MEDINSAHARA e la guerra ibrida, a cura di Giuseppe Germinario e Roberto Buffagni

 

Negli ultimi articoli[1] dedicati all’ operazione Carola,  http://italiaeilmondo.com ha analizzato le azioni delle ONG che trasbordano immigrati irregolari nel nostro paese come veri e propri atti di guerra ibrida concepiti, diretti e organizzati da centri decisionali legati a potenze straniere. A queste operazioni prestano la loro indispensabile collaborazione, con gradi diversi di consapevolezza e organicità, settori tutt’altro che trascurabili delle istituzioni e dei media italiani[2].

Il governo ha reagito agli attacchi, seppur in modo non del tutto collegiale e adeguato. Il Ministro Salvini, principale bersaglio politico degli attacchi, sta tentando di rispondervi con l’ inasprimento delle sanzioni e un assiduo impegno nella comunicazione e nel sostegno a FFOO e FFAA. In termini di dissuasione, qualche risultato si comincia a vedere: ma si tratta pur sempre di un’azione di rimessa, indispensabile ma insufficiente. E’ invece di importanza capitale prendere l’iniziativa e contrattaccare, dettando l’agenda politica e costringendo l’avversario – anzi gli avversari, esterni e interni – a combattere sul nostro terreno e alle nostre condizioni.

Tra le prerogative e i doveri fondamentali di qualsiasi Stato c’è, naturalmente, la difesa delle frontiere e il controllo del territorio. E’ dunque benemerita e indispensabile la politica dei “porti chiusi” proposta e accanitamente difesa da Salvini, perché ha segnato una svolta netta, anche simbolica, rispetto alle politiche migratorie irresponsabili dei governi precedenti.

E’ chiaro a tutti che è responsabilità storica di qualsiasi governo puntare ad una netta diminuzione, regolamentazione e regolarizzazione di flussi migratori, in modo da renderli compatibili con la struttura socioeconomica e la coesione culturale d’Italia.

E’ così chiaro a tutti, che persino i diretti responsabili politici della grave crisi migratoria italiana  hanno la faccia tosta di sventolare  – a parole e a favor di telecamere – lo slogan “Aiutiamoli a casa loro”.

Sinora, l’unico “aiuto a casa loro” che la classe dirigente europeista italiana ha dato agli immigrati è stata la sciagurata collaborazione all’aggressione anglo-francese alla Libia: li hanno aiutati ad ammazzare il  dittatore antidemocratico, precipitandoli nell’anarchia e nella guerra civile per poi piangere lacrime di coccodrillo sulle sofferenze dei migranti e l’insicurezza dei porti libici, e cianciare di “corridoi umanitari” che come l’araba Fenice, che vi sian ciascun lo dice, dove sian nessun lo sa.

Non c’è dubbio: anarchia e guerra civile sono “democratiche”, nel senso che coinvolgono tutto un popolo nessuno escluso, ma sarebbe questo, “aiutarli a casa loro”? Semmai, è mitragliare qualcuno, regalargli una scatola di cerotti e poi pretendere la medaglia al valore civile.

Un’altra cantafavola con allegate lacrime di coccodrillo e boccuccia ipocrita a culo di gallina che ogni tanto fa capolino nei media è quella del “piano Marshall europeo per l’Africa”, svergognata sciocchezza alla quale nemmeno il fratello più scemo della scemo può prestare una briciola di fede.

Da trent’anni l’Unione Europea applica, in Europa, una dura politica deflattiva iscritta nei trattati fondativi. Nell’Unione Europea, da trent’anni gli investimenti diminuiscono e la disoccupazione cresce, toccando vette abissali in Grecia e nel Meridione d’Italia. Con queste premesse, per “restare umani” (ammesso e non concesso che mai lo siano diventati) i diretti responsabili della catastrofe sociale europea sarebbero in procinto di inaugurare un “piano Marshall per l’Africa”?!

Ma insomma: è possibile aiutarli a casa loro, sì o no?

Sì che è possibile. E’ possibile “aiutarli a casa loro” se un governo italiano si ricorda della vocazione mediterranea del nostro paese, e degli antichi scambi culturali, politici ed economici che ci legano al Levante; è possibile aiutarli a casa loro se governo italiano e governi del Levante riconoscono i reciproci, comuni interessi e avviano una fattiva collaborazione economica e politica.

Basta ciarle a vuoto, basta ipocrite mozioni degli affetti,  basta eroismi umanitari a costo zero, basta carità pelosa con capital gain garantito sul C/C del caritatevole: avviare invece trattative su un piede di cordiale parità, e sulla base del reciproco rispetto e interesse.

Gli immigrati non sono i bambolotti di pezza, le coperte di Linus dei professionisti della bontà, non sono i personaggi di un brutto melodramma TV , e non sono il Buon Selvaggio Sventurato oppresso dal Cattivo Uomo Bianco Colonialista.

Gli immigrati sono uomini come noi, con la nostra stessa capacità di bene e male, con interessi e ambizioni e bisogni, con i quali dobbiamo trattare da pari a pari, sulla base del reciproco interesse, come con gli uomini dei paesi europei.

Leggiamo che proprio in questi giorni, il governo italiano tratta con il governo tunisino per ridurre l’afflusso dei barchini pilotati dagli scafisti, i trafficanti di schiavi che trasportano gli immigrati nel nostro paese.

E’ un’iniziativa opportuna, ma è anche un’occasione preziosa per riprendere in esame un progetto italiano che sul serio può “aiutarli a casa loro”.

italiaeilmondo.com ha già presentato https://www.medinsahara.org/   il progetto di collaborazione tra governo italiano e tunisino per l’escavazione di un mare artificiale nel deserto del Sahara, del quale è promotore e referente italiano il nostro collaboratore e amico Antonio de Martini.

Il progetto “ Mare nel Sahara” è stato presentato nell’ottobre scorso a Biserta, nel corso del « Forum de la Mer / rencontres euro-méditerranéennes de l’économie bleue durable », organizzato dall’ Institut tunisien des études stratégiques (ITES), con l’appoggio dell’ Unione Europea e dell’ Unione per il Mediterraneo, e la partecipazione dell’ambasciata di Francia in Tunisia. Vi collaborano le Università di Ferrara, Bologna e “La Sapienza” di Roma, l’ Istituto per l’Oriente Carlo Alfonso Nallino (Roma), l’UNESCO.

E’ un progetto che sarebbe di interesse nazionale per il nostro paese anche se il problema migratorio non esistesse: per il vantaggio economico immediato (4-5 MLD di lavori per imprese italiane, circa 2.000 posti di lavoro per tecnici italiani), e per il vantaggio politico a breve e lungo termine di una ripresa in grande stile della cooperazione italiana con le nazioni del Nordafrica (il progetto è replicabile anche in Algeria).

Ma oggi che il problema migratorio è al primo posto dell’agenda del governo, il progetto “Mare nel Sahara” moltiplica la sua importanza e il suo valore, tanto economico quanto politico, internazionale e interno.

Il progetto “Mare nel Sahara”  è importante, anzi decisivo per la politica interna italiana, perché è questo il modo di “aiutare a casa loro” gli immigrati: creando nelle nazioni nordafricane opportunità di lavoro, sviluppo e speranza che tengano conto insieme dell’interesse loro e nostro.

Solo dando agli immigrati concreta speranza di lavoro e di vita dignitosa nel continente africano possiamo costruire le condizioni per  la nostra e la loro sicurezza, come per la reciproca intesa nella diversità.

Solo così svergognamo e tappiamo la bocca agli ipocriti fautori di un’immigrazione incontrollata e incontrollabile, ai bugiardi che cianciano di umanità mentre trattano noi e loro come animali “da meticciare”. Politica realistica ci vuole, non zootecnia ideologica.

Qui sotto il lettore troverà una intervista ad Antonio de Martini, principale promotore dell’iniziativa, e il link a un sintetico dossier sull’argomento.

Speriamo che finalmente, la vox clamantis in deserto Sahara trovi un ascolto attento nel governo. Per avviare il progetto,  basta finanziarne lo studio di fattibilità con 300.000 euro, da destinare alle tre Università italiane che lo sponsorizzano.

Sì, avete letto bene: non abbiamo scritto “trecento milioni” di euro. Abbiamo scritto “trecentomila”. Troppo? Non ci sembra._Roberto Buffagni, Giuseppe Germinario

[1] http://italiaeilmondo.com/2019/07/07/guerra-ibrida-navi-corsare-a-sud-e-pokeristi-a-bruxelles-con-piero-visani/

http://italiaeilmondo.com/2019/07/09/dopo-l-operazione-carola-la-fine-dellinizio-di-roberto-buffagni/

[2] http://italiaeilmondo.com/2019/07/06/navi-corsare-a-lampedusa-con-augusto-sinagra/

http://italiaeilmondo.com/2019/07/09/una-traversata-nella-teratologia-giuridica-su-alcuni-profili-dellordinanza-del-g-i-p-di-agrigento-in-merito-alla-vicenda-della-nave-sea-watch-3-di-emilio-ricciardi/

https://www.medinsahara.org/

 

POTERE DESTITUENTE, COSTITUZIONE MATERIALE E DISCRIMINANTE POLITICA, di Teodoro Klitsche de la Grange

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Quando l’Abate Sieyès teorizzava il potere costituente della Nazione, al fine di legittimare la (nuova) costituzione della Francia, non dedicava altrettanta cura a considerare lo stesso potere in negativo: ossia nel cambiare la costituzione vigente. Il tutto, s’intende, era implicito nella sua concezione, e talvolta anche esplicitato[1], anche se meno diffusamente. Le opposizioni che ne derivavano tra diritto positivo vigente e potere costituente, tra diritto e fatto erano (anche) conseguenza della natura di un potere non fondato sulla legge positiva, ma – secondo Sieyès – sul diritto naturale[2].

Comunque la rivoluzione francese si articolava, sotto l’aspetto in esame, in due fasi: nella prima fu abolita la costituzione vigente; nella seconda ne furono fatte delle nuove, succedutesi assai rapidamente, fino alla “stabilizzazione” napoleonica. La prima fase, sosteneva de Bonald, era già consumata con la trasformazione degli Stati generali in Assemblea nazionale (e poi costituente) e la decisione di votare per testa e non per ordine[3]. Nel 1791 entrava in vigore la nuova costituzione; seguivano le altre.

  1. Secondo una concezione che (nella modernità) viene fatta risalire a Lassalle, ma la cui denominazione è, in Italia, dovuta a Mortati, occorre distinguere tra costituzione formale e materiale. Se alla prima “si affida una funzione di rafforzamento delle garanzie di conservazione della sottostante compagine sociale, non è tuttavia da dimenticare che è in quest’ultima, nell’effettivo rapporto delle forze da cui è sostenuta che deve trovarsi il vero supporto dell’ordine legale[4] per cui “appare priva di fondamento la censura di dualismo rivolta contro l’attribuzione di rilievo giuridico alla costituzione materiale, perché viceversa è la concezione dell’ordine sociale come sintesi di essere-dovere la sola valevole a ricondurre ad unità il complesso delle sua manifestazioni di vita[5]. La costituzione materiale ha, sostiene Mortati, una intrinseca giuridicità “la quale si esprime e si fa valere come «fatto normativo» o, in altri termini, come realtà comunitaria ordinata, all’infuori di modelli normativi precostituiti, in modo da realizzare un sistema di rapporti gerarchicizzati secondo criteri di dominio e di soggezione”[6]. Il giurista calabrese, replicando ad una contestazione sull’ “incompetenza del giurista” su questioni ritenute non strettamente giuridiche, scriveva “essa è implicitamente superata da quanto si è detto sull’incompletezza della comprensione del fenomeno giuridico quando sia avulso dalla considerazione della base sociale su cui è radicato. Sicché è sul modo di intendere questa base sociale e sul suo rapporto con la soprastruttura che ad essa si ricollega che deve essere rivolta l’attenzione”[7] . E l’impulso che la società sottostante da allo Stato “non è riferibile alla prevalenza di nuclei portatori di determinati interessi, essendo invece la risultante di tutte le innumerevoli forze, individuali o collettive, che in essa si manifestano e quindi di un processo circolare in cui la minoranza interviene o con l’obbedienza o con la resistenza”[8]. In particolare ai partiti politici Mortati attribuisce un ruolo importante quale elemento di unione (ed organizzazione) tra Stato e società che attenua la separazione tra l’uno e l’altra; in particolare nello Stato democratico a suffragio universale. Col nome di partito Mortati intende “solo quelle associazioni che, assumendo come propria una concezione generale, comprensiva della vita dello Stato in tutti i suoi aspetti, tendono a tradurla nell’azione concreta statale”. Quindi tra le componenti della costituzione materiale i partiti – e il sistema dei partiti – hanno un rilievo decisivo.
  2. A tale proposito, i “sistemi di partito” sono stati, com’è noto oggetto di vari studi di scienza politica[9]. La definizione del sistema di partito “tradizionale e più diffusa sottolinea … le caratteristiche di competizione tra più unità e delle forme e delle modalità di questa competizione. «La tematica di pertinenza del sistema di partito è data dai modelli di interazione fra organizzazioni elettorali significative e genuine nei governi rappresentantivi – governi nei quali tali sistemi adempiono preminentemente (bene o male) le funzioni di fornire la base a una efficace autorità e di definire le scelte che possono essere decise dai procedimenti elettorali»”[10]. Sempre nella citata voce del Dizionario di Politica si legge “alla metà degli anni Sessanta apparvero due importanti tipologie, una di impostazione sociologica, l’altra di impostazione politologica. La prima sembra essere maggiormente in grado di spiegare l’origine storica del sistema di partito (Lipset, Rokkan, 1967); l’altra sembra più adatta alla spiegazione della «meccanica» del sistema di partito. La tesi di Lipset e Rokkan, scrive Pasquino, si fonda sulle fratture fondamentali della società “Gli autori individuano quattro tipi di fratture o cleavages sulle quali si sono innestati i conflitti che hanno scosso i sistemi politici occidentali, ma la cui «traduzione» in partiti politici fu tutt’altro che automatica”. L’ultima frattura è quella del “secolo breve” tra proprietari di mezzi di produzione e prestatori di opera (borghesi/proletari)

Tale tesi ha diversi punti di contatto con quella esposta da Carl Schmitt nello scritto L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni[11].

