LA POSTA IN PALIO delle elezioni americane, di Giuseppe Germinario

LA POSTA IN PALIO delle elezioni americane, di Giuseppe Germinario

I momenti in cui il velo della dissimulazione, il fair play sbiadiscono sino a rivelare la spietatezza dello scontro politico sono piuttosto rari.
Di solito può avvenire nei momenti in cui la forza dominante ritiene di avere il potere e controllo assoluto della situazione, ma si tratta di una illusione, spesso di un delirio di onnipotenza, destinata ad infrangersi rapidamente.
Più spesso avviene nelle fasi di scontro aperto tra centri con opzioni politiche antitetiche la prevalenza di una delle quali comporta la soppressione o la irrilevanza della parte avversa. È il momento in cui, nelle cosiddette democrazie, la cosiddetta divisione dei poteri tesa al reciproco controllo si trasforma apertamente nella collusione dalle modalità sofisticate tra settori di poteri nelle loro diverse funzioni.
Gli Stati Uniti, al pari di altri paesi, hanno conosciuto ciclicamente questi momenti.
Quaranta anni fa fu il Presidente Nixon a farne le spese.
Il casus belli fu la scoperta di un sistema illegale di intercettazione delle conversazioni di avversari politici. Il motivo reale fu l’opposizione di altri centri politici alla politica di apertura alla Cina in qualità di leader di un terzo polo ostile al blocco sovietico propugnata da Nixon e Kissinger.
Uno scontro acceso che quantomeno, però, riuscì a salvaguardare le apparenze della correttezza di rapporti istituzionali; consentì persino alla stampa, nella figura dei giornalisti Woodward e Bernstein, di rafforzare la propria immagine di indipendenza quando in realtà essa fu il veicolo di informazioni pilotate da settori di servizi e apparati tesi a colpire una determinata strategia politica.
Oggi, le elezioni presidenziali americane offrono uno scenario nel quale parecchi di quegli infingimenti sopravvissuti al Watergate sono venuti meno.
• La quasi totalità dei tradizionali mezzi di comunicazione fa aperta campagna elettorale a sostegno della candidata, asseconda gli argomenti e le cadenze scelte da uno dei comitati elettorali, spesso ne anticipa le azioni sostituendosi ad esso secondo una agenda ormai con ogni evidenza concordata.
• Una Agenzia delle Fisco impegnata negli accertamenti in particolare delle attività della fondazione del candidato e pressoché incurante dello stratosferico giro di finanziamenti provenienti anche da quegli ambienti meno commendevoli che i paladini dei diritti umanitari dovrebbero stigmatizzare. Una rete tra l’altro costruita in anni di incarichi pubblici internazionali ricoperti dalla famiglia Clinton.
• Una autorità investigativa impegnata ad indagare personaggi di primo livello dello staff di Trump su filoni nei quali risulta implicata la candidata Clinton e il suo staff, spesso e volentieri colti praticamente con le mani nel sacco dei brogli elettorali e quant’altro, ma ancora apparentemente indenne da indagini.
• L’aperta ostilità e la dichiarata intenzione di disobbedienza di numerosi vertici dello Stato e funzionari, in particolare delle Forze Armate e dei dipartimenti di sicurezza ed esteri nell’eventualità di vittoria di Trump.

Gli esempi potrebbero arricchirsi sino a comprendere la cadenza programmata e presumibilmente sempre più incalzante delle defezioni degli esponenti neoconservatori repubblicani a sostegno ormai più o meno esplicito della candidata democratica.
Quanto esposto mi pare però più che sufficiente ad intuire intanto la radicalità dello scontro e soprattutto la inconciliabilità fattuale di opzioni strategiche; una intuizione però non suffragata ad arte da un aperto dibattito sviato piuttosto dalla campagna denigratoria sui comportamenti privati di qualche decennio fa di Trump innescata dalle austere testate del NYT e del WPJ e dall’allusione insistita di connivenza con il nemico ufficiosamente dichiarato di nome Putin.
Una radicalità paradossalmente del tutto assente ai tempi della elezione di Obama, non ostante i fiumi di retorica sull’arrivo de “l’uomo nuovo e della nuova era dei diritti”.
Anche quella elezione di otto anni fa sancì una svolta ormai per altro già in atto dall’anno precedente. Sul piano internazionale si passò da una politica di intervento massiccio diretto ma necessariamente più delimitato sulla base del quale costruire sul posto nuove alleanze ad una politica di intervento “coperto” più discreto ma molto più capillare e diffuso teso ad utilizzare e fomentare le divisioni sugli innumerevoli fronti aperti. Si trattò in pratica di una opzione diversa, più radicale e flessibile, all’interno di una stessa strategia tesa al conseguimento di un controllo unipolare. Il prezzo politico pagato dalla fazione perdente si risolse infatti in qualche umiliazione pubblica come incorse al malcapitato Presidente Bush in occasione del conflitto georgiano del 2008. Sul piano interno si risolse con il gigantesco salvataggio del sistema finanziario, con il contenimento del processo di deindustrializzazione nei settori complementari ed il potenziamento di quelli strategici, con l’estensione del diritto all’assicurazione sanitaria mantenendo il regime privatistico.

