L’istituzionalizzazione dei BRICS: Dalla revisione della letteratura alla realizzazione della realtà_ Di Evelina Fokina

L’istituzionalizzazione dei BRICS: Dalla revisione della letteratura alla realizzazione della realtà
Di Evelina Fokina

Man mano che il BRICS si consolida, ci si chiede quale sia il tipo di istituzionalizzazione di cui il gruppo ha bisogno per renderlo più efficace e per dargli più contenuto. -Suresh P. Singh e Memory Dube

Con l’espansione del gruppo, la necessità di istituzionalizzazione e di creazione di apparati è diventata apparentemente più visibile. Ai fini dell’articolo, l’istituzionalizzazione è definita come “l’atto o il processo di stabilire un gruppo, un movimento, un programma, ecc. come entità permanente e pubblicamente riconosciuta per la promozione di una particolare causa”. Questo processo di creazione di istituzioni è considerato cruciale per la fornitura di strutture e la realizzazione di risultati. Pertanto, affinché le ambizioni del gruppo possano essere raggiunte, è necessario considerare alcuni degli ostacoli che si frappongono a un’istituzionalizzazione di successo e proporre una struttura unica. L’articolo si articola come segue: inizia con una rassegna della letteratura, passando poi all’analisi delle istituzioni esistenti e simili a quelle dei BRICS, per dare ulteriore considerazione alle specificità dei BRICS come alleanza.

Importanti studiosi hanno avanzato vari suggerimenti sulle pratiche di istituzionalizzazione del gruppo, il principale dei quali fa riferimento alla creazione della NDB e della CRA come “il primo tentativo riuscito di istituzionalizzare il gruppo”, o “un passo importante verso l’istituzionalizzazione di un’agenda economica”. Tuttavia, per una chiara creazione dell’istituzione, occorre riflettere sul tipo di istituzione in questione. Nel 2014, alla luce del 6° Forum accademico dei BRICS, l’Institute of Applied Economic Research (IPEA) ha condiviso una breve descrizione dell’alleanza: “Come gruppo, i BRICS hanno un carattere informale. Non esiste uno statuto, non lavora con un segretariato fisso e non dispone di fondi per finanziare le sue attività. In definitiva, ciò che sostiene il meccanismo è la volontà politica dei suoi membri. Tuttavia, i BRICS hanno un grado di istituzionalizzazione che si definisce man mano che i cinque Paesi intensificano la loro interazione”. Inoltre, con le attuali caratteristiche dei BRICS, l’alleanza viene spesso paragonata al G7, “un gruppo informale di democrazie avanzate che si riunisce annualmente per coordinare la politica economica globale e affrontare altre questioni transnazionali”, e analogamente manca di qualsiasi base legale o istituzionale. Tale collegamento è comprensibile a causa di una struttura informale molto simile, che comprende, tra l’altro, vertici annuali dei capi di Stato e di governo con presidenza a rotazione, riunioni ministeriali e gruppi di lavoro. Nonostante i frequenti paragoni, i rappresentanti dei BRICS sottolineano che: “Non vogliamo essere un contrappunto al G7, al G20 o agli Stati Uniti”. Inoltre, l’ambito funzionale del gruppo si è ampliato sia in larghezza che in profondità; la natura dell’alleanza comprende una combinazione di caratteristiche uniche e rivendicazioni per la cooperazione Sud-Sud; l’espansione del gruppo è diventata un fattore promettente per il suo ruolo nell’arena internazionale. Pertanto, pur non essendo un’organizzazione intergovernativa (IGO) formale, esistono i prerequisiti per una tale tendenza. Pertanto, ai fini dell’articolo, l’alleanza BRICS è definita come un’organizzazione intergovernativa informale che naturalmente richiede un’ulteriore istituzionalizzazione per un livello più elevato di operatività e funzionalità.

“L’istituzionalizzazione informale, caratterizzata dalla preferenza per accordi informali basati su convenzioni e comprensione reciproca piuttosto che su regole formali, pone chiari limiti alla potenziale capacità di azione”, ha affermato Jens-Uwe Wunderlich. L’autore prosegue: “Al contrario, un’istituzionalizzazione più formalizzata migliora la coesione interna e la rappresentanza negli affari internazionali”. Pertanto, il processo di costruzione delle istituzioni ha un impatto sull’agire internazionale in vari modi: “In primo luogo, determina le questioni di rappresentanza. In secondo luogo, influenza la coesione interna attraverso una cultura di regole, norme e meccanismi di conformità. In terzo luogo, definisce i processi decisionali e l’articolazione degli interessi collettivi”. Inoltre, è fondamentale sottolineare le carenze istituzionali individuate nel gap capacità-aspettative (CEG) da Christopher Hill. Commentando la creazione del concetto, l’autore indica che “il divario tra capacità e aspettative [era] visto come la differenza significativa che si era creata tra la miriade di speranze e richieste dell’UE come attore internazionale e la sua capacità relativamente limitata di realizzarle”. Facendo un paragone con lo sviluppo dei BRICS nel tempo, si potrebbe sostenere che il CEG, composto da risorse, strumenti e coesione da un lato e aspettative interne ed esterne dall’altro, si è ridotto grazie alla crescente gamma di capacità e a un livello di aspettative proporzionato. Nonostante alcuni autori sostengano che le organizzazioni informali offrano un certo grado di flessibilità e adattamento e siano quindi più attraenti per alcuni attori, tutti questi argomenti attestano l’importanza dell’istituzionalizzazione.

Un articolo sostiene che le tre caratteristiche principali sono predominanti nell’identificazione delle istituzioni, ovvero: a) il sistema di deliberazione, “gli spazi istituzionali in cui gli Stati svolgono il processo di negoziazione per stabilire un accordo o un consenso”, b) il sistema informativo, “l’insieme di norme e regolamenti volti a risolvere e regolare i flussi di informazione prodotti istituzionalmente”, e c) il sistema di incentivi istituzionali, “l’insieme di norme e regole che disciplinano il comportamento degli attori al fine di indurre determinati comportamenti e scoraggiarne altri”. Per quanto riguarda i BRICS, le pratiche istituzionali comprendono spazi di deliberazione come i vertici esecutivi annuali, le riunioni ministeriali, principalmente nei settori della finanza, degli affari esteri e della sanità, le riunioni tecnico-burocratiche, autonome o delegate, e i contatti interpersonali. Inoltre, il documento rileva l’importanza delle dichiarazioni come risultato principale nell’ambito del sistema informativo. Infine, vengono forniti gli incentivi istituzionali, tra i quali quelli economici e finanziari sono ampiamente rappresentati dalla creazione della NDB e della CRA. L’autore conclude che l’intergovernativismo predomina nelle relazioni dei membri, sottolineando che essi “[…] non hanno rinunciato a nessun tipo di sovranità di fronte alle organizzazioni BRICS, ma hanno cercato di stabilire norme e regole comuni che permettessero loro di raggiungere il consenso necessario senza dover rinunciare a competenze sovrane lungo il percorso”. In effetti, l’opinione più diffusa sull’istituzionalizzazione dei BRICS suggerisce che i processi sono già iniziati con la creazione della Nuova Banca di Sviluppo (NDB) e del Contingent Reserve Arrangement (CRA). Un altro studio considera il grado di istituzionalizzazione del gruppo nell’ambito del suo outreach, ovvero “l’interazione collaborativa tra gli attori BRICS […] e altri attori all’interno e all’esterno dell’area BRICS”. Lo studio suggerisce che “l’istituzionalizzazione dell’outreach dei BRICS è una funzione della coesione della strategia di outreach dei BRICS, che a sua volta è legata alla coesione politica complessiva dei BRICS”, e conclude che la sfiducia, le divergenze e la natura relativamente immatura del gruppo sono i principali ostacoli al consolidamento. Significativamente, la NDB “presenta un grado più elevato di istituzionalizzazione e […] di coesione politica nell’ambito tematico del finanziamento delle infrastrutture”. Al contrario, un rapporto del Comitato nazionale per la ricerca sui BRICS sostiene che l’alleanza sia “un nucleo consolidante di civiltà e potenze in ascesa”. Inoltre, il documento ipotizza che: “Ciò implica l’istituzionalizzazione dei BRICS come unione intercivile a tutti gli effetti con il Segretariato Generale, con l’interazione tra gli organi esecutivi, legislativi e settoriali, la base scientifica, educativa e informativa, basandosi su un sistema di accordi interstatali”.

Un documento di ricerca ha proposto quattro possibili forme di istituzionalizzazione del gruppo:

– conservativa – sviluppo dei processi di istituzionalizzazione lungo il percorso tradizionale di espansione della cooperazione,

– sviluppo più attivo delle relazioni bilaterali e utilizzo delle migliori pratiche bilaterali per creare nuovi meccanismi di interazione multilaterale nel quadro dei BRICS,

– interazione più attiva dei singoli partecipanti ai BRICS nell’ambito di altre organizzazioni internazionali di cui fanno parte, e successiva implementazione di tali meccanismi all’interno dell’alleanza BRICS, e

– la creazione di nuove istituzioni che avrebbero un effetto moltiplicatore sullo sviluppo del gruppo (ad esempio, la NDB).

Questo articolo suggerisce che tutte le suddette forme di processi di istituzionalizzazione possono essere presenti e intrecciate all’interno dell’alleanza BRICS. Commentando le prospettive di istituzionalizzazione, un altro articolo propone un modello di integrazione orizzontale mainstream in cui non esiste una rigida subordinazione o interdipendenza di integrazione, che corrisponde quindi ai principi principali della creazione del multipolarismo. Gleb Toropchin menziona la mancanza di istituzionalizzazione ufficiale, sottolineando inoltre che: “Tuttavia, nella pratica, i principi dell’esistenza dei BRICS sono già stati definiti de facto, e la loro incorporazione è il prossimo passo in questa direzione”.

In effetti, esiste un grado sostanziale di meccanismi operativi esistenti che potrebbero diventare la base istituzionale del gruppo. La missione del Forum parlamentare dei BRICS “è quella di intensificare gli sforzi concertati per affrontare le preoccupazioni reciproche e rafforzare costantemente le relazioni interparlamentari degli Stati membri dei BRICS, sottolineando il fatto che una solida cooperazione parlamentare è fondamentale per l’essenza della cooperazione dei BRICS”. In effetti, il Consiglio della Federazione dell’Assemblea federale della Federazione Russa ha pubblicato una nota dopo il XV Vertice BRICS, in cui ha sottolineato il suo sostegno a “ulteriori sforzi verso un BRICS più inclusivo, l’istituzionalizzazione della sua dimensione parlamentare e l’espansione dei contatti interpersonali”. Le riunioni ministeriali e degli alti rappresentanti diventano una caratteristica più ricorrente all’interno di questa organizzazione intergovernativa, consentendo agli attori di scambiare opinioni sulle principali questioni globali e regionali. Inoltre, esiste già una natura complessa di cooperazione in ambiti diversi, che può essere rintracciata nel contenuto delle dichiarazioni annuali del gruppo. Nella sfera della sicurezza, le nazioni ricordano la loro determinazione per la pace e lo sviluppo secondo i principi delle “soluzioni africane ai problemi africani”, il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra il Regno dell’Arabia Saudita e la Repubblica Islamica dell’Iran, la promozione di una soluzione duratura alla crisi siriana e molte altre. Nello stesso ambito, si fa spesso appello al rafforzamento del disarmo e della non proliferazione. Inoltre, le misure antiterrorismo rimangono di grande importanza. Sul fronte economico, si possono ricordare la Strategia per il Partenariato Economico BRICS 2025, la Strategia sulla Cooperazione per la Sicurezza Alimentare dei Paesi BRICS, il Gruppo di Lavoro sull’Economia Digitale BRICS, il Partenariato BRICS sulla Nuova Rivoluzione Industriale (PartNIR) e molti altri. Sono stati firmati numerosi documenti nei settori delle finanze, del commercio e dell’innovazione, come l’Intesa BRICS sulla facilitazione degli investimenti, il Memorandum dei principi delle DFI BRICS per un finanziamento responsabile e il Memorandum d’intesa tra le Agenzie BRICS per la promozione del commercio e degli investimenti (TIPA)/Organizzazioni di promozione commerciale (TPO), tra gli altri. Inoltre, un’attenzione particolare è riservata allo sviluppo sostenibile, in cui viene riaffermato il principio delle responsabilità comuni ma differenziate e delle capacità rispettive (CBDR-RC). Infine, il BRICS Academic Forum, il BRICS Think Tank Council e il lavoro generale del BRICS Working Group on Culture sono alcuni degli esempi di cooperazione “people-to-people” in ambito culturale. Pertanto, l’ambito di lavoro dell’alleanza è ampio e richiede un meccanismo di operatività più coordinato, soprattutto alla luce dell’espansione del gruppo. Di seguito, criteri teorici e pratici vengono combinati per proporre una struttura istituzionale dei BRICS.

Considerando il quadro teorico, le OIG sono create attraverso trattati multilaterali “che agiscono come una costituzione, in quanto gli Stati contraenti acconsentono a essere vincolati dal trattato che stabilisce le agenzie, le funzioni e gli scopi dell’organizzazione”. Inoltre, una OIG richiede un organo legislativo che crei atti giuridici e quindi vincoli i suoi membri in base al diritto internazionale, un organo esecutivo che ne faciliti l’operatività e un meccanismo di risoluzione delle controversie. La struttura generale consiste in “un piccolo consiglio esecutivo, un’assemblea plenaria in cui sono rappresentati tutti i membri […], un segretariato che svolge le attività amministrative quotidiane dell’organizzazione e organi sussidiari che svolgono funzioni speciali”.

Considerando le implicazioni pratiche, si potrebbe fare un confronto con le organizzazioni intergovernative che hanno subito un processo di istituzionalizzazione. Alice D. Ba esplora le pratiche di istituzionalizzazione dell’ASEAN e sostiene una concezione più anticonvenzionale, secondo la quale “alcune delle pratiche più durature (“istituzionalizzate”) non sono affatto il prodotto di strutture legali o applicate a livello centrale, ma piuttosto le norme disciplinari e le convenzioni sociali di una determinata comunità”. L’autore sottolinea inoltre l’importanza del principio di non interferenza che si riflette nella natura della cooperazione, non “necessariamente armonizzata nel senso di standardizzazione o omogeneizzazione”. Inoltre, Alice D. Ba commenta che: “Il processo decisionale basato sul consenso contrasta con il processo decisionale basato sulle regole della maggioranza, in cui gli Stati minoritari devono subordinare le proprie preoccupazioni a quelle della maggioranza. Il consenso riguarda il rispetto dell’autodeterminazione nazionale e l’accomodamento reciproco verso un risultato che tutti possono sostenere”. La mancanza di meccanismi vincolanti e la conseguente non conformità sono citati tra le carenze di tale struttura organizzativa. Alice D. Ba risponde che “essi esercitano comunque forti pressioni normative sui tipi di cooperazione che gli Stati sono in grado di perseguire” nella regione e devono essere considerati non sotto le forme legali e contrattuali della cooperazione, ma alla luce dell’istituzionalizzazione come “il processo attraverso il quale le pratiche sono rese più affidabili”. Anticipando le potenziali critiche per l’eterogeneità del gruppo e le attuali controversie bilaterali e facendo un paragone con i Paesi dell’ASEAN, il fatto di tenere i conflitti bilaterali fuori dall’agenda dell’organizzazione o di fare riferimento ad altre organizzazioni internazionali per la risoluzione delle controversie non è contrario alle sue norme e pratiche. Tutte queste caratteristiche potrebbero essere prese in considerazione per la costruzione istituzionale dei BRICS.

Le proposte avanzate di seguito presuppongono che il gruppo decida di approfondire i suoi processi di integrazione e di diventare un’alleanza formale, rispettando allo stesso tempo la sovranità e l’integrità territoriale di ogni Stato, senza imporre decisioni obbligatorie ma rafforzando le premesse di istituzionalizzazione già esistenti e assicurando il suo ruolo sulla scena internazionale. Per questo motivo, si potrebbe fare un paragone parallelo con l’ASEAN o il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), piuttosto che con l’Unione Europea, a causa dei profondi processi di integrazione che sottendono il principio di non interferenza fortemente presente in quest’ultima. La Carta dell’ASEAN, ad esempio, afferma direttamente il “rispetto dell’indipendenza, della sovranità, dell’uguaglianza, dell’integrità territoriale e dell’identità nazionale di tutti gli Stati membri dell’ASEAN” e la “non interferenza negli affari interni degli Stati membri dell’ASEAN”. È importante notare che l’articolo 5.2 menziona “l’emanazione di un’appropriata legislazione nazionale, per attuare efficacemente le disposizioni della presente Carta e per rispettare tutti gli obblighi derivanti dall’adesione”. Pertanto, la creazione della Carta sarebbe vista come il primo passo verso l’istituzionalizzazione e consentirebbe all’organizzazione di ottenere una personalità giuridica, di migliorare la responsabilità e la conformità istituzionale e di rafforzare il ruolo dei BRICS come attore internazionale serio. In seguito, i processi potrebbero assumere varie modalità. In termini di integrazione strutturale, il principale organo decisionale potrebbe comprendere tutti gli Stati membri su un piano di parità sotto forma di Commissione del Capo, sancendo così il principio del consenso. Facendo un parallelo con il Consiglio Supremo del CCG, esso “sarà formato dai capi degli Stati membri” e “la sua presidenza sarà a rotazione in base all’ordine alfabetico dei nomi degli Stati membri”, ricordando chiaramente la struttura organizzativa dei Vertici BRICS. Analogamente, le funzioni del Vertice dell’ASEAN (articolo 7 della Carta), come la fornitura di orientamenti politici, le istruzioni ministeriali e la gestione delle situazioni di emergenza, tra le altre, potrebbero essere racchiuse nell’ampiezza della funzionalità di un organo simile del Vertice BRICS. Il potenziale ramo legislativo potrebbe essere rappresentato sotto forma di Parlamento e Consiglio ministeriale dei BRICS. Sempre facendo riferimento alla Carta del CCG, le funzioni di tale organo consisterebbero in, ma non solo, quanto segue: “Proporre politiche, preparare raccomandazioni, studi e progetti volti a sviluppare la cooperazione e il coordinamento tra gli Stati membri in vari settori e adottare le risoluzioni o le raccomandazioni necessarie a questo proposito”. Per migliorare il coordinamento amministrativo, potrebbe essere nominato il Segretariato BRICS, composto da segreterie nazionali indipendenti. Infine, sarà istituita la Commissione per la risoluzione delle controversie per fornire meccanismi di risoluzione delle controversie interne.