Secondo Schmitt “L’umanità europea ha compiuto, dal XVI secolo, parecchi passi da un centro di riferimento all’altro e tutto ciò che costituisce il contenuto del nostro sviluppo culturale si trova sotto l’influsso di quei passi. Negli ultimi quattro secoli della storia europea la vita spirituale ha avuto quattro centri diversi, e il pensiero dell’élite attiva, che costituiva il gruppo di punta nei diversi momenti, si è mosso, nei diversi secoli, intorno a centri di riferimento diversi”. Ciò determina il raggruppamento prevalente di amico/nemico dell’epoca: “lo Stato acquista la sua realtà e la sua forza dal centro di riferimento delle diverse epoche, poiché i temi polemici decisivi dei raggruppamenti amico/nemico si determinano proprio in base al settore concreto decisivo. Finché al centro si trovò il dato teologico-religioso, la massima cujus regio ejus religio ebbe un significato politico”.

Di conseguenza a seconda delle epoche la scriminante prevalente passa da quella cattolici/protestanti, per arrivare nel secolo breve a borghese/proletario. Il tutto non solo nel campo internazionale, ma anche all’interno delle sintesi, ma anche all’interno delle sintesi politiche determinano la suddivisione in fazioni (sette, partiti) e così la competizione interna.

Le differenze essenziali tra la concezione di Schmitt e le conseguenze che ha sulla suddivisione in partiti e sull’ordinamento statale, e quelle più diffuse sono che la prima è qualitativa, mentre le altre hanno connotati quantitativi – relazionali (sistemi a partito unico; multipartitici; con partito dominante e partiti polarizzati, alternativi e così via), e carattere descrittivo a prescindere dal riferimento a contenuti determinati; che le seconde non si fondano sul criterio dell’inimicizia (o di converso sull’omogeneità), mentre la prima sì; che è pertanto indifferente se in un sistema di partiti le contrapposizioni si distribuiscono in base a diverse scriminanti (di classe, etniche, religiose e così via) e come (e se) avvengono le combinazioni tra discrimini diversi e influiscono sul sistema dei partiti  (e politico) complessivo.

Se è (relativamente) logico che, in un sistema ordinato secondo la scriminante borghese/proletario le alleanze tra partiti tendano ad un sistema alternativo, onde i partiti “borghesi” e quelli proletari danno vita ad alleanze politicamente omogenee e in competizione (tutti i borghesi a destra, tutti i proletari a sinistra), non è chiaro come le coalizioni possano formarsi ove le scriminanti siano plurime (di classe, etniche e così via). Il caso dell’Inghilterra a fine ottocento, in cui la minoranza dei nazionalisti irlandesi di Parnell era in grado di decidere il governo inglese, onde provocò la scissione del partito liberale e la nascita della coalizione tra conservatori ed unionisti, ne è un esempio (tra tanti).

Il tutto si è ripetuto, da ultimo, nei trascorsi anni in Italia, in particolare dopo le elezioni di marzo 2018, con la nascita della coalizione tra Lega e M5S, affini per la nuova scriminante, anche se non per quella passata (borghese/proletario, o – meno propriamente – destra/sinistra). Con i partiti legati alla vecchia che rilevano ad ogni piè sospinto la eterogeneità e pertanto l’impossibilità a governare della coalizione gialloblu. Le recenti elezioni europee hanno poi aumentato, anche se di poco, la (notevolissima) maggioranza elettorale populista (Lega+M5S+FdI+liste minori) rispetto ai partiti legati alla precedente (FI+PD e “estrema” sinistra). Ma a ragionare in termini di amico/nemico i partiti governativi sono più “omogenei” tra loro perché hanno lo stesso nemico e lo stesso interesse: che il potere di quello sia limitato (ed il proprio accresciuto).

  1. Scriveva Mortati che “la società in cui emerge ed a cui si collega ogni particolare formazione statale possiede una sua intrinseca normatività, quale le è appunto data dal suo ordinarsi intorno a forze ed a fini politici”.

La costituzione formale assume – sostiene il giurista calabrese – funzioni strumentali alla soddisfazione degli interessi di un particolare tipo di convivenza sociale; per far ciò “è necessario che la società ad essa sottostante si presenti non già come entità del tutto amorfa … bensì già in sé strutturata sulla base di certi fondamentali orientamenti, sufficienti ad ispirare il sistema dei rapporti economici, religiosi, culturali, ecc. che in essi svolgono. In altri termini, l’organizzazione sociale, per porsi a base della costituzione, deve presentarsi in qualche modo già politicamente ordinata, secondo la distribuzione delle forze in essa operanti e le posizioni di sopra e di sotto-ordinazione che queste determinano[12]”. I gruppi preminenti possono diversamente denominarsi, “benchè l’espressione «classe governante» appaia quella più adeguata a raffigurare il fenomeno che si vuol mettere in rilievo il potere reale su cui poggia quello legale[13]. Peraltro dalle classi dirigenti occorre distinguere “i detentori del potere di esercizio dell’attività attraverso cui si estrinseca la volontà dello Stato” (i quali compongono la “classe politica” (e spesso in quelle sono reclutati). Questi sono “strumento tecnico della classe dirigente, in quanto sotto l’influenza della medesima, concretano, di volta in volta, e per la migliore realizzazione dei fini suoi propri, gli orientamenti dell’azione statale”.

Se la positività (cioè l’effettività) è contrassegno de “l’ordine giuridico primario, questo non può non farsi derivare da un assetto di forze capace di esprimere e far valere un orientamento generale che unifichi la complessiva attività statale, e la mantenga almeno relativamente costante così da indurre la fondata presunzione della sua realizzazione”[14].

Dato che tra assetto delle forze socio-politiche preminenti e costituzione formale (cioè “normativa”) può non esserci corrispondenza totale “la costituzione formale è destinata ad acquistare il massimo grado di vincolo quanto più il suo contenuto corrisponde alla realtà sociale e quanto più quest’ultima si presenta stabilizzata in un sistema armonico di rapporti sociali, proprio nei casi in cui l’importanza pratica che le si può riconoscere viene ad attenuarsi, essendo il limite posto dalla medesima all’esercizio del potere radicato nella stessa configurazione della società”[15]. Ma quando lo iato aumenta per il “prorompere di nuove forze che si oppongono a quelle prima detentrici esclusive del potere senza tuttavia riuscire a superarle, si affida alla costituzione scritta una funzione di garanzia delle posizioni di compromesso raggiunto”[16].

Anche a giudizio di Vincenzo Zangara “nella dottrina della costituzione materiale, il sistema legale viene ad assumere una funzione garantista delle forze politiche dominanti: cioè la costituzione materiale sarebbe garantita e diverrebbe operativa attraverso le forze politiche dominanti, mediante la funzione garantista del sistema legale”[17]. Collegandola alla teoria dell’istituzione “l’istituzione può essere valutata come fatto che si realizza positivamente, come ordine costituito e come ordine costituente, cioè come costituzione in un senso effettivo, come costituzione materiale, che condiziona nel suo svolgersi la vita della comunità che ha trovato in essa la sua struttura e la condizione del suo svolgimento… La costituzione, cioè, è contemporanea al sorgere dello stato; o, meglio, al sorgere di una nuova struttura istituzionale che configuri un nuovo regime”[18]. Le forze sociali che determinano la costituzione materiale non sono solo i partiti politici, sindacati e gruppi di persone ma anche “elementi individuali che, con le loro convenzioni private, costituiscono le basi e l’efficienza di una giuridicità dei loro comportamenti, nonché tutti gli organi costituzionali (in cui annoveriamo anche gli organi del potere giurisdizionale) e quegli elementi organizzati che producono diritto e sono comunità particolari, cioè ordinamenti giuridici, nell’ambito dell’ordinamento dello Stato”[19]. La “legittimità dinamica” (cioè nel tempo e non solo nel momento fondativo) è data dalla classe politica la quale “esprime la potenzialità egemone delle forze sociali che la compongono con quella omogeneità ideologica che è propria della sua formazione nel momento dell’instaurazione di un ordinamento e, successivamente, nella dinamica dello svolgimento di esso, che è la concretezza della sua effettività istituzionale”[20].

5.Se la dottrina della costituzione materiale corrisponde alla realtà socio-politica – e in gran parte non è dubbio – e se soprattutto ha evidenziato un aspetto che essendo determinante dell’ordinamento è anche decisivo, occorre vedere se il “cambiamento” avvenuto in Italia nel marzo 2018 e confermato dalle elezioni europee del 2019 abbia ripercussioni sulla costituzione materiale e formale nonché sull’armamentario concettuale con cui si classificano, distinguono, definiscono le istituzioni (ed i gruppi) politici.

Non è dubbio che la costituzione della Repubblica si reggeva sulla divisione di Yalta, sulla coppia borghese/proletario come contenuto del criterio dell’amico/nemico, e il tutto aveva conseguenze nella politica internazionale ed interna. La stessa Costituzione formale aveva la funzione – e il merito – di decantare la contrapposizione comunismo/capitalismo (borghese/proletario), per cui i referenti interni di quella potevano trovare un modus vivendi che relativizzava il conflitto, attraverso le garanzie del pluralismo politico (e sociale) e della distribuzione – soprattutto territoriale – del potere. L’esarchia dei partiti del CLN era il principale supporto, il segmento decisivo della costituzione materiale, che sorreggeva quella formale. Questo schema di coerenza generale era gravemente incrinato nel 1989-1991, dal crollo del comunismo e dalla (conseguente) crisi della c.d. “prima repubblica”. Buona parte dei partiti ciellenisti erano (di fatto) per lo più spariti (v. i partiti laici e il partito socialista) mentre i democristiani, radicalmente ridimensionati, erano distribuiti tra le due coalizioni, su cui si articolava il nuovo sistema dei partiti: il centrodestra e il centrosinistra. Tuttavia permanevano, anche se già mutati di significato, due elementi: la distinzione destra/sinistra pur se modificata nel senso e nell’(ulteriore) relativizzazione e la costituzione formale. Anche se, quest’ultima era ritenuta ormai – da parte delle forze politiche, soprattutto quelle del versante destro – sorpassata, almeno come forma di governo.

Le critiche sfociavano in riforma del titolo V° della Costituzione e in ripetuti tentativi di revisione più ampi, mai andati a buon fine (anzi l’ultimo, quello di Renzi, ha provocato il tramonto del leader che l’aveva sostenuto).

Per questo la seconda repubblica, che aveva mutato un elemento importante della costituzione reale – cioè la legge elettorale – ma manteneva sia (parte) del sistema dei partiti, sia il contenuto del “politico” sia gran parte della normazione costituzionale, più che “seconda” era la repubblica “uno e mezzo”.

Con l’ascesa dei partiti sovran-popul-identitari lo iato è aumentato ancora: in particolare ormai l’elettorato italiano vota, in percentuale di quasi due terzi, partiti che con la vecchia esarchia e il vecchio contenuto del politico hanno poco o punto a che fare. Secondo la concezione di Lassalle, Mortati e Zangara la costituzione materiale sarebbe quindi cambiata. A sorreggere (fino a quando?) la costituzione formale sono infatti forze politiche quasi del tutto mutate.

Tuttavia a differenza di quanto capitato nella seconda repubblica queste non sembrano particolarmente interessate a rivedere la costituzione formale[21].

In effetti le riforme costituzionali sono rimaste fuori dall’azione di governo (e dal dibattito politico) tutta orientata ad agire sul “sociale” (redditi di cittadinanza, quota 100 e così via).

Lo stesso contratto di governo vi dedica scarsissima attenzione (ed ancora meno enfasi). In sostanza abbiamo una coalizione di partiti – cioè un decisivo “pezzo di costituzione”, avrebbe scritto Lassalle – che si cura poco o punto della costituzione formale.

