Tutte le sintonie fra Erdogan e Biden di Giuseppe Gagliano

Tutte le sintonie fra Erdogan e Biden

di

erdogan biden

Nonostante tutto, la Turchia di Erdogan si conferma importante e utile agli Stati Uniti di Biden. Ecco perché. L’analisi di Giuseppe Gagliano

 

Nonostante il presidente turco sia stato definito un autocrate da Biden, e nonostante il fatto che le istituzioni americane abbiano definito l’eliminazione degli armeni come un vero e proprio genocidio, l’incontro a Bruxelles si è concluso con un’affermazione tutt’altro che sorprendente da parte del presidente turco, affermazione secondo la quale con gli Stati Uniti non ci sono problemi che non possono essere risolti. Proprio lo stesso presidente americano d’altronde ha confermato che l’incontro col suo omologo turco è stato produttivo.

Nonostante il ruolo sempre più assertivo da parte della Turchia in Medio Oriente, nonostante l’opposizione di Ankara al sostegno degli Stati Uniti ai combattenti curdi in Siria e, infine, nonostante gli Usa abbiamo penalizzato la Turchia per l’acquisto del sistema di difesa missilistica S-400 della Russia, pare che fra i due leader sia tornato il sereno. Sarà forse per le virtù taumaturgiche della democrazia americana? O forse più realisticamente per interesse di realpolitik?

COSA FA LA TURCHIA PER GLI STATI UNITI

A cosa stiamo alludendo esattamente? Si fa riferimento alla possibilità che la Turchia possa mantenere una presenza militare in Afghanistan grazie al sostegno logistico e finanziario degli Stati Uniti; si fa riferimento al fatto naturalmente che la Turchia ha anche un ruolo potenziale da svolgere nella più ampia strategia di Biden di radunare alleati per opporsi all’influenza di Cina e Russia, nonostante il fatto che Erdogan abbia concluso un nuovo accordo di scambio di valuta da 3,6 miliardi di dollari con Pechino.

Ma stiamo anche alludendo al fatto che la Turchia è un avversario della Russia nello scacchiere siriano e libico, dove infatti i droni e le difese aeree turche sono stati fondamentali per respingere gli alleati della Russia.

Ma stiamo infine alludendo anche al fatto che la Turchia si è schierata con l’Ucraina sostenendo quindi gli Usa in funzione anti russa.

In definitiva, se la politica del presidente turco può apparire ondivaga e contraddittoria, in realtà le scelte di politica estera del presidente turco sono state sempre improntate a una vera e propria spregiudicatezza e a un calcolo politico volto a tutelare esclusivamente non solo gli interessi della Turchia e della sua proiezione di potenza, ma spesso anche gli interessi di quella ristretta oligarchia che ruota intorno al presidente turco.

APPARENZE E SOSTANZA

Quindi, al di là delle apparenze – spesso frutto di calcoli elettorali -, la sostanza delle relazioni tra America e Turchia segue le stesse linee di forza di quelle di Trump. Come d’altronde quelle con l’altro autocrate, e cioè con Mohammed bin Salman.

Nulla di sorprendente dal punto di vista storico: a conclusione della Seconda guerra mondiale – e soprattutto durante la guerra fredda – le democrazie hanno sempre avuto bisogno, per ragioni geopolitiche e geoeconomiche (leggi petrolio e non solo…), dei sistemi autocratici, sia che fossero in Medioriente, in Africa o in America latina.

Forse bisognerebbe spiegarlo anche ai vari autori dei numerosi manualetti di educazione civica diffusi nelle scuole superiori… oltre che al Miur.

https://www.startmag.it/mondo/erdogan-biden-rapporti-turchia-stati-uniti/?fbclid=IwAR0zKE07FCj3usFDUnLgzUg2HNKTywRQ1mMhFsSYC6PwXVk-WQ049dyaCOk

LA DIASPORA DEI COMPAGNUCCI DELLA PAROCCHIETTA, di Antonio de Martini

LA DIASPORA DEI COMPAGNUCCI DELLA PAROCCHIETTA
Lanciando l’idea di un candidato italiano competente e affidabile a segretario generale NATO per rafforzare l’immagine del patto Atlantico nell’immaginario collettivo, mi si é rivelato un mondo.
Dopo D’Alema che si è scoperto la vocazione del miliardario ritirandosi tra barca e vigneti, Minniti che si è sistemato a Leonardo, Martina a vicenonsocchè della FAO, la fuga degli esponenti PD dal partito che fu di Gramsci e Di Vittorio prosegue con Enrico Letta e la Mogherini che pare vogliano candidarsi a segretario Generale della NATO.
L’unico che non é riuscito a sistemarsi – per ora- é Rutelli cui é fallito il colpo – tentato con insistente approssimazione – di passare all’UNESCO.
Sistemazione precaria per Renzi che fa …conferenze da ottantamila a marchetta in paesi disagiati ma danarosi.
L’idea che il partito servisse a trovare una sistemazione a disoccupati era ampiamente nota, ma la credevo limitata agli uscieri.
Vedo invece che – prevedendo come donna Letizia Bonaparte – l’imminente crollo della congrega – gli uomini e donne di vertice stanno spendendo le ultime risorse per abbandonare il TITANIC e sistemare la famiglia.
Appartenere a un’area politica che abbia votato l’adesione al patto Atlantico e essere competenti nel campo per essere candidati, non serve: per posti da trecentomila dollari annui più immunità diplomatica, ci si toglie i guanti e si pretende in curriculum almeno sei mesi da segretario del PD.

SURTOUT PAS TROP DE ZÈLE, di Teodoro Klitsche de la Grange

SURTOUT PAS TROP DE ZÈLE

I miei (pochi) lettori mi consentano di ritornare su un argomento da me assai frequentato: la disparità delle armi tra pubblica amministrazione e privati nelle controversie (meglio nel contenzioso) tributario, amministrativo e civile. Disparità incrementata dalla c.d. “seconda Repubblica”, a dispetto del fatto che la “parità delle armi” (processuali) è stato costituzionalizzata nel 1999 con la novella all’art. 111 della Costituzione. Prima e dopo la suddetta novella, il legislatore ha fatto tutto il possibile per contraddire a livello legislativo, quanto solennemente introdotto in quello costituzionale. Fin qui nulla di nuovo, se non lo straripante tasso d’ipocrisia ma ancor più di disinformazione, onde il problema, che riguarda tutti i cittadini italiani è costantemente sottovalutato o occultato nel dibattito pubblico.

Piuttosto occorre chiedersi se il sistema usuale e normale per riottenere il riequilibrio delle armi, ossia: a) l’istituzione di mezzi, soprattutto giudiziari, di difesa idonei a compensare almeno in parte lo squilibrio; b) la loro indipendenza; c) la parità, o almeno la non eccessiva disparità tra pubblico e privato, siano sufficienti in una situazione largamente compromessa come quella attuale.

A tale proposito è bene andare a quanto ne pensava Vittorio Emanuele Orlando. Com’è noto la tutela del privato verso le pretese dell’amministrazione fu attuato dalla classe dirigente liberale soprattutto con due leggi. La legge abolitiva del contenzioso amministrativo (del 1865) e la legge istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato (1889). Ma in particolare la prima attirò le considerazioni negative di Orlando sull’accoglienza che aveva ottenuto dalla magistratura dell’epoca. Scrive il giurista siciliano “Ciò che davvero importa, in questa materia, è di non lasciarsi sviare dalle incertezze della giurisprudenza. L’abbiamo detto più volte, e l’osservazione non è nostra soltanto: la legge del 1865 fu troppo liberale, e non trovò le condizioni ambientali idonee al suo sereno e completo svolgimento. Il sentimento autoritario era ed è ancora troppo radicato in noi, popolo nato ora alla libertà. Sicché, tutte le volte che essa ha potuto, la giurisprudenza ha allontanato da sé il calice amaro di agire come freno e limite del potere esecutivo. E così avviene, per una coincidenza che dopo l’anzidetto non sembrerà del tutto accidentale” (voce “Contenzioso amministrativo” del Digesto Italiano, Torino 1895-1898, il corsivo è mio). E sulla “timidezza” del potere giudiziario nei confronti di quello governativo-amministrativo ritorna più volte (nel saggio citato e altrove).

C’è da chiedersi se la “timidezza” attribuita da Orlando alla magistratura a lui contemporanea sia (o sia ritornata) ad essere connotato di quella attuale, magari non qualificabile così, ma piuttosto sodalizio, ansia, timore per le pubbliche finanze; ma il cui esito, comunque è di agevolare, ancor più di quanto non abbia fatto il legislatore, le pubbliche amministrazioni litiganti.

Prendiamo un paio di statistiche come esempio. Quella dell’Agenzia delle Entrate del 2020 evidenzia un “indice di vittoria” (per l’Agenzia) pari al 76,2% delle liti. Solo che a leggerlo risulta che a tale lusinghiero risultato hanno contribuito…anche le cause perse. Infatti la P.A. ha calcolato a proprio favore nell’indice anche quelle “parzialmente favorevoli” cioè quelle altrettanto “parzialmente favorevoli” al contribuente.

A un lettore attento piuttosto che tale criterio ad usum delphini, probabilmente apparirebbe più conforme alla realtà calcolare, salomonicamente, gli esiti parzialmente favorevoli in ragione della metà (a favore dell’Agenzia) e non tutti a favore. Quel che più conta e che (a tacer d’altro) dall’esperienza personale di difensore, e da quella di altri colleghi, quasi tutti i ricorsi totalmente o parzialmente favorevoli al contribuente si concludono con la compensazione delle spese (cioè il contribuente, pur vittorioso, paga per intero il proprio difensore), mentre nel caso contrario (di soccombenza totale) il Giudice tributario pone quasi sempre  a carico dello stesso le spese di giustizia. Mezzo semplice  ed efficace per disincentivare il contenzioso… a carico delle parti private.

Altro esempio: i giudizi di equa riparazione (Legge Pinto). Essendo quasi tutti gli esiti a favore delle parti private, il legislatore aveva già messo le… mani avanti, disponendo che le spese andassero liquidate in ragione della metà della tariffa ordinaria. Ma evidentemente tale zelo non appariva sufficiente. Per cui gli importi delle spese a carico delle P.P.A.A. resistenti solo calcolati dai Giudici in misura minore di guisa che è normale leggere che un processo Pinto alla Corte d’Appello, è “remunerato” con 3-400 euro o un giudizio al TAR con 2-400 euro.

