Commentario all’intervista ad Antonio de Martini. Contro la superstizione.., di Massimo Morigi

Commentario all’intervista ad Antonio de Martini di Giuseppe Germinario. Contro la superstizione ed oltre il coronavirus per un nuovo posizionamento internazionale dell’Italia

 

Di Massimo Morigi

 

In data 17 aprile 2020 il blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo” ha pubblicato la videointervista Conversazione fra Giuseppe Germinario e Antonio de Martini. Crisi epidemica, implicazioni, conseguenze, opzioni politiche. L’URL dell’ “Italia e il Mondo” presso il quale si può prendere visione dell’intervista è http://italiaeilmondo.com/2020/04/17/le-nuove-strade-aperte-dal-coronavirus-con-antonio-de-martini/#disqus_thread come è pure possibile visionare il documento presso YouTube all’URL https://www.youtube.com/watch?time_continue=5937&v=lEMtpmevFJU&feature=emb_logo.  Nell’augurio che l’ “Italia e il Mondo” protragga in saecula saeculorum la sua opera di risveglio del pensiero geopolitico e che la prima piattaforma commerciale di condivisione di documenti audiovisivi tenga a bada la sua natura commerciale, cioè non decida di punto in bianco di eliminare quei documenti che possono vantare meno contatti e quindi di scarsa potenzialità pubblicitaria, ma anche alla luce di un elementare principio di cautela, vista la fondamentale importanza dell’intervista per lo sviluppo del dibattito e (si spera) dell’azione per raddrizzare la schiena del nostro paese, piegata per ultimo dal coronavirus ma della cui tragica condizione  questo agente patogeno è solo la classica goccia che fa traboccare il vaso, dopo  scaricamento dell’intervista si è provveduto al suo ricaricamento presso il maggiore e più prestigioso archivio senza scopo di lucro di raccolta di documentazione digitale, generando così gli URL di Internet Archive  https://archive.org/details/y-2mate.com-le-nuove-strade-aperte-dal-coronavirus-con-antonio-de-martini-l-emtpmev-fju-360p-1  e https://ia801401.us.archive.org/5/items/y-2mate.com-le-nuove-strade-aperte-dal-coronavirus-con-antonio-de-martini-l-emtpmev-fju-360p-1/y2mate.com%20-%20Le%20nuove%20strade%20aperte%20dal%20coronavirus%2C%20con%20Antonio%20de%20Martini_lEMtpmevFJU_360p%20%281%29.mp4, presso i quali non solo l’intervista può essere ugualmente apprezzata ma soprattutto, si spera, il fondamentale documento possa superare quella marxiana “critica rodente dei topi”, nel presente caso non più i piccoli roditori che metaforicamente assalirono l’ Ideologia tedesca ma i ben più temibili e reali roditori dell’universo internettiano che fanno sì che, o per ragioni di sfinimento personale di chi mantiene ed organizza pur fondamentali siti in Rete (e lo ripetiamo per l’ennesima volta, cento di questi giorni all’ “Italia e il Mondo” uno dei pochissimi siti che nel panorama Italiano ed internazionale sappia senza estremismi ma anche senza timidezze dare diffusione ad una concreta cultura politica realista) o per ragioni di bieco tornaconto commerciale (i. e. YouTube e fratellini imitatori) questi documenti, non importa il loro valore, in media abbiano una aspettativa di vita di non più di cinque anni. Tuttavia, siccome dello spirito della Conversazione fra Giuseppe Germinario e Antonio de Martini tutto si può dire (e dal nostro punto di vista non se ne può dire che bene) tranne che sia animata da un malintesa ambizione di passare ai posteri ma è, invece, tutta protesa a fornire concrete indicazioni per il presente, noi che invece ben volentieri gli accordiamo la qualità definita dall’oraziano Exegi monvmentvm aere perennivs, veniamo ora ad enuclearne i  passaggi principali. Se si volesse dare una definizione filosofico-politica della conversazione, definizione che con questo attributo iniziale immaginiamo desti già un moto di ripulsa allo spirito concretissimo (ed acutissimo) di de Martini, si potrebbe dire che essa, al di là della contingenza del coronavirus, non è altro che un dialogo contro la superstizione. Giustificheremo fra poco questa affermazione, apparentemente sorprendente visto che la parola ‘superstizione’ non viene pronunciata una sola volta nel corso del lungo scambio di battute, più di un’ora e tre quarti, fra Antonio de Martini e Giuseppe Germinario. L’intervista inizia con un excursus storico di de Martini sulle epidemie medievali del Vecchio continente, resoconto di de Martini del quale non facciamo il sunto completo perché non si vuole togliere il piacere a chi lo voglia conoscere di apprenderlo dalle vive (ed espressivamente vivaci, il che non guasta) parole dell’intervistato ma dalle quali si nota già dal breve accenno che segue  l’abissale scarto rispetto alle attuali narrazioni sul coronavirus che ad ogni piè sospinto ci vengono giornalmente propinate dall’attuale tristo sistema di informazione di massa. Ma come, al posto del parere dell’immancabile versipelle virologo e/o epidemiologo di turno, de Martini ci riferisce di un Visir di Granada  che nel XIV secolo aveva riconosciuto la natura contagiosa della peste e che alla luce di questa consapevolezza aveva preso opportune ed efficaci misura di quarantena. Ma come, al posto delle supercazzole e delle c…te sesquipedali sui cambiamenti climatici  che avrebbero favorito la diffusione e persino la nascita dell’attuale morbo (sempre a cura dei soliti superesperti virologi e/o epidemiologi da pronto intervento di rimbambimento delle masse, corpi  d’ élite e d’assalto del thumberghismo di massa) sempre de martini ci riferisce che un tal’altro Visir coevo al primo pensava invece alla peste come una sorta di punizione divina e si rifiutava di prendere provvedimenti efficaci (oggi,  ci permettiamo noi di integrare il ragionamento di de Martini ma senza tema di stravolgerlo nella sua saggezza storicistica,  siccome siamo definitivamente secolarizzati, caduta la punizione divina, c’è invece la punizione di Gea, il pianeta vivente, una bella mossa à la Thumberg per installare fra le masse un senso di colpa in versione anticonsumista e oscurare la realtà di una peste sorta per una globalizzazione senza regole e favorita dal sempre più marcato infiacchimento dello Stato nella sua capacità di controllo del territorio e della salute pubblica, una senso di colpa anticonsumistico  le cui irrazionali involuzioni psicologiche   non sono più le classiche espiazioni corporali medievali o l’inettitudine  del secondo Visir  ma la sotterraneamente esaltata dai mass media come momento catartico tragica compressione dei consumi tramite le odierne apparentemente scientifiche italiche quarantene generalizzate – in realtà,  e per fortuna, solo una tragica parodia di quelle ben più serie e totalitarie made in China –  che assieme al morbo rischiano anche di fare scomparire il paziente, ma tant’è).  Ma, il gustosissimo excursus storico di de Martini che, proprio per la sua mentalità storico-storicista, fa intrinsecamente piazza pulita di un approccio alla situazione espertocentrica, non è altro che la premessa al nucleo duro dell’intervista, che non ruota attorno a considerazioni epidemiologiche, virali (o presunte tali) ma vuole svolgere una radicale riflessione in merito all’attuale collocamento internazionale dell’Italia, argomento, in ultima analisi, assai più importante dell’attuale crisi sanitaria e dall’impostazione del quale dipendono – questo il parere di de Martini e, modestamente anche il nostro – anche gli esiti della fuoruscita più o meno positiva dell’Italia dall’attuale crisi sanitaria. Detto in estrema sintesi. De Martini ritiene che sia giunta l’ora di prendere il toro per le corna ed approfittare dell’attuale crisi dell’Unione europea, evidenziata come non mai dalla crisi del coronavirus, per cercare di stringere un’alleanza sempre più stretta, economica, monetaria, politica e militare, con coloro che hanno girato le spalle alla UE, cioè con il Regno Unito (in questa nuova alleanza foriera di uno spacchettamento in direzione atlantica di parte del Vecchio continente – ma, grande novità rispetto all’egemonismo monocratico statunitense nato nel secondo dopoguerra, via quella che de Martini continua icasticamente, e con grande realismo politico,  a chiamare la “perfida Albione” – delle nazioni meridionali del Vecchio continente, l’Italia, sempre sue icastiche e colorite parole, «deve mettere la trippa e l’Inghilterra le ossa» e dove la trippa dovrebbe essere e la posizione strategica dell’Italia nel Mediterraneo e, soprattutto, la sua capacità –  per la verità allo stato solo potenziale e derivante dalla sua  grande tradizione di realismo politico unita ad una fine ed unica mentalità dialettico-universalistica di marca cattolica e dalle sue realizzazioni risorgimentali ma non altrettanto, purtroppo, dagli ultimi settant’anni di vita repubblicana andanti in senso diametralmente opposto a questi grandi lasciti – di recitare, anche se di concerto con gli altri paesi del sud Europa, un ruolo egemonico e di traino in questo riorientamento strategico; mentre le ossa britanniche sarebbero  le sue capacità e pulsioni imperialistiche mai sopite, “perfida Albione”, appunto: non si potrebbe immaginare linguaggio ed approccio mentale più lontani dall’odierna “pappa del cuore” che impera nell’attuale pensiero politico, diffuso poi a rincoglionimento delle masse dai grandi mezzi di informazione). Si può essere più o meno d’accordo con questa radicalità di pensiero, ma quello che qui conta è che, contrariamente alla informazione massificata, questa intervista si presenta come una delle rarissime occasioni non sprecate di cui sono a conoscenza per riflessioni politiche e strategiche  sul coronavirus  che non facciano perno sui soliti esperti d’avanspettacolo, che poi, come si è visto, esperti non lo sono per niente (in primis, ovviamente, i soliti virologi, ma last but not the least, anzi, i soliti pensatori mainstream di destra o sinistra non importa che ora non sanno far altro che  tacere o dare a ragione a questo o a quel virologo a seconda che questi sia più o meno favorevole ad un più o meno radicale blocco delle attività produttive, blocco plaudito dal pensatore di sinistra, avversato da quello più a destra: ma come si diceva una volta, il problema è politico e non certo tecnico-sanitario, e ora  come non mai l’attuale occupazione della  carica di Presidente del Consiglio da parte di un  personaggio che esprime lo zero assoluto del ‘politico” e la perfetta incarnazione, attraverso i suoi Dpcm sanitari, dello schmittiano “legislatore motorizzato” dimostra la verità di questo assunto). Ed affermando che, a scanso di equivoci, io sono personalmente totalmente d’accordo anche con questa parte più direttamente politica dell’intervista a de Martini, vengo per ultimo a giustificare l’affermazione  iniziale che l’intervista è un dialogo adversus suspertitionem. Lasciando ai lettori il piacere di completare tutti i passaggi del ragionamento, limitiamoci qui ad affermare che il significato etimologico di ‘superstizione’ ci indica la credenza che vi siano momenti e/o istanze superiori –  o, meglio, presunte tali –  di fronte al quale l’uomo, soprattutto quello comune e non vicino ai misteri, sacri o profani che siano, deve chinare la testa. L’intervista a de Martini è un potentissimo farmaco contro la moderna superstizione scientifica essendo formata ed informata al superiore pensiero storico-strategico, l’unica forma mentis ed agendi che diede inizio all’ evoluzione da ominide a homo sapiens e, nello specifico, l’unica Weltanschauung-filosofia della prassi che non solo  può permettere al nostro paese di non uscire completamente distrutto dall’attuale morbo ma anche di liberarsi dai morbi ideologici democraticistici  degli ultimi settant’anni (verso i quali, vedi sempre l’intervista,  de Martini nutre, e a ragione, una profondissima avversione). Sulle forme politiche ed organizzative di come questo pensiero storico-strategico certamente all’altezza di un mondo sempre più violentemente policentrico e dinamico possa concretamente prendere la direzione indicata da Antonio de Martini, come da consolidata esortazione di prammatica, si dichiara aperto il dibattito (e  ancora più auspicabilmente l’azione)  e, per ora, proprio per questo de hoc satis

