Analisi strategica e industriale sulle prospettive europee dopo il 2025. Un confronto tecnico con Dario Rigoni, già membro di un centro studi internazionale, su scenari, approvvigionamenti e cooperazioni nel settore sicurezza e difesa.
Focus su capacità produttiva, filiere e leve decisionali per l’Europa.
Paesi analizzati: Francia · Germania · Italia
Europa Industria2025 Cooperazione Strategica Analisi Tecnica
A 23:10 Dario Rigoni spiega il vero limite della strategia europea: il riarmo come sostituto dell’industria.
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Non è un piano di riarmo o un piano industriale .
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Se chiedete a qualcuno di nominare i peggiori errori militari o geostrategici della storia, le risposte standard tenderanno a concentrarsi sulle invasioni fallimentari dell’entroterra russo, che si tratti della campagna napoleonica del 1812 o dell’invasione dell’URSS da parte del Terzo Reich. Qualcuno con una conoscenza più approfondita potrebbe indicare un errore più esoterico e specifico: forse l’incapacità di Erwin Rommel di neutralizzare Malta, la divisione delle forze bizantine a Manzicerta o la campagna britannica di Gallipoli. Forse potremmo tornare all’epoca degli eroi e citare i Troiani che portarono quel miserabile cavallo di legno nella loro città senza ispezionarne l’interno.
Ciò che accomuna la maggior parte di questi errori (forse con l’eccezione del Cavallo di Troia) è che, sebbene tutti si siano rivelati clamorosamente fallimentari, possedevano almeno una certa logica strategica che li rendeva difendibili su basi teoriche. Errori, azioni del nemico e sfortuna possono sommarsi e creare un disastro, ma di solito non si ha la sensazione che le decisioni siano state prese senza motivo. Di solito.
Tra il 1897 e il 1914 la Germania imperiale commise il suo errore geostrategico di prim’ordine, lanciando unilateralmente una corsa agli armamenti navali contro la più grande potenza marittima dell’epoca, la Royal Navy. Ciò che è degno di nota nel potenziamento navale tedesco è che fu giustificato da deboli speculazioni strategiche sulla risposta britannica; nonostante fosse evidente in tempo reale che queste speculazioni erano false, il potenziamento continuò per il suo stesso interesse, e la Germania evitò ripetutamente l’occasione di deviare da un vicolo cieco.
La Germania prebellica si distingue tra gli annali delle grandi potenze per tutte le ragioni sbagliate. Era, certo, uno stato straordinariamente potente, con una notevole potenza industriale e militare. Istituzionalmente, tuttavia, fu un disastro totale che permise che la sua forza venisse requisita in nome di una politica degli armamenti condotta separatamente dalla pianificazione bellica e dalla diplomazia. Nell’arco di due decenni, i tedeschi riuscirono a costruire la seconda flotta da battaglia più grande del mondo, ma lo fecero senza alcuna idea di come tale flotta potesse inserirsi nella loro geostrategia più ampia, né di come schierarla in tempo di guerra.
Il risultato fu un costoso pasticcio militare che si ritorse contro praticamente tutte le sue giustificazioni teoriche, peggiorò significativamente la posizione strategica della Germania e non dimostrò praticamente alcuna utilità militare quando la guerra arrivò in Europa nel 1914. Questa grande debacle fu intrapresa come un esperimento volontario e unilaterale guidato da poche personalità chiave in Germania. Né un diffuso sostegno interno organico, né la pressione internazionale, né le vulnerabilità strategiche critiche costrinsero la Germania a lanciare una corsa agli armamenti con la Gran Bretagna. Lo fece volontariamente, in un atto di prodigalità così profondo da stupire gli osservatori in patria e all’estero, con Winston Churchill che la definì la “flotta di lusso” tedesca. Alla deriva da una geostrategia coerente e privi di meccanismi istituzionali per correggere la rotta, i tedeschi sprofondarono in una trappola strategica da loro stessi creata.
Upstart: l’ascesa della Marina tedesca
Una delle grandi peculiarità della Prima Guerra Mondiale, e in particolare della sua dimensione nautica, è che Germania e Gran Bretagna, ancora negli anni Novanta del XIX secolo, non avevano la reale consapevolezza di prepararsi a combattere una guerra tra loro. Ben verso la fine del secolo, la politica navale tedesca e quella britannica continuavano a considerare la Francia (e, in misura minore, la Russia) come i principali obiettivi di preoccupazione. Eppure, nel giro di appena un decennio, il loro animo strategico venne riorientato e le due forze – la Royal Navy da un lato e la Kaiserliche Marine, o Marina Imperiale, dall’altro – pensavano quasi esclusivamente alla guerra contro l’altra.
Questo reciproco snodo strategico si basava sui cambiamenti sia nella politica di alleanza e nella prospettiva strategica della Gran Bretagna, sia su una radicale rivoluzione della Marina Imperiale tedesca. All’inizio degli anni ’90 del XIX secolo, la marina tedesca era considerata fondamentalmente una forza di difesa costiera limitata, progettata e incaricata di tenere francesi e russi lontani dalle coste tedesche del Mare del Nord e del Baltico, rispettivamente. Nel 1900, la flotta tedesca comprendeva solo 36 navi da combattimento effettive e si collocava al quarto posto in Europa, dietro non solo alla Royal Navy (con margini irrisori), ma anche a francesi e russi. Nel 1914, la marina tedesca aveva la seconda marina più grande del mondo, con più corazzate equivalenti a dreadnought di tutte le altre marine non britanniche d’Europa messe insieme.
La rapida espansione della flotta di superficie tedesca e il suo spostamento strategico contro la Gran Bretagna furono un processo complesso, certamente troppo complesso per essere liquidato semplicemente dicendo: “I tedeschi decisero di costruire molte corazzate”. Il processo era intimamente legato alla posizione unica della Marina Imperiale nello stato tedesco e alle preferenze personali di due individui: il Kaiser Guglielmo II e l’ammiraglio Alfred von Tirpitz.
Per iniziare, è importante comprendere che la Marina Imperiale tedesca aveva un rapporto unico con il resto dello Stato, il che la rendeva strategicamente imprevedibile. Era, a dire il vero, molto diversa sia dall’Esercito tedesco che dalla Royal Navy. Come istituzione, era praticamente unica. Sebbene forse meno interessante della progettazione e dei piani di schieramento delle corazzate, una breve panoramica delle peculiarità istituzionali della Marina tedesca fornisce un importante punto di partenza per il più ampio tema della costruzione navale prebellica.
Il Kaiser tedesco era sia capo di Stato che capo delle forze armate, ed esercitava il potere attraverso i suoi gabinetti e i funzionari di alto rango al loro interno. In pratica, tuttavia, il Kaiser aveva un’autorità limitata sulle forze terrestri. Lo Stato Maggiore manteneva l’autorità assoluta sulla pianificazione bellica ed era libero di nominare Capi di Stato Maggiore per i comandanti sul campo (nominati dal Kaiser). L’esercito aveva quindi un forte controllo istituzionale sia sul personale che sulla pianificazione delle operazioni, che erano ampiamente immuni dall’interferenza diretta del Kaiser.
La marina era molto diversa e molto più soggetta al controllo diretto del Kaiser. Di conseguenza, egli tendeva a considerarla una sorta di giocattolo personale. In tempo di guerra, il Kaiser doveva approvare personalmente le operazioni navali, e generalmente lo faceva con grande trepidazione per la perdita delle “sue navi”. A differenza dell’esercito, la marina non godeva di alcun isolamento istituzionale dal Kaiser e non disponeva di un solido organo di pianificazione centrale, simile allo stato maggiore dell’esercito.
Il Kaiser aveva una forte affinità per la sua marina e indossava spesso un’uniforme navale
Al contrario, la marina aveva una varietà di diversi organi di comando che spesso si alternavano tra loro, sotto l’autorità di comando generale del Kaiser. Inizialmente, esisteva un ammiragliato convenzionale, generalmente chiamato semplicemente OK (da Oberkommando , o Alto Comando Navale), che era nominalmente responsabile della pianificazione e delle operazioni di combattimento. L’OK era parallelo a un ufficio separato noto come RMA (da Reichsmarineamt , o Ufficio Navale Imperiale), responsabile del programma di costruzione della marina. Infine, esisteva un Gabinetto Navale responsabile del personale e delle nomine, direttamente subordinato al Kaiser. In un certo senso, possiamo pensare alla Marina tedesca come se le sue tre funzioni critiche (pianificazione e comando delle operazioni, materiali e costruzione navale, e personale) fossero suddivise in tre organi separati che non avevano collegamenti istituzionali diretti, ma erano invece subordinati separatamente al Kaiser.
Ciò suggerisce, fin dall’inizio, una struttura di comando frammentata con il Kaiser al centro, e in assenza di un comando navale unificato era inevitabile che il Kaiser – volubile, facilmente influenzabile e in gran parte ignaro delle operazioni navali – avrebbe dominato la Marina come forza armata. Inoltre, la mancanza di un comando unificato e di chiare linee di comunicazione escluse in gran parte la Marina dalla pianificazione bellica e la rese un’arma strategicamente autonoma, che non si coordinava con lo Stato Maggiore dell’esercito e che in generale non aveva la minima idea di come integrarsi nei più ampi piani bellici della Germania.
In breve, la traiettoria della politica navale tedesca è sempre stata fortemente influenzata da diverse importanti idiosincrasie istituzionali, che differenziavano la Marina sia dall’esercito tedesco che dalle marine concorrenti. Queste potrebbero essere opportunamente riassunte come segue:
La Marina tedesca soffriva di una struttura di comando dispersiva, con diversi organi di autorità, tra cui l’OK e la RMA. Ciò significava che la pianificazione bellica e la costruzione della flotta erano gestite da organi separati che non si coordinavano bene tra loro, con il solo Kaiser in grado di giudicare e impartire ordini a tutte le diverse parti.
L’autorità suprema sulla marina era affidata al Kaiser, senza un comando indipendente (come lo Stato Maggiore dell’Esercito) in grado di pianificare le operazioni indipendentemente dal monarca. La Marina Imperiale Tedesca era totalmente priva di un singolo ammiraglio di grado superiore, simile al Primo Lord del Mare britannico o al Capo delle Operazioni Navali americano, che potesse impartire ordini direttamente ai comandanti operativi o interagire con il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito su un piano di parità.
Il capo dell’RMA (responsabile della progettazione e della costruzione della flotta) era un ammiraglio, anziché un civile. Questo è in netto contrasto con, ad esempio, il Segretario della Marina americano o il Primo Lord dell’Ammiragliato britannico, che erano quasi sempre civili con scarsa esperienza in operazioni navali. Anziché nominare un civile con il ruolo di consigliere degli ammiragli, il sistema tedesco attribuiva questo potere direttamente a un ammiraglio.
Infine, possiamo aggiungere che, poiché la marina tedesca era nata come un servizio fortemente sussidiario (rispetto all’esercito, che era sempre stato il pilastro principale della forza tedesca), la marina fu costretta a promuovere attivamente se stessa per garantire la propria sopravvivenza e crescita come servizio. Ciò rese la marina tedesca profondamente politica, impegnata com’era in una lotta perenne per ottenere dal Reichstag finanziamenti per la costruzione navale. Possiamo affermare, senza esagerare, che l’attività principale della marina tedesca fosse la costruzione navale, piuttosto che la pianificazione bellica o l’innovazione tattica.
Ciò fu particolarmente vero perché la figura dominante nella Marina Imperiale prebellica era l’ammiraglio Alfred von Tirpitz. Indubbiamente una figura titanica, Tirpitz più di ogni altro fu responsabile della trasformazione della Marina tedesca da una modesta forza di difesa costiera in un servizio di livello mondiale in grado di minacciare (almeno sulla carta) la Royal Navy. Tuttavia, i metodi da lui utilizzati per raggiungere questo obiettivo ebbero l’effetto collaterale di deformare ulteriormente le peculiarità istituzionali del servizio, tanto che in tempo di guerra la Flotta d’Altura si dimostrò molto inferiore alla somma delle sue parti.
Tirpitz era prussiano, ma a differenza del solito pedigree prussiano, si era arruolato in Marina da giovane, in un periodo in cui – per sua stessa ammissione – non era un’istituzione particolarmente popolare. Iniziò il suo primo vero salto verso la potenza negli anni ’80 dell’Ottocento come responsabile del programma tedesco per i siluri; nonostante il suo passato nelle torpediniere, tuttavia, sarebbe diventato un convinto sostenitore della costruzione di corazzate e la figura trainante nella corsa agli armamenti navali che la Germania avrebbe lanciato, quasi unilateralmente, contro la Gran Bretagna.
Ammiraglio Tirpitz: architetto della flotta da battaglia tedesca e proprietario di una bella barba
Due aspetti più ampi della carriera e del carattere di Tirpitz emergono e meritano di essere commentati prima di poter valutare il particolare processo della corsa agli armamenti navali. In primo luogo, Tirpitz fu un abile operatore politico che dimostrò una perfetta disponibilità a ricorrere all’accetta per le sottigliezze istituzionali pur di portare avanti il suo programma. Questo si può vedere chiaramente nel modo in cui le sue opinioni cambiarono man mano che passava da un incarico all’altro.
Ad esempio, dal 1892 al 1895 Tirpitz fu Capo di Stato Maggiore dell’OK (Alto Comando Navale), e durante quel periodo sostenne incessantemente e con aggressività che fosse una follia permettere all’RMA (Ufficio della Marina) di avere il controllo sullo sviluppo della flotta. In quel periodo, Tirpitz e l’OK fremevano dalla voglia di costruire corazzate, ma l’RMA e il Reichstag erano ancora preoccupati per il prezzo da pagare e continuarono a costruire incrociatori corazzati. Frustrato dal fatto che il Segretario di Stato della Marina, Friedrich von Hollmann, non avesse seguito il suo consiglio, Tirpitz sostenne che la costruzione della flotta dovesse essere di competenza degli ammiragli che avrebbero comandato la flotta in tempo di guerra: in sostanza, si trattava di un invito a neutralizzare l’RMA e ad affidarne le responsabilità all’OK.
Nel 1897, tuttavia, quando Tirpitz assunse il controllo della RMA e successe a Hollmann come Segretario di Stato della Marina, lanciò un colpo di stato nella direzione opposta, ovvero contro l’OK. In un rovesciamento quasi totale delle sue vecchie argomentazioni, fece pressioni sul Kaiser affinché trasferisse l’autorità di comando dall’OK alla RMA. Il culmine di questo sforzo, nel 1899, fu lo scioglimento totale dell’OK, con molte autorità di comando distribuite tra la RMA e un nuovo staff dell’Ammiragliato organizzato sotto l’autorità suprema del Kaiser.
Tutto ciò può sembrare una lotta burocratica esoterica (e per molti versi lo era) con troppi acronimi e titoli oscuri. Il punto, tuttavia, è relativamente semplice: Tirpitz era aggressivo nell’accrescere il suo potere in qualsiasi carica ricoprisse all’epoca. Durante i suoi anni come capo di stato maggiore dell’OK (Alto Comando Navale), sostenne che le responsabilità della costruzione navale dovessero essere sottratte al Segretario di Stato della Marina. Una volta che Tirpitz divenne egli stesso Segretario di Stato della Marina, fece pressioni per privare l’OK dell’autorità di comando e, infine, per scioglierlo. In entrambe le occasioni, fu abile nel manipolare il Kaiser – con il quale aveva un rapporto eccezionale – per ottenere ciò che voleva, minacciando persino di dimettersi in più occasioni. Per Tirpitz, il punto era che aveva una visione chiara e unica su come sviluppare il potere della Marina e provava risentimento per l’autorità dissipata; pertanto, era spietatamente e pragmaticamente disposto ad attaccare la struttura istituzionale per accumulare il potere che desiderava per portare avanti la sua visione.
E qual era quella visione? Nella sua forma più semplice, si trattava di una flotta di superficie strutturata attorno a corazzate in grado, se non di combattere e sconfiggere direttamente la Royal Navy, almeno di rappresentare una minaccia credibile. L’evoluzione della flotta tedesca da forza a basso costo progettata per la difesa costiera a forza di livello mondiale con un solo vero rivale (la Royal Navy) non fu un processo inevitabile. Fu una scelta, generata in Germania in gran parte sotto gli auspici di Tirpitz e del suo staff, che abilmente manovrarono il Reichstag per imbarcarsi in un’ondata di cantieristica navale senza precedenti, in un intreccio di pensiero strategico in evoluzione, ambizione personale, preoccupazioni economiche e ansia nazionale.
La concezione della Marina tedesca prima della Tirpitz fu opportunamente riassunta in un memorandum del 1873 del primo capo dell’Ammiragliato, Albrecht von Stosch:
La missione della flotta da battaglia è la difesa delle coste della nazione… Contro le potenze marittime più grandi, la flotta ha solo il significato di una “flotta di sortita”. Qualsiasi altro obiettivo è escluso dalla limitata forza navale prevista dalla legge.
Il memorandum ebbe un duplice effetto: non solo stabiliva la missione di difesa costiera della Marina, ma sottolineava anche che la limitata flotta tedesca non avrebbe avuto alcun ruolo bellico in cerca di battaglia in alto mare. L’opinione generale era che la Marina avrebbe avuto un ruolo puramente difensivo, impedendo al nemico di sbarcare truppe sulla costa tedesca e mantenendo aperti i porti e le installazioni costiere del Paese. Questo rimase l’intento strategico generale della Marina fino a quando Tirpitz non iniziò a rivederlo negli anni ’90 del XIX secolo.
L’embrione della teoria in evoluzione della potenza navale di Tirpitz era la sua crescente preoccupazione che, in una guerra futura, il nemico potesse tentare di bloccare i porti tedeschi a lunga distanza: in altre parole, anziché condurre un blocco ravvicinato dei porti tedeschi, la flotta nemica avrebbe potuto sostare in una posizione di stallo strategica e intercettare il commercio tedesco mentre fluiva attraverso i punti critici del traffico. Sembra che all’inizio, la preoccupazione specifica che preoccupava Tirpitz fosse la possibilità che la Francia potesse interdire il commercio tedesco nella Manica e nel Mare del Nord, a una distanza superiore al raggio d’azione delle flotte costiere tedesche.
Se così fosse, l’intera strategia navale tedesca potrebbe risultare obsoleta. Un blocco navale a distanza avrebbe costretto la flotta tedesca a uscire dalle proprie zone costiere per sconfiggere il nemico in mare aperto. Ciò segnò un passaggio concettuale dalla difesa costiera al “controllo del mare”, che a sua volta richiedeva un tipo completamente diverso di flotta da battaglia, pronta a combattere una battaglia decisiva lontano dalle basi tedesche. Nel 1891, Tirpitz lamentava che il corpo ufficiali della marina non comprendesse “la necessità di colpire la potenza marittima nemica in campo aperto”.
Alfred Thayer Mahan
Tirpitz stava quindi già pensando a nuove linee di pensiero all’inizio degli anni Novanta del XIX secolo, ma il punto di svolta strategico cruciale arrivò proprio nel 1894. In quell’anno (mentre era ancora Capo di Stato Maggiore dell’OK), Tirpitz redasse una serie di memorandum da distribuire a tutti. Tra questi documenti, il più importante fu il memorandum ( Dientschrift ) numero 9. Il Dientschrift IX sarebbe diventato forse la dottrina più importante e influente nella storia della Marina tedesca, annunciando in termini inequivocabili il nuovo animo strategico di Tirpitz. La sezione più importante del memorandum era intitolata in modo da non lasciare spazio a malintesi: “Lo scopo naturale di una flotta è l’offensiva strategica”. Recitava, in parte:
In tempi recenti, quando il mare divenne la migliore via di comunicazione tra le singole nazioni, navi e flotte stesse divennero strumenti di guerra, e il mare stesso divenne un teatro di guerra. Pertanto, l’acquisizione della supremazia marittima [ Seeherrschaft ] divenne la prima missione di una flotta; poiché solo una volta raggiunta la supremazia marittima il nemico può essere costretto a concludere la pace.
È a questo punto che la crescente attenzione di Tirpitz per il pensiero di Alfred Thayer Mahan diventa per la prima volta evidente. Mahan, naturalmente, era il teorico americano il cui celebre libro ” L’influenza del potere marittimo sulla storia” sosteneva in termini inequivocabili che il controllo del mare fosse il perno centrale degli affari mondiali e un prerequisito assoluto per la vittoria nella guerra moderna. I libri di Mahan rimangono ancora oggi una lettura consigliata, ed è difficile rendergli giustizia in breve tempo, ma egli trasse soprattutto due conclusioni che erano altamente praticabili per Tirpitz: in primo luogo, che il controllo del mare fosse il massimo coefficiente di vittoria su scala strategica, poiché avrebbe permesso alla potenza marittima dominante di condurre il commercio globale indisturbata, soffocando al contempo quello nemico, e in secondo luogo che la supremazia in mare si otteneva principalmente attraverso battaglie decisive tra flotte rivali.
Il libro di Mahan (pubblicato nel 1890) fu un successo clamoroso e, sebbene la sua influenza sia stata a volte sopravvalutata, catturò l’immaginazione di molti piloti di tutto il mondo, tra cui il presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt, il Kaiser e, naturalmente, lo stesso Tirpitz. Sembra molto probabile che Tirpitz (che parlava fluentemente e con dimestichezza l’inglese) abbia letto il libro per la prima volta nella primavera del 1894, prima che fosse disponibile una traduzione tedesca, e che da allora in poi la lingua mahaniana abbia iniziato a permeare i suoi scritti, incluso il famoso Dientschrift IX. È degno di nota, ad esempio, il fatto che Tirpitz facesse spesso riferimento al declino della Repubblica Olandese come monito di ciò che sarebbe potuto accadere a una potenza sconfitta in mare: la preoccupazione è significativa, poiché le guerre anglo-olandesi sono un argomento centrale negli scritti di Mahan.
Dal 1894 in poi, Tirpitz si preoccupò di quella che considerava un’urgente necessità per la Germania di dotarsi di una flotta da battaglia in grado di combattere una battaglia decisiva in mare aperto e strappare al nemico la “supremazia marittima”. Ciò segnò un radicale cambiamento rispetto alla tradizionale sensibilità tedesca, basata su una guerra difensiva combattuta in prossimità delle coste tedesche. Tirpitz sosteneva:
I sostenitori di una flotta difensiva partono dal presupposto che la flotta nemica si rivolgerà a loro e che la decisione debba essere presa dove desiderano. Ma questo accade solo molto raramente. Le navi nemiche non devono necessariamente rimanere vicine alle nostre coste… ma possono navigare in mare aperto, lontano dalle nostre basi. In tal caso, la nostra flotta non avrebbe altra scelta che l’inattività, ovvero l’autodistruzione morale, e combattere una battaglia in mare aperto.
A quel tempo, la pianificazione tedesca era ancora incentrata su scenari che prevedevano una guerra contro la Francia e/o la Russia. La Dientschrift IX, pertanto, prevedeva una flotta da battaglia progettata per garantire una superiorità di 1/3 sulla Flotta del Nord francese o sulla Flotta del Baltico russa, a seconda di quale delle due si prevedeva fosse più numerosa. Il nucleo di questa flotta doveva essere una forza d’attacco di 17 corazzate (due squadroni di otto navi ciascuno, più un’ammiraglia della flotta), potenziata da incrociatori e torpediniere.
Nulla nella sensibilità operativa tedesca in quel periodo era minimamente realistico. Una bozza di piano operativo del 1895 prevedeva un blocco dei porti francesi della Manica, progettato per attirare la flotta francese in battaglia. Si trattava di una formulazione piuttosto elementare, che ignorava il fatto che la Flotta del Nord francese avrebbe semplicemente atteso rinforzi dal Mediterraneo e, per far funzionare il piano (anche sulla carta), l’OK dava per scontato che le riparazioni e i rifornimenti potessero essere effettuati nei porti inglesi . Quest’ultimo punto è importante, poiché sottolinea che nel 1895, anziché pensare a una guerra con la Royal Navy, i tedeschi non solo erano ancora preoccupati per la Francia, ma davano addirittura per scontato che l’Inghilterra sarebbe stata una nazione neutrale e amica.
Il cambiamento nel concetto strategico tedesco avvenne in due fasi. La prima, incarnata nella Dientschrift IX del 1894, sosteneva che la flotta tedesca dovesse essere preparata a cercare proattivamente una battaglia decisiva e che quindi necessitasse di un potente nucleo di corazzate, ma considerava ancora la Francia il nemico più probabile. La seconda fase, iniziata quasi subito dopo l’insediamento di Tirpitz come Segretario di Stato della Marina nel 1897, spostò l’attenzione sulla Royal Navy. In un memorandum top secret presentato al Kaiser il 15 giugno 1897, Tirpitz sostenne che il compito essenziale della flotta tedesca dovesse essere quello di conquistare la supremazia nel Mare del Nord in tempo di guerra. Questo compito implicava che il metro di paragone con cui la flotta tedesca doveva misurarsi non fosse la Flotta del Nord francese, ma la forza più potente sul teatro operativo: la Royal Navy.
“Per la Germania il nemico navale più pericoloso al momento è l’Inghilterra.”
Il punto, per Tirpitz, non era un particolare odio per gli inglesi, ma semplicemente il fatto che la Royal Navy fosse la più potente al mondo. Pertanto, costruire una flotta progettata specificamente per sconfiggere i francesi era una mezza misura, poiché la vittoria avrebbe comunque lasciato ai tedeschi solo la seconda flotta più potente del teatro navale. “Supremazia del Mare” implicava proprio questo: supremazia non significava secondo posto.
La questione, tuttavia, andava ben oltre. Tirpitz era determinato a costruire una flotta efficiente e potente composta da corazzate, ma per farlo aveva bisogno di una visione strategica che giustificasse un tale programma. Né la Russia né la Francia si adattavano bene alla concezione mahaniana della guerra, con la sua enfasi sulla “supremazia marittima”. In qualsiasi guerra contro l’alleanza franco-russa, qualunque fosse la configurazione specifica, era inevitabile che l’esercito tedesco sarebbe stato l’arma di cui il paese avrebbe vissuto o sarebbe morto. Una Marina progettata per battaglie flottiglie decisive e per la supremazia marittima implicava, quasi per definizione, che la Royal Navy fosse un avversario. Russia e Francia non avrebbero mai potuto essere sconfitte per mare, quindi Tirpitz necessitava di un modello di avversario che richiedesse, inequivocabilmente, una flotta di corazzate.
Tirpitz si era, di fatto, intrappolato in un circolo vizioso strategico simile alla famosa questione dell’uovo e della gallina. Credeva che il potere globale della Germania potesse essere garantito solo dalla supremazia marittima, che sarebbe stata conquistata attraverso battaglie decisive da una potente flotta. Pertanto, la corazzata era, a suo avviso, la piattaforma indispensabile per la proiezione di potenza. Costruire corazzate, a sua volta, richiedeva di confrontare la flotta con la Royal Navy; al contrario, tuttavia, era solo identificando la Royal Navy come rivale che la costosa costruzione di corazzate poteva essere realmente giustificata. La scelta della Royal Navy come nemica giustificava la spesa per le corazzate, ed era la costruzione delle corazzate a rendere la Royal Navy un nemico.
Naturalmente, il memorandum del 1897 al Kaiser era top secret per un motivo. Tirpitz non poteva semplicemente dichiarare esplicitamente di volersi preparare per uno scontro decisivo con la Royal Navy – e, dato lo stato della misera flotta di superficie tedesca all’epoca, un simile annuncio avrebbe potuto essere scambiato per una commedia. C’era anche la questione del Reichstag, che Tirpitz – ora insediato come Segretario di Stato della Marina – avrebbe dovuto convincere per ogni nave e per ogni punto. Come avrebbe scritto nel 1899:
Per ragioni politiche il governo non può essere così specifico come vorrebbe il Reichstag; non si può affermare direttamente che l’espansione navale sia rivolta principalmente contro l’Inghilterra.
Tuttavia, dagli scritti di Tirpitz emerge chiaramente che, alla fine del secolo, lui (e il Kaiser) avevano ben presente la Royal Navy come potenziale avversario e come standard con cui la flotta tedesca avrebbe dovuto misurarsi. Dato che i rapporti tra Gran Bretagna e Germania erano generalmente buoni in quel periodo, è sostanzialmente indiscutibile che Tirpitz (e il suo cervellone, Alfred Thayer Mahan) abbiano dato inizio alla corsa navale anglo-tedesca quasi unilateralmente, con gli inglesi come avversario necessario per giustificare la costosa costruzione di corazzate.
Rimaneva una cosa: Tirpitz avrebbe dovuto convincere il Reichstag a pagare tutto. Sebbene Tirpitz non si considerasse una personalità politicamente determinata, si dimostrò abile nel far approvare i suoi programmi di costruzione in Parlamento. I suoi successi più significativi furono due leggi navali, note in tedesco come Leggi Navali , approvate dal Reichstag rispettivamente nel 1898 e nel 1900, con una serie di emendamenti successivi.
La genialità delle Leggi Navali , e la grande innovazione politica di Tirpitz, fu quella di stabilire un impegno a lungo termine per la costruzione di un numero fisso di navi nell’arco di diversi anni. Ciò segnò un radicale distacco dalla prassi consolidata. Il predecessore di Tirpitz come Segretario di Stato per la Marina, l’ammiraglio Hollman, aveva adottato la consuetudine di presentare annualmente al Reichstag richieste per un numero limitato di navi. Hollman aveva ritenuto politicamente impraticabile procedere su scala più ampia: “Il Reichstag”, sosteneva, “non accetterà mai di essere vincolato a un programma formale con anni di anticipo”.
Tuttavia, secondo Tirpitz, il protocollo degli stanziamenti annuali per la costruzione navale impediva alla marina di costruire la flotta in modo sistematico e permetteva al Reichstag di intromettersi inutilmente nei dettagli. Scrisse:
“Quando diventai Segretario di Stato, la Marina tedesca era un insieme di esperimenti di costruzione navale, superata in quanto a esotismo solo dalla Marina russa di Nicola II.”
Gli inglesi, ha osservato, avevano una pratica simile, ma:
“Lì, il denaro non ha importanza; se hanno costruito una classe di navi in modo sbagliato, hanno semplicemente buttato via tutto e ne hanno costruita un’altra. Non potevamo permettercelo… Avevo bisogno di una legge che tutelasse la continuità della costruzione della flotta.”
Convincere il Reichstag ad approvare un programma di costruzione pluriennale non fu un’impresa facile, che richiese a Tirpitz di dimostrare un abile tocco politico e di giustificare la flotta su basi strategiche. Nonostante il suo precedente disprezzo per il processo politico, l’ammiraglio si impegnò in una serie di attività per convincere i notabili tedeschi a sostenere la legge navale: visitò la Bismarck, recentemente in pensione, il Re di Sassonia, il Principe Reggente di Baviera e vari Granduchi e autorità comunali, impegnandosi occasionalmente a intitolare le navi ai suoi ospiti per ottenere il loro sostegno.
Dal punto di vista strategico, Tirpitz convalidò la sua proposta di flotta da battaglia sulla base di una presunta “Teoria del Rischio”. Non potendo semplicemente dichiarare apertamente di voler sfidare la Royal Navy per il controllo del Mare del Nord (in sostanza chiedendo al governo di impegnarsi in una corsa agli armamenti con la più forte potenza marittima del mondo), sostenne che una flotta da battaglia adeguata avrebbe agito da deterrente, costringendo “anche una potenza marittima di primo livello a pensarci due volte prima di attaccare le nostre coste”. Sottolineò inoltre che, politicamente parlando, concordare un piano di costruzione a lungo termine avrebbe creato prevedibilità e liberato il Reichstag dalla preoccupazione di piani di costruzione in continua espansione proposti anno dopo anno.
Tirpitz trovò un alleato entusiasta nella sua ricerca di sempre maggiori appropriazioni navali, sotto forma di interessi industriali tedeschi, in particolare del colosso metallurgico Krupp. La ragione, ancora una volta, fu una complessa interazione di preoccupazioni geopolitiche ed economiche: in questo caso, la nascente alleanza tra Francia e Russia e la successiva esplosione delle esportazioni di armi francesi. Ciò che contava per la Germania in questo caso, tuttavia, non erano solo le implicazioni strategiche di un collegamento franco-russo (che intensificava il senso di accerchiamento e assedio tedesco), ma anche la concorrenza nelle esportazioni di Krupp.
L’enorme complesso di officine meccaniche e fabbriche d’armi di Krupp aveva un potenziale produttivo colossale, ben oltre le esigenze di qualsiasi governo, persino di quello tedesco. Pertanto, Krupp faceva ampio affidamento sulle commesse straniere per mantenere attive le sue imprese: nel 1890-91, oltre l’85% delle vendite di armamenti di Krupp proveniva dall’esportazione verso paesi stranieri, e i russi erano uno dei loro migliori clienti. Nel 1885, tuttavia, il governo francese aveva revocato il divieto di vendita di armi all’estero, che in precedenza aveva impedito ai produttori francesi, come Schneider-Creusot, di competere con Krupp. Sebbene Krupp fosse più competitiva in termini di prezzi rispetto ai francesi, fu rapidamente estromessa dal mercato russo, in primo luogo grazie al consolidamento dell’alleanza franco-russa e, in secondo luogo, grazie alla disponibilità delle banche francesi a concedere prestiti ai russi per finanziare l’acquisto di armi francesi.
Una linea di cannoni presso la fabbrica Krupp
Con il governo francese, le banche e i produttori che collaboravano per superare Krupp nei mercati esteri, l’azienda aveva naturalmente bisogno di trovare fonti di reddito alternative e ne trovò una importante nel programma di costruzione navale tedesco: se l’esercito tedesco non avesse ordinato abbastanza pezzi di artiglieria per tenere occupate le fabbriche di Krupp, avrebbe potuto compensare la differenza con i cannoni navali.
Krupp sarebbe diventato un partner indispensabile per Tirpitz nel promuovere progetti di legge sempre più ambiziosi per la costruzione navale (leggi navali, nel linguaggio tedesco), non solo attraverso un’attività di lobbying diretta, ma anche mobilitando un ampio sostegno pubblico. Nel 1898, con fondi Krupp, fu fondata la “Lega della Marina” tedesca, allo scopo di organizzare il sostegno pubblico alla Marina. Nel giro di un anno, contava oltre 250.000 membri paganti e circa 770.000 affiliati. Mobilitando il sostegno di giornali, industriali, professori universitari, politici e cittadini patriottici di ogni tipo, fornì un potente apparato di pressione politica per far approvare il programma di costruzione di Tirpitz al Reichstag.
La pressione di Tirpitz sul Reichstag fu troppo forte per resistere, nonostante la continua trepidazione di molti deputati, in particolare di coloro che prevedevano, correttamente, che il programma della flotta da battaglia li avrebbe messi in rotta di collisione con l’Inghilterra. Ma Tirpitz aveva mobilitato un’ampia fetta dell’opinione pubblica e il 26 marzo 1898 la Prima Legge sulla Marina fu approvata con 212 voti favorevoli e 139 contrari. Il Kaiser ne fu felicissimo e ricoprì Tirpitz di elogi:
Ecco l’Ammiraglio in persona… Allegro e solitario, si assunse l’arduo compito di orientare un intero popolo, cinquanta milioni di tedeschi truculenti, miopi e irascibili, e di convincerli a una visione opposta. Compì quest’impresa apparentemente impossibile in otto mesi. Un uomo davvero potente!
La Legge Navale del 1989 stanziò fondi per la costruzione di 19 corazzate, organizzate in due squadriglie di otto navi ciascuna, insieme a un’ammiraglia della flotta e due navi di riserva, oltre a una serie di incrociatori. Di pari importanza, la legge prevedeva la sostituzione automatica delle navi secondo un calendario prestabilito, garantendo così una sorta di autoregolamentazione della forza della flotta. Naturalmente, non era affatto sufficiente. La Seconda Legge Navale, approvata nel giugno del 1900, dilagò il programma di costruzione con un paio di squadriglie di corazzate aggiuntive: una volta completate tutte le navi, la flotta da battaglia tedesca avrebbe avuto un totale di 38 corazzate e 52 incrociatori.
Il piano generale di Tirpitz sembrava procedere a gonfie vele. Sebbene fosse dubbio che i tedeschi potessero mai eguagliare la forza totale della Royal Navy, Tirpitz contava sul fatto che le forze britanniche sarebbero state disperse in tutto il mondo a protezione del suo vasto impero. Nel gennaio del 1905, ad esempio, gli inglesi avevano tre flotte in prossimità del Mare del Nord: una flotta della Manica, con base a Dover, una flotta atlantica a Gibilterra e la flotta di riserva Home Fleet. Se queste tre flotte si fossero unite per l’azione, avrebbero potuto radunare circa 31 corazzate. Le leggi navali di Tirpitz, quindi, potevano essere considerate un modo per dare ai tedeschi una possibilità di combattere nel Mare del Nord.
Poi, il piano generale non venne seguito. Il 10 febbraio 1906, la mostruosa creazione di Jacky Fisher salpò dallo scalo di alaggio di Portsmouth. La Dreadnought era lì .
La corsa Dreadnaught
Nelle sue memorie, Tirpitz tentò goffamente di sostenere che gli inglesi avessero commesso un errore fatale nel varare la Dreadnought . Si trattava di un sistema d’arma immensamente potente, certo, ma la sua entrata in servizio rese praticamente obsolete da un giorno all’altro tutte le corazzate pre-dreadnought. Secondo Tirpitz, questo creò l’opportunità di superare la Royal Navy: poiché tutte le navi più vecchie erano ormai obsolete, l’unica cosa che contava era il numero di navi equivalenti a Dreadnought nella flotta: di conseguenza, la Dreadnought azzerò l’orologio della marina. Invece di dover eguagliare l’enorme vantaggio britannico in termini di navi pre-dreadnought, i tedeschi dovevano solo eguagliarli in termini di dreadnought. In sostanza, il vantaggio navale britannico era ora di 1 a 0 e le sue decine di pre-dreadnought non contavano più.
Un’argomentazione logica, ma falsa. In tempo reale, il varo della Dreadnought mandò Tirpitz nel panico, poiché l’intero piano generale per la flotta da battaglia era ora soggetto a revisione. La decisione di costruire corazzate tedesche non fu così semplice come sembrava: comportò non solo un aumento significativo dei costi unitari (ogni equivalente di una corazzata sarebbe costato quasi 20 milioni di marchi in più rispetto a una corazzata pre-dreadnought), ma anche costosi miglioramenti infrastrutturali per ospitare navi più grandi, tra cui l’ampliamento del Canale di Kiel e il dragaggio dei canali portuali. Inoltre, se la Germania avesse immediatamente abbandonato i suoi progetti navali esistenti e avesse iniziato a costruire corazzate, ciò avrebbe rappresentato una sfida chiara e inequivocabile per la Royal Navy. Se Tirpitz avesse fatto il grande passo e avviato un programma di costruzione di Dreadnought, si sarebbe impegnato in una costosa e dispendiosa in termini di risorse nella costruzione navale con la Gran Bretagna. In caso contrario, l’intero programma della flotta sarebbe stato bocciato e la Germania avrebbe abbandonato la sua visione di supremazia marittima nel Mare del Nord. Tirpitz decise che era necessario avere delle corazzate.
La prima corazzata tedesca fu impostata nel luglio del 1906. Era la Nassau , la nave capoclasse della sua classe, seguita a breve dalla Westfalen , dalla Posen e dalla Rheinland . Sebbene alcuni particolari del suo progetto differissero da quelli della Dreadnought di Fisher , soddisfaceva i parametri progettuali di base di una nave capitale dotata di soli cannoni di grosso calibro, con dodici cannoni principali da 11 pollici. Nel 1908, la Tirpitz avrebbe autorizzato altre quattro corazzate, insieme ad incrociatori da battaglia corazzati. Nel complesso, il passaggio tedesco alle corazzate fu pressoché fluido, ma se la Tirpitz sperava di sorprendere gli inglesi addormentati al timone, avrebbe avuto un brusco risveglio.
Una corazzata di classe Nassau: la risposta tedesca alla Dreadnought
L’8 dicembre 1908, il governo britannico si insediò per la sua consueta riunione del lunedì mattina. Per la maggior parte dei ministri riuniti, la mattinata sembrò ordinaria, ma uno di loro – il neo-nominato Primo Lord dell’Ammiragliato, Reginald McKenna – era venuto a lanciare una bomba sui lavori. Sulla base di allarmanti informazioni che ora trapelano sul programma di costruzione navale tedesco, McKenna intendeva chiedere al Parlamento di finanziare sei nuove Dreadnought nel 1909, seguite da altre sei nel 1910 e da altre sei nel 1911. Come se l’enormità di questa richiesta non bastasse, McKenna presentò anche la sconvolgente rivelazione che, se questo programma accelerato non fosse stato approvato, sia lui che i Lord del Mare (incluso il Primo Lord del Mare Jacky Fischer) intendevano dimettersi. Le inquietanti informazioni di McKenna sulla Marina tedesca, la sua richiesta di accelerare la costruzione di corazzate e l’ultimatum dei Lord del Mare segnarono l’inizio di un episodio noto in modo inquietante come “The Navy Scare” (la Paura della Marina).
L’improvvisa e inaspettata richiesta di McKenna di ampliare la costruzione segnò un netto cambiamento rispetto alla sensibilità prevalente, che era stata a favore di progetti di legge navali esigui. I liberali, che avevano spazzato via i conservatori dal potere nel 1905, generalmente consideravano le Dreadnought incredibilmente costose e inutili, e non avevano ancora formato il loro governo che iniziarono a tagliare navi dal programma di costruzione: una corazzata a testa fu tagliata dai programmi del 1906 e del 1907 (in modo che ne venissero impostate tre anziché quattro all’anno), e nel 1908 il programma fu ulteriormente ridotto a sole due. Di conseguenza, alla fine del 1908 gli inglesi avevano dodici Dreadnought costruite, in costruzione o approvate, invece delle sedici previste dal vecchio governo conservatore.