E si potrebbe andare avanti, con risultati (quasi) sempre simili. Certo c’è da chiedersi se tali risultati siano dovuti più che alla “timidezza”, che non appare sempre come connotato della giustizia italiana, come confermano i processi a Ministri, non ultimi quelli a Salvini per decisioni governative (tutte) politiche, ma piuttosto ad un (malinteso) senso dell’interesse pubblico. Per cui ci si sente gratificati dal limitare gli esborsi a carico delle (disastrate) finanze italiane. L’ingenuità (almeno) di tale comportamento è che se si rende più economico il litigare al soccombente, il risultato sarà quello di aumentare il numero delle resistenze in giudizio infondate. Meglio seguire il consiglio di Talleyrand ai funzionari francesi “surtout pas trop de zèle”. Ma ancor di più l’interesse pubblico non è tanto un rapporto di dare e avere, tra incassato e speso. È in primo luogo l’affetto, la solidarietà tra cittadini della stessa comunità, compresi governati e governanti. Se la si scuote o la si svuota, con espedienti e artifizi da causidico, s’incrina e alla fine si distrugge la stessa comunità e istituzione politica. Cammino che in gran parte abbiamo già percorso.

Teodoro Klitsche de la Grange

UN PO’ DI PROSPETTIVA STORICA, di Andrea Zhok

Qui sotto alcune interessanti considerazioni di Andrea Zhok. Non parlerei di libertà di coltivazione, preservazione e sviluppo del patrimonio culturale, quanto piuttosto del fatto che la battaglia politica nell’ambito culturale almeno sino ad ora prevede dinamiche molto più sofisticate e indirette laddove la coercizione, insita nel politico, è molto più mediata dalla capacità egemonica, persuasiva e discorsiva. Richiede tempi più lunghi ed offre spazi più agibili anche esterni alle istituzioni preposte. Ritengo anzi che gli spazi esterni, con risorse umane (ancora esistenti) e finanziarie (teoricamente disponibili, ma non significativamente fruibili per la cecità e la pochezza dei detentori) appropriate, siano la strada più praticabile viste le dinamiche e le incrostazioni di potere che stanno asfissiando le istituzioni preposte, a cominciare dalle università. Il fiorire di blog e siti, pur nella spazzatura dominante, sono comunque il segno di questa vitalità e fragilità. La battaglia culturale è certamente fondamentale per consentire indipendenza e fondatezza di giudizio in qualsiasi condizione politica, anche la più asservita; è quindi la premessa di un possibile “risorgimento”. Personalmente ritengo che si dovrebbe fare qualche sforzo in più per individuare realisticamente gli spazi e le opportunità nella cornice prospettata con lucidità dal post di Andrea Zhok, superando il dozzinale “anti” e “pro” che caratterizza le fazioni diversamente impegnate nelle tenzoni. Sia in ambito europeo, che nel Mediterraneo questi si sono aperti esplicitamente e anche se con crescenti difficoltà se ne apriranno ancora perchè si stanno ridefinendo le aree di influenza e le modalità di gestione interna di esse. Una qualsiasi forza egemonica e imperiale non riesce a gestire direttamente paesi anche più piccoli e meno complessi dell’Italia; devono agire nelle contraddizioni, nelle rappresentazioni e negli interessi locali e appoggiarsi alle realtà politiche in loco. Sta a queste cercare di preservare margini di autonomia e controllo operativo e su questo si può condurre quantomeno un’azione di smascheramento e delegittimazione del nostro ceto politico e di gran parte della classe dirigente. Vale nell’ambito del controllo delle leve con l’obbiettivo di contrastare i progressivi processi di integrazione operativa subordinata in ambito militare, di ordine pubblico e diplomatico; vale nell’economia, nella ricerca scientifica, nelle applicazioni tecnologiche e nella formazione delle piattaforme industriali. Sembrano ambiti estranei e avulsi dalla logica del conflitto sociale e della “lotta di classe”; in realtà è da quelle dinamiche che dipendono la formazione di ceti medi forti, dinamici e funzionali, di blocchi e formazioni sociali coese nonché la difesa realistica e la collocazione proficua degli interessi degli strati più popolari. Il confronto culturale è certamente essenziale; ma di aspra battaglia politica comunque si tratta. Quanto al “junk” culturale americano, esiste sicuramente negli Stati Uniti e sta ammorbando e debilitando quel paese. Ma non c’è solo quello, fortunatamente per loro; hanno ancora carte da giocare. E’ da noi che arriva e ci viene filtrato quasi esclusivamente quello con zelante accondiscendenza. Buona lettura_Giuseppe Germinario
tratto da facebook.
UN PO’ DI PROSPETTIVA STORICA, di Andrea Zhok
Qualche giorno fa ho letto sulla rivista Limes alcune considerazioni scritte in forma anonima da un ufficiale americano in congedo. Nulla di davvero nuovo, né sconvolgente, solo un promemoria della situazione reale dell’Italia in rapporto agli USA.
<<“Che cosa abbiamo? Il controllo militare e di intelligence del territorio, in forma pressoché totale. E quel grado, non eccessivo, di influenza sul potere politico -soprattutto sui poteri informali ma fondamentali che gestiscono di fatto il paese. Quello che voi italiani ci avete consegnato nel 1945 -a proposito, se qualcuno di voi mi spiegasse perché ci dichiaraste guerra, gliene sarei davvero grato- e che non potremmo, nemmeno volendolo, restituirvi. Se non perdendo la terza guerra mondiale.
In concreto -e vengo, penso, a quella «geopolitica» di cui parlate mentre noi la facciamo- dell’Italia ci interessano tre cose. La posizione (quindi le basi), il papa (quindi l’universale potenza spirituale, e qui forse come cattolico e correligionario del papa emerito sono un poco di parte) e il mito di Roma, che tanto influì sui nostri padri fondatori.
La posizione. Siete un gigantesco molo piantato in mezzo al Mediterraneo. Sul fronte adriatico, eravate (e un po’ restate, perché quelli non muoiono mai) bastione contro la minaccia russa, oggi soprattutto cinese. Ma come vi può essere saltato in mente di offrire ai cinesi il porto di Trieste? Chiedo scusa, ma avete dimenticato che quello scalo di Vienna su cui i rossi di Tito stavano per mettere le mani ve lo abbiamo restituito noi, nel 1954? E non avete la pazienza di studiare il collegamento ferroviario e stradale fra Vicenza (e Aviano) e Trieste -ai tempi miei faceva abbastanza schifo, ma non importa- che fa di quel porto uno scalo militare, all’intersezione meridionale dell’estrema linea difensiva Baltico-Adriatico? E forse dimenticate che una delle più grandi piattaforme di comunicazioni, cioè di intelligence, fuori del territorio nazionale l’abbiamo in Sicilia, a Niscemi, presso lo Stretto che separa Africa ed Europa, da cui passano le rotte fra Atlantico e Indo- Pacifico?”.>>
Il testo prosegue in modo interessante, ma siccome non sono qui intenzionato a sviluppare un discorso di natura geopolitica, per quel che voglio dire, basta così.
Parto da queste valutazioni, che sono un semplice realistico bagno di realtà, per fare alcune considerazioni generali sulla condizione storica dell’Italia.
Il dato di partenza, ben illustrato nel passaggio succitato, è che l’Italia non è in nessun modo valutabile come un paese politicamente sovrano.
Siamo un protettorato USA, cui è stato concesso di acquisire una seconda forma di dipendenza, economica, nei confronti della Germania, nella cornice UE. Questo è quanto.
Siamo dunque poco più di un’espressione geografica, come diceva Metternich, la cui politica ha minimi margini di gioco.
Siamo lontani dagli anni in cui vedevamo le dirette ingerenze dei “servizi segreti deviati” nella politica italiana (“strategia della tensione”), ma ne siamo lontani semplicemente perché ciò che spontaneamente si agita nella politica italiana è già totalmente asservito, e non richiede una manipolazione troppo robusta.
Facciamo una politica estera che ci viene dettata nei dettagli dagli USA, abbaiando obbedienti ai loro avversari.
Facciamo una politica interna innocua e perfettamente inconcludente, e una politica economica apprezzata dagli USA (e che coincide con il gradimento degli ordoliberisti tedeschi.)
Questa è la situazione e, come dice correttamente l’ufficiale, non cambierà fino alla terza guerra mondiale (o fino ad un cataclisma di pari portata).
I margini reali della nostra politica sono quelli che passano tra l’essere un paese nel gruppo di coda nella cornice ordoliberista europea e l’essere un paese nel gruppo di testa, nella stessa cornice. Possiamo cioè migliorare un po’ le condizioni di vita di alcuni gruppi, nel quadro economico dato.
Non è un obiettivo insignificante, può essere meritevole di impegno, ma segnala chiaramente i confini di una politica nazionale che vive nella boccia dei pesci rossi tenuta sul comodino dagli USA.
Non è in discussione la cornice di sistema economico, così come non è in discussione nulla che riguardi la politica estera.
Per quelli che si riempiono la bocca di ‘libertà’ è utile capire che la libertà che abbiamo è quella che il guardiano del carcere concede ai detenuti modello.
In questo contesto, c’è qualcosa che possiamo fare? C’è un ruolo che possiamo giocare senza che sia già pregiudicato?
Direi che rimane soltanto un autentico spiraglio di libertà positiva. E’ lo spiraglio, per rifarci ad un modello classico – e inarrivabile -, che aveva la Grecia antica rispetto alla strapotenza romana: non abbiamo margini per muovere foglia sul piano della politica sovrana, ma potenzialmente avremmo qualcosa da dire come ‘potenza culturale’.
Lo so che siamo troppo occupati, grazie ai nostri media, a piangerci addosso per non essere abbastanza simili al padrone americano.
Lo so che tutto ciò che viene promosso come esemplarità da perseguire dal nostro apparato informativo non travalica i limiti di un’emulazione goffa del modello americano.
Non paga del colonialismo materiale, economico e politico una parte significativa delle classi dirigenti del nostro paese, incardinata nel sistema mediatico, cerca h24 di ridurre l’Italia anche ad una colonia culturale.
Ciò avviene in mille modi, dall’adozione di modelli formativi di ispirazione americana, all’assorbimento passivo illimitato della filmografia americana (e dei suoi temi, che siamo indotti a immaginare siano i nostri), alla resa incondizionata a tonnellate di imprestiti linguistici da parvenu (ci muoveremo grazie al Green pass, canteremo le lodi del Recovery fund, che ci permetterà di ribadire il Jobs act, dopo essere finalmente usciti dal Lockdown, in attesa che vadano al governo quelli della Flat tax al posto di quelli del Gender fluid, e ci dedicheremo allo Smart working, rivitalizzando i settori del Food e del Wedding, mentre lotteremo impavidi contro le Fake news.)
Fortunatamente, nonostante tutti i tentativi di distruzione, le tradizioni culturali hanno una natura coriacea, un’inerzia che tende a permanere nonostante le attività di boicottaggio costante.
E così, nonostante la distruzione sistematica di scuola e università sul piano istituzionale, una tradizione di formazione mediamente decente, a volte brillante, continua a persistere.
E così, nonostante la demolizione a colpi di squallore american-style della cultura musicale, in quello che un tempo era considerato il paese musicale per eccellenza, rimangono buone tradizioni di formazione e continuiamo a produrre musicisti di rango.
E così, nonostante i tentativi di devastare la cultura enogastronomica più ricca del mondo a colpi di bollinature UE e promozioni McDonald’s, rimane un’ampia cultura diffusa della buona alimentazione.
Ecc. ecc.
Il punto di fondo credo sia il seguente.
Nel medio-lungo periodo l’unico vero patrimonio che, come italiani, siamo nelle condizioni di coltivare, preservare e sviluppare liberamente è quello culturale.
Abbiamo ereditato una delle dieci tradizioni culturali più ricche, durature e molteplici del mondo.
E se non cediamo su tutta la linea a quelle élite cosmopolite, mediaticamente sovrarappresentate, ma culturalmente straccione che ambientano i loro sogni a Central Park e nella Baia di San Francisco, se non molliamo completamente il colpo, può darsi che la storia ci riservi ancora un ruolo che non sia quello di un villaggio turistico coloniale.
commenti

