Italia e il mondo

Onora il padre e la madre_di WS

In un suo contributo l’ amico Ernesto ha sollevato il problema della “Patria”, un concetto/valore molto complesso. Dopo averlo profondamente eroso le attuali élites globaliste che ci dominano, sicuramente e presto, ripristineranno perché serve a LORO per mandarci a morire in guerra per i LORO interessi, essendo il richiamo della “Patria” “l’ ultima risorsa delle canaglie” utile a questo scopo.

Che è poi ciò che teme Massimo Morigi in questo suo intervento e che io riprendo partendo dal presupposto di Morigi che “Il compito della politica è quello di imporre anche ai pochi, qualche volta, alcuni sacrifici appunto nell’interesse di tutti.”

Cosa però improbabile laddove i ”padroni della politica” possono semplicemente , quando serve, utilizzare il concetto di “bene comune” per imporre ai “tanti” sacrifici nel nome di “tutti” .. ma per interessi LORO.

Non lo abbiamo forse recentemente visto con la “pandemia” ?

E non lo abbiamo anche visto nella prima delle LORO guerre mondiali laddove le masse dei contadini, gli operai gli servivano in fabbrica, furono mandate a morire nelle trincee in nome della “Patria” promettendo loro la terra che poi col cavolo gli fu data?

Perché quanto auspica Morigi può avvenire solo per la resipiscenza di “qualcuno” dei “pochi” che coarta tutti gli altri “pochi” , e solo sulla base dell’ assunto di un destino comune che non riguarda solo il futuro ma anche “il passato”. Non fece questo Augusto ? Non sta tentando di fare questo Putin ?

La questione della “Patria” esula la forma politica con cui essa si esprime sebbene io concordi con Morigi che la “repubblica” la incarni almeno simbolicamente molto di più.

Singoli capi possono però realizzarla più efficacemente grazie al loro rapporto diretto con il popolo. Il problema, però, in questi casi sta nel meccanismo di successione come ho già descritto in altri interventi in questo blog.

La sostanza comunque è che tra “popolo” ed élites ci deve essere un “ contratto” che li obblighi reciprocamente su valori comuni . Possiamo chiamarlo SPQR o “democrazia” o “dittatura” o “impero”, ma l’ impegno delle élites a sacrificarsi per un bene comune è fondamentale affinché anche il “popolo” ci si sottometta volontariamente.

Massimiliano I d’ Asburgo, un altro soggetto che andrebbe studiato più attentamente, creò la fortuna della sua casata sposando la derelitta orfana di Carlo il Temerario il cui ricco ducato di Borgogna era ormai in mano francese giacché , dopo la morte di Carlo ,gran parte della elite borgognona aveva già giurato fedeltà al Re di Francia.

Massimiliano non aveva un esercito, aveva con sé solo due migliaia di Tirolesi e pochi cavalli; l’ esercito francese al contrario aveva decine di migliaia di cavalieri.

Ma aveva visto come i fanti svizzeri avevano a Morat distrutto la cavalleria del suo futuro suocero e così ,giunto a Gand, si rivolse ai contadini fiamminghi e li inquadrò “alla svizzera” promettendogli la terra dei loro signori ribelli alla propria autorità .

Massimiliano a Guinegatte non avrebbe però vinto la cavalleria francese se non avesse schierato se stesso e suoi tirolesi in prima linea in mezzo ai fanti fiamminghi.

Questo concetto che “noblesse oblige “ se si vuole veramente comandare, i Romani l’avevano capito benissimo e applicato in quello che era appunto il massimo sacrificio da chiedere : morire in guerra.

L’ ordine di battaglia della repubblica romana imponeva infatti uno schieramento in ordine di età che coinvolgeva tutte le classi . Nelle quattro linee destinate ad entrare in combattimento in sequenza dai più giovani impegnati in prima linea ai più vecchi posti nell’ ultima, erano tutti coetanei , “ricchi” e “poveri” patrizi e plebei.

Così non solo ogni “ familia” doveva versare alla repubblica lo stesso “tributo di sangue”, ma solo i figli del patriziato che avevano mostrato a TUTTI sul campo di battaglia il proprio valore lottando insieme ai loro coetanei potevano, partendo dalla “prima linea” , cominciare il “cursus honoris” che li avrebbe eventualmente portati a diventare in vecchiaia i “patres” della repubblica.

Perché “Patria” ( alias ” terra dei padri” ) è infatti una parola che evoca un “destino” che guarda al passato , sia perché si richiama a “chi non c’ è più”, ma soprattutto evidenzia quanto l’ essenza di questo “destino” dipenda dagli uomini che hanno “generato” il mondo poi lasciato ai ” figli”.

E questa eredità è essenzialmente culturale sebbene sia imprescindibile da quella “genetica”.

Qualcuno infatti avrà notato la “disinvoltura” con cui i romani ” affiliavano” i figli degli altri “. Ma questo era a discrezione totale del “pater familias” e sulla base di elementi stringenti quali :

1) si trattava sempre e solo di “maschi”

2)le strettissime relazioni già intercorse tra i due ” pater familias” 

3) le minori risorse della “familia” dell’ adottato

4) la mancanza di eredi all’ altezza di succedere al “pater familias” adottante

5)l’ affido in giovane età dell’ adottato all’ adottante onde ricevere “come un figlio” la cultura e gli arcana imperii della “familia” adottante.

 Si capisce quindi ora quanto “la famiglia” sia il mattone fondamentale di una società che volesse chiamarsi “patria” e perché la famiglia in generale e “il maschio” in particolare siano i bersagli primari di chi vuole cancellare FISICAMENTE e per SEMPRE i “bianchi” cioè noi ” ultimi ” europei.  

Ma se la famiglia romana era evidentemente “patriarcale”, quantomeno nelle sue espressioni pubbliche, la trasmissione culturale non è mai ” affare di soli di maschi”.

 Non sappiamo per il passato, ma ancora oggi ci sono esempi interessanti di società “criptomatriarcali” in cui le donne “comandano in famiglia” lasciando la sfera pubblica ai propri uomini.

Si tratta certamente di “adattamenti” di società un tempo matriarcali; un esempio la famiglia sarda e quella ebraica.

Anzi, quasi tutte le famiglie dei popoli mediterranei antichi , a dispetto delle apparenze, si possono considerare tali in quanto dividevano il mondo in due sfere : una privata dominata dalla donna che assicurava gran parte della continuità culturale e una pubblica dominata dall’uomo che questa cultura la deve mettere in pratica a suo rischio e pericolo.

Anzi è sicuro che sia la donna a definire gran parte di questa continuità culturale per il fatto che le donne occidentali siano il bersaglio preferito della corruzione culturale globalista che ci ha investiti.

D’altronde è lo stesso mito di Adamo ed Eva a dirci che il serpente corrompe l’umanità “ convincendo” la donna, no ?

E l’ importanza della donna , anzi della “madre” , nel “ comune destino” non è evidenziata anche dal fatto che i russi , il “popolo bianco“ con la cultura più resiliente , chiamano “ madre Russia” la loro “Patria “ ?

Tornando quindi “a bomba” , può esistere ancora oggi un concetto di “Patria” che non sia snaturato ad un interesse di parte ?

Io non credo , perché “onora il padre e la madre” non è solo un precetto religioso. Chi rinnega il proprio passato non ha altro “comune destino” che quello di servire altri.

La scommessa, di Ernesto

La scommessa

Mi riallaccio all’articolo di Michael Hudson ed al contributo dell’ottimo WS che, seppure da punti di vista diversi, mi portano alle considerazioni che seguono.

Da un lato, pur apprezzando le argomentazioni di Hudson sulla sovranità, mi pare che la soluzione prospettata di tassazione delle multinazionali che sfruttano le risorse dei paesi “in via di sviluppo” quale soluzione alle problematiche dello sfruttamento occidentale nonchè metodo per riacquistare sovranità, mi sembrano conclusioni riduttive e, forse, utopistiche.

La tassazione, qualora venisse rispettata senza alcuna reazione da parte delle imprese straniere e versata in moneta “pesante”, sarebbe, a mio modesto avviso equiparabile al respiratore forzato ed alle flebo di liquidi ed alimenti al paziente in coma irreversibile: non risolve nulla.

Su punto basti il seguente esempio: la nazione “A” concede alla Multinazionale americana “B” i diritti di sfruttamento di un bacino petrolifero e incassa dalla multinazionale i diritti previsti nella concessione in dollari americani. Inoltre, ammesso e non concesso che non ci siano accordi di extraterrtorialità dei redditi prodotti dalla multinazionale, l’impresa straniera deve presentare la dichiarazione dei redditi prodotti nella nazione “A” mediante un preciso sistema di verifica da parte dell’Erario della nazione “A” di tutte le fatture emesse alle società che acquistano il petrolio estratto. Anche questa rimessa erariale avviene in moneta “pesante”. La nazione “A”, però, deve acquistare all’estero, la benzina, il gasolio, il GPL ed Kerosene avio, per il fabbisogno della nazione e, quegli acquisti, ovunque siano effettuati, devono essere pagati in moneta “pesante”. Ecco dimostrato come tutta la moneta “pesante” entrata nelle casse della nazione per i diritti e per le tasse, riesce immediatamente anche perchè, il combustibile finito e pronto all’uso, ha un costo superiore al greggio estratto. Se poi, la multinazionale americana “B”, nell’accordo per ottenere la concessione, ottiene di essere il fornitore unico o privilegiato per gli acquisti del combustibile, il gioco è fatto. La Nazione “A” rimane stretta nella spirale del dominio Americano aggravato da fatto che, anche volesse fare acquisti diversi, la piattaforma per i pagamenti internazionali è governata dagli Usa (Swift) che possono sanzionare con la preclusione al suo utilizzo come e quando vogliono.

Del resto l’impero inglese aveva fondato il suo potere sul controllo delle rotte commerciali forse in misura maggiore rispetto al controllo delle risorse stesse: quando si affacciarono competitori in grado di rivaleggiare (Francia in alcuni momenti) e Germania dopo il 1870, la conclusione è sempre stata la guerra.

Oggi ci troviamo di fronte ad una situazione simile a quella che precedette il 1914: una globalizzazione a guida Americana in crisi perchè nuovi attori con capacità tecnologica e militare (Russia e Cina) reclamano il loro posto e non intendono sottostare alle “regole” Americane.

Ed allora, come nel 1914, si arriverà al conflitto e ci sono altri segnali in questo senso: “l’attenzione” americana per Venezuela e Nigeria, dimostrano la loro necessità di dominare direttamente le risorse laddove, nell’epoca d’oro, bastava dominare gli scambi perchè ora, stanno emergendo e si stanno costruendo, realtà di scambio alternative allo SWIFT ed al dollaro molto attrattive per le nazioni che vogliono sottrarsi al giogo.

Lo fanno perchè sanno che si andrà in guerra anche se pensano di non esserne coinvolti direttamente, ma pensano di potersi limitare ad essere il fornitore di risorse a chi combatterà per loro cioè noi europei. Ma per fornirci, a caro prezzo, quelle risorse, devono controllarle e Venezuela e Nigeria servono allo scopo.

Forse l’estromissione della Francia dal continente Africano, è stata in qualche modo consentita dagli USA che pensano di sostituirla, in un modo o nell’altro, perchè una Francia assolutamente bisognosa di risorse, è una nazione perfetta per essere un’altra UCRAINA.

E quello che vale per la Francia, vale per l’intera Europa.

Ma questa certezza Americana di essere fuori dal futuro conflitto, su cosa si fonda?

Non è forse stata sufficientemente chiara la Russia, con i messaggi anche espliciti che ha dato all’occidente ed agli USA?

Ho cercato una risposta che fosse razionale ma, in realtà, non vi è spiegazione razionale per un comportamento, irrazionale.

L’amico WS ha molto efficacemente ricordato il Film “Killing me softly” ed il monologo di Brad Pitt sul finale del Film.

Io mi permetto di ricordare l’incipit di Hostiles, altro film made in USA, nel quale si descrive l’anima americana come solitaria, violenta ed assassina.

Inoltre gli americani adorano il gioco d’azzardo al punto da avere creato una città che si basa solo su questo.

Quindi la risposta è tutta qui: sono solitari giocatori d’azzardo, violenti ed assassini ma eccezionali cui spetta il diritto di fare quel che vogliono.

Scommettono e se la scommessa non va a buon fine, chi se ne frega, estraggono la pistola e fanno fuori tutti.

Solo che, questa volta, esplode l’intero Casinò con anche loro dentro ma chi scommette mica si preoccupa di questo.

BREVE NOTA INTORNO ALLO STIMOLANTE INTERVENTO PATRIA? ALCUNE IDEE IN ORDINE SPARSO_di Massimo Morigi

BREVE NOTA INTORNO ALLO STIMOLANTE INTERVENTO PATRIA? ALCUNE IDEE IN ORDINE SPARSO

di Massimo Morigi

Scrive, fra le altre pregevoli e condivisibilissime cose, il nostro amico Ernesto nel suo bell’interventoPatria? Acune idee in ordine sparso (Wayback Machine:http://web.archive.org/web/20251108095938/https://italiaeilmondo.com/2025/11/04/patria-alcune-idee-in-ordine-sparso_di-ernesto/):

«É quindi chiaro che parlare di patria rischia di essere, in buona o malafede, frainteso.Tuttavia, faccio comunque le seguenti  domande scomode accollandomi i rischi di fraitendimenti, critiche ed accuse di vetero nazionalismo di ritorno: che cosa è la Patria? Può essere la Patria, una volta definitone il concetto, quella piattaforma ideale capace di creare un senso di appartenenza e di ispirazione? Può essere il filo conduttore di una politica che intenda costruire e difendere una comunità fatta di individui, famiglie, imprese ed apparati statali, in una ottica di interesse generale? Ripeto e ribadisco: non si tratta di ritornare ai miti novecenteschi o a ideologie superate e sorpassate. Si tratta di trovare un contenitore adatto ad interpretare ed agire, come ente collettivo (lo Stato), nel conflitto strategico internazionale e, nel contempo, interpretare e gestire il conflitto interno tra le varie formazioni sociali che fanno parte dell’Italia: tutto nell’interesse della comunità che la costituisce, della sua autonomia, della sua economia e dei suoi cittadini intesi come complesso di formazioni sociali alle quali, in alcuni casi, dovranno essere chiesti (imposti) sacrifici. Sacrifici alle volte ad alcune formazioni sociali ed alle volte ad altre formazioni sociali (il nostro WS ha ragione quando ritiene che la vera lotta non sia quella di classe ma il conflitto tra chi per vivere deve lavorare – i molti – e chi invece vive senza dover lavorare – i pochissimi –. Tuttavia compito della politica è quello di imporre anche ai pochi, qualche volta, alcuni sacrifici appunto nell’interesse di tutti.»

Ora, alle molte (e tutte condivisibili) osservazioni del Nostro sarebbe assai avventuroso affiancare un’analisi e, soprattutto, predizioni, che non siano vaticini alla divino Otelma ma a questa domanda (o ragionamento) la risposta è molto facile accompagnata da un piccolo appunto. Sì, la Patria è l’unico punto di partenza dal quale iniziare ad affrontare il caso italiano (non certo lo Stato, perché lo Stato può benissimo esistere senza Patria, lo si vede bene in Italia e lo si vede altrettanto bene considerando con un minimo di oggettività l’Unione europea, una burocrazia arrogante ed autoreferenziale che prescinde totalmente da qualsiansi legame storico, sociale e culturale con i popoli che pretende di rappresentare) e lo è per il semplice motivo che un’azione politica o geopolitica che non voglia essere semplice scontro intestino all’interno del gruppo degli agenti strategici alfa (sui gruppi strategici alfa, le grandi unità strategiche che guidano le danze e i gruppi strategici omega, coloro che subiscono l’azione strategica alfa e cercano di reagire con controstrategie di solito inefficaci, in altri tempi si sarebbe detto il proletariato, cfr. Massimo Morigi, Teoria della distruzione del valore. Su Internet Archive all’URL https://archive.org/details/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore, sull’ “Italia e il Mondo” e tramite congelamento Wayback Machine all’URL https://web.archive.org/web/20170205031134/https://italiaeilmondo.com/2017/02/04/teoria-della-distruzione-del-valore-teoria-fondativa-del-repubblicanesimo-geopolitico-e-per-il-superamentoconservazione-del-marxismo-di-massimo-morigi/) anarchici ed irresponsabili che si contendono le risorse ha come condizione necessaria (anche se, ovviamente, non sufficiente) l’esistenza (o la credenza nell’esistenza, che poi per quanto riguarda il discorso che qui ci interessa è la stessa cosa) di un’unità di riferimento universalmente reputata ontologicamente superiore e concretamente politicamente prevalente su tutti i gruppi particolari (e soprattutto sui grandi gruppi strategici alfa) presenti e all’interno della singola società e anche in lotta intestina sullo scenario internazionale (immancabile qui il richiamo anche al fondamentale Lenin col suo L’imperialismo fase suprema del capitalismo). Insomma, per fare una facile metafora ma che penso estremamente illuminante, così come la medicina non può fare a meno di cercare di porre rimedio al corpo umano malato o a concepire le strategie per mantenerlo in salute, la politica e la geopolitica non possono fare a meno di quel fulcro di tutto il sistema relazionale umano che si chiama popolo con tutte le sue più o meno infelici problematiche storico-sociali al fine, se non di porvi un totale rimedio, di offrire, almeno in linea di principio, praticabili e concrete strategie per dialettizzare e superare le contraddizioni storiche, politiche e culturali (per compiere, cioè, l’hegeliana Aufhebung) che si frappongono al dispiegamento delle potenzialità positive di questo popolo. Nel caso contrario, una consocenza del corpo umano che non si proponga di curare o di procurare benessere al corpo, siamo in presenza di una conoscenza meramente fisiologica o patologica e nel caso di una politica senza popolo siano in presenza della conoscenza – e della pratica – da parte dei maggiori gruppi strategici alfa che si contendono le risorse sì di una politica e/o geopolitica ma una politica e una geopolitica riservate a gruppi ristretti, cioè, in ultima analisi, siamo in presenza di una conoscenza più o meno elitaria e/o esoterica dove il termine politica può essere, anzi deve, essere espunto, perché quello che manca è l’elemento della Polis o per esprimerci in termini otto-novecenteschi, la Patria (e, infatti, di conoscenza elitaria e/o esoterica e, simmetricamente, delle fantasiose suggestioni da ammanire al popolo si deve parlare oggi, tanto per fare esempio, riguardo all’attuale guerra Russia-Nato. I grandi gruppi strategici alfa ragionano al riguardo sulla falsariga del realismo politico – quanto questo realismo sia però “ragionato” e praticato con criteri di razionalità è però un altro discorso – mentre per il “popolaccio”, gli omega, i mass media e tutto il sistema politico delle c.d. democrazie occidentale riservano le consunte e ridicole litanie sulla difesa della democrazia).

L’appunto riguarda quando viene affermato che non si tratta di ritornare ai miti novecenteschi, e qui ci si riferisce al fatto che non bisogna tornare al mito romantico otto-novecentesco della Patria. Ora, per questo breve ragionamento non rileva tornare alla distinzione fra patriottismo e nazionalismo, che molto erroneamente viene oggigiorno fatta in particolare da quella scuola di pensiero che va sotto il nome di neorepubblicanesimo cui io non appartengo avendo lo scrivente elaborato un paradigma repubblicano che ho definito ‘Repubblicanesimo Geopolitico’ e proprio in omaggio al criterio di brevità che esprime questo intervento e al fatto che su ciò mi sono espresso in moltissime occasioni non dettaglierò ulteriormente questo paradigma (ho già qui rinviato alla Teoria della distruzione del valore, che può ben essere propedeutica per una sua conoscenza iniziale).

Ma, in estrema sintesi, si può affermare quanto segue: certamente la ‘mitologizzazione’ di qualsiasi cosa, sia un concetto poliltico ma anche quanto colpisce la nostra sensibilità nella vita di tutti i giorni, è da evitare perché, come si dice, ci fa vedere lucciole per lanterne ma l’oggetto sul quale è stata poi operata l’operazione di mitologizzazione deve focalizzare la più attenta attenzione e cosiderazione perché, in caso contrario, ci si trova a muovere in un piatto e controstorico eterno presente dove le sole cose che contano sono le fugaci sensazioni del momento. E quindi, per tornare al mito della Patria, che non bisogna certo assumere acriticamente o come una sorta di spirito ultraterreno ma come di un oggetto storico di cui non ci si può facilmente sbarazzare, cito dal giuramente di affiliazione alla Giovine Italia dove il nuovo affiliato a questa rivoluzionaria organizzazione voluta da Giuseppe Mazzini giura «Nel nome di Dio e dell’Italia. Nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana, caduti sotto i colpi della tirannide, straniera e domestica. Pei doveri che mi legano alla terra ove Dio m’ha posto e ai fratelli che Dio m’ha dati. Per l’amore, innato in ogni uomo, ai luoghi ove nacque mia madre e dove vivranno i miei figli. Per la memoria dell’antica potenza. Per la coscienza della presente abiezione. Per le lagrime delle madri italiane […] [ e quindi giuro] Di consacrarmi tutto e per sempre a costituire con essi l’Italia in Nazione, Una, Indipendente, Libera, Repubblicana.»: giuramento di affiliazione alla Giovine Italia all’URL Wayback Machine http://web.archive.org/web/20250118110304/https://www.schule-bw.de/faecher-und-schularten/sprachen-und-literatur/italienisch/land-und-leute/kursstufe-themen/storia-politica/risorgimento/mazzini.pdf.

Certo, possiamo discutere il fatto di far svolgere a Dio il ruolo di chiusura del sistema semantico-simbolico del giuramento (ma però va sottolineato che qualsiasi umana comunicazione implica, più o meno esplicitamente, sempre una struttura logica con un elemento di chiusura all’interno della stessa indimostrato – e indimostrabile in ultima istanza –, e non addentriamoci qui ulteriormente intorno alla problematica dei Teoremi di incompletezza di Gödel e alle potenzialità che questi offrono anche ad un inquadramento teorico delle varie e possibili teologie politiche, non solo quelle consegnateci dalla storia ma anche quella che è sotto i nostri occhi – il mito della democrazia ampiamente ‘smitizzato’ e dal punto di vista della teoria politica ma anche nel sentire popolare, definizione corretta di ‘democrazia’ è ‘polioligarchia competitiva’, cfr. a questo proposito proprio qui sull’ “Italia e il Mondo” miei precedenti e recenti interventi – e, infine, quelle che ci riserva il futuro, delle quali nulla possiamo dire se non che la speranza che si ha quasi timore ad esprimere è che si possa in qualche modo influenzarne positivamente la dialettica), e possiamo anche convenire che l’impostazione retorica del giuramento rinvia ad una società e ad una sensibilità romantica dove nella vita pubblica deve essere prevalente il ruolo maschile ma non possiamo eludere che quello che veramente rileva e che ci riguarda direttamentamente severamente ammonendoci è il giuramento per costituire «l’Italia in Nazione, Una, Indipendente, Libera, Repubblicana». In seguito all’esito fallimentare del Risorgimento, e nonostante si accettino pareri contrari, in seguito anche alla caduta del fascismo, non abbiamo avuto nessuna di queste cose, nemmeno la Repubblica, a meno che non si intenda Repubblica, sostituire un re con un presidente (e a meno che per Italia Una non ci si fermi, sempre in entrambi i casi, ad un rappresentazione puramente formale buona solo per colorare la carta politica dell’Europa ). E qui non stiamo parlando di miti ma di una concreta realtà storica, per comprendere e, possibilmente, rettificare la quale ha scritto il nostro amico Ernesto e per la quale anche lo scrivente è stato stimolato ad intervenire con questa breve nota.