In questo contesto, la richiesta di McKenna fu un vero shock. Il Parlamento aveva previsto l’approvazione di altre due corazzate nel 1909, ma il Primo Lord dell’Ammiragliato non solo chiedeva che il numero fosse triplicato a sei, ma anche che questo ritmo accelerato fosse mantenuto per tre anni, minacciando persino di dimettersi se le sue richieste non fossero state accolte, portando con sé l’intero corpo degli ufficiali superiori della Royal Navy. Cosa avrebbe potuto provocare una manovra politicamente così tossica?
La risposta, ovviamente, risiedeva nell’accelerazione della costruzione navale tedesca. Nel 1907, proprio mentre il nuovo governo liberale di Londra stava ridimensionando il programma di costruzione di corazzate britanniche, la Legge Navale tedesca (termine che indica gli stanziamenti annuali per la costruzione navale) prevedeva quattro equivalenti di corazzate, seguiti da altre quattro nel 1908. Quando McKenna stava formulando la sua proposta per un programma ampliato di costruzione di corazzate, l’Ammiragliato aveva calcolato che entro il 1912 (data in cui tutte le navi approvate sarebbero state completate), il primato della Gran Bretagna nel numero di corazzate sarebbe stato di sole sedici corazzate contro le tredici tedesche. Per McKenna, Fisher e gli altri Lord del Mare, questo era chiaramente un margine troppo risicato per essere rassicuranti.
Come Primo Lord dell’Ammiragliato, Reginald McKenna guidò la risposta iniziale all’accumulo di truppe tedesche
Il programma di costruzione tedesco pubblicamente riconosciuto, approvato dal Reichstag, era già abbastanza pessimo e indicava chiaramente che il primato britannico nel settore delle corazzate si sarebbe eroso progressivamente se non fossero state adottate misure correttive. Per l’Ammiragliato britannico, tuttavia, la preoccupazione più inquietante era rappresentata dalle informazioni che suggerivano che la costruzione navale tedesca fosse stata accelerata in segreto.
La questione cruciale in questo caso era la particolare tempistica di costruzione delle corazzate. Il principale vincolo alla costruzione di una corazzata non era, in realtà, la costruzione dello scafo, ma piuttosto la fabbricazione dei cannoni, dei sistemi di torrette e della corazzatura, poiché questi erano entrambi più costosi e laboriosi dello scafo stesso. Ciò significava, in termini pratici, che la costruzione delle corazzate poteva essere accelerata se questi complessi e costosi allestimenti fossero stati completati e organizzati in anticipo. Il calendario generalmente presunto di tre anni per il completamento di una corazzata tedesca poteva teoricamente essere ridotto a soli due, a condizione che venissero emessi opportuni ordini preventivi per armamenti e corazzatura.
In pratica, questo significava che i tedeschi avrebbero potuto teoricamente avere in cantiere molte più navi di quelle pubblicizzate, se avessero ordinato in anticipo cannoni, torrette, mezzi corazzati e motori, o se l’Ammiragliato tedesco avesse ordinato in via preventiva prima di ricevere l’autorizzazione dal Reichstag. Le voci abbondavano – si diceva che la Krupp stesse accumulando enormi magazzini di canne da 12 pollici e acquistando enormi quantità di nichel – ma accertare cosa stesse realmente accadendo nei cantieri navali e negli impianti di lavorazione tedeschi si rivelò difficile. Non aiutava il fatto che Londra fosse ascoltata da industriali britannici (ansiosi di assicurarsi contratti propri), come Herbert Hall Mulliner, amministratore delegato della Coventry Ordnance Works, che tormentava McKenna con storie allarmistiche su un’accelerazione segreta tedesca.
Un punto di riferimento cruciale per le informazioni era l’ambasciatore tedesco a Londra, Paul Wolff-Metternich. Sfortunatamente, Metternich fu spesso lasciato all’oscuro dai suoi superiori a Berlino, incluso l’ammiraglio Tirpitz, il che lo mise in una posizione compromessa e inasprì i suoi rapporti con Lord Edward Grey, il Ministro degli Esteri britannico.
Il problema era piuttosto semplice: i tedeschi, di fatto, ordinavano materiali, impostavano le chiglie e accumulavano attrezzature in anticipo rispetto agli stanziamenti formali del Reichstag. Il motivo per cui lo facevano, tuttavia, non era quello di costruire segretamente più navi di quante ne dichiarassero, ma per banali ragioni legate a costi e contratti. Tirpitz, ad esempio, fece impostare in anticipo diverse chiglie di corazzate (ovvero, prima di essere autorizzato dal Reichstag) perché voleva ottenere un prezzo inferiore ed evitare che i cantieri fossero costretti a licenziare i lavoratori (il che avrebbe potuto di per sé portare a una vertenza sindacale e a prezzi più elevati). Nel complesso, i tedeschi non costruirono mai più navi di quanto consentito dalle leggi navali del Reichstag, ma un Ammiragliato tedesco attento ai costi prolungò i tempi. Sfortunatamente, Metternich – di stanza a Londra e in gran parte escluso da tali questioni – non era a conoscenza di nulla di tutto ciò e, quando pressato da Lord Grey, insistette ripetutamente sul fatto che la Marina tedesca non effettuava ordini anticipati né impostava le chiglie prima dell’approvazione del Reichstag.
Metternich non stava esattamente mentendo: in realtà non sapeva che la Tirpitz avesse anticipato le navi. Ma gli inglesi lo sapevano, e Grey affrontò Metternich con le prove. Quando Metternich telegrafò urgentemente a Berlino chiedendo chiarimenti, Tirpitz spiegò tardivamente la situazione e permise all’ambasciatore di informare Grey che i contratti venivano stipulati preventivamente solo per garantire prezzi migliori. Sfortunatamente, Metternich era ormai stato umiliato e screditato, senza alcuna colpa da parte sua, negando cose che erano effettivamente vere. Grey aveva concluso che Metternich – e per estensione la Tirpitz – stessero dissimulando. Il categorico rifiuto di Berlino di consentire agli addetti navali di visitare i cantieri navali semplicemente per “contare le navi” avvelenò ulteriormente la discussione. Alla fine, gli inglesi sentirono di non avere altra scelta che presumere prudentemente che i tedeschi stessero segretamente accelerando il loro programma di costruzione, con Grey che dichiarò: “Dobbiamo avere un margine di tolleranza contro le bugie”.
Questo, quindi, era il contesto informativo di base del ” Naval Scare” del 1909. La cantieristica navale tedesca era significativa anche all’interno dei parametri legali delle leggi navali del Reichstag. Se la Gran Bretagna non avesse accelerato i propri tempi, il vantaggio della Royal Navy nelle corazzate sarebbe sceso a un mero 16:13 entro il 1912 al più tardi (e forse un anno prima se i tedeschi avessero costruito in anticipo sui tempi previsti), un margine considerato inaccettabilmente risicato. Inoltre, la goffa diplomazia tedesca aveva intensificato i sospetti che i tedeschi stessero segretamente costruendo più di quanto lasciassero trasparire, erodendo ulteriormente il margine di vantaggio.
L’implicazione, quindi, era che gli inglesi non potevano più basare il loro programma navale sui calendari di costruzione ufficiali della Germania, ma dovevano invece misurarsi con la massima capacità teorica della Germania di costruire dreadnought: in altre parole, anziché fidarsi delle leggi navali del Reichstag, la Royal Navy doveva stimare il numero massimo possibile di navi tedesche e reagire di conseguenza. Spostare l’obiettivo dagli stanziamenti tedeschi alla capacità tedesca implicava una radicale accelerazione del programma di costruzione navale britannico, da cui la richiesta pressante di sei navi all’anno da parte di McKenna.
Come avrebbe affermato McKenna in un famoso memorandum del gennaio 1909 al Primo Ministro Herbert Asquith:
Mio caro Primo Ministro:
… Mi è sembrato che un esame delle stime navali tedesche potrebbe rivelarsi utile per dimostrare fino a che punto la Germania stia agendo segretamente e in apparente violazione della sua legge… Sono ansioso di evitare un linguaggio allarmistico, ma non posso resistere alle seguenti conclusioni che è mio dovere sottoporvi:
La Germania anticipa il programma di costruzione navale stabilito dalla legge del 1907.
Lo fa di nascosto.
Nella primavera del 1911 avrà sicuramente 13 grandi navi in servizio.
Probabilmente avrà 21 grandi navi in servizio nella primavera del 1912.
La capacità tedesca di costruire corazzate è attualmente pari alla nostra.
L’ultima conclusione è la più allarmante e, se giustificata, darebbe un duro colpo all’opinione pubblica se venisse resa nota.
La dichiarazione conclusiva ebbe un effetto toccante su Asquith, che era un politico astuto quanto chiunque altro. Non si trattava solo di un imperativo di sicurezza nazionale nel mantenere la supremazia navale britannica; la marina era anche un luogo di orgoglio patriottico, e permettere che venisse eclissata da un rivale straniero avrebbe potuto equivalere a un suicidio politico. Dopotutto, era stato proprio grazie alla mobilitazione del sostegno pubblico che Jacky Fisher, molti decenni prima, aveva dato il via alla modernizzazione dell’artiglieria navale, pubblicando una serie di feroci articoli anonimi che allertavano il pubblico che la Royal Navy stava diventando tecnicamente obsoleta. La minaccia che la marina scavalcasse i politici per fare appello al patriottismo pubblico rimaneva un problema significativo da tenere in considerazione.
Tuttavia, l’espansione del programma di costruzione navale era ancora oggetto di opposizione, persino all’interno del gabinetto di Asquith. L’opposizione si coalizzò attorno al Cancelliere dello Scacchiere, David Lloyd George, e al Presidente del Board of Trade, Winston Churchill, entrambi scettici riguardo ai rapporti dell’Ammiragliato sulla costruzione segreta da parte dei tedeschi e contrari all’aggiunta di corazzate, in quanto spese inutili e spropositate. La “fazione economista” propose di dividere la differenza tra le due corazzate originariamente previste e le sei richieste dagli Ammiragli, con quattro navi per il 1909. Invece, i Lord del Mare reagirono alla richiesta iniziale di McKenna e richiesero non sei, ma otto corazzate nel programma del 1909. L’espansione fu sostenuta da un’ondata di proteste pubbliche, che chiedeva non solo la sicurezza di una flotta più numerosa, ma anche la creazione di posti di lavoro che accompagnava un programma di costruzione più ampio. Lo stato d’animo dell’opinione pubblica fu sintetizzato nel conciso slogan del Partito Conservatore: “Ne vogliamo otto e non aspetteremo”. Nonostante il dissenso di Lloyd George e Churchill, il gabinetto Asquith presentò le sue otto navi al Parlamento, con Grey che ne fornì un’ardente difesa il 28 marzo, e gli stanziamenti furono approvati con 353 voti a favore e 135 contrari.
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Il Dreadnought
È difficile enfatizzare troppo la drammatica inversione di tendenza che segnò per il governo liberale. Il governo liberale si era appena insediato prima di iniziare a tagliare le navi dal programma di costruzione, eliminando un totale di quattro dreadnought tra il 1906 e il 1908. Poi, nell’arco di poco più di tre mesi, il panico totale per le voci di un programma tedesco segretamente accelerato portò il governo alla frenesia. Il 1909 avrebbe dovuto portare solo due dreadnought aggiuntive, ma McKenna fece saltare la diga con la sua richiesta iniziale di sei, per poi vederla lievitare a otto. Churchill, da sempre un esperto di parole, descrisse la situazione in questo modo:
Alla fine fu raggiunta una soluzione curiosa e caratteristica. L’Ammiragliato aveva chiesto sei navi, gli economisti ne avevano proposte quattro e alla fine ci siamo accordati su otto.
Forse il fattore che più contraddistingue la paura della Gran Bretagna per la Marina del 1909 è che si dimostrò sostanzialmente infondata, ma fu esacerbata dalla diplomazia tedesca incerta che stava ormai diventando una routine. I tedeschi, infatti, posavano le chiglie e ordinavano le torrette in anticipo, ma il ragionamento di Tirpitz, secondo cui ciò serviva per ottenere prezzi migliori, era fondamentalmente vero, e la Germania non costruì più dreadnought di quanto pubblicizzato né accelerò le date di consegna. Così, nel 1912 la Germania aveva 13 dreadnoughts commissionate, proprio come promesso dalle leggi navali. A seguito del panico britannico, la Royal Navy poté rispondere con 22 dreadnoughts.
Ciò rappresentò un grave fallimento della diplomazia tedesca. Tirpitz e il Kaiser tennero all’oscuro il loro stesso ambasciatore, portando Metternich ad annaspare alla cieca nel tentativo di placare i timori britannici, con i suoi superiori apparentemente ignari di come questa dissimulazione diplomatica sarebbe stata presa. La supremazia della flotta da battaglia britannica era considerata, senza esagerazione, l’unico pilastro della sua sicurezza ed era inevitabile che la risposta a qualsiasi minaccia, per quanto credibile, sarebbe stata energica. In questo caso, l’incapacità della Germania di impegnarsi diplomaticamente con gli inglesi portò alla rapida espansione della flotta britannica.
Quando il Primo Lord del Mare Jacky Fisher costruì la Dreadnought, non aveva in mente i tedeschi. In effetti, non c’è una sola menzione della Germania in nessuno dei documenti esistenti relativi alla costruzione della nave. Ciononostante, costruendo la sua supernave, Fisher ha accidentalmente scoperto un bluff tedesco di cui non si era nemmeno accorto. .
Nel 1905, Tirpitz aveva già iniziato da diversi anni un’ambiziosa espansione della flotta che era implicitamente, anche se non esplicitamente, progettata per sfidare la Royal Navy per la supremazia marittima nel Mare del Nord. Per Tirpitz, questa era la raison d’être della marina: “La nostra flotta deve essere costruita”, disse al Kaiser, “in modo che possa dispiegare il suo massimo potenziale militare tra Helgoland e il Tamigi”. Dato l’enorme vantaggio della Royal Navy e le relazioni generalmente cordiali tra i due Paesi, tuttavia, il programma di Tirpitz non suscitò inizialmente allarme in Gran Bretagna. Con la costruzione della Dreadnought, tuttavia, Fisher costrinse accidentalmente Tirpitz a togliersi la maschera e a imbarcarsi in una costosa produzione per eguagliare le nuove potenti navi britanniche. La sfida subdola di Tirpitz alla Royal Navy divenne palese e fece precipitare la Germania in una corsa alla costruzione navale che non avrebbe potuto vincere. .
L’effetto netto di tutto ciò, purtroppo, fu che la politica estera della Germania divenne subordinata alla sua politica degli armamenti. Ancora nel 1895, la Germania pianificava la guerra per scenari che coinvolgevano la Francia e la Russia, con la Gran Bretagna come neutrale benevola. Al volgere del secolo, tuttavia, la politica degli armamenti tedesca era diventata sempre più orientata contro la Gran Bretagna – prima implicitamente, con le prime Leggi Navali, e poi più apertamente, quando Tirpitz cambiò marcia per adeguarsi alla costruzione di dreadnought britanniche. Durante l’allerta navale del 1909, i tedeschi non si lasciarono sfuggire l’opportunità di attenuare la crisi e la maldestra diplomazia tedesca garantì una rapida e decisa reazione britannica.
Tali erano le conseguenze delle nevrosi istituzionali della Germania. A differenza del sistema britannico, non esisteva un’autorità civile sulla Marina, né un Lord dell’Ammiragliato, né un forte esecutivo civile in grado di esercitare una supervisione. C’era solo Tirpitz. Il Reichstag manteneva l’autorità finale sulle spese, naturalmente, ma dal 1898 in poi Tirpitz aveva le basi dell’opinione pubblica ben consolidate e in genere otteneva ciò che chiedeva. Così il Kaiser e l’Ammiraglio, con lo spettro di Mahan che aleggiava nelle loro menti, lanciarono la loro ricerca del potere marittimo e si lanciarono in una corsa agli armamenti con la più grande potenza navale dell’epoca.
La svolta strategica della Gran Bretagna
Una delle peculiarità del piano di Tirpitz era il fatto che egli sapeva chiaramente che era impossibile. Nonostante l’esplosiva crescita economica della Germania, era inevitabile che gli inglesi potessero costruire più navi, purché lo volessero. Il potere finanziario della Gran Bretagna, i suoi ampi impianti di costruzione navale e gli impegni relativamente economici dell’esercito (a differenza della Germania, che manteneva l’esercito più costoso d’Europa), erano vantaggi semplicemente insuperabili.
Sapendo che era impossibile superare gli inglesi in una gara testa a testa, Tirpitz si appoggiò a due argomenti. Il primo era la cosiddetta “teoria del rischio”, secondo la quale la Germania non aveva bisogno, in senso stretto, di una marina più grandedi quella britannica, ma doveva essere abbastanza competitiva da dissuadere la Royal Navy dal combattere una battaglia campale con la massa della flotta tedesca. Il secondo argomento di Tirpitz era la convinzione che la Royal Navy, con i suoi lontani impegni imperiali, sarebbe stata costretta a mantenere le sue flotte disperse e quindi incapace di concentrare le sue risorse nel Mare del Nord. Pertanto, i tedeschi non stavano cercando di superare la Royal Navy in generale, ma solo le sue flotte settentrionali. .
Squadriglie di corazzate della Royal Navy
Sfortunatamente per la Germania, essa contribuì con le proprie azioni a un decisivo cambio di rotta strategico britannico, con il quale la Royal Navy iniziò sistematicamente a concentrare le proprie forze intorno al Mare del Nord in risposta alla sfida tedesca. La Gran Bretagna, quindi, realizzò uno spostamento strategico complementare. Mentre fino agli anni Novanta del XIX secolo sia la Gran Bretagna che la Germania continuavano a guardare alla Francia e alla Russia come probabili avversari, nel 1912 entrambe avevano fatto perno l’una contro l’altra. Per la Germania ciò ebbe una conseguenza disastrosa e assistette alla sistematica concentrazione della potenza navale britannica per combattere nel Mare del Nord.
Questo processo richiese una revisione sistematica della politica di alleanze della Gran Bretagna e degli obiettivi dichiarati della sua politica navale. Il processo può essere compreso in due elementi costitutivi: in primo luogo, una ristrutturazione del sistema di alleanze britannico e, in secondo luogo, una riorganizzazione totale della struttura della flotta della Royal Navy per concentrare la potenza di combattimento nel Mare del Nord.
Per molti versi, la ristrutturazione della forza navale britannica era attesa da tempo. Nel 1904, la Royal Navy manteneva ancora nove flotte, molte delle quali, pur essendo potenti, erano decisamente messe in ombra dalle potenze regionali. In particolare, le prospettive dello squadrone nordamericano sarebbero state scarse in una guerra contro la crescente Marina degli Stati Uniti, che si era espansa rapidamente sotto il presidente Theodore Roosevelt, mentre lo squadrone britannico per la Cina era ampiamente superato dalla Marina giapponese.
La Gran Bretagna affrontò questi problemi impegnandosi diplomaticamente con le potenze interessate. Nel 1902 fu firmata un’alleanza formale anglo-giapponese che rappresentò un immenso vantaggio per la posizione strategica della Gran Bretagna. In un colpo solo, Londra spostò la marina più potente dell’Asia orientale nella colonna degli amici, mitigando non solo la possibilità di una guerra con il Giappone, ma anche fornendo un potente ausiliario per controbilanciare la marina russa nell’estremo oriente. Si trattava di un vantaggio teorico che divenne presto realtà, quando i giapponesi sconfissero i russi a Tsushima. Nel teatro nordamericano, il miglioramento delle relazioni con gli Stati Uniti permise un ritiro. Nel 1905, i britannici iniziarono a ritirarsi completamente dalla loro principale base navale di Halifax (trasferendo la struttura al governo canadese) e nel 1907 la Royal Navy procedette all’abolizione totale della sua stazione nordamericana.
Si trattava di un trucco pulito che consentiva ai britannici di iniziare rapidamente a scalfire i teatri strategici. Più vicino a noi, tuttavia, la politica continuava a essere orientata in qualche modo verso la Francia. La flotta britannica più potente al mondo era la Mediterranean Fleet, con base a Malta: disponeva di otto delle più potenti navi da battaglia britanniche ed era schierata quasi esplicitamente per scenari di guerra contro la Francia. Nel 1904, tuttavia, i governi britannico e francese firmarono un’intesa coloniale che contribuì molto a stemperare le tensioni tra i due paesi. Sebbene l’intesa non costituisse un sistema formale di alleanza e non creasse obblighi vincolanti per nessuna delle due parti, essa mise gli inglesi sulla strada della concentrazione della forza contro la Germania.
La Grande Flotta della Royal Navy al largo della Scozia
Come sempre, la diplomazia tedesca con il pugno di ferro peggiorò notevolmente il problema per Berlino. Un episodio emblematico fu la cosiddetta Crisi di Agadir, quando i tedeschi misero in atto una manovra brutale e mozzafiato proprio in Marocco. Nel 1911, in Marocco scoppiò una rivolta contro il sultano fantoccio francese e i francesi dispiegarono truppe di terra in risposta. La Germania, opportunista come sempre, pretese che i francesi le concedessero concessioni coloniali altrove in cambio del riconoscimento tedesco di un protettorato francese in Marocco e inviò una cannoniera, la SMS Panther, nel porto marocchino di Agadir come dimostrazione di forza, seguita a ruota da un incrociatore, il Berlin..
Sebbene la crisi di Agadir si sia risolta senza spargimenti di sangue tra francesi e tedeschi, con i francesi che cedettero alla Germania alcuni territori dell’Africa equatoriale in cambio del Marocco, essa sottolineò a tutte le parti l’avventatezza e la volatilità dell’aggressione strategica tedesca e rasserenò ulteriormente le relazioni tra Francia e Gran Bretagna. Mentre gli statisti tedeschi si illudevano che una simile dimostrazione di forza avrebbe intimidito la Gran Bretagna, che si sarebbe impegnata a sostenerli, in realtà gli inglesi si scandalizzarono per la mancanza di tatto diplomatico della Germania e appoggiarono i francesi. Ma la Germania era in fibrillazione; Ernst von Heybrand, leader del partito conservatore, inveì contro l’Inghilterra:
Come un lampo nella notte, tutto questo ha mostrato al popolo tedesco dove si trova il nemico. Ora sappiamo, quando vogliamo espanderci nel mondo, quando vogliamo avere il nostro posto al sole, chi è che pretende di dominare il mondo intero. Signori, noi tedeschi non abbiamo l’abitudine di permettere questo genere di cose e il popolo tedesco saprà come rispondere… Ci assicureremo la pace non con le concessioni, ma con la spada tedesca.
Anche se non si arrivò subito alle mani, Agadir aprì la strada a un ulteriore riallineamento del potere navale britannico in relazione a Francia e Germania e alla definitiva concentrazione della potenza di combattimento britannica nel Mare del Nord. Le otto corazzate britanniche a Malta – il nucleo della potente Flotta del Mediterraneo – furono richiamate. Quattro tornarono a casa in Gran Bretagna, mentre quattro vennero dislocate a Gibilterra, dove avrebbero potuto dispiegarsi in modo flessibile verso la Manica, l’Atlantico o il Mediterraneo, a seconda delle necessità. Quasi contemporaneamente, i francesi annunciarono che le corazzate della loro flotta atlantica si sarebbero trasferite da Brest al Mediterraneo.
I tedeschi, osservando come sia i francesi che gli inglesi concentrassero le loro navi da guerra in teatri diversi, sospettarono immediatamente che fosse stato concluso un accordo, in base al quale i francesi avrebbero potuto concentrarsi nel Mediterraneo mentre gli inglesi avrebbero sorvegliato l’Atlantico e il Mare del Nord. In realtà, non esisteva alcun accordo formale tra Parigi e Londra a questo proposito, anche se i francesi premevano molto per ottenerlo. Piuttosto, la crisi di Agadir aveva messo in evidenza le relative esigenze strategiche delle parti. Per la Francia, l’unico obiettivo indispensabile della Marina era quello di salvaguardare il collegamento della Francia con le sue colonie nordafricane; pertanto, una concentrazione nel Mediterraneo era essenziale. Per la Gran Bretagna, la crescente assertività della Germania e l’accumulo di potenza navale erano ora il principale oggetto di ansia. Dopo aver sistematicamente minimizzato il rischio di guerra in altri teatri impegnandosi diplomaticamente con il Giappone, gli Stati Uniti e la Francia, la Royal Navy aveva ora mano libera per concentrare la potenza di combattimento contro la Marina tedesca.
La decisione di ridurre la Flotta del Mediterraneo – a lungo il comando britannico più potente e prestigioso – non fu incontestabile e attirò ogni sorta di critica. Ma il Primo Lord dell’Ammiragliato, Winston Churchill, fu irremovibile, sostenuto dall’autorevole voce di Jacky Fisher che, sebbene in pensione dal 1910, era stato un forte sostenitore della concentrazione della flotta. Il 6 maggio 1912, Churchill scrisse:
Non possiamo tenere il Mediterraneo o garantire i nostri interessi lì finché non avremo ottenuto una decisione nel Mare del Nord… Sarebbe molto sciocco perdere l’Inghilterra per salvaguardare l’Egitto. Se vinciamo la grande battaglia nel teatro decisivo, dopo potremo sistemare tutto il resto. Se la perdiamo, non ci sarà nessun dopo.
Churchill inviò a Malta uno squadrone di incrociatori da battaglia, soprattutto come contentino ai funzionari coloniali britannici che sostenevano di essere stati messi all’angolo, ma a questo punto il suo sguardo era rivolto alla minaccia che si stava gonfiando attraverso il Mare del Nord. L’11 luglio parlò in termini inequivocabili al Comitato di Difesa Imperiale:
L’intero carattere della flotta tedesca dimostra che è stata progettata per un’azione aggressiva e offensiva del più grande carattere possibile nel Mare del Nord o nell’Atlantico settentrionale… Non pretendo di suggerire che i tedeschi ci attacchino a sorpresa o all’improvviso. Non sta a noi supporre che un’altra grande nazione scenda nettamente al di sotto dello standard di civiltà a cui noi stessi dovremmo essere vincolati; ma noi dell’Ammiragliato dobbiamo renderci conto non che non lo faranno, ma che non possono farlo.
La concentrazione finale della potenza di combattimento britannica era ormai completa. Nel 1905, le navi da battaglia britanniche erano state disperse in diversi comandi: otto navi a Malta, otto a Gibilterra, dodici nella flotta della Manica a Dover e tredici nella riserva. Nel 1912, i britannici avevano concentrato praticamente tutte le loro navi da guerra in una Home Fleet allargata (che fu rinominata Grand Fleet allo scoppio della guerra) intorno alle isole britanniche. Quando finalmente la guerra arrivò nel 1914, la Grand Fleet britannica comprendeva 22 dreadnoughts, con altre 15 in costruzione. Contro questa forza colossale, il piano generale di Tirpitz prevedeva 15 navi e altre cinque in costruzione. Quando le flotte si incontrarono finalmente in battaglia allo Jutland, sarebbero state 28 dreadnought britanniche contro 16 navi tedesche. .
Winston Churchill come Primo Lord dell’Ammiragliato
Per aggiungere il danno alla beffa, nel 1912 la Royal Navy varò la prima super-dreadnought sotto forma della classe Queen Elizabeth. Queste navi erano più veloci delle dreadnoughts esistenti, grazie all’uso esclusivo di olio combustibile (anziché di carbone), e notevolmente meglio armate. Con una batteria principale di cannoni da 15 pollici, la Queen Elizabeth e le sue compagne sparavano proiettili che pesavano ben 1.400 libbre: Il 40% più pesanti dei proiettili più grandi allora in uso dai tedeschi. Anche se Tirpitz avrebbe seguito con le sue super-dreadnoughts della classe Bayern, le superstrade britanniche avrebbero superato i tedeschi di 5:2. Come in tutte le cose, i tedeschi semplicemente non potevano tenere il passo in una gara che avevano iniziato volontariamente. Come in tutte le cose, i tedeschi non riuscirono a tenere il passo in una gara che avevano volontariamente iniziato. .
Il Bayern – Supercorazzata tedesca
Tutto questo era il risultato di una politica tedesca che era diventata contorta e slegata, con la politica degli armamenti navali – guidata dalla singolare figura dell’ammiraglio Tirpitz – che guidava la sua politica estera. All’inizio degli anni Novanta del XIX secolo, non c’era nulla di innato nella visione strategica della Germania che la costringesse a iniziare unilateralmente una gara di costruzioni navali contro gli inglesi; circondata dal blocco franco-russo e già gravata dall’esercito più costoso del continente, Berlino non aveva bisogno di cercare un nemico oltre il Mare del Nord. C’erano nemici in abbondanza alle sue porte.
Il potenziamento navale della Germania deve quindi essere inteso come una scelta che inimicò inutilmente la Gran Bretagna e portò direttamente alla concentrazione della potenza navale britannica nel Mare del Nord. È difficile immaginare una mossa geostrategica più controproducente: l’intero scopo della grande flotta di Tirpitz era quello di ottenere la “supremazia marittima” nel Mare del Nord, ma invece contribuì materialmente alla concentrazione della più grande flotta da battaglia del mondo proprio lì, nel Mare del Nord. Ciò non deve essere interpretato come un’argomentazione pregiudizialmente contraria alla Germania, che si schiera strettamente con la linea britannica. In effetti, all’interno della Germania vi erano molti partiti che si opponevano al potenziamento di Tirpitz proprio per questi motivi. Una marina limitata e orientata alla difesa costiera, con una modesta forza di incrociatori, era andata bene all’establishment navale tedesco fino all’arrivo di Tirpitz e del Kaiser Guglielmo II, e molti vedevano la follia di cercare di tenere il passo con gli inglesi. Un politico tedesco, inveendo contro le leggi navali, sosteneva che:
Credere che con la nostra flotta, sì, anche se finita fino all’ultima nave richiesta da questa legge, potremmo imbracciare i bastoni contro l’Inghilterra, è avvicinarsi al regno della follia. Coloro che lo richiedono non appartengono al Reichstag, ma al manicomio.
Tirpitz, naturalmente, ottenne le sue leggi navali, ma poco altro procedette secondo il suo piano. La costruzione navale britannica accelerò in risposta (Churchill decretò che la Gran Bretagna avrebbe costruito due dreadnought per ogni nave in costruzione in Germania), le forze della Royal Navy erano state richiamate e concentrate nel Mare del Nord, e la teoria secondo cui una marina forte avrebbe costretto le potenze straniere a cercare alleanze con la Germania era andata terribilmente male. Invece, nel 1912 la Germania era sostanzialmente isolata in Europa, con l’unica, malaticcia eccezione dell’Austria-Ungheria.
Nel frattempo, le spese navali erano aumentate a dismisura. Nel 1898, le spese navali tedesche erano state inferiori al 20% del bilancio dell’esercito: un accordo ragionevole, data la posizione precaria della Germania nel mezzo del blocco franco-russo. Nel 1911, tuttavia, la Marina aveva fatto passi da gigante e consumava il 55% del bilancio dell’esercito. L’onere fiscale stava finalmente diventando intollerabile e le elezioni del 1912 portarono al potere i socialdemocratici e l’esercito riprese slancio nella ricerca di fondi. A partire dal 1912, i fondi per la marina cominciarono a diminuire precipitosamente rispetto agli stanziamenti per l’esercito.
E così fu. Tirpitz aveva rivoluzionato la marina, anche se a un costo terribile. Da una languente forza di difesa costiera, aveva guidato quasi da solo un’orgiastica corsa alla costruzione di navi che aveva trasformato la Marina imperiale tedesca nella seconda più grande del mondo, ma così facendo aveva galvanizzato una flotta molto più grande che si era mobilitata e concentrata contro di lui. Tirpitz aveva ampiamente sostenuto che il destino della Germania sarebbe stato imperniato su una battaglia decisiva per la supremazia nel Mare del Nord, ma questa profezia si era autoavverata, e la diplomazia incerta e incoerente della Germania non era riuscita a fornire meccanismi correttivi.
Il luogo era stato scelto. Non restava che sistemare i pezzi sulla scacchiera.
La scacchiera: Geografia navale europea
Per la Royal Navy, il riorientamento della pianificazione e delle aspettative verso una guerra con la Germania, piuttosto che con la Francia, richiese cambiamenti fondamentali a tutti i livelli della guerra: strategico, operativo, tattico e tecnico. Le considerazioni strategiche sono state ampiamente discusse in questa sede: in particolare, il ridispiegamento delle risorse navali disperse, in particolare le navi da battaglia, per concentrare la potenza di combattimento nel Nord Europa. Tuttavia, c’erano molte altre considerazioni oltre al semplice richiamo di squadroni da battaglia nella flotta nazionale. C’erano anche questioni fondamentali su dove e come la flotta avrebbe dovuto dispiegarsi e su come sarebbe stato il combattimento navale.
Questi interrogativi furono resi più pressanti dalla crisi di Agadir. Se da un lato il risultato più importante di Agadir fu il crescente allontanamento dalla Germania e il generale disgusto britannico per la politica estera tedesca, dall’altro generò un vero e proprio allarme guerra. Durante la crisi, il ministro degli Esteri britannico, Lord Grey, inviò una nota all’Ammiragliato in cui si affermava che:
Abbiamo a che fare con un popolo che non riconosce alcuna legge se non quella della forza tra le nazioni e la cui flotta è mobilitata in questo momento.
Cominciarono a circolare voci che la flotta d’altura tedesca si era già mobilitata, o stava per farlo, nel Mare del Nord e che avrebbe potuto sferrare un attacco a sorpresa alla Royal Navy alla fonda. L’attacco a sorpresa del Giappone a Port Arthur potrebbe essere stato nella mente degli inglesi in questo periodo.
Il 23 agosto, nel pieno della crisi di Agadir, il Primo Ministro Herbert Asquith convocò una riunione segreta del Comitato di Difesa Imperiale e invitò l’esercito e la marina a presentare i loro piani di guerra per un conflitto con la Germania. L’esercito lo fece, con dettagli approfonditi ed esaustivi. Il generale Sir Henry Wilson, direttore delle operazioni militari, delineò un quadro che si rivelò un’immagine straordinariamente accurata del 1914. Le forze tedesche si sarebbero concentrate contro la Francia, con l’ala destra dell’esercito tedesco che avrebbe attraversato il Belgio per aggirare la rete di fortezze francesi alla frontiera. La British Expeditionary Force sarebbe stata trasportata in Francia il più velocemente possibile per rinforzare l’ala francese lungo il confine belga. Tutto era pronto, con orari ferroviari programmati in modo così preciso che alle truppe sarebbe stata concessa una pausa tè di dieci minuti.
Il contrasto tra l’Esercito e la Marina in questa riunione non avrebbe potuto essere più netto. Mentre l’Esercito era pronto ad esporre una visione dettagliata e finemente sintonizzata delle sue operazioni, l’ammiraglio Sir Arthur Wilson (che aveva sostituito Jacky Fisher come Primo Lord del Mare nel 1910) parlò in termini generali. Anzi, si risentiva di essere costretto a parlare: sia Fisher che Wilson ritenevano che i piani di guerra fossero prerogativa esclusiva del Primo Lord del Mare e che dovessero essere tenuti segreti sia all’esercito che ai politici.
Il piano della Marina, così come era stato delineato dall’Ammiraglio Wilson, consisteva nell’iniziare un blocco ravvicinato delle coste tedesche, provocare la flotta d’alto mare tedesca a uscire per combattere e poi distruggerla. Rivolgendosi all’esercito, confessò di non poter garantire che le navi sarebbero state disponibili per scortare le truppe in Francia, e suggerì che la Marina riteneva che l’esercito non dovesse affatto andare in Francia, ma dovesse invece essere sbarcato sulla costa baltica della Germania per attaccare Berlino. Si trattava di un suggerimento insensato e quando lo staff dell’Esercito chiese se Wilson avesse consultato di recente una mappa della rete ferroviaria tedesca, Wilson rispose che “non era compito dell’Ammiragliato avere tali mappe”.
Il contrasto, da un lato, tra i dettagliati piani di guerra e le attente analisi dell’Esercito e, dall’altro, i monologhi vaghi e speculativi della Marina, fece una forte impressione sui membri del Gabinetto presenti. Il Segretario alla Guerra, Richard Haldane, disse ad Asquith:
Il fatto è che gli ammiragli vivono in un mondo tutto loro… Il metodo Fisher, che Wilson sembra seguire, secondo cui i piani di guerra dovrebbero essere chiusi nel cervello del Primo Lord del Mare, è obsoleto e poco pratico. I nostri problemi di difesa sono troppo numerosi e complessi per essere trattati in questo modo.
Questo incidente portò direttamente alla rimozione di Reginald McKenna da Primo Lord dell’Ammiragliato e alla sua sostituzione con Winston Churchill. Sotto gli auspici di Churchill, la Marina avrebbe sviluppato un piano di guerra più coerente per l’eventuale conflitto con la Germania.
Per molti versi, la forte identificazione della Germania come principale avversario semplificò le cose per gli inglesi. Nella seconda metà del XIX secolo, la principale preoccupazione britannica era come contrastare la guerra di incrociatori condotta dalla Francia. Il timore era che incrociatori veloci e siluri avessero reso obsoleta la flotta da battaglia convenzionale; incrociatori veloci e corazzati avrebbero potuto soffocare la navigazione britannica senza mai presentare una massa nemica consolidata per la battaglia. La Germania, tuttavia, aveva specificamente evitato la guerra con gli incrociatori (Tirpitz sosteneva che la mancanza di basi all’estero rendeva impraticabile una strategia di incursione commerciale) e aveva invece puntato tutto sulla flotta da battaglia.
Ciò semplificò notevolmente le cose per gli inglesi sotto molti aspetti. È piuttosto singolare, ad esempio, che il programma sottomarino tedesco sia stato molto trascurato sotto Tirpitz, e non solo a causa del famoso programma U-Boat tedesco. Dopotutto, Tirpitz aveva avuto una formazione nel campo dei siluri e aveva personalmente diretto il programma di siluramento della Marina all’inizio della sua vita. Nonostante il pedigree del vecchio ammiraglio, egli aveva assorbito appieno l’etica di Mahan della battaglia decisiva della flotta e del controllo del mare, e durante il suo mandato di Segretario di Stato alla Marina il nome del gioco era nave da guerra. Questo permise agli inglesi di concentrare la loro pianificazione sulla prospettiva di una battaglia decisiva con la flotta d’altura tedesca, piuttosto che preoccuparsi della navigazione commerciale, dei raider sottomarini e della guerra degli incrociatori a lungo raggio.
I siluri, tuttavia, avevano cambiato il gioco in modo fondamentale. Era ormai troppo pericoloso condurre un blocco ravvicinato del nemico, con navi che si aggiravano vicino alla costa nemica e occupavano fisicamente l’ingresso dei porti. La sosta così vicina alle coste nemiche per un periodo prolungato esponeva la flotta all’attacco delle torpediniere nemiche, e anche con l’uso appropriato dei cacciatorpediniere di sorveglianza, il rischio che costose navi capitali venissero colpite dai siluri era troppo grande per poterlo tollerare.
La soluzione, tuttavia, era stata individuata da Jacky Fisher già nel 1906. Fisher e il suo staff avevano concluso che, anche se un blocco ravvicinato delle coste tedesche era troppo pericoloso, la Germania poteva essere bloccata a lungo raggio mantenendo una forte presenza della Royal Navy all’estremità settentrionale del Mare del Nord e, naturalmente, nel canale. Questa divenne la forma di blocco che venne infine adottata durante la Prima Guerra Mondiale: le navi commerciali dirette in Germania venivano intercettate lungo la linea tra la Scozia e la Norvegia, piuttosto che da navi britanniche che si aggiravano direttamente al largo della costa tedesca.
Il blocco a distanza aveva un secondo vantaggio: stazionando la flotta molto a nord, poteva essere posizionata a una distanza di sicurezza tale da non poter essere attaccata a sorpresa dai cacciatorpediniere tedeschi. I giapponesi, ancora una volta, avevano dimostrato la potenza di una simile manovra quando i loro cacciatorpediniere erano salpati senza preavviso a Port Arthur e avevano iniziato a scaricare siluri sulla flotta russa ancorata. Il blocco a lungo raggio ovviava a tali vulnerabilità e teneva la Grand Fleet britannica lontana dalle mine e dalle torpediniere tedesche.
Ciò che risalta maggiormente del piano di blocco britannico, tuttavia, è che esso era visto principalmente come un mezzo per indurre la flotta d’alto mare tedesca a scendere in battaglia, in modo da poterla annientare; inoltre, la distruzione della flotta tedesca era vista come auspicabile soprattutto per poter liberare la potenza marittima britannica per altri usi. I pianificatori britannici presumevano che un blocco prolungato sarebbe stato fondamentalmente intollerabile per la Germania e che la flotta d’alto mare sarebbe stata costretta per necessità a uscire e a cercare di romperlo. Gli inglesi non compresero fino a che punto la flotta tedesca stessa fosse l’oggetto della politica navale tedesca; una volta iniziata la guerra, la leadership tedesca ritenne più importante mantenere la flotta in vita piuttosto che rompere il blocco. La volontà della Germania di sopportare semplicemente le privazioni del blocco, piuttosto che rischiare la flotta in battaglia, confuse le aspettative britanniche e lasciò perplessa la leadership britannica durante la guerra.
La scacchiera: La geografia navale del Mare del Nord
Il piano di blocco ha riportato in auge un fatto eterno e centrale della geografia europea: l’esistenza della Gran Bretagna, quell’isola meravigliosa che si aggirava come un’aquila ad ali spiegate al largo delle coste del continente. La Germania, come la Francia di un tempo, si trovava ora ad affrontare l’antico problema: il suo accesso al mondo esterno doveva passare attraverso la Manica o il Mare del Nord, oltre la Scozia. Sia la Repubblica olandese che la Francia erano naufragate su questo scoglio nei secoli passati, e la Germania non poteva aspettarsi di meglio.
