RIFORMA CARTABIA, PER PICCINA CHE TU SIA…, di Teodoro Klitsche de la Grange

RIFORMA CARTABIA, PER PICCINA CHE TU SIA…

Scusate se insisto; ma la discussione sulla “riforma” Cartabia ha ridestato gran parte dei luoghi comuni sulla giustizia. Uno dei quali è che, sanzionando comportamenti di amministratori e funzionari si sarebbero indotti gli stessi a non decidere; col risultato di rendere (ancora) più inefficienti le P.P.A.A. italiane. Vero è che l’attenzione si è focalizzata su un reato specifico cioè l’abuso di potere (art. 323 c.p.) la cui formulazione è così vaga da prestarsi ad interpretazioni plurime (e contrastanti).

Se è certo che detto reato si presta a strumentalizzazioni (anche) politiche, lo è altrettanto che escludere, ridurre o rendere inefficaci le sanzioni non può che incentivare a commetterlo. Funzione della sanzione è, come scriveva Carnelutti “Sancire, significa fondamentalmente, in latino, rendere inviolabile e perciò avvalorare qualche cosa; ciò che viene avvalorato, in quanto si cerca di impedirne la violazione, è il precetto, in cui l’ordine etico si risolve… in quanto la sanzione garantisce l’osservanza dell’ordine etico, converte il mos in ius perché meglio congiunge, così tiene uniti, gli uomini nella società”; ma aggiunge “non v’è alcun motivo per riservare al castigo il carattere della sanzione: serve a garantire l’osservanza dell’ordine etico il premio al pari del castigo; praticamente e, per ciò, storicamente, il premio ha però una importanza assai minore”.

Per cui a seguire il ragionamento di Carnelutti non sanzionare vuol dire non avvalorare (almeno) la norma. Resta il fatto che senza sanzione il precetto è zoppo: ma non è detto che a sanzionarlo debba essere la prescritta irrogazione di una pena dal giudice penale. In effetti, come scriveva il giurista, la sanzione può essere la più varia: al punto che può consistere in un premio per chi osserva (e fa osservare) il diritto.

Nella specie l’inconveniente della prescrizione di pena è stato aumentato dalla legge Severino, che ha previsto sanzioni “politiche” a carico di amministratori di enti pubblici, anche in caso di sentenze non definitive (compresa la sospensione e decadenza dall’ufficio) come l’impossibilità di ricoprire la carica per la quale erano stati scelti dal corpo elettorale. Per cui rende più appetibile per togliere di mezzo un amministratore scomodo, di ottenere una sentenza penale di condanna dalla quale consegue la sospensione o la decadenza dalla carica.

Circostanza la quale unitamente al fatto che si tratta di sentenze non definitive (ma politicamente efficaci) ha indotto molti a ritenerla incostituzionale. Un primo passo per evitare ciò sarebbe l’abolizione della legge Severino, fatta, come tutti hanno capito, non per amore di giustizia, ma per il fine di parte di mandare a casa Berlusconi, a dispetto del popolo italiano che s’intestardiva a volerlo come proprio governante. Che è, per l’appunto, uno dei quesiti dei referendum Lega-radicali.

Ma, oltre a ridurre l’appetibilità e le conseguenze politiche, togliendo la suddetta normativa, la sanzione può essere utilmente ricondotta alla conseguenza di una condanna civile e amministrativa.

Non nel senso, però, di togliere l’amministratore dall’incarico, ma utilizzando la vasta gamma di sanzioni previste dall’ordinamento. All’uopo rinforzandole e rendendone meno saltuaria l’applicazione. Prendiamo ad esempio la c.d. astreinte, cioè la sanzione pecuniaria a carico dell’amministrazione che non adempie una sentenza (!!!), malgrado l’obbligo relativo risalga (almeno) alla Destra storica (v. all. E, L. 2248/1865). In Italia è stata prescritta dall’art. 114 (lett. E) del c.p.a. (D.Lgs. 02/07/2010 n. 104), la quale è una delle poche disposizioni (forse l’unica) che nella seconda Repubblica, ha previsto un rimedio a favore dei creditori delle P.P.A.A., tra una miriade di precetti volti a tutelare le amministrazioni dalle pretese altrui, derogando al diritto comune.

Ebbene (ingenuamente?) il precetto è stato formulato premettendo l’eccezione “salvo che ciò sia manifestamente iniquo”: è bastato questo per allargare a dismisura il perimetro dell’iniquità (??), oibò, di chiedere alle P.P.A.A. di adempiere a sentenze e giudicati nei modi stabiliti dai giudici e dalla legge. C’è una sterminata messe di decisioni giudiziarie limitanti l’applicazione dell’astreinte perché sarebbe “manifestamente iniquo” sanzionare uno Stato “in bolletta” come la Repubblica italiana. Ovviamente tale giurisprudenza burofila ha dimenticato quanto scriveva Jhering del diritto romano “classico” che “La pena pecuniaria era il mezzo civile di pressione, onde il giudice usava, per procacciare ed assicurare l’osservanza agli ordinamenti suoi. Un convenuto, che si rifiutasse a fare ciò che il giudice gl’imponeva, non se la cavava col semplice pagamento del valore della cosa dovuta” (il corsivo è mio). Basterebbe eliminare quell’inciso per ottenere un ridimensionamento del garantismo burofilo. Ancora meglio associarlo, ex art. 28 della Costituzione, ad una sanzione pecuniaria – anche modesta – a carico del funzionario inadempiente. E di esempi così ne potrei fare diversi, a costo di annoiare il lettore, più di quanto abbia già fatto.

Piuttosto tornando a Jehring, il giurista tedesco sosteneva che il tardo diritto romano aveva debilitato il senso del diritto attraverso mitezza e umanitarismo. Da quello “robusto ed energico” repubblicano si era passati a una fiacchezza contrassegnata dal miglioramento delle “condizioni del debitore alle spalle del creditore”. Ai nostri giorni il maggior debitore è lo Stato: per cambiare andazzo, come si chiede l’Europa, basta non eccedere in mollezza, peraltro neppure generale, ma burofila. Come sosteneva Jhering “credo che si può stabilire questa massima generale; le simpatie verso i debitori sono segno di un periodo di fiacchezza. Il titolo di umanitario è esso stesso che se lo eroga”; il contrario, praticato nei regimi decadenti consiste ne “l’umanità di san Crispino, che rubava cuoio ai ricchi per farne stivali ai poveri”. E chissà che, ai giorni nostri, i pagamenti ai grandi creditori sono stati ritardati quanto quelli ai quisque de populo? Non mi risulta d’averlo letto.

Speriamo che i giudizi di Jhering possano ispirare anche la (di esso collega) Cartabia.