Giovanni Greco

Concordo, ma aggiungerei anche il patrimonio tecnologico potenziale del Nostro paese, che, nel suo “piccolo” ( ma neanche tanto…), riesce ad esprimere l’eccellenza, quando non la si svende al privato o all’estero.

Giuseppe Germinario

Non parlerei di libertà di coltivazione, preservazione e sviluppo del patrimonio culturale, quanto piuttosto del fatto che la battaglia politica nell’ambito culturale almeno sino ad ora prevede dinamiche molto più sofisticate e indirette laddove la coercizione, insita nel politico, è molto più mediata dalla capacità egemonica, persuasiva e discorsiva. Richiede tempi più lunghi ed offre spazi più agibili anche esterni alle istituzioni preposte. Ritengo anzi che gli spazi esterni, con risorse umane (ancora esistenti) e finanziarie (teoricamente disponibili, ma non significativamente fruibili per la cecità e la pochezza dei detentori) appropriate, siano la strada più praticabile viste le dinamiche e le incrostazioni di potere che stanno asfissiando le istituzioni preposte, a cominciare dalle università. Il fiorire di blog e siti, pur nella spazzatura dominante, sono comunque il segno di questa vitalità e fragilità. La battaglia culturale è certamente fondamentale per consentire indipendenza e fondatezza di giudizio in qualsiasi condizione politica, anche la più asservita; è quindi la premessa di un possibile “risorgimento”. Personalmente ritengo che si dovrebbe fare qualche sforzo in più per individuare realisticamente gli spazi e le opportunità nella cornice prospettata con lucidità dal post di Andrea Zhok, superando il dozzinale “anti” e “pro” che caratterizza le fazioni diversamente impegnate nelle tenzoni. Sia in ambito europeo, che nel Mediterraneo questi si sono aperti esplicitamente e anche se con crescenti difficoltà se ne apriranno ancora perchè si stanno ridefinendo le aree di influenza e le modalità di gestione interna di esse. Una qualsiasi forza egemonica e imperiale non riesce a gestire direttamente paesi anche più piccoli e meno complessi dell’Italia; devono agire nelle contraddizioni, nelle rappresentazioni e negli interessi locali e appoggiarsi alle realtà politiche in loco. Sta a queste cercare di preservare margini di autonomia e controllo operativo e su questo si può condurre quantomeno un’azione di smascheramento e delegittimazione del nostro ceto politico e di gran parte della classe dirigente. Vale nell’ambito del controllo delle leve con l’obbiettivo di contrastare i progressivi processi di integrazione operativa subordinata in ambito militare, di ordine pubblico e diplomatico; vale nell’economia, nella ricerca scientifica, nelle applicazioni tecnologiche e nella formazione delle piattaforme industriali. Sembrano ambiti estranei e avulsi dalla logica del conflitto sociale e della “lotta di classe”; in realtà è da quelle dinamiche che dipendono la formazione di ceti medi forti, dinamici e funzionali, di blocchi e formazioni sociali coese nonché la difesa realistica e la collocazione proficua degli interessi degli strati più popolari. Il confronto culturale è certamente essenziale; ma di aspra battaglia politica comunque si tratta. Quanto al “junk” culturale americano, esiste sicuramente negli Stati Uniti e sta ammorbando e debilitando quel paese. Ma non c’è solo quello, fortunatamente per loro; hanno ancora carte da giocare. E’ da noi che arriva e ci viene filtrato quasi esclusivamente quello con zelante accondiscendenza.

Luigi Giordano

I media, maledetti media, fanno la differenza. Seguono l’ordine del giorno deciso dalle élite, ovvero i loro padroni.

Roberto Buffagni

Concordo, è il “calati juncu ca passa la china” che ci permise di sopravvivere, come realtà culturale, nella lunga notte politica di Seicento e Settecento. Oggi fa più buio e ci sono meno luci ma la ricetta più o meno è quella. Ci sarebbe stato uno spiraglio di finestra di opportunità con la presidenza Trump, se Trump non fosse stato Trump e se i sovranisti italiani e non solo non fossero stati i sovranisti italiani e non solo, ma la finestra si è chiusa e qualcuno ci ha anche lasciato le dita in mezzo.

Stefano Vezzoli

Una persona maliziosa, un critico, vedrebbe in questo suo scritto un elogio, come unica speranza politica, della resilienza tanto bistrattata. Resilienza che lei stesso ha criticato riferendosi al discorso di Draghi.
Ora, come rispondere a questa critica? Dove passa e quanto è sottile il confine tra resilienza passiva e resistenza attiva? E trovato questo confine, che si mantiene in forma istintiva (individuale), come renderlo poi esplicito, politico, militante, per tradurlo in azione di “riconquista” (comunitaria)?
Forse la differenza tra resilienza e resistenza è dunque che la prima è individuale, atomizzata, non guidata all’azione politica, umorale; mentre la seconda è collettiva, sociale, indirizzata politicamente, romantica?

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Autore

Andrea Zhok

Stefano Vezzoli Mi sono astenuto attentamente dall’usare il termine resilienza, per quanto fosse qui appropriato. Ad ogni modo non ho mai detto che la resilienza sia una qualità cattiva (così come quando ho criticato la retorica dell’eccellenza non ho mai pensato che mirare ad eccellere sia di per sé male); quello che ho detto è che la resilienza su base individuale propagandata (prescritta) dal neoliberalismo altro non è che l’accettazione di prendere bastonate, contando sul fatto che poi ci si rialzerà. La resilienza culturale di un paese non è una scelta, è una qualità intrinseca: descrittiva, non prescrittiva.

Raul Catalano

Condivido molto di questo scritto ma, utopia per utopia, credo che la possibilità di sganciarsi (almeno un poco) da questo destino di totale omologazione e sudditanza ormai possa passare solo da un aumento della forza contrattuale europea nel suo complesso, sia perché il discorso potrebbe applicarsi benissimo alla maggior parte degli altri paesi europei (UK esclusa, ovviamente, e infatti …) ma soprattutto perché senza una sufficiente “massa critica” le probabilità di resistere alla attrazione economico/culturale/militare del gigante morente americano e della Cina pigliatutto sono prossime allo zero. Con tutto ciò di male che posso pensare della Europa a trazione tedesca, abbiamo più in comune con loro che con la volgarità e la superficialità americana. Sappiamo benissimo che qualsiasi singolo tentativo di vera autonomia rispetto agli interessi geopolitici americani verrebbe schiacciata, con le buone e con le cattive.

Dario Grison

Raul Catalano sì però non è solo l’Italia ad essere uscita sconfitta nel 45, ma l’Europa continentale intera. Ricordo una brillante sintesi di Caracciolo: agli USA interessa un’Europa abbastanza forte da non dover intervenire, ma sufficientemente debole da non costituire una concorrente

Alessandro Bruno

Negli anni 80 però, ci furono coraggiosi e notevoli tentativi di distaccarsi dal dominio atlantista. E ogni tanto, qualcuno è riuscito anche a svincolarsi negli ultimi vent’anni. (Per esempio, D’Alema in Libano 2006) o perfino Berlusconi con la Libia …

Altro…

Alessandro Leonardi

Considerate la varie traiettorie del Sistema globale nei prossimi due/tre decenni, fra multiple crisi, salti tecnologici, disperati tentativi di rivitalizzare la “crescita occidentale” e tensioni strutturali alle stelle, la mia generazione (i Millenial) e quelle successive potrebbero vedere per la prima volta l’Italia in una forma drasticamente diversa rispetto allo status quo messo in piedi dal 1945. Probabilmente fuori dall’orbita di questa o quella Potenza. Non è ancora il momento, siamo ancora distanti, ma nei prossimi 20/30 anni potrebbe succedere di tutto, data la velocità stessa del modello globale e le sue crisi interne. Sinceramente non credo che le istituzioni repubblicane reggeranno in codesta forma, in caso di violenti scossoni esterni. L’Italia è un bel vecchio museo aggrappato al treno planetario e quindi il suo destino è legato ad esso. Nel bene e nel male.
Autore

Andrea Zhok

Alessandro Leonardi Se è solo un vecchio museo qualcuno se ne approprierà e basta, come accade sempre per le reliquie. Per avere/essere un patrimonio culturale la cultura (conoscenza, destrezza, sensibilità, ecc.) deve essere nelle persone.

