REFERENDUM E RAPPRESENTANZA, di Teodoro Klitsche de la Grange

REFERENDUM E RAPPRESENTANZA

Il dibattito sul referendum d’approvazione del taglio del numero dei parlamentari mi ha indotto a pubblicare nuovamente un mio lungo articolo sulla rappresentanza politica, apparso nel 1984 su “IlConsiglio di Stato”.

In effetti il dibattito attuale, complici anche alcune (meno recenti) affermazioni degli esponenti dei “5 Stelle” sulla sostituzione della democrazia rappresentativa con quella diretta (grazie alla rete) ha riportato l’attenzione e la polemica sulla funzione e il carattere della rappresentanza politica, come sul vario significato attribuito al termine – a seconda non solo delle convinzioni oggettive, ma dell’angolo visuale e dal campo da cui (e in cui) lo si esamina.

È stato ripetutamente affermato ad esempio che la riduzione del numero dei parlamentari ridimensiona la rappresentanza (meglio sarebbe dire che rende più difficile la rappresentatività).

Ma, dato che rappresentante politico può essere anche un organo monocratico (il Re o il Presidente della Repubblica), e che il carattere rappresentativo dei Capi di Stato è riconosciuto dalla dottrina e – esplicitamente – dalle costituzioni degli Stati, in particolare borghesi (v. articolo) non si capisce come ridurre il numero dei parlamentari possa ridimensionare la rappresentanza politica. La quale nella sua (prima) formulazione moderna – che è di Thomas Hobbes – si riferisce (anche se non esclusivamente) proprio al monarca, cioè a un organo monocratico.

È vero che meno sono i rappresentanti nelle assemblee, più difficile garantire non la rappresentanza ma la rappresentatività cioè in qualche modo, la “carta geografica” di Mirabeau. Ma è arduo affermare che una riduzione di un terzo possa compromettere la rappresentatività: in fondo ci sono grandi Stati – gli USA in primo luogo, che hanno meno di seicento parlamentari per trecento milioni di abitanti, e non sembra che la capacità decisionale e l’influenza del Congresso ne risenta.

Altro argomento è che, riducendone il numero, lavorerebbero meglio (o peggio a seconda dei punti di vista). Pare anche in tal caso difficile sostenere che un taglio così limitato possa compromettere la “capacità di lavorare”. Forse se la qualità dei rappresentanti migliorasse, quella ne risentirebbe in positivo. Resta comunque plausibile l’argomento contrario – alle origini poi della rappresentanza politica moderna che proprio la limitazione del numero era un vantaggio per deliberare. Onde un grande Stato non si poteva governare se non mediante organi rappresentativi. E così via, non considerando che la rappresentanza è un principio di forma politica, la cui funzione è di dar capacità d’esistenza e azione alla comunità e all’istituzione in cui s’organizza.

Rispetto alla quale tutto il dibattere sulla riduzione appare come un’ “arma di distrazione di massa”: si dibatte su un problema piccolo piccolo e si evita di risolvere – e perfino di porre quelli grandi e decisivi. Per cui non vale la pena di rinunciare ad una scampagnata, e non solo per paura del Covid.

Teodoro Klitsche de la Grange

Note sulla rappresentanza politica

MEGLIO GLI EUROCATTIVI, di Teodoro Klitsche de la Grange

MEGLIO GLI EUROCATTIVI

È confermativa dell’andazzo (e delle “costanti”) del governo giallorosso e della sua componente piddina ciò che la stampa ha riportato come affermato da Gentiloni (e confermato da Conte), che la U.E. non gradisce che gli aiuti europei del c.d. “recovery fund” vadano in riduzioni fiscali. Lo è per due motivi principali: il primo è che Gentiloni è esponente di un partito il quale, da sempre, ha come programma elettorale credere, obbedire (ma soprattutto) pagare e ciò (anche e soprattutto) allo scopo di accrescere il potere di chi poi dovrà spendere quei quattrini.

La seconda, a sentire questi statolatri (non solo piddini, dato che – tra i tanti – lo disse, rapito, Padoa Schioppa “pagare le tasse è bellissimo”) perché gli aiuti dell’U.E. saranno usati per le cause più condivise e commoventi: per far del bene, perché il modello di società fiscobulimica è il migliore dei mondi possibili, i tecnici (o simili) sanno più del popolo, per realizzare la “giustizia sociale” (quale?) e via affabulando.

Senza chiarire perché – negli ultimi venticinque anni – alla stagnazione dell’economia italiana sia corrisposto un aumento della pressione fiscale. Per cui la percezione del volgo ignorante è che stagnazione e tassazione sono due gemelli siamesi: non possono vivere lontani.

La spiegazione che sempre più, anche il popolo, tende a darne è che da decenni gli statolatri non abbiano in testa un modello produttivo, bensì un modello distributivo. e che questo sia in funzione degli interessi di chi governa. Il quale ha il vantaggio di distribuire le carte (bonus, esenzioni, agevolazioni, ecc.) in funzione del proprio interesse di governante: durare. O andreottianamente tirare a campare.

Ma c’è un terzo motivo, meno evidente, delle parole di Gentiloni: che tutte le élite decadenti – e quella cui appartiene Gentiloni lo è da decenni – tendono a celarsi dietro un entità “terza” o anche “neutra”. In particolare, in questo frangente, la U.E. Quante volte abbiamo ascoltato il grave e solenne richiamo “ce lo chiede l’Europa?”. E invece, più che l’Europa, ce lo impongono le élite burocratico-governative nostrane. Un caso eclatante, tra i tanti, fu il chiarimento di Bolkestein, il quale, giustamente, alcuni anni fa fece notare (ma fu subito dimenticato) come la normativa che aveva generato in Italia tante agitazioni non c’era nella direttiva europea la quale dallo stesso prendeva il nome, ma era stata introdotta nella “attuazione” nazionale da qualche misteriosa “manina” ministeriale.

E questa volta un aiuto ce lo può dare (perfino) sua cattiveria la signora Merkel. All’inizio di luglio Frau Merkel disse che tra le misure per la ripresa tedesca dopo il Covid, avrebbe ridotto temporaneamente di tre punti l’IVA tedesca, la quale è già di tre punti inferiore a quella italiana. Così che per circa un anno i tedeschi pagheranno sei punti di imposta in meno degli italiani: uno stimolo enorme all’aumento della domanda interna, crollata – con la produzione – a seguito del lock down. A fronte del quale green economy, monopattini e bici elettriche fanno sorridere.

E che somiglia, anche se più “avanzata” alla proposta di tregua fiscale fatta, al momento, più di rinvii di scadenze che di riduzioni d’imposte, caldeggiata dai capi dell’opposizione di centrodestra, i cattivissimi Salvini, Meloni e Berlusconi. I quali così sono dei merkeliani nei fatti, almeno quanto gli statolatri nostrani dicono di esserlo a parole.

Gli è che, a guardare i comportamenti, i cattivissimi governanti europei da Juncker alla Merkel (ed altri) hanno badato sempre agli interessi dei loro paesi (e cittadini): sono stati i mediocri governanti nostrani, soprattutto quelli della seconda repubblica, a non sapere e voler fare i nostri, perché troppo indaffarati a curare i propri.

Teodoro Klitsche de la Grange

Predatori, sciacalli e saltimbanchi. Tre ritratti di famiglia, di Giuseppe Germinario

L’incalzante accelerazione delle dinamiche politiche sta scompaginando gli equilibri esterni tra le formazioni statuali e la coesione e il dinamismo stessi delle formazioni sociali; a prescindere dal loro esito metterà sempre più a nudo profilo e peculiarità delle classi dirigenti e delle élites. Viste le diverse loro dinamiche quelli positivi si potranno apprezzare ed individuare soprattutto nel tempo. I negativi, specie i più spregevoli, non richiedono l’attesa paziente; emergono in tempo reale, spontaneamente. Bolle d’aria tanto leggere ed effimere nell’aspetto, tanto leste a spargere la flatulenza a contatto con l’atmosfera. Nel presente immediato e fuggevole del nostro paese tornano in auge le figure delle iene ovvero, nello scalino inferiore della gerarchia, dello sciacallo e quella del funambolo. Tra i primi si vedono al momento primeggiare addirittura due famiglie storiche del paesaggio politico-economico della nazione, anche se il gruppo sarà sciaguratamente destinato ad infoltirsi appena emergerà la spessa coltre di polvere nascosta sotto i tappeti dei vari comitati di esperti e d’emergenza da covid. Dei primi si fatica, purtroppo, ad individuare la pressoché unica loro funzione positiva nel ciclo vitale: la detersione dell’ambiente dalle carogne e dai resti putrefatti. Del secondo si resta abbagliati dalla capacità di sopravvivenza alle giravolte le più disinvolte ed improbabili; circonvoluzioni la cui abilità risulta tanto difficile da valutare vista la nostra scarsa conoscenza dei suoi effettivi strumenti di lavoro e del suo ambiente operativo, non si sa se dotato quest’ultimo di forza di gravità naturalmente significativa o di vuoto cosmico, quanto indispensabile da soppesare per qualificare il nostro un funambolo o un saltimbanco.

Si sta parlando, pare ovvio, delle famiglie Agnelli e Benetton da una parte e di Giuseppi Conte dall’altra.

