LA CRISI DELL’ESTETICA TRASCENDENTALE OCCIDENTALE: 2. IL TEMPO, di Pierluigi Fagan

LA CRISI DELL’ESTETICA TRASCENDENTALE OCCIDENTALE: 2. IL TEMPO.

Detto della coordinata spazio (qui), volgiamoci a quella tempo. Sul tempo si danno almeno tre famiglie di concetti. La prima è quella naturale che scompone il continuo del tempo nel tempo che è stato (passato), che è (presente) che sarà (futuro) e loro relazioni. La seconda è quella della metrica di scorrimento se cioè il tempo accelera e decelera come nostra impressione anche per via del fatto che ciò vi accade salta o si svolge in continuità. La terza è il rapporto che abbiamo col tempo, se cioè lo trascorriamo passivamente o decidiamo unendoci con qualcuno a forzarne lo svolgimento, se abbiamo un piano da costruire con una valutazione tattico-strategica di ciò che serve per raggiungere i nostri obiettivi declinati nella tripartizione “a breve-medio-lungo tempo” o nell’improbabile magica aspettativa del “non c’è-c’è”.

Il primo ambito, quello della naturale tripartizione, vede l’occidentale non importa se globalista, nazionale o locale, ristretto al presente. L’occidentale americano non ha neanche davvero un passato, è storicamente giovane e il suo tempo storico è una unica sequenza di espansione costante costellata di molte vittorie e qualche sconfitta non decisiva, che non fa piacere ricordare ed è meglio prontamente archiviare. Più in generale, è proprio della mentalità anglosassone svalutare la tradizione, non avere profondità temporale dal momento che prima del moderno erano nei bassifondi periferici del medioevo e prima ancora erano semplicemente “barbari”. In più, visto che si sono trovati a dominare la storia occidentale e poi mondiale, non hanno certo buoni motivi per volgersi ad altri tempi che non i contingenti di cui s’illudono di aver trovato la formula magica ed eterna del potere, del dominio, del benessere e del successo. Altresì, schiacciati nel presentismo, così come non hanno piacere ad osservare quello che di diverso è successo prima (se non rintracciandovi improbabili tracce dei presupposti che poi si sono inverati nel loro splendido “qui ed ora”), o altrove, non prevedono possa succedere dell’altro nel futuro. La loro scelta di affidarsi con fede fondamentalista al mercato ordinatore di tutto e tutti, non li spinge a notare altre forme che sono state così come altre forme che potrebbero essere. Nemici giurati del costruttivismo che non sia svolto nelle segrete stanze dalle loro élite dominanti (una lunga, questa sì, tradizione di club, circoli, società segrete, consorterie e massoneria proprio da loro rifondata tra fine XVII ed inizi XVIII secolo), il loro unico piano per il futuro è come prorogare un nuovo secolo anglosassone. La sopravalutazione del presunto oggettivismo scientifico a scapito del più ampio relativismo storico, atteggiamento che impatta anche sull’organizzazione dei nostri saperi, conoscenze ed insegnamenti, rinforza questa auto-reclusione nel presente.

Quanto a gli occidentali europei le cose sono ben diverse per quanto anche qui agisca un motore schizofrenogeno che in quanto sistema secondario del primario anglosassone tenta di condividere questo presentismo negazionista, mentre di sua natura, l’occidentale europeo non può certo far finta di non aver un passato. Altresì, conviene all’occidentale europeo non pensare al futuro se non come neutra ripetizione lineare del presente, non conviene per un ovvio motivo: nessuno dotato di buonsenso potrebbe profetare per gli europei un futuro altrettanto o più brillante dell’attuale o del recente passato. Infatti, il futuro diventa un rimossso che converge con la paura da smarrimento nei vari spazi di cui abbiamo parlato prima, accrescendo la paura e quindi cancellando proprio lo spazio mentale che dovrebbe occuparsi di questo problematico “come sarà?”. Se provate a parlare a gli europei dei prossimi trenta anni, cosa che stanno facendo più o meno tutti quei popoli del mondo in cui fioriscono “piani&strategie”, “vision”, “long view”[1] ed altri tentativi di pre-visione e relativa programmazione, vi guarderanno smarriti anche perché, popolazione sempre più anziana, è ovvio che del futuro abbiano una visione breve e non piacevole. Tra l’altro, ulteriore motore schizofrenogeno sul piano individuale, le società europee sempre più anziane, rimangono centrate sull’idolatria di una giovinezza che non c’è più, ma del resto la sofferenza dell’inadeguatezza è propedeutica e vendere jeans, creme, palestre e sedute di varie terapie riabilitanti chissà poi a cosa.