Massimo Morigi, novembre 2025

https://marxist.com/lenin-100-years-on.htm

Una condizione preliminare per la sovranità_di Michael Hudson

Una precondizione per la sovranitàIl professor Michael Hudson5 novembre 2025Visualizza nell’app
Un articolo che ho pubblicato per la prima volta in India è ora disponibile su un sito web correlato ad Ann Pettifor.Abstract: La retorica evangelica degli Stati Uniti descrive l’imminente frattura politica ed economica dell’economia mondiale come un “conflitto di civiltà” tra democrazie (paesi che sostengono la politica statunitense) e autocrazie (nazioni che agiscono in modo indipendente). Sarebbe più corretto descrivere questa frattura come una lotta degli Stati Uniti e dei loro alleati occidentali contro la civiltà.
 
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Il conflitto civile odierno

Questo articolo è apparso per la prima volta su Economic and Political Weekly l’11 ottobre 2025. Michael Hudson (hudson.islet@gmail.com) lavora presso l’Istituto per lo studio delle tendenze economiche a lungo termine ed è illustre professore di ricerca di economia presso l’Università del Missouri-Kansas City.

Abstract: La retorica evangelica degli Stati Uniti descrive l’imminente frattura politica ed economica dell’economia mondiale come un “conflitto di civiltà” tra democrazie (paesi che sostengono la politica statunitense) e autocrazie (nazioni che agiscono in modo indipendente). Sarebbe più accurato descrivere questa frattura come una lotta degli Stati Uniti e dei loro alleati occidentali contro la civiltà.

Il capitalismo industriale fu rivoluzionario nella sua lotta per liberare le economie e i parlamenti europei dai privilegi ereditari e dagli interessi acquisiti sopravvissuti al feudalesimo. Per rendere competitive le loro manifatture sui mercati mondiali, gli industriali dovevano porre fine alla rendita fondiaria pagata alle aristocrazie terriere europee, alle rendite economiche estratte dai monopoli commerciali e agli interessi pagati ai banchieri che non avevano alcun ruolo nel finanziamento dell’industria. Questi redditi da rendita si aggiungono alla struttura dei prezzi dell’economia, aumentando il salario minimo e altre spese aziendali, intaccando così i profitti.

Il XX secolo ha visto il classico obiettivo di eliminare queste rendite economiche fare marcia indietro in Europa, negli Stati Uniti (USA) e in altri paesi occidentali. Le rendite fondiarie e delle risorse naturali in mano privata continuano ad aumentare e beneficiano persino di speciali agevolazioni fiscali. Le infrastrutture di base e altri monopoli naturali vengono privatizzati dal settore finanziario, che è in gran parte responsabile della frammentazione e della deindustrializzazione delle economie per conto dei suoi clienti immobiliari e monopolistici, i quali versano la maggior parte dei loro redditi da locazione sotto forma di interessi a banchieri e obbligazionisti.

Ciò che è sopravvissuto delle politiche con cui le potenze industriali europee e gli Stati Uniti hanno costruito la propria produzione manifatturiera è il libero scambio. La Gran Bretagna ha implementato il libero scambio dopo una lotta trentennale a favore della propria industria contro l’aristocrazia terriera. L’obiettivo era porre fine alle tariffe agricole protezionistiche – le leggi sul grano – emanate nel 1815 per impedire l’apertura del mercato interno alle importazioni di prodotti alimentari a basso prezzo, che avrebbero ridotto i redditi agricoli. Dopo aver abrogato queste leggi nel 1846, per abbassare il costo della vita, la Gran Bretagna offrì accordi di libero scambio ai paesi che cercavano di accedere al suo mercato in cambio della rinuncia da parte di questi ultimi a proteggere la propria industria dalle esportazioni britanniche. L’obiettivo era quello di dissuadere i paesi meno industrializzati dal lavorare le proprie materie prime.

In tali paesi, gli investitori stranieri europei cercavano di acquistare risorse naturali redditizie, in particolare diritti minerari e fondiari, nonché infrastrutture di base quali ferrovie e canali. Ciò creò un contrasto diametrale tra l’elusione fiscale nei paesi industrializzati e la ricerca di rendite nelle loro colonie e in altri paesi ospitanti, mentre i banchieri europei utilizzavano la leva del debito per ottenere il controllo fiscale delle ex colonie che avevano conquistato l’indipendenza nel XIX e XX secolo. Sotto la pressione di dover pagare i debiti esteri contratti per finanziare i loro deficit commerciali, i tentativi di sviluppo e l’approfondimento della dipendenza dal debito, i paesi debitori furono costretti a cedere il controllo fiscale delle loro economie agli obbligazionisti, alle banche e ai governi dei paesi creditori, che li spinsero a privatizzare i loro monopoli infrastrutturali di base. L’effetto fu quello di impedire loro di utilizzare le entrate derivanti dalle loro risorse naturali per sviluppare un’ampia base economica per uno sviluppo prospero.

Proprio come Gran Bretagna, Francia e Germania miravano a liberare le loro economie dall’eredità feudale degli interessi acquisiti con privilegi di estrazione di rendite, la maggior parte dei paesi della maggioranza globale odierna ha bisogno di liberarsi dalle rendite e dai debiti ereditati dal colonialismo europeo e dal controllo dei creditori. Negli anni ’50, questi paesi venivano definiti “meno sviluppati” o, in modo ancora più paternalistico, “in via di sviluppo”. Ma la combinazione di debito estero e libero scambio ha impedito loro di svilupparsi secondo il modello equilibrato pubblico/privato seguito dall’Europa occidentale e dagli Stati Uniti. La politica fiscale e altre legislazioni di questi paesi sono state plasmate dalla pressione degli Stati Uniti e dell’Europa affinché rispettassero le regole internazionali in materia di commercio e investimenti, che perpetuano il dominio geopolitico dei loro banchieri e degli investitori che estraggono rendite al fine di controllare il loro patrimonio nazionale.

L’eufemismo “economia ospite” è appropriato per questi paesi perché la penetrazione economica occidentale in essi assomiglia a un parassita biologico che si nutre del suo ospite. Nel tentativo di mantenere questo rapporto, i governi occidentali stanno bloccando i tentativi di questi paesi di seguire la strada intrapresa dalle nazioni industrializzate europee e dagli Stati Uniti per le loro economie, con le riforme politiche e fiscali del XIX secolo che hanno consentito il loro decollo. Questi paesi “in via di sviluppo” devono adottare riforme fiscali e politiche per rafforzare la loro sovranità e le loro prospettive di crescita sulla base del loro patrimonio nazionale di terra, risorse naturali e infrastrutture di base. Altrimenti, l’economia mondiale rimarrà divisa tra le nazioni rentier occidentali e la loro maggioranza globale ospitante, soggetta all’ortodossia neoliberista.

Il successo del modello cinese: una minaccia per l’ordine neoliberista

I leader politici statunitensi individuano nella Cina un nemico esistenziale dell’Occidente, non tanto per la sua minaccia militare, quanto piuttosto perché offre un’alternativa economica di successo all’attuale ordine mondiale neoliberista sponsorizzato dagli Stati Uniti. Questo ordine avrebbe dovuto rappresentare la fine della storia e della sua logica di libero scambio, deregolamentazione governativa e investimenti internazionali liberi da controlli sui capitali, e non una deviazione dalle politiche anti-rentier del capitalismo industriale. Ora possiamo vedere l’assurdità di questa visione evangelica autocompiacente che è emersa proprio mentre le economie occidentali si stanno deindustrializzando a causa delle dinamiche del loro stesso capitalismo finanziario post-industriale. Gli interessi finanziari e altri interessi rentier consolidati stanno rifiutando non solo la Cina, ma anche la logica del capitalismo industriale descritta dai suoi stessi economisti classici del XIX secolo.

Gli osservatori neoliberisti occidentali hanno chiuso gli occhi davanti al modo in cui il «socialismo con caratteristiche cinesi» ha raggiunto il suo successo grazie a una logica simile a quella del capitalismo industriale sostenuta dagli economisti classici per ridurre al minimo il reddito da rendita. La maggior parte degli scrittori di economia della fine del XIX secolo si aspettava che il capitalismo industriale si evolvesse in una forma o nell’altra di socialismo con l’aumentare del ruolo degli investimenti pubblici e della regolamentazione. Liberare le economie e i loro governi dal controllo dei proprietari terrieri e dei creditori era il denominatore comune del socialismo socialdemocratico di John Stuart Mill, del socialismo libertario di Henry George incentrato sull’imposta fondiaria, del socialismo cooperativo di mutuo soccorso di Peter Kropotkin e del marxismo.

La Cina è andata oltre le precedenti riforme socialiste dell’economia mista, mantenendo la creazione di moneta e credito nelle mani del governo, insieme alle infrastrutture di base e alle risorse naturali. Il timore che altri governi possano seguire l’esempio della Cina ha portato gli Stati Uniti e altri ideologi del capitale finanziario occidentale a considerare la Cina come una minaccia in grado di fornire un modello per le riforme economiche, che sono esattamente l’opposto di ciò per cui ha lottato l’ideologia pro-rentier e anti-governativa del XX secolo.

Il debito estero nei confronti degli Stati Uniti e di altri creditori occidentali, reso possibile dalle regole geopolitiche internazionali del 1945-2025 elaborate dai diplomatici americani a Bretton Woods nel 1944, obbliga il Sud del mondo e altri paesi a recuperare la propria sovranità economica liberandosi dal peso bancario e finanziario estero (principalmente dollarizzato). Questi paesi hanno anche lo stesso problema di rendita fondiaria che ha affrontato il capitalismo industriale europeo, ma le loro rendite fondiarie e minerarie sono di proprietà di multinazionali, altri appropriatori stranieri e piantagioni latifondistiche che estraggono le rendite minerarie svuotando le risorse petrolifere e minerarie del mondo e abbattendo le sue foreste.

Tassare la rendita economica: un presupposto per la sovranità

Una condizione preliminare affinché i paesi del Sud del mondo possano ottenere l’autonomia economica è seguire il consiglio degli economisti classici e tassare le maggiori fonti di reddito da locazione – rendita fondiaria, rendita di monopolio e rendimenti finanziari – invece di lasciarle andare all’estero. Tassare questi redditi contribuirebbe a stabilizzare la loro bilancia dei pagamenti, fornendo al contempo ai loro governi le entrate necessarie per finanziare le loro esigenze infrastrutturali e la relativa spesa sociale necessaria per sovvenzionare la loro modernizzazione economica. È così che Gran Bretagna, Francia, Germania e Stati Uniti hanno stabilito la loro supremazia industriale, agricola e finanziaria. Non si tratta di una politica socialista radicale. È sempre stata un elemento centrale dello sviluppo capitalistico industriale.

Riconquistare la rendita fondiaria e quella derivante dalle risorse naturali di un paese come base fiscale consentirebbe di evitare di tassare il lavoro e l’industria. Un paese non avrebbe bisogno di nazionalizzare formalmente la propria terra e le proprie risorse naturali. Dovrebbe semplicemente tassare la rendita economica al di sopra degli effettivi “profitti guadagnati”. Per citare il principio di Adam Smith e dei suoi successori del XIX secolo, questa rendita è la base imponibile naturale. Ma l’ideologia neoliberista definisce tale tassazione della rendita, e la regolamentazione dei monopoli o di altri fenomeni di mercato, un’ingerenza intrusiva nel “libero mercato”.

Questa difesa del reddito da rendita ribalta la definizione classica di libero mercato. Gli economisti classici definivano libero mercato un mercato libero dalla rendita economica, non un mercato libero per l’estrazione della rendita economica, tanto meno una libertà per i governi delle nazioni creditrici di creare un “ordine basato su regole” per facilitare l’estrazione della rendita estera e soffocare lo sviluppo dei paesi ospitanti dipendenti dal punto di vista finanziario e commerciale.

La remissione del debito come presupposto per la sovranità economica

La lotta dei paesi per liberarsi dal peso del debito estero è molto più difficile di quella intrapresa dall’Europa nel XIX secolo per porre fine ai privilegi della sua aristocrazia terriera (e, con meno successo, dei suoi banchieri), perché ha una portata internazionale. Inoltre, oggi deve confrontarsi con un’alleanza di paesi creditori che mirano a mantenere il sistema di colonizzazione finanziaria creato due secoli fa, quando le ex colonie cercavano di ottenere l’indipendenza politica ricorrendo ai prestiti dei banchieri stranieri. A partire dagli anni Venti del XIX secolo, le regioni appena indipendenti, da Haiti, Messico e America Latina alla Grecia, Tunisia, Egitto e altre ex colonie ottomane, ottennero una libertà politica nominale dal controllo colonialista.

Ma per sviluppare la propria industria, hanno dovuto contrarre debiti esteri, sui quali sono quasi immediatamente entrati in default, consentendo ai creditori di istituire autorità monetarie incaricate della loro politica fiscale. Alla fine del XIX secolo, i governi di questi paesi sono stati trasformati in agenti di riscossione per i banchieri internazionali. La dipendenza finanziaria dai banchieri e dagli obbligazionisti ha sostituito la dipendenza coloniale, obbligando i paesi debitori a dare priorità fiscale ai creditori stranieri.

La seconda guerra mondiale ha permesso a molti di questi paesi di accumulare ingenti riserve monetarie estere grazie alla fornitura di materie prime ai belligeranti. Ma l’ordine postbellico progettato dai diplomatici statunitensi, basato sul libero scambio e sulla libera circolazione dei capitali, ha prosciugato questi risparmi e ha costretto il Sud del mondo e altri paesi a contrarre prestiti per coprire i loro deficit commerciali. Il debito estero che ne è derivato ha presto superato la capacità di questi paesi di pagare, cioè di pagare senza cedere alle richieste distruttive di austerità del Fondo Monetario Internazionale (FMI), che hanno bloccato gli investimenti necessari per aumentare la loro produttività e il loro tenore di vita. Non c’era modo per loro di soddisfare le proprie esigenze di sviluppo per investire in infrastrutture di base e fornire sussidi industriali e agricoli, istruzione pubblica e assistenza sanitaria, e altre spese sociali di base che caratterizzavano le principali nazioni industrializzate. Questa situazione rimane ancora oggi.

La loro scelta oggi è quindi quella di pagare i debiti esteri, a costo di bloccare il proprio sviluppo, oppure di dichiarare che tali debiti sono odiosi e insistere affinché vengano cancellati. La questione è se i paesi debitori otterranno la sovranità che dovrebbe caratterizzare un’economia internazionale basata sulla parità, libera dal controllo postcoloniale straniero sulle loro politiche fiscali e commerciali e sul loro patrimonio nazionale.

La loro autodeterminazione può essere raggiunta solo unendosi in un fronte collettivo. L’aggressività tariffaria di Donald Trump ha catalizzato questo processo riducendo drasticamente il mercato statunitense per le esportazioni dei paesi debitori, impedendo loro di ottenere i dollari necessari per pagare le obbligazioni e i debiti bancari, che quindi non saranno pagati in nessun caso. Il mondo è ora impegnato nella de-dollarizzazione.

La necessità di creare un’alternativa all’ordine postbellico incentrato sugli Stati Uniti fu espressa nel 1955 alla Conferenza dei Paesi non allineati di Bandung, in Indonesia. Tuttavia, questi paesi non disponevano di una massa critica di autosufficienza sufficiente per agire insieme. I tentativi di creare un Nuovo Ordine Economico Internazionale negli anni ’60 si scontrarono con lo stesso problema. I paesi non erano abbastanza forti dal punto di vista industriale, agricolo o finanziario per “fare da soli”. “

L’attuale crisi del debito occidentale, la deindustrializzazione e l’uso coercitivo del commercio estero e delle sanzioni finanziarie nell’ambito del sistema finanziario internazionale basato sul dollaro, coronato dalla politica tariffaria “America First”, hanno creato l’urgente necessità per i paesi di cercare collettivamente la sovranità economica per diventare indipendenti dal controllo statunitense ed europeo sull’economia internazionale. Il gruppo BRICS+ (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica+) ha appena iniziato a discutere di un tentativo in tal senso.

Il successo della Cina ha reso possibile un’alternativa globale

Il grande catalizzatore che ha spinto i paesi ad assumere il controllo del proprio sviluppo nazionale è stata la Cina. Come indicato in precedenza, il suo socialismo industriale ha in gran parte raggiunto l’obiettivo classico del capitalismo industriale di ridurre al minimo le spese generali dei rentier, soprattutto creando denaro pubblico per finanziare una crescita tangibile. Mantenere la creazione di denaro e credito nelle mani dello Stato attraverso la Banca popolare cinese impedisce agli interessi finanziari e di altri rentier di prendere il controllo dell’economia e di sottoporla alle spese generali finanziarie che hanno caratterizzato le economie occidentali. L’alternativa di successo della Cina per l’assegnazione del credito evita di ottenere guadagni puramente finanziari a scapito della formazione di capitale tangibile e del tenore di vita. Ecco perché è vista come una minaccia esistenziale all’attuale modello bancario occidentale.

I sistemi finanziari occidentali sono supervisionati da banche centrali che sono state rese indipendenti dal tesoro e dall’«interferenza» normativa del governo. Il loro ruolo è quello di fornire liquidità al sistema bancario commerciale che crea debito fruttifero, principalmente allo scopo di generare ricchezza finanziaria attraverso la leva del debito (inflazione dei prezzi degli asset), non per la formazione di capitale produttivo.

I guadagni in conto capitale – aumento dei prezzi delle abitazioni e di altri beni immobili, azioni e obbligazioni – sono molto più consistenti della crescita del prodotto interno lordo (PIL). Possono essere realizzati facilmente e rapidamente dalle banche, creando più credito per far salire i prezzi per gli acquirenti di questi beni. Anziché industrializzare il sistema finanziario, le società industriali occidentali si sono finanziarizzate, e ciò è avvenuto seguendo linee che hanno deindustrializzato le economie statunitense ed europea.

La ricchezza finanziaria può essere generata senza essere parte del processo produttivo. Gli interessi, le more, altre commissioni finanziarie e le plusvalenze non sono un “prodotto”, ma vengono conteggiati come tali nelle attuali statistiche del PIL. Gli oneri finanziari sul debito crescente sono trasferimenti al settore finanziario da parte dei lavoratori e delle imprese, prelevati dai salari e dai profitti guadagnati dalla produzione effettiva. Ciò riduce il reddito disponibile per la spesa dei prodotti realizzati dal lavoro e dal capitale, lasciando le economie indebitate e deindustrializzate.

Strategia delle nazioni creditrici-rentier

La strategia più ampia per impedire ai paesi di evitare l’onere dei redditi da rendita è stata quella di condurre una campagna ideologica, dal sistema educativo ai mass media. L’obiettivo è quello di controllare la narrazione in modo da dipingere il governo come un Leviatano oppressivo, un’autocrazia intrinsecamente burocratica. La “democrazia” occidentale è definita non tanto politicamente quanto economicamente, come un libero mercato le cui risorse sono allocate da un settore bancario e finanziario indipendente dalla supervisione normativa. I governi abbastanza forti da limitare la ricchezza finanziaria e di altro tipo dei rentier nell’interesse pubblico vengono demonizzati come autocrazie o “economie pianificate”, come se lo spostamento del credito e dell’allocazione delle risorse verso i centri finanziari di Wall Street, Londra, Parigi e il Giappone non portasse a un’economia pianificata dal settore finanziario nel proprio interesse, con l’obiettivo di creare fortune monetarie, non di migliorare l’economia complessiva e il tenore di vita.

I funzionari e gli amministratori della maggioranza globale che hanno studiato economia nelle università statunitensi ed europee sono stati indottrinati con un’ideologia pro-rentier priva di valori (cioè priva di rendite) per inquadrare il loro modo di pensare al funzionamento delle economie. Questa narrativa esclude la considerazione di come il debito polarizzi le economie crescendo in modo esponenziale con gli interessi composti. È escluso dalla logica economica dominante anche il classico contrasto tra credito e investimenti produttivi e improduttivi, e la relativa distinzione tra reddito guadagnato (salari e profitti, le principali componenti del valore) e reddito non guadagnato (rendita economica).

Al di là di questa campagna ideologica, la diplomazia neoliberista ricorre alla forza militare, al cambio di regime e al controllo delle principali burocrazie internazionali associate alle Nazioni Unite (ONU), al FMI e alla Banca mondiale (e a una rete più occulta di organizzazioni non governative [ONG]) per impedire ai paesi di ritirarsi dalle attuali regole fiscali favorevoli ai rentier e dalle leggi favorevoli ai creditori. Gli Stati Uniti hanno assunto un ruolo di primo piano nell’uso della forza e nel cambio di regime contro i governi che vorrebbero tassare o limitare in altro modo l’estrazione di rendite.

Va notato che nessuno dei primi socialisti (ad eccezione degli anarchici) sosteneva la violenza come mezzo per ottenere le proprie riforme. Sono stati piuttosto gli interessi acquisiti – restii ad accettare la perdita dei privilegi che costituiscono la base delle loro fortune – a non esitare a ricorrere alla violenza per difendere la propria ricchezza e il proprio potere dai tentativi di riforma volti a limitare i loro privilegi.

Per essere sovrane, le nazioni devono creare un’alternativa che consenta loro di essere responsabili del proprio sviluppo economico, monetario e politico. Ma la diplomazia statunitense considera qualsiasi tentativo di attuare le necessarie riforme politiche e fiscali e una forte autorità normativa governativa come una minaccia esistenziale al controllo degli Stati Uniti sulla finanza e sul commercio internazionale. Ciò solleva la questione se sia possibile realizzare riforme e un’economia pubblica forte senza ricorrere alla guerra. È naturale che i paesi si chiedano se sia possibile raggiungere la sovranità economica senza una rivoluzione, come quella che l’Unione Sovietica, la Cina e altri paesi hanno combattuto per porre fine al dominio della classe dei proprietari terrieri e dei creditori sostenuta dall’estero.

L’unico modo per proteggere la sovranità economica dalle minacce militari è quello di unirsi in un’alleanza di mutuo sostegno, poiché i singoli paesi possono essere isolati come è successo a Cuba, Venezuela e Iran. Come disse Benjamin Franklin: «Se non restiamo uniti, saremo impiccati separatamente».

Gli scrittori americani descrivono il tentativo di altri paesi di unirsi per raggiungere la sovranità economica come una guerra di civiltà. Sebbene si tratti effettivamente di una sfida tra civiltà, sono gli Stati Uniti e i loro alleati a muovere aggressione contro i paesi che cercano di ritirarsi da un sistema che ha fornito loro un enorme afflusso di rendite economiche e servizio del debito dai paesi ospitanti soggetti alla diplomazia sostenuta dagli Stati Uniti.

Dall’occupazione coloniale europea al colonialismo finanziario incentrato sugli Stati Uniti

Dopo la seconda guerra mondiale, l’era del colonialismo dei paesi colonizzatori ha lasciato il posto al colonialismo finanziario, con l’economia internazionale dollarizzata sotto la guida degli Stati Uniti. Le regole di Bretton Woods stabilite nel 1945 permisero alle multinazionali di mantenere i redditi economici derivanti dalla terra, dalle risorse naturali e dalle infrastrutture pubbliche al di fuori della portata fiscale nazionale. I governi furono ridotti al ruolo di agenti di riscossione per i creditori stranieri e di protettori degli investitori stranieri dai tentativi democratici di tassare la ricchezza dei rentier.

Gli Stati Uniti sono riusciti a trasformare il commercio mondiale in un’arma monopolizzando le esportazioni di petrolio da parte delle compagnie petrolifere statunitensi e alleate (le Seven Sisters), mentre il protezionismo agricolo statunitense ed europeo e la politica di “aiuti” della Banca Mondiale hanno indotto i paesi con deficit alimentare a concentrarsi sulle colture tropicali invece che sui cereali per nutrirsi. L’accordo di libero scambio nordamericano del 1994 con il Messico, firmato dal presidente Bill Clinton, ha inondato il mercato messicano con esportazioni agricole statunitensi a basso prezzo (fortemente sovvenzionate dal governo). La produzione cerealicola messicana è crollata, rendendo il Paese dipendente dall’importazione di cibo.