Dario Grison

L’alternativa è diventare tutti cattolici tradizionalisti, che sembra essere l’unica forma di influenza ancora perseguibile, a detta dell’anonimo di Limes
Autore

Andrea Zhok

Dario Grison Non necessariamente tradizionalisti, però che la cultura cristiana abbia radici profonde, e feconde, nella cultura italiana è indubbio.

Maria Esposito Siotto

Grazie per la riflessione e la diffusione del documento. Ricordo una sua riflessione in merito ai danni della pandemia in un paese a forte vocazione culturale per i motivi dei limiti alla mobilità ed al turismo imposti dai lockdown. La risorsa cu…

Altro…
Autore

Andrea Zhok

Maria Esposito Siotto Ovviamente, ma questa è una visione a breve termine, sin troppo alimentata, quella di vendere ad un buon prezzo le glorie passate (“valorizzazione del patrimonio”).
Accettabile, ma nel lungo periodo assai miope.

Claudio Gallo

Non ci resta che coltivare una gentile impotenza. Poi, a proposito dei servizi deviati: sono deviati solo dopo che si fanno prendere con le mani nel sacco.

Marcello Bernacchia

“Correligionario del papa emerito”? Cioè, sta dicendo che non considera Bergoglio cattolico?

Maurizio Candiotto

Marcello Bernacchia la domanda contiene la risposta…

Marcello Bernacchia

D’altronde, se non mettessero becco anche lì, che colonizzatori sarebbero?

Roberto Buffagni

Marcello Bernacchia Se davvero è un ufficiale, normale che disprezzi Bergoglio, come si disprezzerebbe il servilismo e la corrività in chiunque.

Marcello Bernacchia

Io su Bergoglio sono più possibilista, nonostante non poche perplessità. E penso che un ufficiale Usa di Bergoglio disprezzi il “socialismo” (reale o presunto), che per me è un punto a favore di Bergoglio.

Roberto Buffagni

Marcello Bernacchia Può essere. Un consiglio: se aspetta il socialismo da Bergoglio, si metta comodo.

Marcello Bernacchia

Non lo aspetto da lui, ma constato che qualcuno da lui lo teme. E ciò che è creduto vero esiste, come già notava von Hofmannsthal.

Maurizio Candiotto

Marcello Bernacchia E’ tutto da vedere se ciò che taluni da lui temono sia davvero il socialismo

Maurizio Candiotto

Marcello Bernacchia E, comunque, di *quale* socialismo, esattamente, stiamo parlando? Di quello che “serve a fare funzionare meglio il capitalismo”?! Quello, lo temo anche io (e in effetti esiste o va ad esistere. Magari anche con un aiutino da Mr. B.)

Federico Virgilio

Non cedere sulla linea significa “pensare con la propria testa”: sarà questa la sfida per il prossimo imminente futuro. E’ un presente di barbarie…

Carlo Pasini

Professore, l’ufficiale in congedo (da cui il post) parte male quando dice di “avegli consegnato il Paese nel ’45″” e, quando con spocchia chiede “perché ci dichiaraste guerra” che invece il vergognoso Duce dichiarò a Gran Bretagna e Francia.
A mio avviso è il globale neoliberismo il nemico del Paese ( quello della Costituzione) e della nostra Democrazia, ma non scomoderei fatti di 75-80 anni fa per le parole di un esuberante Yankee.

Sebastiano Lisi

“[…] ma potenzialmente avremmo qualcosa da dire come ‘potenza culturale’.”
Mah, forse stando nelle università non si vede, ma credo che pure come vagheggiata ‘potenza culturale’ i buoi siano da tempo scappati.

Gabriela Fantato

Ecco, con queste riflessioni acute, precise e colte mi son commossa, e mi è venuto in mente anche Foscolo (….)” A egregie cose il forte animo accendono l’urne dei forti “(….).
E da , a seguire, che l’Italia è un Paese ” invasi” da una subcultura anglofona, ” tranne la memoria, tutto”( ci è stato rubato, svenduto, dimenticato!!!).
Da questa nostra storia di grande musica, arte, letteratura, anche di cultura gastronomica,direi, dobbiamo trarre forza e orgoglio per ” opporci” all’ annientamento politico/ sociale in atto.
Grazie prof Andrea Zhok , lei è una guida!

Marco Sore

Raggelante notare come l’ufficiale, dal suo punto di vista, abbia fatto un discorso onesto.

Mauribeth Duir

Nel nostro piccolo, da queste parti ci stiamo lavorando 🙂
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Jacopo De Battista

Al contrario della retorica imperante della “liberazione” è bene ricordare che noi la seconda guerra mondiale l’abbiamo persa, e l’abbiamo persa particolarmente male.
Chi può stupirsi di queste conseguenze?

Pierclaudio Brunelli

Ben ponderato e ben scritto…ma non posso fare a meno di percepire la considerazione finale .quasi uguale a: “quante me ne hanno date…ma quante gliene ho dette!!!!”

Angela Mastrolonardo

Siamo vittime e complici di questi bulli che ci tengono sotto schiaffo. Provo un senso di soffocamento, riesco solo a sottrarmi ai loro “prodotti culturali” e alle loro mode. Ho preservato la mia famiglia da questo

Massimiliano Esse

Nulla di strano. Tutto preciso.

Mario Amato

Non posso che essere d’accordo al 100%.
D’altra parte per chiunque abbia seguito con spirito critico gli avvenimenti degli ultimi 40 anni risulta chiaro e abbastanza evidente, e senza contare le decine di basi militari USA che abbiamo.

Mi ritorna in me…

Altro…

Renato Rivolta

Che noi siamo una provincia dell’Impero è fuori discussione. Che la Cina sia un pericolo mi sembra però altrettanto oggettivo. I cinesi, a differenza degli americani, non usano i missili e i droni per “esportare la democrazia”, usano mezzi più raffina…

Del resto, a differenza degli yankees, hanno qualche migliaio di anni in più di storia sulle spalle
Autore

Andrea Zhok

Renato Rivolta Diciamo che dopo settant’anni di dieta unilaterale yankee un po’ di ‘mezzi raffinati’ cinesi possono essere un accettabile compromesso.

4

Gian Luca Beccari

Professore, lo vado dicendo da molti anni, inoltre considerare “alleati” chi ti ha sconfitto e colonizzato, è semanticamente una offesa alla verità. Inoltre mi permetto di aggiungere un’altra stringente e determinante forma di controllo, quella messa quella messa in atto attraverso piattaforme tecnologiche che controllano ogni nostro movimento, tutto ovviamente controllato da oltre oceano.

Camillo De Vito

Giusto. Ed è quello che ripete Dario Fabbri ed anche io prima di lui, da nessun pulpito e con nessun titolo se non quello di osservare la realtà. Ma penso che farsi allungare il guinzaglio e liberarsi dei tedeschi, potremmo farlo.

Mario Draghi e le congiunzioni astrali favorevoli_con il professor Augusto Sinagra

Sin dal suo annuncio, l’avvento di Mario Draghi sembra godere del favore di particolari congiunzioni astrali. Nell’immediato sembra proporre qualche prospettiva positiva credibile per il paese. Ma in cambio di cosa dal punto di vista del posizionamento strategico? Sino a quando potrà glissare su alcune questioni che potrebbero lacerare rapidamente la coalizione? Non dovremo attendere molto per avere le prime risposte. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vhwnwt-mario-draghi-e-le-congiunzioni-astrali-favorevoli-ne-parliamo-con-il-profes.html

Stati Uniti! Il gran cavaliere, il Grande Idaho, il caro estinto_con Gianfranco Campa

Non poteva mancare il suggello della diplomazia italiana al trionfo personale di una eminenza dello Stati Uniti, Anthony Fauci. Dalla provincia, però, i riconoscimenti devono pagare il pegno della distanza; rischiano di giungere in ritardo, se non fuori tempo massimo. Fauci ha ricevuto il titolo di Cavaliere di Gran Croce al crepuscolo, appena prima del pensionamento e della sua probabile caduta in disgrazia. E’ servito a puntellare le trame ordite ai danni di Trump, ha raccolto gli onori del suo fedele servizio, è caduto vittima della propria hybris. Sarà il comodo capro espiatorio dello scontro tra filo ed anticinesi nella compagine presidenziale americana. Nel frattempo lo scontro politico negli USA inizia ad assumere i connotati di identità territoriale; il Great Idhao è qualcosa in più di una fantasia di una cerchia ristretta di gruppi politici. Un ulteriore colpo alla coesione di una nazione quando i redivivi del vecchio establishment credono ancora di poter risolvere il contenzioso politico eliminando per via giudiziaria Trump, la loro ossessione dietro la quale non vogliono vedere la foresta di un movimento ormai svincolato dai destini di una persona. Il tutto condito da giochi proibiti condotti nel privato di personaggi riconosciuti per la loro filantropia, ma esposti alle manovre più oscure. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vhr6kd-stati-uniti-il-gran-cavaliere-il-grande-idaho.html

 

Come Zuan Francesco Priuli nel 1577 (non) risolse il problema del debito pubblico di Venezia, di Davide Gionco

Come Zuan Francesco Priuli nel 1577 (non) risolse il problema del debito pubblico di Venezia
di Davide Gionco

Nel 1577 le casse della Repubblica di Venezia erano sempre più mal messe. La Serenissima veniva da anni di guerre contro i Turchi Ottomani, con la sconfitta nella guerra di Cipro (1570-1573), ed era appena uscita da una epidemia di peste (1575-1577) che aveva colpito quasi tutti i territori della Repubblica.
Il nobile Zuan Francesco Priuli aveva ricevuto nell’ottobre del 1574 alla nomina di provveditore sopra i beni comunali e da qualche anno si industriava a far quadrare i conti del bilancio pubblico.