I PRESUPPOSTI DELLA SVOLTA DI GATES-OBAMA

Il perseguimento dell’obbiettivo di monopolio egemonico sotto nuove spoglie aveva bisogno di essere sostenuto da diverse gambe e da motivazioni ideologiche più complesse di quelle in dotazione nell’armamentario neoconservatore americano più che altro ridotto al concetto di introduzione forzata della “democrazia” e di libertà “supportata” negli affari.
Il concetto di diritto individuale inteso come soddisfazione di bisogni personali e di gruppi particolaristici che sovrasta e prescinde dai contesti sociali e politici, proprio del radicalismo democratico, assurge al rango di ideologia dominante e motivante. La stessa ambizione al benessere tende ad essere ridotta al diritto a un reddito e a un sostentamento, ad una mera redistribuzione di risorse.
Il sodalizio che è maturato nell’ultimo trentennio tra questi ambienti e il complesso militare-industriale, propugnato dai democratici americani ma ormai ben accetto dagli ambienti neocon, ha fornito l’energia sufficiente all’interventismo “discreto”, al sostegno dei particolarismi identitari e della ulteriore frammentazione politica del pianeta secondo le proprie esigenze strategiche. Lo abbiamo riscontrato in Europa, nel Nord-Africa e soprattutto in Medio-Oriente dove l’ambizione alla nazione araba comprensiva di laici e cristiani è stata ridotta ormai al particolarismo arabo-sunnita dalle mille fazioni. Lo stesso perseguimento dell’autonomia energetica sembrava un ulteriore fattore in grado di minimizzare i contraccolpi della libertà di intervento.
È un sodalizio che per perdurare ha bisogno però di controllare ed indirizzare i due processi reticolari che determinano le relazioni su scala mondiale apparentemente in grado di autoregolarsi nella loro maturità:
• la globalizzazione, intesa come rete inestricabile di relazioni soprattutto economiche e comunicative di tipo molecolare tendenzialmente scevro da alleanze e sodalizi consolidati. Nella sua versione utopica, propria del periodo clintoniano degli anni ‘90 e del primo Bush, mirava ad impedire alleanze stabili e sodalizi economici tra stati e paesi e a ricondurre le relazioni sotto il controllo e la normazione di organismi internazionali apparentemente autonomi, in realtà strettamente controllati da parte americana. Nella versione pragmatica odierna, propria della gestione Obama, arriva a riconoscere la presenza di diverse aree di influenza e di relazioni privilegiate normate però secondo la visione e gli interessi fondamentali di una unica potenza che funge da anello di congiunzione tra le stesse.
È la logica che sta spingendo alla costruzione dei trattati TTP e TTIP. La gestazione faticosa e secondo me altamente problematica e lontana dagli obbiettivi originari della dirigenza americana lascia intuire che il diaframma che separa questa concezione universalistica dalla presa d’atto finale della formazione di zone di influenza in attrito tra loro è ormai sottile
• il multilateralismo, accezione diversa dal policentrismo, attraverso il quale si cerca di inibire la formazione di diverse aree politiche di influenza e tanto meno di sistemi di alleanze potenzialmente in conflitto tra di essi attraverso la regolazione di rapporti occasionali tra singoli stati entro la supervisione di organismi internazionali a controllo americano

COSTI E BENEFICI DELLA GLOBALIZZAZIONE E DEL MULTILATERALISMO

Per quanto di successo, non esistono politiche che comportino solo benefici ad agenti e centri vittoriosi, tanto meno ai restanti
Per quanto conservatrice e reazionaria, la politica è movimento, determina e si inserisce in dinamiche, implica inevitabilmente amici e nemici, alleati e avversari, decisione ed obbedienza entro i vari campi di azione pubblica spesso al di là delle intenzioni e delle capacità di previsione degli agenti politici e in sistemi di relazione mutevoli e cangianti.

Così la necessità di indirizzare e regolare i due processi comporta l’obbligo di sostenere i costi di una supremazia politico-militare e tecnologica soverchiante.