Per impedire ai governi di tassare o addirittura multare gli investitori stranieri al fine di ottenere un risarcimento per i danni causati ai loro paesi, le potenze rentier odierne hanno creato tribunali per la risoluzione delle controversie tra investitori e Stati (ISDS) che obbligano i governi a risarcire gli investitori stranieri per l’aumento delle tasse o l’imposizione di normative che riducono il reddito di proprietà straniera. [1] Ciò ostacola la sovranità nazionale, impedendo ai paesi ospitanti di tassare la rendita economica dei loro terreni e delle loro risorse naturali di proprietà di stranieri. L’effetto è quello di rendere queste risorse parte dell’economia della nazione investitrice, non della loro. [2]

Altre nazioni hanno permesso agli Stati Uniti di dettare l’ordine post-seconda guerra mondiale, con la promessa di generosi aiuti a sostegno del libero scambio, della pace e della sovranità nazionale postcoloniale, come sancito dalla Carta delle Nazioni Unite. Ma gli Stati Uniti hanno sperperato la loro ricchezza in spese militari all’estero e nella dipendenza dalla ricchezza finanziaria in patria. Ciò ha lasciato il potere post-industriale dell’America basato principalmente sulla sua capacità di danneggiare altri paesi con il caos se questi non accettano l'”ordine basato sulle regole” progettato per estorcere loro tributi.

Gli Stati Uniti impongono tariffe protezionistiche e quote di importazione a loro piacimento, sovvenzionano l’agricoltura e le tecnologie chiave come potenziali monopoli globali dell’alta tecnologia, mentre vietano ad altri paesi di attuare tali politiche “socialiste” o “autocratiche” per diventare più competitivi. Il risultato è un doppio standard in cui l'”ordine basato sulle regole” degli Stati Uniti (le proprie regole) sostituisce il rispetto del diritto internazionale.

La politica di sostegno dei prezzi agricoli degli Stati Uniti, avviata sotto Franklin Roosevelt negli anni ’30, fornisce un buon esempio del loro doppio standard. Ha reso l’agricoltura il settore più fortemente sovvenzionato e protetto. È diventata il modello per la Politica Agricola Comune (PAC) della Comunità Economica Europea introdotta nel 1962. Ma la diplomazia statunitense si oppone ai tentativi di altri paesi, in particolare quelli del Sud del mondo, di imporre i propri sussidi protezionistici e le proprie quote di importazione volte a raggiungere l’autosufficienza nella produzione alimentare di base, mentre gli “aiuti finanziari” degli Stati Uniti e la Banca Mondiale hanno (come indicato sopra) sostenuto l’esportazione di colture tropicali da parte dei paesi del Sud del mondo attraverso prestiti per lo sviluppo dei trasporti e dei porti. La politica statunitense si è sempre opposta all’agricoltura a conduzione familiare e alla riforma agraria in tutta l’America Latina e in altri paesi del Sud del mondo, spesso con la violenza.

Non sorprende che, essendo stata a lungo il principale avversario militare degli Stati Uniti, la Russia abbia assunto un ruolo di primo piano nella protesta contro l’ordine unipolare statunitense. Sostenendo un’alternativa multipolare all’ordine neoliberista statunitense nel 2023, il ministro degli Esteri Sergey Lavrov ha descritto la sottomissione economica postcoloniale dei paesi che hanno raggiunto l’indipendenza politica dal dominio colonialista nel XIX e XX secolo, ma che ora devono affrontare il prossimo compito necessario per completare la loro liberazione.

I nostri amici africani stanno prestando sempre più attenzione al fatto che le loro economie continuano a basarsi in gran parte sullo sfruttamento delle risorse naturali di questi paesi. Infatti, tutto il valore aggiunto è prodotto e intascato dalle ex metropoli occidentali e dagli altri membri dell’Unione Europea e della NATO.

L’Occidente sta ricorrendo a sanzioni unilaterali illegali, che sempre più spesso diventano il presagio di un attacco militare, come è avvenuto in Jugoslavia, Iraq e Libia e sta avvenendo ora in Iran, nonché a strumenti di concorrenza sleale, avviando guerre tariffarie, sequestrando beni sovrani di altri paesi e sfruttando il ruolo delle loro valute e dei loro sistemi di pagamento. L’Occidente stesso ha di fatto seppellito il modello di globalizzazione che aveva sviluppato dopo la guerra fredda per promuovere i propri interessi. [3]

Marco Rubio ha ribadito lo stesso concetto durante le audizioni al Senato degli Stati Uniti per confermarlo come Segretario di Stato di Donald Trump, spiegando che “l’ordine globale del dopoguerra non solo è obsoleto, ma ora viene usato contro di noi”. [4]
Violando le regole del commercio estero e degli investimenti che gli stessi Stati Uniti avevano dettato nel 1945, in un altro esempio di ricorso da parte degli Stati Uniti all’«ordine basato sulle regole» delle proprie regole, i dazi unilaterali del presidente Trump miravano sia a trasferire i costi militari della nuova guerra fredda su altri paesi – che avrebbero dovuto acquistare armi americane e fornire eserciti proxy – sia a costringere i paesi a consentire alle aziende statunitensi di ottenere rendite di monopolio sulle principali tecnologie emergenti per sostituire il proprio potere industriale perduto.

Gli Stati Uniti mirano a imporre diritti di monopolio e relativi privilegi di rendita particolarmente favorevoli a se stessi su tutto il commercio e gli investimenti mondiali. La diplomazia America First di Trump esige che gli altri paesi conducano i loro scambi commerciali, i pagamenti e i rapporti di debito in dollari statunitensi anziché nelle loro valute. Lo “stato di diritto” statunitense è tale da consentire agli Stati Uniti di imporre unilateralmente sanzioni commerciali e finanziarie che dettano come e con chi i paesi stranieri possono commerciare e investire. Se non boicottano le relazioni commerciali e di investimento con la Russia, la Cina e altri paesi che rifiutano di sottomettersi al controllo degli Stati Uniti, questi paesi sono minacciati dal caos economico e dalla confisca delle loro riserve in dollari.

Il potere degli Stati Uniti per ottenere queste concessioni dall’estero non è più la leadership industriale e la forza finanziaria, ma la sua capacità di causare il caos in altri paesi. Affermando di essere la nazione indispensabile, la capacità degli Stati Uniti di perturbare il commercio sta mettendo fine al loro precedente potere monetario e diplomatico internazionale. Tale potere era originariamente basato sul possesso delle più grandi riserve auree mondiali nel 1945, sul loro status di maggiore nazione creditrice ed economia industriale e, dopo il 1971, sull’egemonia del dollaro, derivante in gran parte dal fatto che il loro mercato finanziario era il più sicuro per le altre nazioni per detenere le loro riserve monetarie ufficiali.

L’inerzia diplomatica creata da questi precedenti vantaggi non riflette più la realtà del 2025. Ciò che i funzionari statunitensi hanno è la capacità di interrompere il commercio mondiale, le catene di approvvigionamento e gli accordi finanziari, compreso il sistema SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication) di compensazione bancaria dei pagamenti internazionali. La confisca da parte degli Stati Uniti e dell’Europa di 300 miliardi di dollari di depositi monetari russi ha offuscato la sua reputazione di sicurezza finanziaria, mentre i suoi cronici deficit commerciali e della bilancia dei pagamenti minacciano di sconvolgere la stabilità monetaria internazionale e il libero scambio che l’hanno resa la principale beneficiaria dell’ordine mondiale del 1945-2025.

In linea con il principio della sovranità nazionale e della non interferenza negli affari interni degli altri paesi che è alla base della creazione dell’ONU (il principio fondamentale del diritto internazionale fondato sulla Pace di Westfalia del 1648), il ministro degli Esteri russo Lavrov ha descritto (nel suo discorso citato sopra) la necessità di «istituire meccanismi di commercio estero [che] l’Occidente non sarà in grado di controllare, come corridoi di trasporto, sistemi di pagamento alternativi e catene di approvvigionamento». Come esempio di come gli Stati Uniti abbiano paralizzato l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), che avevano creato sulla base del libero scambio in un momento in cui gli Stati Uniti erano la prima potenza esportatrice mondiale, ha spiegato:

“Quando gli americani si sono resi conto che il sistema globalizzato che avevano creato – basato sulla concorrenza leale, sui diritti di proprietà inviolabili, sulla presunzione di innocenza e su principi simili, e che aveva permesso loro di dominare per decenni – aveva iniziato a favorire anche i loro rivali, in primis la Cina, hanno intrapreso azioni drastiche. Quando la Cina ha iniziato a superarli sul loro stesso terreno e secondo le loro stesse regole, Washington ha semplicemente bloccato l’organo di appello dell’OMC. Privandolo artificialmente del quorum, hanno reso inattivo questo fondamentale meccanismo di risoluzione delle controversie, che rimane tale ancora oggi.

Gli Stati Uniti sono riusciti a bloccare l’opposizione straniera alle loro politiche nazionaliste grazie al potere di veto di cui dispongono presso l’ONU, il FMI e la Banca mondiale. Anche senza tale potere, i diplomatici statunitensi sono riusciti a impedire alle organizzazioni dell’ONU di agire in modo indipendente dalla volontà degli Stati Uniti, rifiutandosi di nominare leader o giudici che non fossero fedeli alla loro politica estera. [5] Il mondo non è più governato dal diritto internazionale, ma da regole unilaterali statunitensi soggette a cambiamenti improvvisi a seconda delle vicissitudini del potere economico o militare americano (o della sua perdita). Come ha descritto il presidente russo Vladimir Putin nel 2022: «I paesi occidentali affermano da secoli di portare libertà e democrazia alle altre nazioni», ma «il mondo unipolare è intrinsecamente antidemocratico e non libero; è falso e ipocrita in tutto e per tutto». [6]

L’immagine che gli Stati Uniti hanno di sé stessi descrive la loro posizione dominante nel mondo come il riflesso della loro democrazia, del libero mercato e delle pari opportunità che, secondo loro, hanno permesso alla loro élite al potere di acquisire il proprio status essendo i membri più produttivi dell’economia, attraverso la gestione e l’allocazione dei risparmi e del credito. La realtà è che gli Stati Uniti sono diventati un’oligarchia rentier, sempre più ereditaria. Le fortune dei suoi membri derivano principalmente dall’acquisizione di beni che generano rendite (terreni, risorse naturali e monopoli) sui quali realizzano plusvalenze, mentre pagano la maggior parte delle loro rendite sotto forma di interessi ai loro banchieri, che finiscono per accaparrarsi gran parte di queste rendite e diventano la classe manageriale dominante della nuova oligarchia.

In sintesi

Il vero conflitto su quale tipo di sistema economico e politico avrà la maggioranza globale sta appena iniziando a prendere slancio. I paesi del Sud del mondo e altri sono stati spinti così profondamente nel debito che sono stati costretti a vendere le loro infrastrutture pubbliche per pagare gli oneri finanziari. Per riprendere il controllo delle proprie risorse naturali e delle infrastrutture di base è necessario il diritto fiscale di imporre una tassa sulla rendita economica derivante dalla terra, dalle risorse naturali e dai monopoli, nonché il diritto legale di recuperare i costi di bonifica ambientale causati dalle compagnie petrolifere e minerarie straniere e i costi di risanamento finanziario per il debito estero imposto dai creditori che non si sono assunti la responsabilità di garantire che i loro prestiti potessero essere rimborsati alle condizioni esistenti.

La retorica evangelizzatrice degli Stati Uniti descrive l’imminente frattura politica ed economica dell’economia mondiale come un “conflitto di civiltà” tra democrazie (paesi che sostengono la politica statunitense) e autocrazie (nazioni che agiscono in modo indipendente). Sarebbe più accurato descrivere questa frattura come una lotta degli Stati Uniti e dei loro alleati europei e occidentali contro la civiltà, supponendo che la civiltà comporti, come sembra dover essere, il diritto sovrano dei paesi di promulgare le proprie leggi e i propri sistemi fiscali a beneficio delle proprie popolazioni all’interno di un sistema internazionale che ha un insieme comune di regole e valori fondamentali.

Ciò che gli ideologi occidentali chiamano democrazia e libero mercato si è rivelato essere un aggressivo imperialismo finanziario-rentier. E ciò che chiamano autocrazia è un governo abbastanza forte da impedire la polarizzazione economica tra una classe rentier super ricca e una popolazione povera, come sta accadendo all’interno delle stesse oligarchie occidentali.

Note

[1] Fornisco i dettagli e la discussione nel capitolo 7 di The Destiny of Civilization (ISLET 2022).

[2] La compagnia petrolifera saudita Aramco, ad esempio, non era una società affiliata giuridicamente distinta, ma una filiale della Standard Oil of New York (ESSO). Questa sottigliezza giuridica significava che le sue entrate e le sue spese erano consolidate nel bilancio della società madre statunitense. Ciò le consentiva di beneficiare di un credito d’imposta per la “deduzione per esaurimento” del petrolio, rendendo la società effettivamente esente dall’imposta sul reddito statunitense, sebbene fosse il petrolio saudita ad essere esaurito.

[3] Dichiarazioni e risposte alle domande del ministro degli Esteri Sergey Lavrov all’11° Forum internazionale Primakov Readings, Ministero degli Esteri russo, Mosca, 24 giugno 2025, https://mid.ru/en/press_service/video/view/2030626/

[4] Marco Rubio, testimonianza del 15 gennaio 2025, https://www.state.gov/opening-remarks-by-secretary-of-state-designate-marco-rubio-before-the-senate-foreign-relations-committee

[5] L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), incaricata di tenere sotto controllo la proliferazione nucleare, è l’esempio più recente e noto. Il suo leader, Grossi, ha fornito ai servizi segreti statunitensi e israeliani i nomi degli scienziati iraniani uccisi e i dettagli dei siti di raffinazione nucleare iraniani che sono stati bombardati. Il veto degli Stati Uniti ha impedito a quasi tutte le Nazioni Unite di condannare gli attacchi israeliani contro la popolazione palestinese. E quando la Corte penale internazionale (ICC) ha incriminato Benjamin Netanyahu come criminale di guerra per aver condotto il genocidio di Israele contro i palestinesi, i funzionari statunitensi hanno chiesto la rimozione del giudice.

[6] Vladimir Putin, discorso del 30 settembre 2022 in occasione della firma dei trattati di adesione alla Russia delle repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk e delle regioni di Zaporozhye e Kherson, http://en.kremlin.ru/events/president/news/69465

La foto all’inizio di questo articolo ritrae un’opera esposta alla Summer Exhibition (2021) della Royal Academy di Londra.

Michael Hudson

Economista americano, professore di Economia all’Università del Missouri-Kansas City e ricercatore presso il Levy Economics Institute del Bard College, ex analista di Wall Street, consulente politico, commentatore e giornalista.

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Scuse, Apologia e un esempio concreto_di Aurelien

Scuse, Apologia e un esempio concreto.

Questa settimana ho fatto tutto quello che potevo, mi dispiace.

Aurélien5 novembre
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Purtroppo, questa settimana non posso offrirvi un saggio completo. Sono stato spiacevolmente malato per gran parte della settimana scorsa, e sono riuscito a malapena a strisciare fino alla scrivania per fare le ultime modifiche e premere il pulsante “Continua” mercoledì prima di crollare a letto. Più di recente, sono stato in viaggio per diversi giorni, e francamente mi sento ancora piuttosto fragile. E poi, finalmente, ho disegnato l’Eremita due volte di seguito all’inizio di questa settimana nella mia lettura quotidiana dei Tarocchi, e sì, mi sta dicendo di calmarmi e di ritirarmi un po’ in me stesso. Ho capito il messaggio. Ma a quel punto l’Etica del Lavoro Protestante ha fatto capolino dalla porta con un’espressione di disapprovazione. “Non puoi semplicemente non fare nulla”, ha detto, disgustata. Quindi la soluzione che ho negoziato con la PWE è stata che, dopo tre anni e mezzo, più di duecento post e millecentomila parole, avrei scritto un articolo molto breve solo per ricordare ai nuovi lettori, in particolare, qual è lo scopo di questo sito e perché questo scopo lo rende relativamente insolito.

Ok, il titolo di questo sito è ” Cercare di capire il mondo”. Non è “Cose che odio e persone che vorrei veder morire”, non è ” Quale parte sostengo”, o “Cosa dovrebbero fare i governi riguardo a X o Y”, non è ” Non ne so molto, ma qualcuno dovrebbe fare qualcosa” o ” Ecco la cospirazione sconosciuta dietro ogni crisi”. Vale a dire che cerco di utilizzare ciò che ho visto, fatto e credo di aver imparato, in cinquant’anni, per cercare di fare un po’ di luce su ciò che sta accadendo nel mondo oggi, cosa significa e come potrebbe evolversi, e quindi ridurre il livello generale di confusione e migliorare un po’ la comprensione generale. È un obiettivo modesto, e almeno alcuni sembrano trovarlo utile, ma significa che occupo una sorta di micro-nicchia nella grande palude carnivora che è la scrittura su Internet. L’approccio, come dico spesso, deriva dall’ingegneria. La politica, come l’ingegneria, riguarda forze, corpi, tensioni e tipi di materiali ed energie. La politica, come l’ingegneria, si basa su tendenze generali piuttosto che su previsioni specifiche. Proprio come un ingegnere può dire “questo ponte non è sicuro, crollerà presto”, è possibile, con l’esperienza, considerare un nuovo governo, un trattato di pace o un cessate il fuoco e dire la stessa cosa.

La politica ha regole e processi standard. Cose già sperimentate verranno riprovate, e in molti casi ciò che non ha funzionato prima non funzionerà più, anche se questo non impedirà ai politici di provarci. I consigli pragmatici (“quando sei in un buco, smetti di scavare”) non perdono mai la loro pertinenza, ma devono essere reimparati da ogni generazione. Il risultato generale è che spesso è possibile osservare una situazione nel mondo e pensare: questa sembra seguire un modello e una progressione ben noti, e dai principi generali credo di poter capire cosa sta succedendo e dove potrebbero andare a parare le cose. I requisiti, ovviamente, sono almeno una minima comprensione attuale della situazione e un background generale sufficiente sui processi politici e sulle crisi nel loro complesso. Ecco perché non mi troverete a pontificare sul Venezuela, dove non ho alcuna esperienza, o sulla Thailandia e sulla Cambogia, dove ciò che sapevo prima è ormai ampiamente superato.

Inutile dire che non è così che la maggior parte degli scrittori su Internet vede il proprio ruolo, ed è per questo che voglio distinguere il modo in cui vedo il mio. Ma il mio background professionale si concentra in due ambiti – governo e mondo accademico – che sono piuttosto darwiniani, nel senso che se non sai di cosa stai parlando, nessuno ti ascolta. Detto questo, quello che considero il problema per molti altri scrittori che lavorano nello stesso settore è la minore competenza in quanto tale – dato che di solito ci sono persone con il background pertinente – quanto piuttosto l’incapacità di distinguere tra spiegazione e giustificazione, o tra analisi e advocacy, o persino di riconoscere che tale distinzione è necessaria. Ora, ci sono ragioni del tutto accettabili per l’advocacy, e circostanze in cui è appropriata, ma il problema sorge quando viene confusa con l’analisi, e spesso presentata come se lo fosse. Il risultato è che gran parte della copertura mediatica dell’Ucraina o di Gaza è a livello di sito dedicato agli appassionati di sport, e mentre si può dedurre a grandi linee cosa sia successo oggettivamente (come in altri contesti si può scoprire chi ha vinto la partita), tutto è incentrato sul tifo e sul denigrare gli avversari. E se non siete mai stati coinvolti professionalmente nelle questioni Russia/Ucraina, o nelle questioni relative all’uso della moderna tecnologia militare da parte di forze armate su larga scala, o non avete esperienza sul campo in Medio Oriente, allora vi trovate esattamente nella posizione del tifoso che non ha mai giocato a livello professionistico, e che tifa per la propria squadra su Internet. Ora, non c’è niente di sbagliato in questo, e c’è spazio per tutto, ma non è la parte di Internet che scelgo di frequentare.

Un risultato è che gran parte degli scritti su queste due crisi è incestuosa e ripetitiva, citando le stesse fonti e ripetendo le stesse storie, ma anche riutilizzando all’infinito lo stesso vocabolario. Questa, a mio avviso, è più una questione di autoprotezione che altro: è necessario comprendere e seguire le regole stabilite dalla parte che si è scelta, per non essere sospettati di nutrire una segreta simpatia per il Nemico. Quindi è obbligatorio, a quanto pare, fare riferimento all'”invasione su vasta scala” dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022 se si vuole evitare di attirare critiche da una parte, anche se non riesco proprio a capirne il motivo, visto che ovviamente non è stato così. E tutti i riferimenti al periodo 2014-2022 sono esclusi perché menzionarli sarebbe un atto ostile. Molti articoli che trovo su Internet sembrano in realtà nervosamente difensivi piuttosto che informativi: cercano soprattutto di persuadere i lettori della loro purezza ideologica, per timore che siano sospettati di una simpatia nascosta per la parte avversa. E quando non lo si fa, i lettori diventano nervosi e a disagio. Così ho scritto articoli in cui sostengo che una vittoria russa in Ucraina è inevitabile e che le conseguenze per l’Occidente saranno gravi, il che a quanto pare mi etichetta come “filo-russo”. Ma ho anche scritto articoli in cui sostengo che la Russia troverà la fine della guerra molto problematica e probabilmente non otterrà il trattato di sicurezza paneuropeo che desidera. Questo viene etichettato come “anti-russo”. Quindi, da che parte sto?

Questo tipo di domanda è possibile, mi sembra, solo per persone che non hanno mai imparato a pensare correttamente, o che l’hanno dimenticato da tempo. È il risultato della pressione a elidere le distinzioni tra fatti e opinioni, in modo che la tua squadra non solo vinca oggettivamente, ma che la sua causa sia ed è sempre stata del tutto giusta, che tutto ciò che i suoi portavoce umani dicono sia vero e che tutti i suoi leader siano santi. Il risultato è una scrittura che è inutile come qualsiasi altra cosa se non come sermoni rivolti a chi è già convertito. Supponiamo che tu sia un lettore intelligente e imparziale, stanco delle falsificazioni del Grauniad o del New York Times , e che voglia saperne di più sull’Ucraina. Quindi inizi a sfogliare alcuni siti alternativi e in effetti questo sembra piacevolmente diverso, finché non ti imbatti in espressioni come “ucronazisti” e “regime banderita”, i tuoi leader nazionali descritti come “criminali di guerra” e i tuoi paesi descritti come “cagnolini”. A quel punto smetti di leggere e torni al Grauniad.

Perché ovviamente questi siti non cercano di informare, e tanto meno di convertire. Sono impegnati in una spietata competizione per clic e denaro dallo stesso pubblico limitato, e sperano di ottenerli mostrando la più incrollabile lealtà possibile alla linea del partito e urlando insulti il ​​più forte possibile. Dopotutto, se sei, diciamo, il proprietario di un piccolo sito Internet che scrive di eventi mondiali e dipende dagli abbonamenti, come farai a distinguerti sull’argomento di Gaza, che, per ragioni commerciali, non puoi evitare di affrontare? Non conosci la regione, non parli arabo né ebraico, non conosci nemmeno abbastanza i media locali per sapere cosa leggere in traduzione. La tua conoscenza della tecnologia militare è frammentaria e non sai nulla di combattimento urbano. La struttura politica incredibilmente complessa della regione è al di là delle tue possibilità. Quindi cosa fai? Urli. Cerchi di urlare più forte, di fare accuse più estreme, richieste più estreme e di usare meno sfumature e più oscenità di qualsiasi tuo concorrente. Il risultato è un fenomeno paragonabile per certi versi al traffico di anfetamine e cocaina, dove le persone pagano per essere portate in uno stato di rabbia e sovreccitazione. Perché in realtà, la semplice comprensione delle cose non è molto eccitante, e anzi può far sembrare il mondo un posto più noioso e meno eccitante. La rabbia e il senso di superiorità morale che ne deriva sono molto più eccitanti. È sorprendente quanto spesso mi sia imbattuto in persone che semplicemente ignorano scaffali di studi, decenni di ricerche, battaglioni di testimoni ed esperienze vissute da intere comunità, perché preferiscono attenersi alle idee e alle emozioni acquisite vent’anni prima all’università, e non discostarsi dalle opinioni del gruppo con cui si identificano, e che comunque li rende sufficientemente arrabbiati. Quindi bisogna accettare che non tutti sono ugualmente interessati a cercare di capire il mondo.