Teodoro Klitsche de la Grange

PIU’ STRATEGIA MENO STRAWMEN, di Andrea Zhok

Parole sagge, da soppesare senza senza fretta_Giuseppe Germinario
PIU’ STRATEGIA MENO STRAWMEN
Cercar di ragionare in un contesto che si percepisce oramai come sempre in guerra contro qualcuno (sarà per la nostalgia di guerre vere?) è come parlare al vento, e tuttavia non ci sono molte alternative all’ottimismo della volontà.
La situazione attuale è quella in cui, invece di discutere nei dettagli della strategia di sviluppo del paese (di cui il confronto con la pandemia è parte), si è preferito creare bersagli fantoccio (il mitico No Vax neofascista, che di fatto copre circa il 5% della popolazione), su cui far sfogare un’opinione pubblica sempre più frustrata (e destinata ad esserlo sempre di più).
Ciò che ci si dovrebbe sforzare di fare, invece, è dimenticare i No Vax, che sono un falso problema, e riflettere seriamente sulle strategie che stiamo adottando.
Proviamo perciò a ripercorrere un breve ragionamento.
1) Tutte le forze e le attenzioni del paese (Italia) sembrano concentrate nella lotta al Covid (tanto che non c’è neanche il tempo di commentare le condizionalità del PNRR, il cui impatto sulle condizioni di vita future sarà enorme, con vincenti e perdenti).
2) Nell’ambito dello sforzo anti-Covid il fuoco è concentrato integralmente, totalmente e senza resti sulla sola Campagna Vaccinale, con i ricatti, le pressioni moralistiche e le demonizzazioni che sono sotto gli occhi di tutti.
3) Così, tutti si riempiono la bocca di scuola, ma niente di strutturale è stato fatto per la scuola, salvo premere sulla campagna vaccinale (ci sono già comunicazioni che contemplano una continuazione della didattica mista, con insegnanti che continueranno a fare lezione con la mascherina). Stessa cosa vale in altri campi decisivi come i trasporti.
4) Sul piano strettamente sanitario abbiamo ancora, dopo quasi due anni, protocolli sanitari anti-Covid che consigliano vigile attesa, tachipirina e un santino di padre Pio. Cure territoriali non pervenute, terapie sintomatiche lasciate alle iniziative del singolo medico (NB: NON è così nella maggior parte degli altri paesi europei).
5) L’intero ‘sforzo bellico’, che ha chiamato a proprio supporto ogni risorsa, dalle istituzioni alla stampa, punta sull’idea della “vaccinazione totale” come meta ideale e come promessa della nuova normalità. L’idea è che la vaccinazione totale bloccherà la trasmissione del virus, arresterà le varianti, metterà al sicuro anche i più fragili.
6) Quanto è plausibile il successo di questo obiettivo? Da tutto ciò che sappiamo si tratta di un obiettivo strutturalmente del tutto irraggiungibile.
Quello che sappiamo infatti è che:
6.1) Il vaccino protegge efficacemente contro le conseguenze patologiche sul corpo del vaccinato, ma il virus continua a contagiare e ad essere trasmesso dai soggetti vaccinati.
In che misura ciò avvenga è oggetto di studio: alcuni studi recenti parlano di un livello di trasmissione indistinguibile da quello dei non vaccinati, altri studi dicono invece che la trasmissione è molto minore. Tutti però ammettono che la trasmissione avviene.
6.2) Trasmissione dei vaccinati a parte, tre quarti del pianeta non ha ancora avuto accesso se non in maniera trascurabile al vaccino (in Africa si viaggia tra il 2 e il 6% della popolazione vaccinata, e, parlando di pesi massimi: in India è vaccinato il 7% della popolazione, in Indonesia il 6,9%, il Australia il 13,6%, in Brasile il 18,4%).
Questo significa, visto che nessuno prende in considerazione un nuovo lockdown con blocco delle frontiere, che il virus continuerà a circolare anche nel nostro paese, anche se avessimo il 100% di vaccinati e anche se i vaccinati non trasmettessero il virus.
6.3) Il vaccino contro il coronavirus NON è come il vaccino contro la poliomielite o contro il vaiolo (per citare esempi peregrini piovuti in questi giorni) per la semplice ragione che gli effetti di quei vaccini sono perenni, mentre questi hanno una scadenza.
Notizie appena arrivate dicono che il vaccino finora rivelatosi più efficace e più usato (Pfizer) inizia a declinare i suoi effetti già dopo 6 mesi (contro i 9 precedentemente previsti).
Allo stato attuale delle conoscenze, invece, l’immunità prodotta dall’infezione si estende oltre i nove mesi (per analogia con affezioni simili si parla di 1-2 anni).
Ora, posto che questo quadro è quello che, allo stato attuale delle conoscenze, abbiamo di fronte, com’è che non si capisce che la strategia della vaccinazione a tappeto (anche a chi ha ancora gli anticorpi per aver superato l’infezione, anche ai giovani e giovanissimi) è una strategia votata alla sconfitta?
Com’è possibile che non salti agli occhi che già a settembre, quando, anche se venisse deciso domani l’obbligo vaccinale assoluto saremo ben lontani dal 100% dei vaccinati, inizieremo ad essere alle prese con la nuova vaccinazione per i primi gruppi di vaccinati, cui si sovrapporrà probabilmente il richiamo della terza dose causata dall’apparente inferiore durata della copertura?
Com’è possibile che non si veda che l’obiettivo ufficialmente dichiarato (blocco della trasmissione del virus, stop alle varianti, messa in sicurezza dei più fragili), per come è stato immaginato. è nato per fallire?
Com’è possibile che non si capisca che una strategia tutta concentrata su una generica vaccinazione a tappeto (tutto molto militare, non c’è che dire), mentre l’intero sistema sanitario resta in difficoltà per l’ordinaria amministrazione, è una strategia votata al fallimento? Una strategia che ci condurrà ad un circolo vizioso di perenni emergenze senza soluzione né costrutto?
O forse lo si capisce benissimo, ed è per questo che si armano le spingarde morali creando il capro espiatorio dei No Vax, cui si imputerà poi un fallimento concepito come inevitabile?
L’unica direzione in cui avrebbe senso muoversi è quella dell’accettazione della realtà, una realtà in cui il virus SARS-CoV-2 rimarrà endemico nella popolazione mondiale, come è avvenuto in passato per l’influenza, e dunque una realtà in cui dobbiamo cercare di proteggere i più fragili (e qui il vaccino è decisivo), di attutire gli effetti del virus in chi si ammala, e di consentire agli organismi sani di elaborare le proprie difese.
Solo così ne usciremo.
La strada che abbiamo preso conduce ad un percorso dove ci dobbiamo attendere di passare da emergenza in emergenza, consegnando agli esecutivi poteri da stato di guerra, e distraendo l’opinione pubblica da tutto ciò che forgerà davvero il nostro futuro.
Vogliamo questo?
Chi lo vuole?
SULLA LETTERA DI CACCIARI E AGAMBEN
La lettera aperta congiunta di Massimo Cacciari e Giorgio Agamben sul Green Pass (vedi testo nei commenti) ha ricevuto, come prevedibile, un’accoglienza esplosiva. Uno dopo l’altro si sono attivate sulla stampa una serie di firme, più o meno note, per spiegare:
che “le discriminazioni sono ben altre” (Di Cesare, Repubblica),
che “la vita non viene forse prima della democrazia, non viene forse prima di tutto?” (D’Alessandro, Huffingtonpost),
che “il green pass è come la patente o il porto d’armi, che nessuno contesta” (Flores D’Arcais, MicroMega),
che “Cacciari e Agamben non hanno le competenze, lascino fare a chi le ha” (Gramellini, Corriere), ecc. ecc.
Ora, personalmente non credo di essere stato una volta in vita mia d’accordo con Agamben, e dunque ero restio finanche a leggere la lettera, però a fronte di tale qualificata batteria di fucilieri non ho potuto esimermi.
Ciò che ho trovato, e che nel mio piccolo voglio brevemente commentare, è un testo con molti difetti, ma certamente non liquidabile con gli argomenti che ho visto in giro.
Il testo, comparso sul sito dell’Istituto italiano per gli studi filosofici, presenta un’argomentazione molto breve, con un difetto strutturale: essa parte come un argomento “di principio” e “di valore simbolico” circa la minaccia alla vita democratica, prosegue con considerazioni di ordine pragmatico sullo stato della sicurezza dei vaccini e sulla mancanza di una prospettiva (“Dovremo dunque stare col pass fino a quando?), e chiude di nuovo su note di principio.
Per finalità di impatto giornalistico questa forma argomentativa è forse ottimale, proprio perché tocca vari tasti dolenti in poche righe, però in termini filosofici è abbastanza insoddisfacente, per la poca chiarezza dei nessi tra le parti.
Se ci si vuole concentrare sui dettagli si possono trovare diversi punti emendabili, ma credo che in generale sia meglio operare la critica, se critica dev’essere, dopo aver tentato una lettura ‘caritatevole’, che si sforzi di capire la sostanza.
(In ogni caso, trovo insopportabile quel tipo di critica che si limita alle battute benpensanti condite di sufficienza, alle alzate di sopracciglia complici, come se si fosse di fronte a giudizi già pacifici “tra noi alfieri del bene”.)
Quanto all’incipit “di principio” della lettera, diffido sempre di quella tipologia di argomenti, di cui Agamben è un esimio rappresentante, che volano alti, iperborei, su questioni di principio, pensando di poter applicare principi generalissimi alla realtà concreta senza incardinarli nella realtà. Questo tipo di argomenti ha un’elevata tendenza a creare una “isteria simbolica” (i cui esiti troviamo ben rappresentati nelle odierne istanze del ‘politicamente corretto’).
Non credo che nessun argomento in generale che ipostatizzi “la libertà”, “la democrazia”, “i diritti umani”, ecc. sia credibile se non si preoccupa dei dettagli dell’applicazione in contesto. Non esiste da nessuna parte, per dire, la “libertà” in sé e per sé, disincarnata, da preservare da ogni offesa.
Nella lettera questo passaggio applicativo, questa discesa nel concreto non è particolarmente chiara. Essa si intravede solo nel passaggio in cui i due osservano il rischio che “il vaccino si trasformi in una sorta di simbolo politico-religioso.”
Qui credo si sia nei pressi di un punto cruciale, la cui spiegazione nella lettera mi pare oscura, e che provo perciò a spiegare a mia volta come segue.
Il Green Pass non rappresenta un problema per la sua natura intrinseca di limitazione sanitaria ad alcuni gruppi.
Di principio questo tipo di soluzioni possono essere accettabili, se la situazione lo richiede, nella misura in cui lo richiede.
Il problema è qui rappresentato invece da un dissidio tra una situazione reale che non mostra particolari criticità, nonostante la comparsa della variante delta, e una pressione propagandistica e moralistica terrificante da parte dell’intero establishment, che si lancia in una predica battente sulla doverosità di vaccinarsi-e-far-vaccinare chiunque e comunque.
Questa “moralistic suasion”, proprio perché alimentata dal 100% dei media e dal 90% della classe politica di governo, ha un impatto spaventoso sull’opinione pubblica.
Dopo aver costruito una categoria di soggetti non vaccinati (o magari vaccinati, ma dubbiosi) come No Vax subumani, dopo averli dipinti come traditori della patria nello sforzo bellico contro il virus, dopo aver etichettato i dubbiosi come portatori di morte, i frutti nell’opinione pubblica non tardano ad essere raccolti.
Questi toni di moralismo apocalittico sono alla base di una scarica di odio virulento che si percepisce sui social media ogni giorno, dove trovi l’infermiera che minaccia di farla pagare ai pazienti non vaccinati, il virologo che parla dei non vaccinati come sorci da cacciare, gli auguri del medico agli stessi di avere un lutto in famiglia, e poi l’infinita serie scomposta di figuri che augurano malattia e morte.
Ecco, se vediamo la questione del Green Pass non nel suo generale ‘significato simbolico’, ma nella concretezza del modo in cui lo si sta applicando qui ed ora, c’è davvero da preoccuparsi.
Quando il potere costituito scatena le sue forze in campagne moralistiche ed aggressive contro una parte della popolazione che sta agendo nel rispetto della legge, e che sta esercitando la propria legittima libertà (e magari anche con buone ragioni), qui siamo arrivati ad una soglia davvero pericolosa.
Il fatto stesso che il Green Pass sia stato concepito dall’inizio come un modo di ottenere in modo obliquo una sorta di obbligo vaccinale, senza assumersene la responsabilità, ha spinto a premere sul tasto morale, e così facendo ha creato una classe di cittadini che pur legalmente tollerati sono giudicati come ‘impuri’, e su cui è legittimo, anzi consigliato, esercitare il proprio disprezzo. Qui, proprio qui, gli esempi storici delle peggiori autocrazie del ventesimo secolo dovrebbero averci insegnato qualcosa.
La strada che sarebbe stata da prendere, ma che il governo si è dimostrato incapace di prendere, è quella di una valutazione calibrata dei mezzi e dei fini, senza ergersi a giudice morale.
In una valutazione mirata della proporzionalità dei mezzi ai fini ogni immagine bellica di “distruzione del virus”, ed ogni suggestione irenica di “salvare ogni vita” dovevano essere lasciate da parte. Non saremo mai – allo stato delle conoscenze – nelle condizioni di eradicare il virus a colpi di vaccinazione, e non saremo mai nelle condizioni di salvare ogni vita, di ogni individuo.
Porsi obiettivi impossibili è pericoloso perché legittima la richiesta di uno sforzo infinito (e questa è sì un’istanza autoritaria), e crea le condizioni per una frustrazione infinita (con conseguente rabbia crescente).
Esigere il Green Pass da teenager per andare in palestra, o dallo spettatore di un concerto all’aperto, o dall’elettorato passivo per candidarsi, ecc. sono tecnicamente degli abusi, perché iniziative prive di motivazioni sanitarie credibili.
Sono prive di motivazioni sanitarie credibili perché ci sono già tutte le condizioni perché quegli atti non inneschino alcuna crisi sanitaria.
D’altro canto il carattere di abuso arbitrario è ribadito dal fatto che simultaneamente un anziano frequentatore di una chiesa o del parlamento ne sono esentati.
Tutto ciò serve solo a creare una situazione che invece di giocare con le carte democratiche dell’argomento, del pluralismo, della buona informazione, sceglie la scorciatoia autoritaria della propaganda, della distorsione, della demonizzazione.
Post Scriptum.
Siccome non sono mancati tra i critici della lettera alcuni che hanno sollevato obiezioni a un punto che anch’io sostengo da tempo, e che ha un rilievo nella valutazione costi-benefici, ovvero il fatto che gli attuali vaccini anti-Covid hanno ancora un carattere sperimentale, credo sia opportuno riportare per intero in coda un passaggio di un contratto di fornitura Pfizer (l’unico contratto che finora abbia rotto il muro della pubblica secretazione).
<<5.5 Purchaser Acknowledgement.
Purchaser acknowledges that the Vaccine and materials related to the Vaccine, and their components and constituent materials are being rapidly developed due to the emergency circumstances of the COVID-19 pandemic and will continue to be studied after provision of the Vaccine to Purchaser under this Agreement. Purchaser further acknowledges that the long-term effects and efficacy of the Vaccine are not currently known and that there may be adverse effects of the Vaccine that are not currently known.>>
(<<L’acquirente riconosce che il vaccino e i materiali relativi al vaccino e i loro componenti e materiali costitutivi vengono sviluppati rapidamente a causa delle circostanze di emergenza della pandemia di COVID-19 e continueranno a essere studiati dopo la fornitura del vaccino all’acquirente ai sensi del presente accordo. L’acquirente riconosce inoltre che gli effetti a lungo termine e l’efficacia del vaccino non sono attualmente noti e che potrebbero esserci effetti negativi del vaccino che non sono attualmente noti.>>)
DALLA DEMOCRAZIA ALLA TECNOCRAZIA IN DUE PASSAGGI
In un thread avente per oggetto la definizione di No Vax, un mio contatto, giornalista di sinistra – che non nomino, ma che può ovviamente intervenire se lo desidera – ad un certo punto arriva a replicare in questo modo:
“fammi capire, tu filosofo, possiedi dati, li leggi e presumi dall’alto di tutto ciò di decidere in contrasto con quanto stabilito dalla scienza medica e virologica. Tu. Filosofo. Capisci che siamo sull’orlo del baratro, no…”
Ecco, credo che questa breve frase compendi in sé tutta l’involuzione avvenuta nell’intellighentsia di sinistra nell’ultimo mezzo secolo, e meriti una riflessione dedicata.
(Disclaimer: me la prendo con l’intellighentsia di sinistra mica perché quella di destra sia meglio; è solo per la necessità di distanziarsi dalle origini).
In quella frasetta sono all’opera due meccanismi argomentativi sovrapposti.
1) Il primo è una manovra nota di sottrazione del discorso pubblico alla ragione comune.
La sua forma è “chi sei tu per…?”
Di solito viene usata per un’operazione di frammentazione progressiva del discorso pubblico, ridotto ad opinioni su base individuale.
Questo soggettivismo individualistico è stato al centro della prima fase, ‘anarchica’ della ‘nuova sinistra’ post ’68.
2) Ma subito dopo emerge il secondo passo.
Siccome la scomposizione individualistica del discorso pubblico conduce ad esiti realmente anarchici (esiti auspicati da quella generazione politica, salvo poi ritrarsi spaventati dagli effetti), allora si presenta la necessità di una nuova operazione di contenimento del disordine.
Si ricrea perciò una nuova dimensione dell’autorità della ragione, ma non più su base collettiva, come discorso pubblico, ma come “specializzazione dei competenti”.
(“Democrazia è fidarsi di chi sa” diceva qualche giorno fa un ineffabile intellettuale progressista sulle pagine del Corriere.)
Con la seconda mossa non basta più nessun livello di formazione o cultura per occuparsi della cosa pubblica, per quanto alto.
Tu puoi anche studiare per professione e dedicarvi tutta la vita, ma non basta, non può mai bastare.
Devi affidarti a quanto stabilito dalla “scienza” nello specifico campo di pertinenza.
E naturalmente, non vale qualunque fonte scientifica, perché questo sarebbe di nuovo un ritorno all'”interpretazione autonoma delle fonti”, che non hai titolo a fare.
No, si tratta di affidarsi alla voce della scienza in quanto selezionata a monte da “chi sa” (tipo i conduttori dei Talk Show).
E a giudicare se “sa” e cosa “sa” il selezionatore saranno altri che “sanno”. E più non dimandare.
(E’ buffo come tutto ciò ricordi la Controriforma tridentina, quando l’interpretazione autonoma dei Testi Sacri promossa dal protestantesimo venne vietata, conferendo l’autorità della sola vera interpretazione alle gerarchie ecclesiastiche. Ma almeno quella volta si sapeva dove stava il vertice della piramide, ora invisibile.)
Ed è così che si arriva a soluzioni come il governo dei Monti o dei Draghi.
Già, perché esattamente come non hai titolo a ragionare della politica vaccinale se non hai una laurea in medicina, così chi sei tu per giudicare una politica economica?
Sei forse un economista bollinato?
No? E allora taci e fidati di chi sa, per Dio!
Ecco.
Questa in breve è la parabola della democrazia come prodotta dai liberali di sinistra nell’ultimo mezzo secolo.
Prima si è frammentata la società in individui privi di parametri in comune (“La razionalità come violenza” – ricordo ancora queste scemenze brandite senza pudore nei miei anni di università).
Secondo, per contenere il caos della frammentazione si sostituisce la democrazia con una tecnocrazia di nominati, giustificati a imporre qualunque cosa al gregge anarchico degli individui, nel nome del Sapere.
NB_ Tratti da Facebook

Le grandi bugie dietro il green pass, di Max Bonelli e Gilles Gallizzi

Qui sotto un interessante articolo che puntualizza alcuni aspetti critici e opachi della gestione della crisi pandemica. Preme sottolineare che alcuni dati segnalati nel testo rappresentano campioni o universo di dati talmente ridotti, aspetto per altro segnalato dagli autori, da essere probabilmente soggetti a variabili non considerate o non considerabili; trattati quindi con una qualche sospensione di giudizio. L’approssimazione e l’utilizzo poco accurato dei dati, per altro, sono parte integrante di una gestione approssimativa, disastrosa e manipolatoria, a volte anche omissiva (vedi la cancellazione dell’elenco degli effetti collaterali dei vaccini da parte dell’AIFA) di questa crisi ormai sempre più asservita strumentalmente ad altre finalità delle varie parti. Su questo anche il “supercompetente” Governo Draghi sta sempre più confermando di adagiarsi progressivamente sul trend quotidiano emerso chiaramente in questi due anni ma ormai in corso da decenni. Un politico, tanto più uno statista, non può esentarsi dall’assumere responsabilità e chiarezza di motivazione dei provvedimenti https://www.governo.it/it/articolo/conferenza-stampa-draghi-cartabia-speranza/17509_Giuseppe Germinario

Le grandi bugie dietro il green pass

In questo articolo scritto a due mani vi sveliamo tutte le falsità propinate al pubblico come verità indiscutibili dai media e dal governo Draghi che vengono usate come giustificazioni all’imposizione di fatto dell’obbligo vaccinale tramite green pass.