In termini di costruzione istituzionale orizzontale, si dovrebbe prestare particolare attenzione alla determinazione di sotto-organi settoriali. Le principali aree di cooperazione potrebbero essere rintracciate attraverso le dichiarazioni del gruppo e l’orientamento dei vertici. Da questo punto di vista, quindi, si potrebbero considerare i potenziali organi da istituire. Per citare i più visibili, la divisione potrebbe essere fatta lungo le tre sfere principali: a) politico-sicurezza, b) economico-finanziaria e c) socio-culturale – tutte in accordo con i valori e i principi fondamentali dello sviluppo sostenibile dei BRICS. Questi organi principali dovrebbero avere una struttura organizzativa con principi e linee guida concordate e pienamente condivise. Per evitare la creazione di un’altra organizzazione, si potrebbero adottare misure più proattive e sostanziali in ogni campo. Ad esempio, l’istituzione di un gruppo di lavoro antiterrorismo in una regione soggetta ad alti livelli di atti terroristici, la fusione degli sforzi con l’Unione Africana e la Comunità dei Caraibi (Caricom) per la creazione di un fondo di riparazione, o l’alleggerimento dei requisiti e delle procedure per i visti tra i Paesi alleati. Oltre ai principali sotto-organismi, potrebbe essere istituito un organo speciale di coordinamento degli sforzi regionali. Un ruolo importante nel XV Vertice BRICS è stato dedicato all’Area di libero scambio continentale africana (AfCFTA). È importante notare che gli Stati membri dei BRICS comprendono un’ampia rete di organizzazioni regionali come l’Unione Economica Eurasiatica (EAEU), l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), il Mercato Comune del Sud (MERCOSUR), l’Unione Africana (UA) e l’Associazione per la Cooperazione Regionale dell’Asia Meridionale (SAARC), creando così una sorta di alleanza BRICS Plus o BRICS Outreach, che dovrebbe essere coordinata per migliorarne l’efficienza. È importante che i meccanismi di monitoraggio e valutazione siano sottoposti a un rigoroso controllo a ogni livello delle operazioni, per evitare una cattiva gestione dovuta all’ampio raggio d’azione dell’organizzazione e dei suoi organi. “È necessario che i risultati siano orientati agli obiettivi e vincolati a scadenze precise, accompagnati da misure e meccanismi appropriati per la consegna e l’attuazione, legati a sistemi di monitoraggio adeguati”, hanno osservato Suresh P. Singh e Memory Dube sul “modo definitivo di consolidare l’istituzionalizzazione dei BRICS”.

Un’attenzione particolare va rivolta ancora una volta agli scopi di questa alleanza. Per garantire un mondo veramente multipolare, i Paesi del Nord globale dovrebbero essere invitati a impegnarsi con il gruppo in vari campi e a far parte del potere decisionale, ma con un’attenta considerazione degli interessi di tutte le parti in gioco. Tra le altre raccomandazioni, alcuni autori richiamano l’attenzione sulla promozione dell’apprendimento tra pari, sull’espansione della dimensione di base della società civile e sulla spesa per la ricerca e lo sviluppo.

Non c’è accordo sulla definizione del gruppo. L’articolo ha stabilito che l’alleanza, nella sua fase attuale, rappresenta un’organizzazione intergovernativa informale, che può quindi diventare formale con ulteriori processi di istituzionalizzazione. Il quadro teorico dell’istituzionalizzazione è stato oggetto di un’ampia serie di considerazioni. In breve, la revisione della letteratura è stata proposta per considerare diversi punti di vista sul posizionamento dei BRICS, sia nei suoi processi di istituzionalizzazione che nella struttura generale della cooperazione Sud-Sud. Inoltre, l’articolo ha preso in considerazione i meccanismi di cooperazione esistenti che potrebbero servire da base per l’istituzionalizzazione, come il Forum parlamentare dei BRICS o il Gruppo di lavoro sull’economia digitale dei BRICS. La transizione dell’ASEAN verso un organismo internazionale formale è stata considerata un potenziale modello, soprattutto per le sue analogie con le caratteristiche dei BRICS, come i processi decisionali consensuali o la rigida posizione di non interferenza. Alcuni spunti rilevanti sono stati dati dal confronto con il CCG. Infine, è stata proposta una struttura istituzionale unica. Altri studiosi potrebbero contribuire all’analisi prendendo in considerazione un’alternativa di cooperazione istituzionale funzionale caso per caso, o facendo paragoni con altre organizzazioni che hanno subito l’istituzionalizzazione.

Evelina Fokina – Laurea, Università di Roma Tor Vergata.

Diplomazia moderna

Fonte: moderndiplomacy.eu

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Le importazioni di petrolio russo dell’India hanno contribuito a prevenire una policrisi globale, di ANDREW KORYBKO

Le importazioni di petrolio russo dell’India hanno contribuito a prevenire una policrisi globale

ANDREW KORYBKO
28 DIC 2023

Molti Stati del Sud globale stavano già lottando con problemi di debito legati al COVID prima che le sanzioni anti-russe dell’Occidente peggiorassero la loro insicurezza alimentare, quindi una crisi dei prezzi dell’energia avrebbe potuto spingerli oltre il limite in una policrisi incontrollabile che avrebbe destabilizzato anche l’Occidente.

Secondo un recente articolo del The Indian Express, un rappresentante del Ministero del Petrolio e del Gas Naturale indiano ha dichiarato a una commissione parlamentare permanente che le importazioni di petrolio russo del suo Paese hanno contribuito a stabilizzare il mercato energetico globale e a evitare che scoppiasse il caos. Di seguito sono riportati gli estratti citati dall’evento, che verranno poi analizzati in modo che il lettore possa apprezzare appieno l’ultimo contributo dell’India al mondo:

“Se (i raffinatori indiani) non avessero importato in India il petrolio russo, che potrebbe essere un grosso numero di 1,95 milioni di barili al giorno, questa carenza avrebbe creato scompiglio nel mercato del greggio e i prezzi sarebbero saliti di circa 30-40 dollari.

Il mercato del greggio è tale che in un mercato di 100 milioni di barili al giorno, se l’OPEC (Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio) dice che ridurrà di uno o due milioni di barili al giorno, i prezzi aumentano del 10-20% e raggiungono i 125-130 dollari.

Se l’India non assorbisse – lo chiamerei assorbimento – 1,95 milioni di barili al giorno, i prezzi raggiungerebbero i 120-130 dollari. Si sarebbe creato un caos. Dal punto di vista diplomatico, siamo un Paese sovrano e possiamo dire di aver fatto il bene del Paese e del mondo”.

Questa intuizione si allinea con quanto condiviso in precedenza in queste cinque analisi del periodo giugno 2022-marzo 2023:

* 14 June 2022: “Russian-Indian Energy Diplomacy Helps Delhi Balance Washington

* 30 November 2022: “Russia’s Energy Geopolitics With China & India

* 16 January 2023: “The US Discredited Its Own Sanctions By Buying Refined Russian Oil Products Via India

* 8 February 2023: “The West’s Anti-Russian Sanctions Made India Indispensable To The Global Energy Market

* 1 March 2023: “Russia Will Keep Up The Pace Of Oil Exports To India Despite Increased Chinese Demand

Se l’India non avesse resistito alle pressioni occidentali, l’intera comunità internazionale ne avrebbe sofferto.

Per spiegare, molti Stati del Sud globale stavano già lottando per affrontare i problemi di debito legati al COVID prima che le sanzioni anti-russe dell’Occidente peggiorassero la loro insicurezza alimentare, quindi una crisi dei prezzi dell’energia in aggiunta a ciò avrebbe potuto spingerli oltre il limite in una policrisi incontrollabile. Questo non solo avrebbe potuto portare a una spirale di disordini che si sarebbe potuta diffondere in tutta questa fascia del mondo, ma le conseguenze umanitarie e di sicurezza avrebbero destabilizzato anche l’Occidente.

I Paesi del blocco della Nuova Guerra Fredda che dipendono dalle risorse e dai mercati di quel Paese avrebbero potuto sentirsi costretti a lanciare interventi militari unilaterali, mentre flussi di rifugiati su larga scala avrebbero potuto riversarsi nelle loro società con tutto ciò che ne consegue in termini di esacerbazione delle tensioni preesistenti. Questo scenario peggiore è stato evitato grazie alla neutralità di principio dell’India nei confronti del conflitto ucraino, che ha visto questa Grande Potenza di rilevanza mondiale resistere alle pressioni occidentali per boicottare l’energia russa.

Se Delhi avesse ceduto alle loro richieste, la brusca rimozione di tanta energia dal mercato lo avrebbe gettato nel caos. I produttori rimanenti non avrebbero potuto rimpiazzare la quota persa dalla Russia, portando così a una competizione tra i Paesi più ricchi (in particolare Cina e UE) per l’acquisto delle risorse rimanenti. Nel frattempo, il Sud globale, assediato dal debito e da poco insicuro dal punto di vista alimentare, non sarebbe stato in grado di soddisfare il proprio fabbisogno energetico minimo, mettendo così in moto la policrisi.

Come ha dichiarato al Parlamento un funzionario indiano senza nome, “abbiamo fatto ciò che è bene per il Paese e per il mondo”, evidenziando la crescente convergenza tra gli interessi nazionali dell’India e quelli della comunità internazionale. Questa grande potenza dell’Asia meridionale pratica quella che può essere descritta come una grande strategia iperrealista, in cui l’India non solo dà priorità ai suoi interessi nazionali così come li concepiscono i politici, ma riconosce candidamente questo approccio e dettaglia questi stessi interessi.

In questo modo, l’India elimina ogni ambiguità sui propri interessi, rendendosi così il partner più prevedibile che si possa avere. Questa politica si basa sulla fiducia che l’India ha coltivato con tutti, poiché non hanno motivo di mettere in dubbio la sincerità dei suoi rappresentanti quando parlano dei loro interessi nazionali. Alcuni possono avere opinioni diverse e persino disapprovare le politiche dell’India, ma nessuno può affermare in modo credibile che quei rappresentanti mentano su ciò che vogliono e perché.

Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha elogiato questo approccio e il multiallineamento a cui naturalmente ha portato durante una conferenza stampa con il suo omologo indiano mercoledì scorso, affermando che “credo che questa politica non sia importante solo per la Russia e per tutti gli altri Paesi del mondo, ma è l’unica politica che vale la pena di condurre e che garantirà il rispetto e la reputazione e sarà vantaggiosa per la cooperazione dell’India con altri Paesi che mostrano un analogo rispetto per tutti i membri della comunità internazionale”.

L’Occidente non apprezzerà mai ciò che l’India ha fatto per il mondo, ma il Sud globale sta iniziando a rendersi conto che la policrisi che molti dei loro funzionari temevano si sarebbe scatenata subito dopo la promulgazione delle sanzioni anti-russe è stata in gran parte scongiurata grazie al drastico ridimensionamento delle importazioni indiane di petrolio di quel Paese. Questo ha stabilizzato il mercato, rendendo più facile la gestione dei problemi di debito e di sicurezza alimentare, evitando così che questa parte del mondo scivolasse in un’instabilità su larga scala, a scapito di tutti.

Allarme Fake News: Modi non ha “epurato” il Parlamento

ANDREW KORYBKO
21 DIC 2023

I legislatori dell’opposizione liberal-globalista che hanno scatenato un putiferio in parlamento volevano farsi sospendere per contribuire alla campagna di guerra informativa dei loro alleati ideologici americani contro l’India in vista delle elezioni della prossima primavera, fabbricando il falso pretesto per delegittimare il voto.

Semafor ha pubblicato mercoledì un articolo su come “L’India spinge una controversa riforma penale dopo l’epurazione dei legislatori dell’opposizione”, con approfondimenti di S. Meghnad di The Wire India e Tanvi Madan della Brookings Institution. L’articolo è accompagnato da una foto del Primo Ministro Narendra Modi con la scritta “THE PURGE”. L’articolo sostiene brevemente che la recente sospensione di 141 legislatori per aver disturbato i lavori parlamentari equivale a una “purga” e paventa le sue implicazioni.

Per quanto riguarda il contesto, la coalizione di opposizione “I.N.D.I.A.”, di recente formazione e guidata dal Congresso Nazionale Indiano (INC), ha scatenato un putiferio con l’intento di spingere il BJP al governo a discutere di una violazione della sicurezza nelle loro camere all’inizio di questo mese. Alcuni individui hanno rilasciato del gas nello stesso giorno in cui il terrorista-separatista designato da Delhi al centro della spirale della disputa indo-statunitense aveva minacciato che sarebbe successo qualcosa all’interno del Parlamento. Le indagini su questo incidente sono in corso.

Considerando che si tratta di una questione di sicurezza nazionale, proprio come i disordini della scorsa primavera a Manipur, che l’opposizione ha politicizzato per spingere il BJP a un dibattito nonostante l’indagine in corso, è logico che i dettagli non vengano rivelati fino a quando non si saprà tutto con certezza. Questa volta l’opposizione ha esagerato, e per questo i suoi esponenti sono stati sospesi, dopo che il mese scorso la loro coalizione ha perso contro il BJP in tre delle cinque elezioni regionali.

All’inizio dell’anno avevano grandi speranze di ottenere risultati migliori in vista delle elezioni nazionali della prossima primavera e quindi forse non volevano scatenare un putiferio sul Manipur, sapendo che non sarebbe stato accolto positivamente dalla maggior parte dell’opinione pubblica. Ora che hanno perso tre elezioni regionali su cinque nei principali Stati e che vedono la scritta sul muro per le prossime elezioni, tuttavia, sembrano aver gettato la cautela al vento per la disperazione di delegittimare quel voto.

Questi ricalcoli di politica interna avvengono in parallelo con il peggioramento dei legami indo-statunitensi a causa della spirale di controversie sul già citato terrorista-separatista designato da Delhi e delle accuse del Dipartimento di Giustizia contro un non meglio precisato funzionario indiano per aver presumibilmente cospirato per assassinarlo. La fazione politica liberal-globalista americana sta guidando questi sviluppi in parte con l’intento di aiutare i propri alleati ideologici nella coalizione guidata dall’INC a screditare il conservatore-nazionalista BJP.

Questa confluenza di fattori porta alla conclusione che i legislatori dell’opposizione volevano farsi sospendere per contribuire alla campagna di guerra informativa dei loro alleati ideologici americani contro l’India in vista delle elezioni della prossima primavera. Per quanto riguarda il pezzo di Semafor in cui si afferma che il Primo Ministro Modi li ha “epurati”, questo canale, solitamente affidabile, è stato probabilmente sfruttato dai “compagni di viaggio” indiani dei liberal-globalisti statunitensi, tra cui Madan è uno dei più importanti.

Hanno approfittato di Semafor per diffondere la falsa rappresentazione delle ultime sospensioni come una “epurazione”, che è arrivata poco più di una settimana dopo la provocazione informativa del Washington Post contro l’India, che ha cercato in modo eccessivo di architettare la teoria del complotto secondo cui l’India si intromette negli affari americani. Che sia una coincidenza o un disegno, nel caso in cui fossero stati avvisati in anticipo, il loro pezzo è stato pubblicato anche in concomitanza con l’intervista esclusiva del Primo Ministro Modi al Financial Times.

Il leader indiano ha respinto le affermazioni più diffuse dei liberal-globalisti nei suoi confronti, tra cui l’accusa di essere diventato autoritario, pur ribadendo il diritto di questo “ecosistema” di “lanciare queste accuse” nonostante siano false. Ha anche colto l’occasione per parlare dei suoi successi economici interni e di politica estera. Il trattamento equo del Financial Times contrasta con quello ingiusto del Washington Post e di Semafor.

Il primo ha deliberatamente cercato di diffamare il suo Paese, mentre il secondo è stato probabilmente sfruttato dai “compagni di viaggio” indiani dei liberali-globalisti statunitensi, che hanno condiviso le loro “intuizioni” (cioè le narrazioni iper-partisan) con quell’outlet. Comunque sia, la tendenza emergente è che i principali media americani stanno intensificando gli attacchi contro l’India e il suo leader in vista delle elezioni della prossima primavera, cosa di cui tutti dovrebbero essere consapevoli e capire il motivo per non essere fuorviati.

L’Iran dovrebbe collaborare con le indagini indiane sull’attacco di sabato di un drone vicino alle sue coste

ANDREW KORYBKO
24 DIC 2023

Non si può escludere che gli Stati Uniti abbiano falsamente attribuito all’Iran la responsabilità dell’attacco di sabato con un drone nell’Oceano Indiano, come parte di uno stratagemma per coinvolgere l’India nella sua coalizione navale che si sta radunando al largo delle coste yemenite e rovinare i suoi legami di connettività con l’Iran, da cui anche la Russia dipende come valvola di sfogo dalle pressioni delle sanzioni occidentali.

Il Pentagono ha dichiarato che l’Iran ha lanciato il drone d’attacco unidirezionale che ha colpito una nave chimichiera battente bandiera liberiana, di proprietà giapponese e gestita dai Paesi Bassi, che stava trasportando petrolio dall’Arabia Saudita al porto indiano di Mangalore, sabato scorso, a 200 miglia nautiche dalla costa del subcontinente. Il giorno prima il Consiglio di sicurezza nazionale aveva affermato che l’Iran sta aiutando gli Houthi a colpire le navi presumibilmente collegate a Israele, ma questa è la prima volta che la Repubblica islamica viene accusata di aver effettuato un proprio attacco.

L’incidente è preoccupante perché l’Iran e l’India collaborano con la Russia per il corridoio di trasporto Nord-Sud (NSTC), che negli ultimi 22 mesi è servito a Mosca come valvola di sfogo dalle pressioni delle sanzioni occidentali e le ha permesso di evitare preventivamente una dipendenza potenzialmente sproporzionata dalla Cina. Inoltre, i legami commerciali dell’India con l’Afghanistan e le Repubbliche dell’Asia centrale dipendono da questa rotta e l’Iran diventerà un membro dei BRICS all’inizio dell’anno.

Le osservazioni di cui sopra significano che qualsiasi attacco di droni da parte dell’Iran rischia di interrompere questo emergente corridoio di connettività eurasiatico a scapito della Repubblica islamica stessa, visto che Teheran è anche in grado di trarre benefici finanziari e strategici dalla facilitazione del commercio lungo la NSTC. Per questi motivi, l’ultima accusa del Pentagono non dovrebbe essere presa alla lettera, poiché gli Stati Uniti hanno interessi personali nel dipingere l’Iran come uno Stato canaglia su cui nessuno dei suoi partner può fare affidamento.

Il contesto più ampio è che gli Stati Uniti sono nel mezzo di una spirale di controversie con l’India, dopo che il mese scorso il Dipartimento di Giustizia ha accusato uno dei suoi funzionari di aver cospirato per assassinare un terrorista-separatista designato da Delhi con doppia cittadinanza americana sul suo territorio durante l’estate. Inoltre, la coalizione navale appena annunciata nella regione del Golfo di Aden e del Mar Rosso, creata per proteggere le navi dagli attacchi degli Houthi sostenuti dall’Iran, è stata inficiata da controversie su chi la comanderà.