 

Massimo Morigi – 26 aprile 2020

 

 

 

 

 

 

 

LA MENZOGNA È UN RITORNELLO…, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA MENZOGNA È UN RITORNELLO…

C’è un segnale inconfutabile che il governo Conte-bis sta per istituire nuove imposte o alzare qualche aliquota: e non è solo la proposta (di deputati del PD) dal nome buonisolidarista di “Contributo di solidarietà” sui redditi superiori a € 80.000,00, ma è che già i corifei delle élite decadenti hanno intonato di nuovo il ritornello ripetuto tante (purtroppo) volte negli ultimi 50 anni: lotta all’evasione! paghiamone meno paghiamole tutti! Dopo che è stato gorgheggiato a lungo, l’esperienza insegna,  segue, puntuale come la morte, uno o più aumenti (o istituzioni) d’imposta che, avrebbero lo scopo esternato di combattere l’evasione”, ma invece hanno quello praticato, di far pagare di più quelli che non evadono (i soliti). Risultato esternato che è peraltro poco (o punto) raggiunto . Facciamo un esempio. L’IVA, l’imposta che ha il maggior gettito dopo l’IRPEF, fu istituita nel 1972 e vige dal 1973; l’aliquota ordinaria nel 1973 era del 12%. Nel tempo tale aliquota ha avuto 9 variazioni: 7 al rialzo (ne dubitavate?) e 2 al ribasso. Con gli ultimi rialzi dei governi Berlusconi (sul piede di partenza) e Letta siamo arrivati al 22%.

Ossia l’aliquota è quasi raddoppiata. A che è servito il (quasi) costante rialzo? Sicuramente ad aumentare la predazione dei contribuenti i quali pagano per ogni cessione di beni e servizi soggetti all’aliquota ordinaria (quasi tutti) il 10% in più a Pantalone (obiettivo colto ma occultato). Quanto al fine esternato il calcolo è più difficile, per il carattere presuntivo e/o parziale dei dati. Comunque da dati (relativamente) affidabili si sostiene che dal 1980 al 2009 l’evasione dell’IVA è calata dal 20% al 14%; valutazioni diffuse alla CGIA di Mestre danno un’evasione stimata (totale, cioè di tutte le imposte e contributi) di circa euro 100 miliardi l’anno dal 2010 al 2015 (relativamente stabile) e per l’IVA, nello stesso periodo di circa 35 miliardi annui. I due aumenti, nello stesso periodo 2010-2015 che l’avevano portata dal 20% al 22% non sembra abbiano inciso affatto sull’evasione.