Ora una breve disamina delle due tipologie:

PREDATORI PARASSITI

la similarità della funzione attualmente svolta dalle due famiglie imprenditoriali non deve indurre ad una eccessiva omologazione di giudizio.

Intanto rimane la diversità di lignaggio. Degli Agnelli il retaggio delle generazioni non si perde certo nei millenni, ma ha raggiunto comunque una consistenza secolare sufficiente a far appannare il ricordo e le tracce del peccato originale dal quale spesso e volentieri nascono le fortune degli aristocratici. Quello dei Benetton risale appena agli anni ‘60.

I primi, ormai alla quarta generazione, grazie a sapienti combinazioni matrimoniali, riescono ad intravedere l’olimpo della finanza internazionale e ad occupare qualche posticino d’ascolto nei salotti buoni europei e newyorchesi; i secondi hanno gestito le proprie senza allargare significativamente gli orizzonti e i connubi se non per gustare il piacere un po’ grezzo del possidente nei grandi spazi della Pampa in particolare.

I primi hanno coltivato le proprie virtù imprenditoriali nella meccanica, un settore maturo ma di tutto rispetto, pur con qualche addentellato, per lo più con licenza per conto terzi, in alcuni settori strategici; cosa che ha loro consentito, grazie alla fedeltà atlantica in tempi non sospetti, qualche impertinenza come la produzione dei G91 con motori inglesi, non ostante la contrarietà americana e qualche balzo oltre la cortina di ferro.

I secondi hanno fondato la propria fortuna sul tessile, un settore non proprio di punta nel XX secolo.

I primi, grazie anche alle discrete benemerenze acquisite durante l’ultima guerra, hanno saputo mettere bene a frutto le connessioni d’oltreoceano e coltivare l’arte delle connivenze e delle influenze nei più diversi apparati dello Stato, compresi quelli militari e dell’ordine pubblico; i secondi hanno coltivato la stessa ambizione, ma a quanto pare non sono riusciti ad andare molto oltre le collusioni con i settori amministrativi e di controllo strettamente inerenti le loro attività.

Gli Agnelli_Elkann hanno mantenuto con pervicacia il loro core-businness manifatturiero e ormai prevalentemente finanziario, a partire dalla scellerata gestione Romiti, relativamente autonomo dalle concessioni pubbliche. Si sono altresì rivelati diabolicamente abili nel calibrare quantità e qualità delle ricorrenti richieste di interventi pubblici: con gli attori politici di prima grandezza, nella fattispecie lo stato federale statunitente, hanno venduto la propria sopravvivenza con un ingente prestito pubblico restituito perfettamente nei tempi previsti in cambio della fusione con la Chrysler, un azienda ancora più agonizzante della FIAT, al prezzo della generosa cessione della propria tecnologia motoristica e di automazione industriale a quell’epoca ancora valide e del pagamento di lauti interessi sulle relative obbligazioni, talmente alti da compromettere le future possibilità di investimento in ricerca del gruppo. Il prezzo, evidentemente, per poter essere accolti anche formalmente al di là dell’Atlantico. Con gli attori politici di terza fila, in particolare lo Stato della natìa Italia, hanno saputo sfruttare la cieca prodigalità dei contribuenti e la benevolenza delle politiche infrastrutturali e normative, si badi bene, non per sviluppare l’Azienda e mantenerne il cuore e il cervello in Italia, ma per dilazionare tra gli osanna i tempi del drammatico ridimensionamento produttivo. Un miracolo di prestidigitazione assecondato dalla arrendevole suggestionabilità degli astanti. Una cecità cronica ed inguaribile di questi ultimi che ha impedito di cogliere i numerosi segnali legati al trasferimento dei centri decisionali e delle tecnologie, alla cessione, in esatta concomitanza delle mirabilie sul futuro dell’auto a trazione elettrica, della Magneti Marelli e probabilmente di COMAU sino al capolavoro odierno della concessione della garanzia pubblica sui prestiti appena una settimana prima della cancellazione di tutti gli ordini di componentistica dalle aziende italiane. Il segnale che l’accordo con il gruppo PSA non è altro che la cessione di un fardello in cambio del salvataggio della componentistica francese ai danni di quella italiana, attualmente più sviluppata ma meno tutelata politicamente. Almeno nel settore auto la famiglia pare destinata, a meno di sussulti, ad assumere il ruolo di controfigura buona ad introitare i finanziamenti a scatola chiusa degli stati più “distratti”. È la loro particolare visione e funzione della difesa degli interessi nazionali.

I Benetton non dispongono di una visuale così ampia e articolata. Nel giro di pochi mesi si sono visti offrire, senza competitori reali, la gestione della rete autostradale approfittando del disastro gestionale dell’ANAS, delle condizioni capestro a carico del cedente del contratto di concessione e dello smantellamento e della colpevole inefficienza dell’apparato di controllo per succhiare rendite da capogiro da ripartire tra alleati potenti a spese della corretta gestione e della sicurezza della rete. Il tessile e abbigliamento, a queste condizioni passano in secondo piano e con essi gran parte della rete di produttori e lavoratori nazionali sui quali avevano costruito credito, rispetto e prestigio in terra veneta.

Anche nel campo politico-culturale le due lasciano una impronta diversa, anche se ormai sempre più sbiadita. I primi hanno saputo promuovere ed alimentare alla bisogna gli orientamenti più diversi ed antitetici, spaziando da destra a sinistra. Hanno saputo accattivarsi e pugnalare i sindacati; hanno alimentato e fruito delle ideologie e delle correnti culturali più libertarie, come di quelle conservatrici e di quelle più retrive. Ne hanno curato in maniera certosina anche i risvolti editoriali. I Benetton no, sono rimasti molto più legati ad un particolare canovaccio fatto di un cosmopolitismo multicolore di una varietà pari a quella delle tonalità dei loro tessuti, ma tanto inconsistente culturalmente, quanto protervo nei fatti e nelle persone portatrici del loro messaggio; esaurito il quale non possono che mostrare nuda e cruda la loro protervia ed insensibilità. Lo si è visto anche nella mancata minimale di accortezza, quando hanno dovuto affidarsi a nuovi consulenti specializzati per riuscire a porre decentemente, anche se con colpevole ritardo, le opportune ed appropriate condoglianze alle vittime del crollo del ponte di Genova. Hanno dimenticato l’umanità dell’antica civiltà contadina, ma ne hanno conservato la rozzezza e la grettezza.

Le “sardine” potrebbero essere considerate il loro prodotto culturale conclusivo, sempre che riescano a durare più di un loro manifesto pubblicitario.

In un aspetto cruciale i primi si sono rivelati meno adeguati e più disarmati dei secondi: nella regolazione riservata delle proprie controversie familiari e in almeno un caso delle proprie tragedie personali. Segno dell’allentamento inesorabile del legame patriarcale.

Due famiglie che hanno avuto una iniziale funzione propulsiva, pur se accuratamente incanalata, ma che hanno inibito e poi apertamente contrastato il salto necessario al paese a partire dagli anni ‘70. La crescita delle dimensioni aziendali assimila sempre più l’attività imprenditoriale ad un gioco di strategia politica. La loro mutazione è stato lo specchio dell’involuzione del nostro paese.

Non sono gli unici responsabili di questa situazione e, probabilmente, nemmeno ormai i più determinanti. Fanno parte però a pieno e diverso titolo di quella classe dirigente e di quei centri di potere.

IL FUNAMBOLO

Occorre a questo punto qualche chiarimento su questa insolita associazione tra predatori_parassiti e giocolieri. L’evoluzione subita dalle due famiglie imprenditoriali rappresenta il classico esempio di come l’impoverimento progressivo e traumatico di una classe dirigente e di un ceto politico sufficientemente ambizioso, capace e sagace riesca a trasformare la natura e l’indole degli attori geoeconomici e politici. Le condizioni oggettive sono state certamente sfavorevoli, a cominciare dalla disastrosa gestione delle partecipazioni statali e dal contesto geopolitico sconvolto dall’implosione del blocco sovietico. A questo purtroppo ha corrisposto un ceto politico tanto furbo, quanto malaccorto e inadeguato da cadere senza resistenza ai richiami delle magnifiche sorti e progressive del globalismo senza stati e da darsi prontamente una giustificazione morale sufficiente ad accogliere i benefici personali connessi a quelle modalità di apertura.

Giuseppe Conte è un epigono di questa progenie con alcune peculiarità destinate a garantirgli probabilmente una sopravvivenza, non necessariamente sullo stesso scranno, più longeva rispetto alle tante meteore che si sono avvicendate negli ultimissimi anni.

Ha rivelato doti di furbizia e circospezione inediti tra le fila degli ultimi arrivati sul proscenio politico, merito senza dubbio delle sue frequentazioni curiali d’oltretevere; uno dei pochissimi ad evitare l’ostensione compiaciuta dei suoi pellegrinaggi negli Stati Uniti. Sarà per le mancate risposte che deve ancora sulle complicità italiane nella costruzione del Russiagate; sarà per l’incertezza sull’esito di uno scontro politico così cruento in quel di Washington; sarà soprattutto perché in quanto pupillo della Segreteria Vaticana, piuttosto che dei Boyscouts, non sente il bisogno e la necessità di investiture pubbliche, sta di fatto che è riuscito a costruirsi una immagine propria.