La prima menzogna:

i vaccini (in realtà terapia antigeniche in quanto non inoculano il virus covid19) proteggono dal contagio del virus e dalle conseguenze”.

Affermazione falsa andando a guardare i dati forniti dai due paesi con più alto tasso di vaccinazione a doppia dose, Inghilterra ed Israele ci si accorge che almeno per quanto riguarda la letalità i dati clinici dicono che i vaccinati corrono un pericolo di morte da coronavirus sei volte maggiore dei non vaccinati. In particolare dati che vengono dagli ospedali inglesi ci dicono che su 4087 persone vaccinate a doppia dose, e risultate positive nonostante questo alla variante delta, sono stati registrati 26 casi di decessi con una letalità 6 volte maggiore dei 35521 casi positivi tra i non vaccinati e che hanno registrato 34 morti.(1)

Sia ben chiaro parliamo di una letalità molto bassa ma d’altronde la variante delta pur essendo molto contagiosa non è altrettanto pericolosa.

La seconda menzogna:

i vaccini darebbero luogo ad una produzione di anticorpi maggiore e più duratura rispetto agli anticorpi prodotti dopo una infezione da coronavirus in soggetti non vaccinati”

Guardiamo i dati israeliani, paese con la più alta percentuale al mondo di vaccinati;  osservando i dati da maggio in poi su 7700 casi di infettati da Covid 19 solo 72 avevano già avuto il coronavirus ed avevano sviluppato anticorpi naturali quindi parliamo di meno dell’1 % mentre circa 3000 casi (quasi il 40% ) erano vaccinati a doppia dose.

Gli autori del rapporto affermano che chi era vaccinato correva 6,7 volte il rischio di contrarre l’infezione rispetto a chi aveva contratto il coronavirus senza essere vaccinato.

Quindi emerge chiaramente che tutte le categorie non a rischio elevato (sotto i 60 anni) sarebbero più tutelate da un incontro naturale con il virus che da un incontro post vaccino.

Dopo questi dati le autorità israeliane hanno abbassato l’efficacia del vaccino Pfizer dall’ottimistico 98% al 67%.(2)

La terza falsità:

vaccinarsi impedisce la proliferazione delle varianti”.

Grandi virologi come il Prof. Tarro hanno sempre detto il contrario. Vaccinarsi in piena pandemia e con un virus mutevole per definizione essendo virus a RNA messaggero, significa implementare le variazioni del virus stesso. Guarda caso, la variante Delta si è diffuso soprattutto in due paesi ad alto tasso di vaccinazione Israele e Inghilterra.

Quando in autunno si diffonderà la variante epsilon già presente in Sud America e che sembra resistente ai vaccini cosa racconterà il governo Draghi?

Che la colpa è dei non vaccinati? Quando è l’esatto contrario.

Dare all’untore di manzoniana memoria a chi rifiuta una terapia sperimentale di cui il produttore non si assume la responsabilità non aiuterà a tenere sotto controllo la pandemia.

Infine quarta falsitài vaccini sono ben tollerati”.

Volevo rispondere con la pagina dell’AIFA che elencava il numero di segnalazioni avverse….

Vi allego il link sull’argomento che era presente sul sito dell’AIFA ora rimosso per ovvi motivi di opportunità politica….(3)

Si parlava di oltre 66.000 casi di effetti indesiderati tra gravi e non.

Chiudo questa piccola carrellata con una nota di colore; 100 marinai dell’ammiraglia della flotta inglese la portaerei HMS Queen Elisabeth sono risultati positivi al covid….erano tutti vaccinati a due dosi.(4) e adesso passiamo ad una visione più strategica e d’insieme della emergenza Covid

Stiamo dunque seguendo un’agenda di interventi che si è resa inefficace sin dalla sua entrata in vigore.

Se è vero che la prima ondata di contagi colse di sorpresa il mondo intero e soprattutto l’Italia a causa non solo dell’avvento su larga scala di una nuova e forte manifestazione di un patogeno conosciuto e studiato, ma di una insufficiente catena di informazioni, quando non proprio deficitaria per omissioni e la cui responsabilità verrà acclarata nelle sedi opportune, le successive due ondate hanno visto una gestione inidonea alla salvaguardia della salute pubblica e dell’interesse nazionale. Con la diffusione delle variante delta ci troviamo alle soglie di quella che viene già riconosciuta come la quarta ondata.

Ad oggi gli strumenti messi in campo dal governo e dai consulenti cui esso si rifà, si sviluppano secondo due filoni coercitivi: quello dei confinamenti a zone colorate e quello della campagna vaccinale e quindi della sua recente declinazione amministrativa: il lasciapassare verde. Queste, a distanza di diciassette mesi dall’inizio della crisi del Sars-CoV-2, sono le uniche due soluzioni individuate dal governo per la gestione della Nazione. Vi è di più: tali due strumenti coercitivi se dapprima venivano proposti come uniche due strade alternative a mutua esclusione, oggi si integrano laddove anche il conseguimento del lasciapassare verde non scongiura la possibilità di nuovi confinamenti dinnanzi ad una risalita dei contagi. Infatti la conclusione del ciclo vaccinale, mono o bidose, non è, come già esposto, garanzia di assenza di nuovi contagi tanto nella popolazione normale quanto in quella vaccinata che pertanto, di fronte a varianti sempre più infettive e sempre meno virulente, incrementeranno nuovamente con le stagioni autunnale ed invernale, come per ogni malattia infettiva respiratoria.

Il lasciapassare verde diviene inoltre strumento di esclusione di liberi cittadini da attività civili e dalla vita sociale sulla base di una presunta ed ipotetica infezione, peraltro sempre da dimostrare ma aprioristicamente attribuita. Viene invertito e sovvertito il principio di soggetto sano fino a prova contraria dacché la verginità dall’infezione è la condizione naturale e basilare, e non il contrario. Il lasciapassare verde si configura quindi quale strumento discriminatorio basato sull’attribuzione amministrativa, e non medica, di libertà di movimento e di partecipazione alla vita sociale e pubblica già costituzionalmente sancite. Tale strumento ha inoltre ampie e nefaste declinazioni, come quella paventata da Confindustria di utilizzarlo come autorizzazione ad una sospensione di stipendio sino al licenziamento per il dipendente che non lo avesse conseguito. Inoltre, questi lasciapassare contengono informazioni di carattere sanitario che in alcun modo dovrebbero giungere in mano ai datori di lavoro per l’utilizzo discriminatorio degli stessi, in piena violazione della propria intimità.

In considerazione della prevedibile risalita dei contagi, i più avveduti hanno proposto una rimodulazione dell’attribuzione delle zone a libertà limitata non più in base al numero dei nuovi positivi o della percentuale degli stessi all’esecuzione dei tamponi, quanto ad un più saggio numero di ospedalizzazioni. Anche questa soluzione, seppur migliore della precedente, condanna regioni come la Valle d’Aosta ad una perenne zona gialla anche con due ricoveri per covid.

La crisi sanitaria ha messo in evidenza soprattutto l’insufficienza in cui versa il Sistema Sanitario Nazionale vittima dei drastici tagli di cui è stato oggetto negli ultimi 20 anni. Infatti, secondo un’inchiesta di Uninmpresa, partendo dai documenti della Corte dei Conti, dal 1998 al 2017 sono stati chiusi 381 ospedali, con una media di 20 all’anno. In associazione a tale dato va inoltre evidenziato come la distribuzione tra comparto pubblico e privato abbia subito un’inversione di rappresentanza dal 1998 in cui il Sistema Sanitario Nazionale deteneva il 61,3% delle strutture ospedaliere al 2017 in cui la presenza pubblica si è contratta sino al 48,2%. Il personale sanitario ha visto una riduzione di ben 45783 posti di lavoro negli ultimi dieci anni (5).

Cosa fare dunque?

La gestione dell’emergenza non può affidarsi univocamente alla vaccinazione come panacea del male corrente. La vaccinazione, è un’arma fondamentale a disposizione dello Stato il quale si deve prendere carico non solo degli oneri di somministrazione ma anche essere investito e rispondere direttamente quale responsabile delle conseguenze inerenti allo stesso. La macchina commerciale internazionale ha messo in evidenza come la cooperazione e la correttezza è venuta meno quando si è trattato di accaparrarsi le mascherine ed i vaccini sul mercato globale.

Quanto su esposto pone in evidenza la necessità di una nuova fase per la nazione italiana che deve vedere investimenti statali senza precedenti per adeguare la proposta e la garanzia sanitaria alle sfide del nuovo millennio, incrementando quindi le strutture ospedaliere, il personale sanitario, i posti di terapia intensiva ma anche investendo in ricerca ed innovazione nello sviluppo di tecnologia, di vaccini e strumentazione medica che permetteranno all’Italia non solo di essere meno soggetta ai ricatti del mercato globale ma di fungere da formidabile volano economico per la Nazione arrestando, inoltre l’emorragia di ricercatori e lavoratori che a migliaia ogni anno lasciano il Paese.

Max Bonelli

Gilles Gallizzi

(1)

https://www.lifesitenews.com/news/death-rate-

from-variant-covid-virus-six-times-higher-for-

vaccinated-than-unvaccinated-uk-health-data-

show

(2)

https://www.youtube.com/watch?v=4yFUFFi43Hg&t=521s

(3)

https://www.aifa.gov.it/content/segnalazionireazio

ni-avverse

(4)

https://www.bbc.com/news/uk-57830617

(5)

https://www.unimpresa.it/sanita-unimpresa-da-2007-chiusi-200-ospedali-e-tagliati-45-000-sanitari/35576

Il valore della vita (e non solo il costo), di Anne-Sophie Chazaud

OPINIONE . Dove sta andando Macronie? Sullo sfondo dell’annuncio della 4a ondata e dei dibattiti parlamentari sull’estensione della tessera sanitaria, la saggista Anne-Sophie Chazaud ritiene, in un post su Facebook (qui riprodotto), che stiamo entrando in una società del controllo digitale altamente discutibile.

 

Le autorità pubbliche hanno trasformato in caos la nostra irrinunciabile (e meritata) tregua estiva sullo sfondo di una strategia di paura e shock, dividendo ancora una volta – secondo il loro ormai consueto modus operandi – il popolo francese, riducendo volutamente i margini della dialettica e del dibattito con i soli limiti di un “pensiero” che vuole essere scientificamente sostenuto, ma che in realtà ne è l’esatto contrario: manicheo, violento, ideologico, settario, che presenta presupposti come tante certezze e così via. (e da questo punto di vista, del tutto ascientifica nonostante la fatica che si mette a dargli l’apparenza).

È difficile, se non impossibile (e forse un po’ colpevole) non parlare pubblicamente nel periodo che stiamo attraversando perché l’ora è tanto seria e va ben oltre la semplice gestione di un virus. È importante comprendere diversi punti per analizzare la reale natura di ciò che stiamo vivendo attualmente e la sua insopportabile brutalità e non sarò qui esaustivo, ma ci tornerò più avanti:

Come avevo detto nel marzo 2020 in vari articoli e interviste radiofoniche, il (sì, continuo a dire “il”) covid è apparso in Francia in un Paese che era già profondamente fratturato dalla brutale politica portata avanti sotto la sinistra squadra. .