Non si può quindi escludere che gli Stati Uniti abbiano falsamente attribuito all’Iran la responsabilità dell’attacco dei droni di sabato nell’Oceano Indiano, come parte di uno stratagemma per coinvolgere l’India nella suddetta coalizione e rovinare i suoi legami di connettività con l’Iran, da cui anche la Russia dipende come valvola di sfogo dalle pressioni delle sanzioni occidentali. Questa ipotesi, tuttavia, potrà essere dimostrata solo nel corso di un’indagine congiunta indiano-iraniana, motivo per cui è indispensabile che Teheran collabori pienamente con Delhi.

Il risultato determinerà il futuro dei legami dell’India con l’Iran e gli Stati Uniti almeno per il prossimo anno, poiché la colpevolezza del primo nell’attacco di sabato creerebbe problemi molto seri, mentre le potenziali bugie del secondo sui responsabili accelererebbero ulteriormente il deterioramento della fiducia reciproca. Tra questi due estremi si colloca lo scenario composito in cui gli Houthi, sostenuti dall’Iran, hanno compiuto l’attacco senza che il loro Stato protettore ne fosse a conoscenza in anticipo.

Anche questa possibilità non può essere scartata, dal momento che l’affermazione del Consiglio di sicurezza nazionale citata in precedenza menziona esplicitamente che “l’Iran ha spesso rinviato l’autorità decisionale operativa agli Houthi”. Considerando ciò, potrebbe benissimo essere che siano stati loro a decidere di attaccare la nave al largo delle coste del subcontinente, dopodiché gli Stati Uniti hanno colto l’occasione per incolpare ingiustamente l’Iran per le ragioni precedentemente descritte, legate alla rovina dei suoi legami con l’India e alla creazione di problemi economici per la Russia.

Tuttavia, mentre i legami indiano-iraniani rimarrebbero stabili in questo scenario e la valvola di sfogo della Russia dalla pressione delle sanzioni occidentali rimarrebbe aperta come se nulla fosse, i legami indo-statunitensi peggiorerebbero dopo che Delhi si sarebbe resa conto del gioco che Washington stava facendo nel tentativo di distruggere una delle sue principali partnership. Ancora una volta, la verità può essere rivelata solo attraverso un’indagine congiunta con l’Iran, ed è per questo che la Repubblica islamica farebbe bene a condividere con l’India tutte le informazioni rilevanti su richiesta.

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Oltre i poli scomparsi: Le insidie degli approcci tradizionali alla comprensione nella politica internazionale, di Timofei Bordachev

Oltre i poli scomparsi: Le insidie degli approcci tradizionali alla comprensione nella politica internazionale
23.10.2023
Timofei Bordachev

La discussione sulla “polarità” dell’ordine internazionale è stata dominante per diversi decenni nella scienza accademica delle relazioni internazionali, nelle dichiarazioni di esperti e, naturalmente, nelle dichiarazioni di personalità politiche. È ugualmente popolare sia tra coloro che cercano di preservare l’ingiusto ordine internazionale del passato, sia tra coloro che ne chiedono il cambiamento in nome di un ordine globale migliore e più giusto. Negli ultimi 30 anni, una parte significativa dell’attenzione del pubblico di lettori si è concentrata sulla questione di quale sistema – bipolare, unipolare o multipolare – esista attualmente e, soprattutto, sia il più adatto dal punto di vista della sicurezza internazionale per risolvere i problemi di sopravvivenza dei singoli Stati. In altre parole, il dibattito su questo tema è così attivo che si può involontariamente sospettare che il problema sia in qualche modo fittizio.

In tutte le discussioni, la questione del numero di “poli” è al centro dell’attenzione ed è considerata decisiva per fornire una descrizione più completa dell’equilibrio di potere nell’arena globale. Il motivo di questa ossessione generale è che l’uso di questa categoria teorica permette di semplificare al massimo il quadro estremamente complesso della realtà internazionale, rendendolo comprensibile non solo ai politici, ma anche alla gente comune. Inoltre, il concetto di “polo” è abbastanza facile da rendere operativo come modo per indicare lo status di uno Stato nella gerarchia mondiale, se riconosciamo che esiste ancora. Numerosi colleghi usano il termine “polo” per indicare che una potenza ha un certo insieme di componenti del suo potenziale di potere. Ci piace molto parlare di “poli” proprio perché scegliamo soluzioni analitiche semplici e apparentemente affidabili. Se siano sempre corrette resta comunque in dubbio.

Non c’è dubbio che il vero significato di ciò che oggi chiamiamo multipolarità sia estremamente ampio, e questo ci permette di trascurare alcune asperità metodologiche in nome di una buona causa. Allo stesso modo, esiste un male assoluto che porta in sé l’ordine che conosciamo come unipolare. Tuttavia, pur lasciando ai nostri leader e all’opinione pubblica il diritto incondizionato di usare categorie di comodo, dobbiamo riconoscere che la stessa discussione “polare” è il prodotto della nostra insufficiente volontà di espandere il quadro analitico al di là di categorie che sono nate in un’epoca storica completamente diversa, avendo, tra l’altro, una natura molto speculativa. Ora, questo può diventare un problema proprio perché la discussione sui “poli” allontana costantemente la comunità accademica dallo studio della realtà della politica mondiale, costringendola a concentrarsi su una trama che ha poco a che fare con i cambiamenti che caratterizzano la vita internazionale.

Per cominciare, è necessario ricordare che tutta la storia dei “poli” nasce nel quadro di approcci piuttosto astratti all’analisi della politica mondiale, delineati per la prima volta nel 1957 dal professor Morton Kaplan. Il desiderio di sistematizzare al massimo i nostri ragionamenti sulla natura di un fenomeno come la politica internazionale è diventato un tratto distintivo della seconda metà del secolo scorso. Quest’epoca, in linea di principio, è stata la più stabile in termini di distribuzione delle capacità di potenza tra gli Stati leader. La fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio dell’era della Guerra Fredda hanno inevitabilmente spinto la comunità scientifica, e poi i politici, a fissare concettualmente una distribuzione relativamente stabile delle forze nelle nuove condizioni. Fino all’inizio degli anni ’80 nessuna delle parti in conflitto globale aveva la capacità di condurre operazioni offensive attive e, di fatto, sia gli Stati Uniti che l’Europa, così come l’URSS, divennero potenze con uno status permanente, preoccupate di mantenere la propria posizione nel mondo e solo attraverso l’espansione dell’influenza. Ciò non cancellò, ovviamente, l’aspra lotta tra loro a livello regionale – in Asia, Africa o America Latina. Tuttavia, nel principale teatro della politica mondiale – l’Europa – le battaglie principali erano temporaneamente terminate. In effetti, la stasi europea è proprio il motivo per cui la Guerra Fredda è considerata un’epoca stabile. Questo è giusto, poiché ora l’Europa conserva la capacità di essere la principale “polveriera” del mondo intero.

Dalla fine della Guerra Fredda, l’idea che il sistema internazionale sia basato sulla “polarità” ha ricevuto un nuovo sviluppo. L’innegabile vantaggio dell’Occidente rispetto a tutti gli altri partecipanti alla politica internazionale ha reso rilevante l’ipotesi che il mondo debba acquisire una struttura unipolare, in cui l’unico “polo” sono gli Stati Uniti, che hanno le maggiori capacità e influenza complessive. Allo stesso tempo, già all’epoca, vi erano discussioni attive che mettevano in discussione questa ipotesi. In primo luogo, i Paesi che ritenevano che il nuovo ordine limitasse i loro interessi e le loro capacità hanno iniziato a promuovere l’idea del multipolarismo. Già nel 1997, il presidente Boris Eltsin e il leader cinese Jiang Zemin firmarono una dichiarazione congiunta su un mondo multipolare. Notiamo che, in questo caso, la discussione “polare” è presente esclusivamente sul piano politico e non come tentativo di sostanziare un tale ordine mondiale a livello intellettuale.

In secondo luogo, c’è stato un dibattito attivo su ciò che, di fatto, ci permette di parlare di acquisizione di caratteristiche polari da parte di una o dell’altra potenza. Questa discussione si è svolta con il sostegno attivo dell’Europa, i cui leader fino alla fine degli anni Duemila speravano di consolidare la loro associazione per posizionarsi tra i principali partecipanti alla vita internazionale, con una forza pari a quella degli Stati Uniti, della Cina o della Russia. In realtà, è stata l’Europa, i suoi politici e i suoi osservatori, a dare il maggior contributo all’ampliamento delle interpretazioni di ciò che ci permette di parlare di un partecipante alla vita internazionale come di un polo indipendente. Questo ha dato loro poco. Già all’inizio degli anni 2010 la posizione dell’UE aveva cominciato a indebolirsi e la sua dipendenza dagli Stati Uniti in materia di sicurezza sta aumentando.

Ora le discussioni sull’imminente multipolarità sono diventate così universali che solo gli intellettuali americani, che rimangono fedeli all’idea di un dominio completo degli Stati Uniti sul resto del mondo, non vi partecipano. Il ruolo di coloro che cercano soluzioni di compromesso è assegnato ai loro più vicini satelliti in Europa. Parlano dell’inizio di un “nuovo bipolarismo” basato sul confronto delle capacità combinate di Cina e Stati Uniti. Allo stesso tempo, coloro che parlano attivamente e specificamente dell’avvento di un mondo multipolare, e non si tratta solo di Mosca e Pechino, ma anche di molti altri Stati della Maggioranza Mondiale, implicano una maggiore democratizzazione della politica internazionale; la scomparsa della dittatura in quanto tale da essa. Anche se, a rigore, nella sua versione accademica la teoria secondo cui la politica mondiale è bloccata ai “poli” non implica alcuna democrazia. Possiamo solo parlare del numero fisico di Paesi-dittatori relativamente autonomi, che estendono il loro dominio su gruppi significativi di Stati di medie e piccole dimensioni. Naturalmente, questa interpretazione non corrisponde in alcun modo a ciò che i leader della Russia o della Cina hanno in mente quando ci convincono dell’avvento di un mondo multipolare.

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Blinken: eccezionalismo USA, scontro fra grandi potenze, e guerra a oltranza in Ucraina, di Roberto Iannuzzi

Già nell’ottobre scorso il sito di Italia e il mondo aveva sottolineato le novità presenti nel piano strategico NSS presentato da Biden e nelle conferenze di Sullivan. Roberto Iannuzzi offre il suo contributo di approfondimento sul tema mettendo a nudo soprattutto l’ipocrisia, le rimozioni sottese e l’istigazione al caos consapevole, presenti nel discorso di Blinken, in questo cambio di paradigma. Una critica più cogente delle scelte dell’attuale leadership statunitense avrebbe bisogno di ulteriori puntualizzazioni:

  • non si tratta di un confronto tra “deregolamentazione” e regolamentazione dell’ordine globale, quanto di diversi modelli di ordinamento e minore arbitrarietà di applicazione di questi
  • il problema fondamentale degli Stati Uniti è quello di mantenere all’interno del proprio sistema di alleanze l’esclusiva dei rapporti di conflitto e cooperazione con le potenze rivali ed avversarie. Attraverso questa chiave andrebbero lette le recenti perorazioni della Yellen, la sua flessibilità nella costruzione dei rapporti con la Cina e l’estremo rigore che al contrario si pretende dai paesi europei.
  • contrariamente a quanto sosterrebbe Blinken nel suo intervento e sulla falsa riga delle tesi del NSS, lo stesso tema della democrazia non sarebbe più il discrimine fondamentale nel determinare la natura dei rapporti internazionali e gli schieramenti, quanto piuttosto l’adesione al proprio sistema di regolamentazione delle relazioni economiche e politiche. Un approccio che stride platealmente con la attribuzione agli avversari e competitori esterni di quella visione totalitaria che si sta cercando di introdurre surrettiziamente al proprio interno. Una caratteristica che indebolisce la vena polemica e la motivazione infusa nel discorso di Blinken

Sta di fatto che l’attuale leadership sta iniziando a porsi il problema di una ricostruzione delle proprie relazioni e dei propri sistemi di alleanze all’interno di una visione bipolare che vede nel binomio sino-russo il polo avversario designato; come pure appare consapevole della necessità di ricostruire in qualche maniera al proprio interno un modello di coesione sociale che garantisca energia necessaria ai propri propositi e all’esterno una ridefinizione della divisione del lavoro circoscritta al proprio polo. Nelle more su questo si segna il destino di paesi come la Germania e l’Italia, ma anche del Giappone; all’interno di questo disegno si deve inquadrare l’azione del Governo Meloni e lo stretto sodalizio che sta costruendo con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Tornando ai centri decisori statunitensi, li attende un compito immane, difficilmente raggiungibile; ma non va sottovalutata la forza e la capacità di cui ancora dispongono. Lo stesso fatto che si pongano pur tardivamente questi termini porterà ad una ennesima scomposizione e ricomposizione degli schieramenti politici statunitensi, impossibili al momento da prevedere nelle dinamiche e nei contenuti concreti.

La vera ossessione che turba l’attuale leadership è quella di impedire il multipolarismo, il vero incubo di questa amministrazione, ma anche il tema per vari motivi sino ad ora eluso nello scacchiere geopolitico dalle forze emergenti, impegnate a perorare un sistema di regole concordate e non imposte tra i vari attori e un multilateralismo che rifugge da vere e proprie alleanze politiche stabilmente definite, se non contrapposte. Come una delle tante nemesi che avvolgono la storia, è proprio il perdurare dell’oltranzismo e dell’avventurismo statunitense a creare le condizioni del suo avvento o di una sua accelerazione contro tutto e contro tutti. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Blinken: eccezionalismo USA, scontro fra grandi potenze, e guerra a oltranza in Ucraina

Col tramonto dell’egemonia unipolare americana, il manicheismo di Washington richiede un mondo diviso, e un conflitto armato di lunga durata che perpetui questa divisione.

29 set 2023
Il segretario di Stato USA Antony Blinken (2021) (Public Domain)

“Ciò che stiamo vivendo oggi è ben più di una messa alla prova dell’ordine mondiale post-Guerra Fredda, è la sua fine”.

A pronunciare queste parole è stato il segretario di Stato USA Antony Blinken, in un discorso tenuto il 13 settembre alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies (SAIS), uno dei “templi” del pensiero strategico americano.

La SAIS fu fondata nel 1943 da Paul Nitze, considerato uno degli architetti della politica di difesa americana durante la Guerra Fredda. Nitze fu il principale autore dell’NSC 68, un documento del Consiglio per la Sicurezza Nazionale che pose le basi per la militarizzazione della Guerra Fredda dal 1950 in poi, con l’espansione del bilancio del Pentagono, lo sviluppo della bomba all’idrogeno e l’incremento degli aiuti militari agli alleati di Washington.

Settantatré anni dopo, Blinken ci pone di fronte alla prospettiva di una nuova, e forse più pericolosa, guerra fredda contro non una, ma due potenze nucleari: Russia e Cina.

Quella di Blinken non è una visione personale, ma riflette quanto già affermato nella Strategia di Sicurezza Nazionale formulata dall’amministrazione Biden nell’ottobre del 2022.

Una crisi senza cause apparenti

Di fronte alla platea della SAIS, Blinken ha decretato la fine dell’era unipolare americana, e l’inizio di una cupa fase di conflitto.

Secondo il segretario di Stato, la fine della Guerra Fredda aveva “portato con sé la promessa di una marcia inesorabile verso una maggiore pace e stabilità, cooperazione internazionale, interdipendenza economica, liberalizzazione politica, e diritti umani”.

Tuttavia, “decenni di relativa stabilità geopolitica hanno lasciato il posto a una crescente competizione con potenze autoritarie e revisioniste”.

Blinken non spiega come ciò sia accaduto, e non fa alcuna autocritica.

Trent’anni di globalizzazione all’insegna della deregolamentazione dei mercati, di ortodossia neoliberista che ha tagliato le tasse alle grandi imprese e favorito le classi più ricche, di delocalizzazione della produzione e conseguente deindustrializzazione che ha duramente colpito la classe lavoratrice, non vengono neanche marginalmente considerati nel discorso di Blinken.

La continua erosione dei salari, della produttività e della partecipazione della forza lavoro, l’aumento esponenziale delle disuguaglianze, la promozione di un’economia di consumo di massa fondata in ultima analisi sul crescente indebitamento degli USA, sono elementi che il segretario di Stato tralascia completamente.

Trent’anni di avventurismo militare, dall’Iraq, ai Balcani, all’Afghanistan, e di interventi diretti o indiretti in Libia, Siria, Yemen, hanno avuto un ruolo determinante nel delegittimare lo status di potenza egemone, e di “leader del mondo libero”, che gli Stati Uniti si attribuivano.

Blinken non fa alcuna menzione di questi fattori che hanno contribuito ad accelerare il tramonto della supremazia unipolare americana.

La sua spiegazione è molto più semplice: “Una manciata di governi che hanno utilizzato sussidi al di fuori delle regole, proprietà intellettuale trafugata, ed altre pratiche distorsive del mercato per ottenere un vantaggio sleale in settori chiave” sono citati fra i responsabili della progressiva perdita di fiducia nell’ordine economico internazionale.

Altri elementi vengono citati da Blinken – le trasformazioni tecnologiche, le disuguaglianze – ma senza in alcun modo indagarne le cause. Si ha la sensazione che si tratti di eventi ineluttabili che è superfluo approfondire.

La “minaccia delle autocrazie”

Per il segretario di Stato americano, le democrazie “sono minacciate” – non dalle scelte compiute dalle élite politiche che le hanno governate in questi decenni, dalla corruzione del processo democratico, e dalla progressiva limitazione dei diritti sotto la spinta di continue ‘emergenze’ terroristiche, economiche, e di altra natura – ma da leader “che sfruttano risentimenti e alimentano paure, erodono magistrature e media indipendenti, arricchiscono reti clientelari, reprimono la società civile e l’opposizione politica”.

Inoltre le democrazie sono minacciate dall’esterno “da autocrati che diffondono disinformazione, usano la corruzione come arma, interferiscono nelle elezioni”.

Fra questi attori, Blinken individua immediatamente i due principali responsabili:

“La guerra di aggressione della Russia in Ucraina rappresenta la minaccia più immediata e più acuta all’ordine internazionale sancito dalla Carta delle Nazioni Unite e dai suoi principi fondamentali di sovranità, integrità territoriale e indipendenza per le nazioni, e diritti umani universali e indivisibili per gli individui”.