Nel 1577 Priuli decise di affrontare una volta per tutte l’annosa questione degli interessi sul debito pubblico, che nel 1577 avevano raggiunto la somma di 514’983 ducati annui per i depositi in zecca, e di quasi 200’000 ducati per il debito consolidato. Al tempo il debito pubblico veneziano veniva denominato come “monte”. C’era i debito più antico, il “Monte Vecchio”, che andava avanti da secoli. C’erano anche il “Monte Nuovo”, il “Monte Novissimo” e “Monte Sussidio”. Oltre a questo c’erano i “Depositi di Zecca”, che erano il debito più cospicuo.
A conti fatti un terzo degli incassi fiscali e delle rendite della Repubblica doveva essere utilizzato per pagare gli interessi ai creditori. Il Priuli, da esperto di finanze, concluse che questo problema doveva essere eliminato alla radice. Era peraltro scandaloso che la Repubblica, tramite questo meccanismo, contribuisse a far diventare i ricchi sempre più ricchi, a spese dei più poveri che pagavano le tasse.
I governanti di Venezia pensavano che fosse in gioco non solo la salute finanziaria della Repubblica, ma anche l’immagine del patriziato veneziano che per secoli aveva sempre garantito la separazione fra l’interesse pubblico e l’utile privato.

Zuan Francesco Priuli decise di affrontare prima di tutto il debito dei “Depositi di Zecca” (4 milioni di ducati): predispose un piano ventennale fatto di aumenti di imposte, recuperi di crediti d’imposta e di vendite di proprietà pubbliche (quello che fa l’Italia da 30 anni per ridurre il debito pubblico). Il piano fu convintamente approvato dal “consiglio dei dieci” e messo in atto.
Le cose andarono molto meglio del previsto. il 15 giugno 1584 il Senato dichiarava che tutti i debiti aperti in Zecca (il debito pubblico) erano stati rimborsati. Successivamente, durante il programma di riduzione del debito della Zecca, nel 1579 Zuan Francesco Priuli aveva proposto un altro piano per attaccare anche i debiti dei “monti”. In questo caso, però, il piano non venne approvato, in quanto troppi patrizi veneziani avevano protestato per la perduta possibilità di investire i propri denari in madre patria.
Secondo le previsioni del Priuli il pagamento del debito pubblico avrebbe dovuto consentire di ridurre le tasse, in quanto la Repubblica si sarebbe liberata dall’onere di pagare gli alti interessi.
Il Senato, però, decise che le entrate fiscali che prima venivano usate per pagare gli interessi sul debito, fossero accantonate e depositate presso un “Deposito Grande”, che sarebbe servito come riserva finanziaria della Repubblica in caso di bisogno. Lo Stato veneziano aveva deciso, come ogni buon padre di famiglia, di “risparmiare”.

Successivamente, nel 1595, il patrizio Giacomo Foscarini, convinto sostenitore della linea del predecessore Priuli, fece nominare 3 nuovi provveditori per l’affrancazione dei Monti Novissimo (2,4 milioni di ducati) e Sussidio (1,2 milioni di ducati). Anche in questo caso si diede fondo alla raccolta fiscale ed alle dismissioni di beni pubblici. Nell’anno 1600 si iniziò a ridurre, con gli stessi meccanismi, anche il “Monte Vecchio” (0,9 milioni di ducati).
Pare che intorno all’anno 1620 la restituzione di tutti i debiti fosse stata completata.
Fra il 1574 ed il 1620 Venezia aveva rimesso “sul mercato privato” circa 8,5 milioni di ducati.

Il sogno di tutti i governanti europei del XXI secolo, quello di pagare e di estinguere il debito pubblico, fu attuato concretamente per la prima ed unica volta nella storia proprio dalla Repubblica di Venezia.
Ma non sempre è tutto bene ciò che finisce bene.

I ricchi mercanti veneziani, che da secoli investivano i loro denari depositandoli in Zecca ad interessi (in sostanza acquistando dei titoli di stato, come diremmo oggi). Prima in Zecca affluivano i proventi dei commerci, ma anche le doti delle mogli. E vi venivano depositate le doti delle figlie per il futuro matrimonio.
Viste le crescenti difficoltà dei commerci con l’Oriente, causate dagli ostacoli posti dall’Impero Ottomano, ma anche dalla concorrenza subita dai commerci con le Americhe gestiti da spagnoli, inglesi ed olandesi, sempre più veneziani avevano cercato rifugio negli investimenti senza rischi presso la Zecca pubblica.
Ma ora il servizio pubblico della Zecca non era più disponibile.
Pertanto i ricchi veneziani si videro obbligati ad investire diversamente le proprie ricchezze.
Il Priuli aveva previsto che quei soldi sarebbero stati investiti, come ai vecchi tempi, in attività commerciali. Ma si era sbagliato. Quei tempi stavano finendo.
I ricchi veneziani scelsero, invece, di dedicarsi ad investimenti immobiliari sulla terra ferma. Si cita l’esempio di un  certo stampatore Lucantonio Giunti, dopo essersi per tutta la vita dedicato ad altre attività economiche, fra il 1585 e il 1601 investì nell’acquisto di almeno 225 campi e di immobili urbani, al punto da raddoppiare nel giro di soli 16 anni il patrimonio fondiario che aveva ereditato.

Altri fondi furono semplicemente investiti in altre attività finanziarie. Entrarono in contatto con i banchieri fiorentini e genovesi che lucravano nel mercato dei cambi e del credito “internazionale”, prestando denaro ai vari sovrani di tutta Europa. O semplicemente depositarono i propri denari presso le casse di altre città: Roma, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Vienna. Oppure finirono a finanziare le attività del credito ad usura.
A soffrire maggiormente furono gli enti ecclesiastici, che non erano strutturati per diversificare gli investimenti in denaro, acquistando fondi immobiliari e affidando i loro fondi ad istituti finanziari di altre città.

Questi flussi di capitali al di fuori della Serenissima portarono alla riduzione della liquidità nelle casse dello stato, quindi alla riduzione degli investimenti pubblici e degli affari in città, quindi delle entrate fiscali. Per questo furono via via introdotte nuove tasse per far quadrare il bilancio.
Nessun vantaggio arrivò dall’estinzione del debito pubblico, né ai cittadini veneziani, né ai ricchi della classe patrizia.

Nel frattempo continuavano le pressioni dei ricchi investitori affinché lo stato veneziano non fosse da meno dei “concorrenti” genovesi nel fare prestiti ai sovrani stranieri. Ad esempio negli anni 1616-1617 i soldi del “Deposito Grande” furono utilizzati per fare un prestito di 1,75 milioni di ducati al duca Carlo Emanuele I di Savoia per finanziare la sua guerra contro la Spagna. L’attività si era rivelata piuttosto redditizia, per cui gli stessi ricchi veneziani chiedevano di poter versare i loro fondi nel “Deposito”, affinché venissero usati per fare prestiti ad interesse ai vari sovrani europei.

Per questi motivi, negli anni successivi al 1620, gradualmente, ma a grande richiesta, fu ripristinato il servizio pubblico del debito, che consentiva di mantenere sufficientemente bassa la tassazione e di offrire un servizio pubblico di risparmio apprezzato da molti. Tuttavia il danno era stato fatto. I decenni di “politiche di austerità” (come le chiameremmo oggi) e le grosse perdite di capitali subite da Venezia lasciarono dei segni permanenti, contribuendo all’inevitabile declino della Repubblica che aveva prosperato come città più ricca d’Europa per 1000 anni.

L’esperto di finanze Zuan Francesco Priuli ed il suo successore Giacomo Foscarini non avevano compreso la funzione del debito pubblico in uno stato. Lo stato non è una famiglia che deve rimborsare i debiti. Non è una famiglia che deve risparmiare per i tempi a venire.
Il “debito pubblico” non è altro che una cassa comune nella quale i risparmiatori versano i loro risparmi. Da un lato i cittadini usufruiscono di un servizio pubblico di risparmio privo di rischi, utile per chi non fa l’investitore finanziario di mestiere. Dall’altro lato lo Stato dispone di un fondo cassa comune a cui attingere per finanziare le proprie attività a beneficio della collettività che consente di mantenere basso il carico fiscale.
Per comprendere il concetto è sufficiente guardare al bilancio dello Stato italiano.

Nel 2021 la previsione è di incassare complessivamente 579’980 milioni di euro.
Le spese “utili al popolo”, che sono le spese correnti più le spese in conto capitale, sono pari a 580’095 + 111’860 = 691’956 milioni di euro.
E’ vero che il debito pubblico ci “costa” 81’507 milioni di interessi, ma se non ci fosse il debito pubblico, mancherebbero a bilancio 691’956 – 579’980 = 111’976 milioni di euro che ci arrivano dal “fondo cassa comune” del debito pubblico.
Se non avessimo il debito pubblico, gli italiani dovrebbero pagare 112 miliardi di euro in più di tasse. Se le entrate fiscali oggi sono di 505 miliardi di euro, significherebbe un aumento delle tasse del 22% rispetto ad oggi, sapendo che già l’Italia è fra i primi posti al mondo in termini di pressione fiscale.

Inoltre, se non ci fosse il debito pubblico, gli italiani non saprebbero dove fare investimenti sicuri e privi di rischi.
Se lo Stato Italiano, come lo fu la Repubblica di Venezia per secoli, è un fornitore di servizio pubblico di risparmio, allora la riduzione o la cancellazione del debito pubblico significherebbe la cancellazione del servizio pubblico di risparmio.
Come se tutte le banche presso le quale teniamo i nostri risparmi ce li restituissero dicendo “tenetevi indietro i vostri soldi, fatene cosa volete”. A quel punto i risparmiatori non potrebbero che rivolgersi a banche estere o a nazioni estere per richiedere un simile servizio di risparmio.
In una situazione del genere girerebbero molti meno soldi in Italia per gli investimenti privati supportati dalle banche e perderemmo, di conseguenza, anche tutti i benefici derivanti dalla realizzazione di quei beni e servizi, diventando più poveri.

Quindi chi propone di “ridurre il debito pubblico”, se non proprio di estinguerlo, dimostra di non avere capito che cosa è il debito pubblico, così come non lo aveva capito Zuan Francesco Priuli.
Chi, con nozione di causa, ha proposto ed ottenuto che nei trattati europei fosse prevista la riduzione del debito pubblico, lo ha fatto precisamente per spingere gli investitori a rivolgersi al settore del risparmio e degli investimenti privati ovvero verso le banche private, a tutto vantaggio dei gruppi finanziari che le possiedono.