L’opposizione sociale e politica, consapevolmente fuorviata dall’azione delle piccole SA del sistema che sono la feccia e i gruppi di estrema sinistra infiltrati nelle rivendicazioni iniziali dei gilet gialli, ha incontrato una repressione di incredibile violenza, che ha messo tutta una parte il popolo francese in un “campo” odiato, squalificato, caricaturale (facendo all’occorrenza entusiasmando i pochi – tra i veri manifestanti – che c’erano veramente), accusati di tutti i mali…

Ho poi detto, quando è arrivato il covid, che non dovevamo immaginare per un solo secondo che l’esecutivo avrebbe abbandonato la sua opera di distruzione del popolo francese, dei suoi valori, delle sue faticose conquiste, della sua unità, a causa della crisi sanitaria, ma che, al contrario, il movente sanitario sarebbe la sua fallace giustificazione e legittimazione a posteriori.

Siamo in questo momento.

In questo momento in cui le peggiori misure distopiche vengono prese in parodia di un processo democratico (che di fatto è diventato quasi inesistente, e difficilmente si può contare sulla sottomissione zelante del Consiglio di Stato o anche solo o solo ai margini dell’ordine costituzionale del Consiglio per chiamare all’ordine l’esecutivo e i suoi esecutori di lavori legislativi di basso livello), da un esecutivo in gran parte minoritario nel paese (che è stato ancora una volta con forza dimostrato dalle ultime elezioni amministrative), misure che rappresentano un cambiamento antropologico e sociale importante nella nostra storia. Cito a caso: rifiuto del ricovero di un non vaccinato, dimissione di un non vaccinato, vaccinazione senza il consenso dei genitori, ecc., il tutto in un contesto di passione burocratica per l’ammenda procedurale del popolo francese.

Come sempre in questi grandi momenti di frattura, una parte della popolazione avalla il peggio (quello che Jérôme Sainte-Marie descrive, dal punto di vista socio-economico, come un “blocco d’élite”), cauta, spaventata, odiosa, trattando tutti che non la pensano come lei di “fascista” (perché, per queste persone, è chiaramente autorizzato il ricorso costante al punto Godwin) o di “rimasta”, di ignorante, pronta a tutti i compromessi e a tutte le rinunce pur di’ ‘ per assicurare il suo comfort consumistico piuttosto che far prevalere l’umano, la libertà, la vita in tutto il suo valore e non solo nel suo costo.

Sì, il modello di società proposto dalla macronia è proprio segregazionista, opera in modalità deliberata di apartheid, e alcuni, molto attivi sulle reti, onnipresenti nei media, lo trovano perfettamente normale.

Poiché alcuni deficienti hanno scandalosamente sfoggiato una stella gialla, i sostenitori di questo insopportabile sistema sociale possono ora svolgere il consueto ragionamento: ridurre l’opposizione al pass sanitario a un movimento di oscurantisti anti-ascia, il che è ovviamente conveniente e del tutto falso (l’autore di queste linee è vaccinato eppure radicalmente ostile al libretto sanitario), trattarli come antisemiti (ribellandosi alla retorica dei giubbotti antigialli può ricomparire dormire serenamente in frigo, funziona sempre), squalificarli come necessariamente stupidi (basta vedere l’arroganza disonorevole mostrata dal ministro Véran in varie occasioni e dichiarazioni per capirlo), ostile alla scienza, sottosviluppato e così via.

Richiamo l’attenzione sul fatto che tali provvedimenti sono inammissibili in quanto stabiliscono in modo duraturo e irreversibile (le rinunce in tema di libertà non vengono mai successivamente riviste al ribasso) un modo di vivere che ci fa ricadere in un mondo che molti di respingiamo, perché ci sono persone lucide che non si accontentano di vedere tutta questa faccenda attraverso il mignolo dell’occhiale covidista. È stato addirittura respinto un emendamento che chiedeva la fine del passaggio della vergogna quando l’epidemia sarà finita, il che dovrebbe essere sufficiente per gettare milioni di combattenti della resistenza nelle strade. Perché il problema non è la vaccinazione ma proprio questa modalità di sorveglianza di lunga durata ora in atto.

Questo spostamento antropologico (perfettamente denunciato da una magnifica tribuna di François-Xavier Bellamy che qui salva l’anima di una destra classica troppo spesso cauta e compromessa) ci fa entrare a pieno titolo in tutto l’orrore della digitalizzazione delle nostre vite. questa volta in tutti gli atti e in tutti i momenti di questo, anche nei nostri corpi, nell’intimità dei nostri corpi e della nostra salute, ed è in questo che occorre sia comprendere la dimensione grave sia combatterla.

Questa gestione costante delle nostre vite, insieme strumento e obiettivo del capitalismo più amorale (a cui non riduco tutto il liberalismo che ci si chiede di sfuggita dove sia attualmente scomparso) trova, con questa segregazione e questo tracciamento digitale di ogni , la chiave ultima di una politica dura, disumana, divisiva, che cerca soprattutto di estendere su ogni permanente il controllo dei corpi, il controllo delle masse produttrici e consumatrici, quelle che il filosofo Peter Sloterdijk chiama le regole per la gestione del “parco umano”.

Un esempio: ora favoriremo il licenziamento dei non vaccinati piuttosto che la pista del telelavoro (dato che questo progresso digitale ha permesso di allentare, horresco referens , la morsa sui corpi dei dipendenti). La tecnologia digitale consente al biopotere di dispiegarsi in tutta la sua orribilità. Per comprendere la portata della pericolosità di questo cambiamento, è opportuno fare riferimento alla relazione senatoriale del giugno 2021 dal titolo perversamente “Crisi sanitarie e strumenti digitali: rispondere efficacemente per riconquistare le nostre libertà” : le misure proposte sono davvero strabilianti e agghiacciante follia e ad essa rimandiamo fortemente il lettore. Contrariamente alla vulgata media-sociale concordata, parlare di dittatura per evocare un tale sistema non è un eccesso semantico.

Il fatto che questo tentativo di tagliare le nostre vite completamente regolamentate coincida con l’affare Pegasus lo dimostra su un altro livello: le nostre libertà, ovunque, sono minacciate dall’intrusione digitale.

Comprendiamo che in questa gigantesca logica di sottomissione dei popoli (stile cinese), l’attuale esecutivo francese è particolarmente zelante poiché trova qui attraverso l’opportunismo e l’effetto inerte sufficiente per alimentare i suoi obiettivi antisociali e realizzare la sua tabella di marcia iniziale.

Dobbiamo resistere con tutte le nostre forze al mondo che verrà, perché noi siamo i veri progressisti che mettono l’umano e il suo valore (e non il suo costo) al centro di tutto.

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MACHIAVELLI SU CONTE E I 5 STELLE, di Teodoro Klitsche de la Grange

MACHIAVELLI SU CONTE E I 5 STELLE

Siamo tornati a chiedere lumi a Machiavelli sulla crisi dei 5 stelle e il contrasto Conte-Grillo e ce l’ha gentilmente concesso.

Cosa ne pensa della vicenda Conte e del Movimento 5 Stelle?

Il Conte non era un politico ma un privato onde “Coloro e quali solamente per fortuna diventano di privati principi, com poca fatica diventano, ma assai si mantengono; e non hanno alcuna difficultà fra via, perché vi volano: ma tutte le difficultà nascono quando e’ sono posti”.

Infatti una volta insediato, a comandare è stato qualcun altro: Conte al massimo pesava per metà. Perchè questi governanti si reggono “sulla volontà e fortuna di chi lo ha concesso loro, che sono dua cose volubilissime et instabili, e non sanno e non possono tenere quello grado: non sanno: perché, s’e’ non è un uomo di grande ingegno e virtù, non è ragionevole che, sendo vissuto sempre in privata fortuna, sappia comandare; non possono perché non hanno forze che gli possino essere amiche e fedele”. Con buona pace dell’ “uno vale uno” (tale quando voti, non quando governi).

Quindi la caduta del governo Conte 1…

È la conseguenza di quanto ho appena ripetuto. Conte era la “testa di legno” di Salvini e Grillo. Durava finchè lo volevano loro.

Ma c’è un sistema per consolidarsi, o almeno conservare il potere conseguito “per arme altrui”?

Conte sapeva di non avere i voti, che sono per voi quello che per me erano i soldati.

Dato che non l’aveva, doveva procurarsene di propri, perché coloro che “così di repente sono diventati principi”, per conservare il potere debbono creare, una volta insediati al potere “quelli fondamenti” cioè ai tempi vostri, voti. Ma quando stava al governo, sia con la Lega che con il PD, poco ha potuto fare.

Ora che è fuori dal governo è assai difficile.

Scrissi che è meglio preparare i “fondamenti”, ossia i mezzi e condizioni per esercitare il potere, prima; nel caso di nomina per fortuna, almeno quando il governante s’è insediato; ma quando l’ha perso non l’ho considerato, perché raro anzi rarissimo.

Quindi fuori dal governo?

Può promettere ma poco, a meno che non trovi tanti sprovveduti, dei Messer Nicia, per capirci. Con i quali si può essere “larghi a promettere ma nell’attender corti”. Invece i suoi possibili seguaci, anche se digiuni di Stato (e di politica) quanto agli affari propri, sono dei Licurghi. Capiscono subito che può mantenere poco, e quindi poco (al massimo) manterrà. Ancor più per aver ridotto il numero dei parlamentari. Come scrissi al principe nuovo occorre assicurarsi dei nemici, procurarsi amici, punire i traditori, farsi amare e temere dal popolo: il tutto presuppone di stare al potere. E Conte ora non ci sta.

Ma potrebbe avere ancora il consenso degli elettori?

Che non aveva quando fu nominato al potere. E perché? Quando se l’è guadagnato? Se lo ottiene sarà sempre poco per tornare al posto di prima. Se invece lo consegue per “arme altrui” cosa tanto rara, di tornare al comando sempre per volontà degli stessi – il problema si ripropone comunque. Guarda un po cosa successe al vostro Monti: perse il governo, conseguendo poi alle elezioni europee con la propria lista, meno dell’1%: chi lo aveva designato pochi anni prima l’ha lasciato in naftalina, a scrivere articoli. Non crediate che siano più generosi col Conte. In politica la gratitudine, anche se talvolta necessaria, è merce rara.

Teodoro Klitsche de la Grange

A METÁ DEL GUADO TRIBUTARIO, di Teodoro Klitsche de la Grange

A METÁ DEL GUADO TRIBUTARIO

Il documento conclusivo licenziato dalle Commissioni Finanze di Camera e Senato su una riforma fiscale complessiva è notevole per cose scritte e anche per quelle non scritte.

Partiamo dalle prime. Da (almeno) cinquant’anni si sentono ripetere luoghi comuni sulla situazione fiscale, ed economica in genere, connotati dal carattere di edulcorare la maggiorazione del prelievo a carico, s’intende, di tutti, ma soprattutto di quelli che subiscono le attenzioni del fisco più rapaci. E, in genere, di ottundere, mistificare, illudere i contribuenti.

Nel documento tali luoghi comuni sono quasi tutti smentiti (anche se non esplicitamente, ça va sans dire). Esaminiamone alcuni. “Il problema principale dell’economia italiana, da cui derivano molte delle altre criticità, è un tasso di crescita del PIL sostanzialmente inferiore a quello dell’area-euro” e subito dopo “Tutte le analisi macroeconomiche concordano nell’includere il mal funzionamento del sistema fiscale tra le principali determinanti del nostro problema di crescita” (il corsivo è mio).

Credevamo, a sentire i ciarlatani del regime, che il problema principale fosse quello dell’evasione (ossia della violazione). Apprendiamo invece non solo che non è quello, ma che probabilmente l’evasore di un sistema così controproducente è un patriota che ha salvato (purtroppo solo i propri) quattrini delle pubbliche dissipazioni.

Secondo punto: si legge che la tassazione sul lavoro (e non solo) “è nettamente superiore alla media dell’area euro. In particolare, l’aliquota implicita di tassazione sul lavoro è pari al 42,7%”. Ma il seguito è anche più interessante “L’eccessivo carico tributario sul lavoro è un problema anche in virtù del trend di riduzione della quota di redditi da lavoro sul PIL, passata dal 68% del 1970 al 52% del 2018”. Quindi jobs acts e tutta la chincaglieria mediatica sul costo del lavoro è, in termini macro economici, una litania volta ad occultare la riduzione delle retribuzioni (e altro). C’è poi l’applicazione della curva di Laffer (“regolarità” economica così semplice ed evidente che solo ai Balanzoni di regime non appare tale) “È ragionevole ritenere, inoltre, che, da un lato, aliquote marginali effettive elevate o altamente variabili possono spingere i contribuenti di alcune fasce di reddito a sottrarre reddito all’imposizione fiscale… la struttura delle aliquote marginali effettive presenti nel nostro sistema imposte-benefici è altamente inefficiente nonché dannosa per la crescita economica”. Laffer è riabilitato.