La supremazia politico-militare è garantita da un sistema di alleanze (NATO,ect) congegnato in modo da impedire l’autonomia operativa efficiente delle strutture militari e dei complessi industriali collegati dei paesi satelliti riducendo di conseguenza il loro spazio di iniziativa politica autonoma; in modo tale altresì da poter pescare dall’ampio cortile i volenterosi disponibili a partecipare di volta in volta alle avventure militari. Un sistema che comporta un onere preponderante da parte degli Stati Uniti solo in piccola parte direttamente compensato dalla partecipazione diretta degli alleati alle spese.
Un onere reso ancora sostenibile dalla straordinaria capacità ancora pressoché unica da parte degli Stati Uniti di riuscire a convertire ed utilizzare le scoperte e le tecnologie di origine militare nell’industria civile proponendo prodotti e sistemi di servizi innovativi dei quali riesce a detenere gelosamente il controllo.
Riescono in pratica a costruire e detenere, grazie alla loro politica, il MERCATO.

Sino a quando, in pratica sino agli anni ‘80, le dimensioni geografiche del cuore della propria area di influenza si limitavano all’Europa, al Giappone, alla Corea del Sud e all’Australia il ciclo rimaneva virtuoso; consentiva di costruire negli USA una formazione sociale sufficientemente coesa ed equilibrata nella quale accanto alle attività di punta permanevano in buona misura tutta una serie di attività complementari che consentivano piena occupazione e una costruzione di ceti medi di servizio e produttivi ricca di funzioni e gratificati economicamente.
Con l’implosione del blocco sovietico e l’emergere delle ambizioni di nuovi grandi paesi il circuito si è notevolmente complicato così come i fattori da combinare. In interi settori economici la ricerca scientifica, la progettazione dei prodotti, il marketing si separano dalla diretta attività di produzione ed pezzi interi di settori industriali migrano praticamente dagli USA per finire in gran parte in Cina, ma anche in altri paesi. Agli inevitabili squilibri e polarizzazioni innescati nella formazione sociale americana corrispondono nei nuovi paesi nuove capacità indispensabili a fornire le risorse necessarie ad una politica di potenza ma lungi ancora da essere conseguite stabilmente ed autonomamente.
Sino ad ora questa dinamica è stata compensata dal controllo ferreo del sistema finanziario e monetario con il quale è praticabile quell’enorme ritorno di risorse che consente ancora la supremazia politico-militare, lo sviluppo tecnologico ed il mantenimento di una struttura assistenziale e di integrazione tale da impedire l’implosione sociale in una formazione però ormai pesantemente squilibrata; anche questa compensazione però inizia a presentare limiti e crepe e soprattutto tende a mascherare piuttosto che a compensare gli squilibri della formazione sociale americana.
La stessa pratica del multilateralismo, d’altro canto, comporta una crescente dispersione delle energie politiche ed una progressiva caduta di credibilità legata alla posizione di arbitro-giocatore nei conflitti e alla mutevolezza opportunistica delle alleanze più o meno dichiarate. Una dinamica che sta erodendo inesorabilmente l’efficacia del richiamo al rispetto dei cosiddetti diritti umani.

LA POSTA IN PALIO

La reale posta in palio dello scontro tra Trump e Clinton si gioca in questi ambiti e sta assumendo sempre più i connotati di uno scontro tra diverse opzioni strategiche. Da una parte la prosecuzione dell’attuale politica in termini ancora più virulenti e avventuristici nel tentativo di mantenere ed accrescere il predominio, dall’altra l’intenzione di prendere atto dell’emersione di nuove forze in campo e soprattutto di riconoscerle.
Sottolineo il termine “intenzione” giacché si tratta dell’espressione di un nucleo dirigente abbastanza limitato, ancorché combattivo, del quale non si conoscono le modalità operative, i fondamenti di analisi, la capacità di presa nei settori fondamentali dell’amministrazione il cui controllo è fondamentale per concretizzare le intenzioni politiche.
Sappiamo bene che alle intenzioni raramente corrispondono esattamente comportamenti politici coerenti e soprattutto risultati coerenti; addirittura spesso le nobili intenzioni e gli enunciati più magnanimi si trasformano in strumenti per le politiche più subdole. L’ideologia dirittoumanitarista ne è l’esempio preclaro.
Tutto sommato però non devono trattarsi di sprovveduti, a giudicare da alcune biografie presenti nello staff; nemmeno si devono considerare così isolati dai centri di potere a giudicare dal lavorio costante della talpa di WikiLeaks.
Si tratta, è bene precisare, di uno scontro che non nasce dal nulla; affonda radici profonde nella storia americana; presenta però alcuni significativi elementi di novità