D’altra parte è noto come le sciagure – come la pandemia – stimolino l’appetito fiscale dei governanti. Amilcare Puviani scriveva che “il sopraggiungere di sventure pubbliche, il minacciare di pericoli nazionali e perfino l’esagerazione o addirittura l’invenzione di quelle o di questi, danno luogo ad attenuazioni degli effetti penosi immediati di imposte, opportunamente collegate a quegli eventi”; ghiotta occasione, quindi, per aumentarle. Pertanto è difficile per il governo PD-M5S resistere alla tentazione, specie per il PD ch’è abituato a cedervi.

Piuttosto è interessante notare come, da quasi cinquant’anni, tale argomento-principe per tosare i cittadini sia un asserto così poco ragionevole e smentito dai fatti.

Gli è che “pagare meno, pagare tutti” è affermazione che ha una qualche base: è vero ad esempio che un’imposta spalmata su un maggior numero di contribuenti, incide meno pro-capite. Se si aggiunge a ciò la proporzionalità dell’imposizione, il carico appare equamente ripartito, Ma se, come avviene (ed avveniva) spesso, non incide (di fatto o di diritto) su tutti e/o non lo fa proporzionalmente, indubbiamente la situazione si deteriora. Al punto che l’esenzione (totale o parziale) della nobiltà e del clero da molti oneri tributari fu una delle cause, forse la principale, della rivoluzione francese.

Scriveva Salvemini che nell’ancien régime le imposte “fuggivano quelli che avrebbero potuto pagare e si abbattevano su chi non era in grado di difendersi”. Possedendo gli ordini privilegiati circa un terzo delle terre francesi (in un paese agricolo!) la conseguenza era che i restanti due terzi dovevano soddisfare quasi integralmente i bisogni crescenti dell’amministrazione statale. Se l’affermazione è vera e si fonda su una semplice divisione da scuola elementare (il dividendo è il fabbisogno delle finanze pubbliche, il divisore il numero dei contribuenti, il quoziente il carico fiscale pro-capite) altri fattori, non puramente quantitativi e forse più determinanti, la condizionano.

Il primo dei quali è l’aumento del dividendo: se il carico fiscale aumenta, il quoziente è sempre più gravoso, anche se equamente ripartito. Altro è dividere un carico fiscale che, nell’Italia di un secolo fa, si aggirava intorno al 20% del PIL, altro oggi, che è oltre il 40%. Anche se equo è comunque troppo.

Il secondo è la destinazione del prelevato: se va a favore di certi ceti o classi, la disuguaglianza, cacciata dal prelievo, si riproduce nella spesa. Tutti pagano in modo uguale, ma alcuni ricevono disegualmente (i tax-consommers).

Il terzo, che il vertice impositore è un complesso politico-amministrativo che, come tutte le classi dirigenti, vive non solo per la politica, ma altrettanto di politica, come scriveva Max Weber. E quindi si appropria di parte della ricchezza prelevata. Quando peraltro la classe dirigente gode di poca considerazione, ha un consenso minoritario e un’autorità (non il potere, autorità) prossima allo zero, come quella italiana attuale, il problema è grave. E diventa gravissimo in un’epoca in cui il risultato economico (in termini di crescita del benessere individuale e collettivo) è decisivo. I governanti attuali, e quasi tutti i precedenti, hanno aumentato il prelievo e non hanno ottenuto altro che una venticinquennale stagnazione, la peggiore d’Europa. E tralasciamo altri rilevanti aspetti del “quadro” complessivo per esigenze di “redazione”.

Perciò è razionalmente superficiale e quindi poco o nulla “comprendente” ridurre a un solo aspetto, forse neppure il principale (ancorché importante) il complesso rapporto tra esigenze pubbliche e giustizia, autorità e consenso, doveri e diritti.

A furia di ripetere il ritornello suddetto, ormai da quasi mezzo secolo e dopo tali penosi risultati significa quindi solo contare sul presupposto che tutti gli italiani siano (detto in politicamente corretto) “diversamente intelligenti”.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

uomini piccoli in momenti tragici. Una conversazione con il professor Augusto Sinagra

I momenti drammatici mettono in luce inevitabilmente i pregi e i difetti di un paese. La crisi epidemica e la paralisi economica hanno evidenziato l’abnegazione di tanti cittadini, ma soprattutto la mediocrità del ceto politico e di gran parte della classe dirigente, la precarietà degli assetti istituzionali. L’emergere di alcune figure politiche e di un buon numero di validi professionisti non riesce a compensare la sensazione di inadeguatezza. Il fatto di essere in buona compagnia in altre parti del mondo non è motivo di consolazione. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Peculiarità, di Antonio de Martini

m’aggio accattat’ a jurnata

Ieri ho liquidato in maniera scortese un lettore che mi chiedeva di spiegare perché a Napoli il Coronavirus è stato contenuto e nella meglio attrezzata Milano, no.

Succede quando devi rispondere a due/trecento notifiche e messaggi personali in un giorno e sei arrivato a sera.

Ora che é mattina, cerco di spiegare questa differenza tra Milano e Napoli che negli ultimi quattro giorni ha registrato un numero di decessi uguale a zero.

1) i partiti. A Milano le differenze politiche tra sindaco, regione e governo hanno occupato politici e giornalisti che hanno trascurato le esigenze reali.facevano interviste.

A Napoli, un sindaco ( e anche un presidente di regione) battitore libero hanno prestato immediatamente orecchio ai medici, tra i quali lo “ scopritore del vibrione” di cui ora non ricordo il nome.
Gli ordini non sono stati contestati da oppositori preconcetti. La quarantena qui é una tradizione.

2) l’intelligenza critica e vivace dei napoletani abituati ad arrangiarsi e a vedere con garbato scetticismo le “ linee guida” di enti distanti, ha fatto si che ci si industriasse a trovare una cura e non a sperare in un vaccino. La Magna Grecia ha reagito come la Grecia: immediatamente.

3) Napoli e la zona vesuviana hanno la densità di popolazione di Hong Kong o quasi. Il distanziamento e stato attuato semplicemente accentuando di poco le distanze e alcune profilassi erano gia in voga. Mentre la Confindustria ha visto nella Pandemia una occasione per bussare a cassa, la Camorra ha collaborato con le forze dell’ordine perché non poteva sperare in indennizzi.

4)il primo segnale nazionale di lotta contro il virus è venuto dall’ospedale Cutugno con l’uso di farmaci antiartrite. In contrasto con le direttive nazionali e internazionali che bandivano gli antinfiammatori.
Il medico napoletano come curatore del malato e non della malattia.

5) lo spirito ironico e tollerante e la naturale empatia partenopea, il fatalismo esistenziale, hanno certo contribuito più di altre caratteristiche a mantenere forte l’animo e predisporlo psicologicamente a reagire al male. Sia i malati che gli operatori.