Ha rivelato doti di equilibrio e di adattamento miracolose. Più che di Giuseppe, tanti Giuseppi capaci ognuno di cogliere l’attimo per apparire e proferire secondo l’esigenza del momento, glissando sulle posizioni dei Giuseppi precedenti; tutti concordi però sullo speranzoso “andrà tutto bene”. Ha certo potuto contare sulla smemoratezza e accondiscendenza del sistema mediatico; ha potuto fondare la propria autonomia apparente e la propria funzione di contrappeso sul precario equilibrio di partiti ancora poco predisposti ad una alleanza e a schieramenti più definiti. Ha messo a frutto la posizione di commis di seconda fila; il serbatoio da cui di solito attingono forze politiche emergenti prive di personale all’altezza degli incarichi da occupare. Riesce a rosicchiare brillantemente e ricorrentemente nuovo tempo contrabbandando l’opportunità e l’utilità immediata di scelte strategiche disastrose per l’Italia. Non ha ancora superato due limiti comportamentali che gli impediscono di raggiungere definitivamente la postura se non la sostanza dell’uomo di stato; manchevolezze che potrebbero farlo scivolare sulla classica buccia di banana: la sua insopprimibile indole levantina e curiale a confortare ostentatamente con una pacca sulle spalle la vittima designata e ad affettare eccessivamente le proprie giustificazioni e coerenze di comportamento. L’antitesi di un ex-emergente ormai in ombra:Matteo Renzi.

Occorre scavare un po’ più a fondo per cogliere qualche tratto più netto della condotta di Giuseppe Conte e intravedere un possibile punto di arrivo. Una cartina di tornasole potrebbero essere i suoi legami con Angela Merkel e soprattutto Emmanuel Macron.

http://italiaeilmondo.com/2020/06/02/attenti-a-quei-due-di-giuseppe-germinario/

https://italiaeilmondo.com/2017/01/22/203/

Sulla Unione Europea Conte può giocarsi probabilmente le carte migliori. Le risorse del MES e soprattutto del Recovery Fund sono per il paese una trappola a medio termine in cambio di ossigeno nell’immediato, sempre che queste siano disponibili in tempi e nella consistenza ragionevoli. Sono una trappola perché condizioneranno e costringeranno il paese in una logica di degrado, squilibrio e dipendenza irreversibile per tre ordini di motivi: per la logica interna alle modalità di utilizzo dei fondi strutturali, per la dipendenza dai circuiti finanziari interni e l’isolamento politico dell’Italia in Europa, per la mancanza di risorse finanziarie aggiuntive, di una classe dirigente sufficientemente ambiziosa e di un apparato tecnico-amministrativo in grado di contrastare queste dinamiche in ambito comunitario e di condurre una politica di potenza e di forte coesione interna in senso lato in grado di ribaltare gli equilibri almeno europei. È probabile che quest’ultimo fattore spinga per inerzia il Governo nel tradizionale utilizzo delle risorse scivolando in una logica consolidata di spesa assistenziale e di investimenti dispersivi e casuali incapaci di modificare positivamente la struttura socio-economica del paese; renderebbero così superfluo e libererebbero dalla seccatura di una imposizione esplicita di un intervento autoritativo dei paesi egemoni per il tramite della UE. Le prime indicazioni confermano questa dinamica consolidata fatta di interventi neutri sulle infrastrutture, di incentivi generici alle aziende e di investimenti sulla ricerca sganciati dal consolidamento e dalla creazione di piattaforme industriali autoctone. La retorica sulla istruzione e sulla ricerca come volano autoreferenziale, sulla messa in sicurezza di un territorio in realtà ingestibile a costi ragionevoli se non ripopolato di gente e di attività, sull’economia verde e sulla stessa digitalizzazione priva del controllo dei dati e dei processi di comando diventano così il cappello ideologico e la cortina fumogena di un declino assolutamente infelice e malinconico che consentiranno comunque la sopravvivenza di una élite così miserabile. Nel Mediterraneo la posizione dell’Italia rischia invece di precipitare in tempi drammaticamente ravvicinati. La politica elusiva di Conte soprattutto in Libia ha rafforzato altri interlocutori ben più determinati a cogliere gli spazi offerti dal multipolarismo e dalla rinuncia e dalla delega offerta dagli Stati Uniti di Trump. L’Italia ha già perso con l’affossamento del South-Stream, grazie anche all’atlantismo peloso della Germania la quale in nome delle sanzioni contro la Russia e della fedeltà alle direttive americane sta rischiando di acquisire il controllo della rete dei metanodotti europei. L’estromissione dal TAP e dai giacimenti del Mediterraneo rischiano di stringere definitivamente il cerchio e con questo compromettere l’esistenza stessa dell’ENI e un minimo di autonomia delle forniture energetiche e di presenza geopolitica nel Mediterraneo. Nella stessa logistica interna, legata all’intermodalità dei porti e della rete stradale e ferroviaria, tutta la retorica progressista dell’Italia come hub europeo rischia di liquefarsi di fronte all’asse tedesco e sino-turco teso ad occupare i nodi nevralgici della rete italiana. La combinazione dell’eventuale assenza delle risorse europee e della precipitazione della crisi nel Mediterraneo sono i fattori che rischiano di far naufragare la proficua tattica dilatoria di Conte & Company fondata sull’emergenza sanitaria e sulla fratellanza europea. Un emergenzialismo sfruttato più per garantire la sopravvivenza di una élite e di un ceto arroccato che a perseguire un disegno totalitario ed autoritario fuori dalla portata di questi centri di potere. Nel qual caso Giuseppi da funambolo si rivelerebbe saltimbanco ed andrebbe ad infoltire la ormai fitta schiera di leader politici italiani improvvisati emersi e naufragati nel breve volger di un mattino. Già la gestione del cosiddetto “esproprio” dei soddisfatti Benetton ha offuscato, anche se non irrimediabilmente, la sua abilità di giocoliere. Le dinamiche politico-economiche di questi ultimi anni hanno messo in chiaro come l’assenza di strategie politiche autonome abbiano pregiudicato l’esistenza e la funzione della grande industria strategica; adesso sta arrivando il momento della piccola e media industria della componentistica. Quando arriverà il momento della media industria più intraprendente, le cosiddette multinazionali tascabili, allora forse sarà chiaro a tutto il paese e alla opposizione sovranista-liberista, un vero ossimoro politico e fors’anche al ceto politico e alla classe dirigente in pernne dipendenza dalla benevolenza europea il motivo dello scivolamento drammatico di questo paese e delle sue cause. Sarà troppo tardi e molto più doloroso un eventuale recupero.

Dove andremo?_ a cura di Elio Paoloni

Accogliamo ed estendiamo l’invito alla riflessione di Elio Paoloni. Un argomento non nuovo a questo blog e sul quale possono convergere forze esistenti e in formazione apparentemente ostili ed antitetiche_Giuseppe Germinario

Che ne pensano gli amici competenti?_Elio Paoloni

Nessuna descrizione della foto disponibile.
Giorgio Bianchi

Se non trovano un’accordo sull’Italia, la questione potrebbe essere risolta offrendo un pezzo della penisola ad ogni contendente.
L’attuale classe politica non è in grado di garantire l’unità territoriale del nostro Paese, sopratutto alla luce del moltiplicarsi dei sindaci sceriffi e dell’abuso del termine eversivo “governatori”.
Per capire come andrà a finire la questione bisognerà osservare attentamente la Lega, per vedere se prevarrà la componente atlantica sovranista o quella europeista secessionista.
Gli USA intanto stanno spostando uomini e mezzi dalla Germania e una parte verrà dislocata in Italia:

Via quasi 12mila soldati Usa dalla Germania, molti arriveranno in Italia

https://www.repubblica.it/…/trump_muove_i_soldati_dalla_ge…/

La balcanizzazione dell’Italia è il piano B in caso di pareggio nella battaglia per la supremazia in Europa tra Aquisgrana e USA.
La mia nuova ipotesi di lavoro è capire se il Covid possa essere una trovata franco-cinese con contributo esterno anglo-israelo-mondialista.
È uno scenario che continuo a rifiutare, ma è l’unico che mi consente di incastrare tutti i pezzi spaiati del puzzle.

Spartizione dell’Italia: un’ipotesi ammessa dalla storia.

Scopriremo se quello di cui si comincia a parlare, la spartizione del Paese, è reale. Per il momento abbiamo una conferma dalla storia: la Polonia, in una situazione simile a quella dell’Italia di oggi, fu svenduta a Russia, Prussia e Austria per pagare il debito della corona polacca accumulato dall’ultimo Re massone Augusto Poniatowski.