La semplicità legislativa. Si legge che “la complessità del nostro sistema tributario (è) uno dei maggiori ostacoli alla crescita economica” ed anche, aggiungiamo, maggiore incentivo alla corruzione, ad applicare il famoso detto di Tacito corruptissima res publica plurimae leges. In particolare occorre sottolineare quanto afferma il documento sullo “Statuto del contribuente” riforma tanto strombazzata dai governi di centrosinistra “È purtroppo però un fatto largamente accertato che lo Statuto del Contribuente sia la norma meno rispettata del nostro ordinamento giuridico”. Verissimo, ma non siamo d’accordo con la “soluzione” proposta: costituzionalizzare lo Statuto del contribuente, perché tutte le recenti costituzionalizzazioni, da ultimo quella dell’art. 111 Cost., si sono rivelate delle solenni affermazioni sulla carta di quello che, al contrario, si legiferava, ma soprattutto si praticava nelle amministrazioni. Erano cioè delle derivazioni (nel senso di Pareto) preventive. Assai meglio, per garantire che sia rispettato, seguire il consiglio di Gaetano Mosca, da me citato nel mio ultimo articolo: sanzionare con una grossa multa il funzionario che non rispetta lo Statuto del contribuente. State sicuri che se quella sanzione verrà istituita e soprattutto applicata, lo Statuto del contribuente sarà osservato almeno quanto in Inghilterra l’habeas corpus.

Da notare infine il paragrafo sul contrasto all’evasione fiscale. Al posto del cinquantenario ritornello “paghiamone meno, paghiamole tutti”, con cui si accompagna l’aumento delle imposte a chi già le paga, si osserva che “vi è bisogno di un’evoluzione culturale da ambo le parti: ciascuna di essere deve allo stesso tempo mutare i propri comportamenti in senso virtuoso e abbandonare i pregiudizi nei confronti della «controparte»… Lo Stato deve allontanare ogni tendenza a considerare il contribuente un «evasore che ancora non è stato scoperto»”, e il contribuente deve internalizzare i benefici di pagare le imposte. E il documento ribadisce “che il perseguimento di tale strategia sia un processo di natura culturale travalica, non di poco, i confini di un documento di indirizzo, e forse persino di ogni atto normativo” (il corsivo è mio).

Anche qui si concorda: su cose che non risultano dal common sense, poco può fare il legislatore. Ma assai può il popolo sovrano, mandando a casa coloro che hanno creato un sistema siffatto e la cui credibilità è sotto-zero. Al punto che anche cose condivisibili, se proposte da certe forze politiche sono percepite con diffidenza o rigettate tout-court dalla maggioranza dei cittadini.

E quello che manca? Non sappiamo se sia dovuto ad una preventiva delimitazione dell’indagine o ad un’omissione (voluta); ma resta il fatto che se non si rimodella (verso la parità delle parti) la giustizia tra privati e pubbliche amministrazioni, le migliori intenzioni rischiano di rimanere almeno in gran parte tali.

Tale problema nel documento non è affatto considerato, e l’omissione rischia di compromettere l’encomiabile sforzo di ridurre idola e mistificazioni. Perché se i diritti del contribuente e i doveri delle pubbliche amministrazioni (e dei funzionari) non sono giudicati da magistrati indipendenti, e soprattutto i relativi processi denotati dalla “parità delle armi”, rischiano di essere i diritti di “un dio minore” cioè diritti enunciati ma non (o poco) applicati.

Ma su questo ho già scritto tanto, onde non posso far altro che rinviarvi il lettore.

Teodoro Klitsche de la Grange

Romanomica 2: gli antichi centri di commercio _ Di Michael Severance

Questa serie “Romenomics” mira a studiare il commercio nell’antica Roma, includendo alcuni dettagli unici, umoristici e illuminanti, al fine di apprezzare meglio il presente economico.

Un articolo di Michael Severance per Acton Institute.

Alban Wilfert traduzione per Conflits

 

Nella mia introduzione a questa serie “Romenomics”, ho parlato della diversità del lavoro e della retribuzione. Questo non era, certo, un resoconto completo e colorito degli affari, del commercio e della remunerazione nell’antica Roma, ma era comunque una panoramica decente. Allo stesso modo, quando mi avvicino ai “centri di commercio”, cioè i luoghi dove gli antichi romani effettivamente facevano affari, non mi è possibile entrare nei minimi dettagli, anche perché molte testimonianze fisiche e scritte sono andate perdute . Tuttavia, sarei felice di usare la mia immaginazione per fornire le informazioni esistenti, per quanto consentito da questo breve post sul blog.

Quando si visita Roma e ciò che resta delle sue grandi città imperiali, salta all’occhio un dato di fatto: i centri vitali di commercio erano costruiti intorno a poche decine di ettari di terreno rettangolare chiamato fora (de fores , che significa “fuori”). Pioggia o sole, infatti, dall’alba al tramonto, i forum erano sempre pronti ad ospitare attività commerciali in questi ampi spazi all’aperto. Offrivano sbocchi per scambi sia spontanei che ordinati, non così diversi dai mercatini delle pulci americani, dai mercatini italiani o dai bazar turchi. Nel loro design e aspetto, i forumI romani divennero sempre più architettonicamente complessi. Al suo interno furono gradualmente integrati edifici permanenti, come negozi, bar, ristoranti, uffici commerciali, templi e persino municipi che entrarono a far parte delle famose grandi piazze delle moderne città europee.

Leggi anche:  Prenota – Un viaggio a Roma? Segui la guida!

Non è raro che i turisti escano sconcertati, persino delusi, quando visitano le rovine del Foro Romano.. Lì trovano cumuli di macerie, colonne di pietra come tronchi caduti in una foresta, muri che sembrano essere stati bombardati da bombardamenti aerei, e ovunque un intero cumulo di “macerie” su cui rischiano di inciampare. I resti provengono meno da strutture commerciali che da edifici religiosi o politici, come i templi convertiti in chiese cristiane o la Curia romana. Ci vuole una fervida immaginazione e molta pazienza per immaginare, sotto il cocente sole romano, cosa stava succedendo lì durante un’intensa giornata di lavoro. È ancora più difficile immaginare dove si svolgesse esattamente questa attività nel foro prima della sua furia e completa distruzione da parte di bande di saccheggiatori e barbari del V secolo.

Partiamo dall’inizio: da piccolo mercato all’aperto sorto su un’area di paludi all’inizio del periodo repubblicano, il Forum Romanum doveva diventare, al tempo di Giulio Cesare, l’equivalente di un “centro cittadino”. Era il luogo da vedere, dove venivano negoziati gli accordi tra uomini e dei. La parte principale crebbe fino a raggiungere i 250 per 170 metri (quasi due campi da calcio), con le successive aggiunte di Augusto e Traiano. Il Foro Romanodivenne completamente satura di sofisticate strutture in laterizio e marmo: 10 templi maggiori, tre massicce basiliche (utilizzate come spazi per le trattative ufficiali, le consultazioni legali e per ripararsi in caso di maltempo), il Convento delle Vestali (di cui il compito era quello di mantenere la perpetua fuoco sacro che proteggeva Roma), la Curia (il Senato romano), i Rostra(una piattaforma rialzata colonnata utilizzata per promulgazioni e discorsi politici), una prigione per i criminali più pericolosi e un piccolo spazio aperto per la spesa quotidiana, le banche e lo scambio di beni e servizi. La sua prima ragion d’essere, per facilitare l’impresa, finì per cedere il passo a raduni dell’élite degli attori religiosi, civili e politici.

Allora, dove sono finiti i veri affari nella città di Roma? Per farla breve, in una serie di altri fori specializzati, molto più piccoli, sparsi nel centro della città, lungo le sponde del Tevere e nei dintorni. C’erano dozzine di mercati aperti che non hanno lasciato praticamente alcuna traccia archeologica, ma i cui nomi ci sono noti. In sintesi, i principali forum minori carne interessata (Forum Macellum), pesce fresco (Forum Piscarium), suini e salate (Forum Suarium), bovini, cuoio, latte (Forum Boarium), capre e formaggi (Forum Caprarium), ovini, lana e tessili (Forum Lanarium) , olio d’oliva, frutta e verdura (Forum Holitorium), vino (Forum Vinarium), pane, farina e cereali (Forum Pistorium), articoli per la casa, statue e vasi (Forum Archemonium), spezie, cibi raffinati e beni di lusso (Forum Cupedinis) .

I resti del Macellum Magnum di Adriano a Minturno, a sud di Roma. (Credito fotografico: Carole Raddato di Francoforte, Germania. CC BY-AS 2.0.)

 

Successivamente, ci furono diversi tentativi di consolidare i tanti piccoli mercatini specializzati in quelli che potremmo definire “centri commerciali one-stop”, come il Macellum Magnum, costruito da Nerone sul Cælius, che fu completamente distrutto. , e il primissimo ” centro commerciale coperto”: il Mercatus Traiani, tuttora esistente, sul Quirinale. Questo edificio di cinque piani ospitava dozzine di negozi ( tabernae) che vendevano principalmente beni di lusso, ma anche oggetti di uso quotidiano. Come gli attuali centri commerciali, anche i Mercati di Traiano erano destinati alla vendita di prodotti per l’ospitalità e l’intrattenimento: nell’attigua Via Biberatica (corridoio delle bibite) erano presenti diversi bar, ristoranti con terrazza al secondo piano con vista sul Foro Romano e un -Teatro aereo per festival teatrali e musicali. Ha ospitato uffici di fascia alta per entità legali e commerciali. I suoi negozi sono ancora oggi perfettamente intatti, dando a tutti un’idea chiara dello spazio fisico che l’imperatore Traiano affittava a imprenditori e mercanti di lusso in tutto l’impero.

 

Il Mercatus Traiani, visto dal 3° piano. (Credito fotografico: Nicholas Hartmann. Questa foto è stata modificata per le dimensioni. CC BY-SA 4.0.)

 

Una struttura semplice era parte integrante di tutte le tabernae e degli stand all’aperto, in particolare i chioschi di scambio: il bancus . Costituito essenzialmente da assi di legno legate tra loro in modo da poter essere facilmente smontate alla fine di ogni giornata lavorativa, il bancus fungeva da grande bancone su cui si effettuavano le transazioni e dove si trovavano le casse per la riscossione dei pagamenti. Nessun bancus in legno è sopravvissuto al degrado naturale, ma linguisticamente sopravvivono ancora attraverso la parola “banca”, quelle preziose istituzioni di cui abbiamo ancora bisogno per rendere possibili le transazioni!

Si è detto abbastanza sulla vita commerciale nei centri urbani. E i porti marittimi? Da quando Ostia, l’antico porto di Roma, è stata completamente scavata, non mancano gli indizi visibili. Innanzitutto, se le grandi città erano dedite al commercio, le città portuali erano centri commerciali per eccellenza. Quando oggi visitiamo Ostia, vediamo diversi chilometri quadrati di tabernae , grandi e piccole, e tutti i fori sopra menzionati per l’importazione di prelibatezze, materie prime, cereali, per non parlare dei frutti di mare.Ristoranti e bar erano abbondanti e spesso specializzati in ricette a base di cibi e bevande di lusso provenienti dall’estero.

Le città portuali, come Ostia, erano generalmente costruite lungo coste poco profonde con acque naturalmente calme, e baie, o lungo gli estuari dei fiumi, in modo da essere collegate alle vie d’acqua interne. Ancora più importante, le città portuali avevano strutture speciali, chiamate horrea , che venivano utilizzate per immagazzinare tonnellate di merci fino a quando non potevano essere trasportate, ridistribuite e vendute in altri mercati. In generale, gli horrea erano progettati per immagazzinare grano, sale e materiali da costruzione come marmo e granito. Gli oggetti di lusso, come metalli preziosi, gemme e spezie, non erano conservati in questi horrea , ma intabernae più piccole, custodite e chiuse.

Leggi anche:  La caduta di Roma. Fine di una civiltà, di Bryan Ward-Perkins

L’immagazzinamento divenne una parte così importante dell’infrastruttura portuale commerciale che i romani costruirono porti secondari artificiali con banchine adiacenti e enormi horrea . Nel 46 d.C., l’imperatore Claudio fece costruire l’ulteriore città di Portus (da cui il nome “porto”), pochi chilometri a nord di Ostia, per sollevarla dall’elevato volume di importazioni che riceve ogni giorno. L’imperatore Traiano poi ingrandì Portus e trasformò la struttura della sua banchina in un esagono per consentire l’installazione di sei siti di ormeggio separati che operano notte e giorno. Portus era poi collegato alle banchine del Tevere ostiense da un canale per l’entroterra.

Lo stoccaggio occupò un posto così importante nell’infrastruttura portuale commerciale che i romani costruirono porti secondari artificiali con banchine adiacenti ed enormi horrea . Nel 46 d.C., l’imperatore Claudio costruì un’ulteriore città, Portus (da cui il nome “porto”), a pochi chilometri a nord di Ostia, per alleviare l’elevato volume di importazioni che quest’ultima riceveva ogni giorno. L’imperatore Traiano poi ingrandì Portus e trasformò la struttura della sua banchina in un esagono per consentire l’installazione di sei siti di ormeggio separati che operano notte e giorno. Portus era poi collegato alle banchine del Tevere ostiense da un canale per l’entroterra.

