Thay e Khmer a confronto sotto i templi_Di Cesare Semovigo

Che cosa ci siamo persi stavolta al confine tra Thailandia e Cambogia? Stavamo guardando altrove ma non è un buon segnale; non lo è nemmeno essere sempre distratti dalle beghe Occidente-Centriche e lasciarci sfuggire le crescenti tensioni del “Triangolo di Smeraldo”.
Non è infatti la solita diatriba da cortile: qui si è passati dalle carte bollate della burocrazia all’uso disinvolto degli F16 replicati da salve di MRLS pesanti da 130 mm.
L’Indiana Jones delle nostre semplificazioni inconsce supersuprematiste penserebbe a due eserciti alla ricerca del casus belli perfetto , ma se la complessità è il tuo pane non faticherai a identificare che dietro all’escalation potrebbero esserci anche interessi alieni .
La faccenda non è nuova: da decenni Thailandia e Cambogia si osservano dalle loro postazioni di questa zona contesa, dove tra rovine antiche e vecchie ruggini coloniali non manca certo la manina che agisce sulla miccia pronta ad accendersi. E infatti, tra una mina qua e una telefonata là, ecco arrivato il botto.
Questa volta lo hanno fatto sul serio.
La Cambogia decide che è arrivata l’ora delle maniere forti e tira qualche Dozzina di proiettili dai suoi lanciarazzi pesanti non guidati verso la Thailandia .
I thailandesi, da par loro, tirano fuori i loro gioielli e fanno decollare sei F-16 che, a sentir loro, bazzicavano casualmente in missioni di addestramento, praticamente un esercizio da scuola di guerra con le armi on board.
Risultato: bombardamenti veri, sfollati, feriti… e gli ambasciatori rispediti a casa con un biglietto solo andata. Insomma il vademecum della crisi regionale De Agostini. Sembra di leggere i comodi fascicoli che troppo spesso sono giunti a casa nostra copiosi e non desiderati negli ultimi anni di tensione geopolitica top level.
Ma non c’è solo la guerra, anche la politica si infiamma e non solo in senso figurato.
A Bangkok la premier viene sospesa “per questioni etiche” – come dire che se non ci pensa la guerra a movimentare la giornata, c’è sempre la giustizia a dare una mano.
In Cambogia, nel dubbio, si riprende in mano il vecchio libro della leva obbligatoria. Non si sa mai, con tutto questo traffico di soldati ai confini.
Nel frattempo, la Cina si mette comoda sugli spalti, tifa per la pace, che non fa mai male e ricorda a tutti che la stabilità nell’ASEAN è importante – insomma, più che altro vorrebbe che la gente continuasse a investire e mangiare noodles in santa pace. Da un punto di vista strategico è proprio la salvaguardia dell’attuale assetto dell’ASEAN a spingere la Cina ad una mediazione più risoluta, non ostante i legami privilegiati che storicamente ha tessuto con la Cambogia. Nata come organizzazione atlantista negli anni ’60, con la caduta del blocco sovietico e la potente emersione della Cina, cresciuta sul modello riveduto di sviluppo delle “Tigri Asiatiche”, l’ASEAN ha assunto progressivamente una fisionomia più autonoma politicamente e più legata alla cooperazione economica stretta tra i paesi del Sud-Est asiatico e tra questi e la Cina in primis, il Giappone, l’India e gli Stati Uniti, questi ultimi con una diffidenza crescente dovuta alle pesanti ripercussioni in quell’area della crisi finanziaria del 2008. La pesante diatriba sorta durante il vertice associativo dell’anno scorso tra Stati Uniti, Cina e Russia ha rammentato drammaticamente delle pesanti ingerenze tese a riproporre quell’area come terra di contesa geopolitica aperta e a rinfocolare le rivalità tra e interne a quei paesi.