Per la Germania, la geografia navale dell’Europa offriva un’ulteriore complicazione. Con la Francia e la Russia confinanti sia con i confini orientali che con quelli occidentali, il problema dei due fronti dell’esercito tedesco è ben compreso, così come il tentativo di risolvere la crisi concentrando le forze per tentare un colpo di grazia alla Francia prima che la Russia potesse mobilitarsi ed entrare in guerra in forze. Ciò che è meno apprezzato, tuttavia, è che la Marina tedesca si trovò ad affrontare una propria variante del problema dei due fronti, con la Germania che doveva affrontare potenziali minacce marittime sia a est che a ovest.
Anche prima del perno finale contro la Royal Navy, l’ammiragliato tedesco era preoccupato per la possibilità di combattere sia la Marina francese nel Mare del Nord *che* la Flotta russa del Baltico. Mentre l’esercito cercò di mitigare il problema dei due fronti con un ingegnoso schema di manovra, la marina si affidò alle linee di comunicazione interne. L’elemento centrale era il canale di Kiel, inaugurato nel 1895. L’importanza del canale è quasi impossibile da sopravvalutare, in quanto semplificò enormemente le cose per la Marina tedesca, consentendole di coprire entrambi i mari con un’unica flotta.
Quando l’orientamento strategico tedesco si orientò verso la Gran Bretagna e la minaccia della Flotta russa del Baltico diminuì, il canale mantenne la sua criticità strategica, perché impedì agli inglesi di tentare operazioni navali nel Baltico. Il motivo era che, grazie al Canale di Kiel, la Flotta tedesca poteva spostarsi tra il Mar Baltico e il Mare del Nord molto più velocemente di quanto potesse fare la Royal Navy (le navi britanniche avrebbero dovuto attraversare lo Skagerrak e il Kattegat e passare dalla neutrale Danimarca). Mentre la rotta britannica verso il Baltico intorno alla Danimarca comportava un viaggio di oltre 400 miglia, la linea del canale offriva alla flotta tedesca un percorso rettilineo di circa 61 miglia e conferiva un enorme vantaggio in termini di velocità e flessibilità operativa.
Non c’è da stupirsi, quindi, che Jacky Fisher avesse previsto con anni di anticipo che la guerra sarebbe scoppiata nel 1914: non a causa di qualcosa legato ai Balcani o all’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, ma perché questo era l’anno in cui i tedeschi avrebbero completato il loro progetto di allargare il canale di Kiel per ospitare navi da battaglia di dimensioni rasta. Questo era un prerequisito assoluto per il successo delle operazioni navali tedesche.
L’apertura del canale di Kiel
Un’ulteriore considerazione per la Germania era la base relativamente limitata che aveva nel Mare del Nord. La base principale e originaria della Marina tedesca era a Kiel, sul Mar Baltico. Sul Mare del Nord, possedeva una sola base, a Wilhelmshaven. Possedendo una sola installazione nel Mare del Nord, questo limitava notevolmente il loro potenziale di sortita per l’azione, in quanto i britannici dovevano solo ricognire Wilhelmshaven. D’altro canto, i britannici potevano ancorare le navi in un numero qualsiasi di basi sulla costa della Gran Bretagna, ad esempio a Dover, Hull, Rosyth o nell’ancoraggio principale di Scapa Flow. Ciò significa che, in generale, per gli inglesi era relativamente più facile sorvegliare e monitorare la flotta tedesca che non viceversa. Inoltre, la base di Wilhelmshaven non era certo un ancoraggio ideale. La baia di Jade, dove la flotta d’altura tedesca gettava l’ancora, è alimentata dai fiumi Weser ed Elba e tende quindi a sviluppare forti accumuli di limo. L’ancoraggio doveva quindi essere dragato quasi continuamente e la flotta tedesca non poteva uscire liberamente: in genere ci volevano due alte maree perché l’intera flotta uscisse dalla baia.
Per tutte queste ragioni, quindi, la conquista tedesca del Belgio nell’anno iniziale della guerra offrì un nuovo potenziale allettante per la marina. In particolare, il possesso tedesco del cosiddetto “triangolo” di porti (costituito da Ostenda, Zeebrugge e Bruges) forniva una base operativa a breve distanza dall’estuario del Tamigi, dove potevano essere attaccate le navi in arrivo a Londra. I cacciatorpediniere tedeschi che operavano dal triangolo potevano raggiungere la foce del Tamigi in sole quattro ore, mentre le navi basate a Wilhemshaven impiegavano 16 ore per compiere il viaggio.
Non si trattava solo di una questione di velocità ed efficienza: il viaggio più breve dal Belgio permetteva ai cacciatorpediniere tedeschi di compiere l’intero viaggio di andata e ritorno in una sola notte, l’unico modo in cui potevano operare vicino alla costa britannica senza essere catturati e distrutti dalle navi britanniche più pesanti. Date le possibilità operative offerte dal triangolo, non c’è da stupirsi che la neutralità belga fosse un punto fermo della politica estera britannica. In effetti, non è esagerato affermare che l’unica ragione per cui il Belgio esiste è il progetto britannico di tenere una geografia così strategicamente importante fuori dalle mani del nemico, sia esso francese o tedesco.
Conclusione: Il naufragio del Master Plan
La competizione navale anglo-tedesca è stata un episodio straordinario nella lunga storia della geopolitica. Si pone, praticamente da solo e in modo unico, come un esempio di politica degli armamenti condotta in un vuoto geostrategico, svincolata da preoccupazioni strategiche più ampie, vincoli fiscali, diplomazia o pianificazione bellica. Nell’arco di due decenni, la Marina imperiale tedesca si è trasformata da una forza di difesa costiera insignificante nella seconda flotta da battaglia più grande del mondo. Sfortunatamente, questo enorme aumento di potenza di combattimento fu condotto senza un chiaro senso di come la flotta si sarebbe inserita nei piani di guerra tedeschi o nella politica estera del Paese in generale.
Ciò era in parte dovuto alla curiosa struttura istituzionale della Marina, che compartimentava le responsabilità di comando e non prevedeva alcun meccanismo di supervisione civile o di pianificazione congiunta con l’esercito. L’ammiraglio Tirpitz divenne un colosso in tempo di pace, in quanto architetto della costruzione della flotta, ma una volta scoppiata la guerra non aveva alcuna autorità di comando sulla flotta che aveva faticosamente costruito. La costruzione navale tedesca fu condotta quasi per se stessa e il Paese lanciò unilateralmente una corsa agli armamenti navali contro la Gran Bretagna: una competizione che non aveva prospettive realistiche di vittoria e senza un chiaro intento strategico.
È difficile trovare un paragone adeguato per il grande piano di Tirpitz. Pochi programmi di armamento si sono rivelati così catastrofici e così costosi. L’intero progetto si reggeva su una manciata di presupposti tenui che sono crollati in modo spettacolare. Tirpitz scommetteva sulla premessa che la Gran Bretagna, con i suoi numerosi impegni all’estero e la miriade di flotte dislocate in tutto il mondo, non sarebbe mai stata in grado di concentrare la sua potenza di combattimento nel Mare del Nord. Invece, la crescente flotta tedesca (unita a una diplomazia tedesca incerta) vide la Gran Bretagna consolidare progressivamente le flotte e concentrare il grosso della sua flotta di superficie contro la Germania.
Questo perché la Gran Bretagna, a differenza della Germania, praticava una geostrategia coerente che faceva leva su diplomazia e armamenti in tandem. Mentre la Germania si alienò le potenze mondiali contro di lei attraverso giochi di potere mal congegnati (la crisi di Agedir ne è l’archetipo), la Gran Bretagna si liberò sistematicamente di teatri secondari conducendo la diplomazia verso Francia, Giappone e Stati Uniti. L’azzardo di Tirpitz non si limitò a fallire: si ritorse contro l’intera flotta. Nel 1914, la potenza di combattimento della Royal Navy era più concentrata che mai e puntava direttamente ai tedeschi attraverso il Mare del Nord.
Allo stesso modo, Tirpitz sottovalutò la volontà e la capacità britannica di impegnarsi pienamente in una corsa agli armamenti navali. L’opinione militare tedesca era generalmente prevenuta nei confronti del governo parlamentare e della supervisione civile che prevaleva nel sistema britannico, ma la sua arroganza era infondata. Nonostante i loro sforzi, le costruzioni navali tedesche non avrebbero mai potuto competere con il potenziale della Gran Bretagna, che era un Paese più ricco e con un apparato cantieristico molto più vasto e profondo. Nel 1900, il tonnellaggio totale della Marina tedesca era appena il 26,8% di quello della Royal Navy. Nel 1914, i tedeschi avevano colmato un po’ questo divario, ma disponevano ancora di appena il 48% del tonnellaggio della Royal Navy. Il vantaggio britannico in termini di navi da guerra di ogni tipo rimase assoluto, con la Royal Navy che vantava più dreadnoughts, più super-dreadnoughts e navi di supporto di ogni tipo.
Forse l’aspetto più importante è che i tedeschi costruirono la loro potente flotta senza una chiara idea di come sarebbe stata utilizzata in tempo di guerra. Le installazioni navali tedesche nel Mare del Nord erano estremamente limitate, con un solo ancoraggio restrittivo a Wilhelmshaven. Sebbene l’acquisizione del triangolo portuale in Belgio offrisse nuove opportunità di incursione con cacciatorpediniere e sottomarini, la posizione belga non fu mai in grado di sostenere la principale flotta da battaglia tedesca.
La Gran Bretagna, come la Germania, inizialmente non aveva un piano di guerra concreto, ma i meccanismi di supervisione civile del governo britannico permettevano di correggerlo. Dopo che la crisi di Agedir rivelò lo stato pietoso della pianificazione bellica della Royal Navy, Churchill fu assegnato all’Ammiragliato e la pianificazione fu messa in moto. Così, allo scoppio della guerra nel 1914, la Royal Navy disponeva di un piano di guerra concreto: condurre un blocco a distanza, con la flotta di base a Scapa Flow, all’estremo nord, per attirare la flotta d’alto mare tedesca in azione.
Le nevrosi istituzionali della Marina tedesca, tuttavia, precludevano una pianificazione efficace. Tirpitz aveva ampia facoltà di costruire navi e progettare la flotta, ma non era responsabile della stesura dei piani di guerra (e in effetti, nella Marina, non lo era praticamente nessuno). Mentre l’esercito tedesco entrò in guerra con schemi di mobilitazione e di manovra dettagliati e precisi già redatti e pronti per essere attuati, la Marina languiva senza una chiara anima o direttiva operativa.
Tutto ciò era parte integrante di una marina che conduceva una politica degli armamenti fine a se stessa: costruiva navi perché le voleva, senza un chiaro senso di come potessero inserirsi in una più ampia geostrategia o di come usarle in tempo di guerra. Mentre gli inglesi rispondevano e intensificavano la corsa agli armamenti con le dreadnought, Tirpitz divenne incapace di correggere la rotta per una serie di ragioni: aveva sradicato le opinioni contrarie tra i suoi subordinati, non era disposto ad abbandonare un programma che era già in corso con costi così elevati e perché non c’era nessuno in grado di dirgli “no”. In assenza di una guida saggia e decisiva da parte del Kaiser, si trattava di un treno di costruzioni navali senza freni. Una volta iniziata la guerra, Tirpitz divenne un convinto sostenitore della guerra sottomarina a lungo raggio e dei raid contro le navi britanniche; tuttavia, per tutto il periodo prebellico della corsa navale, il programma tedesco per i sottomarini aveva languito proprio perché Tirpitz aveva speso tutti i soldi per le navi capitali.
Tirpitz era una figura esperta ed energica che dimostrava un’abile mano nella politica burocratica. In termini più ristretti, il suo mandato fu un successo, in quanto fece approvare le sue leggi navali e costruì la flotta su misura. Nell’ambito più ampio e importante della geostrategia, tuttavia, Tirpitz fu autore di uno dei grandi fallimenti della storia. Egli condusse una politica degli armamenti fine a se stessa, su basi teoriche deboli tratte da Mahan e su presupposti errati circa la risposta britannica.
Per molti versi, Tirpitz era come un giocatore di scacchi alle prime armi che cercava di giocare un’apertura sulla base della teoria, ma senza la saggezza o la flessibilità necessarie per leggere la scacchiera di fronte a lui. Eseguendo una serie di mosse provate, non riuscì a correggere la rotta di fronte alle contromosse del nemico. Senza meccanismi istituzionali per la correzione di rotta e senza chiari legami con la pianificazione bellica o la diplomazia, la Marina tedesca si costruì da sola. Nonostante i successi di Tirpitz, alla fine non riuscì a dissuadere dalla guerra con la Gran Bretagna e, una volta che la guerra arrivò, la sua flotta da battaglia amorevolmente costruita fu incapace di vincerla. Come un giocatore di scacchi che esegue alla cieca una sequenza predeterminata di mosse senza leggere la scacchiera di fronte a sé, Tirpitz e la Marina tedesca caddero in una trappola geostrategica di prim’ordine.
Un altro esempio, tratto questa volta dalla prestigiosa, ma ormai decaduta rivista “Monthly Review”, di come l’utilizzo dei paradigmi classici che fissano in maniera deterministica la relazione tra economia, al meglio rapporti sociali di produzione, politica e sistemi di potere producano analisi non solo fuorvianti, ma che inducono a sbagliare bersaglio e inducono ad atteggiamenti sterili di mera protesta e testimonianza che nascondono una recondita aspirazione alla comoda restaurazione; incapaci di cogliere dinamiche ed opportunità offerte dai nuovi contesti politici. Una postura che stride con la funzione determinante che si vorrebbe attribuire ai soggetti politici_Giuseppe Germinario
Nell’ultimo secolo il capitalismo statunitense ha avuto senza dubbio la classe dirigente più potente e più consapevole della storia del mondo, a cavallo tra l’economia e lo Stato, e ha proiettato la sua egemonia sia a livello nazionale che globale. Al centro del suo dominio c’è un apparato ideologico che insiste sul fatto che l’immenso potere economico della classe capitalista non si traduce in governance politica e che, indipendentemente dalla polarizzazione della società statunitense in termini economici, le sue pretese di democrazia rimangono intatte. Secondo l’ideologia ricevuta, gli interessi ultra-ricchi che governano il mercato non governano lo Stato, una separazione cruciale per l’idea di democrazia liberale. Questa ideologia dominante, tuttavia, si sta ora rompendo di fronte alla crisi strutturale del capitalismo statunitense e mondiale e al declino dello stesso Stato liberaldemocratico, portando a profonde spaccature nella classe dirigente e a un nuovo dominio di destra, apertamente capitalista, dello Stato.
Nel suo discorso di addio alla nazione, pochi giorni prima che Donald Trump tornasse trionfalmente alla Casa Bianca, il presidente Joe Biden ha indicato che una “oligarchia” basata sul settore high-tech e che si affida al “denaro oscuro” in politica sta minacciando la democrazia statunitense. Il senatore Bernie Sanders, nel frattempo, ha messo in guardia dagli effetti della concentrazione della ricchezza e del potere in una nuova egemonia della “classe dominante” e dall’abbandono di qualsiasi traccia di sostegno alla classe operaia in uno dei principali partiti.1
L’ascesa di Trump alla Casa Bianca per la seconda volta non significa naturalmente che l’oligarchia capitalista abbia improvvisamente acquisito un’influenza dominante nella politica statunitense, poiché si tratta di una realtà di lunga data. Tuttavia, negli ultimi anni, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008, l’intero ambiente politico si è spostato a destra, mentre l’oligarchia esercita un’influenza più diretta sullo Stato. Un settore della classe capitalista statunitense è ora apertamente in controllo dell’apparato ideologico-statale in un’amministrazione neofascista in cui l’ex establishment neoliberale è un junior partner. L’oggetto di questo cambiamento è una ristrutturazione regressiva degli Stati Uniti in una posizione di guerra permanente, risultante dal declino dell’egemonia statunitense e dall’instabilità del capitalismo americano, oltre che dalla necessità di una classe capitalista più concentrata di assicurarsi un controllo più centralizzato dello Stato.
Negli anni della Guerra Fredda che seguirono la Seconda Guerra Mondiale, i guardiani dell’ordine liberal-democratico all’interno dell’accademia e dei media cercarono di sminuire il ruolo preponderante nell’economia statunitense dei proprietari dell’industria e della finanza, che sarebbero stati soppiantati dalla “rivoluzione manageriale” o limitati dal “contropotere”. In questa visione, i proprietari e i manager, il capitale e il lavoro, sono ognuno vincolato all’altro. Più tardi, in una versione leggermente più raffinata di questa visione generale, il concetto di classe capitalista egemone sotto il capitalismo monopolistico fu dissolto nella categoria più amorfa dei “ricchi aziendali”.”2
La democrazia statunitense, si sosteneva, era il prodotto dell’interazione di gruppi pluralisti, o in alcuni casi mediata da un’élite di potere. Non esisteva una classe dirigente funzionale egemone sia in campo economico che politico. Anche se si potesse sostenere che esisteva una classe capitalista dominante nell’economia, essa non governava lo Stato, che era indipendente. Questo è stato trasmesso in vari modi da tutte le opere archetipiche della tradizione pluralista, da La rivoluzione manageriale di James Burnham (1941), a Capitalismo, socialismo e democrazia di Joseph A. Schumpeter (1942), a Chi governa? (1961), a The New Industrial State (1967) di John Kenneth Galbraith, che spazia dagli estremi conservatori a quelli liberali dello spettro.3 Tutti questi trattati miravano a suggerire che nella politica statunitense prevaleva il pluralismo o un’élite manageriale/tecnocratica, non una classe capitalista che governava sia il sistema economico che quello politico. Nella visione pluralista della democrazia realmente esistente, introdotta per la prima volta da Schumpeter, i politici erano semplicemente imprenditori politici che competevano per i voti, proprio come gli imprenditori economici nel cosiddetto libero mercato, producendo un sistema di “leadership competitiva”.
Nel promuovere la finzione che gli Stati Uniti, nonostante il vasto potere della classe capitalista, rimanessero un’autentica democrazia, l’ideologia ricevuta fu raffinata e sostenuta da analisi provenienti da sinistra che cercavano di riportare la dimensione del potere nella teoria dello Stato, sostituendo l’allora dominante visione pluralista di figure come Dahl, e allo stesso tempo rifiutando la nozione di classe dirigente. L’opera più importante che rappresenta questo cambiamento è stata The Power Elite di C. Wright Mills (1956), che sosteneva che la concezione di “classe dirigente”, associata in particolare al marxismo, dovesse essere sostituita dalla nozione di “élite di potere” tripartita, in cui la struttura di potere degli Stati Uniti era vista come dominata da élite che provenivano dalle ricche aziende, dai vertici militari e dai politici eletti. Mills si riferiva notoriamente alla nozione di classe dirigente come a una “teoria della scorciatoia” che presupponeva semplicemente che il dominio economico significasse dominio politico. Sfidando direttamente il concetto di classe dirigente di Karl Marx, Mills affermò: “Il governo americano non è, né in modo semplice né come fatto strutturale, un comitato della ‘classe dirigente’. È una rete di “comitati”, e in questi comitati siedono altri uomini di altre gerarchie oltre ai ricchi delle multinazionali.”5
Il punto di vista di Mills sulla classe dirigente e sull’élite di potere fu contestato dai teorici radicali, in particolare da Paul M. Sweezy nella Monthly Review e inizialmente dal lavoro di G. William Domhoff nella prima edizione del suo Who Rules America? (1967). Ma alla fine ha acquisito una notevole influenza nell’ampia sinistra.6 Come Domhoff avrebbe sostenuto nel 1968, in C. Wright Mills e l’élite del potere,“ il concetto di élite del potere era comunemente visto come “il ponte tra le posizioni marxiste e quelle pluraliste”. È un concetto necessario perché non tutti i leader nazionali sono membri della classe superiore. In questo senso, si tratta di una modifica e di un’estensione del concetto di “classe dirigente””7.
La questione della classe dirigente e dello Stato è stata al centro del dibattito tra i teorici marxisti Ralph Miliband, autore di Lo Stato nella società capitalista (1969), e Nicos Poulantzas, autore di Potere politico e classi sociali (1968), che rappresentano i cosiddetti approcci “strumentalisti” e “strutturalisti” allo Stato nella società capitalista. Il dibattito ruotava intorno alla “relativa autonomia” dello Stato dalla classe dirigente capitalista, una questione cruciale per le prospettive di acquisizione dello Stato da parte di un movimento socialdemocratico.8
Il dibattito ha assunto una forma estrema negli Stati Uniti con l’apparizione dell’influente saggio di Fred Block “The Ruling Class Does Not Rule” (La classe dirigente non governa) in Socialist Revolution del 1977, in cui Block si spingeva a sostenere che la classe capitalista non aveva la coscienza di classe necessaria per tradurre il suo potere economico nel dominio dello Stato.9 Tale visione, sosteneva, era necessaria per rendere praticabile la politica socialdemocratica. Dopo la sconfitta di Biden contro Trump alle elezioni del 2020, l’articolo originale di Block è stato ripreso da Jacobin con un nuovo epilogo in cui Block sostiene che, dato che la classe dirigente non governava, Biden aveva la libertà di istituire una politica favorevole alla classe operaia secondo le linee del New Deal, che avrebbe impedito la rielezione di una figura di destra – “con un’abilità e una spietatezza di gran lunga maggiori” di Trump – nel 2024.10
Date le contraddizioni dell’amministrazione Biden e il secondo avvento di Trump, con tredici miliardari nel suo gabinetto, l’intero lungo dibattito sulla classe dirigente e lo Stato deve essere riesaminato.11
La classe dirigente e lo Stato
Nella storia della teoria politica dall’antichità a oggi, lo Stato è stato classicamente inteso in relazione alla classe. Nella società antica e nel feudalesimo, a differenza della moderna società capitalistica, non esisteva una chiara distinzione tra società civile (o economia) e Stato. Come scrisse Marx nella sua Critica della dottrina dello Stato di Hegel nel 1843, “l’astrazione dello Stato in quanto tale non è nata fino al mondo moderno perché l’astrazione della vita privata non è stata creata fino ai tempi moderni. L’astrazione dello Stato politico è un prodotto moderno”, realizzato pienamente solo sotto il dominio della borghesia.12 Ciò è stato successivamente ribadito da Karl Polanyi in termini di natura incorporata dell’economia nell’antica polis e del suo carattere disincarnato nel capitalismo, che si manifesta nella separazione della sfera pubblica dello Stato e della sfera privata del mercato.13 Nell’antichità greca, in cui le condizioni sociali non avevano ancora generato tali astrazioni, non c’era dubbio che la classe dirigente governasse la polis e ne creasse le leggi. Aristotele nella sua Politica, come ha scritto Ernest Barker in Il pensiero politico di Platone e Aristotele, ha assunto la posizione che il dominio di classe spiegava in ultima analisi la polis: “Dimmi la classe che è predominante, si potrebbe dire, e ti dirò la costituzione”.”14
Nel regime del capitale, invece, lo Stato è concepito come separato dalla società civile e dall’economia. A questo proposito, ci si chiede sempre se la classe che governa l’economia, cioè la classe capitalista, governi anche lo Stato.
Il punto di vista di Marx su questo tema era complesso, non si discostava mai dall’idea che lo Stato nella società capitalista fosse governato dalla classe capitalista, pur riconoscendo le diverse condizioni storiche che lo modificavano. Da un lato, egli sostenne (insieme a Frederick Engels) ne Il Manifesto Comunista che “L’esecutivo dello Stato moderno non è che un comitato per la gestione degli affari comuni di tutta la borghesia”.” 15 Questo suggeriva che lo Stato, o il suo ramo esecutivo, aveva una relativa autonomia che andava oltre i singoli interessi capitalistici, ma era comunque responsabile della gestione degli interessi generali della classe. Questo potrebbe, come Marx ha indicato altrove, portare a riforme importanti, come l’approvazione della legislazione sulla giornata lavorativa di dieci ore ai suoi tempi, che, pur sembrando una concessione alla classe operaia e contraria agli interessi capitalistici, era necessaria per garantire il futuro dell’accumulazione del capitale stesso, regolando la forza lavoro e assicurando la continua riproduzione della forza lavoro.16 D’altra parte, in Il diciottesimo brumaio di Luigi Bonaparte, Marx indicava situazioni ben diverse in cui la classe capitalista non governava direttamente lo Stato, dando spazio a un governo semi-autonomo, purché questo non interferisse con i suoi fini economici e con il suo comando dello Stato in ultima istanza.17 Riconosceva anche che lo Stato poteva essere dominato da una frazione del capitale rispetto a un’altra. In tutti questi aspetti, Marx sottolineava la relativa autonomia dello Stato dagli interessi capitalistici, che è stata fondamentale per tutte le teorie marxiste dello Stato nella società capitalistica.
Da tempo si è capito che la classe capitalista dispone di numerosi mezzi per funzionare come classe dirigente attraverso lo Stato, anche nel caso di un ordine liberaldemocratico. Da un lato, ciò assume la forma di un’investitura abbastanza diretta nell’apparato politico attraverso vari meccanismi, come il controllo economico e politico delle macchine dei partiti politici e l’occupazione diretta da parte dei capitalisti e dei loro rappresentanti di posti chiave nella struttura di comando politica. Oggi negli Stati Uniti gli interessi capitalistici hanno il potere di influenzare in modo decisivo le elezioni. Inoltre, il potere capitalistico sullo Stato si estende ben oltre le elezioni. Il controllo della banca centrale, e quindi dell’offerta di moneta, dei tassi di interesse e della regolamentazione del sistema finanziario, è affidato essenzialmente alle banche stesse. D’altra parte, la classe capitalista controlla indirettamente lo Stato attraverso il suo vasto potere economico di classe esterno, che comprende pressioni finanziarie dirette, lobbismo, finanziamento di gruppi di pressione e think tank, la porta girevole tra i principali attori del governo e delle imprese e il controllo dell’apparato culturale e di comunicazione. Nessun regime politico in un sistema capitalista può sopravvivere se non serve gli interessi del profitto e dell’accumulazione del capitale, una realtà sempre presente per tutti gli attori politici.
La complessità e l’ambiguità dell’approccio marxista alla classe dirigente e allo Stato è stata trasmessa da Karl Kautsky nel 1902, quando dichiarò che “la classe capitalista governa ma non governa”; poco dopo aggiunse che “si accontenta di governare il governo”.”18 Come è stato notato, fu proprio questa questione della relativa autonomia dello Stato dalla classe capitalista a governare il famoso dibattito tra quelle che vennero conosciute come le teorie strumentaliste e strutturaliste dello Stato, rappresentate rispettivamente da Miliband in Gran Bretagna e da Poulantzas in Francia. Il punto di vista di Miliband è stato fortemente determinato dalla scomparsa del Partito Laburista britannico come autentico partito socialista alla fine degli anni Cinquanta, come illustrato nel suo Socialismo parlamentare.19 Ciò lo ha costretto a confrontarsi con l’enorme potere della classe capitalista come classe dirigente. Questo tema fu ripreso in seguito nel suo Lo Stato nella società capitalista del 1969, in cui scrisse che “se sia… appropriato parlare di una ‘classe dirigente’ è uno dei temi principali di questo studio”. Infatti, “la più importante di tutte le questioni sollevate dall’esistenza di questa classe dominante è se essa costituisca anche una ‘classe dirigente'”. La classe capitalista, cercò di dimostrare, pur non essendo “propriamente una ‘classe dirigente'” nello stesso senso in cui lo era stata l’aristocrazia, di fatto governava in modo abbastanza diretto (oltre che indiretto) la società capitalista. Essa traduceva in vari modi il suo potere economico in potere politico, al punto che la classe operaia, per sfidare efficacemente la classe dirigente, avrebbe dovuto opporsi alla struttura stessa dello Stato capitalista.20
È qui che Poulantzas, che nel 1968 aveva pubblicato il suo Potere politico e classi sociali, entra in conflitto con Miliband. Poulantzas poneva ancora più enfasi sulla relativa autonomia dello Stato, ritenendo che l’approccio di Miliband allo Stato presupponesse un dominio troppo diretto da parte della classe capitalista, anche se era strettamente conforme alla maggior parte delle opere di Marx sull’argomento. Poulantzas ha sottolineato che il governo capitalista dello Stato è più indiretto e strutturale che diretto e strumentale, consentendo una maggiore varietà di governi in termini di classe, includendo non solo specifiche frazioni della classe capitalista ma anche rappresentanti della stessa classe operaia. “La partecipazione diretta di membri della classe capitalista all’apparato statale e al governo, anche quando esiste”, scriveva, “non è il lato importante della questione. La relazione tra la classe borghese e lo Stato è una relazione oggettiva…. La partecipazione diretta dei membri della classe dominante all’apparato statale non è la causa ma l’effetto… di questa coincidenza oggettiva.”21 Sebbene una simile affermazione potesse sembrare abbastanza ragionevole nei termini qualificati in cui veniva espressa, essa tendeva a rimuovere il ruolo della classe dominante come soggetto cosciente di classe. Scrivendo durante l’apice dell’eurocomunismo sul continente, lo strutturalismo di Poulantzas, con la sua enfasi sul bonapartismo che indicava un alto grado di autonomia relativa dello Stato, sembrava aprire la strada a una concezione dello Stato come entità in cui la classe capitalista non governava, anche se lo Stato in ultima analisi era soggetto a forze oggettive derivanti dal capitalismo.
Una simile visione, ha controbattuto Miliband, indicava una visione “superdeterministica” o economistica dello Stato, caratteristica del “deviazionismo di ultra-sinistra”, oppure una “deviazione di destra” nella forma della socialdemocrazia, che tipicamente negava del tutto l’esistenza di una classe dirigente.22 In entrambi i casi, la realtà della classe dirigente capitalista e dei vari processi attraverso i quali essa esercitava il suo dominio, che la ricerca empirica di Miliband e altri aveva ampiamente dimostrato, sembrava essere messa in cortocircuito, non più parte dello sviluppo di una strategia di lotta di classe dal basso. Un decennio dopo, nella sua opera del 1978 Stato, potere, socialismo, Poulantzas spostò l’accento sulla necessità di sostenere il socialismo parlamentare e la socialdemocrazia (o “socialismo democratico”), insistendo sulla necessità di mantenere gran parte dell’apparato statale esistente in qualsiasi transizione al socialismo. Ciò contraddiceva direttamente le enfasi di Marx in La guerra civile in Francia e di V. I. Lenin in Lo Stato e la Rivoluzione sulla necessità di sostituire lo Stato capitalista della classe dirigente con una nuova struttura politica di comando emanata dal basso.23
Influenzato dagli articoli di Sweezy su “La classe dirigente americana” e “Elite di potere o classe dirigente?” in Monthly Review e da The Power Elite di Mills, Domhoff nella prima edizione del suo libro, Who Rules America? nel 1967, promuoveva un’analisi esplicita basata sulle classi, ma indicava comunque di preferire il più neutro “classe di governo” a “classe dirigente” sulla base del fatto che “la nozione di classe dirigente” suggeriva una “visione marxista della storia”.”24 Tuttavia, quando nel 1978 scrisse The Powers That Be: Processes of Ruling Class Domination in America, Domhoff, influenzato dall’atmosfera radicale del tempo, era passato a sostenere che “una classe dirigente è una classe sociale privilegiata che è in grado di mantenere la sua posizione di vertice nella struttura sociale”. L’élite di potere fu ridefinita come il “braccio di comando” della classe dirigente.25 Tuttavia, questa integrazione esplicita della classe dirigente nell’analisi di Domoff ebbe vita breve. Nelle edizioni successive di Chi governa l’America? , fino all’ottava edizione del 2022, Domhoff si piegò alla praticità liberale e abbandonò del tutto il concetto di classe dirigente. Seguì invece Mills nel raggruppare i proprietari (“la classe sociale superiore”) e i manager nella categoria dei “ricchi d’impresa”.”26 L’élite del potere era vista come amministratori delegati, consigli di amministrazione e consigli di amministrazione, sovrapponendosi in un diagramma di Venn con la classe sociale superiore (che consisteva anche di socialite e jet setter), la comunità aziendale e la rete di pianificazione politica. Si trattava di una prospettiva nota come ricerca sulla struttura del potere. Le nozioni di classe capitalista e di classe dirigente non si trovavano più.
Un lavoro empirico e teorico più significativo di quello offerto da Domhoff, e per molti versi più pertinente oggi, è stato scritto nel 1962-1963 dall’economista sovietico Stanislav Menshikov e tradotto in inglese nel 1969 con il titolo Millionaires and Managers. Menshikov fece parte di uno scambio educativo di scienziati tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti nel 1962. Ha visitato “il presidente del consiglio di amministrazione, il presidente e i vicepresidenti di decine di società e di 13 delle 25 banche commerciali” che avevano un patrimonio di un miliardo di dollari o più. Incontrò, tra gli altri, Henry Ford II, Henry S. Morgan e David Rockefeller.27 La dettagliata trattazione empirica di Menshikov sul controllo finanziario delle società negli Stati Uniti e del gruppo o classe dirigente ha fornito una solida valutazione del continuo dominio dei capitalisti finanziari all’interno dei ceti più ricchi. Grazie alla loro egemonia su vari gruppi finanziari, l’oligarchia finanziaria si è differenziata dai semplici manager di alto livello (chief executive officer) delle burocrazie finanziarie aziendali. Sebbene esistesse quello che potrebbe essere definito un “blocco di milionari-manager”, nel senso dei “ricchi aziendali” di Mills, e una divisione del lavoro all’interno della “classe dirigente stessa”, a dominare era “l’oligarchia finanziaria, cioè il gruppo di persone il cui potere economico si basa sulla disponibilità di colossali masse di capitale fittizio…[e] che è alla base di tutti i principali gruppi finanziari”, e non i dirigenti aziendali in quanto tali. Inoltre, il potere relativo dell’oligarchia finanziaria continuava a crescere, anziché diminuire.28 Come nell’analisi di Sweezy sui “Gruppi di interesse nell’economia americana”, scritta per il National Resource Committee’s Structure of the American Economy durante il New Deal, l’analisi dettagliata di Menshikov sui gruppi societari nell’economia statunitense ha colto il persistere di gruppi familiari nell’economia americana.L’analisi dettagliata di Menshikov dei gruppi societari nell’economia statunitense coglieva la continua base familiare-dinastica di gran parte della ricchezza degli Stati Uniti.29
L’oligarchia finanziaria statunitense costituiva una classe dirigente, ma che generalmente non governava direttamente o senza interferenze. Il “dominio economico dell’oligarchia finanziaria”, scrive Menshikov,
non equivale al suo dominio politico. Ma il secondo senza il primo non può essere sufficientemente forte, mentre il primo senza il secondo dimostra che la coalizione dei monopoli e della macchina statale non è andata abbastanza avanti. Ma anche negli Stati Uniti, dove esistono entrambi i presupposti, dove la macchina del governo è stata al servizio dei monopoli per decenni e il dominio di questi ultimi nell’economia è fuori discussione, il potere politico dell’oligarchia finanziaria è costantemente minacciato da restrizioni da parte di altre classi sociali, e a volte viene effettivamente limitato. Ma la tendenza generale è che il potere economico dell’oligarchia finanziaria si trasformi gradualmente in potere politico.30
L’oligarchia finanziaria, sosteneva Menshikov, aveva come alleati minori nel suo dominio politico dello Stato: i dirigenti d’impresa, i vertici delle forze armate, i politici di professione, che avevano interiorizzato le necessità interne del sistema capitalistico, e l’élite bianca che dominava il sistema di segregazione razziale nel Sud.31 Ma l’oligarchia finanziaria stessa era la forza sempre più dominante. “L’aspirazione dell’oligarchia finanziaria all’amministrazione diretta dello Stato è una delle tendenze più caratteristiche dell’imperialismo americano degli ultimi decenni”, derivante dal suo crescente potere economico e dalle necessità che questo generava. Tuttavia, il processo non è stato semplice. I capitalisti finanziari negli Stati Uniti non agiscono “unitariamente” e sono a loro volta divisi in fazioni concorrenti, mentre sono ostacolati nei loro tentativi di controllare lo Stato dalla complessità stessa del sistema politico statunitense, in cui giocano diversi attori.32 “Sembrerebbe”, scrive Menshikov,
che ora il potere politico dell’oligarchia finanziaria dovrebbe essere pienamente garantito, ma non è così. La macchina di uno Stato capitalista contemporaneo è grande e ingombrante. La conquista di posizioni in una parte non garantisce il controllo dell’intero meccanismo. L’oligarchia finanziaria possiede la macchina della propaganda, è in grado di corrompere i politici e i funzionari governativi del centro e della periferia, ma non può corrompere il popolo che, nonostante tutte le restrizioni della “democrazia” borghese, elegge la legislatura. Il popolo non ha molta scelta, ma senza abolire formalmente le procedure democratiche, l’oligarchia finanziaria non può garantirsi completamente contro “incidenti” indesiderati.”33
Tuttavia, la straordinaria opera di Menshikov, Milionari e manager, pubblicata in Unione Sovietica, non ebbe alcuna influenza sul dibattito sulla classe dirigente negli Stati Uniti. La tendenza generale, che si riflette negli spostamenti di Domhoff (e in Europa in quelli di Poulantzas), ha sminuito l’intera idea di una classe dirigente e persino di una classe capitalista, sostituendola con i concetti di corporate rich e di élite di potere, producendo quella che era essenzialmente una forma di teoria delle élite.
Il rifiuto del concetto di classe dirigente (o anche di classe di governo) nel lavoro successivo di Domhoff coincise con la pubblicazione di “The Ruling Class Does Not Rule” di Block, che ebbe un ruolo significativo nel pensiero radicale degli Stati Uniti. Scrivendo in un momento in cui l’elezione di Jimmy Carter a presidente sembrava presentare ai liberali e ai socialdemocratici il quadro di una leadership decisamente più morale e progressista, Block sosteneva che non esisteva una classe dirigente con un potere decisivo sulla sfera politica negli Stati Uniti e nel capitalismo in generale. Egli attribuiva questo fatto al fatto che non solo la classe capitalista, ma anche “frazioni” separate della classe capitalista (qui contrapposte a Poulantzas) mancavano di coscienza di classe e quindi erano incapaci di agire nel proprio interesse nella sfera politica, tanto meno di governare il corpo politico. Egli adottò invece un approccio “strutturalista” basato sulla nozione di razionalizzazione di Max Weber, in cui lo Stato razionalizzava i ruoli di tre attori in competizione: (1) i capitalisti, (2) i dirigenti statali e (3) la classe operaia. La relativa autonomia dello Stato nella società capitalista era una funzione del suo ruolo di arbitro neutrale, in cui varie forze impattavano ma nessuna governava.34
Attaccando coloro che sostenevano che la classe capitalista avesse un ruolo dominante all’interno dello Stato, Block scrisse: “Il modo per formulare una critica dello strumentalismo che non crolli è quello di rifiutare l’idea di una classe dirigente consapevole”, poiché una classe capitalista consapevole si sforzerebbe di governare. Sebbene abbia notato che Marx ha utilizzato la nozione di classe dirigente consapevole, questa è stata scartata come semplice “stenografia politica” per le determinazioni strutturali.
Block ha chiarito che quando i radicali come lui scelgono di criticare la nozione di classe dirigente, “di solito lo fanno per giustificare la politica socialista riformista”. In questo spirito, ha insistito sul fatto che la classe capitalista non governa intenzionalmente, in modo consapevole, lo Stato con mezzi interni o esterni. Piuttosto, la limitazione strutturale della “fiducia delle imprese”, esemplificata dagli alti e bassi del mercato azionario, assicurava che il sistema politico rimanesse in equilibrio con l’economia, richiedendo che gli attori politici adottassero mezzi razionali per garantire la stabilità economica. La razionalizzazione del capitalismo da parte dello Stato, nella visione “strutturalista” di Block, apriva così la strada a una politica socialdemocratica dello Stato.35
Ciò che è chiaro è che alla fine degli anni Settanta i pensatori marxisti occidentali avevano abbandonato quasi completamente la nozione di classe dirigente, concependo lo Stato non solo come relativamente autonomo, ma di fatto grandemente autonomo dal potere di classe del capitale. Questo fa parte di un generale “ritiro dalla classe”.”36 In Gran Bretagna, Geoff Hodgson ha scritto nel suo The Democratic Economy: A New Look at Planning, Markets and Power nel 1984, che “l’idea stessa di una classe che ‘governa’ dovrebbe essere messa in discussione. Al massimo si tratta di una metafora debole e fuorviante. È possibile parlare di una classe dominante in una società, ma solo in virtù del dominio di un particolare tipo di struttura economica. Dire che una classe “governa” significa dire molto di più. Significa che è in qualche modo impiantata nell’apparato di governo”. Era fondamentale, affermava, abbandonare la nozione marxista che associava “diversi modi di produzione a diverse ‘classi dominanti'”.37 Come i successivi Poulantzas e Block, Hodgson adottò una posizione socialdemocratica che non vedeva alcuna contraddizione definitiva tra la democrazia parlamentare, così come era sorta all’interno del capitalismo, e la transizione al socialismo.
