificiale sia abbastanza competente da annientare l’industria, né ha aiutato il fatto che l’arte non sia un’industria molto grande così com’è, e che le conoscenze siano un fattore determinante per ottenere un ingaggio. Sarebbe un atto di generosità chiudere queste scuole e risparmiare a decine di migliaia di studenti i loro preziosi soldi. E la domanda sorge spontanea: ogni altro tipo di laurea, comprese le discipline umanistiche, obbedisce a una serie di codici e tecniche di apprendimento e ricerca, mentre l’arte, al contrario, ha la forma più debole di tutte, poiché tutti arrivano nel campus pronti a seguire il proprio gusto personale come meglio credono e poco altro; a cosa serve una laurea in arte se non si paga per nuove informazioni o una guida disciplinata?

Possiamo imparare tutto ciò che desideriamo sul clamore artistico che una megalopoli suscita per dimenticare che la sua arte è morta dall’Alessandria dell’anno 200. Lì, come qui nelle nostre città-mondo, troviamo un inseguimento di illusioni di progresso artistico, di peculiarità personali, del “nuovo stile”, di “possibilità insospettate”, chiacchiere teoriche, artisti pretenziosi alla moda, sollevatori di pesi con manubri di cartone – l'”Uomo di Letteratura” al posto del Poeta, la farsa sfacciata dell’Espressionismo che il commercio dell’arte ha organizzato come una “fase della storia dell’arte”, pensando, sentendo e formando come arte industriale. Anche Alessandria aveva drammaturghi problematici e artisti da botteghino che preferiva a Sofocle, e pittori che inventavano nuove tendenze e bluffavano con successo il loro pubblico .

“Prima Comunione”, Pablo Picasso, 1896 (sinistra); “Autoritratto di fronte alla morte”, ibid. 1972 (destra)

Questo è un segmento che avrebbe potuto essere scritto oggi sull’arte moderna. La finta apertura di nuovi orizzonti è giustificata da muri di testo e personaggi famosi. Quando leggo questo, penso alla famosa citazione di Pablo Picasso: ” Mi ci sono voluti quattro anni per dipingere come Raffaello, ma una vita per dipingere come un bambino “. Il passaggio da La Prima Comunione (1896) ad Autoritratto di fronte alla morte (1972) mostra entrambi i sintomi del declino dell’arte: l’incapacità di perfezionare il passato, che si è scontrata con la distruzione di quegli stili passati. Picasso sarebbe, secondo la misura di Spengler, uno di questi pretenziosi sollevatori di pesi. È nobile che Picasso abbia potuto raggiungere l’apice dell’arte prima di toccare il fondo, ma la maggior parte non raggiunge mai quell’apice prima che la tentazione si insinui.

Cosa possediamo oggi come “arte”? Una musica finta, piena del rumore artificiale di strumenti ammassati; una pittura finta, piena di effetti idioti, esotici e da vetrina, che ogni dieci anni circa escogita dalla ricchezza formale di millenni un nuovo “stile” che in realtà non è affatto uno stile, poiché ognuno fa ciò che vuole; una plastica bugiarda che ruba indifferentemente dall’Assiria, dall’Egitto e dal Messico. Eppure questo e solo questo, il gusto dell'”uomo di mondo”, può essere accettato come espressione e segno dell’epoca; tutto il resto, tutto ciò che “si attacca” ai vecchi ideali, è per il consumo provinciale .

Se pensiamo alla natura dei secoli tra il 1000 e il 1900, ognuno di essi possiede un carattere distinto. La storia si muove lentamente ma inesorabilmente, l’estetica matura lentamente. Poi, tra il 1900 e il 2000, ogni decennio ha le sue caratteristiche distintive. Gli anni Duemila potrebbero aver continuato questa tendenza, ma con Internet, ha iniziato a muoversi sempre più rapidamente, poiché la tecnologia ha reso la comunicazione e l’informazione istantanee in tutto il mondo. Anno dopo anno, mese dopo mese, la cultura artistica si evolve in modo tale che il passato immediato sembra un paese straniero. Ma Internet è stato solo un catalizzatore per una reazione già in corso. Man mano che il mondo diventa più globalizzato e altrettanto informe, in termini di identità, nazionalità e cultura, il patrimonio di forme del passato diventa parte di una cultura consumistica che si sposta da un argomento all’altro in termini puramente sentimentali. Lo stile non è più qualcosa a cui aderire come una sorta di logica; è goduto come intrattenimento, come moda. Lo stile implica qualcosa di collettivo, ma se ognuno persegue ciò che desidera, allora non c’è forma attorno a cui radunarsi.