A volte, studiare la storia di altri paesi è molto istruttivo. Ho recentemente approfondito uno degli episodi più scioccanti della storia moderna, la spartizione della Polonia. Si trattava del più esteso paese europeo; ricchissimo, colto, tenacemente «europeista» e «romano», che aveva avuto più volte un ruolo esiziale nella storia del nostro continente (si pensi alla liberazione di Vienna, nel 1683. Insomma: un colosso europeo che, come tutti i colossi, aveva i piedi d’argilla. Il piede destro era zuppo di vodka, che avvelenava i contadini e le classi popolari, il piede sinistro era tarlato dall’usura, che sovvenzionava una classe nobiliare contadina (la cui economia era, quindi, ciclica) e perennemente in guerra.
Non faceva eccezione l’ultimo re polacco, Augusto Poniatowski (1732 – 1798). Massone, era poco più che un burattino nelle mani delle potenze straniere e, soprattutto, dei creditori: aveva infatti le mani bucate ed arrivò ad accumulare 40 milioni di złoty di debiti (fu persino imprigionato per questo motivo). I suoi creditori erano usurai polacchi e, ovviamente, le banche: soprattutto con la banca del protestante scozzese Peter Ferguson Tepper (che fallì, a causa dei debiti di Poniatowski) e con le banche di Amsterdam.

Bene, arriviamo alle spartizioni. Esse furono tre, nel 1772, nel 1793 e nel 1795, per opera di Prussia, Russia e Austria. La prima avvenne immediatamente dopo l’abdicazione e la fuga (in Russia) di Poniatowski; le altre seguirono, praticamente, in modo meccanico. Ora: mi sono più volte chiesto come sia stata possibile una cosa del genere. Come può accadere che tre Stati si accordino tra loro per spartirsi un quarto Stato, senza suscitare la minima reazione nella comunità internazionale o all’interno dello Stato destinato a scomparire? Ora la cosa è più chiara, è sufficiente (come al solito) seguire il denaro. Se la finanza prende il posto della politica, può accadere che i creditori svendano un intero paese al miglior offerente; in questo caso a Russia, Prussia e Austria. I primi due si offrirono di pagare 2/5 dei 40 milioni di złoty del debito della corona polacca; l’Austria 1/5. Naturalmente, i costi di questa operazione sono stati trasferiti sulla popolazione locale grazie a esazioni e confische.

Questa la storia; veniamo ora alla parte istruttiva. La situazione della Polonia di fine Settecento ricorda molto quella dell’Italia attuale: il vuoto politico, il forte indebitamento… Prevengo la facile obiezione: so benissimo che il popolo italiano non è un Poniatowski collettivo. Il popolo italiano ha un risparmio privato enorme, sebbene in progressiva erosione; e lo Stato italiano produce (caso pressoché unico in Europa) un avanzo primario ormai da anni. Semplifico: lo Stato italiano incassa più di quanto spende per i cittadini, ormai da anni. Resta comunque l’enorme debito pubblico che, prevedibilmente, è destinato a salire ulteriormente nel prossimo futuro.

E quindi? Dopo tutto il sangue versato e la retorica unitaria, a nessuno verrebbe in mente di dividere l’Italia…Eppure l’ipotesi di una spartizione della penisola emerge (per ora carsicamente) qua e là, tra i ben informati. Ne ha scritto, ad esempio, Beppe Grillo nel suo blog; se ne vagheggia su Il Sussidiario; ne parla esplicitamente Dario Fabbri. In soldoni, uno dei possibili scenari futuri è proprio la spartizione dell’Italia tra Stati Uniti (Sicilia e Sud d’Italia, una portaerei naturale nel cuore del Mediterraneo), Germania (il Lombardo-veneto produttivo) e Francia (Piemonte e Val d’Aosta); resterebbe, abbandonato a sé stesso, il Centr’Italia.
Questo scenario getta una nuova luce sul ruolo che la Lega ha svolto (e continua a svolgere) dagli anni Novanta del secolo scorso ai giorni nostri; ne ragiona diffusamente nel suo blog Federico Dezzani.
Fanta-politica? Oppure uno scenario possibile e auspicato da alcuni? Lo scopriremo tra qualche anno (o mese?). Per il momento abbiamo una conferma che dalla storia, anche da quella altrui, si può imparare molto.

https://lanuovabq.it/…/spartizione-dellitalia-unipotesi-amm…

Barboncini, processi e buchi nell’acqua, di Roberto Buffagni

Barboncini, processi e buchi nell’acqua

 

Cari Amici vicini & lontani,

in queste belle giornate estive due fatti di cronaca campeggiano sui media: lo sbarco di immigrati tunisini a Lampedusa con barboncino (di nazionalità ignota) al seguito[1], e l’autorizzazione a procedere per il caso Open Arms[2] contro Matteo Salvini concessa dal Senato[3].

L’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini per il caso Open Arms è motivata, ovviamente, da ostilità politica nuda e cruda, manifestata in forma particolarmente indecente , perché a) si è trattato di un atto squisitamente politico compiuto da un ministro in carica b) la responsabilità politica di quell’atto è condivisa, come minimo, dal Presidente del Consiglio del governo giallo-verde Giuseppe Conte, che andrebbe dunque processato anch’egli: cosa un po’ complicata e ossimorica, visto che Conte continua ad essere il Presidente del Consiglio in carica anche del governo giallo-rosa, sostenuto dalla maggioranza che ha appena votato l’autorizzazione a procedere contro Salvini.

Probabilmente, a Matteo Salvini non dispiace la prospettiva di finire sotto processo per il caso Open Arms, perché gli serve su un vassoio d’argento l’opportunità di presentarsi come vittima di un’ingiustizia e unico difensore degli italiani dai pericoli dell’immigrazione incontrollata. Tant’è vero che ha già diffuso il trailer dello spettacolo mediatico-giudiziario di cui sarà protagonista, dichiarando a caldo «Contro di me festeggiano i Palamara, i vigliacchi, gli scafisti e chi ha preferito la poltrona alla dignità. Sono orgoglioso di aver difeso l’Italia: lo rifarei e lo rifarò. Vado avanti, a testa alta e con la coscienza pulita»

L’autorizzazione a procedere è sicuramente un’ingiustizia; resta da vedere se Salvini sia una vittima.

Secondo me, sì: Salvini è una vittima, ma è una vittima anzitutto di se stesso e della povertà desolante della sua cultura e azione politica. Motivo? Ecco il motivo, anzi i motivi.

  1. La maggioranza parlamentare che l’ha indecentemente mandato a processo l’ha costituita lui, con la sua decisione dell’agosto scorso di far cadere il governo, nella speranza di provocare nuove elezioni e di incassare un diluvio di consensi[4]. All’epoca, la decisione di Salvini fu attribuita a valutazioni strategiche così raffinate da risultare accessibili solo a un Olimpo di pochi eletti strateghi. Ai molti perplessi si ingiunsero umiltà, silenzio, fiducia, come ai militi dell’Arma (mele marce escluse). Salvo prossimi, miracolosi rovesciamenti della situazione, forse implicanti intervento dei Piani Superiori (dagli USA di Trump a Padre Pio) mi pare si possa pacificamente riscontrare che le valutazioni strategiche di cui sopra erano, tutto sommato, sbagliate.
  2. L’azione politica per cui Salvini viene oggi indecentemente processato, e le altre analoghe da lui compiute come Ministro degli Interni, ovvero la chiusura dei porti agli immigrati clandestini, aveva già allora due caratteristiche principali: a) faceva acquisire una valanga di consensi a Salvini b) era ovviamente insufficiente per affrontare sul serio il problema (enorme) dell’immigrazione[5], perché da un canto è impossibile chiudere efficacemente i porti nell’attuale quadro politico e legislativo, e dall’altro, il problema dell’immigrazione si può affrontare solo se si ha una visione adeguata della politica internazionale, in particolare dei rapporti tra l’Italia e i paesi che si affacciano sul Mediterraneo.

Evidentemente, per Salvini era rilevante soltanto l’aspetto sub a) della sua azione politica, cioè il fatto che gli faceva acquisire tanti consensi. Consensi che in un regime di democrazia parlamentare a suffragio universale hanno certo importanza decisiva, per un politico, ma che non sono tutto; anche perché come si acquisiscono, così si perdono: e se si acquisiscono con azioni dimostrative attente anzitutto all’immagine, ma che non producono alcun risultato concreto, si perdono quando l’immagine di autorevolezza e di sbrigativa efficacia proiettata con l’ausilio di Photoshop si appanna, o addirittura viene smentita dai fatti.

Qualcosina di meglio e di più anche Salvini avrebbe potuto fare, quando era ministro, anche sotto il profilo dell’immagine. Qui vi racconto un minimo esempio di quel qualcosina di più e di meglio.  Ce ne sono certamente altri, ma vi racconto questo perché lo conosco bene, visto che alla Lega l’ho proposto io.