Sosteneva Lassalle che determinanti l’ordinamento normativo (e non solo) sono gli effettivi rapporti di potere[22].

Tali rapporti di potere non sono limitati per “materia” o “settore” ma distribuiti; rientrandovi sia quelli strettamente politici che quelli economici, sia organizzazioni di settore che ceti e apparati burocratici. La costituzione formale è la mera conseguenza di quelli “Abbiamo ora visto quindi, miei Signori, cos’è la costituzione di un paese, cioè: i rapporti di forza effettivamente sussistenti in un paese. Come ci si pone allora, però, non ciò che si chiama abitualmente costituzione, con la costituzione giuridica?… Questi effettivi rapporti di forza li si butta su un foglio di carta, si dà loro un’espressione scritta, e, se ora sono stati buttati giù, essi non solo sono rapporti di forza effettivi, ma sono anche diventati, ora diritto, istituzioni giuridiche, e chi oppone resistenza viene punito!”[23].

In realtà nell’attuale situazione italiana risulta qualcosa di assai differente: la sostituzione completa del personale di governo e la riduzione elettorale a meno di un terzo delle forze politiche della c.d. “seconda repubblica” non ha provocato alcun “terremoto” nella costituzione formale, e neppure un tentativo di “buttare su un foglio di carta” una normativa coerente alla nuova costituzione materiale.

Le spiegazioni di tale inerzia possono essere due.

La prima, più semplice: non è detto che il nuovo assetto di potere creatosi sia in contrasto con la costituzione formale. Se è impossibile che alla trasformazione di una monarchia assoluta in “Stato rappresentativo” (come successo in gran parte d’Europa nel secolo XIX) non corrispondesse una nuova costituzione formale; e del pari che ciò non succedesse col mutare uno Stato borghese di diritto in repubblica comunista o in Stato nazista, tuttavia non è detto che un radicale cambiamento della classe politica (e del “sistema dei partiti”) comporti altrettanto radicali trasformazioni della costituzione formale[24].

La sostituzione dei laburisti ai liberali nella Gran Bretagna tra le due guerre mondiali, o dei popolari all’UCD nella Spagna post-franchista ne costituiscono esempi[25]. Questo pare dovuto al fatto che la nuova classe politica non ha una “tavola di valori” e ancor meno principi di forma di stato e di governo differenti da quella detronizzata. Si parla, in altri casi, come oggi per l’Ungheria e la Polonia di “democrazie illiberali”, ma, a parte la componente retorica di tale definizione, sempre di democrazie si tratta, con elezioni popolari aperte, distinzione dei poteri e possibilità di alternanza tra forze politiche contrapposte. Ossia gli elementi essenziali delle costituzioni nuove in quei paesi promulgate nel 1997 e nel 2012 sono gli stessi delle “costituzioni” della “transizione” tra regimi comunisti e ordinamenti democratici. Molto simili a questi come radicalmente diversi da quelli.

Il che significa che a seguire l’espressione di Lasalle la “forza attiva” dei nuovi rapporti effettivi di potere – cioè l’essenza della costituzione – non necessita di una revisione della costituzione formale per esercitarsi.

La seconda – assai vicina – è che proprio per la prossimità della tavola dei valori e della concezione dello Stato, di revisioni radicali non si sente il bisogno pur con i limiti e i difetti della nostra Costituzione del dopoguerra.[26]

  1. Resta il fatto che il cambiamento della scriminante amico/nemico non ha portato ad alcuna revisione costituzionale. In questo senso è peraltro vero che la scriminante della repubblica “nata dalla resistenza” era l’antifascismo. Di guisa che, dell’antifascismo hanno nostalgia gran parte dell’élites detronizzate.

Ma ciò non significa che Salvini sia fascista come si sforzano a dimostrare i dottor sottili dell’antifascismo. E tanto meno che la dicotomia fascismo/antifascismo, ereditata dalla seconda guerra mondiale e dall’ordine planetario di Yalta, né quella comunismo/anticomunismo possono di nuovo influenzare il sentimento politico dei popoli, e così ri-politicizzarsi.

In sostanza hanno una ormai limitata capacità di mobilitazione delle masse, di gran lunga inferiore alla nuova dicotomia tra globalizzatori e sovran-populisti.

Nel Proemio delle Istorie Fiorentine, Machiavelli critica quegli “eccellentissimi istorici” che avevano trascurato l’incidenza dei conflitti e delle divisioni interne nella Firenze medievale[27]. Così errando perché “lezione è utile a’ cittadini che governono le republiche, è quella che dimostra le cagione degli odi e delle divisioni della città, acciò che possino, con il pericolo d’altri diventati savi, mantenersi uniti”. Sicuramente trascurare (occultare, minimizzare) il conflitto (e la lotta) interna è, come scrive Machiavelli, la strada maestra per ripetere errori già fatti[28].

È interessante applicare questa massima del Segretario fiorentino alla situazione contemporanea.

Dato che la politica implica la lotta sia come presupposto (Freund) che come mezzo (Duverger) che come carattere essenziale (Schmitt), è proprio dal contenuto (il discrimine) della contrapposizione amico-nemico che è dato comprendere meglio il senso della politica. Anche di quella interna; come scrive Freund la funzione di Stato e costituzione è quella di trasformare la lotta interna in duello (combat) proprio perché, a meno di guerre civili, la lotta politica interna è sempre relativizzata dal riconoscimento reciproco tra contendenti e, ancor più da quello di regole della e nella lotta.

Peraltro la “funzione” del nemico è stata sempre aggregante rispetto alle potenze ostili: sia nello scenario internazionale con coalizioni ed alleanze disomogenee ideologicamente sia in quello interno. Il nemico asburgico fu l’elemento che aggregò l’alleanza tra la Francia cattolica (governata, in successione, da due cardinali) e i protestanti tedeschi e nordici nella guerra dei Trent’anni; così la volontà di limitare e distruggere il Terzo Reich quello che cementò l’alleanza tra Stalin, Roosevelt e un anticomunista di ferro come Churchill. All’interno le coalizioni di partiti (come, ad esempio i fronti popolari negli anni ’30) avevano lo stesso effetto di far alleare e cooperare forze eterogenee sotto tanti aspetti, compreso quello ideologico. La lotta per il potere rendeva poco rilevanti le differenze di idee; e il pericolo nell’esistenza politica lo riduceva ancora.

Nel caso italiano la co-presenza – di due “sistemi di partito” ordinati secondo scriminanti amico/nemico diverse, pone tra l’altro, il problema se, al fine d’intendere la situazione non sia preferibile anche perché più esaustivo – valutarla in base ai criteri della “sociologia comprendente”, come formulati da Max Weber. Oggetto della quale, scrive Weber “non è ogni tipo di «stato interiore» o di comportamento esterno, bensì l’agire … L’agire che riveste un’importanza specifica per la sociologia comprendente, è in particolare un atteggiamento che: 1) è riferito, secondo il senso oggettivamente intenzionato di colui che agisce, all’atteggiamento di altri; 2) è con-determinato nel suo corso da questo riferimento dotato di senso; 3) e può quindi essere spiegato in modo intelligibile in base a questo senso (soggettivamente) intenzionato”[29]; in altra opera sostiene anche “per agire si deve intendere un atteggiamento umano (sia esso un fare o un tralasciare o un subire, di carattere esterno o interno), se in quanto l’individuo che agisce o gli individui che agiscono congiungono ad esso un senso soggettivo. Per agire sociale si deve però intendere un agire che sia riferito – secondo il suo senso, intenzionato dall’agente o dagli agenti – all’atteggiamento di altri individui e orientato nel suo corso in base a questo”[30].

D’altro canto l’orientamento secondo il senso dell’agire (nel caso il “razionale rispetto allo scopo”) spiega gli eventi, anche, come nella vicenda, aventi carattere di transizione tra regimi (e formule) politici, quando un “sistema” non possiede (ancora) il connotato della stabilità (come, ad esempio, aveva nella “prima” repubblica italiana). Al riguardo il sistema dei partiti che conseguirà alla nuova discriminante appare ancora in formazione.

Ciò stante il rifiuto dei partiti sovran-populisti italiani di “ordinarsi” secondo la scriminante destra/sinistra e la costituzione di un governo sovran-populista (il primo dell’Europa occidentale) pare spiegabile e interpretabile (nel senso di Weber) secondo il criterio del politico in modo più decisivo che secondo altri parametri.

In effetti con la nuova contrapposizione  che ha sostituito quella borghese/proletario era prevedibile che i sovran-populisti, ottenuta la maggioranza alle elezioni del 4 marzo, e pur nella possibilità di maggioranza alternativa (come M5S + PD) avrebbero costituito un governo omogeneo secondo la nuova discriminante.

Per due ottime ragioni, ambo derivanti da presupposti, costanti, regole del pensiero politico: la prima che il nemico (anche interno) è la globalizzazione e i partiti della seconda Repubblica erano compromessi con quella e  le conseguenti politiche di “rigore”, invise all’elettorato, la seconda che una volta individuato il nemico la regola essenziale della lotta è accrescere il proprio potere e, correlativamente, ridurre  quello del nemico. Il potere, , sempre riferendoci a Max Weber è la possibilità di far valere i propri comandi in un ambito dato (comunità, gruppo sociale): conquistare il governo e sottrarlo all’avversario è quindi il passo principale. Un governo metà populista e metà globalista sarebbe stato un autodepotenziamento ed un insperato aiuto ai detronizzati. Il primo passo è quindi toglierlo agli avversari: è in se una mossa destituente e d’altra parte è ovvio che in ogni conquista del potere da parte di nuove èlite, si comincia col licenziamento delle vecchie.

Interpretare l’agire dei soggetti politici secondo le classiche categorie del politico, a cominciare dalla regolarità della lotta per il potere ha un valore euristico più gratificante in termini di comprensione e – salvo il caso d’eccezione – di previsione del comportamento dei protagonisti. Schmitt nella premessa all’edizione italiana delle Categorie del politico scriveva che la gioia del pensiero indipendente non è solo quella di “computare e misurare”. Miglio nel commentarlo notava “La penultima frase della Premessa va letta probabilmente in chiave ironica: il gusto di “computare o di misurare” sembra riferito all’accezione ed al metodo piattamente quantitativi (di matrice anglosassone) nella scienza della politica”. Così sembra anche in questo caso

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

[1] v. “Sarebbe ridicolo concepire una nazione vincolata essa stessa all’insieme di formalità o alla Costituzione cui ha assoggettato i propri mandatari. Se per diventare una nazione avesse dovuto aspettare una condizione positiva, non sarebbe mai divenuta tale. Una nazione si costituisce solo in virtù di un diritto naturale. Un governo, al contrario, è frutto solo del diritto positivo. La Nazione è tutto quel che può essere per il solo fatto di esistere” il che implica che “…una nazione non può né alienare né interdire a se stessa la facoltà di volere; e qualunque sia la sua volontà, non può perdere il diritto di mutarla qualora il suo interesse lo esiga” onde “Comunque una nazione voglia, è sufficiente che essa voglia; tutte le forme sono buone, e la sua volontà è sempre legge suprema”

[2] v. Che cos’è il terzo Stato? trad. it. p. 255, Milano 1933; v anche la lunga esposizione di R. Carré de Malberg in Contribution à la théorie générale de l’État, Paris 1922, pp. 484 ss.

[3] v. Considerations….. trad. it. La Costituzione come esistenza, p. 27, Roma 1985.

[4] v. Istituzioni di diritto pubblico, Padova 1975, p. 31 (il corsivo è mio).

[5] op. cit. p. 35 (il corsivo è mio)

[6] Op. cit., p. 31.

[7] Op. cit., p. 32.

[8] Op. loc. cit..

[9] v. la voce (con la bibliografia ivi citata) “Sistemi di partito” di G. Pasquino in Dizionario di Politica cui si fa riferimento.

[10] v. Pasquino op. cit. p. 386.

[11] Ne Le categorie del politico, Bologna 1972 p. 167 ss. (il corsivo è mio). Della tesi di Schmitt, in relazione alla situazione odierna, mi sono ripetutamente occupato. Per una più estesa trattazione si rinvia al mio articolo Sentimento ostile, zentralgebiet e Criterio del politico, pubblicato (su carta) in traduzione spagnola su Ciudad de los césares (Santiago del Cile) n. 110, marzo 2017, e ora in italiano negli Annali 2018 della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice (p. 135 ss.).

[12] V. Voce Costituzione dottrine generali Ed. D. vol. p. 162 e prosegue “Sono i gruppi, prevalenti in virtù del potere di fatto esercitato, che ricercano nella costituzione lo strumento idoneo alla tutela degli interessi di cui sono portatori”.

[13] Op. loc. cit.

[14] Op. ult. cit. p. 166 e prosegue “non la validità si deduce dalla legalità, ma che viceversa quest’ultima in tanto opera come elemento dell’ordine giuridico, in quanto sia collegata al più profondo ordine sociale che la legittima”.