Arco di Costantino (315 d.C.)

E se non c’è una forma attorno a cui radunarsi, se ognuno fa ciò che vuole, allora le prospettive di grandi cambiamenti sociali diventano inesistenti. La cultura cambia con crescente rapidità fino a crollare e non lasciare nulla. Su questa scia, si arriva al culmine dell’arte, il cesarismo, la seconda religiosità dell’arte. E non c’è caso di studio migliore dell’arco di Costantino, che si erge proprio al confine tra la Roma apollinea e quella magica. Quando Costantino conquistò Roma nel 312, ordinò l’erezione del suo arco di trionfo presso il Colosseo, uno dei pochi rimasti in piedi oggi. Invece di far sfoggiare i suoi trionfi sull’arco, rubò da altri archi i trionfi di altri imperatori. L’arco di Costantino è un riciclaggio di materiale copiato e rubato. Non era la prima volta che Roma replicava altre opere. La maggior parte delle sculture e delle opere d’arte greche che abbiamo sono riproduzioni romane, come il Doriforo. In Cina e in India si osserva come gli stili artistici possano rimanere congelati per migliaia di anni se lasciati intatti. Se l’Impero Romano non fosse stato assorbito dall’Oriente, ci saremmo potuti aspettare un’equivalente resistenza di quelle tecniche. Da qui, l’arte torna a ciò che era prima dell’era delle culture superiori, senza forma, senza forma, un linguaggio che si trasforma e si trasforma diffondendosi da un luogo all’altro, il grande stile di cattedrali e basiliche, i generi pittorici e le arti pure, i perfezionisti e i decostruttivisti, tutto un ricordo del passato.

C’è un esempio interessante di come questa tendenza si manifesti oggi attraverso l’intelligenza artificiale. Per addestrare gli studenti di LLM, sono necessarie enormi quantità di informazioni, il che di solito comporta la ricerca su internet di materiale di vario tipo, da testi a immagini, da video a suoni. Di conseguenza, abbiamo assistito a un costante aumento dell’uso dell’intelligenza artificiale come forma d’arte, generando immagini e dipinti – e, sempre più, anche video, di qualsiasi cosa si desideri. Ma poiché l’intelligenza artificiale produce arte applicando alle immagini esistenti un rumore di scala e sovrapponendole fino a creare un’immagine coerente di ciò che si desidera, questa tecnologia è il nostro proverbiale arco di Costantino. Prende in prestito indiscriminatamente e arbitrariamente da un milione di fonti e le assembla per creare qualcosa di “nuovo”. Solo che non è, e non sarà mai, “nuovo”, perché sarà sempre una sintesi del lavoro di altri.


In conclusione, possiamo finalmente rispondere alle ragioni per cui l’arte moderna è scesa a un livello così basso. Le tecniche che utilizziamo ancora oggi erano già state perfezionate e padroneggiate nel Barocco, proprio come la scultura fu padroneggiata dai Greci con l’età classica. L’arte successiva a questo periodo può solo guardare indietro a un insieme fisso di forme e mirare a perpetuarlo senza cambiamenti oppure a sfidare quelle regole e cercare di trovare espressione al di fuori di esso. Il risultato è un’arte priva di significato che viene innovata solo attraverso la sovversione, prima che la cultura tarda torni a copiare gli stili antichi come standard indefinitamente.