Come già era avvenuto a Venezia, il risultato di 30 anni di politiche di riduzione del debito pubblico sono stati un progressivo aumento delle tasse, unito alla dismissione di beni pubblici, alla riduzione dei servizi pubblici ed all’aumento della liquidità circolante nella “finanza estera”.
Se agli inizi del 1600 la “finanza estera” erano altre città rispetto a Venezia, oggi la “finanza estera” sono i mercati finanziari internazionali, i luoghi in cui gli investimenti rendono di più, che sono in genere i luoghi in cui gli investitori non pagano le tasse, non devono rispettare i diritti umani, non devono preoccuparsi di rispettare l’ambiente. Esattamente i fattori che consentono di massimizzare le rendite.
Se, invece, gi investimenti fossero centrati sulla finanza pubblica, avremmo la possibilità di indirizzarli secondo le finalità politiche di redistribuzione delal ricchezza (che è lo scopo delle tasse), di rispetto dei diritti umani e dell’ambiente.

In conclusione il debito pubblico non è quella “cosa cattiva” di cui ci parlano ogni giorno su tv e giornali, ma è un prezioso strumento per la collettività, da salvaguardare e da gestire al meglio, magari con il supporto di una banca centrale pubblica, come lo era la Zecca della Serenissima.

pubblicato anche su https://www.sovranitapopolare.org/2021/05/14/come-zuan-francesco-priuli-nel-1577-non-risolse-il-problema-del-debito-pubblico-di-venezia/

RADIO FOGNA 33_di Augusto Sinagra

RADIO FOGNA N. 33
Cari Amici perseguitati o perseguitandi, buonasera!
Le notizie di oggi dalla Fogna sono tre.
1. Come avevo accennato nella precedente trasmissione di Radio Fogna n. 32, l’iniziativa dell’instancabile PM Dr. Eugenio Albamonte solo formalmente ipotizza il reato di vilipendio al Capo dello Stato.
Ho motivo di supporre che le finalità siano altre ma questo lo verificheremo nel prosieguo anche per ciò che concerne ogni profilo di legalità della vicenda.
Quel che giustifica i miei pensieri è che se precedenti e analoghe iniziative hanno riguardato per così dire “persone qualunque”, ora la mastodontica indagine del PM nelle più lontane località in Italia si è rivolta a persone anche istituzionalmente pensanti e in grado di orientare le opinioni (professori universitari, giornalisti, blogger, ecc.). Dunque, doveva essere messo a tacere il pensiero libero.
Quanto agli impieghi di personale (CC e Polizia), mezzi, tempo e quant’altro, che hanno ovviamente impegnato spese rilevanti, la cosa non deve sorprendere se solo si considera che a Chivasso per chiudere una pasticceria sono stati impegnati circa 150 uomini, mezzi e spese di ogni genere.
Poi molti clandestini in Italia possono commettere delitti anche feroci, ma questo non importa.
Quel che, però, deve far più riflettere è che se l’attuale Capo dello Stato deve ricorrere a Polizia, Carabinieri e magistrati (previa autorizzazione della sua Ministro della Giustizia, come per legge), questo gli deve dare la misura della generale sfiducia che lo circonda, e dovrebbe indurlo a riflettere sui suoi silenzi pur in presenza di scandali inauditi (Palamara, Loggia Ungheria, ecc.) e dunque sul suo deludente bilancio politico e istituzionale.
2. La seconda notizia riguarda una tale Stella Kyriakides. Quando era Ministro della Sanità nella Repubblica Grecocipriota fece approvare un provvedimento che privatizzava tutte le cure oncologiche. Ne seguì all’immediato un aumento verticale impressionante dei costi che le persone dovevano affrontare per curarsi. Il provvedimento fu poi abrogato dal Parlamento di Nicosia, non all’unanimità perché ci fu il pur solo voto contrario di tale soggetto.
La Stella Kyriakides è ora Commissario europeo per la Sanità ed è lei che ha firmato i contratti (poi secretati) con le Case farmaceutiche per l’acquisto dei c.d. vaccini.
Bene, fortunosamente sarebbe stata accreditata su un conto di “famiglia” di tale gentile Signora la somma di 4.000.000 di euro.
Non si conosce il bonificante ma pare che la cosa sia stata giustificata a titolo di prestito per il quale la gentile e attiva Signora avrà dato in garanzia per lo meno il Valdorf Astoria di New York.
La cosa ricorda il noto personaggio ligure, già Ministro in un governo Berlusconi, il quale, corrugato e accigliato, annunciava in televisione di avere dato mandato ai suoi legali di identificare chi gli aveva pagato (in larga misura) la sua casa vista Colosseo!
3. L’ultima notizia è che il Dr. Mario Draghi ha annunciato che il vertiginoso aumento di sbarchi di clandestini è determinato dalla accresciuta diffusione del Covid-19 in Africa.
Dunque, l’ulteriore motivo per il quale dovrebbe essere immediatamente bloccato qualsiasi ingresso di clandestini, viene presentato come ragione e giustificazione per continuare a far entrare in Italia persone di identità e di condizioni sanitarie ignote. La “colpa” di tutto questo non è dei magistrati, di Mattarella, di Draghi o di altri. La “colpa” è nostra: “A bon entendeur, salut”!
Adesso vi lascio perché sono sul punto di buttarmi io in una fogna per trovare un “habitat” ecologicamente più pulito rispetto all’attuale situazione italiana.
AUGUSTO SINAGRA

GUERRA SENZA MILITARI, di Teodoro Klitsche de la Grange

GUERRA SENZA MILITARI

In un’intervista a “La verità” il segretario del Partito comunista Marco Rizzo, tra molte cose condivisibili, ha introdotto un tema il quale, quasi totalmente dimenticato, è riproposto dalla crisi pandemica. Ha detto Rizzo che “è evidente che oggi conta più un ospedale di un F-35 o di una corazzata. Una nazione che salvaguarda la sanità è strategicamente più avanzata”.

In effetti è nel pensiero costituzionale e filosofico che una costituzione – e più in generale l’organizzazione politica di uno Stato – è buona quando consente di affrontare e superare le emergenze (le guerre, in primo luogo) e che sono le crisi possibili a dover forgiare l’assetto dei poteri pubblici (v. Ludendorff).

Per fare un esempio, restando all’irenico (tardo) secolo XX, De Gaulle sosteneva la necessità dell’art. 16 della Costituzione della V Repubblica (i poteri eccezionali del Presidente) con i caratteri della guerra moderna (anche atomica).

Va da se che, come sostiene l’on.le Rizzo, in una crisi sanitaria, indipendentemente dalle cause (se naturali, o frutto di imperizia umana, o anche – ma è assai improbabile – per attacco batteriologico) carri armati e cannoni sono del tutto inutili a difendersi. Ma vaccini ed ospedali, di converso, sono le casematte della difesa sanitaria.

In un libro di oltre vent’anni fa, due (allora) colonnelli cinesi descrivevano le nuove forme di guerra: commerciale, finanziaria, economica, informatica (e così via) tutte connotate da avere lo stesso scopo della guerra “classica” – e cioè quello di costringere il nemico a fare la nostra volontà (Clausewitz e Gentile), ovvero accrescere la nostra potenza, e dal non far uso della violenza, ma d’altri mezzi, denominandole così “operazioni di guerra non militari”. Per combattere le quali i mezzi militari servono a poco. Anche perché possono causare una pericolosa escalation.

Ai fini dell’influenza delle possibili crisi sulla conformazione delle istituzioni pubbliche la causa (naturale od umana) della stessa è poco o punto influente. Decisivo è che queste siano attrezzate a difendere la comunità che in esse si organizza per proteggersi.

Ed è proprio questa una ragione decisiva per mantenere, almeno in parte, lo Stato sociale del XX secolo. In questo l’Italia si è dimostrata (largamente) impreparata e quindi vulnerabile; l’Europa poco meglio. In fondo dai dati disponibili sulla pandemia, lo Stato più efficiente è stato Israele, preparatissimo a far guerra e a difendere la popolazione. Al contrario di gran parte dei governanti europei, per quelli d’Israele (compresi i governati) l’emergenza non è un oggetto riposto negli archivi della storia, ma una possibilità reale. Ossia proprio quello che popoli abituati a considerare il progresso come un dato acquisito ed immodificabile, e i quattro cavalieri dell’apocalisse dei pensionati del medesimo, non riescono più a concepire né affrontare. Tra i pochi effetti non negativi della crisi, un tuffo nella realtà non è da disprezzare.

Teodoro Klitsche de la Grange

QUALCHE SPUNTO DI SCHMITT PER IL XXI SECOLO, di Teodoro Klitsche de la Grange

QUALCHE SPUNTO DI SCHMITT PER IL XXI SECOLO

1.0 Per interpretare la situazione politica presente è tuttora di attualità il pensiero di Carl Schmitt; a prescindere dai tanti spunti che possono trarsene, al presente sono particolarmente interessanti alcune tesi sostenute dal pensatore di Plettemberg tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’60, assai prima dell’“epoca” contemporanea, successiva al collasso del comunismo, all’ “aumento” della globalizzazione (e alla morte del giurista).

2.0 In primo luogo è opportuno – per spiegare l’incremento straordinario qualche anno dopo il collasso del comunismo dei partiti popul-sovran-identitari – ricordare quanto scrisse nel discorso Das zestalter der neutralisierung und ent politisierungen1 (del 1929).

Sostiene Schmitt in tale scritto che la vita spirituale europea si è sviluppata negli ultimi quattro secoli (cioè nella modernità) cambiando centri di riferimento (dal teologico al metafisico, da questo al morale-umanitario e infine all’economico) “Una volta che un settore diviene il centro di riferimento, i problemi degli altri settori vengono risolti dal suo punto di vista e valgono ormai solo come problemi di secondo rango la cui soluzione appare da sé non appena siano stati risolti i problemi del settore centrale. Così, per un’epoca teologica tutto procede da sé, una volta ordinate le questioni teologiche; su tutto il resto allora gli uomini «saranno d’accordo». Lo stesso per le altre epoche”2.