Ci sono poi altri motivi per non guardare indietro. Chi scrive è da tempo convinto che l’atteggiamento europeo nei confronti della nostra storia della prima metà del Novecento (i due conflitti mondiali e tutto ciò che li ha accompagnai nel loro svolgersi e negli effetti di lungo periodo) sarebbe da ri-analizzare ad ampio spettro. Quell’inglorioso pezzo di storia è stato fin troppo normalizzato, considerato pagina buia ma “naturale” della storia della nostra civiltà. Leggendo come altri popoli giudicano quello che è successo in Europa in quei cinquanta anni, senza entrare nel merito di questo o quella nazione, ideologia, dinamica ma come esito finale e mostruoso di secoli di feroce e mai risolta competizione interna, si può riacquisire una mente ingenua e pulita che rimane giustamente attonita nel constatare il tragico fallimento di una intera forma di civilizzazione, un vero e proprio collasso su cui noi abbiamo transitato con troppa fretta di mettercelo alle spalle.

Purtroppo, l’oscuramento della storia, permette anche di slegare l’attuale sistema del modo di stare al mondo occidentale, proprio dalla composizione delle cause e ragioni che l’hanno reso possibile. Se non ha tempo indietro, non avrà quindi neanche problemi col tempo in avanti e si potrà essenzializzare ad esempio la sua formula economica con acclusa teologia della mano invisibile, dimenticandosi velieri, cannoni, schiavi, furti, massacri, esproprio, feroce dominazione, imperialismi, colonialismi, egoismi, distruzione naturale e culturale e tutto il resto. Quando proprio non si può far a meno di prender atto di tutto ciò, la furba mossa è quella di ascrivere questi fatti al registro morale “sì certo c’è stato anche molto male, anche gratuito e da censurare”, dice lo storico europeo in un soprassalto etico sapendo quanto poco sia importante il giudizio etico nella propria cultura ed in fondo, nella storia stessa. Certa storiografia anglosassone, ultimamente ha presentato una interpretazione che si potrebbe chiamare “Impero per caso”. -L’impero per caso- è il tentativo di rendere accessorio tutto ciò che si racconta in storia, l’imperialismo ed il colonialismo sono censurabili epifenomeni, non voluti, non necessari, un “ci è scappato di mano”, potevamo evitarcelo.  Ascrivendo questi fatti storici al registro morale o a quello addirittura del casuale ed accessorio, si evita di comprendere il necessario ruolo funzionale che hanno altresì svolto. La Rivoluzione industriale s’è fatta col cotone ma il cotone non cresce in Gran Bretagna, il libero mercato non si è espanso per fascino ma si è fatto strada con le cannoniere, buona parte della nostra evoluzione tecno-scientifica è stata trainata del militare con assai spesso un ruolo diretto o indiretto decisivo dell’investimento statale. Quindi, si cerca di dimostra che il nostro modo di stare al mondo potrà continuare a prosperare anche ora che non è più possibile comportarsi come ci siamo comportati in passato.

L’occidentale globalista embedded nella cultura anglosassone quindi, è tutto fuso nel presente, rimuove il passato, presuppone che il futuro sarà un presente allungato. L’occidentale europeo sospeso tra nazione e mercato comune, inorridisce all’idea di precipitare indietro al suo pieno essere nazionale ma non ha più la pallida idea di come andare avanti nel sogno unionista. L’occidentale locale può ricordare nostalgicamente qualche decennio appena trascorso, l’ottimismo felice degli anni ’90, l’edonismo auto indulgente  degli anni ’80, l’impegno politico e culturale degli anni ’70, il keynesismo miracoloso degli anni ’60, ma è subito richiamato dal problematico “qui ed ora”, mentre e sul piano individuale e su quello pubblico e sociale, evita come la peste il farsi domande sul domani. Gli occidentali hanno diverse concezioni dello spazio ma una sola del tempo: il presente. Dovrebbe essere il contrario.