Con questo si conclude anche la nostra serie “Cos’è l’arte?”. Ho scritto questo per diversi motivi, ma soprattutto perché avevo bisogno di rivederlo per progetti futuri che usciranno a breve. Spero di poter condividere di più a riguardo quando uscirà. Grazie per la lettura.

Grazie per aver letto Spenglarian.Perspective! Questo post è pubblico, quindi sentiti libero di condividerlo.

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La stessa tendenza si applica alla musica. Già nel 1812, Čajkovskij riteneva che le sue ouverture fossero eccessive e troppo forti. L’eccesso contro la necessità è il modello.

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Lo stesso si può dire del contemporaneo di Wagner, Franz Liszt, e più tardi di Debussy. La morte della forma d’arte è molto simile alla morte della forma politica: una lenta lotta per mantenere la cultura a galla.

Macron-Merz: un duo perfettamente asservito agli Stati Uniti_di Edouard Husson

Macron-Merz: un duo perfettamente asservito agli Stati Uniti

Edouard Husson di Edouard Husson

 23 luglio 2025

in Filo conduttore del nomeLinee rette HussonA

Tempo di lettura: 8 minuti

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Macron-Merz: un duo parfaitement soumis aux Etats-Unis

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Emmanuel Macron e Friedrich Merz si incontreranno a Berlino la sera di mercoledì 23 luglio. I media hanno ancora il riflesso di interrogarsi sul futuro di un accordo che…. appartiene al passato. Soprattutto, i due uomini personificano, ciascuno a suo modo, la sottomissione dell’Unione Europea agli Stati Uniti. Per decenni, i leader francesi hanno giurato sul “modello tedesco”. Più passavano gli anni, più diventava un modello di sottomissione. I leader francesi non smisero mai di copiare la Germania, finendo per esaltare la sottomissione che essa incarnava.

Non lasciatevi ingannare dalla grande statura di Friedrich Merz: l’uomo è debole e sottomesso. Quando Angela Merkel lo ha ostacolato all’inizio degli anni 2000, ha lasciato la politica, per poi tornare quando il declino della “Lady di ferro” tedesca era ormai iniziato. E cosa ha fatto Merz quando non era più in politica? È andato a lavorare per BlackRock, consentendo al noto fondo di investimento di mettere sempre più le mani sul capitalismo industriale tedesco.

Se si vuole capire perché la Germania non è stata in grado di opporsi agli Stati Uniti e di evitare la guerra in Ucraina, si deve guardare alla penetrazione del capitalismo finanziario americano nelle principali aziende industriali tedesche. Era nell’interesse dell’industria tedesca che non ci fosse una frattura tra Germania e Russia. I grandi azionisti hanno deciso diversamente. Descriviamo in dettaglio ciò che è accaduto, con Ulrike Reisner, in un libro già pubblicato in inglese e tedesco e la cui versione francese apparirà alla fine di agosto.

La Germania come modello di sottomissione

Questa mattina Nicolas Bonnal mi ha inviato un corrosivo articolo di Constantin von Hoffmeister, che presenta la Germania come un modello di sottomissione.

Internet avrebbe dovuto liberare la parola, ma in Germania ha solo reso più sistematica la censura. L’articolo 130 del Codice penale – la disposizione principale sui “discorsi d’odio” – copre ora (…) ampie categorie di “discorsi incendiari”, spesso incentrati sull’immigrazione, sull’identità e sulla politica della memoria. Le cifre sono kafkiane: decine di migliaia di pubblicazioni segnalate ai sensi della legge relative ai social network (…)

I treni non sono più puntuali, se non del tutto. Il sistema ferroviario tedesco, un tempo simbolo dell’efficienza prussiana, è diventato una farsa di ritardi, infrastrutture fatiscenti e cattiva gestione dovuta a voli pindarici ideologici. Nel 2024, solo il 62,5% dei treni a lunga percorrenza è arrivato in orario (generosamente definito come entro sei minuti dalla tabella di marcia), mentre il 5% dei treni regionali è stato cancellato del tutto (…).