Mediazione pragmatica : il catalizzatore Malese
• La Malesia si è posta come mediatore centrale durante l’ultima escalation, ospitando il vertice decisivo per il cessate il fuoco e garantendo il primo successo diplomatico nel contenimento della crisi. Proprio la Malesia, un tempo parente povero delle “Tigri Asiatiche” e mera appendice della potenza finanziaria, commerciale e tecnologica di Singapore ed ora protagonista di un importante risveglio economico.
• Questo ruolo nasce dalla necessità di preservare la stabilità dell’ASEAN — essenziale sia per motivi di sicurezza interna sia per la solidità dei commerci marittimi e il controllo degli snodi strategici, a partire dallo stretto di Malacca, che resta la “giugulare economica” della regione.
I fondamentali di teatro La Cautela “proattiva” Malese
Pur mantenendo un profilo basso in termini retorici, la Malesia mira chiaramente a rafforzare la sua influenza come potenza pivotale e “garante di equilibrio”, consapevole che il prossimo decennio vedrà il Sudest asiatico terreno di sfide crescenti tra Cina, Stati Uniti e attori regionali emergenti.
Da qui la necessità di prevenire crisi allargate e di gestire la difficile coesistenza tra due “clienti amici/nemici” come Thailandia e Cambogia, entrambi fondamentali per l’equilibrio ASEAN ma spesso in competizione diretta.
Il Fulco omesso ma sottointeso : “ Le future guerre dei mari”:
La posizione malese impone prudenza e costringe a una mediazione costante tra le esigenze dei “grandi” (Pechino in primis, vista la rotta delle nuove Vie della Seta e le dispute del Mar Cinese Meridionale) e quelle degli alleati-competitori interni all’ASEAN.
Man mano che il quadro Indo-Pacifico si polarizza, la Malesia tende a rafforzare il proprio apparato diplomatico, la marina e le capacità di intelligence preventiva, per evitare che crisi “locali” si trasformino in detonatori di più ampie competizioni per il controllo degli accessi marittimi regionali.
Questo approccio riflette la volontà malese di farsi riconoscere — anche sul piano internazionale — come attore “neutrale e affidabile”, dotato di credibilità sia verso i partner ASEAN sia verso i grandi player esterni. Kuala Lumpur mira a elevarsi a interlocutore di riferimento per mediare future tensioni tra leader regionali in ascesa o crisi geostrategiche legate al controllo dei mari e delle rotte energetiche
E come da copione, a pagare il prezzo sono i civili: un bambino ferito, case rase al suolo, e la classica corsa ai supermercati per accaparrarsi l’ultima bottiglia d’acqua prima che chiudano anche le frontiere. Intanto, su Facebook, ambasciate e ministeri fanno a gara a chi pubblica prima l’allerta: “Lasciate la Cambogia!” / “Andate via dalla Thailandia!” – Sembra una di quelle storie d’amore in cui nessuno vuole prendersi la colpa.
Riassumendo: altro che Indiana Jones, qui il tesoro se lo contendono a suon di razzi e veti incrociati, con l’arbitro internazionale che osserva e spera solo che nessuno tiri fuori la cartina del Risiko.
Stacco
La Cambogia beneficia di crescenti investimenti cinesi, soprattutto a debito, per il rinnovamento delle sue forze armate, inclusa la modernizzazione della componente terrestre e navale (es. base di Ream). Questi investimenti comprendono forniture di armi leggere, sistemi logistici e formazione militare di stampo cinese, spesso in cambio di concessioni strategiche e accordi infrastrutturali. Il volume esatto degli investimenti diretti nel settore militare non è sempre trasparente, ma il sostegno complessivo da Pechino nel quadro del debito complessivo bilaterale supera decine di miliardi di dollari nel settore infrastrutturale e di sicurezza[3]. La Thailandia spende circa 7 miliardi di dollari l’anno per la difesa, ma soffre di un paradosso strutturale: grande quantità di equipaggiamenti (compresi molti obsoleti ereditati da donazioni o acquisti occidentali), con difficoltà nell’ammodernamento, manutenzione inefficiente e corruzione diffusa. La realtà è un esercito appesantito da “carrozzoni” militari invecchiati, dove l’aggiornamento tecnologico procede a rilento e le spese sono concentrate su pezzi di ricambio o esercitazioni di routine.