L’ANATRA ZOPPA

Sin dalle primarie Hillary Clinton ha rivelato i suoi innegabili punti di forza e i suoi importanti punti di debolezza, già intravisti nel confronto delle primarie delle 2008 con Obama.
Una straordinaria capacità di raccogliere e fornire sostegno alle più variegate e potenti élites interne e alla pletora di classi dirigenti straniere, comprese quelle europee, ancora più risolute nel loro oltranzismo perché devono la propria sopravvivenza alla prosecuzione della attuale politica americana piuttosto che alla loro capacità di radicamento nei propri paesi.
Un lavorio in questi ultimi anni teso a garantire, in condominio con il Presidente uscente, il controllo dei vertici della macchina amministrativa, comprese le forze armate e l’intelligence
L’imponente macchina organizzativa e l’entità dei finanziamenti sono lì a dimostrare la potenza di fuoco.
Non ostante i mezzi e gli strumenti di influenza disponibili non è riuscita a carpire quel consenso politico e sociale minimo così necessario alla sopravvivenza di un politico di scena.
Sanders, il suo rivale nelle primarie, è riuscito a strappare consensi in fette consistenti di elettorato giovanile specie studentesco, di ceto medio borghese e del residuo ceto operaio rimasto nelle fila del Partito Democratico (PD) solo grazie a critiche pesantissime, radicali alla sua rivale marginalmente sulla politica estera, ma puntuali sulla politica economica. Alla fine ha concesso il sostegno finale a Clinton in cambio di posti significativi nel partito e nei futuri incarichi pubblici trangugiando anche la polpetta avvelenata dei brogli elettorali subiti nelle primarie. Il segno di future prossime battaglie in seno al PD, ma anche della perdita di credibilità del personaggio e di una caduta di entusiasmo nell’attività di militanza.
Gli appelli alla fedeltà di partito e l’esorcizzazione dell’avversario qualificato dei peggiori epiteti dal punto di vista politicamente corretto sono il segno di una debolezza di argomenti non sostenibile nei tempi lunghi; la vittoria risicata nelle primarie e la conseguente estensione della platea di mecenati dai quali ottenere il sostegno ne indebolirà la coerenza politica; se aggiungiamo l’incredibile pletora di agenti con i quali garantirsi l’omertà e il sostegno mediatico, si comprenderà l’estrema ricattabilità ed il condizionamento di un simile personaggio.
Le rimangono il sostegno significativo nei settori di punta della società e dell’economia e nella fazione dei radicalisti dei diritti umani secondo opportunità; permane con qualche difficoltà il richiamo alle minoranze sempre più consistenti ed ai settori assistiti ed assistenziali. Aspetto tutt’altro che trascurabile ma attenuato dal fatto che oggi gli Stati Uniti sono sempre più un paese di minoranze chiuse in se stesse piuttosto che in relazione feconda e integrate.

LA VECCHIA TALPA

Non mi dilungo vista l’ampia letteratura riservata al personaggio e alle forze che rappresenta.
Ho già sottolineato il repertorio limitato quanto astioso di critiche riservato all’avversario Trump.
Si riconduce alle accuse di razzismo, di fondamentalismo, di faziosità così ben conosciute anche dalle nostre parti.
Si tratta tuttavia di anatemi che poggiano su stereotipi validi per vicende del passato recente e remoto del conservatorismo e del “populismo” americano utili a serrare le fila delle componenti più ottuse del PD americano ma atte a suscitare ulteriore diffidenza nell’elettorato più mobile.

La candidatura di Trump ha dato voce diretta ad una fetta di elettorato conservatore sino ad ora strumentalizzata da altre componenti, in particolare dai neoconservatori.

Viene tacciata di scarsa “compassione” per essere contraria a qualsiasi forma di stato sociale.
Si tratta in realtà di una componente “produttivista” che sostiene l’esistenza del welfare ma in una ottica di produttività piuttosto che di assistenzialismo; inteso, quindi, come intervento nei momenti critici della vita delle persone e di reintegrazione nella vita produttiva piuttosto che di interventi cronici puramente distributivi e assistenzialistici.
Negli anni ‘30 in effetti tali posizioni avevano connotati razzisti perché le rivendicazioni di tutela erano riservate e furono ottenute per i lavoratori di razza bianca; attualmente tali connotati sono inesistenti o del tutto marginali. In realtà in questi anni il “produttivismo” non ha trovato una compiuta espressione politica, tuttalpiù si è concentrata in circoli di opinione (tea party) ma è stata strumentalizzata dai neocon favorevoli alla globalizzazione indiscriminata e alla soppressione dello stato sociale, per altro più proclamata che messa in pratica. L’ultimo tentativo di prevaricazione è avvenuto nelle primarie repubblicane con la candidatura di Rubio, naufragata ingloriosamente; dopo quel naufragio gran parte dei neoconservatori sono andati a rinforzare apertamente le fila dei globalisti e degli interventisti della Clinton. Del resto la divisione in ceti e strati della formazione sociale americana non corrisponde più esattamente alla sua divisione in razze e gruppi etnici, privando di senso ogni politica fondata sulla discriminazione razziale.

Viene tacciata di isolazionismo perché identifica l’attivismo nelle reti civiche locali e legate alla gestione delle comunità locali con la richiesta di riduzione drastica delle competenze dello stato centrale e di ritiro da qualsiasi iniziativa di politica estera che non comportasse la fine di una minaccia diretta al paese presente in alcune sue frange per altro espresse dal quarto candidato alla presidenza attualmente in corsa

Viene tacciata di integralismo ipocrita, ma anche questa critica viene smontata dalla fine ingloriosa della candidatura di Ted Cruz alle primarie, il reale rappresentante di questa componente.