Le cause sono sistemiche: decenni di investimenti insufficienti (95 miliardi di euro di manutenzione arretrata), fantasie di elettrificazione motivate da considerazioni ecologiche (mentre i ponti crollano) e scioperi incessanti indetti dai sindacati del settore pubblico che chiedono aumenti salariali per compensare l’inflazione che le loro stesse politiche hanno contribuito a creare.

Il Deutschlandtakt, un piano generale per i collegamenti nazionali a cadenza oraria, esiste solo nelle diapositive di PowerPoint, mentre le stazioni rurali chiudono e gli hub urbani, mal gestiti, si sgretolano per il sovraffollamento. Eppure, il ministro dei Trasporti twitta su come “segnalare i servizi igienici di genere neutro” nelle stazioni, come se i pronomi potessero riattaccare i cavi aerei recisi. Una nazione che non riesce a riparare le proprie rotaie ha già perso la strada. I binari non portano da nessuna parte, e nemmeno il futuro della Germania.

La Germania si trova in uno stato di sovranità sospesa, un’anomalia geopolitica in cui le apparenze formali dello Stato mascherano catene di controllo più profonde. La vittoria alleata nel 1945 non ha stabilito solo un’occupazione militare, ma anche un riallineamento permanente della coscienza politica tedesca. Ciò che era iniziato come denazificazione si trasformò in qualcosa di molto più insidioso: la soppressione sistematica di qualsiasi desiderio di azione nazionale. La Repubblica Federale Tedesca, per tutta la sua potenza economica, ha sempre operato entro limiti stabiliti da altri.(…)

La continua presenza di basi militari statunitensi, l’integrazione dei servizi segreti tedeschi nelle strutture della NATO e l’allineamento della politica economica alle richieste di Washington indicano una semplice verità. L’occupazione non è mai finita. Ha semplicemente indossato un abito diverso. (…)

La chiusura definitiva delle centrali nucleari nel 2023, unita all’interruzione politica dei legami energetici con la Russia, ha lasciato l’industria tedesca con il fiato sospeso. I prezzi dell’elettricità rimangono del 30% superiori ai livelli precedenti al 2022, rendendo l’industria pesante sempre meno conveniente. Il trasferimento delle attività principali di BASF in Cina nel 2024 è stato solo il primo domino; Siemens e Volkswagen hanno poi accelerato la loro produzione offshore. La tanto decantata “transizione verde” non ha portato all’innovazione ma alla regressione: l’uso del carbone è salito al 25% della produzione totale di energia, una triste ironia per un’Europa che si proclama “leader climatico”.

Il tasso di fertilità, attualmente pari a 1,46, garantisce che ogni generazione successiva sarà più piccola della precedente, sollevando questioni fondamentali sulla sostenibilità demografica a lungo termine. (…)

La democrazia tedesca del 2025 è un teatro dell’assurdo, dove l’opposizione esiste solo entro limiti rigorosamente imposti. L’Alternativa per la Germania (AfD), con il 23% dei voti, funziona come una valvola di pressione controllata, una “minaccia” grande quanto basta per giustificare il consolidamento del potere, condiviso tra i partiti tradizionali. La svolta a sinistra dell’Unione cristiano-democratica sotto il cancelliere Friedrich Merz, l’abbraccio del Partito socialdemocratico alle frontiere aperte e le politiche energetiche dogmatiche dei Verdi hanno cancellato ogni distinzione significativa. Di conseguenza, oggi in Germania esistono solo due partiti: l’AfD e l’Uniparty  (tutti gli altri).

È di questo che Emmanuel Macron dovrebbe parlare con Friedrich Merz. O meglio, i presidenti francesi dovrebbero smettere di andare a trovare i cancellieri tedeschi. Dovrebbero riceverli quando vengono a Parigi. E, in caso contrario, quando si tratta di andare a Berlino, inviare i loro primi ministri.

Quando la Francia non sottomette la Germania alla sua volontà politica, si sottomette da sola”.