6) l’essere resilienti a espellere nonni e genitori dal nucleo familiare ha limitato il numero dei focolai che hanno falcidiato il nord.
E ogni mediocre intelligenza medica ha capito che i malati « infettivi » non andavano mischiati con gli altri.

7) Sole e Mare hanno certamente aiutato a sintetizzare la vitamina D di cui tutti i morenti sono risultati carenti.

8.) Nel Napoletano famiglia e amici precedono il lavoro nelle priorità dell’individuo.
Il motto partenopeo é « m’aggio accattato a jurnata » : ho di che sfamare la famiglia per oggi; smetto e mi dedico ai miei affetti e hobbies o al riposo. Fiducia nella provvidenza e sistema immunitario al meglio.

Per capire appieno quel che vorrei esprimere, ma sento di non riuscirvi appieno, consiglio di leggere le pagine dedicate a Napoli da Goethe nel suo viaggio in Italia.

Lui scriveva meglio di me e non era intontito da 36 notti di galera.

Insomma, i napoletani sopravvivono, perché hanno capito i valori veri dell’esistenza e per definire il lavoro hanno un termine spettacolare: a fatica.

Ditemi voi perché dovrebbero morire anzitempo. Non é questione di razza superiore caro Giacomo Crasti , ma di sapere mettere al posto giusto affetti, lavoro, amori e ambizione, perché la vita ama chi la ama.

CORONAVIRUS ED ECCEZIONE III, di Teodoro Klitsche de la Grange

CORONAVIRUS ED ECCEZIONE III

Continuano le perplessità su effetti e conseguenze istituzionali del Coronavirus. Specie in relazione, (dato che grazie – al cielo – il contagio sta calando) alla cosiddetta “fase due”.

Avevo già scritto che mai Carl Schmitt era stato così citato dai media come dall’inizio della pandemia. Anche, per lo più, da intellos che conoscono il giurista per sentito dire o, al massimo, per letture sommarie. E quindi lo intendono male.

Il “nocciolo” del ragionamento schmittiano, condiviso da gran parte dei maestri del diritto pubblico, è che quando è in gioco l’esistenza comunitaria (e la vita), si devono tollerare le compressioni necessarie ai diritti, anche a quelli garantiti dalla Costituzione. Ma vale anche l’inverso: allorché la situazione emergenziale viene meno, devono cessare anche quelle limitazioni; così come queste vanno valutate in relazione non (o meno) alle restrizioni dei diritti (e dei valori) garantiti dalla Costituzione che all’effettiva attitudine (e risultato) a conseguire lo scopo prefissosi: l’eliminazione (o almeno il contenimento) dell’emergenza che le ha rese opportune. Ma non sempre il giudizio è positivo.

Come esempio (negativo) di un’emergenza strumentalizzata ad altri fini, abbiamo la crisi italiana del 2011. Il governo Monti osannato dai media come idoneo al compito di ridurre il debito italiano, proprio su questo conseguì il peggior risultato: in poco più di un anno e mezzo, a prezzo di sacrifici notevoli, riuscì a far aumentare il debito italiano dal 116,50% al 129,00% del P.I.L.

Oltretutto coniugando tale pessimo risultato a un aumento  delle imposte che ha ridotto il tenore di vita degli italiani. Peggio di così…..

Non pensiamo che il governo Conte bis otterrà un risultato simile al governo “tecnico”, non foss’altro perché le epidemie arrivano, crescono e cessano. I proclami di vittoria, soprattutto quelli confezionati dal governo  hanno quindi il limite dell’ovvietà, Più interessante è sapere il quando, il quanto e il come se ne uscirà. Ricorda Manzoni che durante la peste di Milano le autorità presero le prime misure di emergenza circa un mese dopo che le avevano deliberate cioè dopo che “la peste era già entrata in Milano”. Colla loro inerzia accrebbero i danni. Come scriveva Schmitt “conseguire un obiettivo concreto significa intervenire nella concatenazione causale degli accadimenti con mezzi la cui giustezza va misurata sulla loro adeguatezza o meno allo scopo e dipende esclusivamente dai nessi fattuali di questa concatenazione causale… significa infatti il dominio di un modo di procedere interessato unicamente a conseguire un risultato concreto”. E il bilancio – anche dell’adeguatezza dell’azione di governo – sarà possibile solo quando raggiunto il “contagio zero”.

Nello stato d’eccezione la sovranità mostra la propria superiorità rispetto alla norma: è stato Bodin il primo a definirla come summa in cives legibusque soluta potestas: quindi agli albori dell’elaborazione del concetto i connotati qualificanti già ne erano: la preminenza rispetto agli altri poteri (summa) e d’esser svincolata dalla normativa (legibusque soluta). Almeno dalle leggi, cioè dalla normativa posta dal potere e per volontà del medesimo, secondo il noto frammento di Ulpiano. La sfida affrontata dal sovrano nello stato di eccezione non è negare il diritto – e tanto meno l’ordinamento – ma di ri-creare una situazione normale in cui la norma possa tornare a poter essere applicata.

É nell’eccezione (e in modo in certo modo simile nel gouvernment de fait di Hauriou) che l’istituzione politica – cioè lo Stato (moderno) – mostra sia la propria essenza che la superiorità dell’istituzione rispetto alla norma. Dall’impossibilità o anche dall’inutilità di applicare norme in una situazione eccezionale, quindi a-normale, dimostra la necessità e la precedenza istituzionale della “creazione”, da parte dell’autorità, di una situazione in cui la norma possa avere vigore ed efficacia. Come scrive Schmitt  “Il caso di eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica, e l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto”.

E tale “creazione” non ha nulla a che fare con le garanzie dell’ordinamento – nel senso dei diritti individuali – affidate (per lo più) ai Tribunali, e in particolare al livello più alto, alle Corti costituzionali. La riparazione di un diritto trova proprio nel potere giudiziario il più adatto ad assicurarlo.

Ma nella situazione eccezionale il problema è garantire “la situazione come un tutto nella sua totalità”. A esser garantito non è l’interesse e la correlativa pretesa del singolo, ma la concreta applicazione di tutto il diritto attraverso il ripristino della situazione normale.

Ne consegue che è la situazione (eccezionale o normale) a determinare l’opportunità di promulgare, mantenere, far cessare le misure per fronteggiare l’emergenza. Così come è il risultato a determinare se, finita l’emergenza, l’azione delle autorità di governo sia stata congrua, e in che misura. Ora è troppo presto per formulare una valutazione definitiva.

Quanto alla fase due, ancora è da venire, e il giudizio sulla stessa anche.

Capisco la diffidenza di tanti italiani data l’esperienza che altre situazioni emergenziali (o, meglio presunte tali) sono state utilizzate dai governi per l’unico fine di sfruttare i cittadini, senza altro risultato (v. da ultimo quello “tecnico” citato) che realizzare il contrario dello scopo esternato. Ma ora è troppo presto per dare un giudizio: non lo è per avere fondati sospetti.