Trump viene spacciato per un repubblicano oltranzista quando in realtà è un personaggio che ha sfruttato la crisi di quel partito, in parte indotta dagli stessi democratici, per infiltrarsi e mettere a nudo le affinità e le connivenze della vecchia dirigenza con la politica dei democratici.

Pur con tutti i limiti, anche caratteriali, del personaggio la proposta politica di Trump pare in realtà molto più equilibrata di quanto ce la diano a bere i sistemi di informazione.

Parla di compiti precisi dello stato centrale anche nel welfare (la sanità), punta ad una politica estera fondata sul riconoscimento degli stati nazionali, sottolinea la necessità di un riequilibrio dei vari settori dell’economia e di un processo di reindustrializzazione attraverso anche una rinegoziazione dei trattati commerciali.
Critica l’interventismo militare dispersivo, concentrato in zone non vitali per l’interesse del paese; chiede la ridefinizione del sistema di alleanze militari con l’attribuzione degli oneri di difesa ai paesi direttamente implicati nelle aree di attrito.

Tutte posizioni dalle profonde implicazioni sul sistema di relazioni internazionali, sulla organizzazione dello stato, in particolare delle forze armate, sulla formazione sociale americana.
Lascia presagire un confronto più serrato con la Cina e meno ostile con la Russia.

Come ho sottolineato, siamo ancora alle enunciazioni generali da parte di un gruppo dirigente formatosi solo recentemente perché ha individuato l’umore profondo di settori del paese e le debolezze nascoste dell’avversario. Non conosciamo la praticabilità di quelle intenzioni né le capacità tattiche del gruppo né le capacità di opposizione, neutralizzazione ed inclusione dell’attuale assetto di potere. Si deve constatare che gran parte del confronto e del successo iniziale di Trump è avvenuto con la gran cassa mediatica. Nel confronto decisivo il sistema informativo gli si è rivoltato contro.
Un primo aspetto che l’attuale dirigenza sta cercando di affrontare nel prossimo futuro.
Per il resto si dovrà attendere quantomeno l’esito della competizione elettorale.

CONCLUSIONI

Lo scontro ha evidenziato l’imponenza di un apparato ma anche la capacità di erosione del terreno su cui poggia della vecchia talpa. La ripresa delle indagini a carico di esponenti dello staff della Clinton sulla base delle nuove email apparse sono un segno di questa azione erosiva.
Sono dinamiche però che richiedono tempi diversi.
Difficilmente modificheranno l’esito elettorale se non nel differenziale di voti e ancor meno nel numero dei grandi elettori; certamente lasceranno sulla graticola l’eventuale vincitrice lasciando intravedere quella della Clinton ormai come una presidenza di transizione.
Le avvisaglie della durezza dello scontro erano apparse già con la esplicita e pubblica sconfessione da parte del Congresso Americano di due atti fondamentali della politica estera democratica: l’accordo sull’Iran e i rapporti con Israele. Adesso sono arrivati ai tentativi di annichilimento di una possibile nuova classe dirigente e alle minacce di galera.
Il timore è che il nascere di una alternativa politica fondata sul riconoscimento delle forze in campo internazionali e sul recupero di una economia più equilibrata in una situazione interna così fragile porti alla sconfessione di una intera classe dirigente e al crollo del sistema di relazioni illustrato.
Non ha senso per noi schierarci nella solita inutile tifoseria senza alcuna influenza; piuttosto dovremo valutare le opportunità che potranno sorgere da questa situazione se non addirittura da una sia pur remota eventuale vittoria di Trump. Ma sono appunto opportunità che si vuole e si deve voler cogliere con la costruzione di una nuova classe dirigente. In mancanza saremo arlecchino con due padroni, ma senza la sua furbizia.