Avrei voluto fermarmi qui, ma stamattina mi sentivo un po’ meglio, quindi ho pensato di aggiungere un breve esempio per mostrare la differenza tra analisi e advocacy (o abuso o rabbia, visto che sembrano essere più o meno la stessa cosa). Proviamo quindi a rispondere a una semplice domanda relativa a Gaza: perché la campagna internazionale è stata così totalmente inefficace nel cambiare il comportamento del governo israeliano e persino dei suoi sostenitori occidentali? Ora, notate che questa domanda, la cui risposta è semplice e immediata, non richiede alcuna comprensione o conoscenza particolare, se non una certa familiarità con il successo e il fallimento delle campagne politiche e con il modo in cui i governi le gestiscono. Poiché ho entrambe le cose, mi sento qualificato per commentare.

Tanto per cominciare, ovviamente, alcuni negherebbero che la campagna sia stata un fallimento. In effetti, ho letto molti articoli autocelebrativi che esprimevano stupore e gioia per i milioni di manifestanti in piazza. Ma questo è il tipico errore da dilettanti: confondere l’input con l’output. Non importa quanti miliardi di manifestanti ci siano, l’effetto sui governi è stato scarso o nullo. Questo sembra strano, e in effetti lo è , dato che qualsiasi campagna organizzata con competenza avrebbe ottenuto risultati molto più grandi. Che aspetto ha allora una campagna generica e competente?

In primo luogo, ha un obiettivo chiaro, semplice e almeno teoricamente realizzabile. In questo caso, deve essere la fine delle uccisioni e il ritiro delle forze israeliane da Gaza. In secondo luogo, questo deve essere sintetizzato in un discorso con slogan chiari e comprensibili, in cui tutti possano identificarsi. Quindi concordiamo su “fermare il massacro a Gaza”. Le manifestazioni nelle capitali nazionali potrebbero anche chiedere ai governi di “smettere di permettere il massacro” e di esercitare pressioni su Israele in ogni modo possibile. In terzo luogo, gli slogan devono essere supportati da altri media per rafforzare il messaggio: non mancano foto e video di bambini morti, e alla domanda “cosa intendi per massacro?” ci sono biblioteche piene di prove raccapriccianti. E infine, nel tuo discorso e nel tuo metodo, devi incoraggiare la partecipazione di una fascia il più ampia possibile della popolazione, utilizzando temi che uniscano le persone.

Soprattutto, c’è un punto politico tattico fondamentale: bisogna imporre il proprio discorso, la propria struttura, il proprio vocabolario sul problema, e non lasciare che l’altro lo faccia. Questo mantiene il governo in una posizione di svantaggio, costretto a rispondere continuamente a domande come “perché non si ferma il massacro?” e ​​a trovare il modo di giustificarsi.

Ora, tutto questo è abbastanza elementare. Ma avete notato qualcosa del genere ? Io no. Letteralmente nessuno di questi passi sensati e produttivi è stato intrapreso su scala significativa. Il dilettantismo e l’incompetenza sono stupefacenti, a meno che, come spiegherò brevemente più avanti, non ci sia un secondo fine. No, ai manifestanti è stato detto di sventolare bandiere palestinesi e di cantare “Palestina libera”. Ho visto video strazianti di genitori che seppellivano i loro figli, ritwittati con la scritta “Palestina libera”.

Gli oppositori si sono quindi autocastrati fin dall’inizio, accettando il discorso di Israele e dei suoi sostenitori, secondo cui questa è una guerra tra “Israele” e “Palestina” e i rispettivi eserciti, in cui purtroppo muoiono civili. Inoltre, mentre “Difendere la Palestina” potrebbe essere stato (a malapena) uno slogan efficace, “Liberare la Palestina” è uno slogan che non ha letteralmente nulla a che fare con l’attuale massacro. La “Palestina” citata qui non è Gaza, né tantomeno Gaza e la Cisgiordania. In questo contesto, “Palestina” significa l’intero territorio del Mandato britannico, incluso quello che oggi è lo Stato di Israele. Quindi “libertà”, dal fiume (Giordano) al Mar (Mediterraneo), significa lo smantellamento forzato dello Stato di Israele e l’espulsione della sua comunità ebraica. E sebbene ciò non accadrà mai in tempi ragionevoli, anche se accadesse , tra un decennio o due, come si suppone che fermi la sofferenza e la morte a Gaza oggi? Ovviamente, non lo è. Quindi, il messaggio dell’opposizione a coloro che sono scioccati e disgustati dalle azioni israeliane a Gaza è: “Ecco una bandiera palestinese, venite con noi e manifestate per la fine di Israele e lo smantellamento dello Stato ebraico”. Questo attirerà la folla.

Naturalmente, questo fa leva su una certa tendenza trasgressiva e audace in Occidente, che ama parlare di Israele come di una “colonia”, del suo esercito come di una “forza di occupazione” e dei suoi cittadini come di “coloni”. In effetti, quando vedi una pubblicazione che mette “Israele” tra virgolette, sai di trovarti in quello spazio consapevolmente trasgressivo. Ma allora? Come può essere d’aiuto a qualcuno? Non fa altro che semplificare la vita ai governi occidentali. Pochi sono sostenitori entusiasti di Israele: la maggior parte vede Israele come il male minore rispetto a un movimento islamico fondamentalista militante intenzionato a distruggere Israele e a creare caos nella regione. Il fatto è che arrestare i manifestanti “filo-palestinesi” è molto più facile che arrestare i sostenitori della campagna “Stop the Slaughter”, e gli oppositori delle azioni di Israele hanno premurosamente passato tutte le carte ai cattivi.

Ma sicuramente, direte voi, che dire di tutte queste accuse di genocidio? Beh, questo è un altro errore non forzato che gioca a favore del governo di Israele e dei suoi alleati. Perché? Beh, potrei scrivere molto di più su questo argomento di quanto abbia il tempo di scrivere o tu avresti la pazienza di leggere, ma stabiliamo solo che (1) il genocidio è al massimo un concetto incerto e incoerente, basato su una scienza razziale obsoleta (2) è un crimine necessariamente commesso da una persona identificata, che può essere esaminato solo in tribunale, con montagne di prove complesse e spesso contraddittorie (esperienza personale) (3) le condanne per genocidio sono quasi impossibili senza barare e inventare cose e (4) un crimine immensamente tecnico e difficile da provare è degenerato in un termine offensivo usato da tutti contro tutti.

La Convenzione sul Genocidio è un documento risalente alla Guerra Fredda, originariamente sostenuto da ricchi esuli anticomunisti di destra negli Stati Uniti. Rendendo le nazioni firmatarie responsabili della prevenzione e della repressione del genocidio all’interno della propria giurisdizione, ci si aspettava che l’Unione Sovietica potesse essere accusata di essere venuta meno ai propri doveri attraverso lo spostamento di gruppi di popolazione dopo il 1945 e la modifica dei confini nazionali. (Anche molti pensatori umanitari, naturalmente, condividevano l’idea). Ma il genocidio, come descritto qui, non è in realtà un crimine, bensì l’aggravante di un crimine, e richiede la prova che individui specificatamente identificati abbiano compiuto, o ordinato direttamente a entità da loro effettivamente controllate di compiere, una o più attività con l’intenzione di distruggere “in tutto o in parte” un gruppo religioso, razziale, etnico o nazionale. Poiché non c’è accordo su cosa significhi “una parte”, poiché non è chiaro se uno qualsiasi di questi gruppi nominati abbia comunque un’esistenza oggettiva e poiché cercare di provare oltre ogni ragionevole dubbio il contenuto della mente di qualcuno è, beh, complicato, non sorprende che le condanne per genocidio siano quasi impossibili se ci si attiene alle regole.

Ma il risultato, ovviamente, è quello di fare un regalo di questa complessità ai difensori di Israele. Beh, dice un avvocato amichevole e pacato, è tutto molto difficile, vedete, e c’è questo caso e quel caso, e l’intento è molto problematico, e qui i giudici hanno detto, e ovviamente i social media non sono una prova, quindi alla fine, beh, non sono affatto sicuro che si possa stabilire un genocidio. Quindi non c’è niente da vedere qui. La realtà, ovviamente, è che le prove per crimini contro l’umanità sono schiaccianti, e la soglia (“diffusa e sistematica”) è stata ovviamente raggiunta da tempo. (La CPI ha riconosciuto queste problematiche nei suoi atti d’accusa.) Ma questo si è piuttosto perso nei cori di “Genocidio! Genocidio!” di persone che danno per scontato, come spesso hanno fatto in passato, che il loro fervore morale possa in qualche modo essere tradotto in condanne automatiche da una Corte obbediente.

Si tratta solo di un livello di incompetenza sbalorditivo? O ci sono altri problemi? Beh, da un lato, ci sono gruppi islamisti che considererebbero la distruzione parziale o totale di Gaza un prezzo ragionevole da pagare per il progresso dei propri programmi che includono la ristabilimento del Califfato. Ci sono tendenze escatologiche in alcune versioni dell’Islam (ad esempio quella che ha influenzato lo Stato Islamico) che prendono sul serio le profezie di battaglie apocalittiche finali per Gerusalemme che porteranno al ritorno del Mahdi. Ma come sempre è difficile sapere fino a che punto arrivi la loro influenza pratica e quanto, se mai, influenzi il comportamento degli stati della regione.

È molto più facile comprendere l’autocastrazione dei movimenti politici occidentali, e soprattutto europei. Da decenni ormai, la Palestina è una causa vagamente definita e ottimista per alcune parti della “sinistra” europea. Ricordo di aver visto sciarpe palestinesi gialle e nere in vendita alle cerimonie di sinistra almeno una generazione fa. Poiché i palestinesi sono deboli e hanno poca capacità di influenzare il modo in cui l’Occidente li vede e li tratta, vengono relegati allo status di animali domestici, coccolati senza sosta ma senza alcun aiuto pratico. In effetti, si può sostenere che il 7 ottobre 2023 sia stato un grande shock dirompente per alcune parti della sinistra europea, quando si è scoperto che gli animali domestici erano in grado di esercitare autonomamente la loro azione. La lobby “palestinese” vuole davvero che la sofferenza finisca? Beh, visto il modo in cui si stanno comportando, si potrebbe essere perdonati se si pensasse di no.

Ecco, sto scivolando nelle speculazioni, e mi fermo. Ma non credo che nessuno con esperienza nella conduzione di campagne politiche, o nella loro opposizione dall’interno del governo, possa contestare gran parte dell’analisi precedente. Ed è questo che intendo per analisi: è un tentativo di rispondere alla domanda sul perché l’opposizione popolare occidentale al massacro di Gaza sia stata così inefficace. Potrei avere ragione (credo di averla), ma in ogni caso è così che intendo continuare a scrivere.

Nel frattempo, un altro Paracetamolo, e ci vediamo più diffusamente la prossima settimana. Ah, e sì, quasi dimenticavo.

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La nuova realtà della guerra – Analisi di un think tank russo_di Simplicius

La nuova realtà della guerra – Analisi di un think tank russo

Simplicius 5 novembre∙
 
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Rivista geopolitica russa Global Affairs ha pubblicato un nuovo articolo di strategia militare scritto in collaborazione con il generale Yuri Baluyevsky, che è stato capo di Stato Maggiore della Russia — l’attuale posizione di Gerasimov — dal 2004 al 2008. È noto per essersi dimesso dopo essersi opposto alle controverse “riforme Serdyukov” che hanno trasformato — o svuotato, a seconda dei punti di vista — le forze armate russe nel periodo 2008-2012.

Il pezzo si intitola “Guerra digitale – Una nuova realtà”:

https://globalaffairs.ru/articles/czifrovaya-vojna-baluevskij-puhov/

Come si evince dal sottotitolo, l’articolo esorta la Russia ad adattarsi il prima possibile a questa “nuova realtà”. L’urgenza deriva dalla tesi affermata secondo cui le capacità tecnologiche dei droni aumenteranno più rapidamente dei mezzi efficaci per contrastarli:

È improbabile che ci sia un esperto che neghi i cambiamenti rivoluzionari in campo militare: la “rivoluzione senza pilota” o la “rivoluzione della guerra dei droni”. Forse, in senso più ampio, potrebbe essere definita la “guerra digitale”. Ci sono tutte le ragioni per credere che questo processo continuerà ad espandersi e ad approfondirsi, poiché il potenziale di aumento della “guerra dei droni” supera la capacità di contrastare efficacemente questo tipo di arma.

Gli autori proseguono spiegando che i droni stanno diventando sempre più economici e piccoli, aumentando al contempo la loro portata. Nel prossimo futuro, osservano, la retroguardia tattica diventerà una vera e propria “zona di sterminio”, cosa che in sostanza è già avvenuta secondo molte testimonianze provenienti dal fronte.

Il campo di battaglia tattico e le retrovie, a decine di chilometri dalla linea di contatto, diventeranno essenzialmente una “zona di sterminio”. Naturalmente, contrastare queste minacce sarà una priorità assoluta. Di conseguenza, la lotta armata si concentrerà principalmente sul raggiungimento della “supremazia dei droni” nell’aria. Di conseguenza, l’organizzazione delle forze militari dovrà allinearsi con gli obiettivi e gli scopi di raggiungere tale supremazia nell’aria e nello spazio.

Alla luce di quanto sopra, ecco un’interessante analisi di un canale russo sulla direzione di Pokrovsk, che descrive come si è evoluta la situazione in termini di logistica e posizionamento delle unità.

Continuiamo il nostro difficile lavoro per rifornire le nostre unità d’assalto nella direzione di Pokrovsk. Questo mese, l’attenzione principale è stata rivolta alle unità d’assalto, alle loro comunicazioni e alla loro sopravvivenza sul campo di battaglia.

Innanzitutto, dobbiamo spiegare come si presenta la linea di contatto in questa direzione e, in generale, su tutto il fronte.
In primo luogo, il personale militare assemblato e pronto a svolgere i propri compiti di combattimento viene portato al punto di raccolta a 20-25 km dalla linea del fronte.
Quindi attendono il comando. Vengono caricati all’inizio del segmento successivo e lasciati in un punto a circa 10-13 km dalla LBS (linea di contatto), dove possono rimanere per un certo periodo di tempo, da alcune ore a diversi giorni. Si tratta di un punto di evacuazione vicino da cui è quasi garantito poter fuggire e sopravvivere.

Poi c’è il successivo punto di sbarco a 5-7 km dalla LBS: non è possibile proseguire oltre in auto. Tutti gli sbarchi e gli spostamenti sul terreno tra campi minati e aree aperte sono effettuati da guide.
Quindi, a piedi, raggiungono il punto da cui può iniziare l’assalto. Da lì, si avvicinano alle posizioni. Di norma, solo la metà di loro raggiunge le posizioni, mentre il resto rimane ferito o ucciso dai droni.

Una coppia di stormtrooper che ha raggiunto le rovine di una casa di solito viaggia in coppia, nascondendosi tra le rovine e nei seminterrati. Non si avventurano all’esterno se non è necessario. Da lì, devono mantenere la comunicazione con il loro comandante per rimanere informati su ciò che accade all’esterno, coordinare le loro azioni con i vicini, fornire assistenza e partecipare agli assalti. Possono trascorrere una settimana, un mese o due tra le rovine.

Se il tempo è brutto : nebbia, pioggia, nevicate, allora le perdite si riducono drasticamente. I droni FPV quasi non volano sotto la pioggia: le gocce si attaccano alla telecamera. La cortina d’acqua blocca fortemente il segnale a 5,8 Ghz. Tuttavia, l’artiglieria nemica inizia a lavorare più attivamente. Il cablaggio di qualsiasi gruppo corazzato viene solitamente notato dal nemico 10-15 km prima dell’LBS. Quando raggiunge le posizioni iniziali per l’attacco, ci sono già dozzine di droni FPV nemici nel cielo e altre dozzine pronte al lancio. Tutto questo poi ricade sul gruppo corazzato e sui paracadutisti. Sì, è difficile per le nostre truppe e ci sono delle vittime, ma siamo ancora in grado di lanciare i paracadutisti e avanzare. Le nostre perdite principali sono sotto forma di soldati feriti.

Come descritto sopra, la zona a 25 km dalla linea di controllo è già diventata estremamente rischiosa, dove la dispersione è necessaria per la sopravvivenza. Quindi, da 5-7 km in poi, diventa essenzialmente la “zona della morte”, per usare la terminologia alpinistica.

Baluyevsky e il suo coautore affermano che il principale sviluppo del campo di battaglia moderno è l’eliminazione totale della “nebbia di guerra”, che ha dato inizio a un’era di completa trasparenza sul campo di battaglia. Il pericolo principale risiede nell’ulteriore sviluppo e nel coordinamento incrociato delle risorse spaziali con quelle di altre tecnologie digitali e dei droni:

Il miglioramento degli strumenti di sorveglianza, dei sensori, della potenza di calcolo, delle reti informatiche, dei metodi di trasmissione e elaborazione dei dati e dell’intelligenza artificiale sta creando un ambiente informativo globale unificato a terra, in aria e nello spazio (lo “spazio di battaglia informativo”) che fornisce e amplia sempre più la trasparenza tattica, operativa e strategica unificata.

A questo proposito, c’è una breve ma interessante digressione tratta da un altro recente rapporto russo. Esso descrive come l’ultima “unificazione digitale” dello “spazio di battaglia informativo” abbia portato con sé alcuni effetti collaterali indesiderati da parte dei comandanti che sono stati dotati di troppo controllo informativo, tanto che spesso cadono nella microgestione o nell’iperconcentrazione su un compito o un obiettivo tatticamente irrilevante, a scapito dell’obiettivo tattico o operativo principale:

Nell’opera di Markin A.V. “Generalizzazione dell’esperienza di combattimento della SVO” fino al luglio 2025. Il terzo quaderno evidenzia aspetti interessanti nel lavoro delle unità di fanteria insieme ai calcoli degli UAV. Si tratta di errori a cui pochi prestano attenzione, anche in una situazione di combattimento.

Il microcontrollo è una situazione interessante in cui un comandante di alto rango, invece di occuparsi della gestione complessiva del combattimento, si siede a guardare un live streaming da Mavik e inizia a dare ordini per distruggere obiettivi secondari sul campo di battaglia, come un soldato ucraino che striscia nel bosco. In questo modo, perde il controllo della situazione nella sua zona, ma in un episodio di combattimento separato sul monitor, è un eroe. Il secondo peccato è la “selezione frammentaria”. Il desiderio di scrivere sul proprio conto l’equipaggiamento o la fanteria nemica distrutta, mentre si “segna” un vero compito tattico. Di conseguenza, il calcolo potrebbe non avere droni quando i gruppi d’assalto chiedono supporto e muoiono senza di esso. Ma hanno registrato sul proprio conto un pick-up/fanteria danneggiato, che anche senza di loro c’è qualcuno che può intercettare.

Ciò che intendono dire è che, conferendo ai comandanti tali nuovi livelli di controllo tattico-militare, talvolta questi ultimi finiscono per perseguire “punti”, gloria o diritti di vantarsi distruggendo obiettivi secondari per abbellire i “rapporti” inviati ai superiori, trascurando invece i compiti primari, come nell’esempio sopra riportato, ovvero la fanteria amica che potrebbe essere in avanzata e necessitare di quei droni di riserva per aiutarla a contrastare le fortificazioni nemiche, ecc.

Tornando al punto, l’aspetto più interessante dell’analisi contenuta nell’articolo di Global Affairs è il riconoscimento da parte di Baluyevsky e del suo coautore che la moderna guerra con droni digitalizzati ha sostanzialmente reso obsolete varie classificazioni militari classiche che sono state alla base della guerra per generazioni. Ad esempio, la “sfumatura dei confini tra tattico, operativo e strategico”, nonché i concetti specifici dei ruoli dei veicoli corazzati e di altri sistemi d’arma.

Il risultato è l’impossibilità di dispiegare e concentrare segretamente forze e risorse nelle aree di concentrazione degli sforzi principali, il che cambia radicalmente la filosofia stessa delle operazioni militari.

Alcune di queste idee riflettono pensieri precedenti di teorici sovietici di cui avevo discusso in articoli come questo, che prevedevano un futuro in cui anche il concetto di “linea del fronte” sarebbe scomparso del tutto, annunciando una nuova forma di combattimento “non lineare”:

I sovietici considerano la battaglia non lineare come una battaglia in cui battaglioni e reggimenti/brigate separati e “tatticamente indipendenti” combattono battaglie di incontro e proteggono i propri fianchi mediante ostacoli, fuoco a lungo raggio e ritmo. . . . Le grandi unità, come le divisioni e gli eserciti, possono influenzare la battaglia attraverso l’impiego delle loro riserve e dei sistemi di attacco a lungo raggio, ma l’esito sarà deciso dalle azioni dei battaglioni e dei reggimenti/brigate interforze che combattono separatamente su più assi a sostegno di un piano e di un obiettivo comuni. . . . Il combattimento tattico sarà ancora più distruttivo che in passato e sarà caratterizzato da combattimenti frammentati [ochagovyy] o non lineari. La linea del fronte scomparirà e termini come “zone di combattimento” sostituiranno i concetti obsoleti di FEBA, FLOT e FLET. Non esisteranno rifugi sicuri o “retro profondo”.

Nello stesso articolo sopra citato, il teorico russo Maggiore Generale Slipchenko ipotizza che la linea del fronte, la zona retrostante, ecc., si fonderebbero tutte in un’unica zona bersaglio:

Inoltre, il teorico militare russo Slipchenko ha sottolineato l’idea precedente secondo cui tutti i concetti classici di campo di battaglia sarebbero stati gradualmente cancellati a causa della natura imprevedibile e onnicomprensiva dei moderni sistemi di attacco:

Concetti fondamentali come “fronte”, “retro” e “linea avanzata” stanno cambiando. . . . Sono ormai superati e vengono sostituiti da due sole espressioni: “bersaglio” e “non bersaglio” per un attacco remoto ad alta precisione.

L’analista russofobo di Youtube ed ex soldato dell’esercito statunitense Ryan McBeth menziona persino a malincuore in un nuovo post come la Russia abbia risolto il classico dilemma del potere aereo che mantiene il controllo del territorio circondando Pokrovsk essenzialmente con un anello di controllo del fuoco dei droni.

https://x.com/RyanMcbeth/status/1985329301613637703

Ciò fa eco a un’altra idea del maggiore generale Slipchenko riguardo a una rivoluzione negli affari militari che porterebbe a una forma di guerra “senza contatto” di sesta generazione, definita da forze opposte che non entrano necessariamente in contatto fisico, ma procedono tramite vari attacchi a distanza, non lontano dalla realtà su molti dei fronti attuali in Ucraina:

Secondo il defunto Maggiore Generale Vladimir Slipchenko, probabilmente uno dei più influenti teorici militari russi degli ultimi decenni, l’operazione Desert Storm fu la prima manifestazione di quella che Ogarkov aveva definito una “rivoluzione negli affari militari”, riferendosi al crescente utilizzo di sistemi di attacco di precisione a lungo raggio nelle guerre future. Il concetto di guerra di sesta generazione elaborato da Slipchenko segnava la computerizzazione della guerra e il crescente utilizzo di armi a distanza. Il suo elemento più importante era quindi chiamato guerra senza contatto, in contrapposizione alla tradizionale guerra di contatto di quarta generazione.