Il neoliberismo e la classe dirigente statunitense
Se alla fine degli anni ’60 e ’70 il marxismo occidentale ha abbandonato la nozione di classe dirigente, non tutti i pensatori si sono allineati. Sweezy continuò a sostenere nella Monthly Review che gli Stati Uniti erano dominati da una classe capitalista dominante. Così, Paul A. Baran e Sweezy spiegarono in Monopoly Capital nel 1966 che “una minuscola oligarchia che poggia su un vasto potere economico” è “in pieno controllo dell’apparato politico e culturale della società”, rendendo la nozione di Stati Uniti come autentica democrazia fuorviante nel migliore dei casi.38
Tranne che in tempi di crisi, il sistema politico normale del capitalismo, sia esso competitivo o monopolistico, è la democrazia borghese. Il voto è la fonte nominale del potere politico, mentre il denaro è la fonte reale: il sistema, in altre parole, è democratico nella forma e plutocratico nel contenuto. Questo è ormai talmente riconosciuto che non sembra necessario argomentare il caso. Basti dire che tutte le attività e le funzioni politiche che si può dire costituiscano le caratteristiche essenziali del sistema – l’indottrinamento e la propaganda del pubblico votante, l’organizzazione e il mantenimento dei partiti politici, la gestione delle campagne elettorali – possono essere svolte solo per mezzo di denaro, molto denaro. E poiché nel capitalismo monopolistico le grandi imprese sono la fonte del grande denaro, esse sono anche le principali fonti del potere politico.39
Per Baran e Sweezy, che scrivevano in quella che è stata definita “l’età d’oro del capitalismo”, il potere del dominio della classe dirigente sullo Stato era dimostrato dai limiti posti all’espansione della spesa pubblica civile (generalmente osteggiata dal capitale in quanto interferente con l’accumulazione privata), che consentivano spese militari gargantuesche e vasti sussidi alle grandi imprese.40 Lungi dall’esibire caratteristiche di razionalità weberiana, il “sistema irrazionale” del capitalismo monopolistico, sostenevano, era afflitto da problemi di sovraccumulazione che si manifestavano nell’incapacità di assorbire il capitale in eccesso, che non riusciva più a trovare sbocchi di investimento redditizi, indicando nella stagnazione economica lo “stato normale” del capitalismo monopolistico.41
A pochi anni dalla pubblicazione di Capitale Monopolistico, all’inizio e alla metà degli anni Settanta, l’economia statunitense è entrata in una profonda stagnazione da cui non è stata in grado di riprendersi completamente nel mezzo secolo successivo, con tassi di crescita economica in calo decennio dopo decennio. Ciò ha costituito una crisi strutturale del capitale nel suo complesso, una contraddizione presente in tutti i paesi capitalisti principali. Questa crisi di lungo periodo dell’accumulazione del capitale ha portato alla ristrutturazione neoliberale dall’alto verso il basso dell’economia e dello Stato a tutti i livelli, istituendo politiche regressive volte a stabilizzare il dominio capitalista, che alla fine hanno portato alla deindustrializzazione e alla de-sindacalizzazione nel nucleo capitalista e alla globalizzazione e alla finanziarizzazione dell’economia mondiale.42
Nell’agosto del 1971, Lewis F. Powell, pochi mesi prima di accettare la nomina alla Corte Suprema degli Stati Uniti da parte del Presidente Richard Nixon, scrisse il suo famigerato memo alla Camera di Commercio degli Stati Uniti con l’obiettivo di organizzare gli Stati Uniti in una crociata neoliberista contro i lavoratori e la sinistra, attribuendo loro l’indebolimento del sistema della “libera impresa” statunitense.43 Quindi, proprio mentre la sinistra abbandonava l’idea di una classe dirigente statunitense consapevole, l’oligarchia statunitense riaffermava il proprio potere sullo Stato, portando a una ristrutturazione politico-economica all’insegna del neoliberismo che comprendeva sia il partito repubblicano che quello democratico. Negli anni ’80 è stata istituita l’economia dell’offerta o Reaganomics, colloquialmente nota come “Robin Hood al contrario”. 44
Scrivendo in The Affluent Society nel 1958, Galbraith aveva affermato che: “I benestanti americani sono stati a lungo curiosamente sensibili alla paura dell’espropriazione, una paura che può essere correlata alla tendenza a considerare anche le più blande misure riformiste, nella saggezza convenzionale conservatrice, come portenti della rivoluzione”. La depressione e soprattutto il New Deal hanno fatto prendere un serio spavento ai ricchi americani.”45 L’era neoliberista e il riemergere della stagnazione economica, accompagnata dalla resurrezione di tali paure ai vertici, hanno portato a una più forte affermazione del potere della classe dirigente sullo Stato a ogni livello, volta a invertire i progressi della classe operaia compiuti durante il New Deal e la Great Society, che sono stati erroneamente incolpati della crisi strutturale del capitale.
Con l’aggravarsi della stagnazione degli investimenti e dell’economia nel suo complesso e con le spese militari non più sufficienti a risollevare il sistema dalla sua stagnazione come nella cosiddetta “età dell’oro”, che era stata punteggiata da due grandi guerre regionali in Asia, il capitale aveva bisogno di trovare ulteriori sbocchi per il suo enorme surplus. Nella nuova fase del capitale monopolistico-finanziario, questo surplus è confluito nel settore finanziario, o FIRE (finanza, assicurazioni e immobili), e nell’accumulo di attività reso possibile dalla deregolamentazione della finanza da parte del governo, dall’abbassamento dei tassi d’interesse (il famoso “Greenspan put”) e dalla riduzione delle tasse sui ricchi e sulle imprese. Ciò ha portato alla creazione di una nuova sovrastruttura finanziaria al di sopra dell’economia produttiva, con una rapida crescita della finanza parallelamente alla stagnazione della produzione. Ciò è stato reso possibile in parte dall’espropriazione dei flussi di reddito in tutta l’economia attraverso l’aumento dell’indebitamento delle famiglie, dei costi assicurativi e dei costi sanitari, insieme alla riduzione delle pensioni, il tutto a spese della popolazione sottostante.46
Nel frattempo, si è verificato un massiccio spostamento della produzione aziendale verso il Sud del mondo, alla ricerca di costi unitari del lavoro più bassi, in un processo noto come arbitraggio globale del lavoro. Ciò è stato reso possibile dalle nuove tecnologie di comunicazione e trasporto e dall’apertura della globalizzazione a nuovi settori dell’economia mondiale. Il risultato è stato la deindustrializzazione dell’economia statunitense.47 Tutto questo ha coinciso negli anni ’90 con la grande crescita del capitale high-tech che ha accompagnato la digitalizzazione dell’economia e la generazione di nuovi monopoli high-tech. L’effetto cumulativo di questi sviluppi è stato un grande aumento della concentrazione e della centralizzazione del capitale, della finanza e della ricchezza. Anche se l’economia è stata sempre più caratterizzata da una crescita lenta, le fortune dei ricchi si sono espanse a passi da gigante: i ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, mentre l’economia statunitense si è avviata verso il XXI secolo con un ristagno pieno di contraddizioni. La profondità della crisi strutturale del capitale è stata temporaneamente mascherata dalla globalizzazione, dalla finanziarizzazione e dal breve emergere di un mondo unipolare, il tutto bucato dalla Grande Crisi Finanziaria del 2007-2009.48
Man mano che l’economia monopolistico-capitalistica del nucleo capitalistico diventava sempre più dipendente dall’espansione finanziaria, gonfiando le pretese finanziarie alla ricchezza nel contesto di una produzione stagnante, il sistema diventava non solo più diseguale, ma anche più fragile. I mercati finanziari sono intrinsecamente instabili, dipendenti come sono dalle vicissitudini del ciclo del credito. Inoltre, man mano che il settore finanziario diventava più piccolo della produzione, che continuava a ristagnare, l’economia era soggetta a livelli di rischio sempre maggiori. Ciò fu compensato da un maggiore salasso della popolazione nel suo complesso e da massicce infusioni finanziarie statali al capitale spesso organizzate dalle banche centrali.49
Non esiste una via d’uscita visibile da questo ciclo all’interno del sistema monopolistico-capitalistico. Quanto più la sovrastruttura finanziaria cresce rispetto al sistema produttivo sottostante (o all’economia reale) e quanto più lunghi sono i periodi di oscillazione verso l’alto del ciclo economico-finanziario, tanto più devastanti possono essere le crisi che ne conseguono. Nel XXI secolo, gli Stati Uniti hanno sperimentato tre periodi di crollo/recessione finanziaria, con il crollo del boom tecnologico nel 2000, la Grande Crisi Finanziaria/Grande Recessione derivante dallo scoppio della bolla dei mutui delle famiglie nel 2007-2009 e la profonda recessione innescata dalla pandemia COVID-19 nel 2020.
La svolta neofascista
La Grande Crisi Finanziaria ha avuto effetti duraturi sull’oligarchia finanziaria statunitense e sull’intero corpo politico, portando a significative trasformazioni nelle matrici di potere della società. La rapidità con cui il sistema finanziario è sembrato dirigersi verso un “crollo nucleare”, dopo il crollo di Lehman Brothers nel settembre 2008, ha gettato l’oligarchia capitalista e gran parte della società in uno stato di shock, con la crisi che si è rapidamente diffusa in tutto il mondo. Il crollo di Lehman Brothers, che è stato l’evento più drammatico di una crisi finanziaria che si stava sviluppando già da un anno, è stato provocato dal rifiuto del governo, in qualità di prestatore di ultima istanza, di salvare quella che all’epoca era la quarta banca d’investimento statunitense. Ciò era dovuto alla preoccupazione dell’amministrazione di George W. Bush per quello che i conservatori chiamavano l'”azzardo morale” che poteva derivare dall’assunzione di investimenti altamente rischiosi da parte di grandi aziende con l’aspettativa di essere salvate da salvataggi governativi. Tuttavia, con l’intero sistema finanziario che traballava in seguito al crollo di Lehman Brothers, un tentativo di salvataggio governativo massiccio e senza precedenti per salvaguardare gli asset di capitale è stato organizzato principalmente dal Federal Reserve Board. Questo ha incluso l’istituzione del “quantitative easing”, ovvero la stampa di denaro per stabilizzare il capitale finanziario, con conseguente iniezione di trilioni di dollari nel settore delle imprese.
All’interno dell’establishment economico, il riconoscimento aperto di decenni di stagnazione secolare, che era stato a lungo analizzato a sinistra dagli economisti marxisti (e redattori della Monthly Review) Harry Magdoff e Sweezy, è finalmente emerso all’interno del mainstream, insieme al riconoscimento della teoria dell’instabilità finanziaria di Hyman Minsky sulla crisi. Le deboli prospettive dell’economia statunitense, che puntavano a una continua stagnazione e finanziarizzazione, furono riconosciute sia dagli analisti economici ortodossi che da quelli radicali.50
La cosa più spaventosa per la classe capitalista statunitense durante la Grande Crisi Finanziaria è stato il fatto che, mentre l’economia statunitense e quelle di Europa e Giappone erano precipitate in una profonda recessione, l’economia cinese si era a malapena fermata per poi tornare a crescere quasi a due cifre. Da quel momento in poi la scritta sul muro era chiara: L’egemonia economica degli Stati Uniti nell’economia mondiale stava rapidamente scomparendo in linea con l’avanzata apparentemente inarrestabile della Cina, minacciando l’egemonia del dollaro e il potere imperiale del capitale monopolistico-finanziario statunitense.51
La Grande Recessione, pur avendo portato all’elezione a presidente del democratico Barack Obama, ha visto l’improvvisa esplosione di un movimento politico della destra radicale, basato principalmente sulla classe medio-bassa, che si è opposto ai salvataggi dei mutui per le case, ritenendo che questi andassero a beneficio della classe medio-alta e della classe operaia sottostante. La talk radio conservatrice, che si rivolge al suo pubblico bianco di classe medio-bassa, si è opposta fin dall’inizio a tutti i salvataggi governativi durante la crisi.52 Tuttavia, quello che è diventato noto come il movimento di destra radicale del Tea Party si è scatenato il 19 febbraio 2009, quando Rick Santelli, un commentatore della rete economica CNBC, ha iniziato una filippica su come il piano dell’amministrazione Obama per il salvataggio dei mutui per la casa fosse un piano socialista (che ha paragonato al governo cubano) per costringere le persone a pagare per i cattivi acquisti di case e per le case di lusso dei loro vicini, violando i principi del libero mercato. Nel suo intervento, Santelli ha citato il Tea Party di Boston e in pochi giorni sono stati organizzati gruppi Tea Party in diverse parti del Paese.53
Il Tea Party inizialmente rappresentava una tendenza libertaria che era finanziata dal grande capitale, in particolare dai grandi interessi petroliferi rappresentati dai fratelli David e Charles Koch – ognuno dei quali era allora nella top ten dei miliardari degli Stati Uniti – insieme a quella che è nota come la rete Koch di individui ricchi in gran parte associati al private equity. La decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti del 2010 Citizens United v. Federal Election Commission ha eliminato la maggior parte delle restrizioni al finanziamento dei candidati politici da parte di ricchi e aziende, consentendo al dark money di dominare la politica statunitense come mai prima d’ora. Ottantasette membri repubblicani del Tea Party sono stati eletti alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, perlopiù in distretti con una serie di seggi in cui i democratici erano praticamente assenti. Marco Rubio, uno dei preferiti del Tea Party, è stato eletto al Senato degli Stati Uniti dalla Florida. Ben presto è apparso evidente che il ruolo del Tea Party non era quello di avviare nuovi programmi, ma di impedire che il governo federale funzionasse del tutto. Il suo più grande risultato è stato il Budget Control Act del 2011, che ha introdotto tetti massimi e sequestri volti a impedire aumenti della spesa federale a beneficio della popolazione nel suo complesso (in contrapposizione ai sussidi al capitale e alle spese militari a sostegno dell’impero) e che ha prodotto lo shutdown governativo del 2013, ampiamente simbolico. Il Tea Party ha anche introdotto la teoria razzista del complotto (nota come birtherismo) secondo cui Obama sarebbe un musulmano nato all’estero.54
Il Tea Party, che non era tanto un movimento di base quanto una manipolazione conservatrice basata sui media, ha comunque dimostrato che si era creato un momento storico in cui era possibile per le sezioni del capitale monopolistico-finanziario mobilitare la classe medio-bassa, in maggioranza bianca, che aveva sofferto sotto il neoliberismo ed era la sezione più nazionalista, razzista, sessista e revanscista della popolazione statunitense sulla base della propria ideologia innata. Questo strato era quello che Mills aveva definito “la retroguardia” del sistema.55 Composta da manager di basso livello, piccoli imprenditori, piccoli proprietari terrieri rurali, cristiani evangelici bianchi e simili, la classe/strato medio-basso nella società capitalista occupa una posizione di classe contraddittoria.56 Con redditi generalmente ben al di sopra del livello mediano della società, la classe medio-bassa si trova al di sopra della maggioranza della classe operaia e generalmente al di sotto della classe medio-alta o dello strato professionale-manageriale, con livelli di istruzione più bassi e spesso identificandosi con i rappresentanti del grande capitale. È caratterizzata dalla “paura di cadere” nella classe operaia.57 Storicamente, i regimi fascisti sorgono quando la classe capitalista si sente particolarmente minacciata e quando la democrazia liberale non è in grado di affrontare le fondamentali contraddizioni politico-economiche e imperiali della società. Questi movimenti si basano sulla mobilitazione della classe dirigente della classe medio-bassa (o piccola borghesia) insieme ad alcuni dei settori più privilegiati della classe operaia.58
Nel 2013 il Tea Party era in declino, ma continuava a mantenere un notevole potere a Washington sotto forma di House Freedom Caucus, istituito nel 2015.59 Ma nel 2016 si sarebbe trasformato nel movimento Make America Great Again (MAGA) di Trump, una formazione politica neofascista a tutti gli effetti, basata su una stretta alleanza tra settori della classe dirigente statunitense e una classe medio-bassa mobilitata, che ha portato alla vittoria di Trump nelle elezioni del 2016 e del 2024. Nel 2016 Trump ha scelto come compagno di corsa Mike Pence, membro del Tea Party e politico di destra radicale sostenuto da Koch, dell’Indiana.60 Nel 2025, Trump avrebbe nominato Rubio, eroe del Tea Party, Segretario di Stato. Parlando del Tea Party, Trump ha dichiarato: “Quelle persone sono ancora lì. Non hanno cambiato le loro opinioni. Il Tea Party esiste ancora, solo che ora si chiama Make America Great Again”. 61
Il blocco politico MAGA di Trump non predicava più il conservatorismo fiscale, che per la destra era stato un mero strumento per minare la democrazia liberale. Tuttavia, il movimento MAGA ha mantenuto la sua ideologia revanscista, razzista e misogina orientata alla classe medio-bassa, insieme a una politica estera nazionalista e militarista estrema simile a quella dei Democratici. Il nemico unico che definisce la politica estera di Trump è la Cina in ascesa. Il neofascismo MAGA ha visto il riemergere del principio del leader in cui le azioni del leader sono considerate inviolabili. Questo principio è stato accompagnato da un maggiore controllo del governo da parte della classe dirigente, attraverso le sue fazioni più reazionarie. Nel fascismo classico in Italia e in Germania, la privatizzazione delle istituzioni governative (una nozione sviluppata sotto i nazisti) era associata a un aumento delle funzioni coercitive dello Stato e a un’intensificazione del militarismo e dell’imperialismo.62 In linea con questa logica generale, il neoliberismo ha costituito la base per l’emergere del neofascismo e ne è scaturita una sorta di cooperazione, alla maniera dei “fratelli guerrieri”, che ha portato alla fine a un’alleanza neofascista-neoliberale che domina lo Stato e i mezzi di comunicazione, radicata nelle più alte sfere della classe monopolista-capitalista.63
Oggi il dominio diretto di una parte potente della classe dirigente degli Stati Uniti non può più essere negato. La base familiare-dinastica della ricchezza nei Paesi a capitalismo avanzato, nonostante i nuovi ingressi nel club dei miliardari, è stata dimostrata da recenti analisi economiche, in particolare da Thomas Piketty in Capitale nel XXI secolo.ricchi aziendali, in cui coloro che accumulavano le grandi fortune, le loro famiglie e le loro reti rimanevano sullo sfondo e la classe capitalista non aveva e non poteva avere una forte presa sullo Stato, si sono dimostrati tutti in errore. La realtà odierna non è tanto quella della lotta di classe quanto quella della guerra di classe. Come ha dichiarato il miliardario Warren Buffett: “C’è una guerra di classe, d’accordo, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo”. 65
La centralizzazione del surplus globale nella classe monopolistica-capitalista statunitense ha creato un’oligarchia finanziaria senza precedenti, e gli oligarchi hanno bisogno dello Stato. Questo vale soprattutto per il settore dell’alta tecnologia, che dipende profondamente dalla spesa militare statunitense e dalla tecnologia militare sia per i suoi profitti che per la sua stessa ascesa tecnologica. Il sostegno di Trump è arrivato soprattutto dai miliardari che si sono privati (non basando la loro ricchezza su società pubbliche quotate in borsa e soggette a regolamentazione governativa) e dal private equity in generale.66 Tra i maggiori finanziatori rivelati della sua campagna per il 2024 ci sono Tim Mellon (nipote di Andrew Mellon ed erede della fortuna bancaria dei Mellon); Ike Perlmutter, ex presidente della Marvel Entertainment; il miliardario Peter Thiel, cofondatore di PayPal e proprietario di Palantir, un’azienda di sorveglianza e data mining sostenuta dalla CIA (il vicepresidente degli Stati Uniti JD Vance ha dichiarato di essere un miliardario.Il vicepresidente degli Stati Uniti JD Vance è un protetto di Thiel); Marc Andreessen e Ben Horowitz, due delle figure di spicco della finanza della Silicon Valley; Miriam Adelson, moglie del defunto miliardario dei casinò Sheldon Adelson; il magnate delle spedizioni Richard Uihlein, erede della fortuna della birra Uihlein Brewing-Schlitz; ed Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, proprietario di Tesla, X e SpaceX, che ha fornito oltre un quarto di miliardo di dollari alla campagna di Trump. Il dominio del dark money, superiore a tutte le precedenti elezioni, rende impossibile tracciare l’elenco completo dei miliardari che sostengono Trump. Tuttavia, è chiaro che gli oligarchi tecnologici sono stati al centro del suo sostegno.67
È importante notare che il sostegno di Trump nella classe capitalista e tra gli oligarchi tecnologico-finanziari non proveniva principalmente dai sei monopoli tecnologici originari: Apple, Amazon, Alphabet (Google), Meta (Facebook), Microsoft e (più recentemente) il leader della tecnologia AI Nvidia. Al contrario, è stato principalmente il beneficiario dell’alta tecnologia della Silicon Valley, del private equity e del grande petrolio. Sebbene sia un miliardario, Trump è un semplice agente della trasformazione politico-economica della classe dirigente che si sta verificando dietro il velo di un movimento popolare nazional-populista. Come ha scritto il giornalista ed economista scozzese ed ex deputato del Partito Nazionale Scozzese George Kerevan, Trump è un “demagogo, ma è ancora solo un simbolo delle vere forze di classe”.
L’amministrazione Biden ha rappresentato principalmente gli interessi dei settori neoliberali della classe capitalista, pur facendo alcune concessioni temporanee alla classe operaia e ai poveri. Prima della sua elezione aveva promesso a Wall Street che “nulla sarebbe fondamentalmente cambiato” se fosse diventato presidente.69 È stato quindi profondamente ironico che Biden abbia avvertito nel suo discorso di addio al Paese nel gennaio 2025: “Oggi in America sta prendendo forma un’oligarchia di estrema ricchezza, potere e influenza che minaccia letteralmente la nostra intera democrazia, i nostri diritti e le nostre libertà fondamentali e la possibilità per tutti di fare carriera”. Questa “oligarchia”, ha dichiarato Biden, è radicata non solo nella “concentrazione di potere e ricchezza”, ma anche nella “potenziale ascesa di un complesso tecnologico-industriale”. Le basi di questo potenziale complesso tecnologico-industriale che alimenta la nuova oligarchia, ha affermato, sono l’ascesa del “denaro nero” e l’IA incontrollata. Riconoscendo che la Corte Suprema degli Stati Uniti era diventata una roccaforte del controllo oligarchico, Biden ha proposto un limite di diciotto anni per i giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti. Nessun presidente americano in carica dai tempi di Franklin D. Roosevelt ha sollevato con tanta forza la questione del controllo diretto della classe dirigente sul governo degli Stati Uniti, ma nel caso di Biden ciò è avvenuto al momento della sua partenza dalla Casa Bianca.70
I commenti di Biden, anche se forse facili da ignorare sulla base del fatto che il controllo oligarchico dello Stato non è una novità negli Stati Uniti, sono stati senza dubbio indotti dalla sensazione di un grande cambiamento in atto nello Stato americano con una presa di potere neofascista. La vicepresidente Kamala Harris aveva apertamente descritto Trump come “fascista” durante la sua campagna per la presidenza.71 Non si trattava solo di manovre politiche e della solita porta girevole tra i partiti democratico e repubblicano nel duopolio politico statunitense. Nel 2021, la rivista Forbes ha stimato il patrimonio netto dei membri del gabinetto di Biden in 118 milioni di dollari.72 Per contro, gli alti funzionari di Trump comprendono tredici miliardari, con un patrimonio netto totale, secondo Public Citizen, di ben 460 miliardi di dollari, tra cui Elon Musk con un patrimonio di 400 miliardi di dollari. Anche senza Musk, il gabinetto miliardario di Trump ha un patrimonio di decine di miliardi di dollari, rispetto ai 3,2 miliardi della precedente amministrazione.73
Nel 2016, come ha notato Doug Henwood, i principali capitalisti statunitensi guardavano a Trump con un certo sospetto; nel 2025 l’amministrazione Trump è un regime di miliardari. La politica di destra radicale di Trump ha portato all’occupazione diretta di posti di governo da parte di figure tra i 400 americani più ricchi di Forbes con l’obiettivo di revisionare l’intero sistema politico statunitense. I tre uomini più ricchi del mondo si trovavano sull’affollato palco con Trump durante la sua inaugurazione nel 2025. Piuttosto che rappresentare una leadership più efficace da parte della classe dirigente, Henwood vede questi sviluppi come un segno del suo “marciume” interno.”74
Nell’appendice che Block scrisse al suo articolo “The Ruling Class Does Not Rule” (La classe dirigente non governa) quando fu ristampato da Jacobin nel 2020, egli raffigurava Biden come un agente politico ampiamente autonomo nel sistema statunitense. Block sosteneva che, a meno che Biden non istituisse una politica socialdemocratica volta a favorire la classe operaia – cosa che Biden aveva già promesso a Wall Street di non fare -, alle elezioni del 2024 avrebbe vinto qualcuno peggiore di Trump.75 Tuttavia, i politici non sono agenti liberi in una società capitalista. Né sono responsabili principalmente nei confronti degli elettori. Come recita l’adagio, “chi paga il pifferaio chiama la melodia”. Impediti dai loro grandi donatori di spostarsi anche solo leggermente a sinistra durante le elezioni, i Democratici, schierando Harris, il vicepresidente di Biden, come candidato alla presidenza, hanno perso perché milioni di elettori della classe operaia che avevano votato per Biden alle elezioni precedenti ed erano stati abbandonati dalla sua amministrazione hanno abbandonato a loro volta i Democratici. Piuttosto che sostenere Trump, gli ex elettori democratici hanno scelto soprattutto di aderire al più grande partito politico degli Stati Uniti: Il partito dei non votanti.76
Ciò che è emerso è qualcosa di peggiore della semplice ripetizione del precedente mandato presidenziale di Trump. Il regime demagogico MAGA di Trump è ora diventato un caso ampiamente non mascherato di governo politico della classe dirigente sostenuto dalla mobilitazione di un movimento revanscista principalmente di classe medio-bassa, che forma uno Stato neofascista di destra con un leader che ha dimostrato di poter agire impunemente e che ha dimostrato di essere in grado di oltrepassare le precedenti barriere costituzionali: una vera e propria presidenza imperiale. Trump e Vance hanno forti legami con la Heritage Foundation e con il suo reazionario Progetto 2025, che fa parte della nuova agenda MAGA.77 La questione ora è fino a che punto questa trasformazione politica della destra può spingersi e se sarà istituzionalizzata nell’ordine attuale, il che dipende dall’alleanza classe dirigente/MAGA, da un lato, e dalla lotta gramsciana per l’egemonia dal basso, dall’altro.
Il marxismo occidentale e la sinistra occidentale in generale hanno a lungo abbandonato la nozione di classe dirigente, ritenendola troppo “dogmatica” o una “scorciatoia” per l’analisi dell’élite di potere. Tali punti di vista, pur conformandosi alle finezze intellettuali e ai fili d’ago caratteristici del mondo accademico mainstream, inculcavano una mancanza di realismo debilitante in termini di comprensione delle necessità di lotta in un’epoca di crisi strutturale del capitale.
In un articolo del 2022 intitolato “The U.S. Has a Ruling Class and Americans Must Stand Up to It”, Sanders ha sottolineato che,
I problemi economici e politici più importanti che questo Paese deve affrontare sono gli straordinari livelli di disuguaglianza di reddito e di ricchezza, la rapida crescita della concentrazione della proprietà… e l’evoluzione di questo Paese verso l’oligarchia….
Oggi la disuguaglianza di reddito e di ricchezza è maggiore che in qualsiasi altro momento degli ultimi cento anni. Nel 2022, tre multimiliardari possiederanno più ricchezza della metà inferiore della società americana – 60 milioni di americani. Oggi, il 45% di tutti i nuovi redditi va al top 1%, e gli amministratori delegati delle grandi aziende guadagnano una cifra record, 350 volte superiore a quella dei loro lavoratori….
In termini di potere politico, la situazione è la stessa. Un piccolo numero di miliardari e amministratori delegati, attraverso i loro Super Pac, i fondi oscuri e i contributi alle campagne elettorali, giocano un ruolo enorme nel determinare chi viene eletto e chi viene sconfitto. Sono sempre più numerose le campagne in cui i Super Pac spendono più soldi dei candidati, che diventano i burattini dei loro burattinai. Nelle primarie democratiche del 2022, i miliardari hanno speso decine di milioni per cercare di sconfiggere i candidati progressisti che si battevano per le famiglie dei lavoratori.78
In risposta alle elezioni presidenziali del 2024, Sanders ha sostenuto che un apparato del Partito Democratico che ha speso miliardi per perpetrare “una guerra totale contro l’intero popolo palestinese” abbandonando la classe operaia statunitense, ha visto la classe operaia rifiutarlo a favore del Partito dei non votanti. Centocinquanta famiglie miliardarie, ha riferito, hanno speso quasi 2 miliardi di dollari per influenzare le elezioni statunitensi del 2024. Questo ha messo al potere nel governo federale un’oligarchia di classe dirigente che non finge più di rappresentare gli interessi di tutti. Nel combattere queste tendenze, Sanders ha dichiarato: “La disperazione non è un’opzione. Non stiamo combattendo solo per noi stessi. Stiamo combattendo per i nostri figli e per le generazioni future, e per il benessere del pianeta.”79
Ma come combattere? Di fronte alla realtà di un’aristocrazia del lavoro tra i lavoratori più privilegiati dei principali Stati monopolisti-capitalisti che si allineavano con l’imperialismo, la soluzione di Lenin fu quella di approfondire la classe operaia e allo stesso tempo ampliarla, basando la lotta su coloro che in ogni paese del mondo non hanno nulla da perdere se non le loro catene e che si oppongono all’attuale monopolio imperialista.80 In definitiva, il collegio elettorale dello Stato neofascista della classe dirigente di Trump è sottile come lo 0,0001%, costituendo quella porzione del corpo politico statunitense che il suo gabinetto miliardario può ragionevolmente essere detto di rappresentare.81
Note
“Full Transcript of President Biden’s Farewell Address”, New York Times, 15 gennaio 2025; Bernie Sanders, “The US Has a Ruling Class-And Americans Must Stand Up to It”, Guardian, 2 settembre 2022.
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Si veda Fred Magdoff e John Bellamy Foster, The Great Financial Crisis (New York: Monthly Review Press, 2009).
John Smith, Imperialism in the Twenty-First Century (New York: Monthly Review Press, 2016); Intan Suwandi, Value Chains: The New Economic Imperialism (New York: Monthly Review Press, 2019). L’applicazione di criteri finanziarizzati alle aziende ha alimentato le ondate di fusioni degli anni ’80 e ’90, con ogni sorta di acquisizione ostile di aziende “sottoperformanti” o “sottovalutate” che spesso portavano alla cannibalizzazione dell’azienda e alla vendita delle sue parti al miglior offerente. Si veda Perelman, Railroading Economics, 187-96.
Si veda John Cassidy, How Markets Fail: The Logic of Economic Calamities (New York: Farrar, Straus, and Giroux, 2009); James K. Galbraith, The End of Normal (New York: Simon and Schuster, 2015); Foster e McChesney, The Endless Crisis; Hans G. Despain, “Secular Stagnation: Mainstream Versus Marxian Traditions,” Monthly Review 67, no. 4 (settembre 2015): 39-55.
John Bellamy Foster e Brett Clark, “Imperialismo nell’Indo-Pacifico,” Rassegna mensile 76, no. 3 (luglio-agosto 2024): 6-13.
Matthew Bigg, “Conservative Talk Radio Rails against Bailout”, Reuters, 26 settembre 2008.
Kabaservice, “The Forever Grievance”; Suzanne Goldenberg, “Tea Party Movement: Billionaire Koch Brothers Who Helped It Growth”, Guardian, 13 ottobre 2010; Doug Henwood, “Take Me to Your Leader: The Rot of the American Ruling Class”, Jacobin, 27 aprile 2021.
C. Wright Mills, White Collar (New York: Oxford University Press, 1953), 353-54.
Sul concetto di contraddittorietà delle posizioni di classe, si veda Erik Olin Wright, Class, Crisis and the State (London: Verso, 1978), 74-97.
Barbara Ehrenreich, Fear of Falling: The Inner Life of the Middle Class (New York: HarperCollins, 1990); Nate Silver, “The Mythology of Trump’s ‘Working Class’ Support” (La mitologia del sostegno della classe operaia di Trump), ABC News, 3 maggio 2016; Thomas Ogorzalek, Spencer Piston e Luisa Godinez Puig, “White Trump Voters Are Richer than They Appear” (Gli elettori bianchi di Trump sono più ricchi di quanto sembrino), Washington Post, 12 novembre 2019.
L’analisi qui riportata si basa su John Bellamy Foster, Trump in the White House (New York: Monthly Review Press, 2017).
Trump citato in Kabaservice, “The Forever Grievance”.
Foster, Trump alla Casa Bianca, 26-27.
Karl Marx, Herr Vogt: A Spy in the Worker’s Movement (Londra: New Park Publications, 1982), 70.
Thomas Piketty, Capital in the Twenty-First Century (Cambridge, Massachusetts: Harvard University Press, 2014), 391-92.
Warren Buffett citato in Nichols e McChesney, Dollarocracy, 31.
Going Dark: The Growth of Private Markets and the Impact on Investors and the Economy”, U.S. Securities and Exchange Commission, 12 ottobre 2021, sec.gov; Brendan Ballou, Plunder: Private Equity’s Plan to Pillage America (New York: Public Affairs, 2023); Gretchen Morgenson e Joshua Rosner, These Are the Plunderers: How Private Equity Runs-and Wrecks-America (New York: Simon and Schuster, 2023).
Il gabinetto miliardario di Trump rappresenta il top 0,0001%”, Public Citizen, 14 gennaio 2025, citizen.org; Peter Charalambous, Laura Romero e Soo Rin Kim, “Trump ha intrappolato 13 miliardari senza precedenti nella sua amministrazione. Ecco chi sono”, ABC News, 17 dicembre 2024.
Adriana Gomez Licon e Alex Connor, “Billionaires, Tech Titans, Presidents: A Guide to Who Stood Where at Trump’s Inauguration”, Associated Press, 21 gennaio 2025; Doug Henwood, “Take Me to Your Leader: The Rot of the American Ruling Class”, Jacobin, 27 aprile 2021.
Block, “La classe dirigente non governa” (ristampa del 2020 con epilogo).
Domenico Montanaro, “Trump scende appena sotto il 50% nel voto popolare, ma ottiene più che nelle elezioni passate”, National Public Radio, 3 dicembre 2024, npr.org; Editors, “Notes from the Editors“, Monthly Review 76, n. 8 (gennaio 2025). Sul significato storico e teorico del Partito dei non votanti, si veda Walter Dean Burnham, The Current Crisis in American Politics (Oxford: Oxford University Press, 1983).
Bernie Sanders, “Gli Stati Uniti hanno una classe dirigente e gli americani devono opporsi”.
Bernie Sanders, “Dichiarazione di Bernie sulle elezioni“, Occupy San Francisco, 7 novembre 2024, occupysf.net; Jake Johnson, “Sanders Lays Out Plan to Fight Oligarchy as Wealth of Top Billionaires Passes $10 Trillion”, Common Dreams, 31 dicembre 2024.
V. I. Lenin, Collected Works, vol. 23 (Mosca: Progress Publishers, n.d.), 120.
Claypool, “Il gabinetto miliardario di Trump rappresenta il top 0,0001%”.
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Che cosa sta succedendo? Crollo dei mercati? Recessione? Guerra commerciale planetaria?
Al netto degli atteggiamenti arroganti, delle sparate propagandistiche e, in ultima analisi, degli errori di comunicazione di Donald Trump, la risposta è NO. Molto più semplicemente, siamo in presenza di un cambio di direzione – radicale, estremo, a 180 gradi – della politica economica degli Stati Uniti, e della reazione spasmodica dei perdenti: negli stessi USA, innanzitutto, e poi nel resto del mondo.
Chi sono i perdenti? I “mercati” o, meglio, le grandi multinazionali che dominano i mercati e che dietro i mercati si mimetizzano e si nascondono. Sono loro, in primissimo luogo, ad essere penalizzate dai dazi trumpiani, perché da oggi in poi non potranno più indulgere al loro giochetto preferito: “delocalizzare”, andare a fabbricare in Cina o nel terzo mondo a costi irrisori, per poi vendere i prodotti finiti sul mercato americano a prezzi salatissimi; con ciò non soltanto realizzando profitti da capogiro, ma anche ottenendo l’effetto collaterale di mettere in ginocchio la concorrenza della piccola imprenditoria, non in grado di rivaleggiare con costi di produzione “cinesi”.
Quando giornali e telegiornali ci dicono che nel tal giorno sui mercati sono stati “bruciati” tot miliardi di dollari, non è affatto vero, perché i soldi non si “bruciano”, non si dissolvono, non si distruggono. Cambiano soltanto di mano. Quello che qualcuno perde, qualcun altro guadagna. Nello specifico, sono state soprattutto le grandi multinazionali col vizietto della delocalizzazione a perdere denaro, attraverso il deprezzamento dei loro titoli azionari. Ma quel denaro è stato al tempo stesso guadagnato da qualcun altro, per esempio attraverso l’acquisto a prezzi vantaggiosi, talora vantaggiosissimi di quelle stesse azioni, con concrete prospettive di futuri (ed ingenti) guadagni. Nel gioco dei mercati, una “giornata nera” per qualcuno corrisponde quasi sempre ad una “giornata rosa” per qualcun altro.
A prescindere dai miliardi non bruciati, comunque, quello che Trump ha avviato è un cambiamento di proporzioni gigantesche, certamente positivo, enormemente positivo. In prospettiva, naturalmente, fatti salvi gli inevitabili contraccolpi negativi nell’immediato. Così come gli effetti potrebbero essere positivi anche in Europa, se anche in Europa, invece che fare da cassa di risonanza per le doglianze dei “mercati”, si avrà il coraggio di adottare un radicale cambio di passo; meglio se bonificato da certe stupidissime “riforme” ed accompagnato dal ritorno alla collaborazione economica con la Russia.
Ma, al di là delle misure contingenti, in che cosa consiste il cambiamento trumpiano? In sintesi, nel ripudio della globalizzazione e nel ritorno al vecchio e sperimentato protezionismo. Il che vuol dire buttare a mare tutta la storia americana del XX secolo e dei primi decenni del XXI, e ritornare all’America profonda dell’Ottocento, con una ricchezza (crescente) che era riversata sul popolo, e non riservata al grande capitale speculativo, come avvenuto poi con la globalizzazione.
È stato il grande capitale speculativo anglosassone – peraltro con quartier generale a Londra e non a Washington – a determinare la fine del protezionismo USA; e a determinare anche l’affermarsi di quella politica di “libertà dei commerci” che ha impoverito il popolo americano ed ha arricchito le grandi multinazionali ed il grande capitale. Ed è stato sempre in nome della “libertà dei commerci” che l’America ha intrapreso due guerre mondiali e le altre che sono seguìte (ultima, quella camuffata da guerra russo-ucraina) con la scusa – bugiarda – di voler esportare la democrazia anglosassone in tutti gli angoli del globo terraqueo.
Ci ricordiamo dei “Quattordici Punti” con cui il Presidente Wilson dettò le regole cui il mondo avrebbe dovuto soggiacere dopo la prima guerra mondiale? Del terzo di quei punti, in particolare: «Soppressione, fino ai limiti del possibile, di tutte le barriere economiche e stabilimento di condizioni commerciali uguali per tutte le nazioni che consentono alla pace e si accordano per mantenerla.» Era il manifesto della globalizzazione ante litteram, il grimaldello che doveva consentire all’alta finanza anglo-americana di invadere il mondo con i suoi “commerci” e con le sue manovre finanziarie. E non a beneficio del popolo americano, ma a proprio profitto, a profitto cioè di quella ristrettissima cerchia di manovratori e speculatori che dei “commerci” mondiali muovevano le fila. Ieri come oggi.
Certo, nell’immediato è difficile cogliere la vastità della rivoluzione protezionista che adesso muove i primi passi. Quello che emerge è la “guerra dei dazi” con le sue conseguenze immediate sulle economie degli altri paesi. Fino a quando gli altri paesi – a cominciare dal nostro – non si renderanno conto che un ritorno al protezionismo sarebbe certamente utile anche per loro. Che sarebbe cosa buona e giusta riversare i frutti della crescita economica sulle rispettive popolazioni, e non consentire che ad avvantaggiarsene siano i soliti magnati delle multinazionali e dell’alta finanza.
I dazi – lo ricordo – sono sempre esistiti: come strumento atto a proteggere le produzioni economiche degli Stati (anticamente anche di singoli comuni) dalla concorrenza di altri paesi. Erano uno strumento di difesa degli interessi nazionali. E la loro graduale attenuazione è andata di pari passo con la attenuazione della difesa degli interessi nazionali, a pro di una ristrettissima cerchia di manovratori dell’ipercapitalismo parassitario.
Ben venga, quindi, una ragionevole rivalutazione dei dazi, a scapito dell’alta finanza. Purché tale rivalutazione non sia limitata ad un solo paese. Purché – tanto per intenderci – invece di studiare velleitarie “vendette” che farebbero il solletico agli Stati Uniti, ci si attrezzi per ritornare al protezionismo anche dalle nostre parti, per proteggere le nostre produzioni, la nostra economia, i nostri interessi. Anche a costo di dare un dispiacere ai “mercati” e alle banche “d’affari”.
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Con la fine della Rasputitsa , le voci di offensive russe si stanno rafforzando. In una nuova intervista con LB.UA , il comandante in capo ucraino Syrsky ha rilasciato diverse dichiarazioni interessanti. La prima è che l’offensiva russa nelle regioni di Sumy e Kharkov è “già iniziata”.
“La nuova offensiva primaverile della Russia contro l’Ucraina nordorientale ‘in realtà è già iniziata’”, ha dichiarato il comandante in capo Oleksandr Syrskyi in un’intervista al quotidiano LB.UA pubblicata il 9 aprile. I commenti di Syrskyi seguono l’avvertimento del presidente Volodymyr Zelensky secondo cui Mosca sta radunando le forze per una nuova offensiva contro le oblast’ di Kharkiv e Sumy questa primavera.
“Posso dire che il presidente ha assolutamente ragione e che questa offensiva è di fatto già iniziata”, ha detto Syrskyi. “Per quasi una settimana, le operazioni offensive russe sono quasi raddoppiate in tutti i settori principali”, ha osservato il comandante in capo.
Ciò è confermato dalle prove in prima linea, poiché le forze russe hanno continuato a compiere incursioni in queste regioni. In particolare a Sumy, la Russia è avanzata negli ultimi giorni, conquistando Veselovka e da oggi entrando a Loknya, come mostrato di seguito:
Anche Zhurava è stata presa lì vicino:
Secondo quanto riferito, la Russia starebbe utilizzando massicciamente la tattica dell'”imboscata con i droni” in questa regione, dove il drone rimane in agguato lungo la strada fino all’arrivo di un veicolo dell’AFU. Il video qui sotto sarebbe stato girato proprio vicino a Loknya, dove i droni russi stanno devastando le rotte logistiche ucraine:
Si dice che questa sia la strada della morte ucraina che porta a Loknya, video ripreso dalla parte dell’AFU:
A Kharkov, il fronte si svegliò improvvisamente quando le forze russe fecero nuovi progressi a Vovchansk per la prima volta apparentemente dopo settimane se non mesi.