A sinistra, veduta artistica di Portus. A destra, i resti del deposito horrea di Ostia. (Portus: Photo credit: ostiaantica.org.) (Horrea: Photo credit: Sailko. CC BY 3.0.)

 

Se abbiamo parlato di paesi e città portuali, la maggior parte dei centri commerciali romani rimase agraria, con possedimenti giganteschi utilizzati per l’agricoltura, l’allevamento di animali, il disboscamento, l’estrazione mineraria, ecc. I plebei potevano acquistare piccoli appezzamenti privati ​​(pochi ettari) e ai soldati in pensione venivano dati piccoli terreni fertili. Tuttavia, i grandi possedimenti agrari commerciali (centinaia e migliaia di ettari) erano di proprietà di aristocratici e senatori patrizi. Si sono concentrati su industrie che hanno generato grandi profitti e una forte domanda, come la viticoltura, la produzione di cereali, l’allevamento di bestiame, la silvicoltura e l’estrazione. Le loro terre erano spesso adiacenti a corsi d’acqua, che consentiva un trasporto immediato ed economico. Quest’ultimo fattore era essenziale, per prevenire il deterioramento dei prodotti agricoli e soddisfare le esigenze urgenti di grandi progetti imperiali (costruzione, creazione di strade, fusione di armi e attrezzature militari).

Cosa dobbiamo imparare oggi dagli antichi centri commerciali? Prima di tutto, abbiamo bisogno di centri commerciali e di distribuzione sia primari che secondari. Nessuna metropoli può avere un solo centro. Il grande Foro Romanolo provò prima di essere costretto a dividersi in mercati specializzati sparsi per la città, a causa del sovraffollamento. Ciò ha consentito di decongestionare il traffico e aumentare il volume degli scambi e la concorrenza tra i diversi settori. Man mano che le città crescono e si espandono, la disgregazione dei centri di mercato finisce per creare un nuovo problema logistico legato alla distanza. Immagina di camminare e tirare carri per diversi chilometri tra i vari mercati della carne, dell’olio e della verdura dell’antica Roma: ciao bulbi! Infine, la comodità del Foro Romanosi trova in una soluzione intermedia tramite centri commerciali e centri commerciali, come i Mercati di Traiano e il Marcellum Magnum. In effetti, è l’elemento più duraturo degli immobili commerciali romani nelle principali città di oggi. Lo stesso vale per l’utilizzo dei porti marittimi, per i quali i centri primari e secondari devono essere costruiti per funzionare in armonia tra loro e con le vie di interconnessione logistica.

Se c’è una cosa che possiamo ammirare degli antichi romani, è la loro costante preoccupazione per l’efficienza. Stavano costantemente ripensando, ristrutturando e ridistribuendo per rendere il loro vasto impero più rapidamente sfruttabile commercialmente. Negli affari, ieri e oggi, tempus pecunia est (“il tempo è denaro”). Gli antichi centri commerciali di Roma erano ben attrezzati per massimizzare questa massima eterna.

https://www.revueconflits.com/romenomics-commerce-dans-la-rome-antique-mondialisation-aujourd-hui-2/

Washington, Roma, Gerusalemme: il miraggio di un fronte comune?_ di Yrieix Denis

Quel che bolle in pentola_Giuseppe Germinario

Il 4 febbraio si è tenuto a Roma un Congresso che ha riunito vari intellettuali e politici europei e americani. Sovranisti, conservatori, “illiberali” o anche identitari, i relatori a loro volta hanno esposto i loro impegni intellettuali e condiviso la loro esperienza di potere. Ma quale credito intellettuale possiamo dare a un “asse Washington-Roma-Gerusalemme”, come difeso da uno degli organizzatori, Francesco Giubilei (Nazione Futura)?


Via del Corso attraversa la città di Roma da nord a sud per un chilometro e mezzo, in linea retta da Piazza del Popolo a Piazza di Venezia. È tradizionalmente sul “Corso”, come dicono i romani, che si svolgevano le principali feste carnevalesche. Goethe, che visse nel famoso viale nel febbraio 1788, ne racconta i gioiosi eccessi nel suo Secondo soggiorno a Roma. Per lo scrittore, il carnevale romano era del resto molto più che “una festa data [al] popolo”: era una festa “che il popolo [dava] a se stesso”.

Vedi Conservatorismo nazionale: una conferenza a Roma

Ma in questo mese di febbraio 2020 il carnevale, ristabilito nel 2010, non è ancora iniziato ed è tutto un altro spettacolo quello che si svolge al numero 126 del famoso viale. Questo martedì 4 febbraio il Grand Hotel Plaza di Roma ha ospitato un grande evento intellettuale, sotto lo sguardo curioso dei passanti. Un congresso, sponsorizzato principalmente da due think tank americani (la Fondazione Edmund Burke e l’Herzl Institute), si è tenuto lì come parte di una serie di conferenze intitolate “National Conservatism”, e ha riunito quasi 250 persone.

Ospiti di diversa provenienza

Doveva riunire intellettuali, politici e giornalisti tutto il giorno nella sala da ballo del palazzo. Il tema di questa seconda sessione, la cui prima si è tenuta la scorsa estate a Washington, potrebbe sorprendere: “Dio, onore e patria: il presidente Ronald Reagan, papa Giovanni Paolo II e la libertà delle nazioni”.

La Piazza Romana, inizialmente residenza di una numerosa famiglia piemontese, fu trasformata in albergo nel 1860. Da allora ha ospitato numerose personalità. Papa Pio IX vi soggiornò nel 1866 quando ricevette Carlotta del Belgio, imperatrice del Messico. Ma anche, un secolo dopo, De Gaulle e Churchill. È qui che hanno soggiornato anche molti dei firmatari del Trattato europeo del 1957. Ironia della sorte, lo staff dell’hotel questa volta si aspetta di accogliere, tre giorni dopo lo storico evento Brexit, i sostenitori di un’Europa completamente diversa: l’ex ministro degli Interni e Il segretario della Lega Nord Matteo Salvini, oltre al premier ungherese Viktor Orbàn.

Erano attesi anche intellettuali conservatori come il britannico Douglas Murray e il polacco Ryszard Legutko; politici come il deputato del Partito conservatore britannico Daniel Kawczynski, Thierry Baudet, del Forum voor Democratie o l’ex deputato della Marina militare Marion Maréchal, nonché i francesi Édouard Husson e Alexandre Pesey. Attesi anche Mattias Karlsson dei Democratici svedesi e Georgia Meloni dei Fratelli d’Italia.

schiavitù imperiale

L’organizzatore principale di questa serie di conferenze è un filosofo e teologo israeliano, classe 1964: Yoram Hazony. Presidente dell’Herzl Institute, è uno dei cardini della Fondazione Burke. Lo accompagnano la moglie ei due figli, che partecipano all’accoglienza degli ospiti. Il dottore in scienze politiche, passato da Princeton, si è distinto nel 2018 con l’uscita del suo libro La virtù del nazionalismo [1], la cui traduzione è appena uscita in Italia. Con questo saggio, colui che fu anche assistente di Benjamin Netanyahu, cerca di dimostrare che ci sono due regimi politici in competizione che attraversano la storia e conducono una guerra spietata: l’impero e la nazione. L’Unione Europea apparterrebbe, nonostante la sua apparente novità, alla prima categoria.

Mentre l’impero (persiano, romano, spagnolo…), che è, secondo Yoram Hazony, universalista e progressivamente razionalista, appiana i particolarismi ed estende costantemente i suoi confini, il particolarismo della nazione sarebbe il miglior garante della cultura, di pace e libertà. Per il teorico, l’imperialismo (che oggi assume sia le nuove vesti del diritto che della cooperazione internazionale come i tratti bellicosi del passato), alla fine ci lascerebbe solo una triste alternativa: la sottomissione alla “servitù eterna. O alla “guerra”. Per difendersi da questi due mali bisognerebbe dunque evitare ogni compromesso e non rinunciare ad alcuna libertà civile a favore di alcun organismo sovranazionale.

Rispetto agli imperi cinese, egiziano e greco, la nazione era “qualcosa di nuovo nella storia”, disse Ernest Renan (1823-1892), che identificò l’essenza della nazione nel fatto che gli individui che la mantennero in forma hanno entrambi molto di punti in comune, ma anche che tutti hanno “dimenticato un sacco di cose”. “Qualsiasi cittadino francese” avrebbe così, secondo lo studioso bretone, “dimenticato Saint-Barthélemy e le stragi del Sud nel XIII secolo [2] “. Oggi, però, secondo i relatori, le nazioni sarebbero minacciate dall’oblio di ciò che costituisce il cuore della loro cultura e dal risentimento per le ferite del passato.

I nuovi vestiti dell’utopia progressista

A sostenerlo, in ogni caso, il primo relatore della giornata, il giornalista e saggista americano classe 1967 Rod Dreher. L’autore della scommessa benedettina, dall’aspetto giovane nonostante la barba bianca e i capelli sale e pepe, ha messo in guardia il pubblico contro questa “dittatura rosa” che sovverte il nome di “giustizia sociale” per dedicare un culto “fanatico”. , sessuale…), erette come “vittime sacre”.

Rod Dreher è caporedattore di The American Conservative, dove scrive una rubrica quotidiana . Il suo intervento è disponibile in francese integralmente ed esclusivamente, su Conflits .

Dietro l’abito compassionevole, “i mezzi dello Stato e del capitalismo” si ibriderebbero infatti per dare vita a “una società di sorveglianza”, che tanto più facilmente si insedierebbe quanto più in Occidente si accentua l’atomizzazione sociale in proporzione al discredito soffrono le nostre istituzioni e il successo di nuove ideologie. Contro questa “dittatura rosa” (concetto ripreso dal saggista James Poulos), che difende certe libertà e ne aliena altre, i conservatori devono coltivare la loro memoria e trasmettere il loro patrimonio, rafforzare i loro legami di solidarietà (famiglie, istituzioni, circoli, partiti ecc. .), e soprattutto per ravvivare la loro fede, perché “contro il male che viene”, “l’umanesimo non basterà”.

Vedere James Poulos, “Benvenuti nello stato di polizia rosa: cambio di regime in America”, The Federalist , 17 luglio 2014

L’autore, che “sta preparando un nuovo saggio sull’argomento”, racconta, a sostegno della sua tesi, le testimonianze raccolte dai dissidenti dei paesi dell’Est sulla loro lotta al comunismo e che avevano per la maggior parte di loro una fede forte e fervente, come un Vaclav Havel o un Karol Wojtyla, appunto. Per molti dei sopravvissuti a quest’epoca passata, il totalitarismo sta tornando con un volto nuovo, e non solo in Cina, ma anche in Occidente, “dove potrebbe trionfare se i cittadini non stanno attenti”.

“ Le libertà di opinione, espressione e religione ci sembrano eterne e intangibili. Ma non subiscono aggressioni quotidiane? La correttezza politica non sta sovvertendo le istituzioni liberali che stanno perdendo la loro presunta neutralità a favore di una nuova ideologia? », si sono chiesti recentemente molti intellettuali conservatori americani, vicini a Rod Dreher, e tra questi il ​​giornalista cattolico Sohrab Ahmari e il filosofo Patrick Deneen.

Vedi i dibattiti seguiti alla pubblicazione del manifesto “Against the Dead Consensus” di First Thing , 21 marzo 2019

Cacce alle streghe

Fu anche uno degli ultimi moniti dell’intellettuale britannico Roger Scruton, la cui memoria fu salutata calorosamente all’inizio del Congresso e di cui Rod Dreher rese un pesante tributo. Quando era venuto a Parigi per il convegno “Democrazia e libertà”, organizzato lo scorso maggio dall’Accademia di scienze morali e politiche e dall’Istituto Thomas More, lo spiritoso filosofo aveva denunciato la violenza e la slealtà degli araldi del politicamente corretto, ai quali doveva la perdita della sua reputazione e della sua posizione nel movimento conservatore.

Istituto Thomas More: Vedi “Democrazia e libertà: i popoli moderni mettono alla prova le loro contraddizioni”

Era stato infatti sgridato per affermazioni ritenute oltraggiose (“Chi non crede che ci sia un impero di Soros in Ungheria non ha osservato i fatti”) e islamofobi (“Gli ungheresi furono spaventati da questa improvvisa e popolosa invasione. di tribù musulmane “;”L’islamofobia è una costruzione della propaganda dei Fratelli Musulmani per soffocare ogni dibattito”), tenuta durante un’intervista al magazine di sinistra The New Statesman.

È stato il suo stesso intervistatore, l’editore associato George Eaton, a denunciarlo nell’intervista prima di tagliare lo champagne e celebrare pubblicamente la caduta del “razzista e omofobo Roger Scruton” (sic). Prima di morire nel gennaio 2020, l’intellettuale ha tenuto a ricordare sulla rivista Spectator che la caduta del comunismo è stata prima di tutto la vittoria della sovranità popolare e non quella della “libertà di movimento”, come “affermava. la propaganda dell’Unione europea Unione”.