Il punto importante dell’articolo di Hoffmeister è l’identificazione dell’occupazione americana, che non è mai cessata. Nel libro che Ulrike Reisner ed io stiamo pubblicando, sottolineiamo la differenza fondamentale tra la Germania Ovest e la Germania Est, l’ex DDR: quest’ultima si è liberata dal comunismo. All’inizio degli anni ’90 le truppe sovietiche hanno lasciato la DDR. A tutt’oggi, ci sono 25 grandi basi militari statunitensi in Germania Ovest. Come risultato della sudditanza della Germania Ovest, la Repubblica Federale è il Paese con il maggior numero di basi americane al mondo!

Nel 1989-1990, François Mitterrand commise un errore dopo l’altro. Uno di questi fu quello di non lasciare le truppe di occupazione francesi in Germania. La storia ci insegna che la Germania è stata raramente un Paese sovrano. Il più delle volte è stata occupata da altre potenze. E quando le potenze iniziano a occupare la Germania, come sappiamo almeno dal cardinale de Richelieu (1585-1642), la Francia deve essere tra gli occupanti.

Per ragioni che ho descritto in un capitolo del mio libro Parigi-Berlino: la sopravvivenza dell’Europa, la Germania ha difficoltà a vedersi in una posizione di equilibrio con i suoi vicini. O è dominata, o tende a sottometterli. Attualmente, la Germania di Merkel Scholz e Merz si è completamente sottomessa agli Stati Uniti ma, per la miopia dei nostri leader a partire da Mitterrand, ha sottomesso la Francia. Così Friedrich Merz compra gli F35 per obbedire al suo padrone americano; ma proclama che costruirà “il primo esercito d’Europa ” per sminuire la Francia.

La Francia è una potenza nucleare, ha un seggio nel Consiglio di Sicurezza, aveva truppe di occupazione in Germania, era amica della Russia. Ma per ragioni incomprensibili, i nostri leader hanno deciso che dovevamo copiare la Germania dal punto di vista economico, in particolare la sua politica monetaria e il suo rifiuto delle preferenze commerciali europee (che Maurice allais aveva dimostrato essere necessarie nell’economia globalizzata già negli anni ’70). Il risultato: abbiamo rinunciato all’indipendenza economica e stiamo finalmente abbandonando i nostri strumenti militari e diplomatici.

Ossessionati dal “modello tedesco” di economia, i nostri leader non hanno capito che non si può prendere a modello un sottomesso, a meno che non ci si sottometta ancora peggio. È ora di uscire da questa spirale deleteria.

WS: considerazioni sulla fine degli imperi

Alcune mie risposte, riprese per altro da Toynbee al recente articolo di Michael Hudson, apparso sul sito.  Il problema è infatti  ” generale”. Nessuno popolo  nasce “imperialista”   anche se  tutti lo diventano (  a proprio  danno )   alla “prima occasione”_WS

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Questo articolo solleva il tema di una evoluzione storica di ogni imperialismo: lo sfruttamento imperiale.

I popoli “vincenti” nella “lotta per l’ esistenza” certamente emergono per PROPRIO merito e perché hanno saputo “innovare” e mobilitare risorse che prima non c’erano, spesso portando apporti tanto positivi ai popoli sconfitti , al punto che questi alla fine hanno desiderato di esserne assorbiti, costituendo una “civiltà comune”.

Però altresì, in nome di questi popoli “vincenti” molto spesso si sono creati “imperi” dediti allo sfruttamento economico dei popoli sottomessi .

Ma sono veramente i “popoli” responsabili di questo e sono loro a trarne realmente vantaggio?

No, generalmente è l’esatto contrario. Sono ANCHE i popoli “vincenti” a pagare il costo del passaggio all’imperialismo , mentre sono solo le sue elites i veri profittatori dei vantaggi de “l’ imperialismo” da cui traggono le immense ricchezze con le quali corrompono e schiacciano i diritti dei propri stessi popoli e, ovviamente, di quelli “soggetti”.