Allo stesso modo, a sud-est di lì, le forze russe hanno compiuto importanti progressi sul fronte di Lyman. Molti canali militari ucraini hanno decantato i successi russi lì negli ultimi giorni:
Un altro analista ucraino sulla direzione sopra indicata:
In direzione dell’estuario, gli occupanti riuscirono nuovamente ad avanzare in profondità nelle nostre posizioni.
Ciò vale per la linea Katerynivka-Nove , dove il nemico si insinuò tra i villaggi, tagliò entrambi i castellani che li collegavano e ottenne un punto d’appoggio.
In tali condizioni, la difesa di Katerynivka era praticamente impossibile, quindi il villaggio non è controllato dalle Forze di Difesa.
Poi i panini vanno a Novomykhaylivka e, in realtà, a Novye. E lì anche Lypove va insieme.
Dal distretto di Makiivka la feccia cerca di raggiungere Hrekivka.
L’obiettivo intermedio dell’occupante è quello di catturare la linea Andriyivka-Izyumske-Stepove per paralizzare la logistica sia nella direzione di Borivka che in quella dell’estuario settentrionale.
I luoghi a cui si fa riferimento sono:
In un nuovo articolo della Reuters , un “alto funzionario ucraino” di nome Pavlo Palisa ha affermato che la vera spinta dovrebbe iniziare entro la fine di questo mese e a maggio:
Uno dei modi in cui sappiamo che la Russia ha iniziato a intensificare le offensive è il maggiore utilizzo di formazioni di veicoli corazzati. Durante i mesi invernali abbiamo assistito a un numero molto maggiore di azioni su piccola scala, con l’ormai consueta tattica “a goccia” di inserire piccoli gruppi di truppe nelle posizioni di atterraggio di siepi e foreste tramite quad leggeri e mobili, biciclette, ecc.
Ora abbiamo ricominciato a vedere colonne pesantemente corazzate di carri armati modificati, dotati di rulli anti-mine e del classico design “a capannone”. Nell’ultimo Sitrep ho seguito l’assalto della 4a Brigata Fucilieri Motorizzata russa nell’area a sud di Chasov Yar. Ora è stato pubblicato un nuovo sguardo a quell’assalto, che ci mostra un aspetto interessante che raramente ci capita di vedere.
Nel video, possiamo vedere non solo un gran numero di droni FPV ucraini che falliscono contro i carri armati russi “fortificati”, ma soprattutto, come i carri armati che alla fine vengono disattivati vengono ripristinati dalle forze di ingegneria russe. Questo getta un’ombra sulle richieste di risarcimento danni giornaliere ucraine per i veicoli russi, in cui le riprese rapide e montate dei colpi ai carri armati russi vengono invariabilmente conteggiate come “uccisioni”, quando in realtà gran parte dei veicoli viene rimorchiata alla base di riparazione e diligentemente restaurata.
Inoltre, dato che le truppe russe stanno avanzando attivamente, ha più senso che abbiano maggiori opportunità di recuperare veicoli danneggiati ma recuperabili da entrambe le parti, restaurandone poi una buona percentuale. La parte in ritirata, ovvero l’AFU, ci rimette. Dopotutto, non è forse questa la scusa usata dai sostenitori dell’UA per giustificare la richiesta della Russia di raccogliere sempre più cadaveri per gli scambi “cargo 200”? Per non parlare del fatto che i veicoli restaurati vengono poi ripetutamente colpiti, gonfiando enormemente la categoria dei “veicoli distrutti”.
A proposito, a questo proposito, un membro del team di Oryx ha fornito un aggiornamento sul conteggio dei veicoli persi durante l’offensiva di Kursk:
Si noti che persino il team di Oryx ammette ora che l’Ucraina ha perso più veicoli della Russia, dipingendo ufficialmente l’operazione come un fallimento totale. Ora che la Russia ha di fatto riconquistato praticamente tutto, chi pensate che riceverà tutti quei veicoli distrutti, ripristinandone una buona percentuale?
Corollario a quanto sopra: ieri le forze russe hanno finalmente catturato completamente l’ultimo vero insediamento della regione di Kursk a Guevo:
Torniamo ancora una volta all’intervista di Syrsky : è un’intervista lunga e ricca di spunti interessanti.
In primo luogo, alimenta nuovamente i timori di una grande offensiva russa contro Kiev entro la fine dell’anno, citando le esercitazioni su larga scala “Zapad” in Bielorussia, previste per settembre.
Syrsky sostiene:
Tutte le esercitazioni hanno uno scopo. In altre parole, l’organizzazione di esercitazioni è il modo più appropriato per spostare, trasferire truppe, concentrarsi su una determinata direzione e creare un gruppo di truppe.
In realtà è così che è iniziato tutto, nel 2022. Ricorderete che inizialmente il gruppo era stato creato, conduceva delle esercitazioni e tutti speravamo che finissero e che le truppe russe tornassero nel loro territorio.
Ma quando si decise di proseguire con questi esercizi, mi divenne chiaro che tutto sarebbe cambiato.
Un altro dettaglio interessante: sostiene che il vantaggio dell’artiglieria russa sia ora solo di 2:1, anziché 10:1 come l’anno scorso. Sostiene che la distruzione dell’arsenale russo di Toropets da parte dell’Ucraina nel settembre 2024 abbia portato la Russia a dimezzare il suo utilizzo di proiettili. La Russia è passata da oltre 40.000 colpi al giorno a 23.000, secondo lui, anche se di recente la quantità è “aumentata leggermente” a 27-28.000.
È interessante notare che Le Monde ha appena riportato ieri che il “più grande impianto di produzione di munizioni” dell’Ucraina è stato distrutto dagli attacchi russi:
Distrutto a Shostka, nella regione di Sumy, il principale impianto di produzione di munizioni ucraino — Le Monde
Lo ha detto al giornale il comandante della compagnia UAV della 104a brigata di difesa territoriale ucraina Anton Serbin.
“Nel 2024, gli impianti Zvezda (polvere da sparo) e Impuls (detonatori) sono stati bombardati più volte, anche il 31 dicembre 2024, quando sono stati lanciati contro di essi 13 missili balistici”, si legge nella pubblicazione.
“Il nostro principale impianto nazionale di produzione di munizioni è stato distrutto”, ha affermato Serbin.
La parte più significativa dell’intervista riguarda i numeri della mobilitazione di entrambe le parti:
Ma voglio dire che il fronte è in costante aumento, l’operazione Kursk e le azioni del nemico nella regione di Kharkiv, a Volchansk, ci hanno fatto aumentare il fronte di 200 km.
E il nemico ha quintuplicato il suo contingente dall’inizio dell’aggressione. Ogni mese aumentano di otto-novemila unità, in un anno arrivano a 120-130mila. Il 1° gennaio 2025, in Russia, il contingente di truppe impegnato nei combattimenti in Ucraina contava 603mila militari, oggi è già di 623mila.
Sopra afferma che la Russia ha quintuplicato le dimensioni del suo intero gruppo militare nell’SMO dall’inizio. Dato che afferma che il contingente russo è ora di 623.000 uomini, possiamo supporre che la Russia abbia iniziato il conflitto con soli 125.000 uomini, non con gli oltre 250.000 più spesso dichiarati.
È interessante notare che Syrsky in seguito accenna a un’ulteriore conferma di ciò quando afferma che l’assalto russo a Kiev consisteva in soli 9 battaglioni, ovvero appena due brigate. Se la direzione principale aveva così pochi effettivi, come è possibile che si sia inventata la famigerata bufala dei “250 BTG”?
Ma torniamo indietro e leggiamo di nuovo cosa dice:
Ogni mese aumentano di otto-novemila unità, in un anno arrivano a 120-130mila. Il 1° gennaio 2025, in Russia, il contingente militare impegnato nei combattimenti in Ucraina contava 603mila militari, oggi sono già 623mila.
Questo è fondamentale: sta affermando che ogni mese la Russia guadagna un netto positivo di 8-9 mila uomini, e il gruppo totale cresce di 120-130 mila all’anno. Solo dal 1° gennaio 2025, il gruppo russo è aumentato di 20.000 unità. Dove sono ora i propagandisti occidentali, che hanno proclamato a gran voce che la Russia sta perdendo così tanti uomini da perdere un netto negativo al mese?
Ipoteticamente, supponendo che le affermazioni di entrambe le parti siano vere: la Russia afferma di reclutare 30.000 uomini al mese; Syrsky sostiene che il guadagno netto sia di circa 8.000-9.000. Questo implica 21.000-22.000 perdite mensili, ovvero oltre 700 al giorno, o forse 300 morti e 300 feriti irrecuperabili. Tuttavia, a differenza dell’Ucraina, la Russia consente la smobilitazione tramite scadenza del contratto, e quindi gran parte di queste perdite mensili è dovuta ai soldati che lasciano l’SMO a causa del mancato rinnovo del contratto. È difficile stimare l’esatta percentuale di questo ammontare, ma ipotizziamo che sia ipoteticamente il 50%, il che ridurrebbe le perdite russe a una media giornaliera di 150 morti, cifra che probabilmente non si discosta dalla realtà. Va anche detto che i funzionari ucraini avevano precedentemente affermato che la Russia stava mentendo e che stava mobilitando solo un totale di circa 20.000 al mese, il che avrebbe ridotto ulteriormente le perdite nette.
Syrsky ammette anche, con tristezza, che le risorse totali di mobilitazione della Russia sono tristemente vaste:
Se consideriamo le risorse di mobilitazione preparate del nemico – coloro che hanno prestato servizio militare, che si sono addestrati – ammontano a circa 5 milioni di persone. E le risorse di mobilitazione nel loro complesso ammontano a 20 milioni. Immaginate il loro potenziale. E cosa possiamo fare in queste condizioni? Mobilitazione e trasferimento, naturalmente.
Come ultima nota, Syrsky ammette in modo interessante che l’intera operazione Kursk aveva lo scopo di rallentare un’offensiva russa pianificata su tutto il fronte:
Dopo di che, il nemico si riorganizzò, completò l’addestramento del 44° corpo d’armata e, di fatto, da metà giugno, iniziò un’operazione strategica su tutto il fronte. Iniziò ad attaccare Vremennyj Yar, Toretsk, New York, Pokrovsk, Zaporozhye, in direzione di Kupjanskij, a Limanskij, cioè praticamente ovunque.
La situazione era critica, e in queste condizioni era necessario fare qualcosa per indebolire il più possibile l’assalto nemico. E così, infatti, nacque l’idea di condurre la controffensiva dove il nemico non se l’aspettava e dove era più debole.
Ora che Kursk è finito, sembra che la Russia stia riprendendo l’offensiva su tutti i fronti, solo che questa volta l’Ucraina non ha più inganni.
Detto questo, si vocifera che l’Ucraina abbia accumulato delle riserve per un nuovo tentativo offensivo con lo stesso scopo, ma ogni volta si registra una sorta di calo dei profitti per ciò che riesce a radunare, man mano che le sue risorse si riducono.
—
Per concludere gli aggiornamenti sulla prima linea, l’altra importante area di successo offensivo è stata ancora una volta la linea di Zaporozhye, dove le forze russe hanno completato le catture lungo i fianchi vicino a Stepove, appiattendo il fronte:
La prossima volta parleremo di numerosi altri progressi, tra cui quello a Toretsk e quello in direzione sud di Konstantinovka.
In direzione di Kupyansk, i canali ucraini sostengono addirittura che la Russia stia utilizzando “mini sottomarini” per trasferire truppe nel crescente bacino del fiume Oskil:
Direzione Kupjansk, informazioni da “Un residente di Kharkiv adeguato”. Sui canali ucraini si sta diffondendo la notizia che l’esercito russo sta utilizzando microsommergibili per trasferire fanteria e munizioni alla testa di ponte sulla riva occidentale dell’Oskol. Gli aerei magiari nemici sorvolano il fiume giorno e notte, ma non vedono alcun segno di forze in movimento dall’altra parte del fiume: nemmeno un’imbarcazione, eppure la nostra fanteria spunta da qualche parte sulla riva occidentale. Un tunnel sotterraneo? Nessuna risposta per ora.
—
Abbiamo mostrato la foto l’ultima volta, ma ora arriva il video completo del reporter di prima linea Kulko sui più di 1.600 droni ucraini abbattuti dalla guerra elettronica russa sul fronte di Kursk:
Analogamente, un rapporto di prima linea della Zvezda sulle tattiche di assalto russe, che utilizzano grandi fumogeni per nascondersi:
Alcune foto dei nuovi BMP-3 e T-72B3M prodotti in serie, dotati di nuovi cuscinetti in gomma anti-drone e di moduli EW standard di fabbrica:
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Ciò dovrebbe simboleggiare la riduzione degli aiuti militari americani a Kiev, non rappresentare il primo passo verso un ritiro completo dalla Polonia o dall’Europa centrale e orientale nel suo complesso.
Il Pentagono ha annunciato lunedì che le forze statunitensi si ritireranno dal centro logistico polacco di Rzeszow per l’Ucraina e si riposizioneranno altrove nel Paese, secondo un piano (finora non reso noto). Il giorno dopo, NBC News ha riportato che Trump potrebbe presto ritirare metà dei 20.000 soldati statunitensi che Biden ha inviato in Europa centrale e orientale (CEE) dal 2022. Secondo le loro fonti, la maggior parte verrà ritirata da Polonia e Romania, i due Paesi più grandi sul fianco orientale della NATO.
Il presidente polacco , il primo ministro e il ministro della Difesa si sono affrettati a dichiarare che il riposizionamento di lunedì non equivale né presagisce un ritiro delle forze statunitensi dalla Polonia, ma le speculazioni continuano a circolare sui piani di Trump considerando il nascenteRusso – USA ” NuovoDistensione ”. Alla fine del 2021, Putin ha chiesto agli Stati Uniti di ritirare le proprie forze dall’Europa centro-orientale, in modo da ripristinare il rispetto da parte di Washington del NATO-Russia Founding Act del 1997, le cui numerose violazioni hanno aggravato il dilemma di sicurezza russo-statunitense.
Il rifiuto di Biden di discuterne ha contribuito a rendere definitiva l’ultima fase della ormai decennaleIl conflitto ucraino è inevitabile convincendo Putin che quello che presto sarebbe stato conosciuto come lo specialeL’operazione era l’unico modo per ripristinare il sempre più sbilanciato equilibrio strategico tra Russia e Stati Uniti. A differenza di Biden, Trump sembra aperto ad accogliere almeno parzialmente la richiesta di Putin, che potrebbe diventare uno dei numerosi compromessi pragmatici che stanno negoziando per normalizzare i rapporti e porre fine alla guerra per procura.
Il presidente conservatore uscente della Polonia vuole il maggior numero possibile di truppe statunitensi, incluso il dispiegamento di alcune dalla Germania , mentre il Primo Ministro liberale in carica sta valutando la possibilità di affidarsi alla Francia per bilanciare gli Stati Uniti o di virare direttamente verso la prima opzione. L’esito delle elezioni presidenziali del mese prossimo giocherà un ruolo fondamentale nel determinare la politica polacca in questo senso e potrebbe essere influenzato dalla percezione (corretta o meno) di un abbandono della Polonia da parte degli Stati Uniti.
Qualsiasi riduzione delle truppe statunitensi in Polonia o la convinzione dell’opinione pubblica che ciò sia inevitabile potrebbe giocare a favore del candidato liberale filo-europeo, mentre una conferma esplicita dell’impegno degli Stati Uniti a mantenere – per non parlare di ampliare – il livello attuale potrebbe aiutare i candidati conservatori e populisti filo-americani. Anche se il prossimo presidente della Polonia fosse un liberale, tuttavia, gli Stati Uniti potrebbero ancora contare sul Paese come baluardo regionale di influenza militare e politica, se l’amministrazione Trump giocasse bene le sue carte.
Affinché ciò accada, gli Stati Uniti dovrebbero mantenere un numero di truppe superiore a quello presente prima del 2022, anche in caso di ritiro di alcune truppe, garantire che questo livello rimanga superiore a quello di qualsiasi altro Paese dell’Europa centro-orientale e trasferire alcune tecnologie militari per la produzione congiunta. Il primo imperativo rassicurerebbe psicologicamente la popolazione politicamente russofoba sul fatto che non verrà abbandonata, il secondo è legato al prestigio regionale e il terzo manterrebbe l’Europa centro-orientale all’interno dell’ecosistema militare-industriale statunitense , in un contesto di concorrenza europea .
Questo potrebbe essere sufficiente per contrastare i possibili piani dei liberali di virare verso la Francia a scapito dell’influenza degli Stati Uniti o per mantenere la posizione predominante degli Stati Uniti in Polonia, se un presidente liberale collaborasse con un Primo Ministro di idee simili per fare affidamento sulla Francia per bilanciare un po’ gli Stati Uniti. Anche se l’amministrazione Trump perdesse questa opportunità per mancanza di visione o se un governo pienamente liberale in Polonia attaccasse gli Stati Uniti per ragioni ideologiche, non ci si aspetta che gli Stati Uniti abbandonino completamente la Polonia.
La stragrande maggioranza dell’equipaggiamento militare polacco è americano, il che porterà quantomeno alla fornitura continua di pezzi di ricambio e probabilmente getterà le basi per ulteriori scambi di armi . Le forze statunitensi sono attualmente dislocate in quasi una dozzina di basi in tutto il paese, e il ruolo consultivo che alcune svolgono contribuisce a plasmare la prospettiva, le strategie e le tattiche della Polonia durante il suo continuo rafforzamento militare. Non c’è quindi motivo per cui gli Stati Uniti dovrebbero cedere volontariamente tale influenza su quella che oggi è la terza più grande forza militare della NATO .
Pertanto, lo scenario più radicale di una svolta polacca a guida liberale a pieno titolo verso la Francia sarebbe limitato dall’impraticabilità di sostituire le attrezzature militari americane con quelle francesi in tempi brevi, con il limite massimo a cui ciò potrebbe portare: ospitare caccia Rafale dotati di equipaggiamento nucleare. La Polonia potrebbe anche invitare alcune truppe francesi nel paese, anche a scopo consultivo, e magari anche firmare qualche accordo per la fornitura di armi. Non chiederà, tuttavia, alle forze statunitensi di andarsene, poiché desidera preservarne il potenziale di intrappolamento.
Considerando l’interazione di questi interessi, si può concludere che il ritiro degli Stati Uniti dalla base logistica polacca di Rzeszow per l’Ucraina intende simboleggiare la riduzione degli aiuti militari americani a Kiev, non rappresentare il primo passo verso un ritiro completo dalla Polonia o dall’Europa centro-orientale nel suo complesso. Sebbene alcune riduzioni regionali delle truppe statunitensi siano possibili come uno dei diversi compromessi pragmatici che Trump potrebbe concordare con Putin per normalizzare i rapporti e porre fine alla guerra per procura, non è previsto un ritiro completo.
Vivono una dissonanza cognitiva perché lui è sia sionista che pragmatico nei confronti della Russia.
Il Primo Ministro ungherese Viktor Orbán ha annunciato che il suo Paese si ritirerà dalla Corte Penale Internazionale (CPI) in segno di protesta contro il mandato di arresto emesso nei confronti del suo omologo israeliano Benjamin “Bibi” Netanyahu, accusato di crimini di guerra. Questo ha coinciso con l’accoglienza di Bibi da parte di Orbán a Budapest. Entrambe le decisioni sono state audaci, considerando l’alta considerazione che i suoi colleghi europei attribuiscono alla CPI e la scarsa considerazione che molti di loro attribuiscono a Bibi. Gli atteggiamenti non occidentali nei confronti di Bibi sono simili, ma più contrastanti, quando si tratta della CPI.
Orbán era già la pecora nera dell’Europa a causa della sua costante difesa della pace in Ucraina e delle critiche al bellicismo dell’UE contro la Russia, la cui posizione generale era responsabile del fatto che molti non occidentali nutrissero un’opinione positiva su di lui. Potrebbero tuttavia iniziare a inasprirsi nei suoi confronti, poiché anche l’opinione pubblica non occidentale sostiene fermamente la Palestina e quindi nutre un’opinione molto negativa su Bibi. Alcuni influencer e media alternativi potrebbero persino capovolgere la situazione e condannare Orbán come “sionista”.
Qui risiede un punto importante da sottolineare riguardo al gruppo estremamente eterogeneo di persone che si affida a fonti di informazione non mainstream per orientarsi e contribuire alle discussioni all’interno di questa comunità. Molti tendono a valutare tutto in un sistema a somma zero, per cui leader, gruppi e Paesi sono considerati buoni o cattivi, senza vie di mezzo. Questa mancanza di sfumature e l’incapacità di cogliere la complessità delle Relazioni Internazionali rendono la maggior parte dei loro prodotti informativi una forma di attivismo politico anziché una vera e propria analisi.
Nel caso di Orbán, qualcuno potrebbe presto buttare via il bambino con l’acqua sporca, attaccandolo ferocemente per le sue politiche ferocemente filo-israeliane , rischiando di screditare le sue politiche pragmatiche nei confronti della Russia, per le quali molti lo avevano finora elogiato. Dopotutto, una volta che qualcuno viene etichettato come “sionista” da membri influenti della Alt-Media Community (AMC), diventa tossico per molti associarsi con lui e coloro che non si uniscono a lui, per non parlare del fatto che continuano a elogiarlo, rischiano di essere “cancellati”.
Orban può essere oggettivamente descritto come sionista poiché sostiene lo Stato di Israele come patria ebraica ( soloPiacePutin ), ma il termine è stato strumentalizzato dall’AMC per demonizzare qualcuno. I sostenitori di questa visione non possono accettare che un leader, un gruppo o un paese etichettato come “sionista” possa anche fare qualcosa che considerano giusto. L’accoglienza di Bibi da parte di Orbán e il suo ritiro dalla CPI per protestare contro il mandato di cattura emesso nei suoi confronti li pongono quindi in un dilemma alla luce delle sue politiche pragmatiche nei confronti della Russia.
Alcuni membri dell’AMC condividono l’opinione della Russia e di altri importanti Paesi sull’illegittimità della CPI, quindi non sono mai passati dalla condanna di quell’organismo quando ha emesso un mandato d’arresto per Putin all’inizio del 2023 all’elogio dopo averne emesso uno per Bibi. Quasi tutti, tuttavia, sostengono fermamente la Palestina, quindi sono inclini a condannare Orbán per aver almeno ospitato Bibi e forse anche per essersi ritirato dalla CPI, sia perché sostengono la CPI, sia perché lo ha fatto in solidarietà con Israele.
L’AMC dovrebbe pensarci due volte prima di demolire lo stesso uomo che molti di loro hanno in precedenza costruito. Per quanto siano appassionati della Palestina, “cancellare” Orbán in quanto sionista screditerebbe anche, per associazione, le sue politiche pragmatiche nei confronti della Russia, per le quali molti di loro nutrono altrettanta passione. Dovrebbero quindi accettare che essere sionisti non squalifica qualcuno dall’essere pragmatici nei confronti della Russia e poi iniziare finalmente ad affrontare l’annoso problema della “cultura della cancellazione” dell’AMC.
L’Ungheria non scenderà in guerra contro la Croazia a sostegno della Serbia, abbandonando di fatto la NATO con tutte le conseguenze a cascata che ciò comporterebbe, tra cui una possibile invasione della NATO.
Il presidente serbo Aleksandar Vučić ha attirato l’attenzione regionale elogiando la roadmap militare recentemente firmata dal suo Paese con l’Ungheria, definendola “un passo più vicino a un’alleanza serbo-ungherese”. Il contesto immediato riguarda la dichiarazione di difesa congiunta di metà marzo tra Croazia, Albania e Kosovo. Tutti e tre hanno una storia recente di conflitto con la Serbia, Belgrado rivendica ancora quella che considera la sua Provincia Autonoma del Kosovo e Metohija, occupata dalla NATO, e c’è una nuova ondata di incertezza in Bosnia.
La creazione di fatto di un’alleanza croato-albanese/”kosovara”, i recenti problemi in Bosnia e l’intenzione di Vučić di creare un’alleanza ungherese-serba hanno quindi sollevato preoccupazioni sul fatto che queste due alleanze possano entrare in guerra tra loro per il Kosovo e/o la Bosnia. Ognuna di esse conta anche membri della NATO, Croazia e Albania nella prima e Ungheria nella seconda, correndo così il rischio di una crisi intra-blocco ben peggiore di quella greco-turca del 1974 per Cipro, se questo scenario si concretizzasse.
Potrebbe non esserlo, tuttavia, o almeno non nel senso di una guerra tra questi due gruppi di paesi. Sebbene sia del tutto possibile che la Croazia sfrutti una crisi nelle relazioni serbo-albanesi/”kosovare” per attuare un’azione militare coordinata a sostegno dei suoi connazionali in Bosnia, o che sfrutti una crisi croato-bosniaca per attuare un’azione militare coordinata contro la Serbia, è improbabile che l’Ungheria intervenga. Questo perché non ha interessi di sicurezza nazionale urgenti in gioco che giustifichino i costi incalcolabili.
Il Primo Ministro Viktor Orbán è un pragmatico consumato che dà priorità alla sua concezione degli interessi nazionali, così come li intende sinceramente. Lo scenario peggiore che potrebbe aspettarsi da un altro conflitto regionale sul Kosovo e/o sulla Bosnia è un afflusso di rifugiati (per lo più serbi) in Ungheria, il cui numero totale sarebbe probabilmente molto inferiore a quello registrato durante il culmine della crisi migratoria del 2015 e per la cui gestione il suo governo ha predisposto piani di emergenza. Ciò non giustificherebbe l’ingresso in guerra.
Il massimo che l’Ungheria potrebbe fare in una situazione del genere è fornire alla Serbia qualsiasi aiuto militare riesca a raccogliere dalle sue scorte, ma anche questo non può essere dato per scontato, poiché Orbán potrebbe temere che farlo – almeno nell’immediato – possa squalificarlo come mediatore . In ogni caso, disertare di fatto dalla NATO dichiarando guerra alla Croazia, membro vicino, a sostegno della Serbia è completamente fuori discussione, a causa delle conseguenze a cascata che ciò comporterebbe, inclusa una possibile invasione della NATO.
Vučić lo sa, quindi la sua battuta su un'”alleanza ungherese-serba” deve essere stata concepita per il pubblico in patria e nella regione, con l’intento di rassicurare falsamente il suo popolo che l’Ungheria combatterà al suo fianco in caso di guerra regionale, e al contempo di destabilizzare gli altri, inducendoli a temere che i loro governi (Croazia, Albania e Kosovo) possano presto essere responsabili di tale conflitto. A livello di élite, tuttavia, nessun politico cadrà probabilmente nella trappola del suo spettacolo di gestione della percezione.
Le sue parole non avranno quindi alcuna influenza sul corso degli eventi regionali, a meno che non si verifichi l’improbabile scenario che l’Ungheria sottoscriva formalmente un patto di mutua difesa con la Serbia, che preveda l’invio di equipaggiamenti e/o truppe in caso di attacco da parte di una delle due parti. Tuttavia, non vi è alcuna indicazione che Orbán stia prendendo in considerazione tale possibilità, poiché, come spiegato, costituirebbe una grave minaccia per gli interessi nazionali dell’Ungheria. Pertanto, gli osservatori non dovrebbero dare troppo peso al discorso di un’alleanza serbo-ungherese, né prenderla troppo sul serio qualora dovesse mai concretizzarsi.
I problemi di interoperabilità potrebbero indurre gli Stati Uniti a ripensarci due volte prima di intervenire nel sostegno dell’UE contro la Russia.
” È improbabile che Trump ritiri tutte le truppe statunitensi dall’Europa centrale o abbandoni l’Articolo 5 della NATO “, ma sta sicuramente “tornando (di nuovo) in Asia” per contenere la Cina in modo più energico, il che avrà conseguenze per la sicurezza europea. Sebbene la Russia non abbia alcuna intenzione di attaccare i paesi della NATO, molti di questi stessi paesi temono sinceramente che lo faccia, il che li porta a formulare una politica appropriata. Questa (falsa) percezione della minaccia accresce le loro preoccupazioni circa il graduale disimpegno degli Stati Uniti dalla NATO.
A peggiorare la situazione, Reuters ha citato cinque fonti anonime per riferire che gli Stati Uniti hanno criticato l’UE per i suoi piani militari-industriali, in particolare quelli relativi alla produzione e agli appalti all’interno dell’Unione. Presumibilmente sono collegati al “Piano ReArm Europe ” della Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, che prevede che i membri aumentino la spesa per la difesa dell’1,5% in media, per un totale di 650 miliardi di euro in più nei prossimi quattro anni, e forniscano prestiti per 150 miliardi di euro per investimenti nella difesa.
Questo audace programma rafforzerà l’autonomia strategica dell’UE, ma probabilmente avrà il costo di accelerare il disimpegno degli Stati Uniti dalla NATO. Le attrezzature prodotte dall’UE potrebbero non essere interoperabili con quelle americane, il che potrebbe complicare la pianificazione di emergenza. L’Unione Europea vorrebbe che gli Stati Uniti intervenissero in caso di crisi militare con la Russia, ma gli Stati Uniti potrebbero ripensarci se i loro comandanti non riuscissero a prendere facilmente il controllo delle forze europee in tale eventualità.
Gli Stati Uniti potrebbero anche essere meno propensi a farlo se l’UE riducesse la sua dipendenza da equipaggiamento americano come gli F-35, che si dice siano dotati di “kill-switch” . Questi potrebbero ipoteticamente attivarsi se l’UE cercasse di provocare un conflitto con la Russia che gli Stati Uniti non approvassero per qualsiasi motivo. Se l’UE si sentisse incoraggiata a fare proprio questo, diventando così una grave debolezza strategica per gli Stati Uniti, le probabilità che gli Stati Uniti intervengano a suo sostegno diminuirebbero, portando così a una profezia che si autoavvera.
Allo stesso tempo, alcuni Paesi come gli Stati Baltici, la Polonia e la Romania – che occupano il fianco orientale strategico della NATO con Russia, Bielorussia e Ucraina e sono molto più filoamericani delle loro controparti dell’Europa occidentale – rimarranno probabilmente all’interno dell’ecosistema militare-industriale statunitense. Ciò potrebbe quindi contribuire a mantenere l’influenza americana lungo la periferia dell’UE, a tenere questi Paesi fuori dall’ecosistema militare-industriale del blocco e, di conseguenza, a ostacolare i piani per un “esercito europeo”.
Tuttavia, gli Stati Uniti farebbero bene a condividere parte della tecnologia di difesa con la Polonia e ad accettare almeno una produzione nazionale parziale dei loro acquisti su larga scala, il che potrebbe trasferire una parte dell’ecosistema militare-industriale americano in Europa per facilitarne l’esportazione verso altri Paesi. Ciò potrebbe a sua volta impedire alla Polonia di fare affidamento sulla Francia o, quantomeno, di fare maggiore affidamento su di essa per bilanciare gli Stati Uniti, come potrebbe fare la coalizione liberal-globalista al potere se il suo candidato vincesse le elezioni presidenziali alle prossime elezioni di maggio.
Gli Stati Uniti potrebbero quindi sfruttare la loro cooperazione militare-industriale con la Polonia offrendo condizioni preferenziali (ovvero condivisione di tecnologie e produzione nazionale almeno parziale) come mezzo per mantenere l’influenza americana lungo la periferia dell’UE, nel contesto dei piani militari-industriali del blocco. Ciò potrebbe ostacolare gravemente l’autonomia strategica dell’UE, rendere più difficile la formazione di un “esercito europeo” a causa di problemi di interoperabilità e quindi spingere l’Europa occidentale a cedere acquistando più equipaggiamento statunitense.
La scorsa settimana Miroshnik e Zakharova hanno dichiarato cose diverse sul vero scopo di queste forze di peacekeeping e sul loro grado di coordinamento con Kiev nell’improbabile scenario di un loro dispiegamento in Ucraina.
Gli osservatori più attenti potrebbero essere rimasti confusi dopo due dichiarazioni apparentemente contraddittorie rilasciate la scorsa settimana dai diplomatici russi sullo scenario delle forze di pace europee in Ucraina . L’ambasciatore generale per il monitoraggio dei crimini di Kiev, Rodion Miroshnik, ha affermato che “questo potrebbe, in effetti, essere visto come una palese occupazione dell’Ucraina da parte dell’Europa… (l’obiettivo sarebbe) prendere il controllo militare del regime politico [ucraino], pur mantenendo il governo esterno di questo territorio, indipendentemente da come possano concludersi i negoziati”.
Il giorno dopo, la portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha dichiarato che “Queste forze non saranno dislocate sulla linea di combattimento, né sostituiranno le forze armate ucraine. Il loro scopo è proteggere punti strategici in coordinamento con gli ucraini, ad esempio Odessa e Leopoli, cosa che viene apertamente menzionata sia a Parigi che a Londra”. Di conseguenza, c’è confusione sul reale scopo di queste forze di peacekeeping e sul loro grado di coordinamento con Kiev.
Un mix degli scenari ipotizzati da entrambi i diplomatici è il più probabile se le truppe europee entrassero formalmente in Ucraina, anche se, considerando come la Russia abbia dichiarato che avrebbe preso di mira le forze straniere presenti, mentre gli Stati Uniti hanno affermato che non estenderanno le garanzie dell’Articolo 5 alle truppe NATO in Ucraina, questo potrebbe non accadere. Se ciò dovesse accadere e non si verificasse un’escalation, ciò sarebbe dovuto al fatto che la Russia ha autorizzato una missione di peacekeeping parzialmente composta da personale europeo presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite o che ha fatto calcoli machiavellici nel lasciarla accadere senza questo.
In ogni caso, Kiev potrebbe rapidamente perdere il controllo delle dinamiche strategico-militari “alleate” a causa della posizione complessivamente molto più debole e vulnerabile in cui si troverebbe al momento dell’ingresso formale delle truppe europee in Ucraina, che potrebbero vederne alcune agire unilateralmente per perseguire i propri obiettivi. Ad esempio, mentre le forze di peacekeeping europee potrebbero coordinare la protezione di punti strategici come Odessa e Leopoli con l’Ucraina per liberare le forze di quest’ultima per il fronte, potrebbero semplicemente non andarsene mai più.
È improbabile che le Forze Armate ucraine (AFU) vengano mai incaricate di usare la forza per fermare le cosiddette forze di pace europee “canaglia”, quindi Kiev probabilmente si arrenderebbe e lascerebbe che facciano ciò che vogliono. C’è anche la possibilità che diverse fazioni ucraine nel palazzo presidenziale, nell’SBU e nelle AFU, et al., finiscano per schierarsi con le forze di pace di diversi paesi europei nell’ambito di un gioco di potere. Ciò potrebbe indebolire ulteriormente l’Ucraina dall’interno e “balcanizzarla” politicamente a vantaggio della Russia.
Pertanto, quello che potrebbe iniziare come uno stretto coordinamento europeo-ucraino per il mantenimento della pace potrebbe sfociare in un’occupazione se alcuni di questi paesi sfidassero Kiev e si schierassero con fazioni rivali, ma i disordini locali potrebbero essere mitigati soddisfacendo i bisogni primari della popolazione e non disturbando i militanti di estrema destra. L’unica eccezione potrebbe essere l’ improbabile eventualità che Varsavia cambi la sua posizione e dispieghi truppe, poiché gli ucraini potrebbero considerarli occupanti stranieri ostili per ragioni storiche, a cui quindi occorre resistere con la forza.
Nel complesso, sebbene lo scenario di una missione di peacekeeping europea in Ucraina rimanga per ora improbabile, non può essere escluso del tutto. La Russia potrebbe autorizzare una missione di peacekeeping parzialmente europea presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite o lasciarla svolgere senza di essa, se Putin ritiene che causerà ulteriori problemi all’Ucraina. Il rischio, tuttavia, è che Europa e Ucraina decidano di minacciare congiuntamente la Russia invece di competere tra loro per potere e risorse, e data la natura cauta di Putin , è improbabile che coglierà questa opportunità.
Qualunque cosa abbia potuto realizzare, non è abbastanza significativa dal punto di vista militare da meritare molta attenzione.
Circolano notizie contrastanti sull’eventuale irruzione delle forze ucraine nella regione russa di Belgorod, dopo che una controffensiva russa ne ha spinto la maggior parte fuori dalla regione di Kursk . Il comandante del Comando Europeo degli Stati Uniti, il generale Christopher Cavoli, ha dichiarato la scorsa settimana in un’udienza al Congresso che “[gli ucraini] si stanno mantenendo su un ottimo terreno difensivo a sud di Belgorod”, frase ripresa da Zelensky durante il suo videomessaggio serale di lunedì.
I loro commenti sono stati contraddetti dal Tenente Generale russo Apty Alaudinov. La scorsa settimana ha dichiarato alla televisione nazionale: “In generale, siamo in una situazione relativamente buona. Solo due settimane fa, il nemico ha tentato ancora una volta di sfondare il nostro confine e di avanzare più in profondità nella regione di Belgorod. Ora tutto è sotto controllo e queste aree vengono bonificate. Il nemico continua a inviare sempre più carne da cannone, sebbene subisca pesanti perdite ogni giorno”.
Il mese scorso, Reuters ha citato alcuni blogger russi per riferire sull’azione in corso lungo quel fronte, mentre l’Istituto per lo Studio della Guerra di Washington ha affermato nel fine settimana che le forze ucraine occupano ancora una parte della regione di Belgorod, ma non hanno ancora avanzato. In assenza di un’informazione veramente indipendente, gli osservatori sono costretti a ricorrere alla logica e all’intuizione nel tentativo di capire cosa stia realmente accadendo, sebbene ovviamente non possano sapere con certezza se la loro valutazione sia corretta.
A quanto pare, però, l’Ucraina ha reindirizzato parte delle sue forze in ritirata da Kursk verso la vicina Belgorod per mantenere alta la pressione sulla Russia, cosa che Kiev probabilmente calcola possa bloccare l’espansione della campagna terrestre russa a Sumy e/o Kharkov e/o diventare un ostacolo nei colloqui di pace. Ciononostante, non sembrano aver fatto molti progressi sul campo, se non nessuno. Qualunque risultato abbiano ottenuto non è di grande rilevanza militare, altrimenti verrebbe sbandierato dai troll filo-Kiev.
Dopotutto, sono noti per esagerare l’impatto strategico di ogni mossa della loro fazione, eppure le loro chiacchiere online sulle ultime azioni intorno a Belgorod sono vistosamente silenziose. Lo stesso vale per i resoconti dei media mainstream. Questa osservazione suggerisce che l’offensiva ucraina non abbia avuto il successo sperato, il che a sua volta dà credito alle affermazioni di Alaudinov, sebbene sia anche ipoteticamente possibile che alcune truppe straniere rimangano ancora su una striscia di suolo russo.
In ogni caso, sarebbe inesatto descrivere gli ultimi sviluppi militari su quel fronte come una svolta, poiché appaiono più come una disperata distrazione da parte dell’Ucraina che altro. La Russia sta vincendo di gran lunga la “gara della logistica”/”guerra di logoramento” , e il successo della sua recente controffensiva a Kursk verrà probabilmente replicato a Belgorod col tempo, se ci saranno truppe ucraine lì. Pertanto, questa è una causa persa e uno spreco di risorse per Kiev, eppure ci si aspetta simili scappatelle da parte sua.
Poiché le dinamiche strategico-militari continuano a volgere a favore della Russia, non si possono escludere ulteriori missioni suicide di questo tipo, sebbene non si preveda che ottengano risultati significativi a causa dell’assenza di livelli di aiuti militari occidentali pari a quelli del 2023 che l’Ucraina ha ricevuto in vista della sua controffensiva destinata a fallire . La Russia ha anche imparato dure lezioni dall’invasione ucraina di Kursk, che probabilmente saranno utilizzate per impedire un’altra simile svolta. Questi fattori aumentano notevolmente le probabilità di un’inevitabile sconfitta dell’Ucraina.
La posta in gioco è se gli Stati Uniti continueranno a dare priorità ai legami con i governanti militari del Pakistan o se promuoveranno un governo democratico guidato dai civili, volto a normalizzare i rapporti con l’India in modo da contenere più efficacemente la Cina.
Drop Site News ha pubblicato un rapporto all’inizio di aprile su come ” Il Dipartimento di Stato e il Pentagono stiano combattendo il Deep State sul futuro di India e Cina “, il cui succo è che queste prime due istituzioni sarebbero in contrasto con la CIA sul futuro dei rapporti tra Stati Uniti e Pakistan. Il Dipartimento di Stato e il Pentagono “vogliono allontanarsi dall’esercito e rafforzare la leadership civile e il governo democratico in Pakistan”, mentre la CIA “considera l’apparato militare e di sicurezza un partner più affidabile”.
La logica è geopolitica, poiché coloro che vogliono cambiare radicalmente la politica decennale degli Stati Uniti con il Pakistan, che fonti anonime di Drop Site News ritengono sia rappresentativa della crescente influenza dell’ala “America First”, prevedono che ciò faciliterà notevolmente i piani dell’amministrazione Trump contro la Cina. Secondo loro, “un Pakistan guidato da civili avrà il mandato di risolvere il suo conflitto covato da tempo con l’India, liberando Nuova Delhi per concentrarsi più direttamente sui suoi confini orientali e agire da contrappeso alla Cina”.
Sebbene nel loro rapporto non siano stati suggeriti mezzi per promuovere un governo democratico guidato dai civili in Pakistan, per raggiungere questo obiettivo si potrebbe ricorrere a un approccio “carota e bastone”. Le questioni più rilevanti a cui questa politica potrebbe essere applicata riguardano l’agenda politica del Pakistan in Afghanistan (ovvero l’indebolimento del regime talebano), eventuali azioni antiterrorismo che potrebbe intraprendere lì, le vendite di armi, i dazi doganali e il commercio e gli investimenti con la Russia. Su questi argomenti, si spenderà ora qualche parola.