“Nel frattempo, la Repubblica popolare cinese rappresenta la più significativa sfida a lungo termine perché non solo aspira a rimodellare l’ordine internazionale, ma sempre più dispone del potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per far proprio questo”.

Il 2 aprile 1917, il presidente Woodrow Wilson si rivolse a una sessione congiunta del Congresso americano per chiedere una dichiarazione di guerra contro la Germania, allo scopo di “rendere il mondo sicuro per la democrazia” (secondo quello che in realtà era uno slogan creato da Edward Bernays, esperto di marketing e nipote di Freud, considerato il padre delle “pubbliche relazioni”, e uno degli ideatori della propaganda americana durante il primo conflitto mondiale).

Blinken capovolge lo slogan di Wilson e Bernays, affermando che “Pechino e Mosca stanno lavorando insieme per rendere il mondo sicuro per l’autocrazia attraverso la loro ‘partnership senza limiti’”.

“Ci troviamo quindi in quello che il presidente Biden chiama un punto di svolta. Un’era sta finendo, ne sta iniziando una nuova, e le decisioni che prendiamo ora plasmeranno il futuro per decenni a venire”.

La missione “eccezionale” degli USA

Nella visione manichea del segretario di Stato USA, di fronte a questa sfida non vi è altra strada che quella della contrapposizione.

Non avendo compiuto alcuna analisi sulle ragioni della crisi americana, Blinken non ha difficoltà ad affermare che in questa sfida gli Stati Uniti partono da una “posizione di forza”.

Aderendo pienamente ai principi dell’eccezionalismo USA, egli afferma che “abbiamo dimostrato più e più volte che quando l’America si unisce, possiamo fare qualsiasi cosa”,  e che “nessuna nazione sulla Terra ha una maggiore capacità di mobilitare le altre per una causa comune”.

Tale causa consiste nella promozione di un mondo capitalistico idealizzato:

“Un mondo in cui gli individui sono liberi nella vita quotidiana e possono plasmare il proprio futuro, le proprie comunità, i propri paesi”.

“Un mondo in cui ogni nazione può scegliere la propria strada e i propri partner”.

“Un mondo in cui beni, idee, e individui possono circolare liberamente e legalmente per terra, mare, cielo, e cyberspazio, dove la tecnologia viene utilizzata per conferire potere alle persone, non per dividerle, sorvegliarle e reprimerle”.

“Un mondo in cui l’economia globale è definita da concorrenza leale, apertura, trasparenza, e dove la prosperità non si misura solo secondo il livello di crescita delle economie dei paesi, ma secondo il numero di persone che beneficiano di tale crescita”.

“Un mondo che genera una corsa verso l’alto negli standard lavorativi e ambientali, nella sanità, nell’istruzione, nelle infrastrutture, nella tecnologia, nella sicurezza e nelle opportunità”.

“Un mondo in cui il diritto internazionale e i principi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite siano osservati, e in cui i diritti umani universali siano rispettati”.

Che le politiche americane in questi decenni abbiano perseguito e raggiunto obiettivi spesso opposti alla visione idilliaca prospettata da Blinken non è questione che il segretario di Stato ha ritenuto utile affrontare nel suo discorso.

In questa visione in bianco e nero, gli avversari di Washington hanno naturalmente concezioni totalmente contrapposte:

“Essi vedono un mondo definito da un unico imperativo: preservazione e arricchimento del regime. Un mondo in cui gli autoritari sono liberi di controllare, costringere e schiacciare la propria gente, i propri vicini, e chiunque altro ostacoli questo obiettivo totalizzante”.

La visione americana ha valore universale. Chi la contraddice, contraddice principi assoluti:

“I nostri competitori affermano che l’ordine esistente è un’imposizione occidentale, quando in realtà le norme e i valori che lo definiscono hanno un’aspirazione universale – e sono sanciti dal diritto internazionale a cui essi hanno aderito. Costoro affermano che ciò che i governi fanno all’interno dei propri confini è di loro esclusiva competenza, e che i diritti umani sono valori soggettivi che variano da una società all’altra. Essi ritengono che i grandi paesi abbiano diritto a sfere di influenza – che il potere e la vicinanza diano loro la prerogativa di dettare le proprie scelte agli altri”.

Riaffermare il primato di Washington

Una volta appurato che sostanzialmente non vi è dialogo né mediazione possibile con gli avversari dell’America, Blinken passa ad enunciare il piano volto a far prevalere gli Stati Uniti in questa nuova competizione fra grandi potenze.

Nel far ciò, egli elabora ulteriormente i principi enunciati da due suoi colleghi all’interno dell’amministrazione Biden, il segretario al Tesoro Janet Yellen, e il Consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan.

La prima aveva parlato di una forma attenuata di “disaccoppiamento” dalla Cina denominata “de-risking”, ovvero la riduzione dei rischi derivanti da una sovraesposizione delle catene di fornitura occidentali alla Cina.

Il secondo aveva per la prima volta messo in discussione alcuni dogmi neoliberisti del “Washington Consensus”, puntando a “rinnovare la leadership economica americana” attraverso l’introduzione di dazi e sussidi, ed altre misure di politiche industriale (senza tuttavia accennare ad alcuna politica sociale minimamente in grado di affrontare lo squilibrio fra capitale e lavoro in patria).

Partendo da queste basi, Blinken enuncia una strategia volta in primo luogo a rafforzare gli USA al proprio interno, attraverso le già citate misure di protezionismo e politica industriale, a cui affiancare provvedimenti finalizzati al reshoring (ritorno in patria della produzione manifatturiera) e friend-shoring (ridefinizione delle catene di fornitura in modo da riportarle nell’alveo delle alleanze americane).

A questa politica di rafforzamento interno è inscindibilmente legata una strategia di consolidamento delle alleanze all’estero (in primo luogo con gli amici storici di Washington in Europa e nel Pacifico), e di tessitura di nuovi legami con i paesi del Sud del mondo, per sottrarli all’influenza russo-cinese, ed assicurarsi le materie prime necessarie a garantire le catene di fornitura occidentali, la transizione energetica, e gli altri traguardi tecnologici della cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”.

Strategia “a geometria variabile”

In questo quadro di rafforzamento delle alleanze, secondo Blinken gli USA devono puntare in primo luogo a rinvigorire la NATO (operazione nella quale il conflitto ucraino gioca un ruolo chiave), il G7 (da egli definito “il comitato direttivo delle democrazie più avanzate al mondo”), e l’UE, oltre a rinsaldare alcune alleanze bilaterali – in particolare con Giappone, Corea del Sud, Israele, Australia, Filippine, India, Vietnam.

In tale sforzo, gli USA devono basarsi su una diplomazia “a geometria variabile” che, nelle parole di Blinken, può essere riassunta così: “per ogni problema, stiamo mettendo insieme una coalizione adatta allo scopo”.

Per il segretario di Stato, più di 50 paesi stanno cooperando per sostenere la difesa dell’Ucraina e costruire un esercito ucraino sufficientemente forte da scoraggiare futuri attacchi.

“Abbiamo coordinato il G7, l’Unione Europea e decine di altri paesi per sostenere l’economia dell’Ucraina e ricostruire la sua rete energetica, più della metà della quale è stata distrutta dalla Russia”.

“Nel frattempo, i paesi europei, il Canada, e altri, si sono uniti ai nostri alleati e partner in Asia per affinare i loro strumenti volti a contrastare la coercizione economica della Repubblica popolare cinese. E gli alleati e i partner degli Stati Uniti in ogni regione stanno lavorando urgentemente per costruire catene di fornitura resilienti, in particolare riguardo alle tecnologie chiave ed ai materiali cruciali per realizzarle”.

Cardine di questa diplomazia a geometria variabile sono i cosiddetti “minilaterals”, accordi “minilaterali” che riuniscono pochi paesi per perseguire obiettivi limitati.

Molti di questi accordi sono in realtà intesi come strumenti che, pur operando distintamente, sono volti nel loro insieme a contenere la Cina, nell’impossibilità di costruire un unico fronte anticinese esteso.

Fra essi spiccano l’AUKUS (patto di sicurezza fra USA, Regno Unito ed Australia volto a far acquisire a quest’ultima sottomarini nucleari), il Quad (partnership diplomatica e militare fra Australia, India, Giappone e USA), e la recente intesa trilaterale fra USA, Corea del Sud e Giappone.

A questi mini-accordi si affiancano partnership più estese come la Partnership of Global Infrastructure and Investment (PGII), il Lobito Corridor in Africa, e l’IMEC, corridoio economico fra India, Medio Oriente ed Europa recentemente lanciato da Wahington al G20.

Tali collaborazioni hanno l’aspirazione di contrastare la Belt and Road Initiative (BRI) cinese, pur non avendone la portata né un equiparabile volume di finanziamenti.

La guerra ucraina come “cardine” del nuovo scontro mondiale

Cerniera essenziale di questa nuova “guerra fredda”, che (sebbene in maniera ancora confusa) vede l’emergere di un’inedita contrapposizione fra blocchi, è il conflitto ucraino.

Nelle già citate parole di Blinken, “la guerra di aggressione della Russia in Ucraina rappresenta la minaccia più immediata e acuta all’ordine internazionale sancito dalla Carta delle Nazioni Unite”.

Egli sottolinea il valore “globale” di tale conflitto, affermando che “l’invasione della Russia ha messo in chiaro che un attacco all’ordine internazionale danneggerà i popoli ovunque”.

E, per certi versi, egli riconosce che, senza questa guerra, gli USA non sarebbero stati in grado di mobilitare i propri alleati nella nuova competizione fra grandi potenze: “Abbiamo sfruttato questa presa di coscienza per riunire i nostri alleati transatlantici e dell’Indo-Pacifico nella difesa della nostra sicurezza, prosperità e libertà condivise”.

Secondo la narrazione di Blinken, “la guerra di Putin continua ad essere un fallimento strategico per la Russia”, anche grazie “al notevole coraggio e alla resilienza del popolo ucraino, e al nostro sostegno”.

La guerra ucraina ha dunque assunto un valore cruciale nella nuova narrazione di Washington.

Avendo l’amministrazione Biden annunciato un inedito scontro globale fra l’Occidente e le potenze “autocratiche e revisioniste” di Russia e Cina, una sconfitta in Ucraina rappresenterebbe un colpo durissimo per la traballante reputazione degli Stati Uniti in questa sfida appena lanciata.

Come ho scritto in un recente articolo,

gli USA hanno a tal punto investito la loro credibilità in questo conflitto, lasciandosi coinvolgere militarmente oltre ogni ragionevole cautela, che un’eventuale vittoria della Russia in Ucraina sarà devastante per il prestigio di Washington e per la coesione del fronte occidentale e della NATO.

Irruzione della realtà

Tuttavia, in Ucraina sono proprio gli eventi sul terreno a non evolvere come Washington si augurava. Pur rifiutando ogni soluzione negoziale, la Casa Bianca non ha una chiara visione di come portare avanti il conflitto.

La controffensiva ucraina estiva ha ottenuto conquiste territoriali minime a fronte di enormi perdite in termini di uomini e mezzi, in massima parte infrangendosi contro l’impressionante sistema di strutture difensive costruito da Mosca.

Se Kiev è ormai drammaticamente a corto di nuove reclute da mandare al fronte, i paesi occidentali che sostengono l’Ucraina stanno seriamente intaccando i propri arsenali, mentre i ritmi di produzione della loro industria bellica non sono al momento in grado di competere con quella russa.

Di fronte a questa realtà, i diversi esponenti dell’amministrazione Biden, da Blinken allo stesso presidente e ad altri, continuano a ripetere il medesimo vago ritornello: gli USA appoggeranno l’Ucraina “per tutto il tempo necessario”.

Dietro l’ostentata sicurezza, vi è tuttavia la crescente (seppur tardiva) presa di coscienza che le tattiche fin qui adottate non hanno funzionato, e che è necessario un cambio di strategia.

La carenza di proiettili di artiglieria e di altri tipi di munizionamento, così come la penuria di uomini, impediranno nei prossimi mesi un’offensiva su vasta scala come quella tentata quest’estate.

Le limitate disponibilità degli arsenali occidentali, e una serie di appuntamenti elettorali che culmineranno con le presidenziali americane del novembre 2024, probabilmente ridimensioneranno il flusso di aiuti militari occidentali diretti a Kiev.

Necessariamente si tornerà ad una guerra di logoramento, nella quale gli ucraini saranno costretti più a difendersi che ad attaccare. Gli strateghi americani stanno già estendendo l’orizzonte temporale del conflitto nelle loro previsioni.

Impasse strategica e rischi di escalation

Allo stesso tempo, l’attenzione dei vertici militari occidentali si sta spostando sugli attacchi con missili a lungo raggio, come gli Storm Shadow britannici, in grado di colpire le retrovie russe e scompaginare le linee di rifornimento di Mosca.

Ciò sta già avvenendo in Crimea. Simili attacchi, tuttavia, non solo vengono effettuati con armi NATO, ma con supporto logistico e di intelligence occidentale, segnando un ulteriore grado di coinvolgimento degli USA e dei loro alleati nel conflitto.

Come ha scritto Hal Brands, docente presso la stessa SAIS dove Blinken ha pronunciato il suo recente discorso, un’intensificazione degli attacchi a lungo raggio, accompagnata dalla prospettiva di una guerra a più lungo termine, comporta l’accettazione di maggiori rischi di escalation.

Tale cambio di strategia, peraltro, molto difficilmente muterà le sorti dello scontro armato. Dopo il fallimento dell’offensiva di quest’estate, Kiev vede crollare le possibilità di riconquistare i territori perduti e si avvia verso una lunga guerra difensiva, che continuerà a prosciugare le sue risorse.

Gli attacchi in profondità in Crimea e in territorio russo, a prescindere dal rischio di escalation che comportano, non altereranno in maniera significativa l’andamento di un conflitto che sta volgendo al peggio per l’Ucraina.

La guerra a oltranza che Washington vuole sostenere nel paese porterà nuove tragedie e un fardello sempre più insostenibile per Kiev, ulteriori rischi di estensione del conflitto, e un progressivo deterioramento del clima internazionale, senza tirar fuori gli USA dal vicolo cieco strategico in cui si sono cacciati.