Teodoro Klitsche de la Grange

Istituzioni e sovranità! La funzione dell’Esercito Italiano. Ne discutiamo con il Generale Marco Bertolini

Da troppi decenni l’Esercito Italiano fatica a godere di quella considerazione indispensabile a garantire nel migliore dei modi l’esercizio della sovranità nazionale, la cura degli interessi nazionali stessi e la costruzione di una identità e coesione più solida del popolo italiano. Sempre presente nelle ricorrenti situazioni di emergenza interna al paese e costantemente impegnato in numerosi teatri operativi internazionali, questi ultimi a volte giustificati dalla presenza di interessi nazionali, a volte trascinato da strategie estranee, spesso viene relegato al riconoscimento di una funzione ausiliaria. Un atteggiamento che inibisce il peso politico di una istituzione fondamentale nella costruzione di una coesione nazionale lungi dall’essere ancora compiuta. La crisi dell’ideologia globalista sta riproponendo nella giusta dimensione il ruolo degli stati nazionali e la affermazione delle prerogative loro proprie. Le classi dirigenti italiane non sembrano ancora consapevoli delle implicazioni di questo cambio di paradigma. Ne discutiamo con il Generale Marco Bertolini_Giuseppe Germinario

*Il Generale di Corpo d’Armata (ris.), Marco Bertolini, è nato a Parma il 21 giugno 1953. Figlio di Vittorio, reduce della battaglia di El Alamein, dal 1972 al 1976, Marco Bertolini ha frequentato l’Accademia Militare di Modena e la Scuola di Applicazione d’Arma di Torino. Nel 1976, con il grado di Tenente, è stato assegnato al il IX Battaglione d’Assalto Paracadutisti Col Moschin – una delle unità di elite delle Forze Armate italiane – del quale, per ben due volte (dal 1991 al 1993 e dal 1997 al 1998), è stato comandante.

Già comandante, dal 1999 al 2001, del Centro Addestramento Paracadutismo, dal 2002 al 2004 è stato posto al comando della Brigata Paracadutisti Folgore per poi assumere il comando interforze per le Operazioni delle Forze Speciali (COFS) e, successivamente, quello del Comando Operativo di vertice Interforze (COI). Dal luglio del 2016 Marco Bertolini ha cessato il suo servizio attivo nelle Forze Armate. Attualmente è Presidente dell’Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia.

L’intervista ha preso spunto dall’articolo apparso sul sito www.ordinefuturo.it , link https://www.ordinefuturo.it/2020/04/14/considerazioni-in-tema-di-forze-armate/?fbclid=IwAR1-mMCh4_OTj74yS8-gPHsw7oYi9qHcsfmTY3iVCmX_dpwd0N9CbGnDYcY , a sua volta ripreso dal nostro sito il 15 aprile scorso

EMERGENZA E REGIME, di Vincenzo Cucinotta

Il discorso di Conte ha a parer mio tolto ogni residuo dubbio sulla portata delle decisioni che il sopraggiungere della COVID-19 comporterà nella struttura decisionale delle società e nell’ambito delle libertà individuali.

Gli stolti che purtroppo abbondano, guardano nel frattempo al dito, cioè al sacrificio dei settori produttivi pretendendo che sia questo il centro della questione. In questa descrizione caricaturale delle scelte che si vanno definendo oggi sulla base dell’infuriare degli effetti della pandemia, l’alternativa starebbe tra la sacra difesa della salute delle persone e gli interessi produttivistici dei capitalisti.

A partire da questa cecità problematica da combattere come è problematico descrivere un colore a un cieco, non v’è evidenza che basta. Costoro non sentono ragioni, se tu parli contro le misure di isolamento, sei un nemico della loro incolumità e contemporaneamente un alleato degli Agnelli e della loro avidità predatoria. La descrizione dei fatti è così rozza che seppure facilmente confutabile su un piano logico, diventa non scalfibile su un piano emotivo, tutto ciò che riduce l’isolamento è nemico della mia vita, e posta così la questione, diventa impossibile far cambiare opinione.

Dall’inizio dello scoppio di questa pandemia, mi sono sempre dichiarato contrario alle misure di isolamento non perchè non capisca come l’esposizione a questo agente infettivo possa risultare pericolosa, ma valutando l’alternativa, perchè alla fine dobbiamo comprendere se un’alternativa c’è e quale sia.

Credo che da questo punto di vista, come dicevo, il discorso di ieri sera di Conte sia illuminante.

A parte la questione della UE che ho affrontato separatamente, vengono in evidenza due aspetti.

L’uno è l’istituzione di una task force, espressione inglese che permette di mantenere una certa ambiguità sulle sue caratteristiche e compiti e quindi preferita a un suo analogo in italiano, formata dai fatidici tecnici dei quali a quanto pare non ci libereremo più almeno da Monti in poi.

Cosa non va in questa questione della task force? Non certo che il governo acquisisca pareri tecnici da competenti, potremmo perfino tollerare che si tratti di un organismo  collegiale che pure già modifica il senso della sua funzione, ma la cosa ben più grave, è costituita dal fatto che venga pubblicizzato, svolgendo così una funzione indipendente. Conte avrebbe potuto benissimo dotarsi di un comitato di persone che godono della sua personale fiducia, sarebbe stata cosa saggia, ma se dichiara urbi et orbi la sua costituzione, allora conferisce a questo organismo una sua autonomia. Non si tratterà quindi di un comitato interno che comunica soltanto in via più o meno riservata con il governo, ma diventa una specie di secondo governo. In questo senso, si viene ad alterare il delicato equilibrio istituzionale previsto dalla carta costituzionale, e come in queste settimane vediamo Borrelli andare in TV a tenere la quotidiana conferenza stampa, ci dovremo domani aspettare di vedere il sig.Colao al quale nessuno di noi ha delegato alcun potere colloquiare con noi, ovvero prendere decisioni su di noi. Purtroppo, abbiamo evidenze dello scarso spirito democratico esistente nel nostro paese come osservato ampiamente nel caso del governo Monti che ha ricevuto un’amplissima fiducia perfino dallo stesso Berlusconi all’uopo defenestrato, e il cammino irresistibile della modifica costituzionale con l’obbligo di pareggio di bilancio che è stata approvata in pieno clima bulgaro, e i Bulgari non se l’abbiano a male.

Stavolta, stiamo messi ancora peggio, non c’è alcuna procedura costituzionale che presieda alla costituzione di questa task force che ci dovrà dettare i nuovi termini di convivenza sociale, determinare quindi la nostra vita senza che si capisca in che senso siamo ancora in democrazia.

Il secondo aspetto è quello che vado dicendo da parecchie settimane, e cioè che le misure anti-coronavirus sono in linea di principio permanenti (e li stabilisce un Colao qualsiasi).

Riassumendo, noi stiamo cambiando la natura stessa del sistema politico della nostra patria e i connessi diritti individuali garantiti senza porre scadenze e conferendo poteri non meglio definiti a organismi improvvisati che Conte ha deciso di costituire con un meccanismo di composizione del tutto opaco, così che siamo autorizzati a credere che questi novelli sacerdoti gli siano stati segnalati per telefono da suoi sodali.

Ma per i nostri stolti, se non ci facciamo togliere le garanzie costituzionali, se non assecondiamo questa nuova ed anticostituzionale struttura dei poteri decisionali, siamo soltanto dei nemici della salute del popolo e al servizio dei capitalisti.