[15] Op. ult. cit. p. 167.

[16] Op. ult. cit. p. 168 e prosegue “Avviene così che proprio là dove più gravi si presentano i pericoli per la stabilità dell’assetto cui si da vita, più accentuata si manifesta la tendenza ad irrigidire la funzionalità del sistema, moltiplicando le garanzie ed ampliando la serie di proclamazioni di principio, con il risultato di aggravare il distacco fra i precetti costituzionali e la prassi. È infatti quest’ultima che influenzata dai rapporti di forza quali riescono di fatto ad instaurarsi, conduce lo svolgimento della vita dello Stato verso una o altra direzione svuotando via via di significato le «menzogne convenzionali» consacrate nella Carta e conferendo alle formule un significato diverso da quello che esse esprimono”.

[17] v. V. Zangara Costituzione materiale e convenzionale in Scritti in onore di Costantino Mortati, vol. I, Milano 1977, p. 339 e prosegue “La costituzione materiale, infatti, esprime l’esigenza qui richiamata e deve essere considerata come il modo di essere di un ordinamento, che concreta una caratterizzazione ideologica sulla base delle convergenze delle forze politiche preponderanti in un determinato momento storico; caratterizzazione ideologica che viene ad essere costituita dal collegamento tra il fine politico e l’ordine normativo e che configura e delinea la costituzione in senso materiale”.

[18] op. cit., p. 343.

[19] op. cit., p. 345

[20] Op. cit., p. 432.

[21] Anche se spesso il maggior attivismo in materia dei partiti della seconda repubblica appariva più esternato che praticato. Avente cioè fini prevalentemente, anche se non totalmente, di propaganda.

[22] “Gli effettivi rapporti di potere che sussistono in ogni società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicché queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono” v. Über verfassungswesen trad. it. di C. Forte in Behemoth n. 20, p. 6.

[23] op. cit., p. 8.

[24] L’ “eccezione” in tali casi fu proprio l’Italia fascista, in cui il regime instaurato da Mussolini conservò sempre lo Statuto albertino, ossia la costituzione formale della monarchia liberale, malgrado la radicale trasformazione da democrazia parlamentare a Stato corporativo a partito unico.

[25] In altri Stati europei il cambiamento della classe politica sta avvenendo senza particolari volontà di cambiamento della costituzione formale; anche se spesso i partiti populisti attraggono (prevalentemente) l’elettorato dei partiti socialisti, condannandoli ad un (lento) deperimento. Esempio tra tutti la Francia dove due volte i Le Pen sono andati al ballottaggio nelle presidenziali, a scapito proprio dei socialisti francesi.

[26] La prossimità della “tavola dei valori” non risolve il problema della Costituzione italiana del dopoguerra che è poi il problema principale di qualsiasi costituzione: di rendere possibile l’esistenza politica – quindi indipendente – della comunità. Come ciò possa avvenire nel XXI secolo con una repubblica parlamentare è tutto da verificare.

[27] “Fu trovato come nella descrizione delle guerre fatte dai Fiorentini con i principi e popoli forestieri sono stati diligentissimi, ma delle civili discordie e delle intrinseche inimicizie, e degli effetti che da quelle sono nati, averne una parte al tutto taciuta e quell’altra in modo brevemente descritta che ai leggenti non puote arrecare utile o piacere alcuno” Op. cit., Lib. VII, cap. 3.

[28] “Coloro che sperano che una republica possa essere unita,  assai di questa speranza s’ingannano. Vera cosa è che alcune divisioni nuocono alle republiche e alcune giovono. Quelle nuocono che sono delle sètte e da partigiani accompagnate, quelle giovano che sanza sètte e sanza partigiani si mantengono. Non potendo adunque provedere uno fondatore di una republica che non sieno inimicizie in quella, ha a provedere almeno che non vi sieno sètte” (op. loc. cit.)

[29] V. Il metodo delle scienze storico sociali, a cura di P. Rossi, Milano 1980, p. 243.

[30] M. Weber, Economia e società, introduzione di P. Rossi, Comunità, Milano 1974, vol. 1, p. 4.

GUERRA IBRIDA: NAVI CORSARE A SUD E POKERISTI A BRUXELLES, con Piero Visani

Detto fatto! Il colpo di cannone è partito dal Tribunale di Agrigento. Il segnale è stato raccolto immediatamente e con esso l’assalto ai porti. La meta però è Roma. Ad una forma di guerra ibrida riesumata dalle guerre corsare si son aggiunte le scaramucce a Bruxelles. I passi felpati non hanno però impedito di entrare ai soliti noti con i piedi nel piatto. Le nomine a Bruxelles lasciano presagire poco di buono. Eppure in quella sede le contraddizioni non mancano; come pure la complessità dello scacchiere geopolitico, con attori sempre più numerosi a tenere il banco, offrirebbe margini di iniziativa. Ci mancano una squadra sufficientemente coesa e qualche giocatore audace e di classe. Due partite apparentemente distanti tra loro. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

L’ANGELO DELLA STORIA, di Pierluigi Fagan

L’ANGELO DELLA STORIA. (tratto da facebook) Ogni tanto, come saprete, torno a studiare la c.d. “nascita delle società complesse”, in particolare il caso a noi più vicino ovvero quello del Vicino Oriente mesopotamico. Sono in gioco le “origini” della gerarchia sociale, dell’ineguaglianza, del ruolo dell’economia nella strutturazione della società, l’immagine di mondo ed i suoi amministratori, la nascita dello Stato e della guerra sistematica. Insomma il “pacchetto” che contraddistingue le nostre società contemporanee.

L’indagine ha molti motivi per esser condotta, ma oggi ha anche una attualità in più. Un terremoto demografico come quello che si è prodotto tra inizi ‘900 ed oggi o anche meglio, dal 1950 ad oggi, disegna un “mondo” completamente diverso dal precedente. Poiché storicamente le “novità” si producono quasi sempre nel contesto ovvero esternamente alle società, sebbene poi noi si legga le trasformazioni come interne a queste (in realtà sono “adattamenti”), le “cause” dei cambiamenti profondi sono per lo più esterne.

Uno spazio fisico fisso (il mondo) che triplica la sua densità in settanta anni (1950-2020 da 2,5 a 7,5 miliardi di individui e da 70 a 200 Stati) è un terremoto di contesto che ha, e sempre più avrà, molte ripercussioni sull’organizzazione della nostra vita associata. Quindi il come si originò lo standard attuale torna d’attualità per provare a capire come potrebbe evolversi. Viepiù se va incontro a vari tipi di problematica ambientale. Non è detto che questo sguardo indietro serva davvero per lo sguardo in avanti (l’angelo della storia di Klee-Benjamin), ma è l’unica o comunque la prima, strada che abbiamo. Aggiornerò quindi sulle ultime evidenze macro della ricerca sull’argomento su cui ho fatto una recente, ennesima, full immersion di studio.

L’oggetto di studio è il Vicino Oriente (mezzaluna fertile) che transita dal Mesolitico al Neolitico e finisce con Uruk ovvero: 1) la prima città; 2) il primo Stato centralizzato con Uruk al centro di un sistema di villaggi tributari; 3) presenza inequivoca di stratificazione sociale e divisione del lavoro, ed anche di genere e di generazione oltreché etnica (con molta probabilità, questa fu la prima ragione di differenziazione sociale in tempi addietro alle vere e proprie “società complesse”); 4) agricoltura irrigua con logistica complessa; 5) dominio di élite bipartite tra sacerdoti e re o poi fuse in un’unica entità (il re “divino”); 6) alte e spesse mura di contenimento della città e presenza di specialisti armati; 7) leggi e tasse; 8) sistemi di notazione scritta. Il tutto a partire grossomodo dal 3300 a.C. anticipato da un periodo di progressiva formazione ed espansione che inizia forse nel 4000 a.C., tempo registrato come data del Diluvio nella mitologia sumera. Come soro arrivati a ciò e perché?

1) La prima novità degli studi connessi è il doppio ampliamento dello spazio e del tempo di osservazione. Uruk era praticamente sulla costa sud dell’Iraq dove oggi c’è Bassora, alla foce del Tigri ed Eufrate, il suo tempo parte, come detto, dal 3200 a.C. Oggi questo è considerato il punto d’arrivo di una più ampia e lunga dinamica che porta non solo alla c.d. Mezzaluna fertile ma anche al sud dell’attuale Turchia che è forse l’inizio del processo ed altri spazi contigui. Altresì il tempo del processo inizia nel 12.000 a.C., novemila anni prima di Uruk.

2) Il processo ha tre linee di sviluppo generale:
a) scende da nord a sud, dall’Anatolia al Persico. I siti scavati dagli archeologi, temporalmente compaiono lunga una sequenza storica (dal 12.000 al 3000) che va dalla catena del Tauro al bassopiano che sfocia nel Persico, passando per il nord siriano ed iracheno (l’ex Stato islamico). Questo asse verticale, ha poi un incrocio orizzontale che ingloba il Levante (Israele e Giordania) tanto quanto i monti Zagros (Iran occidentale). Interazioni progressive si hanno tanto con la civiltà egiziana che con quella della Valle dell’Indo,
b) prevede un costante aumento della popolazione, qualche volta con veloci aumenti seguiti da stasi, ma nel complesso unidiretto dal meno al più;
c) il processo è oggetto di almeno due cambiamenti climatici che rendono l’approvvigionamento idrico (non solo agricolo, anche a piante ed animali oggetto di caccia e raccolta) sempre più difficile. Questi scrolloni climatici incidono ovviamente sulla sussistenza che a sua volta cambia la struttura sociale che già cambiava di suo per l’incremento demografico.

3) L’estrema sintesi di ciò che pare sia successo dovrebbe essere questa: tribù seminomadi di cacciatori raccoglitori, tendono a sedentarizzarsi nell’Anatolia meridionale probabilmente per l’aumento della consistenza demografica dovuta anche a condizioni climatiche molto favorevoli e cominciano a ricorrere sempre più, prima ad una forma di cura del selvatico ed orticultura, poi di agricoltura. Ma l’out put agricolo è solo un integratore di dieta che permane largamente di caccia e raccolta e la sua produzione è detta “secca” ovvero ricorre alle semplici precipitazioni naturali, all’umidità, forse a pozzi scavati. Siamo tra 12.000 e 9000. In seguito, tra 9000 e 6000, scendono verso il nord siriano-iracheno in cerca di spazi pedemontani più ampi per maggiori opportunità di coltivazione ed allevamento, sempre lungo i tratti iniziali dei due grandi fiumi. Qui si notano due fenomeni importanti: a) si formano “culture” ovvero reti di villaggi anche molto piccoli ma interconnessi tra loro in un più vasto areale. Questi villaggi avevano una divisione del lavoro naturale poiché alcuni agricoli, altri pastorali, altri vicino alle materie prime del Tauro (ossidiana, malachite, rame), altri produttori di bellissima ceramica, ed erano legate da scambi commerciali e culturali; b) si cominciano a trovare segni di immagini di mondo che legavano tra loro le mentalità delle genti di quell’areale; c) tra 6000 e 4000 continua lo spostamento verso sud anche in seguito ad un cambiamento climatico. Le comunità si allargano e di converso cresce il ricorso all’agricoltura, ora irrigua sebbene a logistica semplice ovvero con una sola striscia campi contigui i corsi dei fiumi. Nell’alluvio precipitano cacciatori raccoglitori dell’est e poi pescatori del sud. Verso la fine del periodo (Eridu) compaiono i primi templi ovvero luoghi fisici in cui un sacerdote o gruppi di, amministrano l’immagine di mondo, parte del raccolto è centralizzato e ridistribuito; d) Infine da 4000 al pieno Uruk, siamo ormai all’estremo sud quindi alla foce dei due fiumi di cui inizialmente si sfruttano le piene ma poi si incanalano lungo sistemi di logistica irrigua molto complessa, pianificata ed amministrata centralmente. Ai centri templari si affiancano quelli palaziali, nasce lo Stato. Prima città, poi territorio con colonie, poi impero.

Il tutto è stato accompagnato da una fase molto umida e ricca d’acqua con clima temperato continentale (12.000 – 8000), un primo scrollone di improvvisa secchezza intorno al 6400 a.C. ed un secondo ancora più deciso post-diluviano. In breve, le popolazioni aumentavano con condizioni ecologico-climatiche favorevoli ma poi dovevano fare i conti con le inversioni climatico-ecologiche. Prima è aumentata la densità abitativa in aree più ospitali, dopo la dimensione dei singoli centri che hanno fatto da centro a sistemi più ampi, poi formalizzati in Stati (regni) e poi Imperi (2200 a.C. Akkad – Sargon). L’agricoltura non fu una invenzione ma una pratica millenaria. Se ne fece sempre maggior ricorso per necessità demografico-ecologica. La guerra nasce dal confitto sulla terra e le risorse in ambienti affollati, solo alla fine del processo. Tutto ciò, qui come altrove (dalla Cina alle Americhe), è stato basato sulla relazione demografia-ecologia e il semplice aumento dei gruppi (prima del numero, poi della consistenza) ha portato all’auto-organizzazione che è stata gerarchica poiché più semplice. Il precursore dei sistemi gerarchici furono le credenze condivise amministrate da sacerdoti. Tali prime forme furono auto-organizzate e non imposte.