Come sanno i lettori di italiaeilmondo.com e non solo loro (se n’è parlato in più occasioni sulla stampa nazionale, è stato presentato in un importante convegno internazionale in Tunisia, lo conoscono molto bene il governo tunisino e l’ambasciatore italiano a Tunisi) il nostro collaboratore Antonio de Martini è il referente italiano di un importante e suggestivo progetto, appoggiato da tre Università italiane, “Mare nel Saharahttps://www.medinsahara.org/

In pillola, è la ripresa aggiornata di un antico progetto francese, mai realizzato per contrasti politici, che fu appoggiato da Ferdinand de Lesseps[6], promotore ed esecutore del Canale di Suez e del Canale di Panama. Nel deserto tunisino vi sono vaste depressioni naturali, gli chott, site in prossimità del Mediterraneo. Escavandole per aumentarne la profondità, e sterrando un canale, vi si potrebbe far irrompere il Mar Mediterraneo, creando un mare artificiale. Con l’evaporazione, esso cambierebbe il microclima, rendendo fertili i terreni circostanti. Risultano subito chiare le ricadute positive economiche e sociali per la Tunisia e per l’Italia. Per la Tunisia, creazione immediata di 60.000 posti di lavoro, estensione della superficie coltivabile e creazione di una nuova leva di agricoltori; sviluppo di pesca e turismo marittimo (il 20% del PIL tunisino si deve al turismo). Per l’Italia, 4-5 miliardi di euro di lavori per imprese italiane, alle quali sarebbero commessi i lavori che esigono superiori capacità e tecnologie; cessazione dell’immigrazione clandestina dalla Tunisia; accrescimento del prestigio e dell’influenza politica italiana nella regione che è la cintura di sicurezza geopolitica naturale per l’Italia, la costiera mediterranea dell’Africa; replicabilità dell’iniziativa anche altrove, per esempio in Algeria, dove esistono condizioni geografiche analoghe. Ma invito i lettori a consultare il sito https://www.medinsahara.org/, dove troveranno le informazioni essenziali su questo bel progetto.

Per quanto riguarda la Lega, e in generale il defunto governo giallo-verde, l’opportunità e il vantaggio politico, anche di immagine, di promuovere un progetto simile mi parevano abbaglianti come il sole del deserto. Anzitutto, sul piano dell’immagine e del consenso, appoggiare questo progetto significava  fare per primi quel che gli avversari politici immigrazionisti dicono sempre di voler fare e non fanno mai: “aiutarli a casa loro”: e quindi tappare la bocca all’avversario. Per forze politiche prive di esperienza internazionale e di governo nazionale come Lega e Cinque Stelle, inoltre, sponsorizzare un progetto del genere implicava presentarsi come forze responsabili e lungimiranti, capaci di strategia internazionale. Per Matteo Salvini personalmente, poteva essere una buona occasione per smentire le accuse d’essere un capopopolo incolto e chiacchierone di cui lo bersagliano gli avversari,  proponendosi invece come statista affidabile, che sa coinvolgere persino gli avversari politici in progetti di vasto respiro: se avesse voluto respingere a priori e disprezzare un progetto di cui tutto si può dire tranne che sia razzista, il PD si sarebbe trovato in grave imbarazzo.

A ciò si aggiunga che per acquisire gli elementi di valutazione indispensabili a decidere se passare alla fase operativa vera e propria, bastava finanziare con 3-400.000 euro uno studio di fattibilità, del quale sono già individuate le fasi essenziali. Se per una delle mille ragioni possibili si fosse poi deciso di non dare il via al progetto, nessuno avrebbe potuto accusare i promotori politici di aver sprecato ingenti risorse; e intanto, essi avrebbero incassato l’effetto promozionale di un nobile, encomiabile tentativo di affrontare il problema, sul serio enorme, dell’immigrazione.

Così, all’insediamento del governo giallo-verde interessai al progetto il sen. Alberto Bagnai, e lo misi in contatto con Antonio de Martini. Il sen. Bagnai, però, non ritenne opportuno incontrare de Martini (che peraltro abita anch’egli a Roma) e lasciò cadere la proposta.

Grazie alla cortese disponibilità di un intermediario, incontrai poi l’On. Riccardo Molinari, capogruppo leghista alla Camera. L’ On. Molinari, che qui colgo l’occasione di ringraziare, mi ha ricevuto con prontezza e cortesia, e mi ha dedicato due ore del poco tempo di cui dispone un politico molto impegnato. Nel nostro colloquio gli illustrai il progetto, e da lui richiestone mi diffusi sull’importanza politica e geopolitica del Mediterraneo per il nostro paese. In lui trovai un interlocutore attentissimo, intelligente e molto disponibile, benché la materia in discussione non facesse parte della sua esperienza politica precedente. Ci congedammo con l’intesa che l’On. Molinari avrebbe portato il progetto, con le sue implicazioni, all’attenzione del segretario del suo partito, Matteo Salvini.

Risultato: un buco nell’acqua.

E’ vero: l’attuazione del progetto “Mare nel deserto” non avrebbe risolto definitivamente il problema dell’immigrazione, né soddisfatto l’ambizione di Matteo Salvini di guidare il governo italiano. Forse, però, se Matteo Salvini, invece di scavare un buco nell’acqua dopo l’altro, avesse fatto scavare qualche buco nella sabbia del deserto tunisino, oggi si troverebbe meglio. L’Italia e la Tunisia, di sicuro.

That’s all, folks.

 

 

 

[1] https://www.corriere.it/cronache/20_luglio_28/migranti-barboncino-travestiti-turisti-nuove-tecniche-sbarco-c3dcb4c0-d0a0-11ea-b3cf-26aaa2253468.shtml

[2] https://www.corriere.it/cronache/20_luglio_30/caso-open-arms-tar-scontro-ministri-ecco-cosa-accadde-f687df6e-d23d-11ea-9ae0-73704986785b.shtml

[3] https://www.corriere.it/politica/20_luglio_30/salvini-va-processo-il-caso-open-arms-senato-concede-l-autorizzazione-procedere-37b84b96-d27e-11ea-9ae0-73704986785b.shtml

[4] L’ho commentata nel settembre 2019, e purtroppo devo constatare che ci ho indovinato: http://italiaeilmondo.com/2019/09/11/lezioni-di-umilta-di-roberto-buffagni/

[5] Qui, in una serie di tre articoli, ne tratto sotto il profilo del conflitto politico su base etnico/religiosa che immigrazione e allargamento dello ius soli possono causare: http://italiaeilmondo.com/?s=ius+soli

[6] https://it.wikipedia.org/wiki/Ferdinand_de_Lesseps

Modelli di vita, di Roberto Buffagni

Domanda: c’è un rapporto tra la riforma della scuola e i carabinieri di Piacenza che diventano criminali?
Risposta: sì.
La riforma di Giovanni Gentile, che sta per compiere cent’anni, ha certo limiti e difetti (come tutto) ma sotto un aspetto essenziale coglie il punto: è intesa a insegnare alla futura classe dirigente a pensare criticamente l’ordine dei fini, in parole povere e chiare il perché si fanno o non si fanno le cose. Ecco perché è costruita intorno all’asse della filosofia, ed ecco perché nella scuola di vertice, il liceo classico, si insegnano il latino e il greco, senza i quali è impossibile accedere direttamente ai testi fondativi della civiltà europea. Le odierne proposte di aggiornamento alle “esigenze della modernità”, in soldoni di incentrare l’asse della scuola sull’apprendimento di materie scientifiche e lingue straniere per allinearsi ai “paesi più avanzati” omettono di rilevare il fatterello che la scienza non ha NIENTE da dire in merito all’ordine del fini, al “perché si fanno e non si fanno le cose”, e che il benchmark di apprendimento delle lingue straniere è la lingua materna (nessun italiano imparerà mai l’inglese meglio dell’italiano, anche se lo studia per tutta la vita).
E i carabinieri criminali? Cosa c’entrano?
I carabinieri non diventano criminali per difetti operativi, per esempio per un criterio di reclutamento inadeguato o procedure di controllo interno insufficienti. i carabinieri diventano criminali perché, fatta esperienza di ingiustizie, ipocrisie, abusi, corruzione nell’Arma, nello Stato, nel mondo in generale, prima pensano “chi me lo fa fare”, poi pensano “sono tutti corrotti, perché non approfittare delle occasioni?” poi commettono le prime irregolarità, poi constatano la propria impunità, poi diventano criminali veri e propri, e fino a quando non li beccano sentono di essere nel giusto, perché il giusto non esiste.
E attenzione, ragazzi: il giusto non esiste sul serio, se non esiste dentro l’anima, o se si preferisce nella mente, delle persone.

spirali INFERNALI, di Giuseppe Masala

DECLIVIO

Fa davvero impressione leggere il rapporto demografico dell’Istat uscito oggi. Le nascite nel solo 2019 sono diminuite del 4,5% rispetto al 2018 e in cinque anni i residenti sono diminuiti di 550mila a livello nazionale, che significa aver perso, azzerato, in cinque anni una città come Bologna. Interessante anche ciò che emerge dai flussi migratori: i cittadini stranieri che arrivano in Italia sono diminuiti dell’8,5% circa mentre gli italiani andati all’estero sono aumentati dell’8,1%. Se ne deduce che la popolazione oltre a diminuire sempre più invecchia. Difficile ipotizzare una crescita economica in un paese che invecchia, uguale discorso per l’aumento della produttività che non può esserci senza giovani e tantomeno senza giovani istruiti. Questi sono i risultati delle politiche suicidiarie che stiamo portando avanti da decenni nel nome del “Sogno Europeo”, sisi, il sogno. Poca istruzione, poco lavoro, paghe da fame, servizi scadenti. Ma troppa gente ancora non lo capisce. E ancora è nulla rispetto a quello che vedremo dopo la pandemia e la crisi economica che ne sta conseguendo. Questi dati peggioreranno e di molto se non succede qualcosa che risolva la situazione.