A questa descrizione rozza e fantasiosa delle questioni che abbiamo di fronte, e che derivano da motivi ideologici che è difficile far riconoscere agli interessati, non abbiamo da opporre né giornali, né TV, né il nostro numero, lottiamo usando le mani come chi non può fare altrimenti e sa che è l’ultima barriera prima che si costituisca un regime orwelliano, e lo faremo anche scontandone l’esito negativo perchè non sapremmo che fare altrimenti, difendere almeno la lucidità mentale magari per le generazioni che ci succederanno.

http://www.governo.it/it/articolo/conferenza-stampa-del-presidente-conte/14450

CORONAVIRUS ED ECCEZIONE II, di Teodoro Klitsche de la Grange

CORONAVIRUS ED ECCEZIONE II

È inutile ripetere quanto già scritto (v. Coronavirus ed eccezione) su questo sito che le crisi sono spesso generatrici di cambiamenti decisivi; e questi quasi sempre – nascono da situazioni di emergenza. È l’eccezione e non la situazione normale l’acceleratore della storia.

Tocqueville, a proposito della rivoluzione francese scriveva che questa aveva compiuto bruscamente “con uno sforzo convulso e doloroso, …quanto si sarebbe compiuto a poco a poco, da se e in molto tempo”. La rivoluzione realizzò in pochi anni, e a prezzo di immensi dolori, quanto si sarebbe comunque realizzato. Perché iscritto nelle tendenze della storia, e in buona parte avviato dalla monarchia assoluta.

Certo tra crisi e cambiamenti la relazione non è simmetrica, nel senso che ogni crisi genera un cambiamento, ma è vero, come sopra cennato, che tutti (o quasi) i cambiamenti reali seguono una crisi,

E questa tendenza – quasi una regolarità – è sempre stata nella consapevolezza del pensiero politico giuridico, da Polibio a Machiavelli, da Spinoza ad Hauriou, da Santi Romano a Carl Schmitt. Proprio Machiavelli in un celebre capitolo del Principe (il XXV) ne da una spiegazione/descrizione nel rapporto tra fortuna e virtù.

Il segretario fiorentino ricorda che molti sostengono l’“opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino rimedio alcuno” tuttavia dato che gli uomini hanno il libero arbitrio, possono fronteggiare (l’avversa) fortuna con la virtù: e la fortuna “sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam ce ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi”: ma proprio in Italia la situazione della penisola era dovuta alla mancanza nei governanti di “conveniente virtù” che invece non mancava in Francia, Spagna e Germania.

Ed è la fortuna – cioè la situazione critica che per così dire, “a dettare l’agenda”: per fronteggiarla il principe deve adattare “el modo del procedere suo con la qualità dei tempi”. Talvolta occorre essere decisi (ipotesi che Machiavelli ritiene maggiormente idonea) ma talaltra prudenti. É l’idoneità dei mezzi apprestati a conseguire lo scopo, data la situazione, a determinarne la validità.

Quando nei Discorsi passa da un discorso politico alla conseguenza politico-istituzionale (in un regime repubblicano) individua il rimedio nell’istituto della dittatura romana, la quale serve a fronteggiare la situazione emergenziale (“gli accidenti istraordinari”), e  a tal fine, rompere gli ordini (cioè prendere misure straordinarie in deroga alle leggi, valevoli per una situazione normale).

Nel corso della storia, in particolare in quella moderna, il rapporto “paritario” (o quasi) sostenuto da Machiavelli tra fortuna e virtù è stato spesso spensieratamente sostituito dalla fede nel progresso umano (non solo tecnico-scientifico, ma anche politico e “morale”) il quale farebbe si che l’esistenza della comunità potrebbe scorrere su un binario tranquillo, fino alla stazione d’arrivo. Anzi quella stazione sarebbe stata già raggiunta una trentina di anni orsono, con il crollo del comunismo e “la fine della storia” (Fukuyama docet). È chiaro che secondo i più (sprovveduti) seguaci di tale concezione, di misure d’eccezione non c’è bisogno, perché il controllo umano sul mondo attraverso la tecnica e quello sulla stessa natura umana con il “pensiero unico” è tale da allontanare qualsiasi situazione eccezionale. In primis la guerra che di tante crisi è stata quella più considerata. Ma, accanto a quella, meno drammatiche, ma assai più frequenti, ci sono crisi indotte dagli eventi naturali (terremoti, inondazioni, pestilenze, carestie). Anche se le emergenze provocate da eventi naturali, per lo più, non producono effetti politici e storici epocali, non è mancato il contrario. Secondo gli storici il crollo della talassocrazia minoica fu dovuto al maremoto causato dall’esplosione del vulcano di Santorini; la fine delle civiltà precolombiane alle epidemie dovute alle malattie diffuse dai primi marinai spagnoli sbarcati in America, e che facilitarono grandemente il compito dei conquistadores.

Ancor più possono pertanto produrre mutamenti non di civiltà, ma sicuramente di (costumi) legislazione e di forma politica. Se le misure eccezionali riescono a dominare la situazione (a batterla e urtarla scriveva Machiavelli con un paragone che probabilmente dispiace alle femministe) tornano, dopo la crisi, gli ordini normali; ma, talvolta è la crisi, anche dovuta ad eventi naturali, a portare cambiamenti, fino alle innovazioni di forma politica.

Credere il contrario, che la storia sia direzionale nel senso di un progresso lineare, cioè l’inverso dell’andamento ciclico familiare al pensiero politico e giuridico è quindi, in primo luogo, contraddetto dalla storia.

Peraltro lo stesso Fukuyama  “correggendo il tiro” del suo famoso saggio limitava (nel libro che ne seguì) la fine della storia alle forme politiche; e nell’opera stessa attribuiva la concezione direzionale della storia a due fattori, uno dei quali è la conquista tecnico-scientifica della natura. Ma se, per così dire, tale conquista non è ancora (totalmente) avvenuta, succede che la natura riprenda il proprio ruolo, peraltro solo parzialmente intaccato dalla scienza e dalla tecnica. Ed occorre costituire “ripari ed argini” (anche) nell’organizzazione dei poteri pubblici.

Perché, contrariamente ai corifei del progresso (ecc. ecc.) la natura (deus sive natura, scriveva Spinoza) torna sempre a bussare. Come cantava Orazio, natura expelles furca tamen usque recurret.

Teodoro Klitsche de la Grange

GUERRINI SOL CONTRO TOSCANA TUTTA, di Antonio de Martini

GUERRINI SOL CONTRO TOSCANA TUTTA

Dopo la lettera dei tre generali ( altri due che non usano internet hanno solidarizzato, non sollecitati,in privato );
il ministro della Difesa Guerini ha rilasciato una imbarazzata dichiarazione in TV sull’apporto delle FFAA alla crisi epidemica elencando i trasporti funebri fatti, l’assistenza ecc.

Si è dilungato senza fornire numeri ( ad esempio per l’alluvione di Firenze furono usati 16.000 uomini agli ordini del comandante della Regione tosco-emiliana) ma non ha affrontato
Il cuore della polemica.

Se lo facesse diventerebbe il più popolare della compagine governativa in 48 ore.