Baluyevsky approfondisce questo concetto nell’articolo pubblicato su Global Affairs, spiegando che anche il concetto di “fuoco diretto” è ormai obsoleto in Ucraina, dove persino i carri armati vengono utilizzati principalmente in modalità di fuoco indiretto, ovvero come pezzi di artiglieria, grazie alla maggiore precisione della correzione del fuoco dei droni. Si tratta proprio di uno stile di guerra moderna “senza contatto”, in cui ogni attacco viene effettuato da oltre il raggio visivo, anche da sistemi non originariamente progettati per questo scopo:

La rivoluzione informatica sta cambiando le forme e l’aspetto della guerra. La “trasparenza” del campo di battaglia e l’acquisizione in tempo reale degli obiettivi stanno portando all’eliminazione della necessità del fuoco diretto a favore del fuoco indiretto. Per secoli, il fuoco diretto è stato alla base della guerra e le tattiche sono state costruite intorno alla garanzia della sua efficacia. Tuttavia, con l’avvento del fuoco indiretto, non è più necessario vedere il nemico direttamente davanti a sé. Al contrario, gli obiettivi possono essere individuati a qualsiasi distanza e colpiti con armi a guida di precisione (come i droni) lanciate oltre la linea di vista del nemico. La sopravvivenza e la stabilità in combattimento di qualsiasi mezzo di fuoco remoto disperso da posizioni nascoste e dei loro equipaggi è molto più elevata rispetto a quella di qualsiasi arma in grado di sparare in linea di vista diretta. Ciò porta a un cambiamento fondamentale nella pianificazione dell’intero sistema per infliggere danni da fuoco al nemico.

Gli autori proseguono affermando che questo è il motivo principale dell’apparente obsolescenza dei carri armati sul campo di battaglia moderno:

Questa circostanza, e non la mancanza di protezione dai droni, è stata la causa principale della crisi dei carri armati. Il carro armato è il mezzo principale della guerra a fuoco diretto ed è stato progettato come piattaforma protetta per la guerra a fuoco diretto. Tuttavia, è diventato un bersaglio facilmente individuabile e vulnerabile con un sistema d’arma a fuoco diretto limitato. Di conseguenza, il carro armato ha perso la sua importanza come mezzo principale di sfondamento e manovra dell’esercito.

Ma ecco un’altra affermazione chiave introdotta dagli autori: i droni hanno sostanzialmente cambiato le regole della guerra al punto che la “manovra” tattica non è più un requisito indispensabile per sconfiggere il nemico, il che richiede la riscrittura dei manuali delle operazioni di combattimento e dell’intera struttura organizzativa delle forze armate:

Pertanto, i droni stanno avendo un impatto rivoluzionario sulla scienza militare. Da un lato, stanno influenzando un fattore chiave come la concentrazione di forze e risorse, e dall’altro, stanno rendendo sostanzialmente superflue le manovre tattiche di forze e risorse per garantire la sconfitta. Questi cambiamenti fondamentali sia nella tattica che nell’arte operativa dovrebbero portare a una revisione non solo delle forme di operazioni di combattimento, ma anche della struttura organizzativa delle forze militari.

Questo è più profondo di quanto sembri a prima vista, ed è qualcosa su cui ho insistito a lungo anche qui. I lettori ricorderanno forse le mie opinioni “contrarie” sull’ossessione degli analisti moderni per la “guerra di manovra”. Ho sostenuto l’idea che tali fissazioni siano maschere deliberate volte a rafforzare l’idea che l’Ucraina stia vincendo e che la Russia sia incapace di sottomettere il suo nemico perché non sta praticando una “guerra di manovra” di massa. Negli articoli analitici ho scritto fin dall’inizio che l’idea della “guerra di manovra” sembrava ormai superata, perché stavamo assistendo alla nascita di qualcosa di nuovo e le strategie di adattamento della Russia a questa nuova realtà dimostravano chiaramente che la vittoria poteva arrivare anche senza queste definizioni classiche riduttive.

Questa idea è parte integrante del motivo per cui i progressi russi stanno solo accelerando nonostante il fatto che i componenti chiave di una cosiddetta “forza di manovra” – ovvero i gruppi corazzati e meccanizzati – non vengano quasi più utilizzati. Lo scopo della guerra di “manovra” è quello di creare aperture nella profondità operativa, ma con l’avvento di questo nuovo stile di guerra “di sesta generazione” e “non lineare”, concetti come tattico, operativo, ecc. sono sfocati e perdono il loro significato tradizionale, almeno in una certa misura.

Baluyevsky e colleghi ribadiscono nuovamente questo concetto:

Conflitto post-industriale

La campagna in Ucraina ha segnato la fine di quasi un secolo di predominio della guerra meccanizzata, caratteristica delle società industrializzate. In questo senso, l’operazione militare speciale in Ucraina è stato il primo conflitto armato su vasta scala del XXI secolo, segnando una rivoluzione negli affari militari e il passaggio alla “guerra digitale”. Queste tendenze, che sono già evidenti o stanno appena iniziando a emergere, continueranno probabilmente a plasmare il futuro della guerra nel prossimo decennio.

Si noti che essi affermano apertamente che l’adesione rigida a concetti obsoleti di guerra meccanizzata porterà solo a una diminuzione dell’efficacia dell’esercito.

Proseguono elencando tre principali impatti dei droni sull’organizzazione delle truppe:

Ci sono tre fattori chiave nella guerra dei droni e nel suo impatto sull’organizzazione e sull’uso delle truppe in combattimento.

Primo. La necessità di una dispersione estrema delle forze e dei mezzi con una densità molto bassa delle formazioni di combattimento cambierà radicalmente l’organizzazione delle truppe e la loro interazione.

Secondo. Un forte aumento della profondità di distruzione delle parti avversarie e dei loro mezzi, fino alla profondità operativa. Le “zone di sterminio totale” raggiungeranno presto diverse decine di chilometri. Ciò rende impossibile manovrare e concentrare le truppe anche nella profondità operativa.

Terzo. La guerra ha dimostrato l’insormontabile problema dell’approvvigionamento delle truppe, che ora utilizzano veicoli facilmente vulnerabili e relativamente facili da distruggere da parte del nemico (un problema che covava da tempo, ma che era stato ignorato dagli strateghi sovietici). Nel contesto della “guerra dei droni” e delle vaste “zone di distruzione totale” delle forze e delle risorse in tutta la profondità operativa, il problema dell’approvvigionamento in termini operativi, tattici e “micro-tattici” (“l’ultimo miglio del fronte”) diventa enorme e richiede soluzioni non banali e rivoluzionarie.

Essi indicano il problema logistico come uno dei principali enigmi del nuovo campo di battaglia dominato dai droni. Proprio oggi un soldato ucraino in servizio al fronte ha descritto come la Russia abbia conquistato Pokrovsk restringendo fortemente le rotte logistiche dell’AFU:

È interessante notare che, nella sezione finale, gli autori russi lodano l’M2 Bradley americano come “macchina ideale” in guerra, date le sue buone capacità “a tutto tondo” nonostante la proliferazione dei droni.

Un altro “confine sfumato” menzionato è che i reparti di supporto tecnico e logistico sono, nella guerra moderna, essenzialmente “ruoli di combattimento” a causa della battaglia costante che devono combattere contro i droni che operano nelle retrovie, dove tali ruoli di supporto godevano in precedenza di una sicurezza totale, o almeno relativa.

Facendo un ulteriore passo avanti, gli autori suggeriscono addirittura che l’esercito del futuro non dovrebbe nemmeno avere rami di servizio rigidi.

Pertanto, l’esercito del futuro non dovrebbe essere rigidamente suddiviso in corpi di servizio, ma dovrebbe piuttosto essere una forza altamente unificata, integrata e multifunzionale, in grado di operare in qualsiasi contesto bellico moderno.

Definendo “finita” l’era dei grandi battaglioni, gli autori citano il DeepState ucraino nel descrivere le dottrine attualmente utilizzate dalla Russia in prima linea:

Crediamo che tutti abbiano notato il recente post della risorsa ucraina DeepState, che descrive la “nuova dottrina di fanteria” delle forze armate russe e dimostra chiaramente l’adattamento delle tattiche militari alle esigenze della “guerra dei droni”. Ci sono quattro aspetti chiave dei cambiamenti tattici da parte russa.

Primo. Maggiore utilizzo di sistemi robotici terrestri, munizioni vaganti e FPV pesanti, che portano alla “robotizzazione di determinati processi di combattimento”. Attualmente, il compito delle operazioni di assalto e del supporto di fuoco è stato completamente delegato ai droni per impedire il rilevamento dei gruppi d’assalto.

Secondo. Il passaggio alle azioni di un gran numero di gruppi “dispersi” composti solo da 2-4 persone.

Terzo. Ridurre al minimo il combattimento con armi leggere e gli attacchi frontali alle postazioni e, in generale, avvicinare la fanteria al nemico, trasferendo il ruolo principale del supporto di fuoco dagli aerei d’attacco ai droni.

Quarto. L’uso diffuso di tattiche di infiltrazione lenta e “strisciante” o di aggiramento delle principali posizioni nemiche da parte di piccoli gruppi, compreso l’uso di dispositivi di mimetizzazione (cappucci, ecc.), con penetrazione il più possibile in profondità nelle retrovie, ricerca e neutralizzazione di operatori di droni, squadre di mortai, ecc.

È chiaro che la struttura, l’organizzazione e l’equipaggiamento delle truppe devono essere adeguati di conseguenza. L’era dei “grandi battaglioni” è finita.

In particolare, la quarta sezione sopra riportata è stata sottolineata con urgenza dagli stessi ucraini nel corso dell’ultimo mese su diversi fronti. Continuano a scrivere che, a causa della densità estremamente bassa delle attuali linee, dove solo pochi uomini possono difendere un chilometro di posizioni, le forze russe sono in grado di “infiltrarsi” oltre i difensori ucraini nelle trincee fino ad accumularsi nelle posizioni arretrate. Una volta che si sono accumulate in numero sufficiente, disturbano la retroguardia, causano confusione e caos, essenzialmente attuando una sorta di moderna forma tattica di sfondamento senza la necessità di “manovre” meccanizzate.

A proposito, anche gli Stati Uniti stanno cercando di imparare a proteggere le risorse dalla minaccia onnipresente dei droni. Ecco un video recente che mostra i test effettuati sulle gabbie anti-drone per i depositi di rifornimenti e munizioni dell’esercito americano:

L’articolo di Global Affairs si conclude con un appello finale alla Russia affinché recuperi il ritardo nel campo della potenza di calcolo, che secondo gli autori sarà la chiave per il futuro della guerra, al di là del “controllo del territorio o delle risorse”. Ritengono che, sebbene la Russia sia attualmente in ritardo in questo settore, abbia comunque dei vantaggi unici e una breve finestra di opportunità per recuperare:

Nel medio termine, la Russia sarà in ritardo rispetto ai leader mondiali in termini di sviluppo della potenza di calcolo (mancanza di competenze, capacità industriali e capacità del mercato interno). Questo problema deve essere affrontato immediatamente, altrimenti il divario aumenterà, minacciando gli interessi strategici del Paese.

La Russia ha le risorse per correggere questa situazione e continua a godere di un vantaggio scientifico e tecnologico. Tuttavia, il ritmo dei cambiamenti globali è così rapido che potrebbe essere impossibile sfruttare appieno queste opportunità.

Per realizzare questo obiettivo è necessario mettere da parte le differenze politiche e concentrarsi sulle urgenti sfide amministrative e tecnologiche.

Certamente, dato che la Russia è una potenza energetica e leader mondiale nel settore dell’energia nucleare, dispone almeno di una buona base per l’espansione dei data center informatici, se necessario.

È chiaro che occorre applicare nuovi concetti per comprendere le dinamiche del campo di battaglia moderno. È troppo estremo eliminare completamente le tradizioni militari, ma i confini sono diventati così sfumati che chiunque si affidi principalmente alle definizioni classiche di guerra rimarrà bloccato in un circolo vizioso di incomprensioni sui recenti successi della Russia sul campo di battaglia, che stanno culminando proprio mentre parliamo con l’imminente conquista di diverse città ucraine di grande importanza.


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Patria? Alcune idee in ordine sparso_di Ernesto

Non lasciatevi fuorviare dal titolo: questo testo è sostanzialmente una domanda cui si deve cercare di dare una risposta. Il termine patria è particolare: deriva dal latino pater, maschile ma, in italiano, si declina al femminile. I seguaci della cultura liquida dovrebbero apprezzare la circostanza.

Scherzi a parte, mi riallaccio al contributo di WS che trovate qui https://italiaeilmondo.com/2025/10/31/andate-avanti-voi_di-ws/ed al mio commento nel quale chiudevo con la domanda: ci sarà abbastanza realismo nelle pseudo elite italiane rispetto all’evolvere della situazione internazionale con particolare riferimento al teatro Ucraino ed agli ultimi messaggi di Putin?

La situazione italiana mostra da anni, ormai, un completo appiattimento se non servilismo nei confronti delle posizioni di Nato/UE e Usa. Mai una critica una differenziazione una precisazione se non limitata al dichiarato rifiuto di inviare soldati italiani in Ucraina. Ma per tutto il resto piena ed incondizionata approvazione alle decisioni NATO/UE.  Almeno questo è quello che appare  nelle dichiarazioni pubbliche ed a prescindere da chi sia il governante italiano di turno. Da Budapest, invece, ormai da anni, anche prima della crisi Ucraina, giungono sempre differenziazioni ed ora critiche aperte e, inoltre, la creazione di una piattaforma tra Ungheria, slovacchia e repubblica ceca, al fine di elaborare una condotta alternativa alla Nato/Ue rispetto alla crisi Ucraina. Quindi sorge una domanda: che differenza c’è tra Ungheria, ed ex cecoslovacchia e l’Italia? Ed ancora: posto che sia le elezioni Rumene che quelle moldave sono state palesemente alterate, perchè questo giochino non è riuscito nelle tre nazioni anzidette?

Dico la verità: in Orban non vedo una figura di spicco e/o la stazza dello Statista d’eccezione. Tuttavia, è indubbio che abbia sempre assunto posizioni critiche ed autonome rispetto alle rules of life dell’Anglosfera: o almeno, in alcune circostanze nelle quali tali regole erano non coincidenti con l’interesse del suo paese,così è stato. Se guardiamo alla storia dell’Ungheria, troviamo gli aneliti di indipendenza fin da quando faceva parte dell’Impero asburgico ed una indipendenza guadagnata nel 1918 con la dissoluzione di esso. La seconda guerra mondiale la vide alleata dell’Asse fino alla sconfitta ad opera dell’Armata Rossa con successivo ingresso nell’orbita Urss fino al 1991: nel mezzo i fatti del 1956 con la seconda invasione sovietica questa volta per ripristinarne l’orbita attorno all’URSS. Dopo, dissoltasi l’Urss ed il patto di Varsavia, ingresso nell’UE e nella Nato quindi un sostanziale passaggio nell’Anglosfera. Si può quindi dire che, a conti fatti, una vera indipendenza non ci sia mai stata essendo comunque inglobata dentro “alleanze” molto stringenti. E pur tuttavia, i magiari sembrano seguire una loro linea e quindi mi chiedo da dove derivino tali spazi di manovra.  Anche le posizioni riguardo all’immigrazione non sono assolutamente in linea con i dettami universalistici della open society abbracciati dalla UE. E dire che George Soros è proprio di origine ungherese ma non sembra abbia molto seguito nella patria di origine.

Sono consapevole che, qui da noi, il 1991 e poi tangentopoli, hanno radicalmente cambiato lo scenario: la cortina di ferro ha fatto un balzo di mille KM verso est e, quindi, il centro europa, neoassunto nell’anglosfera, poteva avere lo stesso ruolo che ebbe l’Italia tra il 1945 ed il 1991: spazi di manovra maggiori e particolare attenzione da parte del nuovo padrone (gli USA)  quale base di retroguardia dell’ariete Ucraino.

Del resto, il progetto Brezinski, era in piedi da anni ed oggi lo vediamo messo in pratica.

Mutatis Mutandis, quello che fu consentito all’Italia tra il 1945 ed il 1991, seppure entro centri limiti ed in funzione principalmente anti francese e, residualmente, anti inglese, operazione USA tendente ad addomesticare i due alleati vincitori della IIWW (i Francesi che con il Gollismo avevano una deriva eccessivamente autonoma e gli Inglesi ai quali, sostanzialmente, praticarono una fusione per incorporazione mi si passi il termine), dal 1991/1992 è stato consentito al centro europa nel suo complesso (Polonia ed Ungheria in primis) favorendone lo sviluppo economico ed una certa base industriale migliorativa del reddito procapite e conseguente modernizzazione in stile Anglo: questo ovviamente a discapito delle nazioni occidentali, Italia in primis, in un contesto di collaborazione delle stesse Elite occidentali che praticarono la delocalizzazione produttiva nei nuovi assunti dall’Anglosfera nell’Est europa a discapito delle basi industriali nazionali ma con vantaggi di profitto favoriti anche dalla moneta unica. In questo contesto bisognerebbe analizzare  e commentare il ruolo della Germania riunificata e la sua capacità, almeno allora, di guidare questo processo a proprio vantaggio mantenendo una base industriale di tutto rispetto a svantaggio di tutti gli altri in cui il ruolo monetario (l’Euro) non è stato affatto secondario

Però, proprio ora che servirebbero quelle retroguardie, l’Ungheria, se non defeziona del tutto, mette i bastoni tra le ruote: come può permetterselo?

E l’Italia? Con un governo che, almeno di facciata, dovrebbe solidarizzare con le posizioni di Orban, questo disgraziato paese non sembra cogliere nemmeno questa opportunità: così almeno sembrerebbe alla luce dell’ultima visita di Orban di pochi giorni orsono.

Ovviamente non si può sottovalutare la differenza tra le due forme di governo: non conosco il sistema Ungherese nel dettaglio ma la figura del primo ministro sembra avere un peso notevole mentre il nostro sistema costituzionale prevede la figura del Presidente della Repubblica che, come la storia recente conferma, è sostanzialmente un sorvegliante pronto a reindirizzare la politica di qualunque governo entro binari prestabiliti (non vi è giorno che il nostro PdR non esterni la irrevocabilità della scelta UE e Nato e dei valori “occidentali”). La centralità del parlamento, poi, da noi è il veicolo attraverso il quale  maggioranze differenti dal responso elettorale in quanto frutto del noto salto della quaglia, hanno dato spazio a governi tecnici forieri delle peggiori iniziative tutte eterodirette da Washington, Londra e Bruxelles.

Eppure il declino Italiano è palese e l’autocastrazione conseguita dalla decisione di interrompere i rapporti con la Russia è evidente a chiunque.

Qualche tempo fa mi è capitato di vedere un intervista a Enrico Mattei: non saprei collocarla nel tempo ma era ancora in bianco e nero. Mattei raccontava un aneddoto, senza fare nomi, relativo ad una trattativa per la costruzione di una raffineria: Mattei chiudeva l’intervista affermando che gli stranieri intesi come Stati e Mutinazionali, dovevano capire che l’epoca dell’Italia che si approcciava agli altri con il cappello in mano era finita.

So bene la fine che ha fatto Mattei anche, ma non solo, per l’opposizione alle “sette sorelle” e so anche bene che, con l’operazione Tangentopoli, una intera classe politica capace di fare, in qualche modo l’interesse nazionale, è stata cancellata e sostituita da veri e propri incompetenti, quando va bene, ovvero cotonieri (come amava chiamarli il Prof La Grassa) quando va male.

Mi chiedo tuttavia: non è rimasto veramente nulla dell’esperienza di uomini come Mattei?

Ho citato questo esempio non a caso. Mi spiego meglio: dopo la fine della IIWW, l’Italia si trovava in una situazione particolare. Era nazione sconfitta ed aveva uno dei partiti comunisti più grandi d”europa ed a due passi dalla Cortina di ferro. In quel lasso di tempo, il polo di attrazione delle masse era l’appartenenza alle due ideolologie contrapposte: il comunismo ed il liberal capitalismo ed i partiti tradizionali ne erano il collettore: è come se, in tutti quegli anni, si fosse vissuti in un tempo sospeso tra la rivoluzione che sarebbe venuta (seppure con metodi “democratici”) e la sconfitta del comunismo. Nelle more di questo tempo sospeso, in ogni caso, è indiscutibile che il paese si sia evoluto economicamente (da paese rurale a paese industriale) e socialmente. E’ altrettanto innegabile che, tra le due fazioni, si sia sviluppato un certo consociativismo e che il PCI, seppure non formalmente al governo, abbia gestito porzioni di potere.

Quel consociativismo non è stato del tutto negativo: è stato infatti capace, in alcune circostanze, di riconoscere  l’interesse nazionale e l’opera di Mattei ne è, secondo me, un esempio. Ed anche dopo la sua morte, la sua eredità ha consentito la realizzazione del gasdotto tra Europa e Urss cui ha partecipato anche l’Italia che ha così ottenuto una risorsa a basso costo: per quell’accordo, è risaputo,  si mediò attraverso Armando Cossutta i necessari contatti in  URSS e fu invece l’allora Pentapartito a mediare con gli USA i quali bloccarono l’esportazione di alcuni componenti che dovevano essere utilizzati nelle pompe necessarie al gasdotto. Ero poco più di un ragazzino e mio padre, che lavorava all’epoca per l’azienda che necessitava del componente per le pompe che dovevano essere fornite all’ENI, ne discuteva, a sera,  descrivendo le febbrili attività per la ricerca di soluzioni alternative nel mentre l’azienda, che faceva parte di EFIM, si attivava con la parte politica affinchè interagisse con gli Americani.

Come detto tangentopoli spazzò via tutto: fine delle ideologie che costituivano, comunque, polo di attrazione e fine di quel rapporto consociativo nell’interesse della nazione anche se il consociativismo è rimasto ma senza più alcun riferimento all’interesse nazionale. Anzi, direi esattamente l’opposto e cioè un consociativismo contro l’interesse nazionale.

Peraltro, anni di educazione a confondere l’interesse nazionale con il nazionalismo, hanno favorito ciò che poi è avvenuto: il paese, dopo tangentopoli, si è trovato privo di una seppur modesta guida.

Abituati per anni ad emozionarci per la patria solo nelle partite della nazionale di calcio, senza più nemmeno le ideologie, agli Italiani non è rimasto nulla.

E le conseguenze, di tale vuoto, non hanno tardato ad arrivare: panfilo Britannia, privatizzazione di aziende strategiche, liberalizzazione dei servizi, tagli alla spesa sociale, alla spesa per la ricerca, per la scuola e l’università ecc. ecc..

Si ciancia sui giornali di sovranisti ed Orban è indicato tra questi: lui ed il sovranismo sono sostanzialmente rappresentati come fascismo.

E’ quindi chiaro che parlare di patria rischia di essere, in buona o malafede, frainteso.

Tuttavia, faccio comunque le seguenti  domande scomode accollandomi i rischi di fraitendimenti, critiche ed accuse di vetero nazionalismo di ritorno: che cosa è la Patria? Può essere la Patria, una volta definitone il concetto, quella piattaforma ideale capace di creare un senso di appartenenza e di ispirazione? Può essere il filo conduttore di una politica che intenda costruire e difendere una comunità fatta di individui, famiglie, imprese ed apparati statali, in una ottica di interesse generale?

Ripeto e ribadisco: non si tratta di ritornare ai miti novecenteschi o a ideologie superate e sorpassate. Si tratta di trovare un contenitore adatto ad interpretare ed agire, come ente collettivo (lo Stato), nel conflitto strategico internazionale e, nel contempo, interpretare e gestire il conflitto interno tra le varie formazioni sociali che fanno parte dell’Italia: tutto nell’interesse della comunità che la costituisce, della sua autonomia, della sua economia e dei suoi cittadini intesi come complesso di formazioni sociali alle quali, in alcuni casi, dovranno essere chiesti (imposti) sacrifici. Sacrifici alle volte ad alcune Formazioni sociali ed alle volte ad altre formazioni sociali (il nostro WS ha ragione quando ritiene che la vera lotta non sia quella di classe ma il conflitto tra chi per vivere deve lavorare – i molti – e chi invece vive senza dover lavorare – i pochissimi -). Tuttavia compito della politica è quello di imporre anche ai pochi, qualche volta, alcuni sacrifici appunto nell’interesse di tutti.

Non sono in grado di dire se in Ungheria o in Slovacchia o nella Repubblica Ceca, le attuali formazioni politiche, sovraniste o euroscettiche che dir si vogliano, abbiano richiami ideali al concetto di Patria e con quali caratteristiche.