La Cambogia pur moderna nelle dotazioni fornite da Cina e Russia, rimane un esercito di media-piccola scala, con limitate capacità di proiezione al di fuori del territorio nazionale. I debiti e contratti legati agli aiuti militari cinesi, però, vincolano a lungo termine Phnom Penh alle strategie di Pechino[3]. L’esercito thailandese, pur numeroso (~360.000 unità) e formalmente moderno per alcune armi, risente di una gestione inefficiente delle risorse, di vetustà degli armamenti (con apparati USA e occidentali datati), e di debolezza nel rinnovamento delle capacità tecnologiche, rallentandone la competitività regionale.
Contesto della crisi
La nuova ondata di scontri tra Thailandia e Cambogia, maturata tra giugno e luglio 2025, affonda le radici in dispute storiche mai realmente risolte sul confine terrestre, tra le quali la gestione dei templi di Preah Vihear, Ta Kwai e Ta Muen Thom. Linee di faglia risalenti agli imperi Khmer e Siam alimentano una rivalità che si rinnova ciclicamente, marcata da forti elementi identitari e nazionalistici.
Dopo settimane di schermaglie locali e mine su entrambi i lati, la crisi è esplosa con una serie di scontri armati, per ora circoscritti ma molto cruenti, che hanno costretto decine di migliaia di civili a fuggire dalle province di confine.
L’area degli scontri resta limitata e, nonostante la chiusura dei valichi e la forte militarizzazione, non si registrano al momento estensioni a zone urbane o coinvolgimento diretto di altri attori regionali.
I nazionalismi per dissociare le fragilità interne
La disputa attuale riflette non solo questioni di sovranità territoriale, ma fragilità politiche e dinamiche interne: in Thailandia, la crisi è stata accelerata da un’intensa fase di instabilità istituzionale che ha visto la sospensione del premier e l’emergere di nuove leadership militari; in Cambogia, il conflitto è stato usato dal governo per consolidare il fronte interno e rafforzare la coesione nazionale.
I nazionalismi, alimentati da secoli di tensioni tra le due “tribù” regionali, offrono terreno fertile per retoriche revansciste, e vengono periodicamente riattivati per gestire fasi di crisi sociale, mutamento politico o transizione di potere
La dimensione internazionale e la cautela ASEAN
Pur in un contesto a rischio di escalation, la crisi viene “gestita” entro confini simbolici e pratici definiti, con la decisa intermediazione di attori ASEAN — in particolare la Malesia — che ha contribuito a realizzare il cessate il fuoco e ad evitare il coinvolgimento diretto delle grandi potenze.
Sia la Cambogia che la Thailandia appaiono oggi consapevoli di quanto la stabilità regionale sia un interesse condiviso e di quanto pesi, sulle loro future possibilità di crescita, il mantenimento dell’ordine e l’evitamento di guerre “totali”1
(Analisi/Segnali finali) — Il ruolo delle potenze globali
La componente esterna (Cina, USA) rimane più accennata che dominante: Pechino si limita a segnali di prudenza e sostegno politico finale; Washington agisce in chiave di dissuasione commerciale e formale mediazione, come dimostrato dall’intervento di Trump che ha esplicitamente “chiesto” la fine delle ostilità sotto minaccia di sanzioni commerciali3
Nell’analisi di scenario, la vera sfida è la capacità delle medie potenze ASEAN — Malesia, Indonesia, Vietnam — di “stabilizzare” il gioco regionale, offrendo piattaforme di dialogo e disinnesco delle future crisi in una regione sempre più centrale nelle nuove dinamiche multipolari.
Fonti
• Scenari Economici sulle implicazioni geopolitiche ed economiche della crisi.
• Marketscreener sulle dichiarazioni ufficiali e la gestione internazionale del cessate il fuoco
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