E veniamo alla metrica di scorrimento del e nel tempo. Tutti gli occidentali si trovano in una doppia percezione -per l’ennesima volta- schizofrenogena. Da una parte è evidente a tutti l’impressione che il tempo, ovvero i fenomeni che lo abitano, sta accelerando continuativamente. La semplice sequenza di fatti nuovi e soprattutto l’impressione siano inaspettati come rileviamo dalle fonti informative ormai permanentemente “stupite” dal 2001 in poi, conferma la condizione. Rovesci politici, geopolitici, della gobalizzazione, ambientali, di costume, migratori, della condizione sociale sono percepiti direttamente da tutti ed il fatto che l’informazione non li razionalizzi o li razionalizzi in forme sempre più surreali, crea anche maggior ansia inconscia. Solo recentissimamente, qualcuno ha cominciato a razionalizzare l’idea ci si trovi in tempi del tutto nuovi, “rivoluzionari”. Per lungo tempo recente, le élite hanno fatto finta di niente negando l’eccezionalità dei fenomeni per non allarmare il proprio ambiente sociale e politico, tutto procedeva più o meno come al solito e quando era meno e non più, era per caso o era colpa di qualcuno che non seguiva lo spartito. Questa doppia condizione che percepisce la inusuale velocità dei cambiamenti  da una parte e dall’altra la nega e ne rimuove le cause per non prendersi la briga di mettere in discussione i propri quadri di riferimento, smarrisce e va a sommarsi alle altre “fonti della paura”. La doppia posizione di coloro che pubblicamente esagerano la paura e di coloro che la negano, acuisce lo smarrimento e costoro, da una parte contribuiscono in vario modo ad aumentarla comunque (non c’è niente di più pauroso che avere paura e non sapere di cosa, evolutivamente -i centri mentali della paura- si sono affermati proprio per pre-allertare, ma se non compare subito l’oggetto lo stato diventa permanente, si trasforma in ansia ed avvelena il cervello, quindi la mente) e dall’altra ne danno sfogo nel reciproco insulto. Nessuno sembra volersi occupare delle fonti della paura, tutti sembrano semplicemente dediti a sfogare la tensione attaccando l’altro ed il come e se la percepisce o se la spiega. Naturalmente, essere sprofondati nel presentismo di cui abbiamo prima parlato come condizione occidentale generale e percepire che questo eterno presente non solo non sarà eterno ma è in moto accelerato continuo, verso dove e chissà per quanto, questa percezione senza spiegazione, smarrisce nel profondo.

In tutto ciò, agisce la nostra idea generale del fluire del tempo che storicamente si divide tra continuisti e saltazionisti.  I continuisti risalgono indietro nel tempo come tradizione concettuale, al “natura non facit saltus” che spazia dai latini ai medioevali fino al Leibniz, i saltazionisti sono cresciuti di numero prima nel XIX secolo a seguito della comparsa del concetto di “rivoluzione” e poi corroborati dalla natura appunto saltazionista dei quanti di Planck-Einstein. Particolarmente fuorviante risulta sia questa contrapposizione ed in effetti, la contrapposizione stessa è falsata dalla scarsa conoscenza sistemica della realtà. E’ certo che gli imput naturali tanto quanto sociali, fluiscono continuativamente a basso regime in modalità diciamo grossomodo continuata, è che però si vanno ad accumulare dentro sistemi che resistono al cambiamento fino a quando non possono più assorbire imput ed allora subiscono una riformulazione “rivoluzionaria”. E’ del resto proprio questo accumulo con salto finale che notò Planck per primo, per cui alla domanda “quanto accumulo porta al salto?” decise di rispondere un “tot” ovvero un “quantum”. La natura quantistica della fisica è saltazionista perché è sistemica, così funzionano anche i neuroni del cervello e tutte le cose che sono sistemi (praticamente tutto) quindi anche le società.