Un caso classico di questa condizione, che io cito spesso, è la rottura del patto SPQR da parte del Senatus Romanus dopo la schiacciante vittoria romana nella seconda guerra punica. Una guerra che il Populus Romanus combatté solo per la propria salvezza e non certo per la gloria del Senatus e la cui vittoria alla fine fu usata dalla maggioranza della classe senatoriale, usando, badate bene, i meccanismi della loro “democrazia” (sigh!) per impadronirsi ANCHE delle terre dei cittadini romani rovinati dai debiti di guerra (contratti con chi?) per poi riempirle di schiavi fatti venire “ da fuori”. Vi ricorda qualcosa ?

In quel momento finì la civiltà romana anche se poi ci impiegò quasi sette secoli per tirare meritatamente le cuoia.

Perché quanto più grossa è “la bestia “più lunga sarà la sua agonia! Nota questa dedicata a quelli che credono che gli U$A moriranno domani.

E dove finì Roma sono finiti e finiranno tutti. “Debosciatezza e vile danaro” sono l’epilogo di tutte le elites che ereditano i propri privilegi senza proprio merito e senza il servizio dovuto alla società che hanno il privilegio di dirigere.

Ed un passaggio inevitabile verso questa fine, un marker direi, è la finanziarizzazione dell’economia.

Nelle economie moderne la “finanziarizzazione ” è un processo “normale” laddove si permette il “libero reinvestimento” del plusvalore estratto dalla economia “reale”, perché se, ad esempio, è normale che il fondatore di un impresa reinvesta gli utili per accrescere la SUA impresa, è altrettanto “normale” che i SUOI ” eredi”, che non hanno in genere né lo stesso “talento” né la stessa “passione”, vedano in quanto ricevuto solo un “capitale” da far fruttare “al meglio” e che quindi virino verso la “finanziarizzazione” alla ricerca di “rendite certe”, beni primari e servizi, piuttosto che correre l’alea di una impresa di rischio .

Rimanere “in testa al gruppo” è difficile , specie se si è tanto ricchi da potersi permettere una bella vita evitando il sacrificio personale di dover imparare a fare bene “qualcosa” e doverne farne “prova di se”.

Invece la cosa più semplice, facile e sicura è fare ” il rentier” perché, come sentenziava qualcuno, “con i soldi tutto si può comprare”, anche buoni “manager” a cui affidare le proprie aziende.

I “manager”, appunto, come i “liberti” della Roma Imperiale.

Perché, purtroppo, senza una continuità nella partecipazione popolare alla dialettica politica, è inevitabile che si formi sempre una classe di “boiardi” tutta presa ad estrarre le proprie “rendite” attraverso una gestione dello stato inteso come lo strumento del proprio potere di classe.

Questi “boiardi” possono anche giocare “alla democrazia” chiamandosi “pari”, tra loro, e definendo tutto questo “libertà”, la propria.

Ma il bene del “demos” è dei loro pensieri.

Gli esempi di ciò sono tantissimi perché tutte le dinastie economiche virano in questa direzione.

E questo “viraggio” vale ovviamente anche per gli stati non a caso spesso descritti erroneamente come “una famiglia”.

Anche gli stati un tempo “vincenti “, come “le famiglie vincenti “, virano verso “la rendita” sotto appunto la spinta dei rentiers che ne hanno preso il pieno possesso. Non è questa la fine degli USA un tempo ” fabbrica del mondo”? 

Ma gestite così, le famiglie non funzionano. Nemmeno gli stati.

Nelle famiglie che “funzionano” non viene estratto “plusvalore” affinché qualche membro più forte possa vivere da nababbo alle spalle degli altri, magari addirittura “investendo ” in altre “famiglie” da cui estrarre maggior ricchezza solo per sé. 

E che cosa impedisce che le famiglie, quelle vere, si rovinino in questo modo? Il ” pater familias” oppure, per scendere ad un esempio tanto diffuso nelle solide famiglie della vecchia “mezzadria”, “il capoccia”, non a caso il più delle volte uno ” zio” non sposato, quindi naturalmente esente da sospetti di favoritismi, a cui era affidato il potere di amministrare la famiglia “allargata” vivente sotto lo stesso tetto.