Tale centro si riferimento è decisivo e prevalente “Lo Stato acquista la sua realtà e la sua forza dal centro di riferimento delle diverse epoche poiché i temi polemici e decisivi dei raggruppamenti amico-nemico si determinano proprio in base al settore concreto decisivo”3. Dopo il collasso del comunismo l’ultima scriminante del “politico” (ossia quella tra borghesia e proletariato) è venuta meno. Fukuyama scriveva che, dopo la vittoria delle liberaldemocrazie, era arrivata la fine della storia. Previsione sbagliata perché presuppone l’esaurirsi di ogni ragione di conflitto; cosa impossibile perché l’elemento del conflitto e della lotta (Machiavelli e Duverger tra i tanti) è un presupposto del politico ad esso connaturale (Freund). Pensare che l’uomo, zoon politikon, possa esistere senza una dimensione politica, presuppone cambiarne la natura, ossia quello che il giovane Marx pensava di poter fare ed è – invece – risultato impossibile.

Piuttosto alla scriminante borghese/proletario se n’è sostituita un’altra diversa. Il passaggio tra una scriminante amico/nemico e la successiva, scriveva Schmitt, ha un effetto politico decisivo: “La successione sopra descritta – dal teologico, attraverso il metafisico e il morale, fino all’economico – significa nello stesso tempo una serie di progressive neutralizzazioni degli ambiti dai quali successivamente è stato spostato il centro”. In tale processo “Quello che fino allora era il centro di riferimento viene dunque neutralizzato nel senso che cessa di essere il centro”, ma nel contempo e progressivamente “si sviluppa immediatamente con nuova intensità la contrapposizione degli uomini e degli interessi, e precisamente in modo tanto più violento quanto più si prende possesso del nuovo ambito di azione. L’umanità europea migra in continuazione da un campo di lotta ad un terreno neutrale, e continuamente il terreno neutrale appena conquistato si trasforma di nuovo, immediatamente, in un campo di battaglia e diventa necessario cercare nuove sfere neutrali” (i corsivi sono miei).

Che appare proprio quanto successo negli ultimi trent’anni. Dopo una (breve) fase in cui si pensava la globalizzazione “post-comunista” come ad una era stabile e “pacifica”, stante l’egemonia planetaria degli USA, s’intravedevano i primi scricchiolii da distribuire equamente in due categorie: le guerre umanitarie e, ancor più, l’emergenza di antagonisti – nemici – dell’ordine globalizzato. Ambedue convergenti nel confortare la tesi che la storia – e i conflitti – fossero tutt’altro che finiti. Quanto alle guerre “umanitarie” per lo più denominate in inglese e qualificate come operazioni di polizia internazionale, a parte le definizioni rimanevano guerre comunque; e neppure granché apprezzabili secondo le intenzioni esternate, giacché già quattro secoli fa Francisco Suarez metteva in guardia da guerre del genere. In ordine al nemico dell’“ordine nuovo”, in un primo tempo il fondamentalismo islamico, il tutto provava che un ordine, per quanto auspicabile, non può prescindere dal fatto che qualche gruppo di uomini non lo apprezzi, e in misura così intensa da arrivare (sempre) a combatterlo politicamente, e nei casi estremi, con le armi.

3.0 Era così evidente che l’“ordine nuovo” stava generando dialetticamente nuove ostilità, nuovi nemici e nuovi conflitti.

Rimaneva, e in parte rimane, poco chiaro su quale centro di riferimento spirituale si fondi la contrapposizione, interna all’occidente euroatlantico, tra populisti e globalisti. Quello che invece è chiaro – e può servire ad individuare il centro di riferimento è che sovran-popul-identitari da un lato e globalisti dall’altro fanno riferimento a coppie di valori/idee contrapposti che elenchiamo (senza pretesa di essere esaurienti):

NAZIONE/UMANITÁ

ESISTENTE/NORMATIVO

COMUNITÁ/SOCIETÁ

INTERESSE NAZIONALE/INTERESSE GLOBALE

Dei quali la prima colonna si riferisce al sovran-populismo, la seconda alla globalizzazione.

È appena il caso di citare qualche esempio. Per esistente/normativo mi permetto di rinviare a quanto da me scritto sulla Costituzione ungherese4. Quanto alla contrapposizione comunità/società è meno evidente ma comincia ad emergere dalle dichiarazioni costituzionali dei paesi “sovranisti” (v. le Costituzioni polacca e ungherese).

Che il termine a quo e ad quem di questi sia la Nazione e non l’umanità è del tutto evidente e non ha necessità di spiegazioni.

Quando all’interesse nazionale, come obiettivo di governo è anch’esso evidente, a parte le recenti vicende della Diciotti e del Ministro degli interni Salvini, che l’hanno riportato al centro del dibattito politico. E si potrebbe parlare di un “rieccolo” perché è sempre stato la bussola dello Stato moderno (e delle sintesi politiche antiche).

A trovare una frase che sintetizzi in poche parole la posizione dei sovranisti non si può che risalire all’affermazione di Sieyès “La Nazione è tutto quello che può essere per il solo fatto di esistere”5. Affermazione che scandalizza sicuramente un globalista.

4.0 La seconda concezione da prendere in esame per la valutazione della situazione politica contemporanea è quella che emerge, tra gli scritti di Schmitt, da “Terra e mare”. Fondamento di tale scritto è che l’esistenza umana è determinata dallo spazio in cui vive, dalla percezione che ne ha e dalle opportunità che offre. Pertanto questo determina o co-determina i rapporti politici, economici e sociali. In particolare il diritto. Scriveva Maurice Hauriou che il diritto conosciuto, elaborato, applicato dai giuristi è quello di società sedentarie, basate sul rapporto con la terra (e così, anche con il territorio come elemento dell’istituzione politica, in particolare – ma non solo – dello Stato moderno). Mentre il giurista francese contrapponeva le società sedentarie a quelle nomadi e spiegava gran parte degli istituti delle prime col rapporto con la terra e con un’esistenza orientata alla produzione regolare, Schmitt approfondiva la diversità tra esistenza marittima ed esistenza terreste, e in particolare che “la storia universale è una storia della lotta della potenza del mare contro la potenza della terra…”.

La novità nella storia moderna, sosteneva Schmitt, è che la Gran Bretagna, nel XVI secolo, si decise per un’esistenza marittima, assai più di come avevano fatto in altre epoche potenze marittime come Atene o Venezia ed in parte, anche Cartagine. Da ciò derivò l’espansione commerciale (ed industriale) inglese6.

Questo fatto era considerato da Schmitt determinante sia per il diritto internazionale che per l’assetto politico europeo westphaliano. L’equilibrio che ne derivava, conseguiva da quello di terra e mare (potenze continentali e potenza marittima) e tra stati europei. Nessuna delle quali era in grado di egemonizzare le altre, perché non avrebbe avuto la forza di imporsi ad una loro coalizione, un po’ come Machiavelli notava per gli Stati italiani (e dell’equilibrio tra gli stessi) della sua epoca. In questo senso la sovranità degli Stati, costruita intorno alla parità giuridica degli stessi – prescindendo dalla parità di fatto, aveva un certo senso, proprio perché la parità di fatto tra gli stessi – o almeno tra i maggiori – non era tanto lontana; e, d’altra parte la disparità poteva essere compensata con un’accorta politica di alleanze (e all’inverso di neutralità).

Il tutto entrava in crisi con il XX secolo; sosteneva Schmitt che “nel diritto internazionale le idee generiche ed universalistiche sono le armi tipiche dell’interventismo”7; e che “Una concezione giuridica coordinata ad un impero sparso su tutta la terra (ossia quello britannico) tende naturalmente ad argomenti universalistici”8

Nello scritto “Grande spazio contro universalismo”9, il giurista di Plettemberg ribadisce, con riferimento alla dottrina Monroe, la contraddittorietà dell’interpretazione universalistica all’enunciazione originaria della suddetta dottrina. Scrive Schmitt “È essenziale che la dottrina Monroe resti autentica e non falsificata, fintantoché è fissa l’idea di un grande spazio concretamente determinato, nel quale le potenze estranee allo spazio non possono immischiarsi.

Il contrario di un siffatto principio fondamentale, pensato a partire dallo spazio concreto, è un principio mondiale universalistico, che abbraccia tutta la terra e l’umanità. Questo conduce naturalmente a intromissioni di tutti in tutto. Mentre l’idea dello spazio contiene un punto di vista della delimitazione e della divisione e per questo enuncia un principio giuridico ordinatore, la pretesa universalistica di intromissione mondiale distrugge ogni delimitazione e distinzione razionale10 (il corsivo è mio).

Ciò ha fatto sì che si è convertito “un principio di non ingerenza concepito spazialmente in un sistema generale di intromissione delocalizzata” e così è diventato uno strumento ideologico della democrazia e “delle concezioni con essa collegate, in particolare del “libero” commercio mondiale e del “libero” mercato mondiale, al posto dell’originario e vero principio Monroe”11. Combinando all’uopo status quo e pacta sunt servanda, “cioè un semplice positivismo contrattuale”, con i principi ideologici del liberalcapitalismo.

Il risultato complessivo è che la dottrina Monroe, come interpretata negli anni tra le due guerre mondiali da la misura “della contrapposizione fra un chiaro ordinamento spaziale che poggia sul principio fondamentale del non intervento di potenze estranee allo spazio a fronte di un’ideologia universalistica, che trasforma tutta la terra nel campo di battaglia dei suoi interventi e intralcia il passo ad ogni crescita naturale dei popoli viventi12 (il corsivo è mio).

La situazione oggi è diversa: l’evoluzione dell’ordinamento internazionale con l’ONU (e la Carta dell’ONU), il divieto dell’uso della forza (v. art. 2, 4 della Carta dell’ONU), i poteri del Consiglio di sicurezza, la dottrina della “responsabilità di protezione”, le operazioni di peacekeeping e soprattutto la “difesa dei diritti umani” (e non solo) hanno complicato la situazione.

A cosa può servire la lezione di Carl Schmitt e, in particolare, la dottrina dei “grandi spazi”?

Sembra di poter rispondere che due concezioni (esplicite ed implicite alla stessa) e comunque intersecantesi possono essere utilmente applicate.