Nota a parte: i materialisti storici dovrebbero forse rivedere le loro convinzioni. C’è un problema di organizzazione dei grandi gruppi umani alla base delle gerarchie sociali ed il modo in cui organizzano la loro economia è solo un derivato oltretutto dipendente anche da fattori di contesto (adattamento). I rapporti struttura – sovrastruttura sono del tipo uovo-gallina, sono cioè coevolventi e reciprocamente causali. Le gerarchie sono il modo più semplice e diretto sin qui trovato dall’umanità per organizzare i grandi gruppi umani, nei piccoli il problema o non si pone o si pone molto diversamente. L’ipotesi che cambiando il sistema economico si annulli la stratificazione della società è come pensare che sia lo scodinzolio a muovere il cane, anche se certo, la può mitigare.

FRAMMENTI DI UN’APOCALISSE CIVILE, di Andrea Zhok

FRAMMENTI DI UN’APOCALISSE CIVILE

Ieri sera il nuovo segretario del Partito Democratico Nicola Zingaretti ha preso finalmente posizione sul caso ANM, che coinvolge esponenti del PD ed in special modo l’ex ministro renziano Luca Lotti.

Con un intervento in televisione, Zingaretti, quello che ha vinto le primarie PD nel nome del rinnovamento, del riavvicinamento alle periferie, e della presa di distanza dal renzismo, ha difeso senza remore Lotti, adottandone la linea difensiva (“non ci sono reati; erano solo chiacchiere private.”)

Secondo le ricostruzioni della Guardia di Finanza, tra il 9 e il 16 maggio, in diversi alberghi di Roma si sono incontrati: Luca Palamara (ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati), i consiglieri del CSM (massimo organo di autogoverno della magistratura) Criscuoli, Morlini, Lepre, Cartoni e Spina, e infine i deputati del PD Lotti e Ferri.

Dalle intercettazioni di Palamara emerge un esercizio sistematico di pressioni per condizionare nomine e promozioni alle più alte cariche della magistratura nazionale.

Nello specifico, Palamara e Lotti discutono di come orientare la nomina del successore di Giuseppe Pignatone a capo della procura di Roma, e del trasferimento del PM Creazzo a Reggio Calabria, liberando così Firenze, in seguito all’inchiesta promossa dallo stesso Creazzo a carico dei genitori di Matteo Renzi.

Emergono richieste di “dare un messaggio forte” al membro del CSM Ermini, che si presentava in qualche misura come ‘intrattabile’.

Si parla di dossier raccolti per fare pressione su alcuni magistrati sgraditi (come il suddetto Ermini), per ottenerne il trasferimento.

Il tono generale delle discussioni (tutto reperibile in rete) non lascia alcun dubbio sul senso e il tenore delle operazioni: non sono ‘scambi di opinioni’, non sono chiacchierate pour parler, sono processi deliberativi in cui si adottano strategie particolareggiate per ottenere specifici obiettivi.

Ora, il problema di una notizia del genere è che è talmente clamorosa che si fa fatica a dare la priorità ad un aspetto specifico.

La prima cosa da osservare è che non parliamo dei vertici di una bocciofila, e neppure di un posto all’università, ma parliamo dei vertici della magistratura, cioè dell’unico potere che, sulla scorta della separazione dei poteri di Montesquieu, è in grado di arginare e controllare il potere politico.

Parliamo cioè della nomina di persone che sono in grado, con decisioni personali, letteralmente di distruggere l’onorabilità e la carriera di chiunque.

Ebbene, decisioni intorno a promozioni e trasferimenti dei vertici delle procure italiane vengono presi da un gruppo di pressione privato, di cui fanno parte alti esponenti di partito (alla faccia di Montesquieu).

La seconda cosa da notare è che per anni una parte politica (a me lontanissima) ha lamentato l’esistenza di un ‘partito delle toghe’, con specifico riferimento ad influenze sulla magistratura da parte di forze del centro-sinistra.
E per anni, di fronte a quelle accuse, milioni di persone (tra cui il sottoscritto) replicavano in buona fede sdegnate che delegittimare la magistratura era un atto vergognoso e imperdonabile.

Oggi mi chiedo se qualcuno abbia la percezione di quale devastazione morale comporti quanto appena accaduto.

E infine, a scanso di equivoci, interviene il segretario del Partito Democratico, a difesa del principale accusato del proprio partito, togliendo ogni possibile dubbio sull’estensione del marcio.

Ciò che in definitiva lascia esterrefatti è la totale mancanza di comprensione in personaggi come Zingaretti di quale impressione faccia al cittadino comune sentire quelle intercettazioni, sentire alti magistrati e vertici politici, forti dei propri agganci privati, complottare per mettere le persone gradite nei posti giusti o per screditare persone sgradite.

Ma questi davvero pensano che il punto sia se, in punta di diritto, si possa arrivare o meno ad una condanna? E peraltro decisa da chi? E con quale credito?

Mi chiedo se ci sia la minima consapevolezza di quale danno mortale ad una democrazia sia rappresentato da una cosa del genere, quale ingiuria, quale schiaffo ad una popolazione sempre più in condizione di sudditanza. Di quale impressione faccia a persone, cui viene rinfacciato ogni momento la responsabilità delle proprie sconfitte, della propria irrilevanza e talvolta miseria, sentire come un ceto di ottimati governi il paese in colloqui privati; salvo poi ergersi a censori della morale quando sono sulla scena pubblica.

E infine, a coronamento di eventi di tale gravità, non è possibile non notare i silenzi, le cautele, i mezzi toni, sommessi e prudenziali da un lato della grande stampa e dall’altro del Presidente della Repubblica (capo del CSM e rappresentante di tutti gli italiani).

Un quadro devastante le cui conseguenze pagheremo tutti a lungo.

NB tratto da facebook https://www.facebook.com/andrea.zhok.5/posts/1240885962759467

Le celebrità che vaneggiano di ammazzare Trump: una storia vecchia, noiosa e pericolosa di  Victor Davis Hanson

 

Le celebrità che vaneggiano di ammazzare Trump: una storia vecchia, noiosa e pericolosa

di  Victor Davis Hanson, 2 giugno 2019

 

 

Di recente, la scrittrice newyorkese Fran Lebowitz, invitata da Bill Maher nel suo programma HBO, gli ha detto che il governo USA dovrebbe sbolognare il presidente Trump “ai suoi amichetti sauditi, sai quelli che si sono sbarazzati di quel giornalista?”

Secondo la Lebowitz è spiritoso dire in diretta TV che il presidente degli Stati Uniti andrebbe fatto a pezzi come il giornalista e attivista politico saudita Jamal Kashoggi.

Ormai, la mini-industria di celebrità che invocano la morte violenta o l’assassinio del presidente Trump è una storia vecchia e noiosa, e sta diventando pericolosa.

Come seguissero un copione, attori, cantanti, comici e banali entertainer gareggiano a chi fantastica il modo più splatter di ammazzare il presidente: ma così facendo, insinuano nelle menti degli squilibrati immagini sempre più atroci di violenze immaginate, forse persino approvate da icone del cinema e celebrità della cultura pop.

Il celebre chef Anthony Bourdain, recentemente scomparso, meditava di avvelenare Trump.

David Crosby, il musicista, pensava di incenerirlo.

L’attore Johnny Depp and il rapper Snoop Dogg preferivano sparargli.

L’ex presentatrice della CNN Kathy Griffin,  il comico George Lopez, e il cantante Marilyn Manson immaginavano una decapitazione.

Il gruppo rock Pearl Jam ha presentato l’immagine di Trump come carogna decomposta.

La cantante Madonna e il musicista Moby hanno optato per gli esplosivi.

Il teatro pubblico di New York City ha fantasticato di pugnalarlo.

L’attore Robert De Niro pare abbia la patetica fissazione di colpirlo ripetutamente alla testa.

La comica Rosie O’ Donnell ha sognato Trump che precipita in un burrone.

L’attore Mickey Rourke ha minacciato di bastonare Trump, mentre a quanto pare Charlie Sheen ha pregato per un intervento divino che lo elimini.

Il comico Larry Wilmore dice che si contenterebbe di un buon vecchio strangolamento.

 

Hollywood, naturalmente, si è fissata nell’odio per Trump fin dal primo annuncio della sua candidatura: un’ossessione condivisa dalla CIA dell’era Obama, dalla FBI e dal Dipartimento di Giustizia.

Eppure, che celebrità, autori ed entertainer liberal fantastichino in pubblico di ammazzare un presidente conservatore non è proprio una cosa nuova.

L’ex presidente George W. Bush era un bersaglio preferito degli auguri di morte di questa gente. Ricordate l’episodio di “Game of Thrones” del 2012 dove si vedeva la testa di Bush infissa su una picca? Il columnist del “Guardian” Charles Brooker ha evocato gli assassini di ex presidenti: “John Wilkes Booth, Lee Harvey Oswald, John Hinckley Jr.: dove siete adesso che abbiamo bisogno di voi?”

La Alfred A. Knopf  ha pubblicato il romanzo di Nicholson Baker Checkpoint, un libro che consta interamente di dialoghi monotoni tra personaggi noiosi che propongono vari modi di ammazzare Bush. Nel 2006 il cineasta Gabriel Range ci ha beneficiato del  “docudrama” Death of a President, dove si mette in scena un tentativo – riuscito – di assassinare George W. Bush.

Ma le nostre celebrità d’ élite non si limitano a immaginare la violenta dipartita di presidenti conservatori come George W. Bush e Donald Trump. Va benissimo qualsiasi eletto conservatore, la sua famiglia compresa.

Proprio ora, l’attore e comico Jim Carrey ha twittato che gli piacerebbe che l’attuale governatrice repubblicana dell’Alabama Kay Ivey fosse stata abortita. “Secondo me, se interrompete una gravidanza lo dovreste fare prima che il feto diventi governatore dell’Alabama”. Così, pensa Carrey, Kay Ivey non avrebbe potuto varare la legge restrittiva sull’aborto. Per migliorare l’effetto, Carrey ha allegato al suo tweet la macabra illustrazione di uno strumento chirurgico che risucchia la testa della Ivey, fotomontata sul corpo di un feto nel grembo materno.

L’estate scorsa Peter Fonda, un’icona del cinema anni Sessanta, ha immaginato una forma di violenza particolarmente patologica ai danni del figlio più piccolo di Trump, Barron: “Dovremmo strappare Barron Trump dalle braccia di sua madre e chiuderlo in una gabbia insieme a dei pedofili. Poi vediamo se sua madre trova il coraggio di mettersi contro al gigantesco str… che ha sposato.”

Provate a sostituire il nome di Obama al nome di Trump: attacchi così abietti garantirebbero a chi li porta l’ostracismo, la distruzione della carriera e persino conseguenze legali.

Ci ricordiamo lo sconosciuto clown di un rodeo che nel 2013 fu bandito a vita dalla Fiera dello Stato del Missouri perché uno dei suoi assistenti s’era comprato una normalissima maschera da Obama e l’aveva indossata lavorando nell’arena?

Lo scandalo universale contro il clown del rodeo si fondava su questa tesi dei liberals: dileggiare il presidente degli Stati Uniti non solo era razzista, ma pericoloso, perché istigava chi odiasse Obama a passare dal pensiero all’atto.

E allora perché  le celebrità di sinistra manifestano tanto odio politico?

Primo, danno per scontato che i loro pretesi fini, eguaglianza e giustizia, giustifichino qualsiasi mezzi atto ad approssimarvisi, oscenità e incitamenti alla violenza compresi. Per i militanti della giustizia sociale, i “social justice warriors”, anche le morbosità sono segno che si sta dalla parte giusta. E se qualche squilibrato prendesse sul serio le celebrità che parlano a vanvera di ammazzare o colpire Trump, e realizzasse una delle loro numerosissime fantasie? Ne proverebbero rimorso, le celebrità? Forse no, visto l’odio speciale che nutrono per il conservatorismo in generale e per la famiglia di Trump in particolare.

Secondo, le celebrità (molte neanche hanno finito le scuole superiori) sono per natura un po’ arroganti, e spesso proprio stupide. Confondono la loro bravura di attori o cantanti con una specie di intelligenza o erudizione. Ma sin da Platone, i filosofi ci hanno avvisato che le capacità attoriali sono piuttosto un talento naturale che acquisito, e possono non aver nulla a che fare con l’intelligenza, la saggezza o la sapienza.

Terzo, le celebrità non temono conseguenze. La maggior parte dei boss dell’industria dello spettacolo sono anche loro di sinistra. Persino gli attacchi più ignobili ai conservatori possono diventare utili mosse di carriera. Come le élites dei ricchi, pensano che essendo privilegiati e influenti, dovrebbero andare esenti dalle conseguenze legali di pubbliche dichiarazioni in cui si auspica la morte di un presidente in carica.