So però che qui, in Italia, l’assenza di un senso di appartenenza, è percepibile ed è terreno fertilissimo per produrre la disgregazione sociale, economica e politica.

In questo senso il vulnus storico di cui soffre l’Italia, dalla caduta dell’impero romano d’occidente, passando per il Medio evo, i comuni, le Signorie, le repubbliche marinare, il rinascimento, gli staterelli vari, il vaticano, fino all’unità nel 1861 nonché, dopo, anche con il ventennio poi seguito dall’epoca repubblicana, è tutta una storia caratterizzata dal perenne intervento esterno e dalla mancanza di una coscienza nazionale che, neppure l’irrendentismo ed il fascismo, sono riusciti a creare.

Insomma, ciò che descrisse il sommo poeta “ahi serva italia di dolore ostello, nave senza nocchier in gran tempesta non donna di provincia ma di bordello” era valido nel 1300 ed è valido ancora oggiusenza alcuna soluzione di continuità.

Se non si trova il modo di creare un rapporto tra enti collettivi (partiti o movimenti o quel che volete) e singoli individui, la massa, che è oggetto mai soggetto, non potrà mai essere il motore, l’energia di un ipotetico cambiamento finalizzato alla costruzione di una comunità, cioè, di una patria.

Chi scrive non ha certo le competenze necessarie allo scopo ma intuisce che in Italia, coloro che fanno parte delle elite politico/economiche, non abbiano alcun senso di appartenenza alla patria: l’attuale classe dirigente, pertanto, non è adatta a prescindere dal colore politico in quanto appositamente scelta tra incompetenti o cotonieri.

Mi chiedo, tuttavia, se tra i così detti intermedi, sia nelle istituzioni che nelle imprese, si possano scorgere barlumi di insofferenza rispetto allo status quo.

Sul punto richiamo una porzione di un recente articolo del Prof Angelo D’Orsi su l’Antidiplomatico, (qui.https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-angelo_dorsi__from_russia_with_love/39602_63351/)  il quale descrivendo un suo recente viaggio in Russia dice: “… mi ha colpito la presenza di tutti i grandi brand della moda europei e italiani in specie: Armani, Boggi, Luisa Spagnoli, Calzedonia, Stefano Ricci, Bottega Veneta, e via seguitando. Nel mio hotel (dove tutta la biancheria è etichettata Frette), c’è un meeting di imprenditori europei, con alcuni italiani: mi avvicino e provo a chiacchierare. Non preciso il settore, perché i miei interlocutori non vogliono essere sanzionati, ma mi spiegano che loro e pressocché tutti i colleghi imprenditori hanno messo a punto sistemi vari che consentono di sfuggire ai controlli sanzionatori, e continuare a fare affari in Russia. Uno di loro, sbotta: “Ma secondo lei io devo smettere di vendere ai russi perché lo dice la von der Leyen?! E la libertà di cui ciancia Draghi non è innanzi tutto quella di commerciare? Per sopravvivere, per far girare l’economia, e quindi far bene al nostro Paese!… Se io non vendo smetto di produrre, e licenzio i miei operai e impiegati. È questo che vogliono?!”. Si infervora e gli scappa qualche bestemmia. E mi saluta con un definitivo: “Questi sono pazzi o cretini, creda a me!”.Alcune aziende hanno seguito un’astuta strategia che potrei definire “di distrazione” cambiando le denominazioni ma continuando a vendere i prodotti di prima. Altre hanno delocalizzato o i luoghi di produzione o di vendita…..”

Quindi un embrione di fronda, forse, esiste.

Si tratta solo di capire se può emergere o come farla emergere.

Patria? Alcune idee in ordine sparso.

Non lasciatevi fuorviare dal titolo: questo testo è sostanzialmente una domanda cui si deve cercare di dare una risposta. Il termine patria è particolare: deriva dal latino pater, maschile ma, in italiano, si declina al femminile. I seguaci della cultura liquida dovrebbero apprezzare la circostanza.

Scherzi a parte, mi riallaccio al contributo di WS che trovare qui https://italiaeilmondo.com/2025/10/31/andate-avanti-voi_di-ws/ed al mio commento nel quale chiudevo con la domanda: ci sarà abbastanza realismo nelle pseudo elite italiane rispetto all’evolvere della situazione internazionale con particolare riferimento al teatro Ucraino ed agli ultimi messaggi di Putin?

La situazione italiana mostra da anni, ormai, un completo appiattimento se non servilismo nei confronti delle posizioni di Nato/UE e Usa. Mai una critica una differenziazione una precisazione se non limitata al dichiarato rifiuto di inviare soldati italiani in Ucraina. Ma per tutto il resto piena ed incondizionata approvazione alle decisioni NATO/UE.  Almeno questo è quello che appare  nelle dichiarazioni pubbliche ed a prescindere da chi sia il governante italiano di turno. Da Budapest, invece, ormai da anni, anche prima della crisi Ucraina, giungono sempre differenziazioni ed ora critiche aperte e, inoltre, la creazione di una piattaforma tra Ungheria, slovacchia e repubblica ceca, al fine di elaborare una condotta alternativa alla Nato/Ue rispetto alla crisi Ucraina. Quindi sorge una domanda: che differenza c’è tra Ungheria, ed ex cecoslovacchia e l’Italia? Ed ancora: posto che sia le elezioni Rumene che quelle moldave sono state palesemente alterate, perchè questo giochino non è riuscito nelle tre nazioni anzidette?

Dico la verità: in Orban non vedo una figura di spicco e/o la stazza dello Statista d’eccezione. Tuttavia, è indubbio che abbia sempre assunto posizioni critiche ed autonome rispetto alle rules of life dell’Anglosfera: o almeno, in alcune circostanze nelle quali tali regole erano non coincidenti con l’interesse del suo paese,così è stato. Se guardiamo alla storia dell’Ungheria, troviamo gli aneliti di indipendenza fin da quando faceva parte dell’Impero asburgico ed una indipendenza guadagnata nel 1918 con la dissoluzione di esso. La seconda guerra mondiale la vide alleata dell’Asse fino alla sconfitta ad opera dell’Armata Rossa con successivo ingresso nell’orbita Urss fino al 1991: nel mezzo i fatti del 1956 con la seconda invasione sovietica questa volta per ripristinarne l’orbita attorno all’URSS. Dopo, dissoltasi l’Urss ed il patto di Varsavia, ingresso nell’UE e nella Nato quindi un sostanziale passaggio nell’Anglosfera. Si può quindi dire che, a conti fatti, una vera indipendenza non ci sia mai stata essendo comunque inglobata dentro “alleanze” molto stringenti. E pur tuttavia, i magiari sembrano seguire una loro linea e quindi mi chiedo da dove derivino tali spazi di manovra.  Anche le posizioni riguardo all’immigrazione non sono assolutamente in linea con i dettami universalistici della open society abbracciati dalla UE. E dire che George Soros è proprio di origine ungherese ma non sembra abbia molto seguito nella patria di origine.

Sono consapevole che, qui da noi, il 1991 e poi tangentopoli, hanno radicalmente cambiato lo scenario: la cortina di ferro ha fatto un balzo di mille KM verso est e, quindi, il centro europa, neoassunto nell’anglosfera, poteva avere lo stesso ruolo che ebbe l’Italia tra il 1945 ed il 1991: spazi di manovra maggiori e particolare attenzione da parte del nuovo padrone (gli USA)  quale base di retroguardia dell’ariete Ucraino.

Del resto, il progetto Brezinski, era in piedi da anni ed oggi lo vediamo messo in pratica.

Mutatis Mutandis, quello che fu consentito all’Italia tra il 1945 ed il 1991, seppure entro centri limiti ed in funzione principalmente anti francese e, residualmente, anti inglese, operazione USA tendente ad addomesticare i due alleati vincitori della IIWW (i Francesi che con il Gollismo avevano una deriva eccessivamente autonoma e gli Inglesi ai quali, sostanzialmente, praticarono una fusione per incorporazione mi si passi il termine), dal 1991/1992 è stato consentito al centro europa nel suo complesso (Polonia ed Ungheria in primis) favorendone lo sviluppo economico ed una certa base industriale migliorativa del reddito procapite e conseguente modernizzazione in stile Anglo: questo ovviamente a discapito delle nazioni occidentali, Italia in primis, in un contesto di collaborazione delle stese Elite occidentali che praticarono la delocalizzazione produttiva nei nuovi assunti dall’Anglosfera nell’Est europa a discapito delle basi industriali nazionali ma con vantaggi di profitto favoriti anche dalla moneta unica. In questo contesto bisognerebbe analizzare  e commentare il ruolo della Germania riunificata e la sua capacità, almeno allora, di guidare questo processo a proprio vantaggio mantenendo una base industriale di tutto rispetto a svantaggio di tutti gli altri in cui il ruolo monetario (l’Euro) non è stato affatto secondario

Però, proprio ora che servirebbero quelle retroguardie, l’Ungheria, se non defeziona del tutto, mette i bastoni tra le ruote: come può permetterselo?

E l’Italia? Con un governo che, almeno di facciata, dovrebbe solidarizzare con le posizioni di Orban, questo disgraziato paese non sembra cogliere nemmeno questa opportunità: così almeno sembrerebbe alla luce dell’ultima visita di Orban di pochi giorni orsono.

Ovviamente non si può sottovalutare la differenza tra le due forme di governo: non conosco il sistema Ungherese nel dettaglio ma la figura del primo ministro sembra avere un peso notevole mentre il nostro sistema costituzionale prevede la figura del Presidente della Repubblica che, come la storia recente conferma, è sostanzialmente un sorvegliante pronto a reindirizzare la politica di qualunque governo entro binari prestabiliti (non vi è giorno che il nostro PdR non esterni la irrevocabilità della scelta UE e Nato e dei valori “occidentali”). La centralità del parlamento, poi, da noi è il veicolo attraverso il quale  maggioranze differenti dal responso elettorale in quanto frutto del noto salto della quaglia, hanno dato spazio a governi tecnici forieri delle peggiori iniziative tutte eterodirette da Washington, Londra e Bruxelles.

Eppure il declino Italiano è palese e l’autocastrazione conseguita dalla decisione di interrompere i rapporti con la Russia è evidente a chiunque.

Qualche tempo fa mi è capitato di vedere un intervista a Enrico Mattei: non saprei collocarla nel tempo ma era ancora in bianco e nero. Mattei raccontava un aneddoto, senza fare nomi, relativo ad una trattativa per la costruzione di una raffineria: Mattei chiudeva l’intervista affermando che gli stranieri intesi come Stati e Mutinazionali, dovevano capire che l’epoca dell’Italia che si approcciava agli altri con il cappello in mano era finita.

So bene la fine che ha fatto Mattei anche, ma non solo, per l’opposizione alle “sette sorelle” e so anche bene che, con l’operazione Tangentopoli, una intera classe politica capace di fare, in qualche modo l’interesse nazionale, è stata cancellata e sostituita da veri e propri incompetenti, quando va bene, ovvero cotonieri (come amava chiamarli il Prof La Grassa) quando va male.

Mi chiedo tuttavia: non è rimasto veramente nulla dell’esperienza di uomini come Mattei?

Ho citato questo esempio non a caso. Mi spiego meglio: dopo la fine della IIWW, l’Italia si trovava in una situazione particolare. Era nazione sconfitta ed aveva uno dei partiti comunisti più grandi d”europa ed a due passi dalla Cortina di ferro. In quel lasso di tempo, il polo di attrazione delle masse era l’appartenenza alle due ideolologie contrapposte: il comunismo ed il liberal capitalismo ed i partiti tradizionali ne erano il collettore: è come se, in tutti quegli anni, si fosse vissuti in un tempo sospeso tra la rivoluzione che sarebbe venuta (seppure con metodi “democratici”) e la sconfitta del comunismo. Nelle more di questo tempo sospeso, in ogni caso, è indiscutibile che il paese si sia evoluto economicamente (da paese rurale a paese industriale) e socialmente. E’ altrettanto innegabile che, tra le due fazioni, si sia sviluppato un certo consociativismo e che il PCI, seppure non formalmente al governo, abbia gestito porzioni di potere.

Quel consociativismo non è stato del tutto negativo: è stato infatti capace, in alcune circostanze, di riconoscere  l’interesse nazionale e l’opera di Mattei ne è, secondo me, un esempio. Ed anche dopo la sua morte, la sua eredità ha consentito la realizzazione del gasdotto tra Europa e Urss cui ha partecipato anche l’Italia che ha così ottenuto una risorsa a basso costo: per quell’accordo, è risaputo,  si mediò attraverso Armando Cossutta i necessari contatti in  URSS e fu invece l’allora Pentapartito a mediare con gli USA i quali bloccarono l’esportazione di alcuni componenti che dovevano essere utilizzati nelle pompe necessarie al gasdotto. Ero poco più di un ragazzino e mio padre, che lavorava all’epoca per l’azienda che necessitava del componente per le pompe che dovevano essere fornite all’ENI, ne discuteva, a sera,  descrivendo le febbrili attività per la ricerca di soluzioni alternative nel mentre l’azienda, che faceva parte di EFIM, si attivava con la parte politica affinchè interagisse con gli Americani.

Come detto tangentopoli spazzò via tutto: fine delle ideologie che costituivano, comunque, polo di attrazione e fine di quel rapporto consociativo nell’interesse della nazione anche se il consociativismo è rimasto ma senza più alcun riferimento all’interesse nazionale. Anzi, direi esattamente l’opposto e cioè un consociativismo contro l’interesse nazionale.

Peraltro, anni di educazione a confondere l’interesse nazionale con il nazionalismo, hanno favorito ciò che poi è avvenuto: il paese, dopo tangentopoli, si è trovato privo di una seppur modesta guida.

Abituati per anni ad emozionarci per la patria solo nelle partite della nazionale di calcio, senza più nemmeno le ideologie, agli Italiani non è rimasto nulla.

E le conseguenze, di tale vuoto, non hanno tardato ad arrivare: panfilo Britannia, privatizzazione di aziende strategiche, liberalizzazione dei servizi, tagli alla spesa sociale, alla spesa per la ricerca, per la scuola e l’università ecc. ecc..

Si ciancia sui giornali di sovranisti ed Orban è indicato tra questi: lui ed il sovranismo sono sostanzialmente rappresentati come fascismo.

E’ quindi chiaro che parlare di patria rischia di essere, in buona o malafede, frainteso.

Tuttavia, faccio comunque le seguenti  domande scomode accollandomi i rischi di fraitendimenti, critiche ed accuse di vetero nazionalismo di ritorno: che cosa è la Patria? Può essere la Patria, una volta definitone il concetto, quella piattaforma ideale capace di creare un senso di appartenenza e di ispirazione? Può essere il filo conduttore di una politica che intenda costruire e difendere una comunità fatta di individui, famiglie, imprese ed apparati statali, in una ottica di interesse generale?

Ripeto e ribadisco: non si tratta di ritornare ai miti novecenteschi o a ideologie superate e sorpassate. Si tratta di trovare un contenitore adatto ad interpretare ed agire, come ente collettivo (lo Stato), nel conflitto strategico internazionale e, nel contempo, interpretare e gestire il conflitto interno tra le varie formazioni sociali che fanno parte dell’Italia: tutto nell’interesse della comunità che la costituisce, della sua autonomia, della sua economia e dei suoi cittadini intesi come complesso di formazioni sociali alle quali, in alcuni casi, dovranno essere chiesti (imposti) sacrifici. Sacrifici alle volte ad alcune Formazioni sociali ed alle volte ad altre formazioni sociali (il nostro WS ha ragione quando ritiene che la vera lotta non sia quella di classe ma il conflitto tra chi per vivere deve lavorare – i molti – e chi invece vive senza dover lavorare – i pochissimi -). Tuttavia compito della politica è quello di imporre anche ai pochi, qualche volta, alcuni sacrifici appunto nell’interesse di tutti.

Non sono in grado di dire se in Ungheria o in Slovacchia o nella Repubblica Ceca, le attuali formazioni politiche, sovraniste o euroscettiche che dir si vogliano, abbiano richiami ideali al concetto di Patria e con quali caratteristiche.

So però che qui, in Italia, l’assenza di un senso di appartenenza, è percepibile ed è terreno fertilissimo per produrre la disgregazione sociale, economica e politica.

In questo senso il vulnus storico di cui soffre l’Italia, dalla caduta dell’impero romano d’occidente, passando per il Medio evo, i comuni, le Signorie, le repubbliche marinare, il rinascimento, gli staterelli vari, il vaticano, fino all’unità nel 1861 nonché, dopo, anche con il ventennio poi seguito dall’epoca repubblicana, è tutta una storia caratterizzata dal perenne intervento esterno e dalla mancanza di una coscienza nazionale che, neppure l’irrendentismo ed il fascismo, sono riusciti a creare.

Insomma, ciò che descrisse il sommo poeta “ahi serva italia di dolore ostello, nave senza nocchier in gran tempesta non donna di provincia ma di bordello” era valido nel 1300 ed è valido ancora oggiusenza alcuna soluzione di continuità.

Se non si trova il modo di creare un rapporto tra enti collettivi (partiti o movimenti o quel che volete) e singoli individui, la massa, che è oggetto mai soggetto, non potrà mai essere il motore, l’energia di un ipotetico cambiamento finalizzato alla costruzione di una comunità, cioè, di una patria.

Chi scrive non ha certo le competenze necessarie allo scopo ma intuisce che in Italia, coloro che fanno parte delle elite politico/economiche, non abbiano alcun senso di appartenenza alla patria: l’attuale classe dirigente, pertanto, non è adatta a prescindere dal colore politico in quanto appositamente scelta tra incompetenti o cotonieri.

Mi chiedo, tuttavia, se tra i così detti intermedi, sia nelle istituzioni che nelle imprese, si possano scorgere barlumi di insofferenza rispetto allo status quo.

Sul punto richiamo una porzione di un recente articolo del Prof Angelo D’Orsi su l’Antidiplomatico, (qui.https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-angelo_dorsi__from_russia_with_love/39602_63351/)  il quale descrivendo un suo recente viaggio in Russia dice: “… mi ha colpito la presenza di tutti i grandi brand della moda europei e italiani in specie: Armani, Boggi, Luisa Spagnoli, Calzedonia, Stefano Ricci, Bottega Veneta, e via seguitando. Nel mio hotel (dove tutta la biancheria è etichettata Frette), c’è un meeting di imprenditori europei, con alcuni italiani: mi avvicino e provo a chiacchierare. Non preciso il settore, perché i miei interlocutori non vogliono essere sanzionati, ma mi spiegano che loro e pressocché tutti i colleghi imprenditori hanno messo a punto sistemi vari che consentono di sfuggire ai controlli sanzionatori, e continuare a fare affari in Russia. Uno di loro, sbotta: “Ma secondo lei io devo smettere di vendere ai russi perché lo dice la von der Leyen?! E la libertà di cui ciancia Draghi non è innanzi tutto quella di commerciare? Per sopravvivere, per far girare l’economia, e quindi far bene al nostro Paese!… Se io non vendo smetto di produrre, e licenzio i miei operai e impiegati. È questo che vogliono?!”. Si infervora e gli scappa qualche bestemmia. E mi saluta con un definitivo: “Questi sono pazzi o cretini, creda a me!”.Alcune aziende hanno seguito un’astuta strategia che potrei definire “di distrazione” cambiando le denominazioni ma continuando a vendere i prodotti di prima. Altre hanno delocalizzato o i luoghi di produzione o di vendita…..”

Quindi un embrione di fronda, forse, esiste.

Si tratta solo di capire se può emergere o come farla emergere.

I termini “teoria” e “dottrina” nelle scienze politiche_di Vladislav Sotirovic

I termini “teoria” e “dottrina” nelle scienze politiche

Le scienze politiche (politologia/politologia) sono una disciplina scientifica generale che studia la politica. Il termine “politica” era spesso definito come l’arte di governare lo Stato (dal greco antico polis – città-Stato), ma nel corso della storia è stato inteso e trattato in modo diverso come materia di studio. Inizialmente, la scienza politica come materia di studio era solo una parte della storia generale del pensiero filosofico, ma in seguito è diventata gradualmente indipendente sotto forma di storia delle dottrine politiche, storia della filosofia politica o filosofia sociale, pensiero filosofico statale e/o giuridico, e persino come storia delle teorie giuridiche, dato che l’arte di gestire uno Stato e i suoi cittadini si basa in gran parte sull’applicazione, l’interpretazione, la realizzazione e il rispetto delle norme giuridiche ufficiali (nonché sull’applicazione della legislazione giuridica non scritta ma tradizionale e delle sue norme socio-morali sulla base delle quali un determinato ambiente sociale ha vissuto e risolto le sue relazioni interpersonali per secoli).

Il termine “filosofia” nel suo significato è sufficientemente elaborato e conosciuto e si riduce essenzialmente all’“amore per la saggezza”, cioè alla conoscenza o alla conoscenza generale (scienza) dell’uomo, cioè della sua esistenza in questo mondo o nell’altro, nonché del mondo che lo circonda, compresa una vasta gamma di fenomeni sociali e naturali che influenzano l’esistenza dell’uomo. Tuttavia, il significato dei termini “teoria” e “dottrina” rimane in molti casi specifici di ricerca, almeno per quanto riguarda le scienze politiche, indefinito o, nella maggior parte dei casi, definito in modo poco chiaro o non accettato a livello generale (globale).

Il termine “teoria” ha origini greche antiche e, in senso generale, rappresenta una conoscenza generalmente accettata come tale. Tuttavia, tale conoscenza appare anche nella pratica in almeno tre forme:

1. Conoscenza teorica che non è (o non deve essere) direttamente correlata all’applicazione nella pratica;

2. Conoscenza scientifica, ovvero conoscenza ottenuta attraverso sistemi ufficiali di verifica e prova scientifica, e che come tale diventa formalmente provata e “generalmente riconosciuta” come conoscenza accurata (provata) (ovvero conoscenza del funzionamento di un determinato fenomeno);

3. Significato ipotetico (cioè un’affermazione che non è stata ancora provata, cioè “generalmente riconosciuta”, ma che è ampiamente applicata nella pratica così com’è).

A differenza del termine ‘teoria’, il termine “dottrina” in scienze politiche è generalmente prevalente tra i teorici e gli scrittori occidentali, ma soprattutto francesi, che si occupano di storia delle scienze economiche. Tuttavia, lo stesso termine “dottrina” nelle scienze politiche può assumere un significato completamente diverso in contesti diversi, ad esempio in riferimento alle azioni di politica estera delineate da uno Stato (ad esempio, la “Dottrina Bush” del 2001, che proclamava la politica “America First”). In ogni caso, i teorici francesi ritengono che nella storia della filosofia (politica ed economica) si debbano distinguere due tipi di pensiero:

1. Conoscenze scientifiche e leggi accuratamente stabilite e ufficialmente adottate (nel senso stretto del termine – provate) relative a un determinato fenomeno che è oggetto di un determinato studio – “teoria”;

2. Opinioni, comprensioni, interpretazioni o punti di vista di determinate persone che non sono ufficialmente stabiliti come “teorie scientifiche”, ma sono utilizzati come una sorta di direttiva per azioni politiche specifiche – “dottrina” o ‘ipotesi’, che sono più o meno istruzioni pratiche per un’azione specifica, ma non conoscenze scientificamente riconosciute ufficialmente come verità provata o sviluppo provato di un fenomeno (“teoria”).

Tuttavia, il termine “dottrina” è di origine latina e deriva dalle parole doceo, docere, doctus (insegnare, essere insegnato, conoscere). Tuttavia, questo termine latino ha originariamente diversi significati, come ad esempio:

1. Conoscenza teorica che non ha ancora ricevuto conferma scientifica ufficiale come verificata, cioè conoscenza provata nella vita pratica (questo punto è praticamente identico al punto 3 della suddetta presentazione del significato del termine “teoria”);

2. Conoscenza che è essenzialmente considerata vera, ma che in senso pratico è legata all’azione (politica o economica), cioè conoscenza che non è puramente teorica. In questo caso, è importante notare che la conoscenza teorica è considerata un fatto provato, mentre la dottrina implica una sorta di istruzioni per l’azione pratica o, in politica, un ordine di eseguire un determinato compito pratico al fine di risolvere un problema pratico.