La prima delle quali è il realismo politico in relazione al concetto di sovranità. Come scrive il giurista tedesco, il problema della sovranità, probabilmente il principale, è conciliare l’aspetto politico con quello giuridico.

Se infatti il connotato distintivo della sovranità è l’assolutezza giuridica (non essere condizionato dal diritto ma esserne “al di sopra”)13, occorre coniugarla con i limiti di fatto. Come scrive Schmitt “Nella realtà politica non esiste un potere supremo, cioè più grande di tutti, irresistibile e funzionante con la sicurezza della legge di naturaLa conciliazione del potere supremo di fatto e di diritto costituisce il problema di fondo del concetto di sovranità. Da qui sorgono tutte le difficoltà”14 (il corsivo è mio). Altro infatti è la sovranità degli U.S.A. o della Cina, altro quella di S. Marino o del Liechtenstein. Trasposto nella situazione contemporanea, questo significa che mentre si censurano – giustamente – le violazioni dei “diritti umani” o il genocidio (ad esempio dei curdi in Iraq) e si parte per la “guerra giusta” ai ruandesi o a Saddam, ci si guarda bene dal fare la guerra a Putin per il Dombass o la Crimea e così alla Cina per Hong-Kong. Da notare che, mentre Hong-Kong è sotto sovranità cinese – e almeno può valere il carattere classico territoriale di questa – non è così per i citati territori nell’Europa orientale, entrambi – prima di annessioni ed occupazioni – facenti parte dell’Ucraina; la quale ha così subito una violazione della (propria) sovranità – al contrario della Cina. A questo punto, dati i “due pesi, due misure” c’è da chiedersi se non valga, come criterio di comportamento e decisione concreta, quello del “grande spazio”: mentre alla Russia è stato (di fatto) riconosciuto l’intervento in una repubblica prima facente parte dell’URSS, cioè del proprio “grande spazio”, lo stesso non è stato esercitato per proteggere popolazioni, diritti umani, e nel caso dell’Ucraina, l’integrità territoriale.

Per cui il realismo intrinseco alla concezione schmittiana (registra) e regola molto più che l’idealismo di quello15.

La seconda concezione che appare alla base del concetto di “grande spazio” è quella che collega il concetto di potenza (e di potere) di Max Weber e il “diritto” inteso qui come ordine. Scrive Weber definendola, che “la potenza designa qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad un’opposizione, la propria volontà”16. Nell’uso corrente fino a qualche decennio orsono erano chiamati potenze gli Stati, almeno quelli capaci di esercitare il comando all’interno e così tutelare la propria indipendenza, anche senza (o con minima) egemonia politica esterna. In termini fattuali è la capacità di far valere la propria volontà che determina l’essere potenza.

La quale applicando la formula di Spinoza tantum juris quantum potentiae determina i limiti fattuali delle potenze e quindi della capacità giuridica di esercitarli. Come scriveva il filosofo olandese “Se dunque la potenza per cui le cose naturali esistono e operano è la medesima potenza di Dio, è facile capire che cosa sia il diritto naturale. “… Per diritto naturale io intendo dunque le stesse leggi o regole della natura, secondo le quali ogni cosa accade, vale a dire, la stessa potenza della natura; perciò il diritto naturale dell’intera natura, e conseguentemente di ciascun individuo, si estende tanto quanto la sua potenza17 (i corsivi sono miei). E nell’ambito del “grande spazio” è relativamente facile per la potenza egemone esercitarla. Del pari, per lo più, ha l’interesse a farlo, per le connessioni e i rapporti che la congiungono ai propri vicini o satelliti. Rispettare i quali è la condizione perché si consegua facilmente uno stato di pace. Assai più che cercare di imporre un’unità del mondo, senza che tale unità si possa conseguire in pace con l’unico modo storicamente possibile: mantenendo il pluriverso, conforme all’assetto d’interessi, potenze e rayas.

Cioè limitandolo e determinandolo con criteri oggettivi e facilmente percepibili ed applicabili. Perché come scriveva Schmitt, l’unità del mondo non è l’unità dell’ecumene, ma “della organizzazione unitaria del potere umano, il cui scopo sarebbe pianificare, dirigere e dominare la terra e l’intera umanità. È il grande problema se l’umanità è già matura per sopportare un solo centro del potere politico”.

Che vi sia una religione, una teologia di sostegno a un tale ipotetico centro, la quale abbia capacità di resistenza ad obiezioni e critiche elementari, Schmitt non lo crede. Non l’ideologia del progresso, dato che progresso tecnico e morale “non camminano insieme” (né tra i governanti, né tra i governati). Né può confortare il razionalismo, non foss’altro – aggiungo – perché vale sempre il giudizio di De Maistre che l’uomo “per il fatto di essere contemporaneamente morale e corrotto, giusto nell’intelligenza e perverso nella volontà, deve necessariamente essere governato” (onde la ragione non basta); oltretutto il progresso tecnico ha l’inconveniente di accrescere il potere del governo. Come scriveva Goethe “è pericoloso per l’uomo ciò che, senza farlo migliore, lo rende più potente”18. E non la si vede neppure oggi che in quel (tentativo/progetto) di unità del mondo stiamo ancora, anche se ormai pare volgere al tramonto. Dietro l’unità di un mondo dominato dalla potenza vittoriosa nella contrapposizione borghese/proletaria, occorre riconoscere che il pensatore di Plettemberg aveva visto bene il futuro politico: una nuova contrapposizione amico-nemico, una costante dicotomia terra/mare, una pace attraverso l’equilibrio di (e tra) grandi spazi. Cioè tutto il contrario di quanto diffuso dalla propaganda mainstream.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 Trad. it. ne le Categorie del politico Bologna 1972 p. 167 ss.

2 Op. cit. p. 172

3 E prosegue “Finché al centro si trovò il dato teologico-religioso, la massima cujus regio ejus religio ebbe un significato politico. Quando il dato teologico-religioso cessò di essere il centro di riferimento, anche questa massima perdette il suo interesse pratico. Nel frattempo esso si è mutato, passando attraverso la fase della nazione e del principio di nazionalità (cujus regio ejus natio) , nella dimensione economica e ora dice: nel medesimo Stato non possono esistere due sistemi economici contraddittori; l’ordinamento economico capitalistico e quello comunistico si escludono a vicenda” op. cit. p. 172.

4 v. Attacco alla Costituzione ungherese in Nova Historica n. 67, anno 17, pp. 153-168, in particolare p. 164-165.

5 e continuando le citazioni dell’abate, tra le molte “Le nazioni della terra vanno considerate come individui privi di ogni legame sociale, ovvero, come si suol dire, nello stato di natura. L’esercizio della loro volontà è libero ed indipendente da ogni forma civile…Comunque una nazione voglia, è sufficiente che essa voglia; tutte le forme sono buone, e la sua volontà è sempre legge suprema…una nazione non può né alienare né interdire a se stessa la facoltà di volere; e qualunque sia la sua volontà, non può perdere il diritto di mutarla qualora il suo interesse lo esiga”

6 Anche Hegel sottolinea determinati diversi tipi di attività, e legando al mare lo sviluppo dell’industria e del commercio v. Lineamenti di filosofia del diritto, §247.

7 V. Il concetto di impero nel diritto internazionale, p. 27.

8 E prosegue “Una tale concezione non concerne uno spazio determinato ed unito né il suo ordinamento interno, ma in prima linea la sicurezza delle comunicazioni fra le sparse frazioni dell’impero”.

9 Trad it. Di A. Caracciolo in Posizioni e concetti, Giuffré, Milano 2007, pp. 491-503.

10 E prosegue “In effetto l’originaria dottrina Monroe americana non ha niente a che fare con i principi fondamentali ed i metodi del moderno imperialismo liberalcapitalistico. Come vera e propria dottrina dello spazio si trova anzi in pronunciata contrapposizione ad una trasformazione della terra in un astratto mercato mondiale del capitale senza tener in alcun conto lo spazio… Che una siffatta falsificazione della dottrina Monroe in un principio imperialistico del commercio mondiale fosse possibile, resterà per tutti i tempi un esempio impressionante dell’influenza inebriante di vuote parole d’ordine” Con l’interpretazione che ne dava W. Wilson “non intendeva all’incirca un trafserimento conforme del pensiero spaziale, non interventistico, contenuto nella vera dottrina Monroe, agli altri spazi, ma al contrario un’estensione spaziale ed illimitata dei principi liberaldemocratici alla terra intera ed a tutta l’umanità. In questo modo egli cercava una giustificazione per la sua inaudita ingerenza nello spazio extraeuropeo”, op. ult. Cit. pp. 493-494 (il corsivo è mio).

11 E continua che i due Roosevelt e Wilson avevano fatto “di un pensiero spaziale specificamente americano un’ideologia mondiale al di sopra degli Stati e dei popoli, essi hanno tentato di utilizzare la dottrina Monroe come uno strumento del dominio del capitale anglosassone sul mercato mondiale”

12 Op. ult. cit., p. 503.

13 Con la nota problematica su quanto l’assolutezza si applichi all’interno e quanto lo possa essere all’esterno, ossia nei riguardi dei soggetti di diritto internazionale (Stati e “ordinamento in fieri” già distinte da Bodin.

14 v. Der Begriff des Politischen, trad it. Di P. Schiera ora ne Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 44.

15 Idealismo, che in concreto, è spesso la fusione di interessi e paternostri.

16 Economia e società, trad. it. di T. Bagiotti, MIlano 1980, p. 51. Poco dopo scrive “ Per Stato si deve intendere un’impresa istituzionale di carattere politico nella quale – e nella misura in cui – l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima, in vista dell’attuazione degli ordinamenti” (p. 52).

17 Trattato politico, trad. it. di A. Droetto , Torino 1958, p. 161.

18 I passi ultimi citati sono tratti dal volume L’unità del mondo ed altri saggi, curato da A. Campi, A. Pellicani Editore, Roma 1994, pp. 303 ss. Schmitt scrive, proseguendo “L’unità mondiale di una umanità organizzata solo tecnicamente fu anche per Dostoievski un tremendo incubo. Questo incubo si aggrava via via che la tecnica cresce. E che rimedio è ancora possibile oggi, date le enormi possibilità tecniche e la crescente intensità del potere politico?” .

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