Nessuna descrizione della foto disponibile.
PATETICO
Ormai Conte fa pure pena in questo suo giro da questuante nelle capitali del nord. Prima gli schiaffi da Rutte, ora le sberle dalla Merkel. Vi prego, non fatelo andare in Svezia, Finlandia e Danimarca. Non ce la meritiamo questa cosa, siamo una nazione che ha fatto la Storia.
ATTESA PREAGONICA
Ma la notizia più importante è che gli incontri di oggi dello spagnolo Sanchez con l’olandese Rutte e di Conte con la Merkel attestano inoppugnabilmente che da parte dei paesi del Nord non vi è alcun interesse a salvare l’Euro. Continuano a pretendere riforme in cambio di pochi spicci, per altro nel caso dell’Italia si tratta (se si sommano ai RF anche i fondi ordinari del bilancio 2021-2028) di danaro in perdita; nel senso che è più quello che daremo di quello che riceveremo. In sostanza dobbiamo pagarli per farci saccheggiare. Ci trattano da paese sconfitto in una guerra. Oppure se non ci sta bene spetterebbe a noi prenderci la responsabilità politica di un uscita dall’Euro (che la nostra classe politica totalmente compromessa non prende manco in considerazione). Questo ci dicono. Ma vi rendete conto che nella migliore delle ipotesi i primi soldi inizieranno ad arrivare nell’autunno 2021? Ovvero a danno economico e sociale abbondantemente realizzato irreversibilmente. Ma di che parliamo?
GUERRA GUERREGGIATA

Dimenticavo, oggi la Frankfurter Allgemeine Zeitung dice che questa settimana il Prestigioso Zentrum für Europäische Wirtschaftsforschung (Zew) di Mannheim pubblicherà uno studio dal titolo “Sliding down the slippery slope”, scivolare giù per il pendio scosceso. Dove si spiega che a scivolare nel pendio è la politica monetaria della Bce che si trasforma a furia di operazioni di quantitative easing in politica fiscale di sostegno agli stati. Bene, a Karlsruhe sono certo che prenderanno buona nota nel caso in cui i vincitori della causa saranno costretti a chiedere “giudizio di ottemperanza” della sentenza del 5 Maggio. Molti non lo sanno ma la partita è aperta.

Noto che l’interesse verso la sentenza di Karlsruhe del 5 Maggio è, qui in Italia, velocemente scemato. Mi permetto di dire che è un grave errore. Tutto, secondo molti, sarebbe finito a tarallucci e vino dopo il voto di del Bundestag che avrebbe approvato le politiche della Bce. Gli economisti a riprova del fatto che non succederà nulla sventolano dei grafichetti che descrivono l’andamento del cambio tra Euro e Dollaro che dimostrerebbe essendo stabile che non succederà nulla. Mi spiace, non è così. Innanzitutto bisogna che gli economisti imparino che i mercati finanziari non si muovono più da anni sulla scorta di valutazioni di natura economica; i movimenti sono fatti con degli algoritmi di Trading ad Alta Frequenza che operano sulla base di istruzioni preordinate (se il prezzo supera X compra, se scende ad Y vendi e cose di questo genere, pura analisi tecnica). I mercati finanziari sono mere fabbriche di danaro sintetico, nulla di più. Quando avviene qualche fatto nel mondo umano non ignorabile, semplicemente le macchinette vengono spente e “a mano” gli operatori vendono e comprano. Un esempio ne abbiamo avuto con la Brexit. Fino al giorno prima i mercati finanziari agivano sulla scorta degli algoritmi ignorando il reale (tanto tutti erano convinti che avrebbe vinto il remain); un minuto dopo la notizia della vittoria del fronte Brexit è cascato giù il mondo. Ecco, sarebbe bene che anche gli economisti – buoni ultimi, come al solito – imparassero queste cose e la smettessero di trarre responso dall’andamento dei mercati che tanto questa pratica vale ne più e ne meno di quella romana di sbudellare i tori e da essi far divinar responso agli Aruspici.

Ecco, detto questo, aggiungo che in questi giorni non è che di cose non ne siano avvenute.

C’è stato certamente il voto del Bundestag che in una mattinata ha votato una mozione sulla proporzionalità della politica monetaria della Bce. Peccato che Karlsruhe chiedesse al Bundestag di valutare se la politica monetaria Bce fosse Ultra Vires che è un’altra cosa. Un modo pilatesco per lavarsene le mani. Peraltro nella mozione si sottolinea come la Bundesbank sia indipendente, che è un modo come un altro per dire “la responsabilità se la prenda Weidmann”.

C’è stata inoltre una potentissima offensiva del Ministero degli Esteri tedesco con è riuscita a rompere il fronte dei paesi che nella Bce sostenevano la Lagarde. Così io leggo l’elezione dell’irlandese alla guida dell’Eurogruppo e avvenuta con i voti dei paesi frugali (e di qualcuno che con sprezzo dell’aritmetica continua a negare il suo voto, vedi Germania). Se questo basti per soddisfare Weidmann e la Corte di Karlsruhe non lo sappiamo.

Prossimi passi sono la riunione del Board della Bce del 16 Luglio, vedremo se Weidmann parla e cosa dice. Idem vale per la Lagarde. Dopo ci sarà il fatidico 5 Agosto giorno della deadline posto dalla Corte per l’uscita della Bundesbank. Se Weidmann non uscirà finirà la storia? Assolutamente no. A quel punto i vincitori della causa potranno chiedere alla Corte di Karlsruhe “giudizio di ottemperanza”. Ma ci sarà modo di parlarne. Il destino dell’Euro è e rimane appeso a un filo.

IL PARTITO DELLA NAZIONE

Mi spiace per chi in privato mi accusa “di avercela con il Nord”. Non è assolutamente vero, ma bisogna ripartire da una presa di coscienza: il progetto europoide, in Italia è stato un progetto essenzialmente a trazione Nord, così come è proveniente dal Nord tutta la classe dirigente che follemente lo ha realizzato. Ora questo progetto è naufragato, tragicamente naufragato e il Nord stesso ha davanti a sé anni terribili. Cari amici, ma davvero pensate di ripartire e superare una catastrofe epocale con due spicci sottratti al Sud? Davvero credete di riprendervi con il Mes, il Recovery Fund e insistendo su un Europa che non esiste ne mai è esistita? Davvero pensate che le vetuste gabbie salariali siano una soluzione come credono Quartapelle e Sala? Suvvia dai. Qui è necessario rifondare l’Italia. Trovare una soluzione strategica complessiva e riprenderci quello che è nostro. Non c’è altra strada, altrimenti sarà miseria e schiavitù per tutti.

Ormai il PD si propone apertis verbis come “Sindacato del Nord” ovvero tenta di fare quello che per trenta anni ha fatto la Lega di Bossi: sottrarre risorse al Sud per riversarle al Nord e sostenerne così la crescita. Alla proposta di Quartapelle e del sindaco di Milano Sala andrebbe aggiunta – per completare il quadro – anche quella del Presidente dell’Emilia-Romagna Bonaccini che è molto semplice nella sua brutalità: le risorse per la ripartenza siano dirottate in buona parte se non integralmente “al Nord produttivo” e “il Sud aspetti” (ha detto proprio così, aspetti). A questi luminari rispondo che forse non è la risposta corretta quella di demolire (la peraltro già esangue) domanda eggregata del Sud per sostenere quella del Nord. Anche perchè in un contesto produttivo vergognosamente sbilanciato a favore delle regioni del Nord deprimere un mercato di sbocco della produzione del Nord significa semplicemente che ciò che guadagnerebbe il settore pubblico del Nord sarebbe pagato dal settore privato del Nord che “fatturerebbe” di meno. Quindi alla meglio questa operazione dal punto di vista economico si tradurrebbe in un gioco a somma zero per le regioni del Nord stesso. Non parliamo poi dell’aspetto politico ed etico di una simile proposta, non vale la pena. Non vale la pena alimentare una guerra tra regioni povere e regioni in via di impoverimento (sì, questa crisi colpirà in maniera molto più forte il Nord per chi non l’ha capita, trasformando quelle regioni in una Romania post comunista nel giro di qualche anno). Servirebbe altro, e io credo servirebbe soprattutto una presa di coscienza da parte delle popolazioni del Nord. Il progetto strategico della Seconda Repubblica che si è sostanziato nel saccheggio e nella colossale deindustrializzazione del Sud Italia per tenere agganciato il Nord Italia al motore produttivo europeo è tragicamente fallito. Al Sud non ci sono le risorse per sostenere niente e nessuno: le banche del Sud sono già state acquistate dalle banche del Nord, quindi il risparmio dei frugali meridionali (gli olandesi ci fanno una pippa a quattro mani) viene già usato per sostenere il sistema produttivo del Nord, lavori pubblici qui non si fanno da trenta anni (al Sud non c’è corruzione perchè manca la materia del contendere, la Svizzera a noi ci fa un baffo) quindi non c’è nulla da dirottare, le Università e la Sanità sono già state svuotate (noi facciamo il turismo sanitario ). Ora volete i due spicci dei dipendenti pubblici? Prendeteveli, buon pro’ vi faccia, se volete credere che bastino per recuperare, auguri.