Quarto, le celebrità adorano l’attenzione del pubblico, e più ne hanno meglio è, specie se la carriera o l’età è sul viale del tramonto. Per i vanitosi in declino, anche la cattiva pubblicità è buona pubblicità. La carriera di Madonna, Moby, Robert De Niro, o Rosie O’ Donnell non è in fase ascendente.

Quinto, molti tra coloro che manifestano tanto odio e scurrilità sono prodotti diretti o indiretti degli anni Sessanta e Settanta, che hanno distrutto le norme sociali e sdoganato l’oscenità. Per celebrità del genere, parlare a vanvera della morte di un presidente fa parte della cultura di tutta una vita, è il tipo di volgarità che danno per scontata nella musica, nel cinema e nella comicità. Parlando in generale, gli attori che da giovani sono rozzi e volgari invecchiano male. Il Peter Fonda che in Easy Rider era uno spirito libero che parla a ruota libera in sella alla moto, adesso che replica il suo gergo da ribelle a settant’anni e passa sembra un vecchio rimbambito.

Ultimo, Hollywood e le celebrità vivono in un mondo che non c’entra niente con il resto dell’America. Ricchezza, isolamento, governanti, camerieri, giardinieri, il clima e il privilegio di Malibu, Montecito, Beverly Hills o Santa Monica non sono la normalità americana. Praticamente nessun americano vive la vita regale di un Jim Carrey o di un Johnny Depp. Il teatro pubblico di New York non ucciderebbe ritualmente sulla scena ogni sera Trump se rappresentasse il Giulio Cesare nelle campagne dell’Alabama o al centro dell’Oklahoma.

Se qualcuno crede che la spiaggia di Malibu rifletta la norma del comportamento o del modo di pensare americani, ha dei seri problemi con il principio di realtà. Dunque, aspettatevi che la voga delle celebrità che fantasticano l’assassinio di Trump continui, finché non succederà una di queste due cose: o il paese, collettivamente, gli dice “adesso basta”; o le chiacchiere morbose sull’assassinio portano all’omicidio reale.

 

Victor Davis Hanson

Victor Davis Hanson è uno storico militare americano, editorialista, ex professore di studi classici, e uno studioso della guerra nell’antichità. E’ stato professore di Studi Classici alla California State University di Fresno, e oggi è il Martin and Illie Anderson Senior Fellow presso la Hoover Institution, Stanford University.  Il suo libro più recente è: The Second World Wars: How the First Global Conflict was Fought and Won (Basic Books).

TRIS DI “ DEBUTTANTI” ?, di Antonio de Martini

Per uno dei casi di cui è piena la vita, ho conosciuto tutti e tre i generali che diserteranno la sfilata militare di domani.

Due di questi sono stati a capo delle Forze Armate ( Arpino e Camporini) e uno (Tricarico) a capo dell’aeronautica.

Non appartengono a uno stesso schieramento politico.

Lamentano più fatti, anche di dettaglio, ma in buona sostanza lamentano la lamentevole qualità del ministro della Difesa.
Un ministero storicamente sfortunato sotto l’aspetto della scelta dei vertici politici.

Dei tre generali, quello che ho conosciuto meglio é Arpino.
Ho cenato più volte con lui ed é la persona che mi ha più positivamente impressionato.

Mi ha anche fatto capire il « mistero » della caduta degli F104 , detti « le bare volanti » usando accenti di contenuta commozione per il ricordo di tanti compagni di corso caduti.
Colto, intelligente, umano.

La signora ministro gode dei miei sospetti per via di un invio gratuito di beni di consumo che organizzai ( come comitato FAO) verso l’Irak – all’indomani di Nassirya- e che l’inviato di « La Repubblica » scrisse di aver notato commercializzati nei suk.

L’inclusività non è un male in se.
É vero che la festa della Repubblica è la festa di tutti, ma è come il menù di un ristorante: il fatto che la crème caramel e la coda di rospo facciano parte della lista, non autorizza nessuna persona di buon senso a metterli nello stesso piatto.

Se si eviterà di accentuare l’aspetto corporativo di questa « civile protesta dei militari » e gli si saprà dare un respiro più strategico, assisteremo al debutto dei militari nella società italiana, non più nelle vesti dei buttafuori, cui sono stati crocifissi da sempre, ma da portatori sistematici dei valori di sobrietà, serietà, competenza e carattere, che sono i drammatici vuoti nelle carni della nostra Italia.

Questa sarebbe la vera inclusività !

Le elezioni e gli Eletti, di Roberto Buffagni

 

 

Che cosa ci insegnano, o almeno suggeriscono, le elezioni europee testé concluse?

Anzitutto, direi che ci confermano un fatto noto ma sempre rilevante: le elezioni europee non cambiano l’Unione Europea, che conforme la sua natura e l’intenzione profonda – anche filosofica e spirituale – che la costituisce è (quasi) impermeabile al voto popolare, diciamo almost ballotsproof, salvo un vero e proprio diluvio o maremoto di voti ad essa contrari o favorevoli che non si verificherà, molto probabilmente, mai. L’Unione Europea sta o cade per l’azione degli Stati-nazione che la compongono, e/o per un evento esogeno o endogeno che ne faccia precipitare le gravi disfunzionalità.

Le elezioni europee e il voto popolare cambiano invece gli equilibri politici nazionali, come d’altronde è naturale, visto che l’unico contesto in cui la democrazia rappresentativa sia possibile e vitale è – oggi come ieri – la nazione. Cambiano gli equilibri politici nazionali, anche se le elezioni europee vanno per così dire “fuori tema”, visto che il voto europeo non muta gli equilibri parlamentari nazionali; ma il sistema elettorale proporzionalistico che adottano, e l’emergere sempre più chiaro del consenso/dissenso rispetto alla UE come clivage politico principale, le trasformano in un fattore politico e simbolico di prima grandezza.

Le elezioni europee testé concluse infatti ci insegnano, o almeno ci suggeriscono, che il consenso/dissenso riguardo la UE e alle sue logiche premesse, implicazioni e conseguenze – il mondialismo, l’individualismo, il progressismo, il costruttivismo sociale, l’universalismo politico  – emerge con sempre maggiore chiarezza come il principale clivage politico, non solo in Europa ma in tutto l’Occidente.

Chi non si schiera di qua o di là, chi esita, chi tiene il piede in due staffe, chi azzarda dei “sì, ma” o dei “ni” è perduto. Il più antico partito d’Europa, il partito conservatore britannico, ha patito la più cocente disfatta di sempre per le sue esitazioni, compromessi e retropensieri in merito alla Brexit; il suo storico rivale, il Labour, ha subito una punizione elettorale meno siderante ma pur sempre grave; e molto probabilmente il suo leader, Jeremy Corbyn, tra breve sarà costretto a prendere posizione per il Remain, come il prossimo leader Tory sarà senz’altro costretto a schierarsi per il Leave, e a consegnare la Brexit. In Italia, nonostante limiti e incertezze del governo gialloverde e suoi propri, la Lega ha raddoppiato i voti guadagnati alle politiche 2018 in virtù della sua recisa posizione contraria all’immigrazione di massa, l’aspetto simbolicamente e politicamente più manifesto della UE; come per le ragioni opposte e complementari è stato severamente punito dagli elettori il Movimento 5*. Ha tenuto invece il PD, e proprio perché si è schierato senza esitazioni nel campo favorevole alla UE, così rastrellando quasi tutti i voti della ex sinistra massimalista e di alcuni transfughi verso i Cinque Stelle.

Di questo colossale, inaggirabile iceberg – lo schieramento in merito alla UE come clivage politico principale – emerge, sinora, soltanto la proverbiale cima. Per ragioni d’ordine tattico, ma più ancora per ragioni d’ordine culturale profondo, nessuna tra le forze rilevanti situate nel campo avverso alla UE ne propone tout court l’abbattimento, come nessuna tra le forze rilevanti situate nel campo ad essa favorevole ne celebra tout court la compiuta perfezione, “attimo fermati, sei bello!”. In entrambi i campi, se ne dà per scontata la permanenza, la si accetta come contesto culturale e politico, e si propongono vari e più o meno credibili progetti di riforma del Mostro Buono, come definì la UE l’intelligente crudeltà di H.M. Enzensberger. Ma la UE, e soprattutto la cultura dominante in Occidente che l’ha prodotta e la sorregge – mondialismo, individualismo, progressismo, costruttivismo sociale, universalismo politico – restano per tutti l’orizzonte visibile in cui pensare e operare: per tutti, comprese le forze politiche avverse alla UE.

Esse, infatti, alla UE ed alla sua cultura cominciano, balbettando, a muovere critiche, anche forti e precise, ma senza saper  passare dalla critica alla proposta credibile e praticabile; così che l’alterità da esse espressa oscilla tra la repulsione emotiva, la nostalgia per un passato idealizzato, la giusta ma limitata rivendicazione politica di interessi, e il bricolage culturale che vi corrisponde; e si cristallizza in un possente, ma ancor cieco, bisogno “di fare una vita normale”: sapere chi si è, imparare un mestiere, trovare un lavoro e procurarsi un reddito decente, farsi una famiglia e una casa, veder  crescere i figli, essere ricordati da una lapide sulla tomba. Un obiettivo minimo, a prima vista, ma contro il quale paiono congiurare – ed effettivamente congiurano – forze esteriori ed interiori incontrollabili, che è molto difficile identificare e nominare: figuriamoci combatterle.

Intanto, sotto la superficie del pensiero, sotto la lettera delle dichiarazioni e dei propositi, in quello che in un dramma si chiamerebbe “sottotesto”, dove agiscono le intenzioni profonde – consapevoli, semiconsapevoli, inconsapevoli – dei personaggi, si precisa e progredisce lentamente ma inesorabilmente la polarizzazione politica e culturale, o meglio: politica perché culturale.

Per farla breve e chiara: contro la UE ci sono solo le destre europee, a favore solo le sinistre, e in mezzo non ci sono ponti o sentieri praticabili: c’è solo il deserto politico. Chi provenga da una cultura politica di destra (ad esempio, i liberal-conservatori) e si schieri a favore dell’Unione Europea è costretto ad allearsi politicamente con la sinistra. Chi provenga da una cultura politica di sinistra (ad esempio, una parte dei comunisti marxisti) e si schieri contro la UE è costretto ad allearsi politicamente con la destra. La stessa identica polarizzazione è in corso nelle Chiese cristiane, manifestandosi come scisma virtuale nella Chiesa cattolica.

La dinamica irresistibile di questa progressiva polarizzazione dipende, a mio avviso, da una logica anzitutto culturale, tutta interna al più profondo conflitto interiore alla civiltà europea, e dunque anche al cristianesimo e ai suoi avatar politico-culturali; conflitto che si è manifestato prima con le guerre di religione del XVI e XVII secolo, e poi con le Rivoluzioni francese e russa.

Per farla di nuovo breve e chiara: è il conflitto in merito all’universalismo, nella sua duplice accezione di universalismo spirituale e valoriale, e di universalismo politico.

L’Unione Europea, che è un progetto massonico cioè liberale e umanistico al 100%, è stata creata, e dopo la caduta del Muro di Berlino potenziata, dalle classi dirigenti europee e statunitensi: liberals wilsoniani, cattolici e protestanti europei democristiani, socialdemocratici; gli eredi legittimi delle classi dirigenti antifasciste che hanno vinto, sul campo di battaglia o nelle urne elettorali, la Seconda Guerra Mondiale e il dopoguerra. Dalla grande alleanza antifascista mancano solo i comunisti sovietici, ma sono rappresentati dai loro eredi: eredi legittimi anche loro, anche se dopo l’estinzione del ramo principale è un ramo cadetto (i maligni dicono, un ramo bastardo) a portare il titolo. Dopo la grande vittoria comune di settant’anni fa, queste grandi forze politiche si sono aspramente combattute per decenni. Oggi governano insieme l’Unione Europea. Come hanno fatto ad accordarsi? Per il potere, si dirà. Certo, per il potere: ma questa risposta, che è sempre vera, non spiega tutto, e anzi forse non spiega niente. Qual è il minimo comun denominatore che ha consentito a queste grandi forze e culture politiche, un tempo in lotta per il potere, di trovare un durevole accordo?

Il minimo comun denominatore delle grandi Casate americane ed europee che sostengono l’Unione Europea è l’universalismo politico.

L’universalismo è una cosa sul piano delle idee, dei valori, della spiritualità (nella cristianità europea, l’istituzione delegata a incarnarlo era la Chiesa, il primo “sole” del De Monarchia dantesco). Se tradotto sul piano politico, però, l’universalismo non può che incarnarsi in forze inevitabilmente particolaristiche: perché esistono solo quelle, nella realtà effettuale.

Volendo, chiunque se ne senta all’altezza può parlare in nome dell’universale umanità; ma non può agire politicamente in nome dell’universale umanità senza incorrere in una contraddizione insolubile, perché l’azione politica implica sempre il conflitto con un nemico/avversario.