I PARADOSSI DEL REFERENDUM, di Giuseppe Germinario

I PARADOSSI DEL REFERENDUM, di Giuseppe Germinario
Il referendum sulle riforme istituzionali sta diventando il catalizzatore degli equivoci, dei trasformismi e delle debolezze che caratterizzano il dibattito tra le forze politiche in Italia.
Una confusione in una certa misura creata ad arte; dovuta soprattutto alla estrema difficoltà di emersione di una nuova classe dirigente capace di indirizzare il paese verso scelte che quantomeno allentino l’attuale stato di subordinazione e supina accondiscendenza non solo alle strategie di fondo dell’Alleanza Atlantica ma anche a quelle mediazioni tra la potenza egemone, gli Stati Uniti e le potenze intermedie in Europa, Germania e Francia che consentono il mantenimento del sodalizio eleggendo a vittime sacrificali designate i paesi nel bacino mediterraneo praticamente ridotti a teste di ponte delle avventure destabilizzatrici nell’intera area.
Scelte, è bene ribadirlo, che non intaccano ormai soltanto la dignità di un paese e della sua classe dirigente ma che compromettono pesantemente la condizione economica nonché l’equilibrio e l’equità della formazione sociale. Una novità di rilievo rispetto al compromesso raggiunto ai tempi della Guerra Fredda.
Il referendum, non ostante il giudizio di valore apparentemente oscillante del nostro premier, rappresenta un momento cruciale, ma non decisivo, della battaglia politica perché sancirà l’epilogo più o meno vittorioso su due dei quattro punti fondativi di questo Governo e ne determinerà le modalità future di sviluppo: la ricostituzione della verticale di potere tra Stato Centrale e Regioni, il ribilanciamento dei rapporti tra Governo e Parlamento a favore del primo; gli altri due punti essendo la riforma elettorale e la riforma della Pubblica Amministrazione, compresa quella dell’ordinamento giudiziario.
Tralascio, in questo articolo, la politica economica; un corollario nell’attività dell’attuale governo utile a garantire un minimo di coesione politica e sociale anche se fondamentale, con l’attuale indirizzo, nel compromettere le potenzialità strategiche di azione del paese.

LA FORZA DEL Sì

La forza della ragione del sì risiede nella necessità intrinseca delle due riforme sottoposte a giudizio.
L’attuale assetto delle Regioni, le loro funzioni e competenze, la loro frammentazione hanno portato ad un incremento esponenziale del contenzioso con lo Stato Centrale dovuto alla condivisione di competenze.
Non è questo però il principale aspetto negativo.
Ha portato alla dispersione del patrimonio di competenze tecniche e finanziarie presenti nelle grandi agenzie nazionali liquidate assieme a gran parte della grande industria pubblica entro la metà degli anni ’90, riducendo drasticamente la possibilità e la capacità di progettare e porre in opera attività ed infrastrutture strategiche.
Ha portato ad una frammentazione e ad una dispersione della spesa pubblica, in particolare quella di investimento e di ricostituzione e sviluppo del patrimonio produttivo ed infrastrutturale.
Ha consentito l’azione diretta degli apparati dell’Unione Europea sulle realtà regionali aggirando le competenze e le capacità di controllo di quegli stati nazionali, tra i quali l’Italia, dalle strutture amministrative più deboli, con l’obbiettivo dichiarato, nella sua opzione funzionalista, di procedere al processo unitario attraverso l’indebolimento surrettizio di quegli apparati.
Ha concentrato la maggior parte delle risorse finanziarie ed amministrative delle Regioni in settori di servizio, in particolare sanità e formazione, fortemente connotati da intenti distributivi ed assistenziali piuttosto che da investimento.
Le Regioni e gli enti locali sono diventati di conseguenza sempre più il principale luogo di formazione e radicamento di ceti politici segnati da localismo e limitata capacità strategica e gestionale dai quali però hanno attinto sempre più, in mancanza di alternative, le formazioni politiche nazionali o extraregionali.
La ridefinizione dei rapporti tra Governo e Parlamento e delle competenze e della rappresentatività all’interno di quest’ultimo è l’altro punto importante.
Il conflitto politico generale (strategico) è un aspetto che pervade tutti gli ambiti della società; per potersi esprimere e poter esprimere la propria forza ha bisogno di simboli, strutture ed istituzioni che in qualche maniera lo inquadrano, gli danno forma, determinano le modalità di emersione, formazione e successo di alcune élites rispetto ad altre.
Il conflitto politico nelle istituzioni pubbliche, un particolare ambito di quello generale, è ulteriormente costretto da questa dinamica. La loro inadeguatezza conduce a forzature e distorsioni interne che alla lunga influiscono sull’esito, sui risultati e sulla formazione stessa di nuovi centri decisionali. L’uso dei decreti legge, il ricorso alla fiducia, i governi di emergenza, il trasformismo politico sono alcune delle modalità e degli strumenti di adeguamento surrettizio delle istituzioni pubbliche governative e rappresentative. Nelle fasi di svolta, quando le istituzioni preposte si rivelano inadeguate soprattutto rispetto al contesto internazionale, spesso il conflitto cruciale si sposta in e vede prevalere altri ambiti istituzionali con ulteriori distorsioni negli esiti.
Il ruolo dei magistrati inquirenti nell’Italia dell’ultimo quasi trentennio, sono un esempio lampante.
La conferma referendaria dell’accentuazione del ruolo del Governo, della primazia della Camera sul Senato sancisce il tentativo di ricondurre nell’alveo originario questo particolare conflitto politico