In breve, l’Afghanistan governato dai talebani è sospettato di ospitare terroristi designati da Islamabad, che sono diventati la minaccia più pressante per la sicurezza nazionale del Pakistan negli ultimi anni, da qui la necessità di costringere il vicino a cacciarli o di punirlo per il rifiuto di farlo. L’assistenza politica e militare americana è necessaria per aumentare le probabilità di successo. Non ottenerla prima di qualsiasi mossa importante in queste direzioni rischia che gli Stati Uniti marchino il Pakistan come uno “Stato canaglia” con tutto ciò che ne consegue.
Per quanto riguarda le vendite di armi, la stragrande maggioranza delle attrezzature del Pakistan proviene dalla Cina, ma il Paese schiera anche una flotta di F-16 . Questi sono formidabili di per sé, ma contribuiscono anche a mantenere i legami bilaterali. L’eventuale rifiuto degli Stati Uniti di fornire pezzi di ricambio e/o la decisione di non vendere nuove attrezzature al Pakistan in futuro, entrambe possibili con il pretesto di protestare contro il suo programma missilistico a lungo raggio , ma in realtà mirate a promuovere un cambiamento politico, non farebbe che aumentare le tensioni politiche.
Per quanto riguarda i dazi, gli Stati Uniti sono la principale destinazione delle esportazioni del Pakistan , con circa 6 miliardi di dollari all’anno, pari al 18% delle esportazioni totali. Si prevede quindi che la guerra commerciale globale di Trump colpirà duramente l’industria tessile del Paese, secondo alcune fonti, il che potrebbe esacerbare la crisi economico-finanziaria del Paese e potenzialmente portare a un’altra ondata di disordini politici se i nuovi negoziati pianificati non risolveranno rapidamente la questione. L’economia è uno dei punti deboli del Pakistan e gli Stati Uniti potrebbero sfruttare aggressivamente il suo vantaggio.
Reindirizzare le esportazioni dagli Stati Uniti alla Cina nel caso in cui un accordo non venga raggiunto a breve, il che potrebbe essere più facile a dirsi che a farsi, potrebbe mitigare le conseguenze economico-finanziarie dei dazi di Trump, peggiorando al contempo i legami politici con gli Stati Uniti a causa della rivalità sistemica sino-americana. Questo potrebbe rivelarsi controproducente dal punto di vista degli interessi generali del Pakistan, poiché potrebbe innescare la pressione militare precedentemente menzionata con un pretesto anti-cinese e accelerare l’attuale svolta degli Stati Uniti verso l’India.
A questo proposito, lo scenario di essere abbandonati dagli Stati Uniti terrorizza i politici pakistani, che temono le conseguenze interconnesse in ambito economico-finanziario, politico (con conseguenti proteste su larga scala) e di sicurezza regionale (nei confronti di un’India interamente sostenuta dagli Stati Uniti). Allo stesso modo, gli Stati Uniti vogliono evitarlo, temendo le conseguenze sulla sicurezza globale se il Pakistan, dotato di armi nucleari, “si ribellasse” per vendetta, soprattutto se incoraggiato dalla Cina. Questo equilibrio di interessi, o meglio, la paura reciproca, mantiene lo status quo.
Allo stesso tempo, l’attuale situazione impedisce il “ritorno in Asia” dell’ala americana First per contenere più energicamente la Cina, poiché il Pakistan continua a fornire alla Repubblica Popolare un accesso affidabile all’Oceano Indiano, facilitando così le esportazioni cinesi verso l’Europa e le importazioni di risorse dall’Africa. Il grande significato strategico risiede nel fatto che il Pakistan potrebbe neutralizzare parzialmente l’impatto commerciale del blocco statunitense dello Stretto di Malacca per le navi cinesi durante una crisi.
In cambio, il Pakistan può contare sul sostegno politico, economico e militare della Cina, il che contribuisce a evitare che il Pakistan si trovi troppo indietro rispetto all’India nel contesto della loro rivalità decennale. Di conseguenza, qualsiasi concessione che il Pakistan potrebbe fare agli Stati Uniti sulle sue relazioni con la Cina rischia di andare a scapito dei suoi interessi di sicurezza nazionale, così come i decisori politici li intendono, sebbene ciò potrebbe essere gestibile in due scenari potenzialmente collegati.
Il primo è che maggiori scambi commerciali e investimenti dalla Russia, che gli Stati Uniti potrebbero incoraggiare attraverso esenzioni dalle sanzioni nel caso in cui il nascenteRusso – USA ” NuovoLa “distensione ” si evolve in una partnership strategica, potrebbe alleviare alcune delle conseguenze economico-finanziarie della Cina. La Cina potrebbe continuare ad armare il Pakistan a causa della comune percezione della minaccia dell’India, ma è anche possibile che gli Stati Uniti sostituiscano gradualmente la dipendenza del Pakistan dalle armi cinesi, sebbene a scapito del loro orientamento verso l’India.
Il secondo scenario prevede che il conflitto del Kashmir venga finalmente risolto, il che, secondo l’ala America First, richiederebbe un governo democratico guidato dai civili in Pakistan, sbloccando così nuove opportunità economico-finanziarie per sostituire quelle cinesi perdute e riducendo al contempo la percezione di una minaccia reciproca. I ruoli di Russia e Stati Uniti sopra menzionati diventerebbero più importanti che mai in tal caso, ma questo scenario, considerato il migliore, dal loro punto di vista e da quello dell’India è meno probabile del primo, che di per sé è incerto.
L’opinione pubblica non è a conoscenza dell’interazione tra le due fazioni americane del deep state su questo tema, quindi nessuno può dire con certezza cosa accadrà, ma solo quali sono gli interessi di ciascuna e come chi spinge per un cambiamento radicale (il Dipartimento di Stato e il Pentagono) potrebbe cercare di ottenerlo. Se la CIA prevale e lo status quo viene mantenuto, l’amministrazione Trump rischia di dover ridurre la portata del suo “ritorno in Asia” e potrebbe persino essere richiamata in Afghanistan da un’espansione della missione.
Drop Site News ha riportato all’inizio di febbraio che “l’ esercito pakistano spera di trascinare Trump di nuovo in guerra in Afghanistan “, il che gli aprirebbe un vaso di Pandora pieno di problemi, come la sua impopolare opinione pubblica interna, la messa a repentaglio del perno degli Stati Uniti verso l’India e il peggioramento delle già elevate tensioni con l’Iran. D’altra parte, abbandonare il Pakistan, qualora intervenisse unilateralmente in Afghanistan su larga scala senza prima ottenere il supporto degli Stati Uniti, potrebbe rischiare di “diventare un dissidente” per vendetta, come spiegato in precedenza, creando così un dilemma.
Finché il regime militare de facto del Pakistan si rifiuterà di attuare qualsiasi concessione (probabilmente sotto pressione degli Stati Uniti) nei confronti dell’ex Primo Ministro Imran Khan, attualmente in carcere , e continuerà a voler controllare il suo partito di opposizione, rendendo così impossibile un governo democratico guidato da civili, i problemi con gli Stati Uniti persisteranno, a meno che la CIA non riesca a prevalere nella competizione con il Dipartimento di Stato e il Pentagono. Qualunque sia l’esito, avrà un impatto enorme sugli affari globali, da qui l’importanza di seguirlo.
La normalizzazione politica tra India e Pakistan non è all’orizzonte, poiché ciò richiederebbe che il Pakistan accetti la revoca dell’articolo 370 da parte dell’India.
Il Ministro degli Affari Esteri indiano, il Dott. Subrahmanyam Jaishankar, avrebbe dichiarato il mese scorso ai membri del Comitato Consultivo Parlamentare per gli Affari Esteri che l’Associazione dell’Asia Meridionale per la Cooperazione Regionale (SAARC) “è in pausa; non abbiamo premuto un pulsante. È in pausa a causa dell’approccio del Pakistan”. Ha poi aggiunto che l’Iniziativa del Golfo del Bengala per la Cooperazione Tecnica ed Economica Multisettoriale (BIMSTEC) è ora la principale piattaforma indiana per l’integrazione regionale.
Il SAARC comprende Afghanistan, Bangladesh, Bhutan, India, Maldive, Nepal, Pakistan e Sri Lanka, mentre il BIMSTEC comprende Bangladesh, Bhutan, India, Myanmar, Nepal, Sri Lanka e Thailandia. In altre parole, il BIMSTEC elimina Afghanistan, Maldive e Pakistan e li sostituisce con Myanmar e Thailandia. Il SAARC si è sciolto nel 2016 dopo che l’India si è rifiutata di partecipare al vertice di quell’anno a Islamabad, in seguito all’attacco terroristico di Uri, attribuito dall’India al Pakistan. Da allora è in uno stato di stasi.
Al contrario, ogni altra regione del mondo ha abbracciato la tendenza multipolare della regionalizzazione attraverso le proprie piattaforme, rendendo così l’Asia meridionale un’eccezione evidente. Ciononostante, come Jaishankar avrebbe aggiunto nel suo intervento parlamentare, il BIMSTEC è ancora vivo e vegeto, e oggi rappresenta la piattaforma preferita dall’India per l’integrazione regionale. Non esistono differenze inconciliabili tra i suoi membri, a differenza del ruolo che il conflitto del Kashmir svolge per l’India e il Pakistan del SAARC.
BIMSTEC ha anche un proprio megaprogetto di connettività regionale, l’ autostrada trilaterale tra India, Myanmar e Thailandia, mentre SAARC non ha analoghi progetti, come ad esempio un corridoio India-Asia centrale attraverso Pakistan e Afghanistan. Inoltre, SAARC coinvolge i paesi ASEAN di Myanmar e Thailandia, rendendola così una piattaforma di cooperazione interregionale. Questi tre fattori rendono comprensibilmente BIMSTEC molto più attraente agli occhi dei politici indiani di quanto lo sia mai stata SAARC.
Questo contesto permette di comprendere meglio l’importanza delle ultime dichiarazioni di Jaishankar sul SAARC. Confermare che la partecipazione dell’India sia solo “in pausa” implica la possibilità che venga riattivata in presenza di diverse condizioni politiche regionali, in particolare un disgelo delle tensioni con il Pakistan, sebbene ciò dovrebbe comportare progressi significativi nella risoluzione del conflitto in Kashmir. Nessuna prospettiva si profila all’orizzonte, salvo una svolta imprevista dovuta alla divergenza delle posizioni.
Il sostegno del Pakistan a coloro che l’India considera terroristi è il problema principale dal punto di vista di Delhi, mentre per Islamabad è il trattamento riservato dall’India ai Kashmir, che considera un abuso coloniale. Hanno anche opinioni opposte sul tema di un referendum supervisionato dalle Nazioni Unite. Un’altra questione importante è la revoca da parte dell’India dell’articolo 370 nell’agosto 2019, che ha revocato l’autonomia del Kashmir amministrato dall’India e ha diviso la regione. Il Pakistan ritiene che ciò sia illegittimo e controproducente per la pace.
Sebbene entrambi gli stati siano potenze nucleari, l’India sta rapidamente emergendo come una grande potenza nella transizione sistemica globale verso la multipolarità, mentre il Pakistan sta vivendo una crisi socio-politica e, ancora oggi, una crisi terroristica.tumulti degli ultimi tre anni dal postmodernoColpo di stato contro Imran Khan. Le loro traiettorie separate in questo momento cruciale riducono le probabilità che sia l’India a fare concessioni volte a rianimare la SAARC e aumentano le probabilità comparative che lo faccia invece il Pakistan.
Detto questo, il Pakistan non ha ancora mostrato alcun segno concreto di volerlo fare, né prenderebbe una decisione del genere in modo avventato. Il conflitto del Kashmir non è solo una questione militare, ma anche un mezzo per rafforzare la legittimità di qualsiasi cricca politica che formalmente governa il Pakistan in un dato momento. Sostenere una risoluzione massimalista a favore del Pakistan è una politica genuinamente popolare a livello di base; allo stesso modo, segnalare qualsiasi cosa che possa anche lontanamente essere interpretata come un’intenzione di compromesso è molto impopolare.
Risolvere il conflitto del Kashmir attraverso un compromesso potrebbe anche non piacere alla potente leadership militare pakistana. La pace con l’India potrebbe portare a tagli alla spesa per la difesa, erodendo gradualmente l’influenza della loro istituzione. Renderebbe inoltre il Pakistan meno propenso a intervenire a sostegno della Cina se il suo “fratello di ferro” si trovasse coinvolto in una guerra aperta con l’India. La Cina, in quanto principale investitore del Pakistan, potrebbe sfruttare la sua influenza finanziaria per dissuadere l’esercito dal scendere a compromessi, al fine di non perdere quel piano di riserva.
Questi interessi reconditi impediscono una soluzione di compromesso al conflitto del Kashmir, sebbene tale esito schiuderebbe opportunità economiche senza precedenti per il Pakistan. Anche la normalizzazione politica tra India e Pakistan non è all’orizzonte, per non parlare di un accordo sul Kashmir, poiché richiederebbe al Pakistan di accettare la revoca dell’Articolo 370 da parte dell’India. Pertanto, è probabile che il SAARC non verrà rianimato a breve, e più a lungo rimarrà moribondo, più importante diventerà il BIMSTEC.
Nelle ultime pagine dell’accordo è indicato quale partito può occupare quale ministero e quali incaricati il futuro governo intende nominare. In questo modo la SPD è riuscita a negoziare sette ministeri per sé, nonostante lo storico risultato negativo del 16,4% alle elezioni federali. Anche la CDU assume sette ministeri, compresa la direzione della Cancelleria. La CSU ottiene tre ministeri.
Il prezzo pagato dal futuro cancelliere, il leader della CDU Merz, è molto alto. Invece di iniziare con un anticipo di fiducia e popolarità nella carica più potente della Germania, ha perso molta credibilità.
10.04.2025
Pensioni, riscaldamento, controlli alle frontiere: questi sono i piani della coalizione rosso-nera
L’Unione e il Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD) hanno raggiunto un accordo per un contratto di coalizione. Ci saranno sgravi fiscali per i cittadini e le imprese e alternative al contante
Di BERND WIENTJES – BERLINO Il contratto su cui CDU, CSU e SPD hanno raggiunto un accordo comprende 144 pagine.
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(*) (Treccani) spaventóso agg. [der. di spavento]. – 1. a. Che incute spavento, che è causa di profondo turbamento psichico: la s. furia degli elementi; si presentò ai suoi occhi una visione s.; una s. tempesta si abbatté sull’isola; sogni, incubi spaventosi. b. Per estens., di cosa o fatto che desta profonda impressione per la sua tragicità e gravità: una s. sciagura; uno s. incidente d’auto; si è macchiato di un crimine spaventoso.2. Con valore iperb., nell’uso com. (sempre posposto al sost. cui si riferisce): a. Che colpisce così profondamente da fare quasi paura: stanotte non ho dormito, e oggi ho un viso s.; quell’uomo è magro in modo spaventoso. b. Che è tale da fare impressione, e quindi, in senso fig., grandissimo, straordinario, incredibile (in senso sia positivo sia negativo): al gioco ha un fortuna s.; quel ragazzo è di una stupidità s.; nella stanza c’era un disordine s.; è ricco in modo spaventoso; ho una fame, una sete spaventosa. 3. ant. e raro. Pauroso, facile a spaventarsi o a impressionarsi: La bestia ch’era s. e poltra, Sanza guardarsi ai piè, corre a traverso (Ariosto).
29.03.2025
PRONTI ALLA GUERRA?
Perché il RIARMAMENTO della Germania e dell’Europa sta diventando così difficile e costoso
Quanto è difendibile l’Europa? Durante le ricerche per l’articolo di copertina, il team del reporter dello SPIEGEL Thomas Schulz (a destra) e Martin Hesse si è imbattuto soprattutto nel passato dell’industria europea degli armamenti: carri armati antiaerei obsoleti presso la Rheinmetall di Unterlüss, un capannone di 120 anni fa del gruppo di armamenti Leonardo a La Spezia e la produzione paralizzante dell’Eurofighter di Airbus a Manching, in Alta Baviera. Tuttavia, secondo Hesse, c’è un’atmosfera di rinnovamento tra le aziende consolidate e le start-up che producono droni o software bellici come Helsing. “Il settore fiuta il denaro facile alla luce dei nuovi budget miliardari, mentre la società si chiede ancora se l’armamento massiccio sia davvero necessario”.
CREARE LA PACE – CON LE ARMI?
ARMAMENTI
Improvvisamente c’è molto denaro per armare l’Europa. Ma cosa fare con questi miliardi? Acquistare droni o carri armati, portaerei o satelliti? Questioni complesse che devono essere risolte rapidamente.
Di Matthias Gebauer, Martin Hesse, Timo Lehmann, Marcel Rosenbach, Thomas Schulz
Com’è bella la Riviera italiana nel mese di marzo, quando la spiaggia di La Spezia è deserta e le gelaterie sono ancora chiuse. Ma a poche centinaia di metri di distanza c’è un gran fermento. Dietro filo spinato e recinzioni di sicurezza si martella e si salda quasi senza sosta, e l’Europa, se tutto va bene, viene preparata per la difesa.
Leonardo, il terzo gruppo armigero del continente, costruisce qui, in capannoni di montaggio lunghi centinaia di metri, il suo “Super Rapid Naval Gun”, un cannone computerizzato di quasi otto tonnellate che dovrebbe abbattere dal cielo missili da crociera e droni kamikaze, con 120 colpi al minuto. Proprio accanto, meccanici e ingegneri lavorano a nuovi carri armati a ruote per l’esercito italiano, bisogna fare in fretta, ne sono stati ordinati 150, via, il prossimo ordine è già in coda, il carro armato Panther, da costruire insieme al partner tedesco Rheinmetall.
«Come continente non abbiamo futuro se non siamo in grado di difendere i nostri cittadini», afferma Roberto Cingolani, capo di Leonardo e un uomo insolito a capo di una società di armamenti. Un tempo era un fisico ricercatore presso l’Istituto Max Planck di Stoccarda, poi è stato ministro dell’ambiente in Italia e ha promosso la svolta energetica. Il suo compito ora è quello di promuovere la svolta militare. I produttori di armi si stanno preparando al più grande boom degli armamenti dalla fine della seconda guerra mondiale, grazie ai miliardi che ora affluiscono per l’operazione di riarmo. Che si tratti di carri armati, droni o aerei da combattimento, per l’Europa vale solo una cosa: sempre avanti così.
L’UE vuole stanziare fino a 800 miliardi di euro per la difesa e quasi tutti gli Stati membri stanno aumentando drasticamente le spese. La Germania investirà 150 miliardi all’anno, il 3,5% della sua produzione economica. Almeno questo è ciò che chiede la CDU, come si legge nel documento provvisorio della coalizione tra CDU e SPD.
Pazzesco, si pensa per un momento, finalmente qualcosa si muove. Vladimir Putin e Donald Trump, questo inquietante duo infernale sta scuotendo anche la pigra Germania. Minacciata dai nemici, abbandonata dagli amici, l’Europa notoriamente litigiosa si unisce per proteggere insieme il suo fianco orientale. E poi ne beneficerà anche l’economia tedesca in crisi. Gli economisti prevedono un aumento fino all’1,5% del prodotto interno lordo grazie al boom degli armamenti per i paesi dell’UE, se l’obiettivo del 3,5% sarà raggiunto. La Germania si rafforza, l’Europa si unisce e, soprattutto, è protetta e sicura. Forse il futuro è promettente, dopotutto? Ma non è così semplice, come sempre.
A uno sguardo più attento, il radicale riarmo dell’Europa e il suo contemporaneo distacco dalla potenza protettrice degli Stati Uniti si rivelano un compito secolare. Tutto è in discussione, nulla è chiaro: l’Europa conta ancora sul sostegno americano in caso di attacco o sta pianificando completamente senza il potere americano? Quindi tutte le truppe e le armi statunitensi devono essere sostituite o solo alcune? La Germania sta pianificando in modo ampiamente indipendente, insieme alla Francia o direttamente con una comunità di difesa europea? La NATO funziona ancora senza gli americani? L’Europa ha bisogno di tre milioni di soldati o ne bastano due milioni? Abbiamo bisogno di 200 nuovi jet da combattimento o di 2000 o di nessuno e invece di 200.000 droni? E le armi nucleari? E se sì, quante?
I punti deboli sono enormi: missili, difesa aerea, difesa informatica, satelliti: l’Europa è in gran parte indifesa. Per decenni, quasi tutto è stato trascurato, trascurato o lasciato agli americani. All’improvviso, un trilione di euro per nuove spese per la difesa non sembra poi così tanto: ogni nuovo carro armato Leopard costa circa 25 milioni di euro, ogni Eurofighter circa 140 milioni.
Anche se ora c’è molto denaro, ci vogliono persone per costruire, programmare e infine utilizzare i sistemi d’arma. Trasferire una brigata di carri armati in Lituania per rafforzare il fianco orientale della NATO? La Bundeswehr, che soffre di una carenza cronica di personale, ci sta lavorando da quasi mezzo decennio. All’Europa, e soprattutto al nuovo governo federale che dovrebbe insediarsi sotto la guida di Friedrich Merz, non resta molto tempo per rispondere a tutte queste domande. Forse non è mai stato richiesto a un cancelliere un inizio così rapido. La lotta per la preparazione alla difesa del paese potrebbe caratterizzare l’intera carriera di Friedrich Merz come cancelliere. Soprattutto perché dietro tutta la frenesia attuale c’è una questione molto più fondamentale. Se tutto ciò non contraddice il nucleo di questa repubblica così a lungo in movimento per la pace: creare la pace – con le armi? Almeno per il momento non sembra esserci scelta.
Alcuni strateghi militari occidentali ritengono che l’esercito russo abbia bisogno di almeno cinque anni per riprendersi dall’attacco contro l’Ucraina, che ha causato molte perdite. Altri sono più pessimisti: l’Europa ha “una finestra temporale di due o tre anni prima che la Russia abbia riacquistato la capacità di condurre un attacco convenzionale”, stima il comandante in capo delle forze armate norvegesi, Eirik Kristoffersen. In sostanza, tuttavia, gli esperti di difesa occidentali sono d’accordo: la Russia rappresenta una minaccia diretta e imminente per la pace e la sicurezza in Europa. E chi vuole scoraggiare Putin deve fare tutto il possibile ora, non tra 5 o 15 anni.
In Germania, in questi giorni, si sentono ripetutamente forti rumori, nel mezzo della brughiera di Luneburgo. Difficile dire da dove provengano esattamente gli spari sul terreno del più grande produttore di armi tedesco, se dal poligono di tiro lungo 15 chilometri, dove si sta provando il cannone obice 2000, o dagli uffici dei dirigenti, dove volano i tappi di champagne.
Il prezzo delle azioni di Rheinmetall raggiunge quasi ogni giorno nuovi record. In pochi luoghi della Repubblica la svolta epocale è così tangibile come qui, nel cuore della foresta della Bassa Sassonia, tra maneggi e piste ciclabili, a un’ora di macchina a nord-est di Hannover. Le armi vengono testate a Unterlüss già dal 1899, il carro armato KF51 Panther è stato sviluppato da Rheinmetall, così come l’artiglieria, i sistemi di difesa aerea e i droni. Un potenziale gigante dell’industria della difesa da sempre, ma a lungo tenuto in scacco come il suo cliente più importante, la Bundeswehr. Dal 1992, la quota della spesa per la difesa nel prodotto interno lordo (PIL) tedesco è stata inferiore al due per cento per circa 30 anni. Parallelamente, il numero di soldati è diminuito da 459.000 nel 1990 a circa 181.000 attualmente.
L’esercito tedesco è stato recentemente “logorato”, afferma l’attuale ministro della Difesa Boris Pistorius (SPD). Il piccolo gigante Rheinmetall ha dovuto cercare i suoi clienti all’estero per decenni per evitare di dover smettere di produrre interi sistemi d’arma. Ma i tempi della carenza sono finiti in un colpo solo. E così, a Rheinmetall, orde di escavatori e veicoli da costruzione si muovono tra i bunker di protezione esistenti e gli stabilimenti. Qui stanno sorgendo nuovi enormi impianti di produzione per aumentare la produzione di carri armati, sistemi missilistici e artiglieria. L’anno scorso il governo federale tedesco ha ordinato nuove munizioni per cannoni a Rheinmetall per un valore fino a 8,5 miliardi di euro, perché i depositi della Bundeswehr sono vuoti.
In Ucraina si è visto chiaramente cosa succede quando un esercito esaurisce le munizioni. In un solo anno, Rheinmetall ha costruito una nuova fabbrica di munizioni per artiglieria di 25.000 metri quadrati, quasi il doppio del Reichstag di Berlino. Sorprendente per un Paese in cui ultimamente molte cose hanno richiesto il triplo del tempo previsto. In totale, il gruppo produrrà presto 1,3 milioni di colpi all’anno. Secondo Rheinmetall, più dell’attuale produzione di munizioni di artiglieria degli Stati Uniti. Chiunque guardi all’interno di uno dei capannoni della fabbrica vedrà bracci robotici rotanti e nastri trasportatori che sputano proiettili ogni secondo, ad esempio proiettili anticarro lunghi quasi un metro, calibro 120 mm, con un “proiettile ad ala stabilizzata” sulla punta, chiamato penetratore. O accanto, dove i proiettili da 35 mm di nuova concezione per la prossima generazione di sistemi antiaerei sono impilati in file infinite di pallet: ogni proiettile è pieno di circa 150 pallini di tungsteno, che si dispiegano in una nuvola di metallo pesante poco prima di raggiungere il bersaglio. Una sorta di carica di pallini intelligente che dovrebbe sparare sciami di droni dal cielo con pochi colpi. “Siamo in grado di fornire e costruire linee di produzione completamente nuove entro dodici mesi”, afferma il CEO di Rheinmetall Armin Papperger.
Negli ultimi due anni, il gruppo ha investito quasi otto miliardi di euro in espansione per conto proprio. Ora le capacità di munizioni devono essere ulteriormente aumentate. ‘E se dovremo raddoppiare ancora una volta, ce la faremo’. L’atteggiamento positivo sembra funzionare. L’anno scorso Rheinmetall ha ricevuto più di 200.000 candidature da tutto il mondo: specialisti di software, ingegneri, ingegneri meccanici provenienti da tutto il paese vogliono assolutamente lavorare per un’azienda di armamenti.
Chi l’avrebbe mai detto cinque anni fa? Gli stessi tedeschi, un tempo così pacifisti, hanno evidentemente cambiato radicalmente la loro opinione sull’argomento delle armi, un tempo considerato sgradevole (vedi pagina 18). Anche se molti continuano a provare un disagio di fondo, il 76% degli intervistati in un sondaggio condotto dal gruppo di ricerca Wahlen all’inizio di marzo si è dichiarato favorevole a un riarmo. Il 70% si è espresso a favore di una reintroduzione della coscrizione obbligatoria in un sondaggio non rappresentativo condotto dall’emittente NDR.
Il cambiamento di atteggiamento arriva giusto in tempo, dice Bastian Giegerich. «Non si tratta solo di attrezzature e denaro, ma della volontà delle società europee di difendersi». Giegerich, che in passato ha lavorato presso il Ministero della Difesa di Berlino, è a capo del think tank leader a livello mondiale per la strategia militare e la politica di difesa.
L’International Institute for Strategic Studies (IISS) di Londra pubblica ogni anno una panoramica di 500 pagine ampiamente riconosciuta sulla situazione militare nel mondo. Il presidente francese Emmanuel Macron volerà a Singapore alla fine di maggio per tenere il discorso di apertura della conferenza annuale. Guardando alla macchina da guerra russa, il capo dell’IISS Giegerich non è preoccupato solo per la mancanza di missili e carri armati in Europa: “La vulnerabilità deriva anche dalla mancanza di coesione”. Al momento non è prevedibile un grande attacco di carri armati russi contro la NATO. “Sul fronte convenzionale, la Russia ha sicuramente subito perdite così elevate che sta diventando sempre più difficile compensarle, anche con il ritmo di produzione che sta mostrando”, afferma l’esperto di difesa. Lo scenario che preoccupa attualmente Giegerich è più o meno questo: la Russia occupa una piccola parte di uno Stato della NATO nei Paesi Baltici e avvia immediatamente i negoziati di pace, ma con la perdita di territorio per il Paese interessato. Con riferimento al considerevole arsenale nucleare russo. “Allora si tratta del fatto che la NATO ha detto che ogni metro quadrato di territorio della NATO sarà difeso”. Ma se ora la disponibilità degli americani a farlo è in discussione, allora sarà difficile raggiungere un accordo tra gli europei su cosa dovrebbe accadere.
Ad esempio, se il pezzo di Baltico debba essere riconquistato. “In questo scenario, probabilmente ci troveremo nella situazione in cui alcuni europei vorranno combattere”, ha detto lo stratega militare. “Altri vorranno negoziare. Altri ancora semplicemente rifiuteranno. E per me la NATO è finita. Allora cosa fare? «Dobbiamo scoraggiare la Russia dal prendere in considerazione uno scenario del genere». In altre parole, rendere gli eserciti europei più pronti a combattere di quanto non lo siano ora. «La lezione è che gli americani non vogliono più assumersi la responsabilità principale per la sicurezza europea», sottolinea Giegerich. «Quindi dobbiamo sviluppare le capacità di difesa europee». Drammatico. E ci sono alcuni punti deboli. Gli europei sono rimasti particolarmente sorpresi dal massiccio uso di missili balistici e da crociera nella guerra russa contro l’Ucraina. Gli europei dispongono solo di un arsenale insignificante. Per questo motivo, nel luglio 2024 Francia, Germania, Italia e Polonia hanno avviato il progetto ELSA (European Long-Range Strike Approach) per sviluppare una “nuova capacità di attacco a lungo raggio”, senza definire più precisamente il tipo di missili a cui si fa riferimento. Gli esperti dell’IISS ritengono che “si dovrebbe sviluppare un missile da crociera terrestre con una portata da 1000 a 2000 chilometri”. Ma potrebbero essere presi in considerazione anche missili ipersonici (vedi pagina 16).
Quanto tempo ci vorrà per tappare tutte le grandi falle? Dipende dalla velocità con cui l’Europa riuscirà a organizzarsi. “Sicuramente più di cinque anni”, dice Giegerich. Negli ultimi anni gli europei hanno iniziato a investire di più nella difesa. Tuttavia, nel 2024 gli Stati Uniti hanno speso 968 miliardi di dollari, circa il doppio di quanto speso da tutti gli altri 31 paesi della NATO messi insieme. La Russia ha investito 462 miliardi di dollari nel 2024, in termini di potere d’acquisto, più di tutti i 30 paesi europei della NATO messi insieme. In Europa, gli ultimi a stabilire il ritmo sono stati i vicini diretti della Russia: gli Stati baltici. E soprattutto la Polonia, che nel 2024 ha investito più del quattro per cento del PIL nella difesa. Dieci anni fa le forze armate polacche erano ancora la nona forza militare della NATO, ma nel frattempo hanno raddoppiato il numero di truppe, che ora superano le 200.000 unità, e si sono posizionate al terzo posto dopo Stati Uniti e Turchia. E la Bundeswehr? Non riesce ancora a capacitarsi della nuova manna finanziaria. Per decenni i generali sono stati costretti a nascondere accuratamente le esigenze militari per uno scenario in cui la Germania venisse attaccata.
Poiché mancavano i soldi, si è fatto un calcolo approssimativo del fabbisogno. Per le esercitazioni, i beni mancanti venivano spostati avanti e indietro tra le unità, una volta i tedeschi si presentarono addirittura con manici di scopa imbiancati di nero come finti cannoni durante una manovra della NATO. Il ministro della Difesa Pistorius, che vorrebbe mantenere il suo incarico nella nuova coalizione, ha lanciato un nuovo slogan: “La situazione di minaccia precede la situazione di cassa”. I suoi strateghi lo hanno interpretato come un annuncio che finalmente potranno calcolare senza mezzi termini di quanti miliardi ha davvero bisogno l’esercito. “È un’opportunità, ma anche un territorio completamente inesplorato”, dice un generale. Secondo i militari, si dovrebbero avviare due fasi in parallelo. Prima di tutto, bisogna colmare le evidenti lacune. Ad oggi mancano i mezzi bellici della categoria “heavy metal”, cioè carri armati, artiglieria e altri mezzi pesanti. La difesa aerea è stata risparmiata. Secondo la Bundeswehr, sono già stati firmati i primi contratti per queste aree problematiche, ma ora il numero di pezzi dovrebbe aumentare rapidamente.
Se dipendesse da Pistorius, la pianificazione per gli acquisti futuri dovrebbe essere completamente stravolta. L’uomo del Partito Socialdemocratico ha in mente un piano di approvvigionamento di almeno dieci anni, basato sulla situazione di minaccia. Finora, a causa delle regole di bilancio, il ministero della Difesa è stato in grado di pianificare in modo affidabile solo per alcuni anni in anticipo. Tutto è cambiato dopo la storica modifica costituzionale: il bilancio della Bundeswehr è praticamente illimitato. Ufficialmente, nessuno del ministero della Difesa vuole parlare di come sarà la nuova strategia di acquisto di armamenti convenzionali. Solo questo: per colmare le lacune, sarebbero necessari circa 120 miliardi di euro all’anno fino al 2035. Quanti soldi dovranno essere spesi esattamente non è ancora chiaro. “È imperativo aumentare la prontezza operativa delle forze armate a breve termine, in modo deciso e sostenibile”, si legge nel documento di coalizione sulla difesa.
Se Pistorius, che in questi giorni non lascia dubbi sul fatto che rimarrà ministro, vuole ridurre parallelamente tutti i freni burocratici, dall’obbligo di gara d’appalto ai lunghi processi di certificazione. La seconda fase è più ambiziosa. Poiché gli Stati Uniti potrebbero continuare a ritirarsi dalla NATO, la Bundeswehr deve improvvisamente pensare alle capacità militari che finora erano fornite dal fratello maggiore. Finora, ad esempio, nessuna nazione europea dispone di un sistema di allarme missilistico satellitare che copra l’intero globo. Nemmeno le potenze nucleari Francia e Gran Bretagna ne hanno uno. L’elenco delle carenze critiche in termini di capacità può essere esteso a piacere. Pistorius ha detto in modo quasi lapidario qualche giorno fa che si tratta di “tutti i settori, intelligenza artificiale, droni, spazio”.
Almeno su una cosa tutti si stanno preparando: produrre in Europa molte più armi e molto più velocemente di prima. “Noi, come industria, siamo pronti a produrre di più e più velocemente”, dice il capo della Rheinmetall, Papperger. Ma non è così semplice. L’industria europea degli armamenti, ridotta all’osso, non è in gran parte preparata alla produzione veloce. Al contrario, l’armamento è ancora molto spesso un lavoro manuale lento e in parte amorevole. Si può visitare un capannone a pochi chilometri a sud di Ingolstadt, protetto da varchi di sicurezza e squadre di sorveglianza. Qui la filiale di armamenti del gruppo aeronautico Airbus assembla il più importante aereo da combattimento delle forze armate europee: l’Eurofighter. Nel capannone regna un silenzio rilassato. In una stazione di lavoro, i dipendenti smistano chilometri di cavi che pendono da una parte semilavorata della fusoliera. Qualche metro più in là, i meccanici testano le prese d’aria. Per il resto, un gran numero di parti di ali e jet semilavorati sono ammassati in stazioni non presidiate, in gran parte inosservati. Solo dieci aerei da combattimento completati lasciano l’hangar ogni anno. Il ritmo è intenzionale, dice Andreas Hammer, responsabile degli aerei da combattimento e responsabile del sito di Manching presso Airbus Defence. “Naturalmente preferiremmo costruire più Eurofighter all’anno”.
Nell’ultimo decennio, tuttavia, non c’erano abbastanza ordini per mantenere l’assemblaggio a pieno regime. Per evitare che non succedesse nulla per mesi e che i dipendenti se ne andassero, la costruzione e la consegna sono state prolungate. La scorsa estate il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha annunciato l’ordine di 20 nuovi Eurofighter per la Luftwaffe. E potrebbero essercene anche altri da altre nazioni europee. Perché il prodotto concorrente degli americani, l’F-35, improvvisamente non è più molto popolare. A differenza dell’Eurofighter, i jet hanno una funzione di mimetizzazione. In compenso, l’aereo americano dipende dalla fornitura costante di pezzi di ricambio e aggiornamenti software. In caso di dubbio, un mezzo di pressione del governo statunitense a cui gli europei non vogliono più esporsi. Ciò non significa affatto che presto nuovi aerei da combattimento lasceranno le linee di assemblaggio a ritmo serrato. Perché non è solo il team di Andreas Hammer a Ingolstadt a dover produrre più velocemente. La produzione dell’Eurofighter è distribuita in modo ordinato in mezza Europa, in modo che tutti i paesi coinvolti ricevano in egual misura posti di lavoro e risultati economici. Mentre Hammer cammina attraverso il capannone di assemblaggio, indica le singole parti e spiega da dove provengono: “L’ala destra dalla Spagna, l’ala sinistra dall’Italia, la parte centrale della fusoliera dalla Germania, la parte anteriore della fusoliera dalla Gran Bretagna”. Tale proporzione è stata finora lo standard nell’armamento europeo. La produzione più efficiente, economica e veloce possibile è secondaria. In caso di dubbio, i sistemi d’arma vengono sviluppati due o tre volte e costruiti in diversi paesi in piccole serie per le rispettive forze armate in tutte le possibili edizioni speciali. La Francia, ad esempio, ha sviluppato il proprio jet da combattimento Rafale oltre all’Eurofighter. Le forze terrestri europee utilizzano undici diversi tipi di carri armati. Il risultato: l’industria europea degli armamenti è molto più piccola, frammentata e lenta di quella americana. Le 2500 piccole e medie imprese in totale non sono per lo più progettate per la produzione industriale di massa. Tra le dieci maggiori aziende di armamenti del mondo non c’è nessuna azienda dell’UE. Nel 2023, Airbus si è classificata al 12° posto, subito dopo l’italiana Leonardo. Rheinmetall, leader tedesco del settore, si è piazzata al 26° posto.
Con 61 miliardi di dollari, il leader mondiale americano Lockheed ha fatturato quasi quanto i quattro maggiori produttori di armi europei messi insieme. Tuttavia, Germania e Francia hanno unito le forze per sviluppare un nuovo sistema di combattimento terrestre: attorno al carro armato, droni e veicoli senza pilota dovrebbero raggrupparsi in un’unità di combattimento ad alta tecnologia. Il progetto è in fase di pianificazione dal 2012 e il “Main Ground Combat System” dovrebbe costituire la spina dorsale delle forze di terra europee a partire dai primi anni 2030. Poi i governi tedesco e francese e le aziende produttrici di armamenti hanno discusso per diversi anni su come dividere esattamente il progetto di cooperazione. Il progetto sembrava quasi morto.
All’inizio dell’anno, tuttavia, il ministro della Difesa Pistorius e il suo collega francese Sébastien Lecornu hanno accelerato la costituzione di una società madre con sede a Colonia, di cui metà appartiene alle società francesi Thales e KNDS France e l’altra metà a Rheinmetall e KNDS Germany. L’accordo è “una rivoluzione culturale”, ha detto il ministro della Difesa francese. La cooperazione è “esemplare e significativa per il modo in cui l’Europa può e deve posizionarsi nei prossimi anni”, ha affermato Pistorius. Tuttavia, il nuovo sistema di combattimento corazzato è una delle poche armi che saranno necessarie anche in futuro.
Per altri tipi di armi, la questione è meno chiara. Se un solo missile ipersonico può affondare un cacciatorpediniere, ha ancora senso investire centinaia di milioni di euro in nuove navi da guerra? Le portaerei, ad esempio, per lungo tempo fulcro di molti scenari strategici, “non sarebbero più utilizzabili tra 20 anni”, afferma Mark Milley, capo di Stato Maggiore delle forze armate statunitensi fino al 2023. I generali responsabili della pianificazione a Berlino e in altre capitali europee si trovano di fronte a un enorme dilemma: finalmente hanno molti soldi, ma non sanno esattamente come spenderli. I caccia, ad esempio, in futuro saranno in gran parte inutilizzabili, dicono alcuni esperti militari, presto verranno semplicemente abbattuti da enormi sciami di droni. Sciocchezze, dicono altri, i nuovi sistemi di guerra elettronica renderebbero rapidamente inutilizzabili i sensori, e allora ci vorrebbero di nuovo piloti umani che volino manualmente. E adesso? Probabilmente non rimarrà altro da fare che trovare una via di mezzo ogni volta che è possibile. Arrabbiarsi di lusso.
La domanda si sta orientando “sempre più verso i sistemi senza pilota”, dice Marco Gumbrecht, mentre è in piedi con la giacca da aviatore davanti a un Eurofighter semimontato nel capannone di assemblaggio dell’Airbus. In passato era lui stesso un pilota di Eurofighter, oggi è responsabile delle vendite dei jet da combattimento europei. “La Germania ha bisogno di una strategia per i droni”. Già solo perché non tutti i droni sono uguali e la gamma va dai piccoli droni kamikaze economici con poca forza di penetrazione ai velivoli da combattimento senza pilota e pesantemente armati. È chiaro, secondo Gumbrecht, che in futuro i sistemi con equipaggio e quelli autonomi opereranno in formazione. Come nel caso del nuovo sistema di combattimento aereo chiamato Future Combat Air System (FCAS), in cui i droni dovrebbero raggrupparsi intorno a un super jet da combattimento in rete, che Airbus sta attualmente sviluppando. Tuttavia, il jet da combattimento del futuro non sarà operativo fino al 2040. E finora anche questo ambizioso progetto europeo di armamenti si è distinto soprattutto per le controversie tra i partner su brevetti, obiettivi e distribuzione dei compiti. Il capo di Airbus Defence Michael Schöllhorn sembra piuttosto esasperato: “Se non riusciamo a unire le forze per un sistema di combattimento aereo europeo di sesta generazione ora, quando lo faremo?”, dice in un’intervista a SPIEGEL (vedi pagina 14). “Dovremmo sviluppare più rapidamente i missili autonomi e la loro interconnessione e introdurli sul mercato al più tardi nel 2029”, chiede. Gli ingegneri di Airbus hanno già un’idea di come potrebbe essere: una volta sviluppato il software appropriato, i droni potrebbero essere controllati dall’Eurofighter anche con un tablet legato al ginocchio. Questo sarebbe fattibile in uno o due anni. Tuttavia, solo poche settimane fa, l’italiana Leonardo, la britannica BAE Systems e la giapponese Mitsubishi hanno annunciato che costruiranno anche loro un sistema di volo del futuro.