L ’Esercito dovrebbe intervenire come corpo organico e in fase di pianificazione ed esecuzione delle attività, acquisti inclusi. Usare un muscolo senza cervello e nervi non è naturale.

In Israele che ha novemila contagiati e ad onta dello Stato di allarme permanente, l’esercito ha destinato un battaglione al completo.

Vuole un esempio minimo?
Se dei militari fossero andato a prendere le mascherine bloccate nella Rep Ceca, i doganieri ci avrebbero pensato due volte prima di bloccare la merce.
Di ottanta e passa medici morti , forse qualcuno si sarebbe salvato.

Il sospetto della totalità degli italiani – diventato certezza dopo la farsa delle mascherine- è che l’Esercito non venga coinvolto per poter lucrare su ogni passaggio delle operazioni di soccorso, ad ogni passaggio e decisione logistico-amministrativa e che anche l’assistenza caritatevole venga affidata a organismi non neutri che usano poi tornare a chiedere sostegno elettorale.
L’Esercito è la Patria vivente di tutti.

Sono certo, inoltre, che buona parte dei sospetti con cui sono visti i COVID bond potrebbero sparire se annunziassimo ai partner UE che sono anche alleati NATO. e hanno visto battersi i nostri soldati in Bosnia e Afganistan, che l’intera operazione verrà affidata allo stato Maggiore e al corpo della sanità militare, francesi, tedeschi e olandesi ( dichiarati responsabili della strage di Srebrenica ) avrebbero difficoltà a negare la collaborazione.

Caro Guerrini,
sarebbe una occasione anche per lei di mostrare che ha senso dello stato in quantità insolita in un governo di principianti e pesi piuma.
E salverebbe, oltre alla sua carriera, centinaia di vite utili per la ripresa.

RICEVO DAL GENERALE ALBERTO ZIGNANI – GIÀ SEGRETARIO GENERALE DELLA DIFESA – CHE LO APPROVA IN TOTO, IL DOCUMENTO STILATO DA DUE GENERALI SUL TEMA DEL COVID.
Riporto testualmente l’amara considerazione scritta dal Gen. Fernando Termentini insieme al Gen. Montagna, che condivido in toto.

Sta partendo una ulteriore task force dell’Ospedale Militare del Celio di Roma per Alzano Lombardo come se a Roma non ci siano o non ci saranno, nel prossimo futuro, problemi dovuti all’epidemia di COVID-19!

Mettiamo a disposizione uomini mezzi e materiali dopo che ci hanno deriso ed anemizzati.

Mettiamo a disposizione posti letto dopo che ci hanno tolto caserme ed ospedali militari che funzionavano bene con reparti infettivi sempre “pronti” (poiché era una “ossessione” di noi militari!!!!), ospedali come: Padova, Verona, Torino, Udine, Milano, Bari, Napoli, Palermo, etc accusandoci di essere “fuori dal tempo”, di essere dei “pessimisti” che epidemie, terremoti, alluvioni, cataclismi etc erano solo negli “incubi” di noi militari e che usavamo lo spauracchio di questi cataclismi solo per questioni di budget!

Così hanno deciso di smantellare una perfetta e ben rodata organizzazione di Difesa Civile con a Capo Prefetti e Vigili del Fuoco, che potevano contare sul concorso delle FF.AA. , preferendo costituire una nuova organizzazione elargendo centinaia e centinaia di milioni di euro alla”protezione civile” ma, chissà perché, quando ci sono EMERGENZE vere e non simulate e non esercitazioni “vasetto” tipo teatrino dove tutti si dicono “quanto siamo belli, quanto siamo bravi” ……. chiamano la Protezione Civile?

NOOOOOOOOOO

Chiamano lo Stato Maggiore della Difesa che in 24 ore fa partire team medici, unità sanitarie, ospedali da campo, ingegneri e altri tecnici e fa sgomberare caserme per dare posti letto, senza “sbattere i pugni sul tavolo”!

Prima ci hanno smantellato e continuano a farlo ma quando ci sono le VERE EMERGENZE… spariscono tutti i funzionari (da 10.000€ al mese) della Protezione Civile, tutte le “associazioni di volontariato” e le tanto decantate ONG sovvenzionate dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, etc etc e tutti all’unisono (gli stessi che hanno contribuito e contribuiscono a smantellare le Forze Armate) urlano in preda al panico: “QUI CI VUOLE L’ESERCITO!”.

I TOPI SCAPPANO QUANDO LA NAVE AFFONDA.

Il generale della Guardia di finanza Carta lascia la direzione dei servizi segreti ( AISE) per assumere la presidenza di Leonardo ( ex Finmeccanica) facendo scoprire quali sono i veri interessi .l suoi e di chi lo protegge.

Un tempo , nemmeno troppo lontano era il capo dei servizi segreti a indicare chi avrebbe diretto Finmeccanica.

Conte ci metterà probabilmente l’ex capo della polizia che tanto gli piaceva e che non voleva mandare in pensione.

Come in ogni regime poliziesco che si rispetti i posti chiave vanno a esponenti della polizia ( De Gennaro -ENI; Carta -Leonardo; Pansa all’AISE ?)

Anche gli ultimi due segretari generali del PCUS erano ex capi del KGB.
Non è bastato a impedire il naufragio.

Quale futuro, dopo il Covid-19, di Angelo Perrone

 

Quale futuro, dopo il Covid-19

 

Nessun’altra epidemia ha mostrato le caratteristiche invasive e globali del Covid-19: abitudini stravolte, mente impaurita, smarrite antiche certezze. Una fase, pur gravissima, ma di passaggio, verso un futuro ancora da immaginare. Da dove ripartire? Là dove ci eravamo fermati: scuola e sanità, lavoro, infrastrutture, giustizia, istituzioni. Mettendo a frutto la lezione di umiltà e impegno civile che il presente suggerisce. Il cambiamento epocale non riguarderà i problemi da affrontare ma il modo di risolverli

 

di Angelo Perrone *

 

Non si parla che di coronavirus. E come fare diversamente?, verrebbe da domandarsi. C’è apprensione, sgomento, paura del futuro. Ci scambiamo telefonate e messaggi in cui ci chiediamo, a volte trattenendo il fiato: “come stai?, tutto bene?” Temiamo una risposta negativa, ma, poi, cerchiamo anche di darci così un po’ di conforto. Con stati d’animo alterni, apriamo il giornale, guardiamo la tv, vediamo dipanarsi giornate, che non sono più come prima.

 

Un susseguirsi di notizie, in Italia, Europa, nel mondo. Per lo più tragiche: i morti, i contagiati. Leggiamo che non c’è più posto nelle camere mortuarie, molti vengono caricati sui camion militari in cerca di un luogo dove essere cremati e trovare sepoltura. Senza parenti, perché non si può fare il funerale. Se ne vanno ad uno ad uno i ragazzini che erano su quell’altra trincea, nel ‘18. Ancora lenta la curva che indica la diminuzione dei contagi. Solo piccole incrinature nella lotta al virus: studi, sperimentazioni, prove sul campo, rese affannose dal tempo che manca.