Non è che i francesi si sono svegliati nel 1789 e tutto ad un tratto “oplà!” hanno trovato opportuno e necessario fare la rivoluzione. La Francia è stata da sempre storicamente allacciata in un sistema che potremmo definire binario col suo competitore naturale inglese. Gli inglesi la “rivoluzione” che portava al vertice le nuove classi imprenditoriali a scapito del dominio aristocratico nobiliare ma soprattutto monarchico, con successiva entrata e sviluppo del moderno, l’avevano fatta esattamente un secolo prima ed anche prima visto che il primo salto con Cromwell era prematuro e non era perfettamente riuscito, ma in quella direzione andava. I francesi erano un secolo in ritardo su gli inglesi ed i russi quando decisero di cambiare diventando sovietici, più di due quanto a modernizzazione. Così il cumulo di innovazioni e modi produttivi, nonché accumulo di capitale e materie prime e potere coloniale prima ed imperiale poi, per la rivoluzione industriale. Oggi molti dilatano anche i tempi della rivoluzione scientifica del XVII secolo, retrocedendo ad un lungo accumulo di approcci proto-scientifici ben precedenti. Questa aspetto della “lunga durata” dei fenomeni è invisibile all’immagine di mondo occidentale, anche perché non ragiona per sistemi.

Altresì, non notando il lungo tempo dell’accumulo di energia che fa la maturazione dell’evento, ci si illude che il cambiamento sociale possa esser fatto intenzionalmente con un “oplà!”, un prima nero e poi bianco, un prima negativo poi positivo, una magia. Così c’è un sacco di gente, pure di buone intenzioni, che immagina possibile e desiderabile questo cambiamento magico, repentino, profondo tanto quanto istantaneo e quindi è lì da un secolo e passa che coltiva la sua speranza rivoluzionaria come altri coltivarono la religione del cargo. Oltre alla inutilità fideistica di questa speranza, c’è il più grave disimpegno all’impegno della modificazione continua che è l’unica che per accumulo può portare davvero ad un nuovo sistema. Inutile  fare guerriglia sociale e politica giorno per giorno ed anno per anno su tutto spettro delle strutture che configurano il sistema sociale, meglio aspettare il giorno in cui marceremo uniti e compatti con la pelle d’oca e canti a voce alta, alla presa del Palazzo d’Inverno! Inutile costruire mattone su mattone la nuova utopia concreta, meglio criticare il mondo reale, chissà che non decida di trasformarsi a chiacchiere. La storia si fa in continuo è la cinematografia ed il mito che cattura l’eroico momento discreto. Così, l’occidentale confuso ed allarmato, sta piano piano capendo che il mondo non è più quello di una volta, non capisce ancora bene il perché visto che non è uso rintracciare i percorsi di lunga durata e l’accumulo di fatti nuovi, non sa neanche dove cercarli se all’interno o all’esterno, non saprebbe neanche come leggerli visto che al massima coltiva una delle tante discipline che leggono la realtà complessa scomponendola in frammenti irrelati, “sente” di esser capitato in una “rivoluzione” e quindi eccolo invocare una rivoluzione adattativa che pensa alla portata di qualche formuletta come il trasformarsi in una belva darwiniana (per l’interpretazione distorta di darwinismo che alcuni pensatori anglosassoni hanno dato del concetto che -per chi scrive- è una teoria dell’adattamento) chiamata a lottare nel tutti contro tutti e vinca il migliore, cioè il più forte ed il più cattivo! Merito, è l’unico paradigma che ci può salvare! Poi magari qualcuno potrebbe notare che in natura sono pochissimi gli individui che si adattano da soli, è tutto un branchi, banchi, stormi, sciami, gruppi, foreste, ecologie, cioè sistemi ma che importa, l’immagine di mondo prescrive altro e tutto si deve rivoluzionare, meno i sistemi di pensiero, quelli hanno una eternità garantita. Peccato che tener fisso il sistema di pensiero in tempi di cambiamento profondo e rapido, sia esattamente la ricetta infallibile per fallire l’adattamento.

Siamo così impercettibilmente scivolati dalle concezioni del tempo a priori alla valutazione dell’utilizzo attivo del tempo per  modificare noi e il circostante onde ripristinare condizioni di adattamento, ossia di sopravvivenza se non di esistenza qualitativa. Il dramma dell’occidentale capitato in tempi di forte discontinuità è la somma del presentismo che nega al contempo il ruolo lentamente costruttivo del passato e l’interrogativo del futuro mai così problematico come quando ti accorgi che questa volta non è come sempre è stato e quindi sarà, con tutto il resto.