IL NUOVO PIVOT TO INDIA, di Pierluigi Fagan

IL NUOVO PIVOT TO INDIA. Al G20 appena tenutosi a Delhi, si è manifestato il sempre più nuovo assetto del mondo multipolare. Il protagonista assoluto è stato il padrone di casa Modi a capo del più popoloso paese del mondo, per ora quinta ma presto quarta economia del mondo in Pil assoluto.
La prima sorpresa è arrivata qualche giorno fa con l’invito spedito ai 19 altri leader a nome del Presidente della Repubblica di Bharat. Magari qualcuno si sarà domandato che affare fosse questo Bharat. Si tratta del vecchio termine sanscrito per più o meno quella che conosciamo tutti come India.
L’anno prossimo l’India va ad elezioni e, come qui segnalato, Modi si troverà contro una coalizione di ben 26 partiti con a capo l’ennesimo Gandhi, la coalizione si chiama Indian National Developmental Inclusive Alliance cioè I.N.D.I.A. Così, il furbo ultranazionalista, sta buttando lì il nuovo nome che fa nazione, tradizione e radici, dicendo che India è il nome coloniale che la nuova potenza rigetta. Bel colpo! Non è detto che il cambio di nome diventi definitivo, ma la mossa c’è ed è brillante e tradisce tutta la nuova ambizione del subcontinente.
A seguire, la rinuncia di Xi di recarsi al vertice che ovviamente segna anche l’assenza di Putin. Nel caso di Xi, motivi ignoti, speculazioni varie.
Si arriva così al vertice di sabato con non poche divergenze e tensioni dovute al fatto che l’India, come ha fatto per il vertice BRICS, non vuol sentir parlare di geopolitica ma solo di affari, sviluppo, cooperazione, clima e quant’altro dell’agenda mondo in senso multilaterale. Americani ed occidentali, invece, pretendevano l’esplicita condanna della Russia per la guerra in Ucraina. La stessa cosa s’era verificata al G20 di Bali in Indonesia e s’era rischiato, per la prima volta dalla nascita del formato nel 1999, di arrivare ad un passo dal chiudere il vertice senza dichiarazione congiunta, eventualità minacciata anche questa volta.
Nel frattempo, secondo impegno preso già alla riunione BRICS in allargamento, Modi ha invocato la cooptazione dell’Unione Africana nel formato, la seconda unione dopo l’UE, probabilmente non l’ultima. Adesione per acclamazione, il formato diventa G21, entusiasmo del presidente sudafricano lì già come G20 che aveva perorato la causa per l’intero continente, Modi s’è fatto un nuovo amico e sviluppa la sua strategia di diventare il paese leader del Global South.
Ma al vertice, Biden era arrivato anche con un bel pezzo di formaggio per il topo. Si tratta di una nuova linea intermodale che dovrebbe collegare via nave Mumbai con gli Emirati, qui si passa a ferrovia che poi va in Arabia Saudita, Giordania ed arriva in Israele ad Haifa pronti per risalire in nave e giungere ad Atene/Europa. Sette giorni risparmiati rispetto alla rotta marina, nonché i rischi di futuri problemi a Suez evitati per sempre. La cosa in realtà era nota da tempo, poiché s’è formato un nuovo format I2U2 (ovvero India e Israele e UAE ed USA) che già da un anno studiava il piano di una nuova amicizia euro-indo-abramitica. Nel progetto c’è anche l’UE e comprende energia, tlc, idrogeno, tecno-cooperazione varia. Colpo contro il monopolio strategico infrastrutturale della Via della Seta, normalizzazione americana delle relazioni con i sauditi dopo il grande freddo che aveva generato il grande caldo con i cinesi e gli iraniani (sauditi a cui si prometterà anche l’ok per lo sviluppo del nucleare civile), piattino da portare a Tel Aviv in cambio di altrettanta normalizzazione dei rapporti con i palestinesi, carta questa da giocarsi eventualmente l’anno prossimo per le elezioni americane.
Lo scaltro Modi deve aver chiuso Biden nello stanzino dicendogli: “amico, delle due l’una, o la pianti con sta lagna dei russi in Ucraina ed io ti firmo l’adesione al “chemin de fer” o se insisti chiudiamo senza accordi, senza dichiarazione, fai fallire il vertice a casa mia ed io lo segno nel quaderno -gravi sgarbi da vendicare-“. Poiché l’India o il Bharat, andrà avanti fino a che non ha ottenuto il seggio al Consiglio di Sicurezza e sta diventando perno di equilibrio del nuovo gioco multipolare, meglio prendere che lasciare.
Ne esce così la dichiarazione finale già sabato, accenno anche più vago di quello di Bali alla guerra in Ucraina, condannata, esecrata, citata per i gravi contraccolpi alle reti economiche planetarie, senza citare i russi (per altro Modi aveva rimbalzato la solita richiesta americana di ospitare capitan Ucraina già a monte), dichiarazione approvata all’unanimità, Mosca contenta, Kiev no. Dopo il papa filorusso ed i BRICS, ora a Kiev schifano pure il G20, chissà magari qualcuno dovrebbe realisticamente trarne delle conseguenze…
Ma a lato, anche accordo indo-abramitico con MBS e soci fatto. A Pechino, ovviamente, non l’hanno presa bene, dopo tutta la fatica fatta per pacificare la regione! Ci manda solo il nucleare civile a Riyad sì e Teheran no. Nonché il doppio-triplo gioco anche già all’interno dei BRICS appena allargati.
Occorre però sempre considerare che tra i dire ed i fare c’è sempre mare, magari ondulato. US che notoriamente quanto ad infrastrutture di questo tipo stanno a settanta anni fa, ci mette il peso geopolitico e forse spremerà un po’ di Banca mondiale. L’UE non ha un euro e comincerà con la solfa del contributo attivo delle imprese (soprattutto francesi, italiane, tedesche) perché non avendo stato c’è solo il privato. Sauditi ed emiratini dovrebbero esser effettivamente sia interessati che capienti. Gli indiani, capienti proprio no. A parte che sono impegnati in analogo progetto via Iran per arrivare in Russia e secondo me, presto, li vedremo oltreché sulla Luna in Africa orientale, l’India rimane il 144° paese per Pil pro-capite, tra Ghana e Pakistan. Ha una lista di investimenti interni necessari che va via di pagine e pagine.
In più, nel progetto c’è un doppio bug. Primo, se il progetto è condizionato a trovare la quadra coi palestinesi mi sa che il binario diventerà del tipo binario 9 e 3/4 del Hogwarts Express di Harry Potter. Ma c’è anche un problema già sollevato alla prima riunione dei I2U2 ovvero l’Egitto. Sauditi ed emiratini, specie se poi c’è Israele di mezzo, non faranno nulla se non c’è anche Il Cairo, questioni di equilibrio islamico inaggirabili. E l’Egitto sta nei nuovi BRICS su esplicito invito russo.
Tuttavia, nel nuovo mondo multipolare, anche il dire con poi un difficile fare, ha comunque un suo valore. Bisogna vedere difficile quanto, tutto entra in tavoli molto grandi in cui ci sono accordi bilaterali, multilaterali, nomine nelle grandi istituzioni globali, collaborazioni militari, tecnologiche, investimenti, stazioni spaziali, insomma partite lunghe e complicate. Il segnale a Pechino comunque è partito, chiaro e forte. Sebbene certo che a Pechino la cosa era diplomaticamente nota in anticipo e magari è proprio per evitare di guardare i cinque nuovi amici sorridenti alla foto opportunity, che Xi ha preferito rosicare a casa.
Comunque, il G21 con il suo 85% di Pil ed il 75% di global trade, si candida ad essere l’istituzione che media tra G7, BRICS e tutti gli altri principali nuovi attori. La prossima presidenza sarà brasiliana. Biden ora vola in Vietnam mentre il cinese Li Qiang, prima di Delhi ha fatto scalo a Jakarta (Indonesia) con cui i cinesi tessono tele molto fitte. Modi può sorridere.
Quanto all’India, c’è da dire che da una parte la posizione di perno mediano può esser molto fruttuosa, dall’altra espone molto e richiede doti strategico-diplomatiche molto fini. In patria, Modi ha fatto coalizzare dai dravidici ai musulmani ai marxisti leninisti, è un Paese pieno di contraddizioni. Modi deve allargare il raggio d’azione indiano per garantirsi anni di crescita sostenuta, altrimenti le contraddizioni interne potrebbero prendere il sopravvento.
Quanto al G20, pare che Modi abbia fatto esplicito fronte con Brasile, Sud Africa, Indonesia ed altri per ricondurre USA-UE a stare nel gioco degli equilibri planetari. Ad USA-UE si presenta, in prospettiva, un dilemma. Se pretenderanno troppo non otterranno nulla, se non staranno ben equilibrati nel G20, gli altri si butteranno nei BRICS. Ma la di là dei giochi societari e dei pesi di potenza, lo stato del mondo è chiaro, la stragrande maggioranza del mondo ha bisogno di pace, commercio ed investimenti, ha bisogno di crescita e sviluppo in modo necessario. Chi perturba troppo ed unilateralmente questa convenzione dell’interesse ultra-maggioritario, si mette contro quattro quinti del pianeta, decisamente un cattivo affare.
In effetti, com’è nella logica dei sistemi multipolari, sarebbe l’era del grande ritorno della diplomazia (vecchio pallino dell’acuto Kissinger) e della tessitura di intricate reti di accordi, legami, trame, idea che per altro piacerebbe molto anche agli europei. Si può competere, ma è meglio non confliggere.
Tuttavia, sull’intero ordine planetario incombe il problema da una parte degli indici asimmetrici di crescita (relativamente facile per i paesi in via di sviluppo, sempre più difficile per i paesi ipersviluppati) ad un certo punto le chiacchiere vanno a zero e contano i soldi che girano o meno (ultimamente ne girano meno), dall’altra il problema del travaso dei pesi di potenza conseguente, sul terzo lato i limiti eco-ambientali della casa comune.
Trovare soluzioni alla difficile quadra (che poi è un triangolo) ci darà un mondo nuovo che però cambierà molto le nostre vite occidentali, non trovarla potrebbe portare a più severe conseguenze. Vedremo nei prossimi anni e forse decenni.
[Su varia stampa occidentale, il vertice è stato commentato più per le ombre che per le luci. Chissà, forse avranno bisogno di un po’ di tempo per capire meglio dove va il grande gioco del mondo. Da quando hanno dismesso la funzione di pensiero autonomo per diventare l’Ufficio Stampa e Propaganda di Washington, la lucidità latita]
Qui sotto il file con il testo della dichiarazione tradotto in italiano

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L’espansione dei BRICS e la battaglia per il nuovo ordine mondiale, di ROBERTO IANNUZZI

L’espansione dei BRICS e la battaglia per il nuovo ordine mondiale

L’ascesa dei BRICS, confermata dal recente vertice di Johannesburg, è impressionante, ma il nascente mondo multipolare sarà all’insegna dell’incertezza.

8 SET 2023
Il logo dei BRICS (Wikimedia CommonsCC BY-SA 4.0)

Il vertice dei BRICS, recentemente tenutosi a Johannesburg in Sudafrica, ha attirato grande interesse a livello globale, ed in particolare in Occidente, nel teso contesto internazionale che ha visto il cosiddetto “Sud del mondo” in gran parte dissociarsi dai paesi occidentali sul conflitto tra Russia e Ucraina, e la competizione economica fra USA e Cina inasprirsi fino a divenire un’aperta contrapposizione geopolitica.

Sullo sfondo della crisi del sistema internazionale che si protrae almeno dal tracollo finanziario americano del 2008, molti paesi del “Sud del mondo” (una definizione imperfetta che racchiude gli stati non appartenenti al blocco occidentale) ritengono urgente una riforma dell’ordine globale a guida USA, considerato un residuo della Guerra Fredda discriminatorio e non rappresentativo dell’attuale realtà mondiale.

Alla luce di queste tensioni, l’Occidente ha cominciato a guardare ai BRICS (in realtà un’organizzazione abbastanza informale, che riunisce Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) attraverso la lente della competizione con Cina e Russia.

Al vertice di Johannesburg, la presidenza dei BRICS ha annunciato l’imminente ingresso di ben sei nuovi membri nell’organizzazione: Arabia Saudita, Argentina, Egitto, Emirati Arabi Uniti (EAU), Etiopia e Iran. Essi aderiranno ufficialmente al gruppo il 1° gennaio del 2024.

Soprattutto in Occidente, molti hanno visto l’annuncio come una mossa finalizzata a permettere ai BRICS di competere con raggruppamenti occidentali come il G7 o con istituzioni finanziarie internazionali (dominate dall’Occidente) come la Banca Mondiale.

L’espansione dei BRICS ha un notevole valore simbolico. Per i sostenitori del gruppo, il suo rafforzamento potrà dare una spinta al tentativo di riformare l’ordine mondiale, contribuendo a definire i contenuti del nuovo sistema e avanzando la causa del multilateralismo.

Uno schieramento dei BRICS più forte – si augurano i suoi sostenitori – favorirà la nascita di una nuova architettura finanziaria globale, dedollarizando l’economia internazionale e spuntando l’arma occidentale delle sanzioni.

Potenziale ostacolo al raggiungimento di tali obiettivi è la natura eterogenea del raggruppamento, ulteriormente accentuata dalla recente espansione, e le posizioni divergenti dei suoi membri su svariate questioni, prima fra tutte il rapporto con l’Occidente.

Una formidabile potenza economica

I BRICS hanno già sorpassato le economie “avanzate” del G7 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, e Stati Uniti) in termini di contributo al PIL mondiale. Essi determinano circa un terzo dell’attività economica globale (a parità di potere d’acquisto), mentre l’apporto del G7, in continuo calo dagli anni ’70 del secolo scorso, è oggi sceso al 30%. I due raggruppamenti seguono dunque traiettorie economiche divergenti.

Andamento del PIL dei BRICS e del G7 a confronto (Screenshot, Visual Capitalist)

Con i nuovi membri, il partenariato dei BRICS (che ora alcuni indicano con l’acronimo BRICS+) arriverà a comprendere il 47,3% della popolazione mondiale, contro il mero 10% rappresentato dal G7.

I BRICS+ costituiscono anche un formidabile raggruppamento energetico. Iran, Arabia Saudita ed EAU (membri dell’OPEC), insieme alla Russia (un membro chiave dell’OPEC+), producono 26,3 milioni di barili al giorno, quasi il 30% della produzione mondiale.

Oltre ad includere alcuni fra i maggiori esportatori di petrolio e gas, i BRICS+ comprendono anche due dei maggiori importatori, Cina e India. Produttori e consumatori presenti in questo gruppo hanno un interesse condiviso a creare meccanismi per scambiare le materie prime al di fuori della portata del settore finanziario del G7 e dei suoi sistemi sanzionatori.

Sia Cina che India ed Arabia Saudita si sono opposte all’imposizione di un tetto al prezzo del petrolio, avanzata dai paesi occidentali per colpire la Russia.

Con l’ingresso dei nuovi membri, il BRICS allargato avrà inoltre il controllo sul 72% delle terre rare a livello mondiale (includendo tre dei cinque paesi con le maggiori riserve), sul 75% del manganese, sul 50% della grafite, e sul 28% del nickel – ovvero su molti dei minerali essenziali per la transizione energetica e la cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”.

Questo schieramento esteso di paesi potrà investire in progetti e luoghi finora trascurati o esclusi dall’Occidente, come ad esempio l’Iran che possiede quantità significative di minerali strategici, fra cui le maggiori riserve mondiali di zinco e il secondo maggior giacimento di rame.

Nuovi membri, aspiranti candidati, e criteri di adesione

Oltre quaranta paesi hanno manifestato interesse ad aderire ai BRICS, di cui ventitré hanno fatto esplicita richiesta di adesione prima del vertice di Johannesburg (fra essi anche sette delle tredici nazioni che compongono l’OPEC). Rimangono in lista d’attesa paesi come Algeria, Indonesia, Kazakistan, Messico, Nigeria, Turchia ed altri.

BRICS, membri e aspiranti candidati. Blu: stati membri; Azzurro: nuovi membri; Arancione: candidati; Giallo: manifestazione di interesse ( By MathSquare – Author: Dmitry Averin (Дмитрий-5-Аверин), CC BY-SA 3.0)

Data la natura alquanto informale del raggruppamento dei BRICS, non vi erano specifici criteri di adesione. E’ stato perciò necessario stabilire dei parametri e delle procedure. Ma essenzialmente i sei nuovi membri sono stati selezionati attraverso negoziati diretti e decisioni ad hoc, in particolare cercando di conciliare l’approccio più entusiastico della Cina con quello più cauto di India e Brasile.

A giudicare dalle testimonianze, la discussione è stata lunga e tutt’altro che facile.

L’adesione di diversi paesi mediorientali testimonia non soltanto l’interesse del gruppo nei confronti di una regione strategica per le risorse energetiche e le rotte commerciali. E’ anche un’ulteriore conferma dell’intenzione della Cina di rafforzare il suo ruolo regionale dopo che la sua mediazione diplomatica ha favorito il riavvicinamento fra Arabia Saudita e Iran.

Anche grazie a questo riavvicinamento è stata possibile l’inclusione di Teheran, che altrimenti sarebbe forse risultata troppo controversa.

Il peso economico di Arabia Saudita ed EAU potrà essere utile per sostenere la New Development Bank (NDB), istituto fondato dai BRICS per finanziare progetti infrastrutturali e di sviluppo nei paesi membri.

Con la Cina in ascesa e l’Occidente in declino, paesi come Arabia Saudita, EAU ed Egitto, che tuttora subordinano la loro sicurezza ad accordi militari con Washington, hanno puntato a diversificare le proprie scelte di politica estera ed economica entrando nei BRICS.

Integrazione energetica e commerciale

Dal canto loro, i BRICS mirano non solo ad assicurarsi le fonti energetiche, ma anche a controllare le rotte che ne consentono la fruizione. La Belt and Road Initiative cinese (la cosiddetta “nuova via della seta”) ha già creato una rete di snodi energetici e commerciali che collegano il “Sud globale” sfruttando in particolare i porti degli EAU.

L’adesione dell’Egitto non solo introduce nel gruppo la seconda economia dell’Africa e un importante membro dell’Unione Africana, ma anche il paese che controlla lo strategico Canale di Suez.

L’inclusione di Teheran è rilevante soprattutto per la Russia, integrando nelle reti commerciali dei BRICS l’International North–South Transport Corridor (INSTC), corridoio logistico che consente a Mosca di esportare i propri beni verso l’Asia e l’Africa attraverso l’Iran, bypassando il Baltico, il Mar Nero e il Canale di Suez.

L’INSTC (in rosso) e la rotta tradizionale attraverso il Canale di Suez (in blu) (Public Domain)

L’interconnettività e lo sviluppo infrastrutturale dei BRICS costituiranno i temi chiave della presidenza russa del gruppo nel 2024. Il presidente russo Putin intende creare una commissione dei BRICS per i trasporti finalizzata alla creazione di arterie di transito a livello dell’Eurasia e globale.

Altro obiettivo della presidenza russa sarà quello di creare un’Agenzia energetica del gruppo finalizzata ad una maggiore cooperazione dei paesi membri nella definizione degli obiettivi di produzione e dei prezzi energetici.

Le sfide dell’allargamento

Dal canto suo, l’Iran vede l’adesione ai BRICS come un modo per attenuare il peso delle sanzioni occidentali che hanno soffocato la sua economia. La prospettiva che gli scambi commerciali all’interno del gruppo vengano condotti nelle valute nazionali, e quella (più lontana) di una “valuta dei BRICS”, promettono importanti vantaggi a Teheran sotto questo profilo.

L’adesione dell’Etiopia consente ai BRICS di integrare nel gruppo un altro importante paese africano assieme all’Egitto. L’Etiopia è il secondo stato più popoloso dell’Africa ed una delle economie emergenti del continente. Essa occupa una posizione strategica nel Corno d’Africa ed ospita la sede dell’Unione Africana.

Infine vi è l’Argentina, che è stata accolta in quanto importante rappresentante dell’America Latina (e unico nuovo membro dell’emisfero occidentale). L’ingresso di questo paese rappresenta però anche una sfida per i BRICS a causa del suo dissesto economico e della sua valuta in caduta libera.

L’Argentina è la nazione più indebitata con il Fondo Monetario Internazionale (FMI). Inoltre, se il candidato di estrema destra Javier Milei dovesse vincere le elezioni presidenziali di ottobre, ha già promesso di spezzare i legami con la Cina e di riorientare l’Argentina verso l’Occidente – cosa che potrebbe implicare una rinuncia all’adesione ai BRICS.

Potenziali problemi per i BRICS potrebbero emergere anche dall’ingresso di Egitto ed Etiopia. Il primo attraversa una grave crisi economica. Dopo lo scoppio del conflitto ucraino, la valuta egiziana ha perso più del 50% del suo valore mentre l’inflazione ha raggiunto il 36% lo scorso giugno.

L’Etiopia, dal canto suo, deve riprendersi da due anni di devastante guerra civile che ha coinvolto soprattutto la regione settentrionale del Tigray.

E’ importante ricordare anche che esistono annose tensioni fra alcuni dei nuovi membri che i BRICS si apprestano ad accogliere. Abbiamo già ricordato il caso di Iran e Arabia Saudita, che hanno solo da poco riallacciato i rapporti diplomatici grazie alla mediazione cinese. Vi è poi il teso rapporto fra Egitto ed Etiopia a causa della Grand Ethiopian Renaissance Dam, la gigantesca diga sul Nilo Blu che secondo il Cairo rischia di minacciare la sicurezza idrica egiziana.

Sarà interessante vedere se i BRICS rappresenteranno un forum in grado di contenere ed eventualmente risolvere queste tensioni.

Un raggruppamento molto eterogeneo

Complessivamente, tuttavia, tra democrazie vere o presunte (Argentina ed Etiopia), una repubblica autocratica (Egitto), due monarchie (Arabia Saudita ed EAU), ed una teocrazia (Iran), il diversificato schieramento di paesi che si appresta ad entrare nei BRICS è destinato a rendere il gruppo ancor più eterogeneo.

Come ha confermato lo stesso presidente brasiliano Lula da Silva, il criterio di scelta principale nel selezionare i nuovi membri non è stata la loro forma di governo ma il loro rispettivo peso geopolitico.

Quando nel 2009, su iniziativa russa, si tenne a Yekaterinburg il primo vertice dei BRIC (allora ancora privi del Sudafrica, che avrebbe aderito l’anno successivo), vi era un criterio, sebbene non scritto, ad unire i quattro membri del nuovo raggruppamento: quello della piena sovranità, ovvero della capacità di perseguire una politica estera ed economica indipendente.

Il variegato insieme di paesi che sono stati scelti come nuovi membri non risponde pienamente a questo criterio. Da ciò segue – osserva il noto analista russo Fyodor Lukyanov – che i leader dei BRICS, approvando questo allargamento, hanno preferito il principio di diversificazione a quello del consolidamento dell’organizzazione.

Se già in precedenza i BRICS erano un raggruppamento che mancava di un definito meccanismo istituzionale, con la sua espansione a undici membri che hanno visioni spesso divergenti, la creazione di un simile meccanismo appare ancor più lontana.