E qui veniamo al nocciolo delle questione! Cosa sono gli “autocrati”, così tanto temuti dai “boiardi” finanziari che oggi dominano “l’occidente” terminale, se non dei grossolani “pater familias”?

Gli “autocrati” infatti traggono pubblicamente la base del proprio potere dalla loro ” presa diretta” con la massa dei cittadini, limitando così il potere dei “boiardi”, gli “oligarchi”, cioè dei vari “potentati economici e consorterie varie che invece si amministrano per sé, gestendo “il bene comune” nel chiuso delle loro varie “conventicole”.

 Ed è abbastanza evidente che le autocrazie, con il loro approccio “familiare”, funzionino tanto più quanto più quando esse amministrano i vari processi sociali con mano “ferma ma leggera” evitando gli eccessi che minano la società, appunto come fa un buon “Pater familias”.

Ma tutte le autocrazie hanno due gravi problemi:

1) se al comando c’è un “gruppo”, “l’ autocrazia ” perde slancio propositivo a causa del frazionismo delle singole ambizioni personali . Questa è stata la fine del PCUS e, per rimanere ad una esempio italiano, quella della DC.

2) Se invece c’ è “un uomo solo al comando”, un “papa”, anche se costui si rivelasse un genio, non può vedere tutto e pensare a tutto; pure costui è facilmente circuibile e deviabile nell’errore, secondo le sue personali debolezze, dalla pletora di furbacchioni che inevitabilmente ne formano la “corte”.

Noi, esempi di questo tipo di ” autocrati di cartone”, ne abbiamo conosciuti tantissimi, da Mussolini a Berlusconi e passando per Craxi, in ordine di decandenza.

Ma anche se questi autocrati fossero “di acciaio ” e pure “acuminato “, di questi la Russia ne ha avuti tanti, da Ivan a Stalin passando per Pietro, il problema è che non si può governare , anche bene, con il terrore da imporre costantemente ai propri “boiardi” .

Costoro alla fine, “sopravvissuti” grazie al servilismo più bieco, Beria o Krushov “docent”, alla morte del “tiranno” riprendono comunque il potere e ritornano ai propri personali affari, così che l’ opera de “l’ autocrate” pure “valida ed illuminata” rischia di fallire completamente. 

Quindi:

1) “la democrazia” non può funzionare perché abili “boiardi”, specie gli odierni monopolisti della creazione del danaro, la corrompono per impossessarsi dello stato a proprio vantaggio.

2) “l’ autocrazia” nemmeno, perché anche il più illuminato e spietato “autocrate” non può definire da solo la propria “successione” per quanto esso sia “amato padre del popolo”.

Come se ne esce allora?

Solo ritornando al principio di “nobiltà”. Solo una “nobiltà”, provata come tale dal servizio prestato alla società, deve conseguire e sostenere l’onere e il privilegio di dirigere la società; perché solo essa ha la capacità di farlo BENE

Ma lo deve fare solo a suo onore e rischio, senza beni da lasciare a figli& parenti, salvo il lascito del “nome ricevuto” e i mezzi per costruirsene “uno proprio” attraverso un servizio al quale si può essere chiamati SOLO da chi ti ha chiesto di essere il proprio capo.

Ed in questo deve essere anche una “nobiltà” feroce verso qualsiasi debolezza propria ed altrui che possa mettere a rischio il bene di tutti.

Roma diventò grande così , partendo da un villaggio di capanne per morire “caput mundi” 1500 anni fa dopo 700 anni di agonia. Non credo che “l’ occidente”, QUESTO “occidente”, abbia prospettive minimamente confrontabili.

Ma, dirà qualcuno giunto pazientemente fin qui, allora la Cina ?

L’ unica cosa che posso dire è che la Cina è ancora ( e di nuovo) l’“ombelico del mondo” come è sempre stata fin da quando sui “colli fatali” si pascolavano pecore.

La Cina “non corre”, “non domina”; non l’ha mai fatto. Ma è difficile che possa mai essere “deviata” da dove vuole andare, dalla direzione scelta.

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