Senza conflitto, senza nemico/avversario non c’è alcun bisogno di politica, basta l’amministrazione: “la casalinga” può dirigere lo Stato, come Lenin diceva sarebbe accaduto nell’utopia comunista. A questa contraddizione insolubile si può (credere di) sfuggire solo postulando come certo e autoevidente l’accordo universale, se non presente almeno futuro, di tutta l’umanità: “Su, lottiamo! l’ideale/ nostro alfine sarà/l’internazionale/ futura umanità!” (il “governo mondiale” è un surrogato o avatar della “futura umanità” dell’inno comunista).

Lenin, e in generale il movimento comunista (o anarchico) rivoluzionario, vuole risolvere la contraddizione con la forza. Nella classificazione machiavelliana, Lenin è un “leone”.

L’universalismo politico delle grandi forze politiche nordamericane ed europee che sostengono l’UE non è meno radicato di quello leniniano, perché discende dalla stessa radice illuminista. Esse però vogliono/devono risolvere la contraddizione con l’astuzia; Machiavelli le definirebbe “volpi”. Scrivo “devono”, perché a prescindere dalle intenzioni soggettive, esse non potrebbero essere altro che “volpi”: entrambi i “federatori a metà” della UE, USA e Germania, non possono portare a compimento con la forza la loro opera.

Come l’URSS comunista, anche l’UE postula l’accordo universale, se non presente almeno futuro: accordo anzitutto in merito a se medesima, e in secondo luogo in merito al governo mondiale legittimato dall’umanità universale, che ne costituisce lo sviluppo logico, e giustifica eticamente sin d’ora l’obbligo di accogliere un numero indeterminato di stranieri, da dovunque provenienti, sul suolo europeo. Per questa ragione è impossibile definire una volta per tutte i confini territoriali dell’Unione Europea, che al tempo degli entusiasmi europeisti qualcuno pretendeva di estendere alla Turchia, e persino a Israele: perché ha diritto di far parte dell’UE chi ne condivide i valori universali (cioè virtualmente tutti, dal Samoiedo al Gurkha al Masai), non chi ne condivide i confini storici e geografici.

Il passaggio tra il momento t1 in cui l’accordo universale è soltanto virtuale, e il momento t2 in cui l’accordo universale sarà effettuale, non avviene con il ferro e il fuoco della “volontà rivoluzionaria”. Le volpi oligarchiche UE introducono invece nel corpo degli Stati europei, il più possibile surrettiziamente, dispositivi economici e amministrativi – anzitutto la moneta unica – che funzionano, secondo la celebre definizione di Mario Draghi, come “piloti automatici”. Questi piloti automatici provocano crisi politiche e sociali, previste e premeditate, all’interno degli Stati e delle nazioni, ai quali impongono o di insorgere in aperto conflitto contro la UE, o di addivenire a un accordo universale in merito al “sogno europeo”: per il bene degli europei e dell’umanità, naturalmente, come per il bene dei russi e dell’umanità Lenin ricorreva al terrore di Stato, alle condanne degli oppositori per via amministrativa, etc.

A quest’opera va associata, inevitabilmente, una manipolazione pedagogica minuziosa e su vasta scala, in altri termini una lunghissima campagna di guerra psicologica. La dirigenza UE conduce questa campagna di guerra psicologica da una posizione di ipocrisia strutturale formalmente identica a quella della dirigenza sovietica, perché non è bene e vero quel che è bene e vero, è bene e vero quel che serve alla UE o alla rivoluzione comunista: in quanto Bene e Verità = accordo dell’intera umanità, fine dei conflitti, pace e concordia universali. Le élites, necessariamente ristrette, di “pneumatici” e di “psichici” che conoscono questo arcano della Storia, hanno il diritto e anzi il dovere morale di ingannare e manipolare, per il loro bene, le masse di “ilici” che invece lo ignorano.

Il leone Lenin accetta solo provvisoriamente il conflitto politico, e anzi lo spinge a terrificanti estremi di violenza, in vista dell’accordo universale futuro: dopo la “fine della preistoria”, quando diventerà reale il “sogno di una cosa” comunista e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in URSS poi nel mondo intero. Le volpi UE celano l’esistenza effettuale del conflitto (in linguaggio lacaniano lo forcludono), e da parte loro lo conducono, solo provvisoriamente, con mezzi il più possibile clandestini, in vista dell’accordo universale futuro, quando diventerà reale il “sogno europeo” e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in Europa poi nel mondo intero.

In questo grande affresco romantico proposto alla nostra ammirazione con la colonna sonora dell’Inno alla Gioia (forse non è un caso che il Beethoven delle grandi sinfonie fosse anche il compositore preferito di Lenin) c’è solo una scrostatura: che nella realtà, l’accordo universale di tutta l’umanità non si dà effettualmente mai. Ripeto e sottolineo due volte: mai, never, jamais, niemals, jamàs, etc.

* * *

Ecco. Le recenti elezioni europee hanno certificato questa semplice, persino banale verità: che molti, troppi europei non sono d’accordo. Non sono d’accordo per un’infinità di ragioni, buone e meno buone, nobili e ignobili, serie e frivole, meditate o istintive: ma fatto sta che non sono d’accordo. Questo fatterello elementare, che bastava il buonsenso per prevedere, diventa una pietra d’inciampo grande come l’Himalaya per una cultura politica e filosofica come quella che informa la UE, che del buonsenso non è per nulla amica. Perché il buonsenso, che certo non può dire l’ultima parola sul mondo, né lo pretende, presuppone però che il mondo, e l’azione politica in esso, siano governati dal limite: infatti, uno dei suoi detti preferiti è “c’è un limite a tutto”; mentre l’universalismo politico, il progressismo, l’individualismo, il costruttivismo sociale vedono i limiti solo come sfida a superarli.

Proprio ieri ho letto una conversazione tra due persone intelligenti e preparate, i docenti di filosofia Andrea Zhok e Roberta de Monticelli[1], che mi è parsa esemplare. La professoressa de Monticelli ha pubblicato su “Il Manifesto” un articolo intitolato Stati uniti d’Europa, un edificio politico architettato dalla filosofia, al centro del quale troviamo due argomenti di fondo: che la UE sia  “il vero e proprio cantiere di un edificio politico architettato dalla filosofia: cioè dall’anima universalistica del pensiero politico, che è almeno tendenzialmente cosmopolitica” e che “Cosmopolitica è (…) la forma di una civiltà fondata nella ragione (…). La domanda di ragione e giustificazione è quanto di più universale ci sia. (…) Esser nato in un deserto, o in una contrada afflitta da massacri e guerra, è un accidente: l’accidente della nascita. (…) Ogni ingiustizia si lega all’accidente della nascita.”

Il professor Zhok critica “l’equivalenza tra universalismo e cosmopolitismo”, perché “una volta che la si guardi da vicino” essa “risulta subito destituita di ogni fondamento”, e richiama l’attenzione della de Monticelli sul fatto empiricamente verissimo che “il ‘cosmopolita’, il ‘cittadino del mondo’ di cui qui si parla, è semplicemente un membro di quei ceti economicamente, socialmente, e talvolta anche culturalmente privilegiati, che scelgono di passare periodi della propria vita, per lavoro o per diletto, in più o meno prestigiose sedi estere.” Egli poi passa alla critica filosofica della posizione della de Monticelli, così riformulandola: “Io, che sono un soggetto razionale come te, sono però consegnato alla contingenza di una nascita localmente determinata, che limita la mia aspirazione all’universalità. – Tale contingenza contrasta con la mia natura di soggetto razionale ed è razionalmente ingiustificabile; essa perciò, a causa della sua natura ingiustificata, arbitraria, va corretta.” Le segnala poi l’errore teorico ivi contenuto: “Nella proposizione di cui sopra troviamo presentato come ovvio un contrasto tra universalità e contingenza. Lungi dall’essere un’ovvietà condivisa, l’idea di ‘ragione’ o di ‘universalità’ presupposta da questo ragionamento è assai discutibile. Si tratta infatti di una visione dove la ragione e la sua universalità per essere tali devono appartenere ad una sfera astorica e smaterializzata.” E prosegue citando autori, cari a entrambi gli interlocutori, come Wittgenstein e Husserl, che “hanno attraversato nel corso della loro vita l’intero percorso da una iniziale concezione di razionalità astorica e svincolata dalla materialità, dalle prassi, dalla corporeità, ad una matura concezione in cui la razionalità trovava una sua necessaria collocazione proprio nella sfera della storia, della materia, delle prassi e del corpo vivente.

L’intelligente e interessante conversazione, che invito il lettore a leggere per intero, prosegue poi con una replica della de Monticelli, e una controreplica di Zhok.

Ma quel che più mi sembra interessante e rivelatore, nel dialogo filosofico-politico tra Zhok e la de Monticelli, è che entrambi per così dire “passano a lato” del punto centrale, invero sbalorditivo, del programma filosofico-politico enunciato dalla de Monticelli: “correggere le ingiustizie legate all’accidente della nascita.”

Intesa come programma politico – e così la de Monticelli lo intende, addirittura chiamando in causa l’art. 3 della Costituzione italiana che a suo dire lo implica –  la “correzione delle ingiustizie legate all’accidente della nascita” supera e si lascia indietro di parecchi anni luce tutte le utopie a me note, tutti i programmi politici più massimalisti dell’anarchismo e del comunismo, quello implementato da Pol Pot in Cambogia non escluso; e che a propugnarlo sia una persona di grande intelligenza e cultura, animata dalle migliori intenzioni e certo aliena dalla violenza, fa una notevole impressione.

La professoressa de Monticelli, infatti, proponendo all’Unione Europea l’obiettivo strategico di correggere le ingiustizie legate alla nascita, non si limita ad assumere “il punto di vista di Dio sul mondo”, come le ribatte Zhok. Ella si propone, o meglio propone alla UE, l’ istituzione politica a cui dà il suo sostegno, di prendere il posto di Dio nel mondo, e di agirvi come supplente di una Provvidenza divina assente o difettosa: né più, né meno. (Curioso che la de Monticelli sia curatrice di una bella edizione delle Confessioni di Sant’Agostino, tra i Padri della Chiesa il più attento al tema del peccato originale, che come ognun sa fu occasionato dalla tentazione diabolica ad essere sicut dii, scientes bonum et malum).

Perché è chiaro a tutti che “dall’accidente della nascita” nascono, oltre che tutti gli esseri umani, anche infinite diseguaglianze e ingiustizie. Non è altrettanto chiaro, però, come sia possibile correggerle, fino a qual punto, a quale prezzo, e ad opera di chi. Chi nasce ricco e chi povero, chi bello e chi brutto, chi uomo e chi donna, chi sano e chi malato, chi intelligente e chi stupido, chi africano e chi europeo, chi amato e chi disamato, chi desiderato e chi no, chi destinato a lunga vita, chi a brevissima, eccetera. Che ciò costituisca un enigma, lungamente interrogato dagli uomini nel corso della storia e probabilmente anche prima, non c’è dubbio. A me però pare un enigma anche più grande che qualcuno seriamente programmi di affidare a un’ istituzione politica il compito di correggerlo. Il modesto buonsenso suggerirebbe immediatamente la domanda: “E come si fa?”, ma la maestosa follia universalista, il kantismo turbocompresso della professoressa de Monticelli la scarta con una scrollata di spalle, si rimbocca le maniche e si mette all’opera.

Mettersi politicamente all’opera con questo obiettivo  significa mettersi all’opera nella realtà effettuale, e dunque, tanto per cominciare dal più facile e immediato, spalancare le frontiere all’immigrazione: perché l’accidente della nascita ghanese o afghana non deve privare ingiustamente nessuno dell’opportunità di accedere al tenore di vita, materiale e culturale, dei paesi europei. A chi poi nascesse (o diventasse, ancora non è chiaro) omosessuale, transessuale, *sessuale e in ogni caso non potesse avere figli come gli eterosessuali, privilegiati dall’accidente della nascita, dovrebbe essere garantita (gratis) la possibilità di ricorrere alla maternità surrogata. A chi nascesse stupido, e/o magari, sempre a causa dell’accidente della nascita, appartenesse a un gruppo sociale svantaggiato, dovrebbe essere garantito l’accesso facilitato agli studi, e il loro fruttuoso completamento. A chi nascesse brutto e indesiderabile dovrebbe essere garantito, se non il desiderio altrui (almeno per ora: in seguito, grazie alle psicotecniche, chissà…), il divieto legale di definirlo tale, con relative sanzioni per chi lo violasse. A chi nascesse donna e liberamente decidesse di esercitare una professione tradizionalmente maschile quale, ad esempio, il servizio nei reparti militari d’élite, dovrebbe essere garantita una selezione facilitata, anche se poi sul campo il reparto così selezionato fa fiasco. A chi fosse sul punto di subire “l’accidente della nascita” senza che le condizioni emotive, psicologiche e sociali della madre fossero le ideali per accoglierlo, dovrebbe essere garantito, fino all’ultimo istante, il diritto di non nascere affatto, così risparmiandosi infiniti fastidi, dolori, diseguaglianze e ingiustizie. Per chi nasce povero, poi, le correzioni possibili sono due: o farlo diventare almeno benestante dopo la nascita, mediante provvidenze statali, oppure non farlo nascere affatto (v. punto precedente); come d’altronde proponeva un’altra degnissima e benintenzionata persona, John Maynard Keynes, direttore della Eugenics Society dal 1937 al 1944. Superfluo poi segnalare che il primissimo bersaglio della correzione dell’accidente della nascita dovrà essere la famiglia, nel cui contesto il suddetto sciagurato accidente si verifica con frequenza allarmante, e alla quale dunque sarà opportuno sostituire apposite istituzioni scientificamente validate, che garantiscano risultati statisticamente più omogenei sotto il profilo genetico e sociale.