Le tentazioni totalitarie delle società democratiche

Un parere chiaramente condiviso da un oratore al Congresso, ex ministro polacco e storico membro del sindacato Solidarnosc, Ryszard Legutko. Durante una tavola rotonda con l’americano John Fonte dell’Hudson Institute e il saggista francese Édouard Husson, ha presentato gli insegnamenti della sua esperienza di dissidente e membro del governo polacco. Come ha spiegato in un libro con accenti tocquevillian, The Demon of Democracy [3] , il filosofo ed ex ministro dell’Istruzione polacco ritiene che la democrazia attuale assomigli all’ideologia comunista più di quanto pensiamo. .

Édouard Husson: Autore in particolare, per le edizioni Gallimard (novembre 2019) di Parigi-Berlino: la sopravvivenza dell’Europa .

Condividendo le stesse radici intellettuali (sia in termini di filosofia della storia che di religione), queste due ideologie perseguono gli stessi obiettivi: liberare gli uomini dagli obblighi del passato, emancipare i cittadini dalla tradizione e dal costume. Inoltre, la democrazia condivide una caratteristica distintiva con i regimi comunisti: non ammette altri criteri di giudizio se non quelli del sistema politico e quindi rifiuta di sottoporre i propri pregiudizi all’esame di criteri morali o religiosi.

È alla luce di questa storia di resistenza al comunismo che si può comprendere il persistente malinteso che oppone i difensori di un’Unione europea positivista e tecnocratica al patriottismo e all'”illiberalismo” dei paesi dell’Is. Come ha ricordato di recente il saggista Max-Erwann Gastineau, “non siamo i discendenti dello stesso trauma”. In effeti :

“ In Oriente, è la memoria del comunismo che continua a lavorare sulla memoria collettiva e a forgiare una cultura della resistenza che valorizzi le radici nazionali. In Occidente, si crede che siano i limiti della legge a proteggere l’Europa dal ritorno dell’autoritarismo nazionalista di ieri. 

Vedere The New East Trial , Cerf, 2019  ; e l’intervista che Conflits gli ha dedicato di recente.

L’Ungheria di Viktor Orbàn

L’intervento più atteso, nell’imprevista assenza di Matteo Salvini, il cui gruppo politico al Parlamento europeo (il PPE), temeva di vederlo intervenire in una manifestazione che riuniva ospiti di correnti ritenute troppo disparate per non essere compromettenti, è stato quello di Viktor Orban. Il premier ungherese, che nel maggio scorso aveva dichiarato a Bernard-Henri Lévy di “non aver niente a che fare con Marine Le Pen”, non ha avuto paura da parte sua di parlare sullo stesso palco della nipote di quest’ultima, l’ex vice Anche Marion Maréchal, attualmente direttrice dell’ISSEP di Lione, è stata invitata a intervenire durante un notevole discorso di cui la stampa francese ha già fatto eco.

Il capo del governo ungherese ha voluto ricordare al suo pubblico che la politica richiedeva di saper conquistare e mantenere il potere e che il dilettantismo non era d’obbligo. Ci vuole anche, secondo lui, coraggio per difendere le sue idee e metterle in pratica una volta eletto. Questo mettere in pratica le idee su cui è stato eletto un governo è essenziale per consentire una rielezione. Una lezione che sembrò conquistare tutti i partecipanti, sedotti da un Capo di Stato che, a soli 24 anni, aveva osato sfidare il regime comunista e che parve loro incarnare una risposta coerente e solida sia sul piano culturale, sociale, che economico. Il presidente del Consiglio ha quindi voluto ricordare il vigoroso tasso di crescita del Paese (4,8% nel 2018), e di aver mantenuto all’“80%” la sua promessa di creare un milione di posti di lavoro.

Viktor Orbàn ei suoi sostenitori ritengono che il suo Paese, occupato a più riprese “dagli ottomani, dagli slavi e dai comunisti”, debba la sua sopravvivenza solo alla determinazione degli stessi ungheresi. Tuttavia, secondo lui, il liberalismo ei suoi promotori a Bruxelles si stanno rivelando una nuova forza distruttiva per questo Paese di 10 milioni di abitanti. Primo, perché il liberalismo distrugge i vincoli di solidarietà e di affetto che fondavano le nazioni, e perché le sue istituzioni, lungi dall’essere neutrali, sono sostenute da uomini che hanno una propria ideologia.

Aveva così dichiarato, nel febbraio 2019, alla piattaforma delle Nazioni Unite:

“ Da nessuna parte nel grande libro dell’umanità è scritto che gli ungheresi devono esistere. Questa legge è scritta solo nei nostri cuori – e nessuno tranne gli ungheresi se ne preoccupa . ”

Citato da Christopher Caldwell, “L’Ungheria e il futuro dell’Europa” , Claremont Review , primavera 2019

Nonostante il successo che sembrò incontrare il pubblico – che lo ricompensò con pesanti applausi, il presidente del Consiglio ungherese non si atteggiò a leader dei movimenti conservatori e sovranisti, ma anzi insistette nel ricordare il ruolo trainante dell’Italia e di Matteo Salvini in particolare.

Una convergenza dottrinale impossibile?

L’impressione generale di questa convenzione, come ha notato Douglas Murray nel suo intervento, ha suggerito una serie di malintesi. Ad esempio, è possibile trovare, al di là dei comuni avversari, una dottrina comune tra sovranisti, atlantisti, conservatori, identitari, intellettuali cristiani, agnostici ed ebrei?

Questo fronte comune è davvero paragonabile a quello che si oppose al comunismo, e che già suggeriva molte differenze, se non altro tra le visioni molto diverse difese a loro tempo da Giovanni Paolo II e Ronald Reagan? C’è stato infatti un altro grande assente dal dibattito, a parte Matteo Salvini: è stata la stessa Chiesa cattolica, una delle figure più emblematiche della quale è stata convocata nella sua casa a Roma, anche se non era presente nessun ecclesiastico a rappresentarla. La religione, tuttavia, vi occupava un posto importante. Forse si dovrebbe capire, come ha suggerito Max-Erwann Gastineau nel suo lavoro sull’Europa orientale, che i relatori avevano fatto propria questa massima di Alexis de Tocqueville:

“Non dipende dalle leggi per far rivivere credenze sbiadite; ma dipende dalle leggi interessare gli uomini ai destini del loro paese”.

D’altronde è certo che i temi sollevati in questa giornata alimenteranno un dibattito che non potrà che essere fertile, se non altro per chiarire le differenze tra generazioni e correnti molto disparate.

https://www.revueconflits.com/nationalisme-conservatisme-souverainisme-eglise-viktor-orban/

Ciarpame mediatico, di Giuseppe Germinario

Il quotidiano “la Repubblica” del 20 giugno scorso ha pubblicato da pagina 45 un lungo articolo, a nome di Gianluca di Feo e Floriana Bulfon, dal titolo “Bergamo_virus, spie e vaccini”. L’articolo è purtroppo disponibile solo a pagamento e non può, quindi, essere riprodotto integralmente alla fonte https://www.repubblica.it/esteri/2021/06/17/news/bergamo_virus_spie_e_vaccini-306329555/?ref=RHTP-BH-I295744712-P13-S4-T1 , ma disponibile comunque integralmente su https://www.msn.com/it-it/notizie/mondo/bergamo-virus-spie-e-vaccini/ar-AAL7nOl?li=BBqg6Qc

Il 21 giugno ha risposto a stretto giro di posta l’ambasciatore russo a Roma, Sergey Razov. Qui sotto il testo della lettera aperta:

Stimato Direttore,

ha richiamato la nostra attenzione l’ampio articolo intitolato “Bergamo, virus, spie e vaccini” pubblicato sul Suo quotidiano il 20 giugno, in cui il giornale ripercorre i fatti di marzo-aprile 2020, quando un gruppo di medici virologi ed esperti disinfettatori russi ha operato nel Nord Italia.

Tre righe e mezzo dell’articolo contengono l’ammissione che “i soldati russi a Bergamo hanno fornito assistenza concreta, curando decine di pazienti, durante le ore più buie della storia recente e disinfettando decine di centri per anziani”. Le restanti quasi 500 sono una congerie di invenzioni sul contenuto reale di quella che sarebbe stata una missione militare dell’intelligence russa nello spirito delle “guerre ibride”, “una campagna di disinformazione e propaganda”, con addirittura elementi della “competizione per riscrivere la mappa geopolitica del pianeta”. Tentare un’analisi dettagliata di tutta questa serie di invenzioni sarebbe una perdita di tempo. Prendiamo in considerazione solo alcuni fatti.

Ricordo bene come un anno fa questo stesso giornale e un certo numero di altri media italiani cercò, senza alcuna prova, di individuare la natura spionistica della nostra missione che avrebbe tentato di ottenere informazioni sulle strutture militari italiane e della NATO a Bergamo e Brescia, dove erano impegnati i nostri specialisti. I chiarimenti in merito al fatto che quelle aree erano state individuate dalle autorità italiane sono stati semplicemente ignorati. C’è voluto più di un anno perché gli autori di “La Repubblica” ammettessero finalmente quello che era ovvio e cioè che le strutture militari italiane e della NATO, come è risultato, non erano l’obiettivo della nostra missione umanitaria (pare non siano avvezzi a scusarsi per la palese disinformazione, attivamente diffusa nella primavera del 2020).

Ma, come si dice, ciò che è storto non si può raddrizzare (Ecclesiaste 1:15). Ora gli scrittori di “La Repubblica” ci attribuiscono la colpa di aver inviato in Italia i nostri migliori medici virologi ed epidemiologi, dotati di grande esperienza (è vero, ne abbiamo orgogliosamente parlato fin dall’inizio), di aver utilizzato sul posto un moderno laboratorio mobile, che avrebbe analizzato “la struttura genetica del virus e inviato i dati a Mosca con il sistema satellitare di comunicazione criptata”. Sì, anche allora abbiamo parlato di questo laboratorio mobile che era impegnato esclusivamente nel monitoraggio della salute del contingente, nella messa a punto delle metodiche e delle dosi di protezione immunitaria, nell’analisi PCR e nella genotipizzazione. (A proposito, effettivamente abbiamo registrato casi di infezione da coronavirus tra i nostri militari che hanno lavorato nelle zone più pericolose d’Italia). Di quali altri compiti e possibilità nascoste di questo laboratorio possono parlare gli autori, se loro stessi ammettono che nessun estraneo ha potuto accedervi.

Poi, l’affermazione forse più ridicola e sacrilega dell’articolo: “il vaccino Sputnik V è nato dal virus italiano”. (I russi hanno rubato il COVID italiano?!) Gli autori cercano di tracciare un legame causale e temporale diretto tra il lavoro della nostra missione e l’invenzione del vaccino russo. E cioè: i dati clinici acquisiti in Italia “con un’operazione di spionaggio” avrebbero permesso ai nostri specialisti di produrre un vaccino nel più breve tempo possibile. I conti non tornano. Fonti sanitarie e militari in Italia – dice il giornale – confermano che “i russi non erano autorizzati a portare campioni e provette fuori dagli ospedali dove curavano i pazienti”. Inoltre, la Russia ha iniziato a testare lo Sputnik V su volontari già a giugno e ad agosto questo vaccino è stato il primo al mondo ad essere certificato. È chiaro anche a un profano che l’invenzione del vaccino non poteva che essere il risultato di molti anni di ricerca su altre malattie virali.

È assolutamente ovvio che il lavoro eroico dei nostri militari in Italia, durato ben 46 giorni, ha fornito una certa esperienza nella comprensione del pericolo di questa malattia, della velocità e delle peculiarità della diffusione dell’infezione, arrivata in Russia, com’è noto, tre o quattro settimane dopo l’Italia. E questa esperienza è stata debitamente utilizzata per sviluppare le nostre misure contro la pandemia. Ma dove sarebbe qui il crimine?! Si tratta di un percorso di collaborazione assolutamente naturale e generalmente accettato, che peraltro prosegue ancora oggi. Al momento, l’Istituto Spallanzani di Roma sta conducendo studi clinici scientificamente importanti sul vaccino Sputnik V con la partecipazione di specialisti russi. Altre prove sono previste nell’ambito del rispettivo Memorandum di cooperazione firmato nell’aprile di quest’anno. Se il giornale Repubblica dedicasse anche solo un centesimo del suo voluminoso materiale a tale lavoro comune, volto a combattere l’epidemia, a nostro parere offrirebbe un servizio migliore e più interessante ai lettori dell’autorevole quotidiano.

E infine, un’ultima cosa. Gli autori definiscono Bergamo “un campo di prova per nuovi conflitti ibridi”. Noi invece partiamo dall’assunto che questo è il luogo in cui al popolo italiano in difficoltà i vertici e il popolo della Russia hanno disinteressatamente dato una mano. Qui sta la principale divergenza con la redazione del giornale, la cui politica provoca la nostra reazione a questo genere di informazioni.