L'immagine può contenere: 1 persona, testo
MODELLO ISPIRATORE

Due importanti traduzioni dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung. La prima è un articolo del parlamentare europeo tedesco Simon Sven (che peraltro è anche un giurista) sull’altro tema rilevante della sentenza del 5 Maggio di Karlsruhe, ovvero il conflitto tra Corte di Giustizia Europea e Corte di Karlsruhe. La seconda è invece relativa alla pretesa dell’Olanda e dei paesi frugali di avere il veto sui Recovery Fund (e infatti la Merkel vuole togliere la competenza alla Commissione per darla al Consiglio). Ecco, per chi vuole informarsi veramente, chi non vuole capire invece può continuare a leggere gli imperdibili pezzi de La Repubblica e del Corriere. Poracci.

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-prof_simon_sve…/…/…

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-faz__i_paesi_b…/…/…

I NUOVI BULLI, dal sito lamarianna.eu

il dialetto salentino è molto più espressivo; rende meglio l’idea: sono indicati come “li uappi te cartune”_Giuseppe Germinario

I NUOVI BULLI

Nati fra urla di sdegno per il Papeete, accomunati dai dogmi del politicamente corretto, stabilmente insediati al potere grazie al lockdown da Covid 19, i Nuovi Bulli più si credono gli unici presentabili e più danno vita a sempre più spiccati, penosi spettacoli di bullismo politico e giornalistico.
Due esempi delle ultime ore .

Conte all’Olanda (titolo cubitale di Repubblica di ieri, non smentito): “Conte avverte Rutte: “Dirò che abbiamo fretta o salta anche l’Olanda”.
Ma salta che ? Che cosa può far saltare Conte ? Cosa minaccia, le dighe dei Paesi Bassi ? Penoso. Perchè, detta chiara, non si è mai visto usare un tono simile nei rapporti ufficiali fra Paesi UE e fra rappresentanti istituzionali .
Un conto è polemizzare con Rutte, criticare i Paesi Frugali che si oppongono ai regali a fondo perduto, parlare a muso duro per la pessima politica che spinge gli olandesi a trasformarsi in portofranco per tutte le ex Fiat di questo mondo. Ma tuttaltro conto è minacciare con un “fai in fretta o vi facciamo saltare”, pronunciato per di più nella conferenza stampa tenuta con lo spagnolo Sanchez. Il risultato dell’operazione, peraltro, non è stato fra i più brillanti : all’indomani di questa gentilezze la candidata alla presidenza dell’Eurogruppo appoggiata da Italia e Spagna – la ministra spagnola dell’economia Nadia Calvino – è stata trombata dalla presidenza dell’ Eurogruppo, che le era stata data per certa. Il ministro irlandese dell’economia, Paschal Donohoe, è stato eletto a sorpresa, resterà in carica per due anni e mezzo, è stato appoggiato da tutto il fronte anti Recovery Fund. A Nadia Calviño è stato fatale il viatico del bullo Conte : “L’Italia ritiene che quella di Calvino sia un’ottima candidatura per l’Eurogruppo”, aveva detto un’ora prima del voto.

Secondo esempio. Il Corriere della Sera su Boris Johnson.
La Gran Bretagna, va detto, sta apprezzando molto la politica economica del governo di BoJo nel dopo-Covid , in partcolare il taglio dell’Iva sino al 5%per ristoranti e alberghi, le iniezioni di contanti alle aziende che mantengono i dipendenti al lavoro anche se in cassa integrazione, l’abolizione delle tasse sulla compravendita di case. Ma per il corrispondente da Londra del primo quotidiano italiano – che appunto non scrive per l’Unità ma per il Corsera – testualmente “le buffonerie di Boris cascano nel vuoto”. Per questo campione del giornalismo italiota che ricorda i tempi (bullisti) dell’ Inghilterra chamata “la Perfida Albione” e della Francia liquidata come “la nostra sorella non latina ma latrina” , ecco i toni adatti: “Johnson e’ un premier clownesco che da l’ impressione di girare a vuoto, è una deriva personale prima che politica. Pare che non si sia ripreso appieno dalla malattia, che ad aprile lo ha visto a un passo dalla morte: dicono che al pomeriggio schiacci pisolini anche di due-tre ore”, spiega il Bullo Ippolito. Chissà cosa accadrebbe se sul Times di Londra si scrivesse “le idiozie di Conte non vanno da nessuna parte”, oppure “Conte è un arlecchino buffone”. Apriti cielo, protesta dai giornaloni alla Farnesina. Ma Bullo Ippolito (nella foto qui sotto) , giustamente a Londra non se lo fila di pezza nessuno. Un Bullo così, che si crede colto e dà del clown al titolare di Downing Street , offre al pubblico solo la misura di sè stesso.

https://www.facebook.com/lamarianna.eu/posts/1155022878212953?__tn__=K-R

GLI STATI GENERALI, LO STATO DELLA POCHETTE, di Giuseppe Germinario

Capita raramente di assistere ad un assoluto “non sense” delle dimensioni degli Stati Generali convocati a giugno scorso da Giuseppe Conte. Il nostro Presidente del Consiglio è riuscito in questa impresa del nulla costruendo la parodia grottesca di un consesso che ha assunto ubiquamente la veste di un convegno declamato da interventi dal contenuto letteralmente inaccessibile e di un seminario dagli interventi dovuti e scontati. Ha finito ovviamente per non essere né l’uno, né l’altro, non avendo lanciato nessuna incisiva indicazione necessaria a motivare, né avendo tracciato almeno le linee base che consentissero di canalizzare analisi e proposte; ha finito quindi per spegnersi quindi nelle sue conclusioni senza avere brillato di una qualche fiammella. Più che un buco nero inquietante per la sua potenza attrattiva, una nebulosa impercettibile. L’unico ad apparire con certosina costanza è solo Lui, Giuseppe Conte, ma nelle esclusive vesti di dimesso cerimoniere di una seduta spiritica tutta particolare. La riuscita anodina dell’iniziativa sarà stata pure la conseguenza delle pressioni del PD tese a smorzare gli ardori del premier per una iniziativa propagandistica raffazzonata che rischiava di rivelare il vuoto pneumatico più che “le magnifiche sorti e progressive”. Un barlume di superstite buon senso piddino, frutto di antiche reminiscenze non del tutto sopite. Il vuoto in politica però non esiste; la sua apparenza assume comunque il significato e il peso di movimenti carsici per quanto inconsapevole possa essere. Non sarà certo un caso che gli unici ad essere evocati e ad apparire legittimamente, sia pure nella forma di ologrammi, in quella seduta per proferire il verbo siano stati Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione Europea, David Sassoli, Presidente del Parlamento Europeo, Paolo Gentiloni, commissario europeo, Charles Michel, Presidente del Consiglio Europeo. Il messaggio è chiaro: gli indirizzi e i vincoli proverranno da quella sede e in quella sede si dovrà trattare, in realtà attendere a regime di cottura lenta. http://www.governo.it/it/progettiamoilrilancio

Qualcun altro si è visto riconoscere tutt’al più un posto in seconda fila: il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, il Segretario Generale dell’OCSE, Ángel Gurría, la Direttrice Operativa del Fondo Monetario Internazionale, Kristalina Georgieva ma solo per il tramite, in gentile concessione, della pubblicazione della rispettiva trascrizione degli interventi. Un chiaro indice delle graduatorie di credito ed autorevolezza riconosciute dal nostro Giuseppi. Per il resto un asfittico elenco degli invitati, privo di ogni merito dei vari contenuti. Lo stesso Colao, pur a capo della nutrita e roboante squadra di esperti di quistioni socio-economiche messa in piedi dallo stesso Conte, ha paradossalmente vissuto l’onta censoria dell’anonimato senza alcun apparente motivo; una sorta di silenzioso ripudio. Alcuni visibilmente non hanno gradito il trattamento e hanno reagito sgomitando, sfruttando però i propri spazi in mancanza di quelli pubblici del Governo. Lo hanno fatto i leader di alcuni sindacati autonomi e di base; lo ha fatto soprattutto e con veemenza il Presidente di Confindustria, Carlo Bonomi , di fresca nomina.

https://www.confindustria.it/notizie/dettaglio-notizie/confindustria-agli-stati-generali-economia-intervento-presidente-bonomi . Tutti gli altri, a cominciare dai Segretari dei tre Sindacati Confederali per passare alle varie associazioni professionali e umanitarie, hanno accettato senza colpo ferire e senza il minimo amor proprio il bavaglio imposto.

Si direbbe una pesante e inopinata caduta di stile dell’apprezzato maestro di buone maniere insediato a Palazzo Chigi.

L’affettata e curiale furbizia del nostro lascia sospettare che non si tratti di una semplice distrazione da parvenu.

Sarà per il suo irrefrenabile narcisismo, sarà per la sua propensione a rifulgere spegnendo la luce di possibili pericolosi comprimari, sarà che la sua caratura non gli consente un ruolo più significativo di quello del cerimoniere, sta di fatto che il nostro è riuscito pienamente nell’impresa.