In realtà, fin dall’inizio i BRICS erano un insieme di paesi con visioni differenti, in particolare riguardo agli Stati Uniti. In contrasto con Russia e Cina, che cercano di riformulare l’ordine globale a guida USA, India e Brasile hanno adottato posizioni più neutrali, e talvolta, soprattutto nel caso indiano, di cooperazione con Washington.

Per l’India, la vicina Cina non è soltanto un competitore economico ma anche un paese con cui i rapporti sono guastati da serie dispute territoriali. Nuova Delhi è invece un partner di Washington all’interno del   Quadrilateral Security Dialogue (Quad), raggruppamento nell’Indopacifico che include anche Giappone ed Australia, a cui gli USA hanno cercato di dare nuovo impulso a seguito della loro crescente rivalità con Pechino.

Né con l’Occidente né contro di esso

Come abbiamo visto, sono molteplici anche le motivazioni che hanno indotto i nuovi membri ad aderire ai BRICS. Un paese come l’Iran è spinto dalla speranza che il suo ingresso nel raggruppamento contribuisca ad alleviare il fardello delle sanzioni (un problema peraltro condiviso anche dalla Russia, e in misura minore dalla Cina) ed a contenere l’egemonia occidentale.

Produttori energetici come l’Arabia Saudita e gli EAU, dotati di ingenti risorse finanziarie, sono motivati dal desiderio di allargare la platea dei propri partner e di diversificare i propri investimenti, ma non hanno interesse a trasformare i BRICS in uno schieramento antioccidentale.

I leader di questi paesi hanno messo in chiaro che non intendono “scegliere” fra Oriente e Occidente, ma fare affari con tutti.

Infine, paesi come Argentina, Egitto ed Etiopia si augurano che l’ingresso nei BRICS possa alleviare le loro difficoltà economiche, anche attraverso la possibilità di accedere ai finanziamenti della NDB, la quale non applica condizionalità come invece fanno la Banca Mondiale e l’FMI. Ma neanche loro sono marcatamente ostili all’Occidente.

Dunque i BRICS+ difficilmente avranno un orientamento spiccatamente antioccidentale, ma piuttosto saranno un insieme di paesi intenzionati a scegliere i propri partner a seconda delle proprie esigenze politiche ed economiche del momento.

Tuttavia, benché il raggruppamento dei BRICS non costituirà mai un’alleanza politica, un forum di paesi determinati ad estendere uno spazio di azione indipendente all’interno dell’attuale sistema internazionale è di per sé in grado di favorire dei cambiamenti importanti – sostiene Lukyanov.

Anche per paesi in aperto conflitto con l’Occidente, come Russia e Iran, il mero ampliamento di uno spazio indipendente nel panorama internazionale, composto da paesi che interagiscono fra loro al di fuori del sistema occidentale di incentivi e sanzioni, è una prospettiva augurabile e in armonia con i loro interessi.

Riformare le istituzioni internazionali, non smantellarle

Conseguentemente, i BRICS non hanno fra i loro principali obiettivi quello di smantellare le istituzioni dell’attuale ordine internazionale, come il WTO, la Banca Mondiale e l’FMI.

Anche nella dichiarazione conclusiva del vertice di Johannesburg, i paesi membri hanno ribadito il loro appoggio ad un sistema commerciale multilaterale ed inclusivo che sia “incentrato sul WTO”.

La dichiarazione ha anche espresso l’approvazione dei paesi membri per una rete di sicurezza finanziaria globale che abbia al proprio centro “un FMI adeguatamente finanziato e basato su quote”.

L’agenda dei BRICS segue dunque due binari paralleli.

Il primo consiste nel cercare di acquisire maggiore influenza e capacità di controllo sulle istituzioni internazionali finora dominate dall’Occidente (ad esempio attraverso la riforma delle quote dell’FMI, e la riorganizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU).

Il secondo sta nel rafforzare proprie istituzioni parallele, come la NDB, alle quali ricorrere laddove le istituzioni consolidate dell’ordine globale non rispondano alle loro aspirazioni e ai loro interessi.

Da ciò si deduce che i BRICS, i quali ovviamente non rappresentano un’alternativa al sistema capitalistico, non incarnano neanche una sfida frontale all’egemonia americana ed occidentale, ma più modestamente il tentativo di ridurre le disparità e gli squilibri dell’attuale ordine.

Dedollarizzazione sì o no?

E’ in questo contesto che si inserisce il dibattito sull’impulso alla dedollarizzazione del sistema finanziario internazionale che i BRICS potrebbero imprimere.

Paesi direttamente sottoposti alle sanzioni americane, come Russia e Iran, certamente sono i primi a voler porre fine alla dipendenza dal dollaro.

Il desiderio di emanciparsi dalla valuta statunitense, e dal fardello che l’indebitamento in dollari comporta (basti pensare all’effetto disastroso che ogni rialzo dei tassi di interesse deciso dalla Federal Reserve americana ha sulle economie dei paesi emergenti), è però generalmente diffuso fra vecchi e nuovi membri del gruppo.

Malgrado ciò, la prospettiva di una valuta di riserva comune dei BRICS non sembra al momento imminente.

Perfino se i membri del raggruppamento fossero geopoliticamente allineati, l’adozione di una valuta comune presenterebbe una serie di problemi, già messi in evidenza dalla natura zoppicante dell’euro: l’esigenza di una convergenza macroeconomica, la scelta di un meccanismo di cambio, la creazione di un sistema di pagamenti e di compensazione multilaterale che sia efficiente, la necessità di disporre di mercati finanziari caratterizzati da liquidità e stabilità.

Una possibile alternativa sarebbe quella di adottare il renminbi cinese come valuta comune dei BRICS. Ma la valuta di Pechino non è sufficientemente convertibile, e non dispone di un mercato finanziario abbastanza liquido. La Cina adotta ancora un regime di controllo dei capitali, a cui non sembra intenzionata a rinunciare. E paesi come l’India non accetterebbero il renminbi come valuta comune per paura di concedere a Pechino un ruolo troppo dominante.

E’ per questa ragione che il vertice di Johannesburg non si è concentrato su una potenziale valuta dei BRICS, ma sulla decisione di promuovere l’impiego delle valute nazionali nelle transazioni transfrontaliere – un fenomeno già in atto da tempo.

Sebbene Cina e India abbiano interessi di sicurezza divergenti, entrambe traggono beneficio da un aumentato ricorso alle valute locali. L’Arabia Saudita, dal canto suo, sta esaminando la possibilità di ricorrere al renminbi per regolare le transazioni petrolifere con Pechino. Nuova Delhi sta invitando molti paesi a intrattenere transazioni commerciali in rupie. Il mese scorso, l’India ha effettuato il suo primo pagamento petrolifero in rupie agli EAU.

Tuttavia, per due paesi ha senso commerciare nelle rispettive valute nazionali (non pienamente convertibili) solo se il saldo commerciale fra essi è più o meno in equilibrio.

A titolo di esempio, la Russia ha recentemente venduto ingenti quantità di petrolio all’India, la quale ha pagato Mosca in rupie. Ma siccome Nuova Delhi esporta in Russia molto meno di quanto importi da essa, Mosca si trova con una grossa somma di rupie che non sa come spendere o convertire, potendo utilizzarle solo per acquistare prodotti dell’India.

A questo problema potrebbe ovviare solo l’introduzione di una valuta comune per l’intero raggruppamento dei BRICS.

Il lento declino del dollaro

Sebbene i volumi commerciali fra i paesi BRICS non siano al momento sufficienti a sostenere una simile soluzione, le cose potrebbero cambiare con un ulteriore allargamento del raggruppamento ad altri paesi.

In tale contesto, si potrebbe passare da sistemi di compensazione bilaterali (che hanno i limiti appena esposti) ad un sistema di compensazione multilaterale, ed infine ad una valuta comune.

In un simile scenario, alcuni ipotizzano la creazione di una valuta condivisa che verrebbe utilizzata solo nelle transazioni fra gli stati membri, mentre i cittadini dei singoli paesi continuerebbero ad impiegare le proprie valute nazionali.

Un ulteriore allargamento dei BRICS tuttavia presenta sfide di altra natura, legate agli interessi eccessivamente divergenti che un numero troppo esteso di paesi potrebbe determinare, mettendo a rischio la coesione del gruppo.

Per queste ragioni, il dollaro è destinato a rimanere ancora per diversi anni la valuta dominante a livello internazionale.

Il biglietto verde comincerà a perdere sensibilmente potere nel momento in cui i prezzi di gas e petrolio non saranno più fissati in dollari. Ed è questa probabilmente una delle principali considerazioni che hanno spinto i membri fondatori ad includere nei BRICS l’Arabia Saudita, l’Iran e gli EAU. Tuttavia, Riyadh e Abu Dhabi hanno ancora un legame abbastanza stretto con Washington.

Dunque sul medio periodo, piuttosto che una singola alternativa al dollaro, emergeranno probabilmente blocchi regionali di valute, mutevoli e porosi, fondati su scambi commerciali bilaterali e multilaterali, accompagnati da una lenta perdita di influenza da parte del biglietto verde.

Un caotico mondo multipolare

Il nascente mondo multipolare sarà quindi, ancora per anni, segnato dal disordine e dall’incertezza. Esso sarà caratterizzato da alleanze variabili e da paesi – le cosiddette “medie potenze” – che cercheranno di giostrarsi fra tali alleanze senza aderirvi pienamente, mantenendo una posizione “non-allineata”.

Si è parlato a tale proposito di swing states (paesi “oscillanti fra i vari schieramenti) e di mondo à la carte.

Raggruppamenti come i BRICS e il G20 (più vicino agli USA) competeranno fra loro per assicurarsi la lealtà dei paesi in via di sviluppo.

Per diverso tempo i paesi emergenti continueranno ancora a dipendere dal loro debito denominato in dollari, e persino istituzioni finanziarie dei BRICS come la NDB (finché saranno legate all’impiego della valuta americana) resteranno potenzialmente esposte alle sanzioni secondarie di Washington.

Mentre la Cina rimarrà al centro delle catene di fornitura, e dunque del sistema produttivo mondiale, gli USA, più deboli dal punto di vista industriale, resteranno però almeno per qualche tempo al centro di forti alleanze geopolitiche nell’Atlantico e nel Pacifico.

La debolezza del sistema americano sta però nel fatto che, per molti alleati degli USA, sarà virtualmente impossibile sganciarsi dalle catene di fornitura e dai nodi di produzione legati alla Cina, se non vorranno andare incontro ad un repentino declino industriale e tecnologico.

In assenza di alternative industriali e di sviluppo, un’eccessiva fedeltà agli USA impedirà agli alleati di Washington di accedere alle reti produttive più avanzate e ai prodotti più competitivi, ed allo stesso tempo a rinunciare ad importanti mercati di esportazione.

La divergenza fra interessi economici e fedeltà politiche creerà tensioni e fratture che caratterizzeranno la transizione verso il nuovo ordine multipolare, e che sono destinate ad accrescere il rischio geopolitico e la possibilità di conflitti.

https://robertoiannuzzi.substack.com/p/lespansione-dei-brics-e-la-battaglia?utm_source=post-email-title&publication_id=727180&post_id=136847064&isFreemail=true&r=9fiuo&utm_medium=email

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Global India, di Alexei Kupriyanov

Per vincere la guerra delle economie, dove il nemico ha tutte le carte vincenti – da una solida quota del commercio mondiale alla stampa della valuta di riserva mondiale – abbiamo bisogno, come ci insegna la teoria militare, di una strategia asimmetrica. È inutile cercare di sfondare il muro delle sanzioni: bisogna imparare ad aggirarlo interagendo con le strutture dell’economia sommersa, scrive Alexei Kupriyanov.

Poco più di 75 anni fa, Jawaharlal Nehru, appena uscito di prigione, ha presentato per la pubblicazione La scoperta dell’India, la sua quarta grande opera scritta in carcere. Questa opera segnava la fine di quello che si potrebbe definire il suo “ciclo carcerario”, che comprendeva Lettere di un padre a sua figlia, Sguardi sulla storia del mondo e Autobiografia. In questi libri, il futuro Primo Ministro indiano delineò un concetto coerente che sarebbe servito come base di tutta la futura politica estera indiana. Egli sosteneva che, prima della conquista coloniale, l’India era una delle superpotenze mondiali, ma che poi, a causa di disaccordi interni e della mancata comprensione da parte dei suoi governanti dell’importanza dell’unità nella lotta contro una minaccia esterna, era caduta vittima dei conquistatori britannici. Dopo aver ottenuto l’indipendenza, l’obiettivo principale dell’India sarebbe stato quello di riconquistare lo status perduto di grande potenza e di porsi alla pari con gli altri grandi attori.

Oggi, nel 2023, l’India è più vicina che mai a raggiungere questo status. L’anno scorso ha superato la sua ex metropoli, la Gran Bretagna, in termini di PIL, diventando la quinta economia mondiale; quest’anno ha superato la Cina in termini di popolazione. Tutti gli altri segni dello status globale sono presenti (ad eccezione dell’esplorazione spaziale con equipaggio e di un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite): un programma artico e antartico, il possesso di armi nucleari, un programma spaziale di successo e interessi in tutto il mondo. Per molti versi, l’India deve questo successo all’intuizione strategica delle sue élite e alla loro capacità di negoziare tra loro: chiunque sia al timone, continua a seguire la rotta tracciata da Nehru, correggendola solo leggermente a seconda dell’evoluzione della situazione mondiale. Grazie a questo approccio, l’India è riuscita a manovrare in tempo all’inizio degli anni ’90, quando il suo principale partner strategico, l’URSS, è scomparso dalla mappa del mondo.

Invece di entrare in crisi dopo la caduta dell’Unione Sovietica o di subire tutta la serie di umiliazioni che di solito seguono la sconfitta in una guerra, Nuova Delhi, grazie a una serie di abili manovre, è riuscita a inserirsi nel nuovo ordine mondiale e a trovare una nicchia per la sua economia. Il crescente bisogno di specialisti IT di vari profili ha permesso agli indiani di avviare un’espansione su larga scala nel mercato globale dei servizi, di trarre vantaggio dalla globalizzazione e di garantire tassi di crescita dell’economia fino al 9,6% all’anno. Ora il tasso è leggermente diminuito, ma tale crescita rimane una frontiera irraggiungibile per molti Paesi, tra cui la Russia.

India globale: due dimensioni

Le ambizioni globali dell’India hanno due dimensioni: quella politica e quella economica, che si differenziano sia per i meccanismi di attuazione della presenza indiana sia per le sue dimensioni.

Le élite politiche indiane pensano al mondo in termini di cerchi concentrici: il vicinato immediato, il vicinato allargato e il resto del mondo. Il primo comprende i Paesi dell’Asia meridionale (Nepal, Bhutan, Bangladesh, Myanmar, Sri Lanka, Maldive) e la regione dell’Oceano Indiano (Seychelles, Mauritius), la cui situazione e le cui relazioni sono critiche per la sicurezza dell’India. Nuova Delhi cerca di includerli nella sua orbita politica e militare e, in caso di conflitto, in un modo o nell’altro cerca di ripristinare lo status quo che le conviene. Così, nel 1988, le forze speciali indiane hanno liquidato un colpo di Stato nelle Maldive, un anno prima l’India è intervenuta in un conflitto nello Sri Lanka e alla fine degli anni ’90 ha sostenuto i separatisti in Myanmar. Il secondo cerchio comprende i Paesi dell’Africa orientale, del Medio Oriente e dell’Asia centrale e sudorientale, dove le grandi e medie imprese indiane sono più attive. Lì l’India protegge principalmente i propri interessi economici. Infine, nella terza area, Nuova Delhi cerca di plasmare l’immagine dell’India come una grande potenza responsabile che pretende di essere all’altezza dei pesi massimi del mondo nel decidere il destino del pianeta.

Questo schema concentrico poggia su un substrato storico che è stato accuratamente preparato da storici ed esperti indiani. Come qualsiasi altra politica del Vecchio Mondo con una storia di oltre trecento anni, gli indiani si sentono a loro agio quando una base storica culturale e filosofica affidabile viene posta sotto i loro costrutti geopolitici. Ecco perché la percezione indiana della regione indo-pacifica è così locale e limitata alle acque dell’Oceano Indiano e del Pacifico occidentale, e perché i progetti regionali indiani sono così poco combinati con quelli cinesi: se Pechino, nelle sue iniziative per ripristinare la Via della Seta, si concentra sulla rotta commerciale storicamente esistente tra la Cina e l’Europa, dove le polarità dell’Hindustan fungevano al massimo da punti di transito, l’India guarda al suo ruolo storico di centro di una vasta rete commerciale che copriva l’intero Oceano Indiano, il Mediterraneo orientale e il Pacifico occidentale.
Da un lato, ciò predetermina l’indisponibilità dell’India a rinunciare a questioni di status, soprattutto nel confronto con la Cina; dall’altro, consente la cooperazione con tutte le potenze pronte a riconoscere il ruolo di primo piano dell’India nella regione.
Nella dimensione economica, tutto è diverso. L’imprenditoria indiana non ha bisogno di una base storica e filosofica per diffondere operazioni commerciali in tutto il mondo. Ovunque ci siano rappresentanti della diaspora indiana (e sono presenti in quasi tutti i Paesi e le regioni del mondo, comprese Russia e America Latina), prima o poi appaiono nodi del sistema finanziario ed economico indiano, nonostante siano in gran parte informali. Lo Stato ha poco controllo su questo processo: le strutture che formano il sistema informale hanno meccanismi finanziari propri (hawala /hundi) che permettono di effettuare transazioni senza la partecipazione delle banche. Questa India globale esplora volentieri nuovi mercati, inventa nuovi modi per evitare le sanzioni e si assume rischi laddove le autorità non sono pronte a farlo.
ASIA ED EURASIA
L’India tra Russia, Stati Uniti e Cina
Alexei Kupriyanov
Esattamente dieci anni fa, nel 2012, il noto giornalista americano Robert Kaplan scriveva nel suo libro che, mentre le grandi potenze, Stati Uniti e Cina, si oppongono l’una all’altra, la situazione geopolitica dell’Eurasia nel XXI secolo sarà in gran parte determinata da quale direzione prenderà l’India.
OPINIONI

Modalità di interazione

I formati e i modi di interazione con queste due Indie sono diversi, ma richiedono tutti una flessibilità molto maggiore di quella dimostrata finora da Mosca. Nelle nuove condizioni geopolitiche, la sopravvivenza dell’economia russa dipende dal funzionamento ininterrotto delle rotte marittime e terrestri, dall’erosione del regime sanzionatorio con tutti i mezzi possibili e dal massimo sostegno ai Paesi che negli ultimi mesi sono stati definiti il “non-occidente collettivo” o la “maggioranza mondiale”, cioè coloro che occupano una posizione periferica nel sistema politico ed economico esistente e sono insoddisfatti del loro posto nel mondo.