LE VACUITA’ DEL Sì

Lo scotto pagato da Renzi è stato però particolarmente pesante e soprattutto lungi dall’essere saldato completamente.
L’eventuale nuova composizione del Senato renderà altamente problematiche la riduzione del numero delle regioni e la definizione delle funzioni di orientamento, di controllo e di subentro del Governo Centrale.
Il rilevante numero di procedure di regolazione dei rapporti tra Camera e Senato lascia presagire il mantenimento di un contenzioso comunque importante rispetto alla situazione attuale anche se si fa finta di ignorare che in una situazione di cambiamento istituzionale è comunque necessaria una fase di transizione e di adeguamento.
Sono solo due delle tante incongruenze evidenziate con certosino accanimento dal Fronte del No.
In realtà la debolezza dell’impianto generale in parte è il frutto di una nuova classe dirigente poco preparata e soprattutto poco avvezza, a differenza dei primi costituenti, alle grandi battaglie politiche; di un errore di valutazione sul presunto carattere effimero, almeno nel breve periodo, del M5S (Movimento 5 Stelle); soprattutto di una complessa operazione di trasformismo politico gestita con l’ancora insostituibile comprimario Silvio Berlusconi tesa a garantire contemporaneamente la permanenza di Matteo Renzi e la definitiva irreversibile trasformazione del PD da una parte e contestualmente a impedire, in una fase di declino governato, l’affermazione nell’area del centrodestra di forze più attente ad una collocazione più autonoma del paese.
In pratica si sta affidando un processo di centralizzazione, di ridefinizione di competenze e procedure decisionali, di riprofilazione dei quadri dirigenti pubblici a forze che in realtà hanno interesse a mantenere il più possibile la propria autonomia e visibilità politica e in tanti casi il proprio riferimento territoriale. Le modifiche in corso d’opera dei testi di legge originari e l’impegno di revisione della legge elettorale sono solo i primi cedimenti rispetto a quello che accadrà nel prossimo futuro comunque sia l’esito referendario e ammesso che si riesca a tenerlo. Passi che daranno spazio a colpi di mano e situazioni di stallo.

berlusconi-renzi-3LE TROPPE RAGIONI DEI NO

Disegnare una mappa degli oppositori è impresa ardua. Più che una mappa aiuta tracciare un itinerario con i diversi piloti succedutisi sino ad ora al volante.
Inizialmente la guida del fronte dei NO è stata assunta dai difensori della Costituzione e dai fautori di un ritorno ad essa. Un proclama, in realtà, ricorrente nella storia della Repubblica Italiana che però sta esaurendo progressivamente la propria forza evocativa man mano che il carattere antifascista è servito progressivamente ad esorcizzare gli avversari politici del momento e a mascherare l’attuale condizione di sudditanza politica e militare con la condanna della occupazione militare tedesca. La novità legata allo scontro sui referendum riguarda il tentativo di alcune forze di legare la difesa della Costituzione al recupero di sovranità nazionale e popolare.
In realtà la parte dei principi costituzionali non è cambiata nel corso di questi settanta anni; a partire dagli anni ’70 sono cambiati alcuni articoli delle parti successive di essa. Mi sembra evidente che il richiamo alle origini si riduca quindi ad un appello strumentale teso a delegittimare avversari che andrebbero combattuti con ben altre e potenti argomentazioni; la sua difesa oltranzistica conduce ad un atteggiamento conservatore che impedisce tra l’altro l’introduzione di quelle modifiche tese a contestare l’insindacabilità di scelte politiche fondamentali riguardanti la politica estera e quella economica e a regolare al meglio il funzionamento dello Stato e della Comunità in funzione degli obbiettivi di fondo.
La debolezza di questa impostazione si è rivelata clamorosamente con l’incapacità di raccogliere le cinquecentomila firme necessarie ad acquisire il diritto di partecipazione agli spazi pubblici di dibattito e propaganda; si era del resto già manifestata affidando la conduzione del dibattito ad intellettuali e costituzionalisti abili a distruggere la costruzione giuridica sottoposta a voto solo sino a quando però hanno potuto evitare il confronto politico con i sostenitori del sì, in particolare con Renzi. La latitanza di veri leader politici ha evidenziato l’assenza o al meglio l’estrema frammentazione ed approssimazione di linee politiche propositive.
Lo stesso argomento del recupero della sovranità popolare, nella sua ambiguità, ha fornito una chiave di ingresso a quei morituri costretti all’angolo da Renzi, destinati a conquistare gli spazi pubblici residui offerti dal sistema mediatico e ad assumere presumibilmente la guida del movimento di opposizione.
In realtà, a proposito di volontà e sovranità popolare, faccio fatica ad individuare in questo mondo una qualsivoglia modalità di governo del popolo, nè riesco ad intravederne una qualche possibilità.
Vedo piuttosto centri decisionali, gruppi dirigenti agire, cooperare e confliggere tra loro in nome di qualcuno e qualcosa i quali per poter operare devono riuscire a coartare le volizioni dei gruppi in un rapporto circolare in cui l’iniziativa parte e torna da questi centri nuovi e vecchi anche in quei regimi come la democrazia dove la volontà popolare viene riconosciuta sovrana. Non significa certamente che la diversità di regime sia un fattore insignificante; semplicemente le loro modalità di conduzione del conflitto politico sono regolate diversamente, con diversa flessibilità ed efficacia secondo le congiunture politiche e diversa modalità di espressione delle pulsioni dal basso.
Il richiamo alla volontà popolare può servire ad un appello solenne in uno scontro politico dirimente; quando diventa un programma politico nasconde di solito la debolezza e l’inconcludenza di un nucleo dirigente.
Sta di fatto che l’argomento è servito alla riemersione temporanea della vecchia classe dirigente, l’attuale sinistra del PD, ormai messa all’angolo e corresponsabile diretta dell’attuale condizione del paese; a ridare forza alle aspirazioni di autonomia e sopravvivenza di piccoli potentati politici rispetto al tentativo di ricondurli nell’alveo di due grosse formazioni, ormai per altro ricondotte a tre; a mantenere nell’equivoco piuttosto che nel Limbo formazioni politiche, in particolare la Lega la quale a fronte di alcune posizioni interessanti in politica estera, non riesce nè può a mio avviso assurgere a forza nazionale, tanto più a forza mirante al recupero delle prerogative nazionali perché ostaggio del proprio vizio di origine localistico e secessionistico e vittima di conseguenza del miraggio di una Italia dei popoli e di risulta delle regioni.
Tutte condizioni che se dovessero affermarsi, riporteranno in auge il vero dominus destinato in qualche maniera a prendere le redini e a pilotare la scuderia variegata del NO e a porsi ancora una volta come reale interlocutore di Renzi. Abbiamo già visto la discesa in campo di Mario Monti e Massimo D’Alema, quest’ultimo saggiamente rimasto nell’ombra in questi tre anni e quindi non compromesso dalle costrizioni del voto parlamentare dei recalcitranti. Manca ancora l’ingresso in zona Cesarini di Silvio Berlusconi, il vero interlocutore e sostenitore del nostro Capo di Governo e destabilizzatore di ogni realtà politica più accettabile. Anche se di mala voglia non mancherà eventualmente all’appuntamento.
Dovrà procrastinare l’agognato pensionamento; in cambio potrà ottenere qualche garanzia in più sul futuro della propria famiglia per meriti sul campo.