Il “resto” è la prima lunga fase negazionista stessero avvenendo fatti di eccezionale discontinuità, poi riduzione dei fatti ai loro portatori per cui l’11 settembre è colpa della spectre islamista, il crollo del 2008-2009 è eccesso famelico dei banco-finanziari, Brexit è ridotta a populismo, Trump a gli hacker russi, nuove destre europee ad ignoranza, nuovo governo italiano somma di populismo-hacker-ignoranti, infine la pur debole accettazione del fatto che i fatti eccezionali sono troppi e troppo fitti (ed oltretutto iniziati già quantomeno nel 2001) per negare l’eccezionalità del momento con conseguente affidamento fideistico chi da una parte alle promesse della nuova rivoluzione dell’informazione con destini finali di singolarità (?), chi a sospirare su qualche soluzione salvifica che sia la sovranità, l’uscita della gabbia d’acciaio euro-pea, la liberazione dal neo-ordo-liberismo, Putin ed un nuovo afflato euroasiatico, il ripristino del keynesismo che fu, “forse Trump non è così male come lo disegnano” ed altri generi di conforto.

Presentismo e questa matassa di reazioni compulsive, fanno la condizione occidentale che è poco definire “smarrita”. Smarrita forse sul piano intellettuale, su quello sociale e politico quando c’è pressione minacciosa ed eccessiva, c’è paura e dalla paura si esce in genere con una pronta reazione che tenta di sedarla non importa come. Sappiamo poi bene come va a finire questo “non importa come”. Le élite lungamente negazioniste per le quali questo era il migliore dei mondi possibili, oggi sono sfidate da nuove élite che si candidano a gestire il marasma con iniezioni di ordine e qualche soluzione semplice e prontamente ansiolitica oltreché ovviamente sbagliata. Per il resto il livello del dibattito pubblico è percorso da domande paurose con risposte sempre più impaurite. Demografia? Ma non sarai mica maltusiano? Geopolitica? Ma non sarai mica nazista? Ambiente? Ma non sarai mica pauperista? Stato che in Europa è concetto correlato (almeno fino ad oggi) a nazione? Ma non sarai  rossobruno o liberal-cosmopolita? Migranti? Ma non sarai mica razzista o buonista? Nuove tecnologie mangia lavoro? Ma non sarai mica in favore del reddito di sudditanza, non hai studiato Schumpeter, sarai mica luddista? Democrazia? Ancora con la democrazia, la democrazia è morta o popolo e leader o élite o restringere il voto ai competenti o socialismo (o barbarie), alto vs basso. Soprattutto, nessuno ha la benché minima voglia e possibilità, forse capacità, di fare una analisi integrata della situazione e delle prospettive anche perché ci siamo tranquillamente fatti carcerare nelle specializzazioni disciplinari e quindi chi mai è in grado di restituire l’intero di cui provar a predicare il vero? In più, senza profondità storica e capacità previsionale e convinti o che il mondo sarà come è sempre stato o salterà improvvisamente ad un nuovo livello chissà quale-come-e-perché, mancanti del tutto dei concetti di strategia, tattica, costruzione per tentativi ed errori con obiettivi di minima, media e massima dilazionati nel tempo, indisponibilità a seppellire i sistemi di pensiero del XIX secolo a cui siamo tutti ancora così legati, impossibilità a tenere assieme globale-nazionale-locale, una élite intellettuale non meno smarrita del suo popolo (ed impaurita di aver perso il proprio vantaggio di lucidità nella comprensione e nel giudizio, per cui un po’ isterica) ed un popolo che ha paura e s’incattivisce giorno dopo giorno, la condizione occidentale sembra disperata.

CONCLUSIONE

Questa analisi non ha finalità altra che rintracciare gli apriori del nostro stato confusionale. L’indagine appena tratteggiata ci dice non che la nostra estetica trascendentale di tipo kantiano ha problemi, spazio e tempo sono apriori neutri riempiti poi a posteriori di forme, sono queste forme culturali che ereditiamo dal nostro percorso storico e culturale il problema.