E chi si incaricherebbe dell’opera di “correzione dell’accidente della nascita”? Be’, naturalmente gli Eletti, i Correttori al timone dell’Unione Europea e dei suoi successivi, logici sviluppi sino al coronamento del progetto di Correzione: il Governo Mondiale.

Che il precedente elenco di maestose follie metafisiche degli Eletti Correttori coincida con posizioni culturali, pratiche sociali e programmi politici attualmente in corso nella realtà effettuale dell’Occidente contemporaneo – posizioni, pratiche e programmi che vanno sotto il nome collettivo di “politically correct” – non è un caso. Non è un caso perché l’Unione Europea, il progressismo, il mondialismo, l’individualismo, etc., condividono lo stesso “accidente della nascita”: è più che vero infatti che, come dice la professoressa de Monticelli, gli Stati Uniti d’Europa sono un edificio politico architettato dalla filosofia.

Peccato che questa filosofia, se politicamente implementata, conduca per direttissima a un dispotismo politico, culturale, psicologico e spirituale senza precedenti nella storia umana; e che se adesso non fa direttamente e intenzionalmente versare un mare di sangue,  probabilmente in futuro ne farà versare un oceano indirettamente e involontariamente, perché sta assiduamente costruendo le condizioni per più guerre civili su base etnico/religiosa, a temperature variabili dal freddo all’incandescente, in tutto l’Occidente.

Secondo Julien Freund, “compito della politica è antivedere il peggio, e sventarlo” (Sociologie du conflit, 1983). Secondo gli Eletti Correttori, compito della politica è produrre una versione riveduta, corretta e migliorata del mondo: fiat iustitia, si correggano gli accidenti della nascita, ed entrino in scena il Mondo e l’Uomo Nuovo.

Ecco perché la polarizzazione in corso non si arresterà, ed ecco perché sono gli antichi involucri delle culture politiche di destra e di sinistra, che si contrapponevano, sino a ieri, intorno a un diverso clivage politico principale, ad accogliere oggi le forze politiche e culturali che si schierano pro o contro l’Unione Europea. A schierarsi contro l’Unione Europea sono tutte le forze che, per motivi anche diversissimi e inconciliabili, rifiutano l’universalismo politico: sia le puramente identitarie e tribali, sia le nazionalistiche, sia quelle che, riferendosi alla “corrente ateniese” del cristianesimo, continuino a distinguere tra universalismo dei valori e universalismo politico, tra spirituale e temporale. A schierarsi a favore dell’Unione Europea, sono tutte le forze che accettano l’universalismo politico: sia le liberali pure, sia le progressiste, sia quelle che, riferendosi alla “corrente ierosolimitana” del cristianesimo, ne mutuano il messianismo e cortocircuitano dimensione escatologica e storicità immanente.

Terreno comune culturale e politico tra le due posizioni ce ne sarà sempre meno; a meno che non nasca una terza forza, una riedizione del partito dei “politiques” che uscì vincitore e conciliatore dalle guerre di religione in terra di Francia, cinque secoli fa. Sarebbe una gran bella cosa, e una riedizione del Trattato di Westfalia il migliore degli esiti e dei compromessi desiderabili. Difficile? Difficile. Chissà.

[1] http://antropologiafilosofica.altervista.org/cosmopolitismo-universalismo-e-lunione-europea-una-risposta-a-roberta-de-monticelli/?doing_wp_cron=1559203478.2017359733581542968750

intervista al Generale Marco Bertolini_ Il concetto di sovranità e la sua declinazione in politica

Qui sotto una importante intervista al Generale Marco Bertolini. Si parte dalla sottolineatura del concetto di sovranità e della sua imprescindibile deglinazione in qualsivoglia azione politica. Si passa poi al riconoscimento dell’importanza degli strumenti dello Stato che consentono l’esercizio di queste prerogative in un contesto geopolitico sempre più complesso. Marco Bertolini, già Comandante della Folgore, ha assunto numerosi ed importanti incarichi nelle più svariate missioni all’estero dei contingenti militari italiani. Un patrimonio prezioso di esperienza al servizio del paese e della nazione. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

NB_In alcune parti la qualità dell’audio, dovuta ad un collegamento telematico non ottimale, non consente un ascolto agevole e lineare_Ce ne scusiamo con gli ascoltatori e con il Generale Marco Bertolini. Siamo sicuri che l’importanza degli argomenti rendano sopportabili tali mancanze

rebus da decifrare, a cura di Giuseppe Germinario

 

DALLA FINZIONE ALLA FARSA di Piero Visani

Siamo nel pieno delle “Tempeste d’acciaio” di Juengeriana memoria: “Avanti, ragazzi!: INCLUSIONEEE…!!!”

Dalla battaglia di Farsalo a quella di Farsaccia. Suggerirei un aggiornamento dei portati “teorici” del M5S: da “uno vale uno” a “a zero vale zero”. Un aggiornamento necessario e più consono, specie se autoriferito…
Ma chiudere per manifesto fallimento, anche ideologico, non sarebbe opportuno, risparmiando paccate di miliardi?

 

SMOTTAMENTI, di Fabio Falchi

In relazione al post precedente (in cui ho indicato i difetti della Lega e degli altri partiti), vorrei precisare che le elezioni del prossimo 26 maggio sono elezioni europee. Invece il M5S che fa? Parla di UE, di trattati da rivedere, di una politica europea funzionale agli interessi della Germania e della Francia o dell’austerity?
Nulla di tutto questo e perfino i “gilet gialli” sono scomparsi dall’agenda politica del M5S, che invece fa solo politica contro Salvini e la Lega. E si badi non in una stanza chiusa, come si conviene tra alleati, ma alla luce del sole.
All’inizio si poteva pensare che fosse solo politica di “bassa lega” per guadagnare un po’ di voti, ma adesso è chiaro che Di Maio, che non è che un burattino nelle mani di Grillo e Casaleggio, ha cambiato strategia e mira a far cadere il governo. La questione del sindaco di Legnano è solo un pretesto (se è corrotto ovviamente pagherà). Difatti, l’attacco contro l’alleato è a 360 gradi e l’importante è non parlare di Europa. Evidentemente l’UE “paga” bene. Che altro aggiungere?

Il difetto peggiore della Lega è certo quello di condividere gli stessi principi e valori di quelli che vorrebbe combattere. Incapace, per mancanza di cultura politica e di senso dello Stato, da un lato di fare una critica seria del neoimperialismo americano e pure di una critica seria ed equilibrata della politica di Israele , dall’altro di proporre una alternativa al neoliberismo, non si distingue dai suoi nemici o avversari che siano. Ma è proprio questo il problema ossia che i suoi avversari o nemici, oltre a questi gravi difetti, ne hanno di peggiori!

 

CON I PIEDI NEL PIATTO, di Vincenzo Cucinotta

Ma a voi sembra normale che il magistrato competente convochi una conferenza stampa per illustrare il procedimento che ha aperto proprio a ridosso delle elezioni (tralasciando di soffermarsi sulla mise apparentemente più adatta a una sfilata di moda)?
Poichè tale conferenza non ha funzioni processuali, è inevitabile dedurne che il fine sia politico.
Anche su questo aspetto, non trovo tuttavia nessun appunto, ma ormai siamo abituati a questa forma sofisticata di censura.

 

REGOLE AUREE, di Giuseppe Masala

  • Premesso che la Regola Aurea per vaticinare sul governo è la seguente: il governo dura fino a quando ha l’appoggio degli USA. Quando manca questo il governo finisce in un’ora di orologio.

Siamo arrivati alla fase delle litigate. Semplice campagna elettorale o c’è di più?

Fino ad ora i momenti salienti sono stati

(1) L’uscita di scena di Paolo Savona dalla compagine governativa che sostanzialmente significa accettazione della dottrina Monti. Certo con qualche possibile aggiustamento per non perdere consenso ma questo è quanto.

(2) La firma del Trattato sulla Via della Seta con Pechino. Anche questo trattato ci avvicina molto a Berlino stante la politica di sganciamento di Berlino da Washington.

Dunque questo governo nasce ostile a Berlino e filoamericano ma cammin facendo si ritrova molto vicino a Berlino e un po’ si allontana da Washington. Comunque siano andate le cose tra i due contraenti questo è quanto.

Dunque c’è molta sostanza nei litigi di questi giorni: i due contraenti devono scegliere il da farsi.

Le cose sono molto complesse per come la vedo io anche in relazione al fatto che c’è un tentativo di riavvicinamento tra Washington e Parigi. E dunque forse c’è una frizione tra la Francia e la Germania.

Comunque in questo difficile puzzle si gioca la durata del Governo. Chi rischia di più è Salvini. Parere mio. Piddi non pervenuto: a parole sono filo europoidi (il che vuol dire filo tedeschi) ma quando erano al governo pure loro hanno subito schiaffi ingiusti da Berlino e hanno sempre tentato di riequilibrare con gli USA (all’epoca guidati da Obama solo che ora c’è Trump con il quale non sono ideologicamente affini). Berlusconi? Lui è al sic transit gloria mundi.

Dietro le scintille degli ultimi giorni c’è un rebus difficilmente leggibile.

  • Può esistere un’Europa sostenibile? Certo che può esistere:

– Mercato comune;
– Libera circolazione delle persone e delle merci;
– Moneta Unica (tanto ormai c’è se non ci fosse stata sarebbe stato meglio) + Emissione di Eurobond
– Sanatoria dei disequilibri di Partite Correnti tramite spostamento di aziende produttive dai paesi il surplus verso quelli in deficit
– Progressiva costruzione di un Welfare Unico Europeo
– Costruzione di una Scuola Europea
– Uniformazione dei sistemi tributari (no al dumping fiscale)
– Salario Minimo orario europeo
– Politica estera Unica solo sui diritti umani e sulla cooperazione transfrontaliera (per il resto ognuno per sé e Dio per tutti)

NO ALL’ESERCITO UNICO EUROPEO.

Praticamente stanno facendo quello che non andrebbe fatto perché è impossibile fare ciò che andrebbe fatto per salvare l’Europa. Io dico che sono in un vicolo cieco: difficilissimo tornare indietro e difficilissimo andare avanti. Traete voi le conclusioni su come andrà a finire.

 

RITORNANO, di Gianfranco La Grassa

Stiamo andando di nuovo verso la piena politicizzazione della “giustizia” come già in altra epoca che ben ricordiamo e che ha avviato il paese ad una netta decadenza. Queste operazioni si accentuano nel momento in cui i “5 stelle” stanno riaprendo quello che fu il “primo forno”, fatto fallire da Renzi a “Porta a Porta”, favorendo così la formazione dell’attuale coalizione governativa. All’improvviso Di Maio si mette a dire cretinate (come il Pd) sullo spread provocato per riportare in auge pienamente l’austerità della UE (soprattutto nei nostri confronti). Ripeto che siamo in mano a prekeynesiani, seguaci del più balordo e fallimentare liberismo (diciamo “alla Pigou”). Sempre più è chiaro che sarebbe necessaria una definitiva resa dei conti con queste forze reazionarie. Se si continua a ricercare il compromesso, si arriva solo alle decisioni ormai “di parte” del premier Conte, infine smascheratosi per quello che è; adesso si capisce perché è stato scelto. La Lega forse sperava di riuscire a condizionare finti alleati e il premier nominato in seguito all’opposizione fin troppo brusca del presdelarep ad un Savona, decisione che suscitava infatti una serie di sospetti. Anche l’improvvida e sgangherata richiesta di impeachment di detto presdelarep da parte del leader pentastellato – d’altra parte ritirata subito in modo altrettanto inconsulto – suscita adesso domande. Era forse una copertura di certi rapporti che intercorrono tra ambienti veteroeuropeisti e questi “ultramoderni” grillini con l’intenzione di ingannare e quindi paralizzare gli ambienti che si dicono sovranisti? PD e “5 stelle” si affannano a dichiarare che mai potrebbero mettersi insieme, che si odiano o giù di lì. Intanto, però, stanno progressivamente rendendo paralleli i loro piani e le loro dichiarazioni sempre più balorde e reazionarie, del più piatto e vetusto liberismo. Si sta ormai giocando sporchissimo come all’epoca della liquidazione della prima Repubblica e del rapido indebolimento del nostro paese.

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