LA SAGGEZZA DEL Nì

Per poter scegliere con maggior discernimento, in conclusione occorre a mio avviso porsi due domande esecrabili dal “politicamente corretto” ma decisive secondo l’approccio del “realismo politico”:
• È possibile separare l’obbiettivo dell’efficacia delle riforme istituzionali dall’obbiettivo strategico di una forza politica, in particolare i centri che esprimono e sostengono Matteo Renzi? La mia risposta è no in quanto il successo dell’intento funzionale contribuirebbe al successo della finalità strategica; in particolare il nostro sta contribuendo al pari dei suoi predecessori a peggiorare la condizione di sottomissione politica e di depauperamento economico e nel vano tentativo di resistere alle brame dei propri simili di pari rango in realtà sta consegnando mani e piedi il paese alle mene dell’attuale leadership della potenza di rango superiore, riducendolo così ad un mero campo di azione e predazione. Un argomento che meriterà lo spazio di altri articoli. È lo stesso obbiettivo funzionale in realtà ad essere compromesso significativamente, proprio perché quella strategia deve necessariamente fare a meno e scoraggiare le forze più dinamiche del paese e appoggiarsi, non ostante i proclami e magari concedendo qualcosa alla volontà velleitaria di Renzi, a forze parassitarie e remissive.
• Il conseguimento dell’obbiettivo funzionale delle riforme istituzionali contribuirà in maniera decisiva a concedere a Renzi e alle forze che lo esprimono la forza necessaria ad un assetto stabile? Secondo me, per meglio dire secondo la mia sensazione no perché comunque l’obbiettivo strategico, più o meno consapevole, impedisce comunque la formazione di una base solida e motivata su cui poggiare l’azione politica e contribuisce piuttosto a creare una oligarchia arrogante ma dalla base fragile e da una estensione del potere limitata. Una condizione idonea a continui colpi di mano e fibrillazioni in una palude stagnante. Un minimo di riorganizzazione, d’altro canto, potrebbe agevolare l’azione di future forze politiche sovraniste di là ancora da venire. Ho la sensazione che per maturare nel nostro paese, tale svolta dovrà verificarsi e consolidarsi prima nei nostri vicini di casa. Una affermazione negli attuali termini del no, contribuirebbe ad accentuare la palude e l’immobilismo. Vedremo gli sviluppi delle prossime settimane.

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