Avendo perso la natura politica delle nostre forme di vita associata, ci siamo fatti disperdere in concezioni di diversa estensione dello spazio dovute al dominio dell’ordinatore economico (il mercato) e ciò ha e sta portando le nostre società a vivere simultaneamente diverse e non componibili concezioni dello spazio. La polis non è più e non più neanche solo la nazione, per alcuni è il sub continente, per altro addirittura l’universo-mondo. Il ricentraggio del pensiero non può che imporre in via prioritaria il definire daccapo che sistema siamo, quale sia il contratto sociale che non può esser più quello del XVI o del XIX secolo, in che spazio è ambientato, quali i suoi confini che per quanto permeabili, aperti e chiusi al contempo, ne segnano il profilo, quindi l’esistenza e sopratutto le condizioni di possibilità future. Questa ri-definizione si deve fare come sempre è stata fatta dalla storia stessa, mediando la consistenza interna della comunità e la condizione adattiva che deve cercare col suo circostante. Non è una opzione liberamente disponibile nel catalogo delle idee e delle forme a piacere e non può rispondere a sistemi ideologici ereditati dal passato, non si formula la domanda giusta se partiamo da “come funziona meglio il mercato?” o da “come è possibile l’irrinunciabile democrazia?”. La domanda giusta è una mediazione, il giusto mezzo tra i due punti del politico e dell’economico, dando il potere ordinatore al politico, ma sopratutto : quanti e quali dobbiamo essere, organizzati come, impegnati in cosa, per darci condizioni di possibilità adattative per i prossimi decenni? Questa la domanda spaziale.

Altresì, la coordinata tempo, se taglia verticalmente la risposta che dovremmo dare alla domanda spaziale fissandola sull’oggi, dovrà necessariamente sia rispondere alle ipotesi sul futuro che siamo giù in grado di fare (ad esempio, le previsioni demografiche almeno al 2050, sono chiare e abbastanza solide, così le proiezioni di crescita e peso economico), sia misurarsi con la geo-storia che rende possibile alcune cose ed altre no. Oltre naturalmente a tener conto che non siamo più in modalità caccia e raccolta, il pianeta è sempre più affollato e l’ambiente ci pone limitazioni insormontabili e rendimenti decrescenti. Se riuscissimo a darci una comune convenzione temporale, una presa d’atto diffusa che siamo capitati in tempi storici di grande e profondo cambiamento e che il cambiamento ha la doppia natura continuata e saltazionista, potremmo meglio condividere una stessa coordinata del tempo da incrociare con quella dello spazio.

Ma la discontinuità storica e culturale più profonda è l’ultima: dovremmo volgerci tutti ad una postura costruzionista e non farci vivere dagli eventi. Tale postura è inedita per noi e specificatamente vietata da Agostino d’Ippona a Friederich Hayek, dalla religione (ci pensa Dio) come dall’economia (ci pensa il Mercato), i due ordinatori storici  che hanno governato l’ultimo millennio, i due Dioscuri occidentali dietro i quali si son nascoste le élite che hanno dominato e dominano i tempi e gli spazi dell’Occidente, prima medioevale, poi moderno. Questa è ancora la condizione socialmente, politicamente e culturalmente passiva fotografata da Marx nell’XI Tesi su Feuerebach, tesi che invocava il necessario ed intenzionale ribaltamento copernicano a cui abbiamo dato scarso seguito. Prometeo venne condannato per l’ardire costruzionista, noi oggi non abbiamo altra scelta che liberarlo dall’incatenamento, ricordandoci l’etimologia del suo nome oltre che l’esempio del suo ardire: colui che riflette prima. C’è molto lavoro da fare per il pensiero occidentale a cominciare proprio dalla revisione degli apriori spazio-temporali e c’è molto mondo da cambiare se non vogliamo patire le pene del lento e doloroso disfacimento a cui son condannate le stirpi di cent’anni di solitudine: non avere una seconda opportunità sulla terra[2].

(2/2)

[1] La Cina ha varato un programma industriale 2025 ma anche quello delle vie della seta e più in generale le varie strategie di condivisione del “futuro moderatamente prospero, condiviso ed armonioso” in una visione che Xi Jinping chiama il sogno cinese ovvero “the great rejuvenation of the Chinese nation”. Ecco un programma di ringiovanimento per una civiltà che ha più di cinquemila anni, mi pare un segnale sintomatico.

[2] G.G.Marquez, Cent’anni di solitudine, Feltrinelli, Milano 1988