Quello che sorprende è la pressoché generale accondiscendenza di gran parte dei convitati al proprio ruolo di muti etcoplasmi. Un po’ perché i più avveduti hanno compreso la vacuità dell’evento e l’opportunità di non contrariare il possibile elargitore delle future prebende e di non compromettere la partecipazione ad un futuro banchetto pur privo al momento del necessario menu; un po’ per la cautela di dover dissimulare, come nel caso dei tre segretari confederali, il proprio vergognoso e imbarazzante sostegno politico ad un Governo in gran parte responsabile del pesante fardello autunnale e del tutto incapace di offrire una qualche prospettiva realistica e politicamente autonoma, sta di fatto che la quasi totalità dei convitati ha accettato l’invito dalla porta di servizio in cambio di qualche convenevole. Come già sottolineato solo gli esponenti di alcuni sindacati di base hanno ardito contestare, ma solo da un punto di vista rivendicativo e senza alcuna prospettiva di difesa dell’interesse nazionale. Qualche sorpresa l’ha destata invece la veemenza delle critiche del Presidente di Confindustria. Le ragioni contingenti di tanta animosità ci sono tutte: dalle anticipazioni di cassa integrazione ancora lungi dall’essere compensate da INPS e Governo alla esiguità di agevolazioni e contributi rispetto alla miriade di bonus e biscottini che Presidente e Ministri, colti da indomito furore, stanno elargendo a piene mani, quasi fosse il presagio dell’Ultima Cena. Qualche perplessità e sorpresa suscita il fervore della critica alle strategie di politica economica del povero Conte. Non dovrebbe rientrare alcun caso di risentimento personale. L’imprenditore Carlo Bonomi appare già molto ben inserito in cariche ed incarichi pubblici di gestione. A ben vedere le sue critiche hanno il sapore e la bonomia dei realisti più realisti del re. La sua massima preoccupazione è che la pubblica amministrazione acquisisca gli standard di qualità operativa e di progettazione richiesti dall’utilizzo dei fondi strutturali europei. Dal punto di vista funzionale una sacrosanta rivendicazione viste la di gran lunga migliore efficienza e trasparenza di quei criteri rispetto alla farraginosa amministrazione italica. Il nostro ovviamente non si pone, o finge di non conoscere il motivo di tanta degenerazione della macchina amministrativa, non a caso proceduta paradossalmente a passi più spediti a partire dagli anni ‘90. Quel che gli preme, a nome della categoria, è di poter attingere all’integralità dei futuri fondi europei, sia quelli a fondo perduto (perduto a beneficio dei fruitori privati, non delle casse statali e della collettività) che quelli a credito. Bonomi, a nome di Confindustria, confessa con la compulsione di questo atteggiamento due orientamenti chiarissimi: la bontà e l’utilità dei prossimi finanziamenti europei nonché la loro scontata deliberazione nella loro modalità a fondo perduto; l’adesione acritica e fideistica, oltranzista al disegno corrente di integrazione europea. Sulla loro bontà e utilità tutto dipende dal punto di vista e di partenza da cui si parte (tra i tanti testi http://italiaeilmondo.com/2020/06/02/attenti-a-quei-due-di-giuseppe-germinario/ ); sull’esito scontato della trattativa in corso, Carlo Bonomi, pur in buona compagnia, sembra dotato di capacità predittive sconosciute a gran parte degli osservatori ma tali da consentirgli di vendere la pelle dell’orso prima dell’abbattimento. Quanto alla adesione fideistica, sino alla declamazione della propria totale assonanza con le associazioni europee sorelle, al disegno europeista non c’è da meravigliarsi più di tanto. Confindustria costitutivamente non può assolvere, proprio per i suoi assetti di potere e per la composizione prevalente degli associati, ad un ruolo di difesa dell’interesse nazionale, ad una funzione di trasformazione dell’economia industriale verso la produzione di prodotti finiti piuttosto che di componentistica e verso attività più strategiche. Costitutivamente deve trattare di criteri, di condizioni e di regole generali di conduzione delle aziende. Non è in grado quindi di partecipare fattivamente alle trattative, ai maneggi e alle azioni lobbistiche tese alla fusione in grandi gruppi e all’avvio di attività strategiche. Tutt’al più può servire da trampolino surrettizio e per vie traverse di singoli gruppi e personaggi. La storia stessa di Confindustria è tutta lì a recitare della sua ostilità al processo di costruzione dell’industria pesante di base nel dopoguerra, a personaggi della statura di Mattei e Olivetti e della sua connivenza ai processi di trasformazione di buona parte degli imprenditori e dei manager italiani in appendici e portavoce di gruppi esteri e in percettori di rendite da concessioni anche a costo di sacrificare e cedere le proprie attività originarie ben avviate. Del resto è lo stesso Colao a confermare indirettamente questa prevalente tendenza conservatrice e a volte liquidatoria. Tra il centinaio di schede elaborate buone a tanti usi ve ne sono alcune particolarmente significative. In una propone di superare le difficoltà di accesso a finanziamenti e crediti delle aziende italiane mediamente troppo piccole assegnando alle aziende leader della catena di valore il ruolo di garanti ed eventualmente di redistributori del credito. Con una struttura produttiva sempre più vocata alla componentistica piuttosto che al prodotto finito e con aziende leader sempre più situate all’estero non si farebbe che accentuare ulteriormente la dipendenza della nostra economia dalle scelte di prodotto e dagli indirizzi politico-economici di altri paesi. Lo stesso dicasi riguardo allo snellimento delle procedure di fallimento e liquidazione delle aziende proposto dall’ex manager di Vodafone. Tutto sembra congiurare quindi perché la terribile mistura di attendismo fideistico di un intervento europeo risolutivo, di fiducia cieca nelle virtù e nella prospettiva europeista, nel mantenimento conservativo di un apparato industriale magari appena ammodernato, di galleggiamento ed immobilismo governativo aggrappato alle momentanee prebende assistenzialistiche trascini ormai irreversibilmente il paese verso il declino e la polverizzazione, sempre più alla mercè non solo della grande potenza ma anche delle insolenze di forze minori. Giusto per completare la disposizione dei tasselli che hanno composto la kermesse giuseppina non si riesce a comprendere il motivo della fredda e sorda ostilità intercorsa tra Colao e Conte. Nelle schede prodotte dal manager c’è un perfetto equilibrio, in sintonia con il sentimento europeista e politicamente corretto prevalente nel Governo. L’emancipazione femminile, il peso della Cultura e del turismo, la svolta ecologica e la digitalizzazione; un pot pourri informe buono per tutti i palati e adatto alle varie circostanze. A ciascuno degli spettatori è riservato un coniglio; l’impegno di spesa corrisponde, guarda caso, al contributo europeo evidentemente dato per certo. Gli stessi imprenditori vengono lasciati nel loro cortile allettati al massimo da incentivi fiscali. Per il resto devono essere loro a districarsi e decidere la collocazione geoeconomica del paese. A dire il vero ci sarebbero un paio di cosette che potrebbero aver turbato gli animi nella compagine governativa: la proposta di accentrare e riorganizzare le centrali di acquisto dei beni necessari alle amministrazioni e il cambiamento dei criteri di selezione dei quadri dirigenziali intermedi. Due ambiti nevralgici che hanno contribuito alla ripartizione dei centri di potere, alla creazione di sistemi di consenso e di drenaggio di risorse, alla definizione del rapporto delicato e cruciale tra ceto politico-amministrativo e macchina operativa dello Stato centrale e periferico. Due nervi scoperti, sufficienti a mettere in discussione le dinamiche profonde di potere e la potenziale armonia tra i due.

Tutta l’operazione in realtà affoga in questa sommatoria di pie intenzioni e di attese ingiustificate i nodi essenziali da sciogliere: la necessità in tempi rapidi di un piano B nel caso più che probabile di fallimento o di condizioni sfavorevoli di accordo in sede europea; le modalità con le quali l’imprenditoria nostrana, al di là della retorica del libero mercato, deve trovare una diversa collocazione e partecipare ai processi di concentrazione, di fusione e di sviluppo di nuovi settori, la capacità di leadership dell’imprenditoria privata nazionale, tenuto conto che nei momenti cruciali di svolta questa si è rivelata un fattore frenante piuttosto che propulsivo. Per non parlare degli appuntamenti mancati nelle dinamiche e nei conflitti geopolitici, così determinanti ormai nel favorire ed indirizzare le scelte economiche. Le velleità geopolitiche di autonomia della Germania, poste alla sua maniera, rientrano a pieno titolo nella gamma di interrogativi fondamentali a cui rispondere. Ma è veramente chiedere troppo a questo ceto politico.

Una cosa è certa. Una svolta positiva nel paese non può passare attraverso il rapporto istituzionale con le associazioni e i rituali stantii che ne conseguono. Un ceto politico ambizioso e capace deve riuscire ad individuare singole figure e precisi settori suscettibili di aggregarsi e di fungere da traino. Altre vie per formare una classe dirigente all’altezza della situazione non se ne vedono. Persino Conte deve averlo subodorato, se durante la kermesse aveva previsto una giornata di incontri con singole personalità rappresentative della loro attività. È riuscito malauguratamente a trasformare anche questa fugace occasione in una innocua e frivola passerella. Una leggerezza dell’essere ormai insostenibile per il paese. Intanto aspettiamo di conoscere il   frutto documentale degli stati generali. Che siano resi pubblici almeno questi.

1 21 22 23 24 25 39