L’ossessione di sviluppare tutto due o tre volte non riesce a essere scacciata dagli europei nemmeno in questa crisi esistenziale. Una politica europea comune di approvvigionamento potrebbe cambiare le cose? “Sarebbe positivo se l’UE assumesse un ruolo di coordinamento”, afferma Schöllhorn. E Bruxelles sembra disposta a farlo.
La scorsa settimana, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha presentato per la prima volta una strategia per la politica di difesa europea per i prossimi cinque anni. Sotto il titolo: European Defence Readiness 2030. Preparazione alla difesa nel 2030. Per ora non si parla di un esercito europeo proprio, di cui si discute da decenni. Gli Stati membri rimangono responsabili delle proprie forze armate. I funzionari di Bruxelles vogliono ora concentrarsi su ciò che è relativamente fattibile in tempi brevi: come unione di Stati, l’UE può coordinare e condurre la politica economica, compresa l’industria degli armamenti. Uno dei compiti più importanti che Bruxelles dovrà svolgere sarà l’approvvigionamento comune auspicato da Schöllhorn. “Dobbiamo creare un mercato europeo per gli armamenti”, chiede von der Leyen. Se almeno due paesi si uniscono, la Commissione prevede che in futuro potranno contrarre un prestito a condizioni favorevoli attraverso l’UE per acquistare armi e altre attrezzature militari. Gli Stati indebitati, schiacciati dal peso degli interessi, potranno così ottenere capitali relativamente a buon mercato. Proprio alcuni paesi cronicamente a corto di fondi investono pochissimo nella difesa. Nel 2024, ad esempio, la Spagna ha speso un misero 1,3% del prodotto interno lordo, l’Italia l’1,5%. La Commissione vorrebbe inoltre allentare le regole del debito dell’UE per le spese di difesa. Questo dovrebbe aiutare anche la Germania, che con il suo pacchetto di miliardi per la difesa dovrebbe superare di gran lunga i limiti di debito dell’UE.
Nel complesso, l’UE intende stanziare 800 miliardi di euro per la difesa nei prossimi cinque anni. Coordinato da un commissario alla difesa: con il lituano Andrius Kubilius, da gennaio c’è a Bruxelles un rappresentante competente per gli armamenti. Viene dalla Lituania e conosce molto bene la situazione di minaccia dell’Europa orientale. Può davvero funzionare una comunità di difesa che acquista in modo uniforme e mette insieme i suoi ordini? Deve funzionare, dice Roberto Cingolani, capo del colosso italiano degli armamenti. “L’obiettivo deve essere un’unione europea della difesa, in cui i singoli sistemi d’arma siano di livello mondiale e in grado di comunicare tra loro, controllati dall’intelligenza artificiale”, dice Cingolani. Tuttavia, Cingolani non vede la politica come il motore di questo processo, ma piuttosto le aziende. Dovrebbero essere “come gli sherpa e dimostrare che la cooperazione funziona”. Allora sarà più facile per i governi dire addio agli egoismi nazionali.
Lo scorso autunno Leonardo ha annunciato una collaborazione con Rheinmetall, le aziende vogliono costruire insieme una nuova generazione di carri armati. I tedeschi contribuiscono con il carro armato da combattimento Panther e il carro armato da combattimento Lynx, gli italiani si occupano dell’elettronica e della connettività. Uno costruisce l’hardware, l’altro il software, potrebbe funzionare. Non c’è più tempo per le sensibilità nazionali, dice Cingolani. “Se devo preoccuparmi che qualcuno sfondi la porta ed entri in casa mia, allora non mi interessa della mia vanità, allora sono necessarie misure estreme”. Avete capito tutti cosa c’è in gioco?
Quando il cancelliere Olaf Scholz ha annunciato il suo pacchetto da 100 miliardi di euro per la Bundeswehr nel 2022, anche questo è stato un segnale: abbiamo capito. Ma poi è successo troppo poco. “La svolta epocale è stata annunciata tre anni fa, ma ogni slancio è andato perso – e in realtà non si è concretizzata in fatti e azioni”, dice Susanne Wiegand. Fino all’inizio dell’anno è stata a capo del gruppo di armamenti Renk di Augusta. Ora è consulente del produttore di droni Quantum Systems. Si lamenta della persistente stagnazione della politica di difesa: in Germania, il ritardo da recuperare nel settore dei droni è particolarmente elevato. “Senza droni non vedremo più alcun conflitto, nessuna guerra e nessun campo di battaglia”, afferma Wiegand. Solo con un sistema globale interconnesso, in cui siano integrati i droni, l’Europa può scoraggiare un aggressore come Putin. I droni da ricognizione Vector della Quantum Systems, azienda bavarese fondata dieci anni fa, sono in uso in Ucraina, dove l’azienda ha costruito un proprio stabilimento di produzione. In un solo anno, ha detto il fondatore dell’azienda Florian Seibel, potrebbe espandere notevolmente le sue capacità e costruire una nuova fabbrica di droni in Germania. Ciò che gli strateghi militari considerano un must, può essere ancora oggetto di discussione per i politici, soprattutto tedeschi. Fino al 2020, la SPD ha bloccato la creazione di una flotta di droni armati della Bundeswehr, sostenendo che le armi potrebbero essere utilizzate anche per attaccare. Gundbert Scherf, ex rappresentante speciale per gli armamenti nel ministero della Difesa e oggi co-fondatore e co-presidente del consiglio di amministrazione della società di armamenti di Monaco di Baviera Helsing, sottolinea in questi giorni, ogni volta che può, che i suoi droni sono soprattutto l’arma di difesa perfetta. Il produttore di droni da combattimento, uno dei più grandi al mondo, è ora valutato cinque miliardi di euro e produce il drone HX-1 in un luogo segreto nella Germania meridionale. Scherf fa pubblicità: In poco più di un anno si potrebbe costruire un “muro di droni” lungo i 3000 chilometri del fianco orientale della NATO, e in combinazione con le forze convenzionali dell’Alleanza si potrebbe aumentare rapidamente l’effetto deterrente nei confronti della Russia.
L’ex partner del gigante della consulenza McKinsey sta già producendo 6000 dei suoi droni per l’Ucraina. Tutto questo è, non da ultimo, una questione di soldi. Rheinmetall vorrebbe continuare a prolungare il suo boom di carri armati. Aziende come Helsing e Quantum potrebbero trarre enormi vantaggi da un muro di droni. L’approvazione di un assegno quasi illimitato per l’industria tedesca degli armamenti, la prospettiva di centinaia di miliardi di euro guadagnati con contratti governativi, ha scatenato una corsa all’oro nel settore. Soprattutto le start-up fiutano la loro occasione. Proprio dietro l’angolo di Helsing, vicino a Monaco, c’è un’altra start-up tedesca che spera di poter colmare una lacuna nella difesa. Entro il prossimo anno, scrivono la CDU e la SPD nel loro documento strategico sulla difesa, il Paese ha urgente bisogno di una “strategia nazionale di sicurezza spaziale” per sviluppare “la capacità di difesa della Germania nello spazio”.
Finora la Bundeswehr dispone solo di una manciata di satelliti, troppo pochi per guidare le truppe in caso di guerra. Isar Aerospace sta quindi costruendo una fabbrica per produrre in serie un razzo vettore tedesco, lungo 28 metri, con camere di combustione realizzate con una stampante 3D. Il primo modello si trova in questi giorni al cosmodromo dell’isola norvegese di Andøya, in attesa di essere lanciato in orbita. Il dispositivo si chiama Spectrum 1 e potrebbe quasi fungere da simbolo per l’intero riarmo. Sono stati investiti molti soldi e un grande lavoro di ingegneria. Ma non è ancora chiaro se il razzo riuscirà a decollare o esploderà di nuovo poco dopo il lancio.
«C’È UN ALTO RISCHIO CHE L’EUROPA POSSA FINIRE SOTTO LE RUOTE»
INDUSTRIA Michael Schöllhorn è un pilota di elicotteri qualificato e dirige il settore degli armamenti di Airbus. Spiega come l’Europa può prepararsi a una guerra nello spazio.
Intervista di: Martin Hesse, Marcel Rosenbach
Schöllhorn, classe 1965, ha iniziato la sua carriera nelle forze armate tedesche come ufficiale e pilota di elicotteri. Dalla metà del 2021 è a capo della divisione militare di Airbus. Per l’intervista a SPIEGEL lo invita nella sede di Airbus a Berlino, in vista della Cancelleria.
SPIEGEL: Signor Schöllhorn, è curioso. La Germania ha discusso per più di un decennio se la Bundeswehr potesse armare alcuni droni noleggiati da Israele, oggi stiamo parlando di somme di centinaia di miliardi per gli armamenti e di un possibile dispiegamento di armi nucleari tattiche. Stiamo passando da un estremo all’altro?
Schöllhorn: Siamo in un cambiamento epocale verso un nuovo ordine mondiale, di cui non sappiamo ancora esattamente come sarà. C’è un grande rischio che l’Europa possa finire sotto i piedi. Che ci piaccia o no, il potere militare sarà molto importante in questo nuovo mondo. L’Europa deve prepararsi. Si tratta di decidere quali valori difendere e come vivere. Abbiamo bisogno di molti soldi per ottenere un deterrente efficace, che ora è necessario. Ma il denaro da solo non basterà. Dobbiamo coinvolgere la popolazione e renderla più resiliente, anche la protezione civile ha bisogno di più risorse.
SPIEGEL: I leader politici europei non ritengono più sicuro il sostegno degli Stati Uniti in caso di guerra. Condivide questa opinione?
Schöllhorn: Ritengo che le speculazioni su entrambe le sponde dell’Atlantico siano molto pericolose, se gli Stati Uniti adempiranno ancora al loro obbligo di assistenza ai sensi dell’articolo 5 del trattato NATO in caso di emergenza. In questo modo si mina la propria credibilità. Tuttavia, è anche possibile che gli americani non possano aiutarci perché sono impegnati altrove, ad esempio in Asia. Quindi l’Europa deve semplicemente essere messa in grado di difendersi da sola.
SPIEGEL: L’Europa potrebbe farlo?
Schöllhorn: Al momento non proprio, ma in prospettiva è sicuramente possibile. L’obiettivo deve essere quello di essere in grado di difendersi in modo ampiamente indipendente entro il 2029.
SPIEGEL: L’Europa si trova in un conflitto di obiettivi: ben la metà delle importazioni di armi proviene dagli Stati Uniti, se si vuole accelerare il riarmo, si dovrebbe continuare a comprare molto da lì. Ma poiché allo stesso tempo si vuole diventare più sovrani, questo è praticamente impossibile.
Schöllhorn: L’industria europea degli armamenti può fare molto di più di quanto si dica comunemente, anche dalla politica. Sono necessari impegni chiari di acquisto e possibilmente anche pagamenti anticipati per i piccoli fornitori nella catena di fornitura. Devono decidere ora di acquistare componenti e di fare praticamente un pagamento anticipato.
SPIEGEL: Per essere credibile, sarebbe necessario un appalto comune europeo?
Schöllhorn: Finora è stato tutto molto nazionale. Attualmente in Europa ci sono 179 piattaforme per sistemi di combattimento, cioè diverse navi, carri armati e aerei. Gli Stati Uniti hanno solo 33 piattaforme, con un budget circa tre volte superiore. Dobbiamo cambiare urgentemente questa situazione. Sarebbe positivo se l’UE assumesse un ruolo di coordinamento. Ma non dovremmo aspettare. La via più rapida potrebbe essere quella di una più stretta cooperazione industriale.
SPIEGEL: Quali altri ostacoli vede?
Schöllhorn: Dovremmo abolire la clausola civile, cioè la rigida separazione tra ricerca civile e militare. Non è più al passo con i tempi. Molte delle più importanti nuove aziende nel campo della tecnologia della difesa, come la società di analisi dei dati Palantir, hanno radici civili. Anche i fondatori di Anduril, specializzata in armi controllate dall’intelligenza artificiale, non hanno iniziato la loro carriera nel settore della difesa. Oggi molti prodotti di interesse militare provengono anche dal settore commerciale.
SPIEGEL: Dove è maggiore la dipendenza dagli americani?
Schöllhorn: Finora all’interno della NATO c’è stata una divisione in base alla quale gli europei si occupano maggiormente delle forze terrestri e gli americani di quelle aeree e spaziali. Lo vediamo in Ucraina, dove l’Europa dipende fortemente dalla compagnia spaziale SpaceX di Elon Musk e dal sistema satellitare Starlink per le comunicazioni e la ricognizione. L’Europa dovrebbe investire molto di più in futuro, la guerra del futuro si svolgerà anche nello spazio.
SPIEGEL: Lei vede le maggiori lacune in due settori che Airbus copre: l’aeronautica e l’astronautica. È realistico diventare indipendenti entro il 2029 anche per quanto riguarda i veicoli di lancio che devono portare i satelliti nello spazio?
Schöllhorn: Questo deve essere l’obiettivo. Dopotutto, il lanciatore europeo Ariane 6 ha gestito bene i primi due lanci. Allo stesso tempo, il lanciatore più piccolo Vega è di nuovo operativo e anche i nuovi mini-razzi possono dare il loro contributo. Inoltre, possiamo ottenere di più con i satelliti già esistenti se utilizziamo insieme le capacità che oggi esistono in Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia e Spagna. Ad esempio, potremmo creare una stazione di controllo e comando generale a terra che raccolga e distribuisca tutte le informazioni provenienti dallo spazio. Potremmo anche rendere la costellazione di satelliti civili OneWeb relativamente veloce per un uso militare.
SPIEGEL: Ma ha solo 654 satelliti, non quasi 7100 come Starlink.
Schöllhorn: È vero, ma anche con 654 si può già fare qualcosa. Inoltre, disponiamo di eccellenti satelliti geostazionari per le comunicazioni, solo pochi dei quali forniscono una copertura globale. Nel campo dell’osservazione della Terra, noi europei siamo tecnicamente bravi almeno quanto gli americani. L’Europa deve trovare la propria strada e non limitarsi a copiare ciò che fanno gli americani o i cinesi. Dovremmo costruire gradualmente una costellazione satellitare efficace, invece di seguire, come spesso accade, un approccio big bang costoso e esagerato.
SPIEGEL: Cosa critica?
Schöllhorn: Non capisco perché non si sia iniziato tre anni fa a sviluppare la costellazione satellitare europea Iris2 , che potrebbe fornire una connessione Internet capillare. Perché l’Europa pensa così poco al futuro su questioni così esistenziali e non sviluppa le proprie capacità, che sono fondamentalmente presenti nell’industria?
SPIEGEL: La vostra prevista joint venture spaziale con l’azienda italiana di armamenti Leonardo e il gruppo aerospaziale francese Thales mira a unire meglio le forze europee?
Schöllhorn: Questa è l’idea di base. In molti settori, l’Europa è tecnologicamente alla pari con i concorrenti globali, ma è troppo frammentata. Nel settore della costruzione di aerei civili, con Airbus ha funzionato. Al momento siamo addirittura davanti a Boeing. Invece di sviluppare tre volte le stesse tecnologie, potremmo farlo insieme anche nel settore spaziale e recuperare i soldi più velocemente attraverso esportazioni comuni.
SPIEGEL: Con FCAS, il nuovo sistema di combattimento aereo previsto per il 2040, state già portando avanti un grande progetto congiunto con Dassault in Francia e Indra in Spagna. A causa delle vanità nazionali, le cose non stanno andando per il verso giusto. Perché le cose dovrebbero andare meglio con la nuova joint venture spaziale?
Schöllhorn: La differenza è che FCAS non è un’impresa comune, ma una cooperazione legata a un progetto. Non si può rimproverare alle aziende di FCAS di lottare ancora per se stesse, quando sono concorrenti in molti settori. La joint venture spaziale deve essere meglio integrata dal punto di vista imprenditoriale.
SPIEGEL: Quanto è forte la pressione politica affinché FCAS faccia finalmente progressi?
Schöllhorn: Se non riusciamo ora a unire le forze per un sistema di combattimento aereo europeo di sesta generazione, quando lo faremo? Lo dico anche alla luce del fatto che il presidente Trump ha appena dato il via libera all’aereo da combattimento americano di sesta generazione, l’F-47. Tra qualche anno l’Europa non dovrebbe trovarsi di nuovo nella situazione imbarazzante di dover ricorrere a un sistema americano perché non siamo riusciti a sviluppare la nostra soluzione in tempo.
SPIEGEL: Cosa fare allora?
Schöllhorn: FCAS è sinonimo di un moderno sistema integrato con aerei con equipaggio, droni e condotta della battaglia incentrata sulla rete. Dovremmo sviluppare più rapidamente i missili autonomi e la loro interconnessione e introdurli sul mercato al più tardi nel 2029.
SPIEGEL: Anche per quanto riguarda la deterrenza con le armi nucleari, l’Europa dipende dagli Stati Uniti. Alla luce dei recenti sviluppi politici, ci si chiede se lo scudo nucleare sia ancora affidabile per l’Europa.
Schöllhorn: Finora gli americani non lo hanno messo in discussione e possiamo essere contenti di ogni anno in cui abbiamo questo scudo protettivo. Ma anche su questo punto l’Europa deve diventare più indipendente.
SPIEGEL: La Germania dovrebbe annullare i contratti per gli aerei da combattimento americani F-35 che il governo federale ha ordinato per il possibile uso di armi nucleari in caso di guerra? C’è incertezza che gli americani possano impedire operazioni sgradite.
Schöllhorn: Con tutto il rispetto, penso che questa idea sia assurda. Naturalmente, all’inizio avremmo preferito fornire Eurofighter. Tuttavia, la decisione politica di base di abilitare l’Eurofighter alla partecipazione nucleare avrebbe dovuto essere presa molti anni prima. Non è stato così, quindi non c’era alternativa quando si è deciso per l’F-35. In questo senso, la decisione era comprensibile. E con la bomba B61 si dipende comunque dagli Stati Uniti. Tuttavia, non dovremmo sostituire i restanti Tornado con aerei F-35. Non si tratta solo di un aereo, ma di interconnessione e rapidità decisionale. Dobbiamo diventare più indipendenti nelle tecnologie fondamentali per questo.
SPIEGEL: Quanto è credibile l’idea di una deterrenza nucleare comune europea? Come dovrebbero funzionare i processi di coordinamento in caso di emergenza?
Schöllhorn: La NATO ha più membri dell’UE, quindi sembra che funzioni perfettamente. Ma strutture di comando e catene decisionali di questo tipo devono naturalmente essere prese in considerazione.
SPIEGEL: L’arsenale francese è abbastanza moderno e affidabile?
Schöllhorn: I francesi hanno una dottrina chiara, puntano sulle armi nucleari strategiche. Possono raggiungere qualsiasi punto della Terra con queste armi. E possono causare danni molto gravi a qualsiasi aggressore, anche a grandi paesi. Questo ha funzionato bene come componente di deterrenza nazionale e, se esteso, funzionerebbe bene anche per l’Europa.
SPIEGEL: Sarebbe sufficiente come deterrente?
Schöllhorn: Se la Russia minaccia di usare armi nucleari tattiche, come è successo in Ucraina, ci si deve chiedere se sia sufficiente avere solo il martello più grande nell’arsenale o se ne serva anche uno piccolo. L’attuale dottrina della NATO prevede anche armi tattiche. Tuttavia, nel frattempo, abbiamo una grande lacuna nei missili a medio raggio, dove la Russia sta aumentando massicciamente gli armamenti – a Kaliningrad e ora anche in Bielorussia.
SPIEGEL: Quanto tempo ci vorrebbe per colmare questa lacuna?
Schöllhorn: Dipende dal vettore desiderato. In Ucraina, i russi hanno più successo con i missili balistici a lungo raggio. Con Ariane, l’Europa ha la capacità di costruire tali missili, se la politica lo vuole. Poi ci sono le armi ipersoniche, che sono più difficili da intercettare. Il loro sviluppo potrebbe richiedere più tempo, ma anche per questo ci sono le condizioni in Europa.
QUANTO È PRONTA ALLA BATTAGLIA L’EUROPA?
ARMI Gli eserciti europei dispongono di buona artiglieria, carri armati e jet. In alcuni settori, tuttavia, ci sono notevoli carenze.
Di Marc Hasse, Oliver Imhof, Niklas Marienhagen
Se si confrontano le forze militari, gli Stati europei membri della NATO sembrano essere chiaramente superiori alla Russia. Secondo la NATO, gli eserciti degli Stati membri da Lisbona ad Ankara contano complessivamente più di due milioni di soldati, mentre la Russia, secondo le stime del rinomato think tank londinese International Institute for Strategic Studies (IISS), ha 1,1 milioni di soldati attivi. Gli europei dispongono di oltre 6700 carri armati, mentre Putin ne può impiegare 2900. Gli europei hanno in servizio oltre 2300 aerei da combattimento, mentre la Russia ne possiede poco meno di 1400. La differenza quantitativa è particolarmente grande nell’artiglieria: gli Stati europei della NATO hanno più di 15.400 cannoni, la Russia ne ha solo 6090.
L’esperto militare austriaco Gustav Gressel presume tuttavia che la Russia abbia molti più soldati di quanto ipotizzi l’IISS. A parte questo, la quantità di armi degli Stati europei della NATO è un criterio valido solo in misura limitata per la loro forza militare. In caso di guerra tra la NATO e la Russia, la Turchia, membro della NATO, potrebbe rifiutare l’aiuto militare a causa della sua vicinanza a Mosca, teme Gressel. In questo caso, i mezzi a disposizione degli europei si ridurrebbero notevolmente, poiché la Turchia fornisce quasi un quarto dei soldati, più di un terzo dei carri armati e quasi il 18% dell’artiglieria. 1
ARTIGLIERIA
Gli europei sarebbero tecnicamente superiori ai russi con cannoni semoventi altamente mobili come l’obice francese Caesar e l’obice corazzato tedesco 2000. Tuttavia, per quanto riguarda il numero di lanciamissili multipli, la Russia è molto più avanti dei paesi europei della NATO, se si esclude la Turchia, dice Gressel. Inoltre, gli europei sono a corto di munizioni, anche se la produzione è già stata aumentata.
DIFESA AEREA
L’Europa ha un notevole ritardo da recuperare nella sua difesa aerea. Non esiste uno scudo comune contro missili, missili da crociera, aerei da combattimento e droni. “Abbiamo ancora un mosaico di piccoli sistemi di difesa individuali”, afferma Markus Schiller, esperto di missili e docente presso l’Università della Bundeswehr di Monaco. L’iniziativa European Sky Shield, lanciata dalla Germania nel 2022, dovrebbe porre rimedio a questa situazione. L’iniziativa riunisce 23 Stati che, secondo il Ministero della Difesa, intendono acquistare, utilizzare e mantenere congiuntamente sistemi di difesa aerea. Il concetto prevede l’uso di diversi sistemi di intercettazione a terra, a seconda della distanza a cui un aggressore lancia i missili e dell’altitudine a cui volano. Il sistema tedesco Iris-T SLM è progettato per combattere oggetti fino a 20 chilometri di altezza. Il livello successivo sarà gestito dal sistema statunitense Patriot. Diversi paesi europei hanno ordinato questi sistemi o li possiedono già. Solo la Germania ha finora acquistato il sistema israeliano Arrow-3. I suoi missili guidati dovrebbero distruggere i razzi che volano al di fuori dell’atmosfera. Questo potrebbe persino essere usato per respingere i missili russi a medio raggio con testate nucleari.
ARMI A LUNGO RAGGIO
Ma anche il miglior scudo antimissile ha delle lacune. Ecco perché la deterrenza è considerata la migliore difesa. Germania, Francia e altri quattro paesi stanno investendo nell’European Long-Range Strike Approach. L’obiettivo di questo programma è sviluppare insieme nuove armi. Si tratta di missili convenzionali a terra o di missili da crociera con una portata di circa 2000 chilometri, che potrebbero volare in profondità in Russia. Finora, in Europa, solo la Gran Bretagna e la Francia dispongono di armi a lungo raggio, dotate di testate nucleari e lanciabili da sottomarini.
BATTAGLIA AEREA
Gli Stati della NATO puntano tradizionalmente sulla superiorità aerea. «Gli aerei da combattimento europei sono già migliori delle loro controparti russe», afferma l’esperto militare Ed Arnold del Royal United Services Institute. E con l’F-35 americano, il vantaggio sarebbe ancora maggiore grazie alle sue caratteristiche stealth. Inosservati dai radar, i bombardieri statunitensi potrebbero creare vulnerabilità nelle difese aeree nemiche. Finora, sei forze aeree europee possiedono l’F-35. Per il momento non sono previste alternative. Il Future Combat Air System franco-tedesco-spagnolo e il Tempest britannico dovrebbero essere operativi rispettivamente entro il 2040 e il 2035. Gli europei dipendono quindi da Washington per colmare il vuoto dei bombardieri. Se dovessero verificarsi ulteriori disaccordi politici con gli americani, questi potrebbero interrompere la catena logistica dietro l’F-35, rendendolo di fatto inutilizzabile in combattimento.
RICOGNIZIONE
Anche nel campo della ricognizione ci sono notevoli lacune senza gli Stati Uniti. “Gli inglesi potrebbero almeno mitigare a breve termine un’interruzione da parte degli americani”, dice Ed Arnold. Tuttavia, nessuno dei servizi segreti europei ha le capacità dell’alleato transatlantico. Ci sono grandi carenze soprattutto nella ricognizione satellitare. Gli europei possiedono meno satelliti, che hanno anche una qualità d’immagine inferiore a quella degli americani. Gli europei avrebbero migliorato in altri settori. La Germania ha recentemente ordinato otto aerei P-8 per la ricognizione marittima.
PRONTEZZA AL COMBATTIMENTO
Anche la prontezza al combattimento è scarsa, soprattutto nella Bundeswehr. Secondo l’esperto militare Mark Cancian del Center for Strategic and International Studies, idealmente dovrebbe avere due brigate permanenti su chiamata. Attualmente una brigata della Bundeswehr ha circa 5000 soldati. Ma la Germania ha già avuto problemi a inviare una brigata corazzata in Lituania. Senza l’aiuto degli americani, gli europei avrebbero anche difficoltà a coordinare e rifornire le unità. La maggior parte degli eserciti europei ha poca esperienza di combattimento, soprattutto in guerre ad alta intensità come quella in Ucraina. L’esperto Ed Arnold del Royal United Services Institute afferma che gli europei mancano soprattutto della capacità di condurre una guerra per un periodo di tempo più lungo. Fondamentalmente, hanno armi buone ma costose. Tuttavia, queste dovrebbero anche poter essere mantenute e sostituite: “Abbiamo bisogno di più di ciò che già abbiamo, piuttosto che del prossimo progresso tecnico”. 7 DRONI Gli europei hanno una buona tecnologia per quanto riguarda i droni, ma ne producono molto meno dei russi. Molti sistemi occidentali sono troppo costosi e non sono orientati alla produzione di massa. Eppure, i droni hanno cambiato in modo decisivo il campo di battaglia nella guerra in Ucraina: tolgono molti carri armati dal combattimento, che secondo il pensiero tradizionale dovrebbero ottenere risultati decisivi, e questo a una frazione del prezzo dei carri armati.
Eccoci di nuovo in guerra
SAGGIO La Germania non ha bisogno solo di denaro e armi per difendersi. In caso di emergenza, la società deve essere pronta a mandare i propri figli e le proprie figlie in guerra. Lo è?
Di Lothar Gorris
Il figlio ha compiuto 18 anni a gennaio. Sta per prendere il diploma di maturità. È un bravo ragazzo, come sempre. Gli voglio molto bene, ma mi preoccupo sempre. Non ho idea di cosa ne sarà di lui. Nemmeno lui. Chi lo sa. Era febbraio, nei giorni della Conferenza sulla sicurezza di Monaco, l’ordine mondiale stava crollando. Stavamo mangiando la migliore carbonara della città e, forse perché poco prima aveva scritto l’ultimo compito in classe di politica della sua vita, proprio sulla NATO, così attuale è il materiale scolastico oggi, gli chiesi, con mia grande sorpresa e forse anche perché in qualche modo mi dava fastidio: “Hai mai pensato alla Bundeswehr?”
Per un boomer, nato nel 1960, obiettore di coscienza, che non ha mai conosciuto altro che una vita non disturbata dalla guerra, era un pensiero piuttosto audace. Il figlio guardò un po’ stupito. Il ragionamento era questo: 13 anni di obbligo di servizio, un eccellente corso di studi duale, qualunque sia la materia. Guadagnare soldi. Fare qualcosa di utile. Qualcosa di più grande di te.
Che pensiero. Mandare il figlio in guerra per difendere la democrazia con la propria vita nei Paesi Baltici o in qualsiasi altra parte d’Europa? Un’idea piuttosto poco paterna. Un po’ pre-eroica in tempi post-eroici e presuntuosa. D’altra parte, più di 80 anni fa i padri americani mandarono i loro figli in Europa. Riuscite a immaginarlo? Salutare il figlio a New York e guardarlo salire sulla nave per l’Europa? Ma ciò che allora era giusto non deve essere sbagliato oggi solo perché sembra essere successo tanto tempo fa e da allora si è vissuto una vita con una garanzia di pace incorporata. Forse questa è una sorta di svolta personale dei tempi. Il dopoguerra finisce, inizia un periodo prebellico.
L’idea di pace eterna, che per così tanto tempo era sembrata naturale, si rivela un’illusione. Qualche mese fa, durante un viaggio in auto, la radio tedesca, chiamata dai giovani “la radio dei dirigenti di papà”, ha trasmesso un’intervista a un funzionario del sindacato dell’istruzione e della scienza. Le elezioni americane si stavano avvicinando. La guerra d’attacco di Putin infuriava, le stelle erano sfavorevoli per l’Ucraina, l’Europa sembrava impotente e stranamente indecisa, il ministro della Difesa parlava della necessità che la Germania tornasse ad essere pronta alla guerra.
Dopotutto, nessuno sembrava ancora seriamente prevedere che un nuovo presidente a Washington potesse far implodere seriamente la NATO, ma il GEW aveva preoccupazioni completamente diverse. Un’intervista come se venisse da un altro tempo. L’accesso della Bundeswehr alle scuole deve essere limitato. Non dovrebbe reclutare giovani reclute, gli ufficiali giovanili dovrebbero essere invitati solo se è garantito l’equilibrio politico. La funzionaria sembrava parlare di un pericoloso gruppo che dovrebbe essere monitorato dall’intelligence perché corrompe i giovani e si infiltra nello Stato e nel suo sistema educativo. Parlava come se il problema fosse la Bundeswehr e non Putin. Parlava come se fosse stata presente anche allora.
Allora, il 10 ottobre 1981, quasi 44 anni fa, nel parco Hofgarten di Bonn. 300.000 persone hanno manifestato contro la doppia decisione della NATO e contro lo schieramento di missili a medio raggio americani con testate nucleari. È stata la più grande manifestazione nella storia della Repubblica Federale di Germania fino a quel momento. Eravamo in piedi da qualche parte in fondo a destra. Alla Casa Bianca governava Ronald Reagan, che sembrava essere quello che Donald Trump è oggi. A posteriori, bisogna dire che Reagan era un tipo relativamente onesto che, peggio ancora, forse aveva anche ragione e quindi successo nell’armare l’Unione Sovietica fino al midollo, anche se gli storici discutono ancora oggi se sia stata la politica di distensione o l’armamento a mettere in ginocchio il Patto di Varsavia. I ricordi di quel giorno sono un po’ sbiaditi. L’appello alla manifestazione aveva annunciato che la terza guerra mondiale era imminente. Si esibirono i Bots, una band olandese di critica sociale, come venivano chiamati allora, e i cantautori politici Hannes Wader e Franz Josef Degenhardt. Parlarono la vedova di Martin Luther King, Petra Kelly, uno dei primi idoli dei Verdi, e il politico Erhard Eppler, un eroe del movimento per la pace, uno dei pochi del partito socialdemocratico. La musica era terribile, i discorsi prevedibilmente agitati. Sui cartelli c’erano scritte come “I soldati sono assassini” o “Meglio rossi che morti”.
Non ricordo esattamente cosa stava succedendo nelle nostre teste e nelle nostre anime, ma probabilmente avevamo davvero paura di una guerra. C’era l’idea di zone prive di armi nucleari nella Germania occidentale, che, anche se non era più del tutto plausibile, avrebbe dovuto risparmiarci i missili del Patto di Varsavia. Se Leonid Breznev l’avrebbe rispettata? Noi, i figli dei nazisti, eravamo piuttosto convinti di noi stessi e anche di aver imparato la lezione giusta dalla storia: mai più guerra. Per noi l’Unione Sovietica non era peggio dell’America. E il cancelliere Helmut Schmidt un guerrafondaio. La politica tradizionale, il leader dell’opposizione Helmut Kohl in ogni caso, non aveva una grande opinione del movimento per la pace. Ci chiamava «utili idioti» di Mosca, e non ci vengono in mente molti argomenti contrari. Il DKP, fedele a Mosca e guidato da Berlino Est, all’epoca giocava un ruolo importante nel movimento pacifista della Germania Ovest, ma a nessuno di noi importava granché.
Avevo 21 anni, un’età in cui solo sottili linee separano l’incoscienza dall’ignoranza e la ribellione dalla stupidità. Ad essere sincero, non ero nemmeno un pacifista. Due anni prima avevo rifiutato di prestare servizio militare. Chi all’epoca voleva esercitare il proprio diritto fondamentale all’obiezione di coscienza doveva giustificare la propria decisione di coscienza davanti a una commissione d’esame che era sotto la tutela delle forze armate, ma era composta da civili. Ma come si può esaminare la coscienza, come si può valutare una decisione etico-morale con criteri giuridici? C’erano quelle domande leggendarie, cosa si farebbe, per esempio, se la madre o la fidanzata fossero minacciate con un’arma. La mia coscienza pacifista non deve essere sembrata molto convincente. Sono andato due volte davanti alla commissione d’esame, dove ho dovuto esporre qualcosa in cui non credevo, cioè che avrei preferito accettare la morte dell’amica piuttosto che difenderla con tutte le mie forze. Non ero un pacifista, solo che non volevo arruolarmi nell’esercito. La tradizione del militarismo prussiano. La colpa dei tedeschi. L’eredità della Wehrmacht. L’imperialismo degli Stati Uniti. La fragilità della Guerra Fredda. La presunta pretesa insita nel concetto di “cittadino in uniforme”. La riluttanza a farsi comandare da un qualsiasi sergente. E poi avrei dovuto tagliarmi anche i capelli.
Col senno di poi, a prescindere dalla concreta discussione politica sul riarmo e dai giochi di deterrenza della Guerra Fredda, nel giardino di corte di Bonn si era costituita la mentalità pacifista della Germania del dopoguerra. Un pacifismo che negli anni successivi non fu mai messo alla prova, perché presto crollarono i muri del blocco orientale e la democrazia, la libertà e quindi anche la pace sembrarono garantite per sempre. In realtà il mondo era più complicato di quanto si volesse, tanto più che gli Stati Uniti, la potenza protettrice dell’Occidente, con le loro guerre promuovevano il pacifismo tedesco con tutte le loro forze. Mai più guerra. Questa era una frase di ovvia verità. Il nucleo del pacifismo tedesco, che partiva dall’unicità della colpa tedesca e della mostruosità tedesca.
L’idea che questa Germania, ora che aveva riconquistato la sua unità, dovesse assumersi la responsabilità di porre fine alla mostruosità degli altri, non aveva avuto spazio nella coscienza tedesca per molto tempo. Il che ha portato a dibattiti interessanti. Il primo grande dibattito di questo tipo si è svolto nel 1999 sulla partecipazione della Germania alla missione della NATO nella guerra del Kosovo. Le parole del ministro degli Esteri Joschka Fischer all’epoca: “Mai più guerra. Mai più Auschwitz. Mai più genocidio. Mai più fascismo». Fu un primo allontanamento dai vecchi principi pacifisti, e per di più da parte di uno dei Verdi pacifisti. Quello che intendeva dire era: nessuno vuole la guerra, ma a volte bisogna farla. Chi non vuole più né Auschwitz né il fascismo non andrà lontano con “Mai più guerra”. Forse negli ultimi 25 anni questo Paese ha imparato che le frasi “Mai più guerra” e “Mai più Auschwitz” sono in contraddizione, ma ha rimosso le loro implicazioni. Un vasto pubblico ha sopportato piuttosto che sostenere le missioni all’estero della Bundeswehr.
Il presidente federale Horst Köhler ha parlato di «disinteresse amichevole». Si era piuttosto contenti di non essere disturbati dalle cattive notizie dall’Afghanistan, quando i soldati morivano durante la loro missione, una missione che è stata ignorata per 20 anni. Proprio come le missioni in Mali, Sud Sudan, Giordania. Missioni di cui quasi nessuno ha sentito parlare. Deve essere così, ma non lasciamo che la nostra pace sia disturbata. E quando il servizio militare obbligatorio è terminato, quando la Bundeswehr si è trasformata da esercito per la difesa nazionale a truppa di intervento, la guerra è stata allontanata ancora di più da questa società civile pacifista. Anche se si è discusso più volte che l’equipaggiamento della Bundeswehr è insufficiente. Fucili che non sparano, elicotteri che non volano. Dal 1992 al 2023, la Germania non ha mai speso per la Bundeswehr il due per cento del prodotto interno lordo concordato nella Nato.
Non si sa cosa sia più imbarazzante: che semplicemente non l’abbiamo fatto. O che Donald Trump abbia dovuto ricordarcelo, perché non è quasi mai stato un argomento di cui si è occupato l’opinione pubblica tedesca. Ora la guerra di Putin e la minaccia di uscita degli Stati Uniti dalla NATO hanno cambiato tutto.
Dall’inizio del nuovo millennio, ci sono stati soldi e armi per l’Ucraina, soldi e armi per la Bundeswehr. Entrambi hanno il sostegno di gran parte della popolazione. Soldi e armi. Possiamo permettercelo. Che i soldati tedeschi combattano per la libertà in Ucraina sembra inconcepibile. Ma ha senso escluderlo a priori? Per Putin, questo tipo di acquietamento della coscienza tedesca rende la sua guerra più calcolabile. Ma per una nuova Bundeswehr, le armi e il denaro da soli non bastano, ci vogliono persone che difendano il Paese in caso di emergenza. Almeno 50.000 soldati in più, forse anche 90.000. Si discute della reintroduzione del servizio militare obbligatorio. Questo Paese cambierà. Mai più fascismo. Mai più Auschwitz. La mostruosità non è una caratteristica specifica della Germania. La nostra libertà sarà sicuramente difesa nei Paesi Baltici.
Quindi, dovremo dire addio ai nostri figli, ai nostri figli, alle nostre figlie, tanto femminismo deve essere, alla porta della caserma e mandarli in guerra? Il figlio non ha detto molto. Ad un certo punto ha chiesto se un soldato dovesse vivere in una caserma. Non ne ho idea, ha detto il vecchio obiettore di coscienza. Era solo un pensiero. Abbiamo poi cambiato argomento e abbiamo parlato di calcio. La carbonara era davvero fantastica.
Il 2 aprile 2025 potrebbe passare alla storia, non necessariamente nel senso trumpiano di Liberation Day, ma forse piuttosto come Ruination Day, come titolava l’Economist.
Il 2 aprile 2025 potrebbe passare alla storia, non necessariamente nel senso trumpiano di Liberation Day, ma piuttosto come Ruination Day, come titolava l’Economist. In ogni caso, è il giorno in cui un nuovo ordine mondiale ha trovato la sua espressione più chiara fino ad oggi.
Nei sondaggi, la CDU è solo di poco superiore all’AfD. All’interno del partito si sta formando una resistenza contro Friedrich Merz. Soprattutto a Colonia, i membri del partito sono molto critici nei confronti del leader del partito
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Obbligo di leva, volontari o obbligo di servizio per tutti?
L’Unione e il Partito Socialdemocratico di Germania (SPD) sono ancora in disaccordo su come l’esercito tedesco possa essere rapidamente reso idoneo alla guerra in termini di personale. I pro e i contro dei modelli in discussione
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La scena è ambientata in una sala da pranzo borghese di un paese occidentale alla fine degli anni ’60. Un bambino dal viso fresco, rosso in viso per l’eccitazione, appena tornato dall’università, racconta la sua partecipazione a una marcia contro la guerra del Vietnam.
“Quindi quello che intendi”, dice Parent, “è che vuoi che venga instaurato il sistema comunista qui. Non sarai così contento quando ti porteranno in un campo di lavoro come fanno in Vietnam”. La discussione degenera rapidamente in uno scambio di insulti e Child esce di corsa dalla stanza.
La scena è la stessa sala da pranzo borghese di due decenni dopo. Child è in visita con dei bambini e inizia a spiegare perché il Sudafrica sta cambiando politicamente, secondo i suoi amici più in vista.
“Quindi quello che stai dicendo”, dice Parent, “è che vuoi che il comunismo venga installato in Sudafrica come in ogni altra parte dell’Africa e che l’intero continente venga rovinato, proprio come è successo in Congo”. La discussione degenera in uno scambio di insulti.
Circa dieci anni dopo, Child sta discutendo con uno dei loro figli sulla guerra in Iraq. “Quindi quello che intendi veramente”, dice l’anziano, “è che dovremmo semplicemente lasciare che il popolo iracheno soffra e non fare nulla. Pensavo fossi un attivista per i diritti umani?”. La discussione degenera in uno scambio di insulti.