3. Conoscenza scientifica, che coincide praticamente con i punti 1 e 2 della suddetta presentazione del significato del termine “teoria”.

Tuttavia, nella pratica della ricerca scientifica nelle scienze politiche, giuridiche ed economiche, “teoria” significa conoscenza comprovata (scientifica), mentre il termine “dottrina” si riferisce a conoscenze ancora non comprovate da un punto di vista puramente scientifico – ipotesi che, in sostanza, non devono essere necessariamente errate, ma che nella pratica non sono ancora state formalmente dimostrate come scientificamente corrette, cioè vere. Nelle scienze politiche, il termine “teoria” è usato nel senso più ampio del termine per indicare la conoscenza in senso generale: quindi, come conoscenza che è stata scientificamente verificata, ma anche come conoscenza che è ancora sotto forma di opinione ipotetica non provata o conoscenza che è fondamentalmente diretta all’attività pratica di un certo gruppo di persone.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici

Belgrado, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

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The Terms “Theory” and “Doctrine” in Political Science

Political science (politology/politologia) is a general scientific discipline of politics. The term “politics” was most often defined as the art of managing the state (ancient Greek polis – city-state), but it was understood and treated differently as a subject over the course of history. Initially, political science as a subject was only part of the general history of philosophical thought, but later it gradually became independent in the form of the history of political doctrines, the history of political philosophy or social philosophy, state and/or legal philosophical thought, and even as the history of legal theories, given that the art of managing a state and its citizens is largely based on the application, interpretation, realization, and respect for official legal norms (as well as on the application of unwritten but traditional legal legislation and its socio-moral norms based on which a certain social environment has lived and resolved its interpersonal relations for centuries).

The term “philosophy” in its meaning is sufficiently elaborated and known and essentially boils down to “love of wisdom”, i.e., knowledge or general knowledge (science) about man, i.e., his existence either in this world or the next, as well as the world around him, including a wide range of social and natural phenomena that influence man’s existence. However, the meaning of the terms “theory” and “doctrine” remains in many specific research cases, at least as far as political science is concerned, undefined or, in most cases, unclearly defined or not accepted at some general (global) level.

The term “theory” is of ancient Greek origin and, in a general sense, represents knowledge that is generally accepted as such. However, such knowledge also appears in practice in at least three forms:

1. Theoretical knowledge that is not (or does not need to be) directly related to application in practice;

2. Scientific knowledge, i.e., knowledge obtained through official systems of scientific verification and proof, and which as such becomes formally proven and “generally recognized” as accurate (proven) knowledge (i.e., knowledge of the functioning of a certain phenomenon);

3. Hypothetical meaning (i.e., a statement that has not yet been proven, i.e., “generally recognized”, but is widely applied in practice as it is).

In contrast to the term “theory”, the term “doctrine” in political science is generally prevalent among Western, but especially French, theorists and writers who deal with the history of economic science. However, the same term “doctrine” in political science can mean a completely different context in terms of, for example, the outlined foreign policy actions of a state (e.g., the “Bush Doctrine” of 2001, which proclaimed the “America First” policy). In any case, French theorists believe that in the history of (political and economic) philosophy, two types of thought should be distinguished:

  1. Accurately established and officially adopted (in the strict sense of the word – proven) scientific knowledge and laws relating to a certain phenomenon that is the object of a certain study – “theory”;

2.  Views, understandings, interpretations, or opinions of certain persons that are not officially established as “scientific theories” but are used as a kind of directive for specific political actions – “doctrine” or “hypotheses”, which are more or less practical instructions for a specific action but not officially scientifically recognized knowledge of proven truth or proven development of phenomenon (“theory”).

Nevertheless, the term “doctrine” is of Latin origin and comes from the words doceo, docere, doctus (to teach, to be taught, to know). However, this Latin term originally has several meanings, such as:

1. Theoretical knowledge that has not yet received official scientific confirmation as verified, i.e., proven knowledge in practical life (this item is practically identical to point 3 from the above-mentioned presentation of the meaning of the term “theory”);

2. Knowledge that is essentially considered true, but is in a practical sense related to action (political or economic), i.e., knowledge that is not purely theoretical. In this case, it is important to note that theoretical knowledge is considered proven facts, while doctrine implies some kind of instructions for practical action or, in politics, an order to perform a certain practical task in order to solve a practical problem.

3. Scientific knowledge, which practically coincides with points 1 and 2 from the above-mentioned presentation of the meaning of the term “theory”.

However, in the practice of scientific research in political, legal, and economic sciences, “theory” means proven (scientific) knowledge, while the term “doctrine” refers to still unproven knowledge from a purely scientific point of view – assumptions, which in essence do not have to be incorrect but in practice have not yet been formally proven as scientifically correct, i.e. true. In political science, the term “theory” is used in the broadest sense of the word for knowledge in a general sense: therefore, as knowledge that has been scientifically verified, but also as knowledge that is still in the form of use as an unproven hypothetical opinion or knowledge that is basically directed at the practical activity of a certain group of people.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex-University Professor

Research Fellow at Centre for Geostrategic Studies

Belgrade, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

Per sempre di nuovo_di Aurélien

Per sempre di nuovo.

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Aurélien22 ottobre
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Di tutti i progressi nella nostra comprensione della mente umana nell’ultimo secolo circa, nessuno è più fondamentale della scoperta dell’Inconscio e della lenta comprensione del suo funzionamento, eppure nessuno ha avuto così scarso effetto sul nostro modo di pensare al mondo, nella maggior parte dei casi. Questo saggio riguarda cosa potrebbe accadere se ciò accadesse.

In teoria, le intuizioni di Freud (sì, so che aveva dei predecessori, ma non ho lo spazio per trattare tutto, mi dispiace) le precedevano tutte. Il modello meccanico delle funzioni cerebrali, l’assunto che la mente cosciente fosse tutto ciò che contava, o addirittura esistesse, la convinzione che ci fosse una corrispondenza esatta tra pensiero ed espressione, e che dicessimo ciò che intendevamo, e intendessimo ciò che dicevamo, non erano più sostenibili. Nella vita quotidiana (dove, ironia della sorte, si era sempre riconosciuta l’importanza di apparenti confusioni ed errori verbali) divenne comune parlare di “lapsus freudiani”, in inglese, e di lapsus révélateur in francese, anche tra coloro che non avevano mai letto, o sentito parlare, di Psicopatologia della vita quotidiana. Generazioni di studenti di letteratura furono introdotte all’idea che il narratore di Proust non sempre comprende le proprie motivazioni, e che quando Antonio ne Il mercante di Venezia non sa perché è così triste, è a causa dei suoi sentimenti inconfessati per Bassanio.

Solo nella psicologia accademica, ironicamente, l’idea dell’inconscio è stata disprezzata e sminuita. Nella prima metà del XX secolo, la ricerca psicologica era sotto la morsa del comportamentismo, e quindi contava solo il comportamento effettivo delle persone, non ciò che pensavano. Il rifiuto irritabile di Freud e del movimento psicoanalitico fu rafforzato dal desiderio di far apparire la ricerca psicologica una scienza “dura”, che si occupava di cose quantificabili e quindi rappresentabili su grafici e tabelle. Solo lentamente gli psicologi si sono avvicinati allo studio dei processi mentali, e sono stati infine costretti a prendere in considerazione i processi inconsci solo quando le letture hanno mostrato che nel cervello dei soggetti sperimentali accadevano cose di cui i soggetti stessi erano completamente inconsapevoli. Solo di recente gli psicologi hanno accettato a malincuore le intuizioni della psicoanalisi e a riconoscere l’enorme importanza dell’Inconscio. Ora è accettato che l’Inconscio sia fondamentale nel determinare i nostri pensieri e comportamenti, e che i processi mentali inconsci siano in realtà altamente sofisticati e adattivi, anche se ne siamo in gran parte inconsapevoli. In effetti, alcuni psicologi sono arrivati ​​al punto di suggerire che la mente inconscia svolge praticamente tutto il lavoro e che, in fin dei conti, la volontà cosciente potrebbe essere solo un’illusione.

Eppure, l’effetto di questo riconoscimento sul modo in cui vengono scritti la storia, la biografia, le scienze politiche e l’opinione pubblica d’attualità è stato prossimo allo zero, con alcune infelici eccezioni che affronteremo più avanti. Questo è, a dir poco, strano. Non si tratta qui di cercare di erigere nuove ed elaborate teorie psicologiche per spiegare eventi attuali o passati; si registra solo il pensiero che, ora come in passato, i decisori e coloro che ne scrivono potrebbero agire o parlare per ragioni di cui non sono del tutto consapevoli. Eppure, in varie occasioni nel corso dei decenni, quando ho suggerito, su carta o di persona, che questo tipo di fattori debbano almeno essere riconosciuti, sono stato accolto con ogni sorta di atteggiamento, dalla semplice incomprensione al sarcastico rifiuto. Il che è, a dir poco, curioso.

In parte, ovviamente, abbiamo a che fare con quel tipo di scientismo volgare e argomentativo del diciannovesimo secolo che ancora oggi determina il modo in cui la maggior parte delle persone pensa al mondo. La visione materialistica del mondo, sempre più abbandonata nelle ultime generazioni dagli stessi scienziati, ha ancora oggi una presa potente sul pensiero anche delle persone istruite. Ha il vantaggio di rendere facili spiegazioni ampie, di richiedere poca conoscenza di materie come la lingua e la cultura (e, in effetti, la psicologia) e di fornire spiegazioni opportunamente riduzioniste per quasi tutto ciò che accade nel mondo. Le interpretazioni rozzamente materialiste della storia e degli eventi attuali si dimostrano errate o incomplete con soporifera regolarità, eppure rimangono più potenti che mai. Gli esperti presumono che gli attori, anche nelle crisi, si comportino con incrollabile razionalità e siano guidati da motivazioni del tutto consapevoli, la maggior parte delle quali interamente materialistiche. Questo è, a dir poco, singolare.

Parte del motivo, come ho già accennato, è la sua semplicità. Questo modo di pensare si adatta perfettamente alle teorie realiste e neorealiste del comportamento statale e a molti paradigmi di comportamento politico basati sull’attore razionale. Si sposa bene con i tentativi di ridurre tutto il comportamento politico a fattori economici, iniziati con il marxismo, ma non conclusi con esso. E soprattutto evita la necessità di pensare agli attori politici come esseri umani viventi e respiranti, con le proprie fragilità, desideri e bisogni, piuttosto che come sagome di cartone che agiscono secondo un qualche modello teorico. È anche l’equivalente politologico delle teorie dell’attore economico razionale con informazione perfetta e, almeno in teoria, apre la strada a un trattamento finale del comportamento politico con il (falso) rigore intellettuale della teoria economica. Inoltre, naturalmente, Freud è attualmente fuori moda, per nessun’altra ragione ovvia se non il fatto che è nato nel diciannovesimo secolo in una società molto diversa e non aveva le stesse idee delle nostre élite culturali contemporanee. Ma nonostante ciò, oggigiorno nessuno sosterrebbe seriamente che l’Inconscio non esista affatto. (E comunque la psicoanalisi come disciplina si è sviluppata notevolmente nell’ultimo secolo.) Eppure il fatto è che le motivazioni inconsce giocano in modo dimostrabile e inequivocabile un ruolo nel modo in cui sia il grande pubblico che le élite politiche concepiscono il mondo e nel modo in cui cercano di interpretare gli eventi.

Ecco un esempio semplice e classico, che è stato effettivamente studiato dagli storici. Se si esamina attentamente il linguaggio usato dai sostenitori della guerra in Ucraina, si scopre subito che dobbiamo “fermare Putin ora”, altrimenti… accadrà qualcosa in futuro, non sappiamo cosa. Questa ingiunzione viene ripetuta all’infinito da paesi spesso molto lontani (Parigi dista circa 2500 km da Mosca, per esempio). Anzi, viene spesso ripetuta da paesi che non hanno alcun disaccordo strategico con la Russia. Quindi Gran Bretagna e Francia, tra i maggiori allarmisti, hanno intrattenuto relazioni ragionevoli con la Russia per molto tempo. Sono stati per lo più alleati e, a parte la breve guerra di Crimea e il sostegno a diverse parti in alcuni conflitti, le loro relazioni non sono state particolarmente conflittuali secondo gli standard europei. Non c’è alcuna ragione logica per cui dovrebbero essere nemici, e tanto meno combattersi tra loro.

La risposta, ovviamente, risiede nelle esperienze degli anni Trenta, e in particolare nell’autoflagellazione che le classi politiche e intellettuali britannica e francese si inflissero quasi immediatamente dopo l’accordo di Monaco del 1938, e sempre più dopo lo scoppio della guerra. Sono stati scritti interi libri su “Se solo avessimo”, “Se solo non avessimo”, “Chi sono i colpevoli?” e, soprattutto, “Questo non deve mai più accadere”. Persone come Churchill e De Gaulle, che all’epoca non erano al governo, riuscirono a imporre una narrazione di debolezza e codardia di fronte all’aggressione che dominò a lungo la narrazione storica del periodo e che non è ancora stata superata. E quando inglesi e francesi si stancano temporaneamente dell’autoflagellazione, gli americani sono sempre pronti a intervenire per colmare il vuoto. “Qualcosa”, a quanto pare, si sarebbe dovuto fare, ma come spesso accade in questi casi, quel qualcosa non può essere effettivamente definito e non va mai oltre la fase esitante di “resistere all’aggressione” o qualcosa di simile. L’idea che in qualche modo la Germania avrebbe potuto essere persuasa o costretta ad accettare per sempre le disposizioni di Versailles, o in alternativa avrebbe potuto essere duramente bastonata in una rapida guerra preventiva, continua a circolare in assenza di prove a sostegno.

A questo punto, è importante ricordare che la cosa più fondamentale, ma anche la più sorprendente, della mente inconscia è che non ha il senso del tempo. È sempre presente. Lo sappiamo per esperienza personale: un trauma, una delusione, un errore di giudizio di decenni fa, se non affrontati, producono oggi gli stessi sintomi fisici ed emotivi di allora. Probabilmente abbiamo tutti incontrato persone che hanno fatto qualcosa di cui si sono amaramente pentite quando erano molto più giovani e che inconsciamente mettono in atto rituali di espiazione per tutta la vita, come se il passato potesse essere cambiato. E naturalmente, dal punto di vista dell’inconscio, dove il tempo è sempre presente, potrebbe esserlo. Esistono diverse terapie per cercare di portare alla luce questi conflitti e forse dissiparli, ma nulla di simile, per quanto ne so, è disponibile per la classe politica occidentale.

Ciò che colpisce è come l’impulso all’espiazione, in questo caso, fosse inizialmente relativamente palese, e nel corso dei decenni sia scivolato impercettibilmente nell’inconscio. Il mantello del nuovo Hitler e del nuovo regime nazista è stato posto sulle spalle di destinatari improbabili: ma d’altronde l’inconscio ha una sua logica particolare. Alla fine degli anni Quaranta, si pensava ampiamente, e si sosteneva spesso, che Stalin stesse semplicemente ripetendo il modello di conquista territoriale di Hitler, e che quindi dovesse essere fermato. Negli anni Cinquanta, Nasser era il “nuovo Hitler” e la sua Filosofia della Rivoluzione era il nuovo Mein Kampf. Gli inglesi e i francesi si congratulavano con se stessi perché l’operazione di Suez aveva almeno impedito la distruzione di gran parte dell’Africa da parte di Nasser. Negli anni Sessanta, Patrice Lumumba era il nuovo uomo pericoloso, proprio mentre si temeva che la vittoria del FLN in Algeria avrebbe aperto la strada a un’invasione sovietica dell’Europa meridionale. La teoria del domino che portò alla guerra del Vietnam fu essenzialmente un esempio di questo modo di pensare, così come la reazione occidentale all’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, ma a questo punto le reazioni dei leader occidentali avevano perso ogni contatto con gli eventi degli anni ’30 ed erano diventate in gran parte inconsce. All’epoca delle due guerre contro l’Iraq o del bombardamento della Serbia, allora, secondo la mia osservazione, queste idee si erano praticamente ritirate completamente nell’inconscio, lasciando solo vaghe tracce verbali nella mente cosciente a significare la loro presenza.

Ma come hanno sempre detto gli analisti, ciò che conta davvero non è ciò che le persone vogliono dire, ma ciò che effettivamente dicono e ciò che rivelano inavvertitamente. La crisi ucraina è un classico assoluto, l’epitome di come generazioni di sensi di colpa e tentativi di espiazione, di abuso della storia per scopi politici di parte e di uso di emozioni represse come scuse per giustificare guerre ovunque siano finalmente sprofondate così profondamente nell’inconscio che i partecipanti non sanno più nemmeno perché pensano ciò che pensano. E in effetti, qualsiasi osservatore imparziale dovrebbe concludere che la crisi ucraina incontrollata è disperatamente e inespertamente guidata dal lato occidentale da un gruppo di leader di capacità rigorosamente moderate che, francamente, ora non hanno la minima idea di cosa stiano facendo . Questa è, ovviamente, una prospettiva spaventosa per chi è occidentale, ed è comprensibile che alcuni abbiano cercato conforto nell’immaginare un gruppo oscuro e anonimo di manipolatori che sanno cosa stanno facendo, mentre altri hanno sostenuto che ovunque ci trovassimo in un dato momento, il Piano era sempre stato in atto. (Tornerò tra un attimo all’origine di tali idee.) Ma se ci pensate, se accettate che la maggior parte del nostro comportamento nella vita quotidiana è determinato da fattori inconsci, non dovrebbe essere altrettanto vero per le crisi politiche, con il loro panico, lo stress e la mancanza di informazioni?

Eccoci qui, guidati da persone a malapena consapevoli di ciò che stanno facendo e del perché, che vivono un’allucinazione collettiva e giocano a prendere le decisioni che i loro bisnonni avrebbero dovuto prendere ma non hanno fatto. Così, la “guerra” che alcuni leader ed esperti occidentali immaginano oggi con leggerezza contro la Russia è simbolicamente la guerra di aggressione non combattuta contro la Germania del 1938-39, proprio come l’armamento dell’Ucraina è una sorta di espiazione per il mancato invio di armi al governo repubblicano in Spagna durante la Guerra Civile: un’azione che molti hanno sostenuto (erroneamente, a mio avviso) avrebbe potuto impedire la Seconda Guerra Mondiale. E per quel che vale, dal punto di vista dell’argomentazione, a sostegno della Russia c’è la motivazione inconscia di combattere simbolicamente la guerra preventiva non combattuta che avrebbe potuto (e alcuni pensano avrebbe dovuto) essere scatenata da Stalin nel 1941. Ci sono alcune prove che l’attuale leadership russa sia guidata da questi stessi impulsi inconsci, ma non ne so abbastanza sulla Russia per poter esprimere un giudizio.

Questo è tutto ciò che dirò direttamente sull’Ucraina, poiché ho già trattato ampiamente altri aspetti della questione altrove. Vorrei passare a modi in cui potremmo comprendere più genericamente l’influenza dell’inconscio sulla psiche dei decisori, con esempi concreti, ma prima sono necessarie alcune precisazioni.

Tanto per cominciare, la mia argomentazione non ha alcuna relazione con la psicologizzazione popolare di personaggi storici, come se potessimo entrare nei loro crani. (“Cosa avrà pensato Napoleone mentre salpava dall’Oceano Atlantico da Sant’Elena nel 1816?” Non ne abbiamo idea e sarebbe uno spreco di tempo e di energie speculare). Né è correlata alla moda della psicoanalisi amatoriale di persone decedute, come nei tentativi di spiegare la Seconda Guerra Mondiale facendo riferimento all’infanzia apparentemente travagliata di Hitler. E non è nemmeno fattibile cercare di costruire una sorta di teoria generale dell’Inconscio nella Storia, proprio perché i contenuti della mente inconscia differiscono da persona a persona, così come gli effetti dell’Inconscio e le circostanze in cui questi effetti diventano importanti. Inoltre, la maggior parte delle decisioni politiche viene presa da gruppi (anche se un leader ha l’ultima parola) e quasi per definizione i contenuti del mio inconscio non sono i contenuti del tuo. Solo in casi come quello sopracitato, che ho chiamato sindrome di Monaco, si può parlare di un’influenza collettiva della mente inconscia più o meno nella stessa direzione e su larga scala.

In ogni caso, non dovremmo denigrare l’inconscio con leggerezza: ne abbiamo bisogno. Se ogni pensiero, parola e azione dovesse essere preparato ed eseguito consapevolmente, non saremmo in grado di vivere. Il problema è cosa c’è nell’inconscio, se è pericoloso in un dato caso, e perché coloro che scrivono con erudizione sulle cause della guerra non prendono mai in considerazione le intuizioni della psicologia, rifugiandosi invece in fuorvianti banalità sull’aggressività umana istintiva. L’influenza dell’inconscio non è sempre negativa, né le decisioni che propone, e per le quali la mente conscia deve trovare una giustificazione, sono necessariamente sbagliate o inadeguate.

Infine, e cosa più importante, il fatto che le decisioni siano in gran parte prese dalla mente inconscia non significa che siano necessariamente casuali o irrazionali. Dopotutto, è abbastanza chiaro che tutte le decisioni e i discorsi sono in qualche modo influenzati dalla mente inconscia. In effetti, gli psicologi ci dicono che in casi estremi – ad esempio nei paranoici – questi processi possono essere, e spesso lo sono, razionali e coerenti. Potete verificarlo visitando qualsiasi sito di cospirazionismo, dove personalità anal-ritentive con troppo tempo a disposizione usano argomentazioni ingegnose e ricerche estremamente dettagliate per cercare di convincerci che, ad esempio, Paul McCartney morì in un incidente d’auto nel 1966 e fu sostituito da un sosia, o che i nazisti fuggirono in Antartide nel 1945 a bordo di un disco volante.

Se si accetta l’ovvia ipotesi che l’inconscio sia presente tanto nel processo decisionale in caso di crisi, nello scrivere e nel parlare di essa, quanto nella vita di tutti i giorni, allora ci si aspetterebbe di vedere ripetuti schemi comuni della vita quotidiana, e in effetti è così. Basteranno alcuni semplici esempi. Uno è la semplice cecità a ciò che non vogliamo vedere. Pertanto, sia gli amici che i nemici trattano ancora gli Stati Uniti come se fossero una potenza militare decisiva in Europa, quando in realtà non hanno forze militari in grado di fare la differenza nei combattimenti in Ucraina. Questa è una di quelle scomode verità di cui decidiamo semplicemente di non parlare, come l’imminente necessità di rimborsare un prestito o la preoccupante rata che non vogliamo ammettere possa essere maligna. L’inconscio ci protegge dalla necessità di fare qualcosa per affrontare la nuova situazione.

Un caso parallelo è la nostra capacità di dimenticare e distorcere fatti scomodi, e di rimanere convinti della loro verità anche sotto pressione. Mi è stato detto da diverse persone presenti all’epoca , ad esempio, che i bombardamenti NATO sulla Jugoslavia furono una risposta all’espulsione degli albanesi, sebbene una semplice occhiata alle notizie dell’epoca, per non parlare dei miei ricordi, dimostri che ciò è sbagliato. Ma inconsciamente, le persone invertono causa ed effetto in tali situazioni per apparire virtuose. Ci sono molti altri casi di “buco della memoria”: uno di questi è la convinzione, ormai comune, che la Siria non avesse armi chimiche nel 2013, sebbene il governo le avesse ammesse e che fossero state ritirate sotto controllo internazionale. In entrambi i casi, l’inconscio funziona come un potente editor, plasmando e semplificando i nostri ricordi (come dimostrano inevitabilmente i miseri risultati dell’affidarsi alle prove dei testimoni oculari nei casi giudiziari).