L’Ambasciatore della Russia in Italia

21.06.2021

L’articolo è un concentrato di rara intensità di infantilismo meschino e vile in un panorama giornalistico che certamente non brilla per serietà e fondatezza di analisi.

L’ambasciatore ha avuto buon gioco quindi nel replicare con ferma diplomazia, senza neppure infierire.

Non ce n’era del resto bisogno.

Su quali comportamenti e intenzioni hanno avuto da recriminare i nostri segugi colti da sospetta crisi olfattiva?

A denti stretti hanno dovuto ammettere che lo scopo reale della missione sanitaria russa non era lo spionaggio delle installazioni militari o quantomeno non ci sono elementi sufficienti a suffragare l’ipotesi; sempre che non si possano considerare tali le inevitabili sbirciatine dai finestrini nel lungo viaggio di avvicinamento a Bergamo. Il bersaglio era però ancora più importante: catturare la Covid italiana, portarsela in Russia e carpirne i segreti; sperimentare sul campo le proprie procedure di gestione di una pandemia e di guerra batteriologica, analizzare quelle adottate da un paese occidentale, verificare l’andamento epidemiologico e patologico della sindrome. Come spiegarsi altrimenti il livello così alto e specialistico e la natura militare dei protagonisti, in particolare la loro provenienza dai laboratori chimico-biologici militari? L’accusa velata era di ricondurre il loro interesse alla logica della guerra batteriologica più che alla finalità umanitaria; accusa velata, ma strumentale e maldestra vista la analoga attività svolta da tanti laboratori americani, francesi ed inglesi civili e militari sparsi nei propri paesi e nel mondo. I missionari in colbacco del resto non hanno sentito ragioni nel condividere i dati acquisiti, la sofisticata strumentazione in possesso con gli ospitanti così smarriti in tanto tragico caos. Hanno così ingannato “Giuseppi” e l’intera compagine governativa, piombando come falchi su di un paese smarrito, prendendo alla sprovvista i custodi della sicurezza del paese, carpendo i segreti del mostriciattolo per ricavarne un efficace vaccino in colpevole anticipo rispetto agli amici occidentali, per trarne insegnamenti utili nella gestione ormai prossima a venire della pandemia nel loro paese.

Il senso di privazione che pervade i nostri due segugi è evidente, ammirevole, ma tardivo. In un quotidiano che per trenta anni ha sostenuto attivamente e con entusiasmo, pur in buona compagnia, la spoliazione e la privazione di beni del proprio paese, ai pochi giornalai di buon cuore non è rimasto che aggrapparsi al poco che è rimasto in Italia, difendendolo a denti stretti. In quel poco è rimasto evidentemente la Covid 19 italiana. I tapini non si sono accorti per altro di dare involontariamente ragione ai rivali cinesi i quali, per nascondere le proprie magagne, hanno cominciato a vendere nel mondo l’insinuazione dei virus nazionali, compreso quello tricolore.

L’angoscia da privazione non fa che fissare i pregiudizi e impedire di porre correttamente le domande e soprattutto di porle alle persone giuste.

Hanno accusato i russi di strumentalizzare a fini geopolitici e di propaganda il loro intervento; li hanno incriminati di lesa maestà per aver tentato di scombussolare l’Unione Europea; si sono risentiti, colti da un malinteso orgoglio nazionale, per i loro giudizi sferzanti sulla gestione italiana della pandemia.

Hanno dimenticato in buona sostanza di essere dei giornalisti e di porre le giuste domande:

  • come mai non ha funzionato la solidarietà europea nei momenti più acuti della crisi pandemica?

  • Da dove arriva l’ostracismo al vaccino russo e il fallimento della ricerca scientifica europea?

  • Come mai le implicazioni e il conflitto geopolitici hanno riguardato non solo i paesi dichiarati ostili (Russia e Cina), ma anche quelli “fratelli ed amici”?

  • Come mai il Governo e il paese si è affidato alla improbabile coppia costituita da un manager-finanziere di terza fila (Arcuri) e da un contabile della Protezione Civile (Borrelli), con la consulenza esclusiva di virologi impegnati più che altro ad apparire sugli schermi, piuttosto che ad una struttura composta da esperti di logistica, igienisti, manager della salute nella quale i militari avrebbero dovuto avere un ruolo di primo piano e non di serventi tuttofare?

  • Come mai il Governo non è stato in grado di concordare le modalità di intervento e di scambio delle informazioni con tutti gli interlocutori internazionali, oltre che con russi e cinesi? Anni fa ad un alto ufficiale americano fu chiesto come mai tante basi erano state spostate dalla Germania in Italia. Da buon anglosassone la risposta fu lapidaria: “in Germania per muoversi occorre compilare protocolli di almeno dieci pagine, in Italia una telefonata.”

  • Come mai si sono omesse le analisi epidemiologiche e diagnostiche che accelerassero l’individuazione dei decorsi e la definizione di terapie efficaci?

  • Come mai è quasi completamente saltata quella medicina di base e preventiva sulla quale dovrebbe fondarsi il sistema sanitario nazionale, stando almeno alle dichiarazioni fondative di principio come pure è rimasto impolverato il piano di emergenza nazionale?

  • Come mai in una situazione di grave emergenza non si è risolto rapidamente il disordine istituzionale e lo si è piuttosto strumentalizzato per scaricarsi reciprocamente le responsabilità della cattiva gestione della crisi?

Le giuste domande, ma alle persone giuste: al ceto politico italico, alla sua classe dirigente e ai suoi quadri amministrativi, agli alleati o sedicenti tali piuttosto che alla missione russa rea di aver fatto quello che avrebbero dovuto fare tutti. Le cui giuste risposte avrebbero probabilmente consentito di non pietire interventi esterni a scatola chiusa e di non porre alla radice il problema.

Si sa purtroppo che l’orgoglio nazionale serve a suscitare le migliori energie di un paese, ma anche, spesso e volentieri, a coprire le peggiori magagne e speculazioni.

La soluzione non può arrivare da segugi di tal fatta. Sono parte in causa di una categoria a pieno titolo corresponsabile di una gestione fatta e condizionata da allarmismo, disinformazione, schizofrenia, superficialità e irresponsabilità. Una gestione che ha ridotto l’emersione di un problema serio ad una manipolazione inquietante senza una soluzione di continuità prevedibile in una emergenza senza fine. Un vero e proprio ossimoro. Mario Draghi è arrivato a risolvere alcuni dei problemi posti. Probabilmente ci riuscirà, ma non sarà la gran parte del paese a giovarsi del risultato. Lo abbiamo intravisto negli ultimi due vertici mondiali del G7 e della NATO sui quali continueremo a soffermarci.

Ai due segugi, dal cuore ingrato e dall’indole meschina, non rimane che replicare a loro volta a due semplici domande: a chi, a quale pifferaio devono rispondere dei loro sproloqui infantili e mal posti? Non certo ai lettori, vista la crescente disaffezione. Siete voi stessi agenti terminali di una guerra ibrida?

Passi diplomatici, di Roberto Buffagni

Sulla recente mossa diplomatica del Vaticano per la modifica del DDL Zan.
La battaglia in punto di diritto internazionale ha un suo perché ma ovviamente è una battaglia che non promette bene. E’ una battaglia obbligata. La Chiesa tenta di uscire dall’accerchiamento anzitutto culturale e usa tutto quel che ha, o meglio che le resta. Lo strumento principale che le resta è lo strumento diplomatico, ed è un gran brutto segno, perché con l’accerchiamento culturale esterno interagisce una profondissima divisione interna, in termini bellici una nutritissima quinta colonna che è sostanzialmente concorde con la cultura anticristiana e anticattolica, seccamente avversa ai “preambula fidei” ossia al “diritto naturale”, prevalente nella società. L’obiettivo che si propone la Chiesa con questa misura è preservare la libertà religiosa nella sua forma più legalistica e ristretta: libertà di predicare nelle chiese, libertà di insegnare nelle scuole cattoliche. Entrambe sono direttamente minacciate dal DDL Zan, e da qualsiasi legge tipo legge Mancino che verta sul “genere” e inserisca la “discriminazione” su base di “genere” come fattispecie di reato. Per il motivo semplicissimo che in effetti, la Chiesa (e per il vero, l’intera cultura umana degli ultimi 5.000 anni almeno) “discrimina” gli aventi diritto alla celebrazione del matrimonio secondo il sesso, ossia secondo la loro determinazione naturale. Il matrimonio, che come istituzione culturale precede la fondazione della Chiesa di alcune migliaia di anni, è la forma simbolica centrale per mezzo della quale le comunità umane (tutte) hanno sempre garantito la riproduzione della specie all’interno della cultura/e umana/e. In quanto forma, è indifferente al numero di contraenti (x donne + 1 uomo, 1 donna+x uomini, x donne + x uomini) e anche al loro orientamento erotico, che può benissimo rivolgersi all’esterno della coppia (o gruppo) di sposi, o anche verso il proprio sesso. Il requisito indispensabile è che chi si sposa possa, almeno virtualmente, assolvere contemporaneamente a due funzioni essenziali, ossia 1) riprodurre la specie 2) prendersi cura della prole e integrarla nella cultura della sua comunità. (La sterilità, ovviamente, è una patologia dell’istituto matrimoniale, che non ne muta la fisiologia). Attraverso la forma istituzionale del matrimonio viene confermata simbolicamente anche l’integrazione tra corporeo e psichico, tra riproduzione della specie umana nel senso biologico o zoologico del termine (che può benissimo darsi senza ombra di matrimonio) e la sua integrazione nella cultura, che ovviamente è un fatto anzitutto psichico. Quando si introduce il concetto di “gender”, che nelle sue varie declinazioni è sempre riconducibile alla soggettività dell’individuo (il suo orientamento erotico, l’idea che si forma di se stesso) e lo si accoppia, in un provvedimento di legge, a una fattispecie di reato che ne punisce la “discriminazione”, è banalmente logico che si prenda di mira anzitutto questa antichissima discriminazione delle persone in base al sesso (ossia in base a “quel che sei”, e non in base a “quel che vuoi essere o senti di essere o quel che desideri”). Ne consegue, sempre per logica, che non solo il cattolicesimo, ma tutte le religioni e le metafisiche tradizionali, che, tutte, riconoscono e variamente celebrano e santificano l’istituzione matrimoniale, vengono prese di mira e chiamate a rispondere penalmente di una discriminazione che effettivamente operano e non possono non operare senza scalzare i loro stessi presupposti filosofici, teologici, metafisici, insomma senza suicidarsi. E’ tragicomico e paradossale, trattandosi di una discriminazione fondativa dell’intera storia dell’umanità, ma è così. Qui non c’entra nulla l’omosessualità in quanto tale. Ci sono religioni e tradizioni culturali più o meno severe con l’omosessualità. Nella tradizione culturale dell’antica Grecia, per esempio, l’omosessualità era non solo tollerata, ma in alcune sue forme addirittura celebrata ed esaltata (v. il battaglione sacro tebano, formato da coppie di amanti che giuravano di non abbandonarsi mai sul campo di battaglia e combattevano legati l’uno all’altro). Ciò conviveva serenamente con una solidissima istituzione matrimoniale di tipo patriarcale (v. come va il ménage a casa di Odisseo). Il cattolicesimo, tradizionalmente, è molto severo sull’omosessualità; nella pratica attuale, tenerissimo. Non si può però chiedere al cattolicesimo di vidimare il matrimonio same sex, perché per farlo dovrebbe dichiarare nullo addirittura un sacramento: il matrimonio cattolico è infatti un sacramento officiato dagli sposi, non dal prete che si limita a fare da testimone. Due uomini o due donne non sono qualificati (altra “discriminazione”) a celebrare il matrimonio cattolico, come non sono qualificato io a celebrare la messa o a cresimare, confessare, dare l’estrema unzione, ordinare prete chicchessia, perché non sono ordinato sacerdote (o vescovo nel caso della cresima e dell’ordinazione). Se lo faccio, commetto un sacrilegio. Su tutto questo ambaradan filosofico-teologico-antropologico, che farebbe sudar freddo un genio multiforme dotato di linea telefonica diretta con il Paraclito, in seguito a leggi modello DDL Zan dovrebbe poi decidere il PM, il quale – sporta la querela di parte delle associazioni LGBTetc che scalpitano ai blocchi di partenza e sono già pronte con gli avvocati e i moduli – deve determinare se per l’opinione denunciata (es., un laico o un vescovo si dice contrario al matrimonio same sex o all’adozione per le coppie omosessuali o all’utero in affitto) o il comportamento denunciato (es. rifiuto di celebrare matrimoni omosessuali etc., rifiuto di ospitarli nel proprio ristorante/albergo, rifiuto di salutarli con gioia sui media, a scuola, etc.) c’è la scriminante della libertà di espressione e di religione che la depenalizza, oppure no. Se non c’è la scriminante, il PM fa un riassuntino di una paginetta degli ultimi 5.000 anni di cultura umana, le dà la sua pagella, e ti rinvia a giudizio penale; e che qualcuno te la mandi buona.
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