E proprio di recente, i figli di Child hanno discusso dell’Ucraina e del ruolo bellicoso di Frau von der Leyen. “Quello che intendi veramente”, dice Daughter, “è che alle donne non dovrebbe essere permesso di entrare in politica. Pensi che dovrebbe stare in cucina a preparare i pasti per il marito”. La discussione degenera in uno scambio di insulti.
Senza dubbio, puoi pensare ad esempi simili. Ora, l’idea che il discorso politico oggigiorno sia più rozzo e violento a causa dei social media mi sembra fuorviante: è sempre stato così, ma era nascosto in gran parte nei disaccordi familiari, nelle discussioni violente all’interno dei gruppi sociali e nelle lettere mai pubblicate dai giornali e nelle lettere velenose regolarmente ricevute dai ministri e a cui occasionalmente rispondevano, ma il più delle volte no, giovani funzionari pubblici come me. Anche in tempi che pensavamo più tolleranti, violenza e odio si annidavano appena sotto la superficie. All’inizio degli anni ’70, ero sul piano superiore di un autobus londinese e guardavo passare una piccola manifestazione studentesca che chiedeva un aumento delle borse di studio, ai tempi in cui esistevano le borse di studio. Un uomo di mezza età della classe operaia balzò in piedi, urlando “Travolgeteli, uccideteli tutti quanti”. Nessuno sembrava trovare l’idea sproporzionata. E non passò molto tempo prima che una donna istruita, appartenente alla classe media, che conoscevamo vagamente, esprimesse spontaneamente l’opinione che l’intero governo laburista di Jim Callaghan dovesse essere mandato alla camera a gas.
La vera domanda è perché, e perché, disaccordi apparentemente semplici, e persino relativamente tecnici, tra le persone si trasformino così facilmente in litigi. Al giorno d’oggi non si può nemmeno dare la colpa all’ignoranza: se si vuole sapere qualcosa, per esempio, sulle statistiche sulla criminalità o sulle aliquote fiscali, una piccola ricerca su Internet e un confronto sensato delle fonti risolveranno la maggior parte dei quesiti. Ma in generale la gente non lo fa, e non vuole farlo.
La risposta semplice, secondo gli psicologi, è che le nostre opinioni hanno generalmente radici emotive piuttosto che intellettuali, e in effetti la razionalità funziona in gran parte come una giustificazione a posteriori. Le nostre opinioni politiche, in definitiva, sono ciò che sentiamo del mondo, non ciò che ne pensiamo. E a loro volta, le nostre opinioni su eventi particolari hanno molto a che fare con ciò che sentiamo del mondo in generale. Non è esagerato affermare che le opinioni della maggior parte delle persone sul tipo di cose che accadono oggi sono estensioni delle preoccupazioni del proprio ego. E di conseguenza, gli inviti a cambiare idea perché emergono nuovi fatti, o perché vecchie idee vengono screditate da nuove prove, rappresentano di fatto una minaccia alla forza e persino alla sopravvivenza di quell’ego.
Non me ne sono sempre reso conto, e probabilmente ho sprecato anni della mia vita nell’illusione che le persone potessero essere convinte da argomentazioni razionali. Avendo cambiato opinione diverse volte nella vita sulla base di nuove informazioni o argomentazioni più convincenti, ho ingenuamente supposto che tutti facessero lo stesso. La situazione è complicata, e in parte oscurata, perché pochissime persone pensano e agiscono consapevolmente in modo emotivo e irrazionale. Piuttosto, si convincono di pensare razionalmente, e quindi condiscono le loro conversazioni con frasi come “è ovvio che” e “è logico che”, sebbene nella pratica generalmente non sia così. Tali frasi dovrebbero sempre essere trattate con sospetto, e dovrebbero sempre essere contrastate con “spiegami i passaggi logici ovvi” o qualcosa di simile; bada bene, se lo fai, corri una piccola ma reale possibilità di essere aggredito fisicamente.
Il corollario è che se la maggior parte delle persone si illude di pensare logicamente, allora, se non sei d’accordo con loro, non puoi pensare logicamente anche tu. A quel punto, senti frasi mortali come “Suppongo che tu pensi” e “quello che intendi veramente è”, che sono tentativi di eludere la necessità di un’argomentazione razionale fingendo che sia l’altra persona, non tu, a essere irragionevole. Cerco di allontanarmi da tali affermazioni ogni volta che posso, dato che non si può discutere con loro, e dico ai miei studenti di fare lo stesso. Sono semplicemente meccanismi di difesa, per proteggere l’ego dal tipo di indagine razionale che potrebbe danneggiarlo. La risposta più educata è: “Se avessi voluto dire questo, avrei detto questo”.
Questo, ovviamente, è il motivo per cui le persone rimangono attaccate alle proprie opinioni di fronte a informazioni più attendibili, a confutazioni razionali o persino a esperienze personali che sembrano confutare le loro precedenti convinzioni. È interessante osservare come, nel tempo, le persone modifichino persino i propri ricordi in modo che non contraddicano più le loro opinioni attuali, in cui sono spesso così emotivamente coinvolte.
Ma poche persone, soprattutto quelle che hanno ricevuto un’istruzione dignitosa, vogliono riconoscere che le loro opinioni si basano sulle emozioni e non sulla ragione. Cercano quindi di sostenere che ciò in cui credono (o che, peraltro, raccomandano ai governi o addirittura praticano come governi) non deriva da emozioni casuali, ma da una visione coerente del mondo. Il test qui è essenzialmente logico. Suggerisco sempre agli studenti che, in tal caso, la domanda logica è “qual è il principio generale di cui questo è un caso particolare?”. Ad esempio, all’affermazione “dovremmo sostenere X” o “dovremmo fare Y”, la domanda è “elencami i principi da cui partiresti per formulare un simile giudizio, senza conoscere nulla del caso specifico”. Questo è sgradito a molte persone, perché non possono essere sicure in anticipo di dove li porterà un simile ragionamento: è abbastanza certo che qualsiasi applicazione coerente dei principi nelle relazioni internazionali alla fine ti porterà in luoghi in cui non vuoi andare. A quel punto, la risposta (emotiva) sarà “è ovviamente diverso”, oppure “non hai capito”, o semplicemente “suppongo che allora vorresti che morissero”.
Un buon esempio inizia con gli anni immediatamente successivi alla Guerra Fredda, dopo l’invasione irachena del Kuwait. Tra i governi occidentali, questo fu un momento di inaspettato lusso morale, dopo decenni di squallidi compromessi della Guerra Fredda. Si trattava di una causa apparentemente nobile, giustificata specificamente dalla Carta delle Nazioni Unite, in cui uno Stato attaccato da un altro sarebbe stato salvato. E così persone che conoscevo iniziarono ad andare in giro con distintivi “Free Kuwait” (mi resi leggermente impopolare chiedendo se potevo averne alcuni), parlando con orgoglio di sostenere l’eterno principio dell’inviolabilità delle frontiere statali. Gran parte dei media e degli opinionisti seguì l’esempio. Qualche anno dopo, quando il desiderio di sbarazzarsi di Slobodan Milosevic a tutti i costi e quindi (si sperava) portare una sorta di stabilità nei Balcani raggiunse proporzioni di crisi, le stesse persone ricordarono spontaneamente che “ovviamente” l’inviolabilità delle frontiere non era mai stata intesa come assoluta, e non si estendeva a situazioni in cui un “dittatore” stava “opprimendo” il loro popolo. Pertanto, l’intervento in Kosovo fu giusto e appropriato, e di per sé consacrato da principi senza tempo. Gran parte dei media e degli opinionisti seguì l’esempio. Naturalmente, l’invasione dell’Iraq, qualche anno dopo, complicò ulteriormente le cose, poiché molti di coloro che avevano accolto con entusiasmo l’attacco alla Serbia deplorarono l’attacco all’Iraq. In particolare, gli avvocati per i diritti umani (un gruppo di persone notoriamente emotivo) si fecero prendere dal panico nel tentativo di conciliare queste due posizioni.
Ora, naturalmente, la tendenza è quella di liquidare tutto questo come ipocrisia, e chi nutre un’avversione viscerale ed emotiva per la politica occidentale tende a farlo automaticamente e senza pensarci. È sempre saggio tenere conto dell’ipocrisia come fattore in tali situazioni, ovviamente, ma non è affatto una spiegazione esaustiva. In effetti, il grado di giusta indignazione e superiorità morale avvertito dalla classe politica occidentale nei confronti del Kosovo era straordinario, se lo si vedeva di persona, e per certi versi preoccupante, perché non c’è nessuno più pericoloso di chi si è convinto di agire per ragioni di principio. Datemi pure un ipocrita di bassa lega, in qualsiasi momento.
Ne consegue che le persone aggiusteranno i propri ricordi, o addirittura inventeranno cose mai accadute e pensieri mai avuti, piuttosto che cambiare idea dopo che nuovi fatti sono stati rivelati. Inoltre, con il passare degli anni, investono più emozioni in questi ricordi e, a loro volta, vi si affezionano maggiormente. Naturalmente, questo è relativo in una certa misura: la maggior parte delle persone alla fine accetterà di essersi sbagliata su qualcosa, purché la posta in gioco non fosse così alta. (Anche in quel caso, “Sono stato ingannato dagli altri” è una delle scuse preferite). Ci sono stati mormorii da parte di esperti secondo cui forse la globalizzazione è stata sopravvalutata come idea, che forse la politica occidentale nei confronti della Russia negli anni ’90 avrebbe potuto essere gestita meglio, che forse Paul Kagame, il dittatore ruandese, non era il gentiluomo che pensavano fosse… ma pochi di coloro che hanno marginalmente ritrattato erano direttamente coinvolti e moralmente impegnati. Se, ad esempio, l’invasione dell’Iraq ti preoccupasse davvero, dovresti giustificare almeno le centinaia di migliaia di morti che ne sono derivate, ed è difficile poi dire “Mi sbagliavo”. Dopotutto, molti dei politici britannici coinvolti nell’avventura di Suez nel 1956 hanno insistito fino alla fine dei loro giorni sul fatto che l’operazione fosse giustificata e avesse avuto successo perché aveva impedito a Nasser – il nuovo Hitler – di seminare guerra e caos in Nord Africa.
Il che mi ricorda. La spaventosa persistenza del discorso Hitler/nazisti, ormai praticamente slegato da qualsiasi legame storico, è un esempio della scorciatoia emotiva con cui si svolgono oggi le discussioni politiche. L’uso di tali epiteti non serve a persuadere, per lo più, ma a intimidire: posso trovare un’accusa emotivamente più lesiva da muovere contro la tua fazione di quanto tu possa fare contro la mia. Ma tali epiteti fungono anche da segnali alla tua fazione che condividi i loro pregiudizi emotivi e da avvertimenti ai potenziali avversari che non sei interessato a prove che potrebbero compromettere le tue conclusioni emotive. Quindi paragonare Trump a Hitler, o affermare che Orbán o Le Pen sono fascisti, chiamare il governo dell’Ucraina “nazista” o riferirsi alle nazioni europee come “vassalli” degli Stati Uniti, non è solo uno stratagemma propagandistico, è anche, e cosa più importante, una serie di segnali, il più importante dei quali è che non sei interessato a capire davvero e non darai il benvenuto a qualcuno che cerca di discutere con te razionalmente, quindi non disturbarti.
Una conseguenza di questa identificazione emotiva, della trasformazione del commento politico nel discorso delle competizioni sportive, è che è molto difficile non avere dei favoriti e tifare per una parte o per l’altra. Ora, sebbene questo sia legittimo a piccole dosi – guarderemmo con sospetto gli autori che hanno prodotto resoconti apertamente filo-nazisti della Seconda Guerra Mondiale, sebbene esistano – non dovrebbe e non deve ostacolare i tentativi di comprendere e interpretare effettivamente. È particolarmente difficile quando si prova una profonda antipatia per l’oggetto della propria analisi. Così, il controverso psicoanalista Bruno Bettelheim, egli stesso brevemente internato nei campi di concentramento nazisti alla fine degli anni ’30, si rifiutò di leggere resoconti di interviste con membri delle SS negli anni successivi, proprio perché temeva di comprenderne le motivazioni, cosa che il suo ego non riusciva a gestire.
Notoriamente, spesso piccoli ma cruciali eventi della nostra vita possono indurre un rigido orientamento intellettuale o politico, e molte persone riconducono il loro risveglio politico a un episodio emotivamente carico accaduto loro personalmente. Il poeta Roy Campbell, ad esempio, allora corrispondente di guerra in Spagna, si trovava a Toledo al tempo delle estorsioni commesse contro la Chiesa nel 1936. Dopo aver assistito ai massacri di preti e suore da parte di miliziani comunisti, Campbell divenne un fermo sostenitore della causa nazionalista. (Il che non gli impedì di partecipare alla Seconda Guerra Mondiale o di essere uno dei primi oppositori del regime di apartheid nel suo nativo Sudafrica.)
Anche se non viviamo personalmente esperienze così strazianti, cresciamo con certe idee sul mondo, sulla storia e sugli eventi recenti, che alla fine diventano parte della nostra identità e, di conseguenza, del nostro ego. Interrogativi deliberati, semplici dubbi o la semplice disponibilità di nuovo materiale rappresentano quindi una minaccia per l’integrità dell’ego. Questo è forse il motivo per cui le interpretazioni popolari degli eventi storici vengono spesso fissate in una fase iniziale, e la disponibilità di nuove informazioni non le sradica dalla mente dei lettori popolari, e persino colti. Mi capita ancora di incontrare persone che pensano che il resoconto giornalistico di Shirer sull’ascesa e la caduta del Terzo Reich, pubblicato sessant’anni fa, rappresenti la parola definitiva sull’argomento. Quando le interpretazioni tradizionali sono moralmente soddisfacenti, la resistenza al cambiamento è spesso più forte: le persone si aggrappano a miti popolari, seppur ormai ampiamente superati, del “fallimento” della Linea Maginot, della presunta “stupidità” dei generali alleati nella Prima Guerra Mondiale o della “vergogna” dell’accordo di Monaco, nonostante tutte le ricerche moderne, perché le interpretazioni tradizionali ormai fanno parte del loro ego e della loro percezione di sé, e perché, non a caso, ci permettono anche di sentirci superiori ai nostri antenati. Molti anni fa, parlavo con un analista militare che stava preparando il materiale per l’accusa per alcuni processi per crimini di guerra all’Aia. Era convinto, diceva, che gli atti processuali avrebbero “cambiato radicalmente” la nostra visione dei combattimenti nell’ex Jugoslavia. Non è successo, però, semplicemente perché coloro che hanno elaborato e diffuso la versione autorizzata erano così emotivamente coinvolti che nulla avrebbe potuto cambiarli.
Ovviamente, questo impegno emotivo si applica anche agli eventi più recenti. Ad esempio, dall’inizio della guerra russo-ucraina nel 2022, gli “accordi” di Minsk del 2014-15 hanno prodotto violenti disaccordi e insulti reciproci, in genere da parte di persone che non hanno effettivamente letto i testi, ma hanno assimilato le diverse argomentazioni alla mentalità da tifoso di calcio, purtroppo tipica della politica odierna. Io stesso ho dedicato gran parte di un saggio agli “accordi”, sottolineando che si trattava essenzialmente di verbali di discussioni e promesse politiche da parte di diverse parti. Ma questa e simili analisi non hanno avuto di fatto alcuna influenza sul dibattito, che continua a essere condotto su un piano prevalentemente emotivo, con reciproche accuse di malafede. C’è stato un altro esempio sarcasticamente divertente proprio di recente, con la condanna emessa da un tribunale francese a Marine Le Pen per uso improprio di fondi parlamentari dell’UE. Poiché gli esperti di Internet si muovono insieme, come stormi di storni, le persone che non sanno nulla del caso, che non hanno letto la sentenza e che forse non conoscono nemmeno il francese, si sono espresse pomposamente in base a come le hanno fatte sentire le notizie di seconda e terza mano sulla sentenza .
Una conseguenza di questo modo di pensare, e l’argomento su cui voglio soffermarmi ora, è che in circostanze normali cresciamo con un investimento emotivo nella nostra società e nella nostra storia, e con ammirazione per coloro che hanno compiuto imprese straordinarie o che rappresentano particolarmente bene i valori migliori della nostra società. Dopotutto, non siamo, in pratica, gli automi liberali che perseguono razionalmente ricchezza e indipendenza come alcuni vorrebbero farci credere. Siamo parte di una società e di una comunità, e ci identifichiamo emotivamente con i suoi valori e la sua storia. Almeno di solito lo facciamo.
Fino a circa un secolo fa, questo era praticamente dato per scontato. Si dava per scontato che alcune persone avrebbero preferito altre culture alla propria, e che avrebbero potuto espatriare, e persino che un gran numero di persone si sarebbe sentito ugualmente, se non di più, a casa in un paese in cui non era nato. E ovviamente, di tanto in tanto, anche il patriota più convinto ammetteva che il proprio paese si fosse comportato in modo sbagliato o imprudente. In effetti, l’argomentazione “X o Y non sono comportamenti accettabili per il nostro paese, dovremmo vergognarci” era molto forte. Le società possono gestire e gestiscono questo tipo di tensioni: molte persone, come me, preferiscono vivere in un paese diverso da quello in cui sono nate, e questo non deve essere un problema.
Le cose iniziarono a sgretolarsi, credo, negli anni Trenta. A quel punto, con la democrazia apparentemente un sistema fallimentare e l’economia mondiale in subbuglio, diverse persone trovarono incoraggiamento, e persino speranza, in ciò che stava accadendo in Germania, Italia e Unione Sovietica. In realtà, il numero di autentici entusiasti della Germania nazista era molto esiguo, a differenza del numero molto più ampio di coloro che pensavano che la sua ideologia rappresentasse l’unica forza in grado di contrastare la minaccia del comunismo, ma esistevano. Lo scrittore inglese Henry Williamson, ad esempio, che partecipò al Raduno di Norimberga del 1936 e lo descrisse positivamente in uno dei suoi romanzi semi-autobiografici, notoriamente pensava che Hitler fosse un “brav’uomo finito male”. Lo scrittore francese Louis-Ferdinand Céline fu un caso parallelo. Tuttavia, quando si arrivò al dunque, pochissime di queste persone imbracciarono effettivamente le armi o si schierarono contro il proprio Paese: vedevano la Germania come un esempio, forse, e certamente un alleato nella lotta contro il comunismo, ma in tutti i casi si consideravano patrioti.
La situazione con l’Unione Sovietica era molto diversa, non da ultimo perché quel paese si proponeva come la “patria” della classe operaia internazionale e si faceva beffe del patriottismo “borghese”. Esigeva inoltre l’obbedienza internazionale a una linea di partito dettata da Mosca, il che poteva teoricamente comportare l’obbedienza agli interessi del proprio paese. Eppure anche qui, tra la gente comune, si raggiunse un equilibrio. In Francia, ad esempio, anche durante gli ultimi giorni del Patto Molotov-Ribbentrop, i comunisti erano molto attivi nella Resistenza, e sia i membri che la dirigenza si consideravano profondamente patriottici: il PCF era desideroso, come qualsiasi altro partito, di restaurare la grandezza della Francia e di preservare l’Impero.
Per varie e complesse ragioni, la situazione nei paesi anglosassoni era diversa, in parte perché il comunismo non fu mai un movimento di massa, ma piuttosto un culto intellettuale tra una parte della classe media istruita. Era strettamente legato a una visione del mondo “scientifica” nel senso volgare del termine, e alla convinzione che una nuova società che offriva speranza al mondo intero fosse in fase di creazione. In tali circostanze, ci sarebbero stati, naturalmente, qualche disagio e persino sofferenza, ma era in un altro paese, e d’altronde non si può fare una frittata senza rompere le uova. Sebbene il numero di queste persone non fosse elevato, esse (piuttosto che il debole apparato del Partito Comunista stesso) rappresentavano una forza intellettuale estremamente potente nella Gran Bretagna degli anni Trenta. Victor Gollancz con il suo Left Book Club e il settimanale New Statesman dominavano la vita intellettuale progressista, ed entrambi adottavano la politica di non criticare mai l’Unione Sovietica, poiché farlo avrebbe “rafforzato il fascismo”. In ogni caso, tra la classe media istruita e progressista esisteva una diffusa repulsione intellettuale contro il patriottismo in sé, in gran parte una reazione allo sciovinismo insensato e alle sofferenze della prima guerra mondiale.
Tuttavia, naturalmente, il bisogno di identificarsi con un insieme più ampio e di sostenere i suoi obiettivi e interessi non scompare, e per molte di queste persone, come per altre che incontreremo, fu semplicemente trasferito in un Altro Paese che non soffriva dei mali e delle debolezze della Gran Bretagna e la cui leadership, in particolare Stalin, era degna di lode ed emulazione. Così si sviluppò quello che George Orwell descrisse abilmente ne Il leone e l’unicorno (1940) come il “patriottismo degli sradicati”. Ciò che Orwell non sapeva era che alcuni membri della classe dirigente inglese dell’epoca avevano portato questa logica di detestare il proprio Paese e di identificarsi con un altro fino alla naturale conclusione di diventare spie dell’Unione Sovietica.
È interessante che queste persone fossero collettivamente descritte come le “spie di Cambridge”. Perché provenissero tutte da Cambridge richiederebbe una digressione nella storia sociale inglese più lunga di quanto non sia qui possibile: basti dire che Cambridge a quei tempi aveva la reputazione di essere un’università più seria e meno una scuola di perfezionamento rispetto a Oxford, e il suo orientamento era più moderno e scientifico, attraendo quindi in modo sproporzionato il tipo di persona che avrebbe comunque potuto simpatizzare per l’Unione Sovietica. Oltre ai Cinque che è noto per aver sicuramente spiato per la Russia, come diplomatici e ufficiali dell’intelligence (Burgess, Maclean, Philby, Blunt e Cairncross), almeno un’altra dozzina di nomi è stata proposta come potenziale spia sovietica reclutata a Cambridge negli anni ’30.
Ma ciò che è interessante è che nessuno di loro mostrò molto interesse per la teoria marxista, né tanto entusiasmo per l’Unione Sovietica. Agirono principalmente per disgusto verso il proprio Paese e per il desiderio di danneggiarlo, danneggiando l’élite sociale da cui provenivano, con cui collaboravano e che disprezzavano. John Le Carré, che lavorava nell’intelligence britannica al tempo della fuga di Philby a Mosca nel 1961, creò il personaggio di Bill Haydon, basato su Philby con un pizzico di Blunt, in La talpa (1974). Haydon, smascherato alla fine del romanzo, rende molto chiare le sue motivazioni di disgusto e vendetta: un tempo pensava di poter fare qualcosa di utile, ora vuole solo distruggere. Lo scrittore irlandese John Banville ha evocato in modo memorabile questa mentalità nel suo romanzo a chiaveL’intoccabile (1997), con la presentazione di un personaggio centrale alla Blunt, disgustato da se stesso, dalla sua cerchia sociale e dal suo Paese, e che fa la spia per i russi per darsi un’identità e uno scopo nella vita. (Bisogna dire che la società inglese e le sue personalità, così come sono descritte nel romanzo di Banville, farebbero venire voglia a molti di lavorare per l’NKVD.)
Per molti membri dell’élite tecnocratica anglosassone (ed è interessante notare come molti scienziati del Progetto Manhattan si siano rivelati spie sovietiche) l’Unione Sovietica rappresentava il futuro in generale, ma più specificamente un approccio razionale e scientifico al governo che sembrava in grado di risolvere problemi che la democrazia non era in grado di risolvere. Ma questo poteva facilmente trasformarsi in un’adorazione del potere e di soluzioni tecnocratiche spietate, anzi quasi di una spietatezza fine a se stessa. Questo si manifestò inizialmente nell’adulazione per Stalin come “il Capo”, l’uomo che faceva le cose, ma la stessa adulazione sarebbe poi ricaduta sulle spalle di molti altri ignari leader mondiali e dei loro paesi, di ogni colore politico. Ma cominciamo con “l’uomo d’acciaio”.
È difficile immaginare oggi quanto fosse profondo e onnicomprensivo il culto di Stalin durante la sua vita, tanto profondamente fu poi sepolto. Possiamo farci un’idea da una canzone straordinaria – un’agiografia sdolcinata e autolesionista, se mai ce n’è stata una – del cantautore comunista scozzese Ewan McColl. Joe Stalin was a Mighty Man ebbe vita breve: scritta nel 1951, fu rapidamente relegata nel dimenticatoio e a McColl fu intimato di non cantarla più. Mai più. Ora l’agiografia è in una certa misura difendibile, e solo gli storici obietteranno su dettagli come l’idea che Stalin “combatté al fianco di Lenin” durante la Rivoluzione. Ma nel complesso, la canzone ritrae una sorta di supereroe nietzschiano, al di là di ogni considerazione di bene e male, capace di cambiare personalmente il tempo e di spianare montagne, il tutto creando con la forza il paradiso dei lavoratori. E in un certo senso, l’adorazione dell’Unione Sovietica da parte degli intellettuali occidentali negli anni ’30 e in seguito era proprio questa adorazione del potere illimitato e della spietatezza. Dopo la destalinizzazione, l’attenzione degli intellettuali europei, almeno, si spostò sul Presidente Mao, sul suo Grande Balzo in Avanti e sulla Rivoluzione Culturale, dove venne impiegata la stessa retorica del “uova e frittate”. (Persino i Khmer Rossi avevano qualche timido sostenitore). Non sorprende, quindi, che sia da questo gruppo, soprattutto in Francia, che provenissero i neoconservatori, semplicemente sostituendo Washington a Mosca o Pechino. Si è sempre trattato di ammirazione per il potere e la spietatezza, in realtà.
Ma l’impulso ad adorare dittatori, tiranni e persino mostri sembra essere eterno, e indipendentemente dall’affiliazione politica. Generalmente nasce dal disgusto per il proprio Paese e dall’identificazione con un altro, e con i suoi leader, che hanno più successo o semplicemente sono più spietati. Ora è normale trarre ispirazione dall’estero, e in molti casi è anche vantaggioso. Ma spesso, la sensazione che altrove “facciano le cose meglio” sfugge al controllo. Negli anni ’70, ad esempio, quando Pinochet assassinava sindacalisti e imprigionava studenti, non era insolito sentire artigiani o negozianti della classe medio-bassa borghesia borghese borbottare “qui ci vuole un dittatore. Quel Pinochet, ha avuto l’idea giusta”.
C’è una corrente dell’opinione pubblica occidentale, non limitata agli intellettuali, che dispera per la “mancanza di volontà” del proprio Paese o per l’incapacità di “fare ciò che va fatto”, e si identifica emotivamente con un Altro Paese, ritenuto più duro e risoluto. Durante la lunga crisi della Rhodesia (1965-80), ad esempio, gran parte dell’opinione pubblica e un numero preoccupante di parlamentari conservatori ritenevano che le truppe britanniche dovessero essere inviate a combattere dalla parte dei “nostri parenti e amici”, che stavano affrontando la minaccia comunista in un modo che il debole governo laburista britannico non avrebbe mai potuto fare. Il sostegno alla Rhodesia, in effetti, divenne un punto di riferimento per l’accettabilità da parte di alcuni esponenti della destra politica. Dopo il 1980, questo ruolo fu trasferito ai sudafricani, che, ancora una volta, ebbero la forza di combattere il comunismo in un modo che il debole e decadente Occidente non poté. E infine, naturalmente, il ruolo toccò a Israele, la cui combinazione di una società superficialmente di stampo occidentale con audacia, spietatezza e una totale Il disprezzo per il diritto internazionale era entusiasmante per molti e un modello da imitare. Il sostegno occidentale a Israele a Gaza ha molto più senso se si considera che i politici occidentali, e parte della classe intellettuale, ammirano segretamente la spietatezza e la brutalità della guerra israeliana. (E c’è ancora un vivace commercio di memorie machiste sui combattimenti in Africa, tra l’altro, se si sa dove cercare).
Ora, in vari modi, i sostenitori della Rhodesia, del Sudafrica e di Israele, o per estensione del Cile, si consideravano ancora patrioti: volevano solo che i loro Paesi fossero più simili al loro modello. Questo non valeva per alcuni manifestanti occidentali dagli anni ’60 in poi. Il punto di svolta furono le proteste contro la guerra del Vietnam, che generarono una mentalità di ingenua condanna emotiva degli Stati Uniti e delle loro azioni, insieme a un vocabolario emotivamente carico di “Impero” e “genocidio”. All’epoca sentivo americani convinti di vivere letteralmente in una sorta di Quarto Reich, e che Richard Nixon fosse, se non letteralmente Adolf Hitler, allora, beh, qualcosa. Molti di questi individui, ne ero certo, erano in realtà patrioti disillusi, e per questo ancora più virulenti. Ma poiché questo patriottismo doveva pur andare da qualche parte, si abbatté sul nemico, e costoro desideravano sinceramente che il loro Paese non solo si ritirasse dalla guerra, ma venisse effettivamente sconfitto. Il loro patriottismo venne semplicemente trasferito al VietCong.
Diverse generazioni dopo, la pigra ed emotiva convinzione che l’Occidente abbia sempre sbagliato e che qualsiasi paese o gruppo che si opponga all’Occidente debba essere automaticamente sostenuto è diventata la regola in certi ambienti, dove le persone continuano a proiettare il loro patriottismo frustrato sui beneficiari stranieri più improbabili, oscurando anacronisticamente la storia del proprio paese. L’atteggiamento moderno, arrogante e sprezzante, nei confronti della storia, della cultura e dei valori delle nazioni occidentali è ormai profondamente radicato dopo tre generazioni consecutive. Tale è la paura di qualsiasi identificazione con la propria nazione o comunità, come ho descritto qualche settimana fa, che affermazioni come la negazione da parte di Macron dell’esistenza stessa della “cultura francese” non fanno altro che sollevare qualche sopracciglio. Ma ancora una volta, tutta questa frustrata identificazione comunitaria e questo patriottismo represso devono pur finire da qualche parte, e di recente hanno trovato il loro sbocco, ovviamente, nello scontro tra Ucraina e Russia.
Ciò che distingue l’attuale polemica sull’Ucraina (sarebbe troppo gentile definirla un dibattito) è la sua natura essenzialmente emotiva. Un gruppo, disperando dell’Occidente e impedito dalla propria ideologia di identificarsi con qualsiasi storia, cultura o valori occidentali, li ricerca nella creazione di un’Ucraina di fantasia. Un altro, che aspira all’umiliazione e alla sconfitta dell’Occidente, vede la Russia come l’agente che renderà tutto ciò possibile. Un gruppo crede acriticamente che i coraggiosi ucraini, dotati di armi occidentali superiori, stiano infliggendo ai russi perdite insostenibili tali da far cadere Putin, perché è emotivamente appagante pensarlo. Un altro gruppo crede (o credeva) nelle fabbriche di armi biologiche della NATO sotto Mariupol, perché era emotivamente appagante farlo. Il resto di noi, e spero che includa anche te, lettore, è altrove, a cercare di dare un senso a tutto. Non dico “nel mezzo” perché la verità raramente è collocata esattamente lì, ma piuttosto ad angolo retto rispetto ai bombardamenti emotivi che occupano così tanti gigabyte quadrati di Internet.
E penso che dovremo abituarci a questo. Come ho già detto, il ruolo delle emozioni nel modo in cui percepiamo gli eventi mondiali non è necessariamente maggiore di quanto non fosse in passato, ma con Internet è molto più visibile. Anche le barriere alla partecipazione sono più basse. In dieci secondi puoi rispondere con rabbia a un articolo il cui titolo ti ha fatto arrabbiare, raccontando alla gente come ti senti . Ora è banale creare un sito come questo e produrre articoli arrabbiati ed emotivi che raccontino alla gente cosa pensi degli eventi mondiali, anche se non hai conoscenze specifiche. Ed è qui che sta il problema. Il numero di persone che hanno qualcosa di genuinamente da contribuire agli eventi mondiali è necessariamente limitato. (Ironicamente, nel caso di Russia/Ucraina, quel numero è probabilmente un po’ inferiore a quello di venticinque anni fa). Ma le barriere all’ingresso sono ora sufficientemente basse, e la domanda di sostentamento emotivo è sufficiente, da consentire di costruire buone carriere che soddisfino i bisogni emotivi delle persone.
Viviamo in un mondo che attribuisce grande priorità a queste esigenze e minore priorità alla comprensione. A modo mio, mi sono sentito ripetere frasi del tipo “potresti essere stato lì, potresti aver visto cosa è successo, potresti aver letto i documenti, potresti citare le ultime ricerche accademiche, ma io so cosa penso e, soprattutto, so cosa provo “ . Forse suonerà elitario, ma non sono molto interessato a leggere cosa prova la gente . Se l’argomento è l’Ucraina, vorrei chiedere: l’autore ha una conoscenza approfondita della regione, della sua storia e della sua politica, e parla russo, oppure ha familiarità con il livello operativo della guerra in teoria (e forse nella pratica), oppure ha una buona conoscenza della tecnologia e delle tattiche militari, o ha familiarità con la difesa e la politica nei paesi occidentali, ecc.? Se l’argomento è Gaza o la Siria, quanto tempo ha trascorso nella regione, quanto conosce le complessità della politica araba, parla la lingua, ecc.? Non penso che ciò sia irragionevole e sono felice di lasciare che le persone che vogliono farci sapere come si sentono parlino tra loro, inizino a urlarsi addosso e probabilmente arrivino molto rapidamente alle mani.
Siglato un accordo di cooperazione militare tra Serbia e Ungheria. Così Belgrado risponde al patto tra Albania, Kosovo e Croazia. Nei Balcani, la tensione continua a montare
Belgrado, Budapest e una “quasi alleanza militare“
Nei Balcani tornano i blocchi contrapposti
Lo scorso 1° aprile, in una Belgrado scossa dalle proteste, è stato siglato un accordo di cooperazione strategica fra Ungheria e Serbia. L’accordo va letto come una risposta a quella che il Presidente serbo AleksanderVučić aveva definito una «provocazione», ovvero la Dichiarazione congiunta di cooperazione nella difesa siglata da Croazia, Albania e Kosovo lo scorso 18 marzo a Tirana.
La firma dell’intesa serbo-ungherese si è svolta alla presenza di Vučić e ha visto come firmatari i rispettivi ministri della Difesa, il serbo BratislavGasić e l’ungherese Kristof Szalay-Bobrovniczky.
L’accordo «concretizza la cooperazione nel campo della difesa», ha detto Vučić a lato della firma, aggiungendo che, «le nostre relazioni sono più che buone, il Primo ministro ViktorOrbán e io abbiamo espresso il nostro desiderio di continuare ad accelerare e ad avvicinare ulteriormente le nostre posizioni nel campo della difesa». Gli ha fatto eco il ministro della Difesa ungherese, che ha sottolineato come «l’Ungheria è sempre dalla parte della pace e la Serbia è sua alleata in questo».
L’intesa serbo-ungherese non costituisce ancora un’alleanza militare in senso stretto, ma viene definita come “quadro di cooperazione strategica nel campo della difesa”. Tuttavia, il Presidente serbo ha voluto sottolineare come questo accordo rappresenti un «passo importante verso la creazione di un’alleanza militare».
Nel dettaglio, l’elemento fondamentale dell’intesa riguarda il rafforzamento della collaborazione nel campo della tecnologia militare, che prevede l’acquisizione di nuovi armamenti e sistemi di difesa, oltre che l’aumento degli addestramenti congiunti fra i due eserciti.
Il processo era d’altra parte già iniziato: nel 2024, l’esercito ungherese aveva consegnato a quello serbo 66 veicoli blindati Btr-80 di fabbricazione sovietica, che l’Ungheria sta sostituendo con i nuovi veicoli da combattimento cingolati Kf-41 Lynx, prodotti nello stabilimento ungherese dell’azienda tedesca Rheinmetall.
L’accordo prevede uno scambio costante di tecnologie e attrezzature tra i due Paesi, a dimostrazione della volontà di approfondire l’integrazione in ambito difensivo. Oltre alle attività prettamente militari, l’intesa include la cooperazione in settori come la sicurezza informatica, le operazioni di mantenimento della pace, l’istruzione e la medicina militare.
L’accordo è in contrapposizione all’intesa fra Croazia, Albania e Kosovo
L’intesa serbo-ungherese va letta come una chiara risposta all’accordo fra Croazia, Albania e Kosovo, che secondo Belgrado rischia di innescare «una corsa agli armamenti» nell’instabile regione balcanica.
Giova ricordare che dall’anno in cui dichiaròunilateralmentel’indipendenza nel 2008 il Kosovo (riconosciuto dall’Italia) continua ancora oggi a essere riconosciuto come parte integrante della Serbia dal governo di Belgrado, così come da alcuni Stati europei (per esempio la Spagna), pur essendo abitato da una maggioranzaalbanese.
Anche l’Ungheria ha riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, ma si è sempre espressa contro la sua entrata nell’Unione Europea e più in generale contro la sua integrazione euro-atlantica. Quest’ultima risulta peraltro essere uno dei punti chiave dell’accordo siglato a Tirana, che include anche esercitazioni militari congiunte, collaborazione economica e lotta alle minacce ibride.
Al di là della risposta al trattato di Tirana, l’accordo serbo-ungherese si inserisce in un contesto di crescente avvicinamento tra Serbia e Ungheria. Vučić ha sottolineato come Budapest sia diventata il quinto partner commerciale estero del Paese, evidenziando l’importanza delle relazioni economiche oltre che militari.
Parallelamente all’accordo sulla difesa, infatti, Vučić ha annunciato che la costruzione di un oleodotto congiunto tra la città ungherese di Algyo e Novi Sad potrebbe iniziare negli ultimi mesi del 2025.
Il presidente serbo ha inoltre anticipato un prossimo incontro con Orbán per confermare la comune volontà di proseguire nella partnership strategica su tutte le questioni di interesse reciproco.
La firma dell’accordo è stata anche l’occasione per discutere del futuro della Serbia nell’Unione Europea (Ue), con il ministro ungherese Szalay-Bobrovniczky che ha sottolineato l’importanza dell’ingresso di Belgrado nella stessa. Affermazione che trova peraltro in sintonia il Presidente serbo, che da anni spinge per l’entrata del Paese all’interno dell’Unione.
Se Belgrado entrasse nell’Ue, Budapest guadagnerebbe un importante alleato all’interno del Consiglio europeo, andando così a rafforzare la sua posizione politica (che al momento vede allineata solamente la Slovacchia e talvolta l’Italia e la Polonia).
Il ritorno dei “blocchi” nei Balcani?
Sebbene l’intesa non costituisca ancora un’alleanza militare formale, le già citate dichiarazioni di Vučić indicano chiaramente che questo è l’obiettivo a lungo termine delle due nazioni. Al momento né la parte ungherese né quella serba hanno fornito ulteriori dettagli su questa possibilità dopo la firma dell’accordo.
C’è chi però ha già espresso la sua intenzione di aderire a questa futura alleanza militare. Si tratta del leader della Repubblica Srpska (una delle due entità costitutive della Bosnia Erzegovina), Milorad Dodik. Incriminato e condannato dalle autorità di Sarajevo (ne avevamo parlato qui) ha annunciato l’intenzione di richiedere l’inclusione della Repubblica serba nell’accordo di cooperazione militare tra Serbia e Ungheria.
Durante una sessione espansa del governo, tenutasi il 5 aprile, Dodik ha dichiarato che la Repubblica Srpska «ha il diritto di aderire» a tale accordo, ribadendo anche che anche quest’ultima non accetterà mai di far parte della Nato.
Tuttavia, la proposta di Dodik si scontra con i limiti costituzionali imposti all’entità serba dalla carta fondamentale della Bosnia Erzegovina. La Costituzione del Paese attribuisce esclusivamente al governo centrale le competenze in materia di politica estera e difesa, rendendo improbabile che Dodik possa aderire formalmente all’accordo senza il consenso delle istituzioni centrali, che certamente non arriverà.
L’alternativa sarebbe esacerbare ancora di più lo scontroistituzionale, che ha già raggiunto livelli molto rischiosi, con le autorità bosniache che hanno chiesto all’Interpol di emettere un mandato di cattura internazionale per Dodik (al momento non concesso).
Oltre alla Repubblica Srpska, anche la Slovacchia rappresenterebbe un possibile futuro membro. Attualmente non si segnala nessuna indiscrezione in tal senso, tuttavia l’allineamento geopolitico e anche ideologico fra i governi di Viktor Orbán e Aleksandar Vučić con quello del premier slovacco Robert Fico è un fatto acclarato.
L’ingresso della Slovacchia potrebbe rafforzare ulteriormente l’asse strategico, creando una sorta di “corridoio” di Paesi conservatori allineati dal punto di vista geopolitico, che potrebbe influenzare le dinamiche regionali.
Soprattutto, schiaccerebbe in termini di forza economica e militare l’intesa fra Croazia, Albania e Kosovo. Il Pil aggregato di Serbia, Ungheria e Slovacchia ammonterebbe a 426,5 miliardi di dollari, mentre quello di Croazia, Albania e Kosovo a 118,3 miliardi (dati della Banca Mondiale al 2023). Distacco simile anche nel numero di militari in servizio attivo, con circa 86mila soldati da una parte e appena 31mila dall’altra (dati GlobalFirepower).
L’intesa fra Croazia, Albania e Kosovo godrebbe però senza dubbio dell’appoggio esterno turco, visti gli ottimi rapporti di Ankara con Tirana e Pristina, mentre c’è da scommettere che in caso di risoluzione del conflitto ucraino, Serbia, Ungheria e Slovacchia saranno fra i primi Paesi a restaurare completamente i rapporti con Mosca, con la quale si sono sempre trovate in sintonia.
Ma al di là di questo, i recenti accordi rappresentano di fatto la creazione di due coalizioni contrapposte, per quanto parzialmente trasversali ad altre organizzazioni già esistenti (Unione Europea e Nato). Il rischio concreto è che il precario equilibrio raggiunto dopo il crollo del blocco sovietico e la fine della guerra civile jugoslava possa essere rotto, con tragiche conseguenze per l’intero continente europeo.
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