Un caso correlato è quello in cui la mente inconscia si ritrae in preda al disordine da un problema troppo grande e spaventoso da risolvere o comprendere. Sarebbe interessante sapere, ad esempio, se i leader mondiali e i loro consulenti riuniti alle riunioni della COP sull’ambiente siano consapevoli dello stato del clima mondiale e di ciò che probabilmente accadrà. Ci sono cose che sono semplicemente troppo opprimenti da assimilare, e la nostra mente inconscia le nasconde alla nostra normale coscienza. Ci pensavo di recente leggendo diversi articoli sul cessate il fuoco di Gaza che si presentavano come disinteressati e che si soffermavano amorevolmente sull’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e sulla necessità di assicurarsi che Hamas non prendesse parte al prossimo governo, ma non si sono nemmeno soffermati a menzionare le morti palestinesi , nemmeno per minimizzarle. Questo è l’inconscio che trattiene cose angoscianti che non riusciamo a elaborare fuori dalla mente cosciente, ed è ragionevole scommettere che molti leader europei e i loro consulenti si trovino probabilmente in questa situazione.

La domanda è quindi se esistano modi per pensare alla mente inconscia in modo più organizzato e se possiamo avvalerci del lavoro di qualcuno che ne sa molto più di me su questi temi. Vorrei suggerire che alcuni lavori di Jacques Lacan potrebbero essere utili in questo caso.

Ora, ci sono un paio di avvertenze di sicurezza da dare prima. Lacan era un pensatore notoriamente, e deliberatamente, complesso e difficile, che cambiò idea su diverse questioni importanti nel corso degli anni e non cercò un vasto pubblico, preferendo limitare il suo pubblico ai colleghi professionisti. Pubblicò poco durante la sua vita e la sua eredità è una serie di seminari settimanali nella seconda metà della sua vita, successivamente dattiloscritti e pubblicati lentamente in forma rivista nel corso degli anni, dopo la sua morte nel 1980. Non è chiaro se siano già stati tutti pubblicati, ma se vi sentite coraggiosi potete trovare una copia delle trascrizioni qui . Inoltre, la complessità del suo pensiero e della sua espressione rendeva difficile una traduzione accurata, e non è esagerato affermare che molte delle scuole più impenetrabili della moderna teoria sociale americana traggano origine da incomprensioni di ciò che Lacan diceva. (Niente di che, se non un risultato piccante per uno psicoanalista.) I risultati della sua influenza sono quindi alquanto ambigui.

Ciononostante, vorrei analizzare e prendere un paio delle idee più interessanti e utili di Lacan, e vedere dove ci portano. Ognuna è preziosa: nessuna, come ci si aspetterebbe, è del tutto originale. In ogni caso le delineerò brevemente e poi passerò a spiegare come ritengo possano essere utili per comprendere sia come vengono gestite le crisi politiche, sia come vengono interpretate e descritte. Se siete interessati ad approfondire, ci sono diverse buone guide al pensiero di Lacan in inglese, di cui la più recente e meno tecnica è quella di Todd McGowan, che ha anche un canale YouTube informativo.

La prima è l’idea dell’Ordine Simbolico, che è la struttura che sottende tutte le nostre azioni e conferisce loro significato. È il modo in cui comprendiamo la realtà e, attraverso il linguaggio, comunichiamo con gli altri. L’Ordine Simbolico non è facoltativo e noi siamo sempre soggetti ad esso. Ora, questo sembra strutturalismo, e in effetti gli studenti di Lacan hanno trovato chiari precedenti in Lévi-Strauss e Saussure , ma Lacan si sforza di non presentare il Soggetto come una vittima indifesa dell’Ordine (come potrebbero fare Marcuse e Foucault), bensì come un individuo attivo e soggettivo. L’Ordine Soggettivo stabilisce una serie di concetti (alcuni li hanno chiamati “finzioni”) che permettono al Soggetto di orientarsi, ma non esiste una struttura complessiva visibile, e in effetti agisce solo indirettamente. Questi concetti non sono necessariamente coerenti tra loro, né tantomeno coerenti, e non si impongono a noi. Accettiamo quelli che meglio corrispondono alle esigenze della nostra psiche. Naturalmente non c’è motivo per cui i concetti debbano rispecchiare fedelmente l’ordine reale delle cose, e questo è un punto importante su cui torneremo tra un attimo.

Il linguaggio è fondamentale qui, e Lacan eredita da Saussure l’idea che non vi sia alcun legame tra le parole stesse (significanti) e gli oggetti a cui presumibilmente si riferiscono (il significato). Il linguaggio non si riferisce quindi alla realtà degli oggetti. Nella misura in cui esiste una relazione, questa è negativa: quindi, dice Saussure, il significante “bambino” è semplicemente inteso convenzionalmente come “non adulto”. Ma mentre per Saussure il significato è più importante, per Lacan, in quanto psicoanalista, il significante – in questo caso le parole effettivamente usate – è ciò che conta davvero, perché il significante rappresenta il funzionamento della mente inconscia: come, se vogliamo, l’inconscio sceglie di rappresentare il mondo materiale agli altri e a se stesso. Un esempio evidente e rilevante è il significante “aggressione”, il cui uso pressoché infinitamente variabile ci dice molto sulla persona che lo usa e su come vede il mondo. Da giovane, un certo tipo di persona si chiedeva “come possiamo fermare l’aggressione statunitense in Vietnam?” Comunicando così in forma sintetica, seppur inconsciamente, un’intera filosofia politica. Oggigiorno, se qualcuno ti dice che la guerra in Ucraina è il risultato di un'”aggressione della NATO” (e che non sta lavorando per il governo russo), questo comunica allo stesso modo, seppur inconsciamente, un’intera visione del mondo, e ti permette di prevedere le sue opinioni su una vasta gamma di altre questioni.

Inoltre, non tutte le parti dell’Ordine Simbolico hanno lo stesso status: alcuni significanti hanno uno status più elevato di altri. Pochi movimenti politici abbracciano volontariamente il significante “estremo”, ad esempio: è considerato un significante di basso status, indipendentemente dalle politiche effettive che il movimento può abbracciare e da come sarebbe stato descritto in passato. Allo stesso modo, i significanti vanno e vengono di moda: “patriottico” nel corso della mia vita si è trasformato da un significante ampiamente positivo a uno prevalentemente negativo, come dettato da misteriose regole di interpretazione. È noto che i gruppi politici violenti fanno tutto il possibile per evitare il significante “criminale”, sebbene le loro attività lo siano innegabilmente secondo le leggi del loro paese. L’IRA era pronta a far morire di fame alcuni dei suoi uomini per cercare di cambiare il significante in “prigioniero politico”. In questi casi, ovviamente, la realtà, il significato, non è cambiato affatto. E gli effetti possono essere piuttosto profondi. Cinquanta o sessant’anni fa, i giovani maschi tendevano prevalentemente ad attrarre significanti idealizzati come “avventuroso”, “autosufficiente”, “maturo” e “affidabile”, a cui erano incoraggiati ad aspirare. Oggigiorno, i giovani maschi sono prevalentemente rappresentati come “violenti” e “sessualmente aggressivi” e, con sorpresa generale, lo sono sempre di più. Come semini, così raccogli.

Sebbene Lacan non abbia discusso l’uso politico dei significanti, alcuni di coloro che sono stati influenzati dalle traduzioni inglesi della sua opera lo hanno fatto. Le femministe hanno sottolineato che diverse professioni (vigile del fuoco, lattaio) usavano il suffisso “man” e, confondendo le parole tedesche originali Man, una parola neutra che significa “qualcuno” o “una persona”, e Mann , una parola maschile che significa, appunto, “uomo”, hanno sostenuto che usare una parola diversa avrebbe incoraggiato le donne a intraprendere nuove attività lavorative. In una certa misura, questo è stato implementato: l'”uomo della spazzatura” della mia giovinezza è ora un “addetto allo smaltimento dei rifiuti”, sebbene non disponga di dati sulla partecipazione femminile in quell’ambito. Ma, cosa ancora più importante, c’è una tendenza politica moderna a cambiare il significante in qualcosa che distorce o maschera attivamente ciò che il significato è in realtà. Quindi “senza fissa dimora” suona come se una persona fosse solo temporaneamente a corto di una casa, “senza documenti” suggerisce che un immigrato illegale semplicemente non abbia ancora ricevuto i documenti per qualche errore, “in cerca di lavoro” maschera il fatto che la persona in questione potrebbe essere stata licenziata e le attribuisce la responsabilità di trovare un impiego. Più seriamente, forse, rappresentare Gaza come una “guerra” porta con sé tutta una serie di presupposti e norme, molti dei quali naturalmente inconsci, che hanno l’effetto pratico di cambiare ciò che pensiamo degli eventi sul campo: il significato.

Il secondo concetto che voglio discutere è il Grand Autre, tradotto in modo un po’ poco elegante come il Grande Altro. Con questo, Lacan non intende autorità formali come il governo, ma piuttosto una sorta di autorità sociale i cui dettami seguiamo e che struttura le nostre vite, e che ci permette di dare un senso al mondo e di comunicare tra noi (piccoli) altri. Tuttavia, e ancora una volta in contraddizione con gli strutturalisti, Lacan è molto chiaro sul fatto che il Grande Altro non ha un’esistenza oggettiva. È un costrutto umano collettivo, fatto di regole e consuetudini che creiamo per noi stessi (se questo sembra improbabile, basta pensare al cortile di una scuola). Noi reifichiamo il Grande Altro, cerchiamo la sua approvazione e il suo riconoscimento e ne ricaviamo la nostra identità simbolica. Ma poiché in realtà non esiste, non possiamo mai soddisfarlo, e poiché è un costrutto collettivo di nostra concezione, non può fornirci una guida utile.

Il Grande Altro si manifesta in molte forme, alcune delle quali in competizione tra loro. Nella sua forma originale, si tratta ovviamente dell’Autorità Genitoriale: non dei nostri genitori umani, veri e imperfetti, ma del concetto che creiamo attorno a loro. Ai tempi in cui l’educazione dei figli era più severa di oggi, l’adolescenza era il momento della sfida e della liberazione da questo Grande Altro, e della sua sostituzione con regole sociali più ampie. Oggigiorno, in un mondo di adolescenza permanente, molti dei nostri leader ed esperti continuano a combattere con il loro Grande Altro genitoriale: Putin, ad esempio, è per molti di loro la figura del genitore severo che, a differenza dei loro, non permette loro di ottenere tutto ciò che desiderano, come l’Ucraina. E le illusioni che abbiamo sui nostri genitori quando siamo piccoli – onniscienti, onnipotenti, onniscienti, con rituali misteriosi che non comprendiamo – vengono trasferite man mano che cresciamo in astrazioni immaginarie come il Patriarcato o lo Stato profondo, o addirittura proiettate sulle agenzie di intelligence della vita reale, la cui conoscenza e i cui poteri sono illimitati e il cui funzionamento è per sempre misterioso.

Ma, dice Lacan, liberarci dal Grande Altro genitoriale, se ci riusciamo, significa solo cercare altri Altri. Cerchiamo convalida, status e riconoscimento da altri costrutti collettivi immaginari. Alcuni sono ovvi – il sistema legale, i codici sociali dominanti, la religione organizzata – ma altri sono più indiretti e più interessanti. Esiste un Grande Altro politico dominante, dove il prezzo per l’ammissione e il riconoscimento è avere le Giuste Opinioni. Lo possiamo vedere al momento con l’Ucraina e Gaza. Ma ci sono anche Grandi Altri dissidenti o trasgressivi, dove gli individui cercano riconoscimento e status proprio perché non hanno le Giuste Opinioni o il Giusto Comportamento. A dieci minuti di macchina da dove sto scrivendo ci sono comunità in cui status e riconoscimento derivano dalla disobbedienza alla legge, dall’uso della violenza e dal guadagno rapido di molti soldi, e dove il Grande Altro è la criminalità organizzata legata alla droga.

Non è impossibile sfuggire agli effetti del Grande Altro (anzi, Lacan lo considerava uno degli obiettivi della psicoanalisi), ma è molto difficile. I veri individualisti sono estremamente rari, ed è per questo che, ad esempio, ogni volta che seguo il link di un blog che “smaschera le bugie” sull’Ucraina o su Gaza ed è orgogliosamente indipendente e ferocemente anticonformista, trovo che dica esattamente la stessa cosa di qualsiasi altro blog orgogliosamente indipendente e ferocemente anticonformista che smaschera le bugie ecc. Per molti versi, questo non sorprende. Al di là della nostra esperienza di vita immediata, e forse della conoscenza e dell’esperienza professionale, pochi di noi hanno effettivamente ciò che serve per giudizi autenticamente indipendenti: tutto ciò che abbiamo è la scelta tra i Grandi Altri. Questo non significa che non abbiamo o non dovremmo avere opinioni personali, ma se iniziamo a diffonderle e ad aspettarci che gli altri ci ascoltino, dobbiamo accettare che in pratica stiamo cercando l’approvazione e la convalida di un Grande Altro o, al contrario, venendo rifiutati ed emarginati, cerchiamo l’approvazione di un Altro Grande Altro. È noto che non esiste nessuno più conformista del radicale anticonformista: solo il Grande Altro è diverso.

È importante capire cosa significa e cosa non significa. L’Inconscio non è qualcosa di cui aver paura, non è un residuo primitivo di violenza e terrore, e le decisioni che prende (che sono la maggior parte) non sono intrinsecamente peggiori di quelle prese dalla mente cosciente. Senza di esso non potremmo funzionare. Ma come suggerisce il nome, è al di là del nostro controllo cosciente e non ha il senso del tempo: è sempre Ora. Alcuni trovano questo spaventoso e scoraggiante, e non sorprende che ci sforziamo molto per trovare spiegazioni razionali e consapevoli per le decisioni prese dall’Inconscio, proprio come a nostra volta ci sforziamo molto per trovare spiegazioni razionali e consapevoli per le decisioni di governi e organizzazioni che sono ovviamente per lo più il prodotto di forze inconsce.

In realtà, ben poco di quanto detto sopra dovrebbe essere controverso. Considerate: ci sono due possibilità. O tutti i giudizi, le decisioni e i discorsi tendono a basarsi in modo sproporzionato sull’Inconscio e su motivazioni, speranze e paure inconsce, oppure, in modo univoco, nel caso della gestione e della scrittura di crisi politiche, solo la mente cosciente è coinvolta, e tutti (o almeno un ipotetico Grande Altro) sanno esattamente cosa stanno facendo. (Quel suono che avete sentito era quello di Guglielmo di Occam che affilava il suo rasoio.) Il problema non è se questa immagine di come funzionano le cose sia vera (dato che ovviamente lo è), ma come la utilizziamo per comprendere meglio il mondo. Ho cercato di avanzare qui alcune timide proposte.

In lode di Niccolò (e Giovanni)_di WS

Mi è piaciuto  questo  articolo .

Non solo perché  è raro  che i francesi  non denigrino   qualcosa  di italiano ,    ma anche perché  è   scritto bene  seppure  teso a  rinforzare il punto di vista   dell’autore.

Soprattutto è interessante  che  nel  tracollo  della  civiltà occidentale si riscopra Machiavelli.

 Quindi   val la pena    evidenziare la  complessità   di  quel suo pensiero  che lo  rende ancora  un maestro della politica , ma  anche  evidenziarne  le  peculiarità  di  uomo del  suo  tempo  e    di  ciò  che  di quel pensiero politico allora ne impedì l’applicazione pratica.

Premetto  per i pochi interessati  che  questo  commento  sarà un po’  più lungo  del solito e poco  attinente   alla  geopolitica  corrente.

Diciamo  subito che la distanza  tra  teoria  e pratica in politica  non è una  quisquilia perché  dipende  da una miriade di fattori  spesso anche  casuali.  In politica ,  per il successo personale  la semplice  teoria non basta,  come  dimostrò  il   più pratico    Guicciardini.

Tra il  Machiavelli  e  il Guicciardini   il  pensiero politico  non era molto dissimile, anzi  pare  che i due  furono anche  amici; ma il  Guicciardini  servendo  sempre e soltanto “i Grandi”   ebbe un enorme  successo personale; il  Machiavelli, al contrario,  servendo  solo le sue idee  rimase  sostanzialmente un “fallito”.

La differenza  è che  seppur oggi gli aristocratici  discendenti del Guicciardini vendono un ottimo vino, nessuno  rilegge il Guicciardini   mentre  si rilegge Machiavelli   e non ci sono suoi  discendenti   che vendono  vino con il suo nome.

E io sono sicuro  che Machiavelli  sarebbe contento così.

Perché  innanzitutto  diamo  giustizia al  Machiavelli? In lui  non c’era altra  motivazione personale  che   quella  degli “eroi”: la gloria  conseguita  con merito.

E   c’era anche  una  grande  tensione morale. Lui  non era quel  cinico  che  Federico il grande cercò poi  di  rivelarsi;  lui  sì,  un cinico “politico di  successo”.

Machiavelli invece  semplicemente   descriveva  i meccanismi del potere  come  essi sono  sempre  stati e sempre  saranno  all’ interno   dello  “Stato” inteso come organizzazione di  ogni società umana.  

Machiavelli  non era nemmeno un antireligioso, ma uno che prende atto che la Religione non basta a moderare il male  nella vita umana  e  che  in questo    essa deve  essere   supplita   dall’etica  di uno Stato  dotato  della forza necessaria ad imporla   ad uomini  intrinsecamente  cattivi.

E  non è quindi un caso  che  questa   conclusione     sia   stata apprezzata  da  tanti pensatori marxisti. La differenza, però,  è che Machiavelli non si illude  che l’ indole umana sia  modificabile  da uno  Stato  che si proclama “  etico”, perché    sa bene   che anche  dietro  quello  Stato  ci sarebbero in posizione  di potere  uomini intrinsecamente  cattivi   sempre pronti   a diventare  così    dei “Grandi”   a spese altrui.

Per Machiavelli  quindi  l’ unica  forma  di Stato  utile    è  quella  “repubblicana”  nella quale un gruppo  di uomini liberi   gestiscono  la “cosa pubblica”  con la prima  e principale  attenzione  a  che nessun  uomo  di “virtù”  (   “virtù”     machiavellica   appunto ) possa  coartare     gli interessi  di tutti gli altri ,  così che  a   questi  uomini, potenzialmente  “Grandi”,    resti solo il servizio  dello Stato  come  unico campo dove  esprimere la propria  “virtù”.

Una posizione  di potere   che  però non è una  sinecura; la  repubblica  punisce  severamente  i dirigenti fedifraghi , incapaci  ed inetti ).   Né è trasmissibile  a membri  della propria “familia”, nel senso   romano,  se non  attraverso un nome   reso  grande  da  grandi cose   fatte  ad  esclusivo vantaggio della Repubblica.

Ed in questo,   sì, la “repubblica”  di Machiavelli  è  la “repubblica  romana”     descritta  nei libri di  Tito Livio,  cosa che non era  certo la   “repubblica  fiorentina” che  Machiavelli  servì  con impegno  venendo poi  sempre “sorpassato”  da   incapaci   membri di consorterie  , per poi  essere  alla fine pure punito  dai  Medici,  tornati  momentaneamente  “signori”  a  Firenze.

Recuperata  comunque la fiducia  di costoro,   tornando  quindi  a  servire  lo Stato   fiorentino,     ne fu poi espulso  alla seconda cacciata  dei Medici  come  “pallesco” .

Machiavelli  allora   opportunista e banderuola  come milioni di “ordinari”  italiani ? No,   solo  la  coerente  ambizione  a  servire  il SUO  “ Stato”   sapendo  di poter  svolgervi  un grande    servizio, sempre  comunque malpagato per altro.

Ma  è  proprio  nella sua  attività di uomo di Stato   e di pianificatore militare che  si evidenziano  i limiti  di Machiavelli, grande  analista  e teorico  politico, a  disbrigarsi nella  gestione pratica   della politica.

Sia  chiaro, niente di male in questo; piuttosto l’ evidenza   che    teoria e pratica   in politica  sono  cose  estremamente  diverse  perché    “la politica  è l’ arte del possibile”.  In politica  si può   definire  una teoria , ma nella pratica   si deve operare  solo nel campo del possibile

Perché, oltre  che una grande  tensione morale, Machiavelli  aveva    anche  una    coscienza “nazionale”   che  però  non andava molto  oltre  la sua Firenze. Se infatti Machiavelli  vedeva il  disastro  che  si stava  appressando  su una  Italia  divisa  ed imbelle, di fatto si preoccupava  soprattutto   dello  “Stato”  che conosceva.  Se  certamente  capiva   il limite  di una Italia   che non aveva mai superato   la dimensione    degli “  Stati   regionali”,  non sognava  certo   “l’ Italia  “  di Dante.

 Machiavelli   studiava  i meccanismi    della politica  e poteva  anche simpatizzare  per il “Valentino”   che  si stava  costruendo  un suo  stato personale   a spese     di tanti “signorotti”   e in prospettiva  anche  di Firenze; ma  serviva  solo lo Stato  fiorentino.

Il  quale   era   allora   giustappunto  l’ unica  “repubblica”  italiana  di un peso  “passabile”    sebbene  il cui “populus”  e   il  suo “senatus”  erano però     con  caratteristiche  ben  diverse  dal   modello  romano. E soprattutto era  diverso   il tipo  di guerra  combattuta nel 1500  da quella  di  1800 anni prima. Fallì così  ovviamente il Machiavelli  nella   sua costruzione  pratica   della milizia fiorentina.

E  qui  si apre un interessante  capitolo  sulla interazione intervenuta  tra lui  e Giovanni delle Bande Nere  .

Narrano infatti le cronache  che,  essendo venuto  a passare in Firenze  Giovanni con   le sue “bande” e avendo  il Medici  e il Machiavelli  discusso   di  tattica militare  e di ordini di battaglia, Giovanni  dimostrò al Campo di Marte  come le sue “bande”  superassero  agilmente le milizie  fiorentine  schierate “alla  romana”  e  come invece  quest’ultime , scegliendovi un gruppo più piccolo   meglio selezionato e molto più mobile   si comportassero molto meglio  quando    gestite  dallo stesso  Giovanni.

Perché in politica  anche la migliore  teoria    si  scontra sempre  con la realtà e  i cittadini fiorentini del 1500  non potevano  essere  organizzati in una “formazione quadrata”  come  ancora potevano  esserlo i montanari svizzeri  e , seppur in misura minore, anche i contadini spagnoli.

Quella lezione,  poco dopo,   Giovanni  la  stava  appunto  impartendo  ai lanzichecchi  che   calavano in Italia    se  non vi fosse morto per il tradimento  dei principotti padani.

La grandezza  così inespressa  di Giovanni che forse,  se non fosse morto così giovane,  avrebbe  fatto   un’ ALTRA Italia, fu  dimostrata  dalle   sue  “bande”,  che  seppur  “ decapitate” continuarono  la loro  guerra di  decimazione       della  soldataglia  imperiale   finché    lo  stesso papa Medici gli ordinò     il “ disbando”   dopo la sua resa a Carlo V.

E in  quelle  “bande nere”   si  era  distinto  anche  quel Ferrucci   che  fu chiamato  dalla  seconda  repubblica fiorentina   a difendere  Firenze    dall’ attacco degli imperiali   cosa  che fece  egregiamente   finché non cadde, per il solito tradimento, nell’ imboscata  di Gavinana.

Quale è quindi la lezione   che portava  Giovanni ?

Che  gli  italiani non sono un “popolo”.  Noi siamo  una variegata  accozzaglia  di “miseria  e nobiltà”,   ragion per  cui   non siamo  nemmeno un “gregge”.

Si,  ci sono  tantissime  “ pecore” e  tantissimi  aspiranti “cani pastore”, ma  ci sarebbero  anche  tanti “lupi”   che però non possono  essere    schierati  sparsi  in mezzo a  “ pecore  e traditori “.

 Ma  se    fosse  stato possibile   schierare   tutti insieme   un numero  sufficiente  di “lupi” ,  forse avremmo  potuto costruire  500 anni  fa  uno   stato ,  “etico” nel senso  del Machiavelli  , per  cui  oggi  potremmo   anche essere  quei “romani“  che  lui sognava.   

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