Gli interessi di Russia e India nella dimensione politica coincidono, ma solo parzialmente. La strategia di sviluppo indiana è a lungo termine; nel suo ambito, Nuova Delhi risolve diversi compiti. I compiti principali sono garantire uno sviluppo economico stabile, raggiungere il terzo posto in termini di PIL globale e garantire l’accettazione dell’India nel circolo informale delle grandi potenze che risolvono le principali questioni mondiali. La soluzione del primo compito implica la costruzione di legami economici con gli Stati Uniti, l’Europa, l’Australia e il Giappone e l’attrazione di investimenti e tecnologie. Allo stesso tempo, per non diventare dipendente dall’Occidente, l’India cerca di espandere i legami con attori non occidentali, tra cui la Russia. La soluzione alla seconda implica regole del gioco chiare e una trasformazione graduale di un ordine mondiale generalmente stabile basato su queste regole, invece di una sua rottura decisiva.

Le azioni della Russia sulla scena mondiale rendono difficile la soluzione di questi problemi, costringendo la leadership indiana a compiere un miracoloso gioco di equilibri verbali. Da un lato, rimproverare i Paesi occidentali per la disattenzione nei confronti dei conflitti in altre regioni, dall’altro chiedere una rapida fine della crisi ucraina, poiché “non è il momento di fare guerre”.

Agli indiani non piace che Russia e Cina cerchino un riavvicinamento al Pakistan o che flirtino con Islamabad, ma soprattutto non piace l’incertezza. Nuova Delhi sarebbe felice se Mosca, dopo la fine del conflitto, spostasse la sua attenzione verso est, diventando un attore importante nella regione indiana e del Pacifico.
Tenendo conto dell’avversità idiosincratica che gli organismi di politica estera russi nutrono nei confronti dell’idea stessa di regione indo-pacifica, che tanto turba i partner indiani di Mosca, l’opzione migliore sarebbe quella di creare un nostro concetto, che enfatizzi l’interazione delle componenti terrestri, fluviali e marittime e che sia combinato con le disposizioni concettuali indiane.
Il desiderio di garantire la sicurezza delle rotte commerciali, il rifiuto di misure restrittive, il riconoscimento reciproco degli interessi nelle regioni dell’immediato vicinato e la disponibilità a una cooperazione reciprocamente vantaggiosa sull’intero spettro di questioni sono la base dell’interazione politica russo-indiana.

Per quanto riguarda la componente economica, tutto è più complicato e allo stesso tempo più facile. Per vincere la guerra delle economie, dove il nemico ha tutte le carte vincenti – da una solida quota del commercio mondiale alla stampa della valuta di riserva mondiale – abbiamo bisogno, come ci insegna la teoria militare, di una strategia asimmetrica. È inutile cercare di sfondare il muro delle sanzioni: bisogna imparare ad aggirarlo interagendo con le strutture dell’economia sommersa. Non sarà facile farlo, perché la macchina amministrativa dello Stato moderno semplicemente non è adatta a queste forme di interazione. Ma non c’è scelta: per sopravvivere nelle nuove condizioni, ha senso che la Russia cambi radicalmente la sua politica economica estera, perfezionando il meccanismo della ZES ed estendendolo a intere regioni e creando un sistema di “scatole nere” – strutture chiuse di quasi-mercato situate in parte in Russia e in parte all’estero, opache all’occhio vigile dei finanzieri e delle agenzie di intelligence occidentali e che permettono di pompare tecnologia e investimenti in Russia aggirando le sanzioni esistenti.

Naturalmente, per un Paese con un livello di centralizzazione storicamente così elevato, queste azioni non saranno indolori, ma il gioco vale la candela.

https://valdaiclub.com/a/highlights/global-india/

Che cos’è AFRICOM? Come l’esercito americano sta militarizzando e destabilizzando l’Africa, di SAMAR AL-BULUSHI

Un articolo interessante per comprendere l’approccio della componente democratica radicale statunitense alla politica estera, nella fattispecie in Africa. Un approccio, per altro, diffuso anche nella sinistra radicale europea. Un approccio vittima della mitologia della liberazione terzomondista dal colonialismo che impedisce di vedere i limiti e i grossolani errori delle classi dirigenti e politiche emerse dai successi di quei rivolgimenti e spingere a individuare la causa del dominio coloniale e neocoloniale esclusivamente nel sottosviluppo generato dal dominio imperialistico e da una politica di dominio militaristico. Una visione in sostanza riduttivamente economicistica e che nel contempo, a dispetto del radicalismo, lascia poco spazio, di fatto, paradossalmente, alle potenzialità e possibilità di azione dei movimenti locali. Buona parte di quei movimenti iniziano invece a comprendere la necessità di “contare sulle proprie forze” e di partire dal contesto socioculturale, non solo socioeconomico, proprio, piuttosto che riprendere pedissequamente modelli sulla base di dogmatismi ideologici. La condizione per impostare su basi più paritarie le indispensabili relazioni internazionali. Fu proprio, invece, quello l’errore ad offrire il varco alla riproposizione dei rapporti neocoloniali che hanno condizionato pesantemente, con poche eccezioni, le vicende degli ultimi quaranta anni in quel continente. Giuseppe Germinario

Che cos’è AFRICOM? Come l’esercito americano sta militarizzando e destabilizzando l’Africa

Il nostro pacchetto Africa’s New Wave celebra la ricca cultura e l’impatto del continente demograficamente più giovane del mondo. Attraverso una serie di racconti visivi, stiamo analizzando la gravità della storia e dell’influenza dell’Africa sul mondo e il motivo per cui deve essere considerata una fonte di ispirazione per un cambiamento radicale incentrato sui giovani. Questo articolo critica il coinvolgimento di AFRICOM nel continente.
DI SAMAR AL-BULUSHI

19 LUGLIO 2023

Cameroonian soldiers take part in a counterterrorism training session during the Flintlock 2023 military training hosted...
NIPAH DENNIS/GETTY IMAGES

Soldati camerunesi partecipano a una sessione di addestramento antiterrorismo durante l’addestramento militare Flintlock 2023 ospitato…
NIPAH DENNIS/GETTY IMAGES
Cos’è l’AFRICOM Come l’esercito americano sta militarizzando e destabilizzando l’Africa
TINA TONA
Tecnicamente, gli Stati Uniti non sono in guerra in Africa. Ma la pratica e la terminologia della guerra al terrorismo guidata dagli Stati Uniti sono cambiate, rendendo il coinvolgimento dell’esercito americano più difficile da rintracciare. Negli ultimi 15 anni, il governo statunitense ha silenziosamente ampliato la propria presenza militare nel continente africano, impegnandosi in “operazioni speciali” con le truppe africane in nome della sicurezza. Dall’istituzione nel 2007 del Comando per l’Africa (AFRICOM), il comando regionale combattente del Dipartimento della Difesa per l’Africa, gli Stati Uniti hanno adottato un approccio di tipo militare per garantire i propri interessi nel continente. Questo ha avuto effetti disastrosi. Che si tratti della guerra apparentemente infinita (non dichiarata) contro il gruppo militante Al-Shabaab in Somalia o dell’ondata di colpi di Stato (in molti casi guidati da ufficiali addestrati dagli Stati Uniti), l’AFRICOM ha contribuito all’instabilità che pretende di affrontare.

La decisione di istituire l’AFRICOM è arrivata in un momento in cui l’influenza degli Stati Uniti sul continente era in declino e l’importanza geostrategica dell’Africa era in aumento. Si prevede che entro il 2050 l’Africa rappresenterà circa il 25% della popolazione mondiale. Contiene alcune delle economie in più rapida crescita del mondo ed entro il 2063 il continente nel suo complesso dovrebbe diventare la terza economia mondiale, superando Germania, Francia, India e Regno Unito. Secondo le Nazioni Unite, in Africa si trova circa il 30% delle riserve minerarie mondiali, il 12% del petrolio e l’8% del gas naturale. L’Africa ospita anche il 65% delle terre coltivabili del mondo e il 10% delle fonti rinnovabili di acqua dolce del pianeta.

Con queste premesse, possiamo dare un senso al crescente numero di attori stranieri che competono per l’influenza in Africa, tra cui Stati Uniti, Cina, Russia, Turchia e Stati arabi del Golfo come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti.

I critici dell’AFRICOM criticano il fatto che il governo statunitense si affidi all’esercito per proteggere il proprio accesso alle risorse e ai mercati del continente. A causa dell’eredità della schiavitù e dello sfruttamento delle risorse dell’epoca coloniale, gli africani rimangono sospettosi delle intenzioni degli Stati Uniti e hanno protestato contro gli accordi che conferiscono all’AFRICOM maggiori poteri, sostenendo che compromettono la sovranità degli Stati africani.

La popolarità del film Black Panther e del suo sequel, Wakanda Forever, è strettamente legata al modo in cui questi film mettono al centro le questioni del colonialismo e della corsa alle risorse africane. I film rifiutano le rappresentazioni razziali dell’Africa come continente povero e in guerra, suggerendo invece che sono gli Stati Uniti e l’Europa a rappresentare le maggiori minacce alla pace e alla stabilità. Nel mondo afrofuturista di Wakanda Forever, sono la conoscenza e la saggezza africane ad aver contribuito al progresso della scienza e della tecnologia e a proteggere il mondo intero dalla distruzione violenta.

Al di fuori di Hollywood, però, la realtà odierna presenta un quadro più preoccupante. Nonostante gli sforzi di figure anticoloniali come Kwame Nkrumah e Julius Nyerere negli anni Cinquanta e Sessanta per creare un mondo nuovo e più equo, i leader africani continuano a navigare in un ordine globale razziale che formalmente si fonda sull’uguaglianza, ma che in pratica è costituito da relazioni di gerarchia e dominio.

L’AFRICOM utilizza il linguaggio del “partenariato” per caratterizzare gran parte del suo impegno con i Paesi africani, ma questa terminologia elude opportunamente le umiliazioni strutturali che continuano a modellare le relazioni tra il Sud e il Nord del mondo. In effetti, gli Stati Uniti usano la loro influenza come maggiore finanziatore del Fondo Monetario Internazionale (FMI) come leva nei negoziati con gli Stati del Sud Globale per garantire la loro cooperazione in materia di sicurezza.

Come ha spiegato la studiosa Zohra Ahmed, “il tipo di relazioni internazionali che gli Stati Uniti coltivano a sostegno delle loro guerre si colloca in una zona grigia tra il consenso e la coercizione”. Come per altri Paesi del Sud globale, i vincoli economici e la continua dipendenza dal credito estero hanno costretto gli Stati africani ad assecondare le priorità del governo statunitense.

Soluzioni africane per i problemi americani?
Come si configura in pratica tutto ciò? Gli Stati Uniti sono diventati diffidenti nei confronti dei costi associati al dispiegamento delle proprie truppe in prima linea. Per questo motivo, AFRICOM si affida alle forze africane per assumersi l’onere delle missioni antiterrorismo nel continente. La logica alla base di AFRICOM può essere fatta risalire all’Iniziativa di risposta alle crisi in Africa dell’amministrazione Clinton a metà degli anni Novanta. Come ha spiegato lo studioso Adekeye Adebajo in riferimento alla strategia statunitense dell’epoca: “L’idea era che gli africani avrebbero fatto la maggior parte delle morti, mentre gli Stati Uniti avrebbero fatto una parte delle spese per evitare di essere coinvolti in interventi politicamente rischiosi”.

I partenariati con le unità militari africane d’élite consentono alle forze armate statunitensi di affidarsi a forze per procura nei casi in cui l’America non è ufficialmente in guerra e la presenza di truppe statunitensi susciterebbe critiche. Queste unità militari africane d’élite, addestrate dagli Stati Uniti, sono spesso presentate come le forze più professionali e capaci di combattere nei rispettivi Paesi; tuttavia, secondo un articolo del 2019 pubblicato sulla rivista Current Anthropology, sono anche le meno responsabili e “più propense a esercitare brutalmente la propria autorità a livello nazionale”. Anche negli scenari in cui queste forze di sicurezza sono dispiegate per scopi apparentemente umanitari – come nel caso dell’epidemia di Ebola in Africa occidentale – hanno fatto ricorso a tattiche di guerra urbana contro i civili in nome del contenimento della diffusione della malattia.

Altrettanto significativo è il fatto che la coltivazione di unità militari d’élite da parte dell’AFRICOM abbia provocato divisioni interne ai militari nazionali in tutto il continente. In Somalia, il gran numero di addestramenti guidati dagli Stati Uniti di diversi organismi di sicurezza (in molti casi di nuova formazione) all’interno del Paese ha stimolato la competizione per il potere tra gli attori della sicurezza. La formazione e l’addestramento di queste unità d’élite provoca anche una divisione tra le “forze speciali” e il soldato comune, un fenomeno che il politologo Rahmane Idrissa ha descritto come un “sistema di caste militari”.

È in parte in questo contesto che gli analisti hanno tracciato un legame diretto tra gli addestramenti militari statunitensi e l’ondata di colpi di Stato che si sono verificati negli ultimi anni. In Guinea, ad esempio, i berretti verdi americani hanno addestrato un’unità di forze speciali guidata dal colonnello Mamady Doumbouya, che ha poi guidato un colpo di Stato nel settembre 2021. In Mali, il colonnello che ha preso il potere nel 2020 era anche il leader di un’unità di forze speciali d’élite. Entrambi erano allievi di un programma di addestramento annuale noto come Flintlock, sponsorizzato dall’esercito statunitense.

A metà degli anni ’90 i colpi di stato militari in Africa erano diventati un’eccezione piuttosto che la norma, ma gli eventi degli ultimi anni potrebbero segnare il ritorno di una crescente instabilità politica. Sebbene le testate giornalistiche tradizionali spesso inquadrino questi sviluppi come il risultato di tensioni “locali”, è sempre più difficile negare il ruolo delle forze armate statunitensi nell’addestramento e nell’incoraggiamento di alcuni attori armati.

L’allineamento dell’America con regimi impopolari e amici degli interessi statunitensi ha anche fornito a questi regimi la copertura per reprimere le proteste e il dissenso in nome della sicurezza. La crescente frustrazione per gli abusi delle forze di sicurezza sta generando nuovi movimenti di attivisti in tutto il continente, come Missing Voices in Kenya e #EndSARS in Nigeria, che ha chiesto l’abolizione della micidiale e segreta forza di polizia del Paese, nota come Squadra Speciale Antirapina (SARS).

La crisi della “democrazia
Ma c’è un contesto politico-economico più ampio che dobbiamo considerare: I politici internazionali sottolineano l’importanza di ripristinare la democrazia e i governi a guida civile, ma gli africani riconoscono sempre più che gli apparati formali della democrazia, come le elezioni, hanno poco significato di fronte al peggioramento delle condizioni socioeconomiche.

Come ha osservato Amy Niang, professore associato di scienze politiche presso l’African Institute, in un recente articolo per la Review of African Political Economy: “La travolgente attenzione dei media sullo stallo del governo militare con la ‘comunità internazionale’ confonde la comprensione di crisi molto urgenti che non saranno risolte da un’altra tornata elettorale. Finché non saranno risolti i problemi fondamentali della sovranità economica, della capacità dello Stato di reperire risorse finanziarie all’interno e di fornire sicurezza e servizi sociali alla popolazione, la fretta di andare alle elezioni consentirà solo un cambio di guardia per gestire le stesse istituzioni in rovina. La lotta democratica è innanzitutto una lotta per un modello politico che risponda alle richieste di beni pubblici di base della popolazione”.

In un momento in cui gli africani si trovano ad affrontare l’aumento vertiginoso dei prezzi dei generi alimentari e l’impennata del debito, i recenti colpi di Stato dovrebbero suscitare discussioni e dibattiti sul sostegno dell’AFRICOM ad attori militarizzati altamente addestrati e sulla crisi della democrazia stessa. Tuttavia, se il vertice USA-Africa tenutosi a dicembre a Washington è stato indicativo, il governo statunitense e i suoi “partner” di sicurezza nel continente continueranno a considerare la frustrazione politica e la disperazione economica come minacce che giustificano una risposta militarizzata. Data la ricca storia di proteste nel continente, è probabile che i più colpiti non accettino passivamente il loro destino, ma prendano attivamente il comando in quella che potrebbe essere la seconda lotta per l’indipendenza dell’Africa.

https://www.teenvogue.com/story/what-is-africom-us-military-africa

https://quincyinst.org/2023/07/19/what-is-africom-how-the-u-s-military-is-militarizing-and-destabilizing-africa/

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Il tunnel di Zojila: Un’ancora di salvezza strategica per il Ladakh, Di Numan Bhat e Mehroob Mushtaq

Il tunnel di Zojila: Un’ancora di salvezza strategica per il Ladakh
Mentre le tensioni continuano a ribollire lungo il confine tra India e Cina, il progetto non solo rafforzerà la sicurezza dell’India, ma servirà anche come simbolo della sua presenza nel difficile territorio dell’Himalaya.

Di Numan Bhat e Mehroob Mushtaq
25 luglio 2023

pushpin marking on Leh, Ladakh map

Il tunnel di Zojila: Un’ancora di salvezza strategica per il Ladakh
Credito: Numan Bhat
In un’ottica strategica di miglioramento della connettività e di rafforzamento delle infrastrutture di confine, l’India sta realizzando l’ambizioso progetto del tunnel di Zojila, vicino al teso confine con la Cina. Immerso nel terreno accidentato dell’Himalaya, il tunnel mira a fornire un accesso tutto l’anno all’esercito e ai residenti della regione, garantendo trasporti più sicuri e protetti.

Il Passo Zojila, situato tra Srinagar e Leh, è da tempo una via cruciale per il movimento di truppe militari e merci, soprattutto durante l’inverno, quando le forti nevicate rendono inaccessibili altri passi. Tuttavia, il passo rimane altamente vulnerabile alle valanghe e alle frane, causando frequenti interruzioni dei collegamenti.

Il progetto di costruzione del tunnel di Zojila è stato inaugurato nel maggio 2018 dal primo ministro Narendra Modi. Il progetto è stato realizzato dalla National Highways and Infrastructure Development Corporation. Il tunnel di Zojila sarà un’autostrada a due corsie larga 9,5 metri e alta 7,57 metri a forma di ferro di cavallo. Verrà utilizzato il Nuovo Metodo Austriaco di Tunnelling, una tecnologia avanzata.

Il tunnel di Zojila, lungo 14,15 chilometri e situato a un’altitudine di oltre 11.500 piedi, è una meraviglia ingegneristica, che attraversa lo scoraggiante Zojila Pass e garantisce la continuità della connessione anche in condizioni meteorologiche estreme. Il completamento è previsto per il 2026.

Il costo del progetto è stimato in circa 68,09 miliardi di rupie indiane. La costruzione del tunnel è un compito erculeo, con gli operai che devono affrontare un terreno insidioso e condizioni meteorologiche estreme. Il terreno è caratterizzato da ripidi pendii, superfici rocciose e ghiacciai instabili, che rendono il processo di costruzione impegnativo. Nonostante queste difficoltà, gli operai sono determinati a portare a termine la loro missione e a fornire un’ancora di salvezza alla regione.

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Burhan Andrabi, senior manager del progetto, ha dichiarato che dei 14,15 chilometri totali, sono stati completati 6 chilometri di scavo del tunnel. Sono state completate anche due sottostrutture del ponte e sono in corso i lavori per un terzo ponte.

I lavori per il tunnel sono iniziati nel 2021. L’autostrada avrà due tunnel a doppia canna, quattro ponti, due gallerie per la neve e una struttura di 2,3 chilometri a taglio e copertura.

Il tunnel di Zojila dovrebbe essere completato entro il 2026. Foto di Numan Bhat.

La distanza da Baltal a Meenamarg scenderà a 13 chilometri dagli attuali 40; il tempo di percorrenza dovrebbe essere ridotto di un’ora e mezza e il viaggio dovrebbe essere meno faticoso. Si spera che il progetto porti allo sviluppo integrato di entrambi i territori dell’Unione, Ladakh e Jammu e Kashmir.

Raja Ahmad, un operaio di Ganderbal, ha detto che nonostante i molti ostacoli, “abbiamo lavorato duramente”.

“A volte il lavoro è stato sospeso”, ha detto, “ma con coraggio abbiamo continuato a lavorare nonostante il clima rigido”.

Un altro operaio ha detto che le strutture fornite erano buone, “ma a causa del clima freddo, anche durante le tempeste di neve, portiamo avanti il nostro lavoro con zelo. Speriamo che il nostro duro lavoro dia buoni frutti”.

I timori di un conflitto sono più che speculativi. Nel 2020, truppe indiane e cinesi hanno ingaggiato una guerra corpo a corpo nella valle di Galwan, in Ladakh. Venti soldati indiani e almeno quattro cinesi sono stati uccisi nel primo scontro serio tra le due potenze nucleari dal 1975. Da allora, la situazione è rimasta caotica, con entrambe le parti che investono in infrastrutture vicino al confine de facto che le separa, noto come Linea di controllo effettiva.

Una volta completato, il tunnel risolverà un problema logistico per l’India, poiché l’autostrada nazionale tra Srinagar, la capitale del Kashmir, e il tratto di Zojila del Ladakh è coperta di neve per tutto l’inverno, impedendo il traffico stradale e isolando la regione di confine dal resto del Paese.

La popolazione locale, che da tempo sopporta i disagi causati dalla natura imprevedibile del Passo Zojila, attende con ansia il completamento del tunnel. Molti residenti devono affrontare l’isolamento durante i mesi invernali, poiché i rifornimenti di base e i servizi di emergenza scarseggiano a causa delle strade bloccate.

Un residente, Bashir Ahmad Bhat, ha espresso la sua gratitudine per il progetto: “Il tunnel di Zojila cambierà la nostra vita in meglio. Non solo faciliterà la circolazione di merci e persone, ma farà anche fiorire il commercio e gli scambi nella regione. Questo porterà opportunità economiche e prosperità ai nostri villaggi remoti”.

Si prevede che il tunnel avrà anche un impatto positivo sul turismo della regione, poiché la bellezza naturale dell’area è stata spesso messa in ombra dalle sfide poste dal valico. Con una migliore accessibilità, è probabile che un maggior numero di turisti visiti le pittoresche valli e i laghi incontaminati della regione, contribuendo allo sviluppo complessivo dell’economia locale.

Uno degli ingegneri del progetto ha parlato delle sfide affrontate durante il processo di costruzione. Il Passo Zojila è noto per le forti nevicate e le valanghe. La costruzione di un tunnel in queste condizioni ha richiesto un’ampia pianificazione e l’impiego di tecnologie avanzate. Ma con i nostri sforzi collettivi e la nostra determinazione, siamo riusciti a fare progressi significativi e presto questo tunnel diventerà l’ancora di salvezza di questa regione”.

Oltre a garantire l’accesso ai militari per tutto l’anno, il tunnel migliorerà notevolmente le infrastrutture di confine dell’India e rafforzerà la sua posizione strategica nella regione. Servirà come linea di vita essenziale per le forze armate indiane, garantendo la loro preparazione e agilità nel rispondere efficacemente a qualsiasi minaccia.

Farooq Misger, un uomo d’affari di Leh, ha condiviso le sue aspirazioni per il tunnel di Zojila. Ha detto: “Con il completamento di questo tunnel, speriamo di attirare più turisti a Leh. Attualmente, a causa delle condizioni meteorologiche incerte e dell’accesso stradale difficile, molte persone esitano a visitarla. Ma con una strada per tutte le stagioni, un maggior numero di persone potrà sperimentare la bellezza della regione e contribuire a stimolare la nostra economia”.

Mentre le tensioni continuano a ribollire lungo il confine tra India e Cina, il completamento del tunnel di Zojila non solo rafforzerà la sicurezza dell’India, ma servirà anche come simbolo della sua determinazione ad affermare la propria presenza nei difficili territori dell’Himalaya.

Il progetto del tunnel di Zojila rappresenta un significativo passo avanti nel miglioramento della connettività e nel rafforzamento delle infrastrutture di confine. Nonostante le ardue sfide affrontate dai lavoratori, il progetto ha un valore immenso sia per i militari che per i civili, garantendo l’accesso alla regione per tutto l’anno e promuovendo lo sviluppo economico in questo remoto angolo dell’India.

Nazir Ahmad, un camionista, ha dichiarato: “Ho guidato sul Passo Zojila per anni, ed è sempre stata un’esperienza snervante. Non vedo l’ora che il tunnel di Zojila sia completato, perché porterà un senso di sicurezza e facilità ai nostri viaggi”.

“Ero solito temere di affrontare il viaggio attraverso il Passo Zojila, soprattutto in caso di forti nevicate. Il tunnel di Zojila eliminerà questa paura e renderà il viaggio molto più piacevole per gli automobilisti come me”, ha aggiunto.

Secondo gli esperti, una volta completato, il tunnel farà risparmiare milioni di rupie in carburante, a beneficio sia dell’esercito che dei civili.

AUTORI
AUTORE OSPITE
Numan Bhat e Mehroob Mushtaq
Numan Bhat e Mehroob Mushtaq sono giornalisti freelance del Kashmir.

https://thediplomat.com/2023/07/the-zojila-tunnel-a-strategic-lifeline-to-ladakh/

The Diplomat è una rivista indiana di studio delle relazioni internazionali e di geopolitica. Un riferimento importante, quindi, per cogliere da un altro punto di vista fondamentale e promettente le dinamiche di formazione di rapporti multipolari.

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Spiegazione delle differenze segnalate da Cina e India sull’espansione dei BRICS, di ANDREW KORYBKO

Spiegazione delle differenze segnalate da Cina e India sull’espansione dei BRICS

ANDREW KORYBKO
29 LUGLIO 2023

La Cina prevede che i membri dei BRICS sostituiscano il dollaro con lo yuan e si integrino nella BRI, mentre l’India vuole che diano priorità all’uso delle valute nazionali e non vuole che i BRICS nel loro insieme siano ufficialmente collegati a questo progetto globale.

Un orologio rotto ha ragione due volte al giorno

Gli osservatori più attenti sanno che non ci si può sempre fidare di Bloomberg, ma nel suo ultimo rapporto sui BRICS potrebbe dire la verità, nonostante abbia dato una piega ovvia a tutto. Nel suo articolo intitolato “China’s Push to Expand BRICS Membership Falters” (La spinta della Cina per espandere l’adesione ai BRICS vacilla), ha citato due funzionari indiani senza nome che hanno affermato che il loro Paese ha proposto criteri rigorosi per l’adesione ai BRICS dopo che la Cina avrebbe espresso una posizione relativamente più rilassata su questo tema.

Chiarire le comuni percezioni errate sui BRICS

Prima di spiegare perché la notizia è verosimile, è importante chiarire che questa importante testata giornalistica ha ovviamente interesse a inquadrare questo disaccordo come l’ennesimo esempio delle crescenti tensioni sino-indiane, motivo per cui ha intitolato l’articolo in questo modo. La formulazione è volta a sottintendere che i BRICS sono guidati dalla Cina e che tutti gli altri membri sono suoi partner minori. Il contenuto particolare del loro articolo trasmette quindi l’idea che le dispute all’interno del gruppo stiano mettendo in pericolo il suo futuro.

La realtà è che i BRICS potrebbero essere più accuratamente concettualizzati come una forma finanziariamente focalizzata di RIC+. Il trilaterale Russia-India-Cina funge da nucleo centrale, mentre Brasile e Sudafrica sono i partner principali al di fuori dell’Eurasia per accelerare i processi di multipolarità finanziaria. Per quanto riguarda il loro obiettivo comune, questo viene perseguito attraverso riforme graduali a causa del rapporto di complessa interdipendenza di ciascun membro con il sistema finanziario occidentale-centrico, con la Russia come unica eccezione.

L’osservazione precedente spiega perché il loro progetto di valuta di riserva probabilmente non sarà lanciato a breve, se non mai, e perché il Sudafrica ha ceduto alle pressioni occidentali affinché il Presidente Putin partecipasse al prossimo Vertice dei BRICS online anziché di persona, a causa del mandato di arresto della Corte penale internazionale. Questo aggiunge anche un contesto alla recente dichiarazione del Presidente della Banca BRICS Dilma Rousseff, che ha confermato che la sua istituzione rispetta le sanzioni occidentali contro la Russia e quindi non sta pianificando alcun nuovo progetto in quel Paese.

La disputa sino-indo sull’espansione formale dei BRICS

La comunità dei media alternativi (AMC) considera i fatti sopra descritti come una battuta d’arresto, poiché sono stati condizionati da influencer di primo piano a pensare che i BRICS siano un movimento rivoluzionario dedicato a detronizzare il dollaro, ma si tratta di una falsa percezione propagata per motivi di interesse personale. I BRICS sono ancora più che in grado di cambiare il sistema finanziario globale, anche se in modo graduale e non radicale. A tal fine, i suoi membri continuano a de-dollarizzare e a costruire piattaforme finanziarie alternative non occidentali.

Tuttavia, esistono ancora differenze tra di loro sul modo migliore di procedere, da cui il probabile contenuto fattuale dell’ultimo rapporto di Bloomberg sulle posizioni opposte di Cina e India nei confronti dell’espansione dei BRICS. La prima prevede che i membri del gruppo sostituiscano il dollaro con lo yuan e si integrino nella Belt & Road Initiative (BRI), mentre la seconda vuole privilegiare l’uso delle valute nazionali e non vuole che i BRICS nel loro insieme siano ufficialmente collegati a questo progetto globale.

Di conseguenza, secondo quanto riferito, la Cina ha una posizione relativamente più rilassata nei confronti dell’espansione dei BRICS, poiché si aspetta che i nuovi membri accelerino l’internazionalizzazione dello yuan e la loro integrazione nella BRI, mentre la posizione dell’India è più rigida a causa della complessità di dare priorità alle valute nazionali. Naturalmente ci sarà chi, nell’AMC, sosterrà che l’ultimo rapporto di Bloomberg dimostri che l’India è il cavallo di Troia dell’Occidente nei BRICS, ma non potrebbe essere più sbagliato.

Chiarire le comuni percezioni errate sull’India

All’inizio di maggio, è stato scritto che “le differenze della RIC dovrebbero essere candidamente riconosciute invece di essere negate o distorte dai media alternativi”. Un mese dopo, l’accoglienza del Primo Ministro Modi da parte degli Stati Uniti, nonostante il suo coraggioso rifiuto delle richieste di scaricare la Russia, ha dimostrato che “gli Stati Uniti hanno finalmente realizzato l’inutilità di cercare di costringere l’India a diventare un vassallo”. Questo sviluppo ha dimostrato che l’India ha completato la sua ascesa come Grande Potenza di rilevanza globale, la cui autonomia strategica nella Nuova Guerra Fredda è rispettata da tutti gli attori chiave.

Gli influencer dell’AMC che ancora insistono sul fatto che l’India sia il cavallo di Troia dell’Occidente nei consessi multipolari contraddicono le conclusioni degli alti funzionari russi che, dopo il viaggio del Primo Ministro Modi negli Stati Uniti, hanno rassicurato tutti sul fatto che i legami bilaterali rimangono ancora forti. È loro diritto credere a ciò che vogliono, ma gli osservatori dovrebbero essere consapevoli che non c’è alcuna sostanza nelle loro affermazioni, che sono state sfatate da professionisti della diplomazia che ovviamente conoscono meglio di loro la politica indiana.

È importante che i lettori tengano a mente questo aspetto, per evitare di essere fuorviati da influencer dell’AMC che propagano teorie cospirative sul ruolo globale dell’India per qualsiasi motivo. Tornando all’articolo di Bloomberg, questo ulteriore chiarimento dovrebbe migliorare la comprensione delle dinamiche dei BRICS in generale e delle differenze sino-indiane sulla questione dell’espansione formale del gruppo in particolare.

I pro e i contro degli approcci di Cina e India

Entrambe le grandi potenze asiatiche sono sincere nel loro desiderio di riformare gradualmente il sistema finanziario occidentale-centrico, ma non sono d’accordo sul modo migliore per farlo. La Cina vuole accelerare l’internazionalizzazione dello yuan e l’integrazione dei BRICS nella BRI, mentre l’India vuole dare priorità all’uso delle valute nazionali e mantenere i BRICS separati dalla BRI. Questi approcci opposti riflettono i rispettivi interessi nazionali e sono quindi naturali da sposare, a differenza di quanto l’AMC potrebbe sostenere a proposito dell’India.

Ogni percorso ha i suoi meriti ma anche argomenti convincenti contro di esso. Per quanto riguarda la Cina, accelererebbe i processi di multipolarità finanziaria, ma con il rischio di far sospettare ad alcuni Paesi che la Repubblica Popolare voglia segretamente sostituirsi al ruolo unipolare degli Stati Uniti, anche se solo in Asia. Per quanto riguarda l’India, essa rafforzerebbe la sovranità finanziaria di ciascun Paese, ma i tempi per l’attuazione di cambiamenti sostanziali sarebbero probabilmente più lunghi rispetto al percorso della Cina, oltre ad essere comparabilmente più complessi da attuare.

Considerando che “gli Stati della SCO hanno concordato i contorni dell’ordine mondiale emergente” durante il vertice virtuale dei leader di inizio luglio, nonostante le crescenti tensioni sino-indiane, i recenti precedenti suggeriscono che i BRICS probabilmente raggiungeranno un compromesso sull’espansione del gruppo che soddisfi gli interessi di tutti. Il risultato più realistico potrebbe essere l’attuazione del concetto di BRICS+ reso popolare dal guru russo della geoeconomia Yaroslav Lissovolik, in modo che i potenziali membri possano formalizzare i loro legami con il blocco.

Il BRICS+ potrebbe essere un compromesso reciprocamente vantaggioso

Sebbene non si possa escludere che la Cina e l’India siano d’accordo sull’ingresso di uno o due Paesi come membri ufficiali, cosa a cui secondo Bloomberg gli altri tre non si opporrebbero in linea di principio, questo compromesso potrebbe evitare che le crescenti tensioni sino-indiane ostacolino la crescita del gruppo. Gli interessi di Delhi verrebbero serviti stabilendo i criteri per l’adesione ufficiale, indipendentemente dai dettagli che potrebbero essere alla fine, mentre quelli di Pechino verrebbero serviti facendoli partecipare alle attività dei BRICS.

I Paesi interessati possono internazionalizzare lo yuan e integrarsi nella BRI attraverso l’ambito dei loro legami bilaterali con la Cina e la partecipazione a piattaforme non BRICS, dando invece priorità all’uso delle valute nazionali attraverso i loro legami con i membri BRICS e BRICS+, esattamente come prevede l’India. Se si crede a quanto riportato da Bloomberg sulle posizioni di Brasile, Russia e Sudafrica su questo tema, questi tre Paesi sono tacitamente più allineati all’approccio dell’India che a quello della Cina.

La posizione della Cina su questo tema è la vera anomalia

Le fonti brasiliane e sudafricane non sono state citate, mentre quella russa è il direttore di ricerca del Valdai Club e capo del Council on Foreign & Defense Policy Fyodor Lukyanov, le cui due istituzioni affiliate forniscono consulenza al Cremlino. È uno dei più influenti esperti russi ed è stato citato per dire che “è ampiamente favorevole all’espansione dei BRICS, ma senza grande entusiasmo. Sta seguendo l’esempio degli altri. Non bloccheremo nessuna decisione”.

Non ci sono ragioni credibili per credere che Bloomberg abbia inventato la sua citazione, come potrebbero immaginare i teorici della cospirazione dell’AMC, né che questo esperto molto rispettato abbia disinformato il suo pubblico sulla posizione della Russia su questo tema delicato. Piuttosto, Lukyanov ha descritto candidamente il pensiero del Cremlino per dissipare false percezioni e aspettative associate, come quelle finora coltivate dai principali influencer dell’AMC. Ciò conferma che la Russia riconosce le dinamiche intra-gruppo dei BRICS precedentemente descritte.

La posizione misurata e pragmatica del Cremlino riflette i suoi interessi nazionali, così come si può dire che la Cina e l’India siano rispettivamente entusiaste e caute. Allo stesso modo, Brasile e Sudafrica hanno presumibilmente approcci simili a quelli della Russia per lo stesso motivo, anche se i loro interessi nazionali corrispondenti hanno più a che fare con la necessità di non subire ulteriori pressioni occidentali. Questa valutazione complessiva aumenta le possibilità che si accordino sull’attuazione del BRICS+ come compromesso.

Riflessioni conclusive

La richiesta dell’India di stabilire criteri rigorosi per l’adesione ai BRICS non è quindi una cosa negativa come l’AMC potrebbe essere portata a pensare, poiché è probabilmente in linea con i punti di vista di tutti gli altri membri, a parte quello della Cina, il che la rende rappresentativa della maggioranza e non di una presunta eccezione influenzata dagli Stati Uniti. Non c’è nulla di male nemmeno nella posizione della Cina, che è anche animata da buone intenzioni, ma è Pechino a fare da apripista su questa delicata questione, non Delhi o altri. In ogni caso, è probabile che si raggiunga un compromesso.

https://korybko.substack.com/p/explaining-chinas-and-indias-reported?utm_source=post-email-title&publication_id=835783&post_id=135541253&isFreemail=true&utm_medium=email

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