 

Tabelle, diagrammi, e tante dissertazioni. Più o meno scientifiche, talvolta digressioni inutili, ripetizioni. L’insidia onnipresente della faciloneria in tante dichiarazioni. L’insopportabile uso delle polemiche per tornaconto politico. Come vanno realmente le cose e quando ne usciremo? Come sarà l’esistenza domani? Non riescono a dircelo né i decreti del governo né le statistiche degli scienziati. Nessuno lo sa, l’incertezza spaventa e allarma ancora di più, rendendo il futuro incerto.

 

Il sovvertimento delle abitudini ha già introdotto un cambiamento non solo negli stili di vita, ma nella mente. I riti di cui era fatta la giornata, non importa se piacevoli o stressanti, erano a modo loro tranquillizzanti. Creavano un routine, un ordine, uno spartito. Ci troviamo oggi spiazzati dalla mancanza di riferimenti. Dobbiamo costruircene di nuovi, in fretta. Ne siamo capaci?

 

Quello che abbiamo sotto gli occhi è che, in un tempo così breve, si è consumato un dramma: sono già migliaia i morti per il virus, la maggior parte tra i più deboli, anziani o gravemente malati. Se ne sta andando una generazione. 70 sono i medici, alcuni richiamati in servizio dalla pensione, che hanno già lasciato la pelle mentre provavano a salvare quella degli altri. Non è l’unico dato che tocchiamo con mano. Molte famiglie già non ce la fanno ad andare avanti. Sono milioni le domande di sussidio all’Inps. Nelle strade di alcune città sono apparse ceste ricolme di alimenti. “Chi ha bisogno prenda, chi può lasci”. Un soccorso spontaneo, alla buona.

 

Non c’è attività che non debba fare i conti con lui, il virus. Impossibile prescinderne. Che ne è del nostro lavoro, della scuola per i figli, oppure del divertimento o dello sport? Al tempo del coronavirus, nulla è più come prima, tutto è rimandato, perso, annullato, almeno modificato in peggio. Senza termini o scadenze prevedibili che indichino la via di uscita.

 

Proviamo a divagare quando ci sembra di soffocare, è naturale, ma si ritorna sempre lì. Molti musei o teatri, tanto per dire, sono accessibili gratuitamente da parte di chiunque, e così si possono vedere capolavori, ascoltare musiche, assistere a spettacoli senza spendere un cent. Una bella notizia in sé. Senonché, accade, bisogna dirlo?, perché questi luoghi sono chiusi al pubblico per il virus, e allora, al posto delle visite, sono stati creati tour virtuali. E così tante altre cose. Che il virus rende difficili o esclude. Come far prendere una boccata d’aria ai bambini chiusi in casa? Come curare malattie croniche o ottenere dei ricoveri, se gli ospedali sono impegnati con il virus? E se a prendere il Covid-19 sono donne in gravidanza?

 

Ci siamo dimenticati d’un botto quello che accadeva ieri? Ci siamo fatti trascinare altrove dalla musica assordante suonata sui balconi, dal silenzio fascinoso e stordente delle città vuote? Se fosse accaduto, saremmo entrati in una bolla d’aria. Lontani dalla realtà, non immersi in essa sino al collo come sta avvenendo. Impossibile trascurare tutto quello che prima animava le nostre discussioni. Sono problemi che pesano sempre sull’esistenza.

 

Alla svelta. L’Ilva: il dramma della salute in un’intera città, è sempre in stallo, come quello del futuro della siderurgia. Continua l’enorme spreco di denaro pubblico nelle casse di Alitalia, senza un piano industriale. La fuga all’estero dei giovani è ancora una perdita secca per il paese. La qualità della politica e il prestigio dei suoi rappresentati rimangono un problema irrisolto, dopo la crisi dei partiti, la svalutazione delle formazioni intermedie, il discredito della competenza e della professionalità.

 

Confrontarsi con il passato è utile, anzi necessario. A che punto eravamo quando è scoppiato tutto questo sconquasso? Cosa abbiamo lasciato in sospeso, o deve essere abbandonato? Proprio da lì si deve partire per capire cosa si deve cambiare oggi. Come eravamo e come saremo. Voltarsi indietro serve ad andare avanti.

 

Però, la bussola imprescindibile per orientarci è il presente, cioè l’esperienza che facciamo oggi di noi stessi, la valutazione dei problemi, la stima delle possibilità. E’ sempre problematico confrontare le epoche e le situazioni. Stabilire quale sia più gravida di conseguenze. Quali sfide siano complicate. Difficile equiparare il presente al passato. O indugiare a chiedersi, proprio ora, con il virus in casa, non sulla porta, perché non si parli d’altro. O se sia appropriato il linguaggio fatto di parole come guerra, battaglia, nemico, che evoca altri scenari. Non è il momento, non è il caso.

 

Ma poi è davvero così? Non si parla d’altro che di una malattia? Il Covid-19 ci ha messo a nudo nel profondo. Ha mostrato le nostre fragilità, la permeabilità dei confini da parte del male, la globalità mortale della sfida. Ma ha anche stimolato la nostra capacità di reazione. La necessità di solidarietà.  Un problema di tutti e per ciascuno. Questo virus ci fa da specchio, in pieno, rispetto alle scelte di vita, ai problemi da risolvere. All’esistenza intera in questo momento storico.

 

Il confronto con il passato nasconde l’insidia di una semplificazione involontaria e controproducente. Il nuovo è l’eterna ripetizione del già visto? Altri problemi, ma non più gravi di quelli del passato, rimasti irrisolti. Si rischia, mettendo il nuovo al posto del vecchio, di mistificare semplicemente la realtà? Come dire: mentre tutto cambia, tutto rimane com’era. Spostiamo l’attenzione altrove, ne rimaniamo invischiati, e cadiamo così in un inganno?

 

Il nuovo non ci proietta in una dimensione alienante se non lo vogliamo. La storia non si ripete uguale, e non è priva di senso: la precarietà della vita, l’insicurezza, la difficoltà di realizzazione personale attraversano tutte le epoche, ma in forme diverse. Necessariamente differenti sono e devono essere le risposte. Si rischia altrimenti di non apprezzare ciascun tempo in ciò che gli è proprio ed esclusivo. Di valutarne le esatte caratteristiche, difetti, ma anche aperture.

 

Non dobbiamo aver paura di fronte al nuovo che avanza e che, qualche volta, ci apporta anche del buono. Ci sono già abbastanza ragioni per essere perplessi. Chissà se riusciremo davvero a venirne fuori, a recuperare il tempo perso, a sanare tante falle: nella sanità, nella scuola, nella giustizia, nel lavoro, nelle istituzioni. E chissà quando potremo uscirne con dei risultati. Tuttavia, non dobbiamo temere di immergerci nel presente, di comprenderlo, di analizzarne i caratteri. Anche per evidenziarne limiti e negatività. Pericoli. Potrebbe accaderci, se lo facciamo, di scoprire qualcosa di noi stessi, che ci possa tornare utile nel futuro. Come stiamo reagendo alle difficoltà, come stiamo giocando la nostra vita?

 

La disciplina, la solidarietà, la capacità di fare rinunce, la percezione del bene comune: forse sono tutte cose che potremmo mettere da parte, nel bagaglio individuale e collettivo, quando si tratterà di ricominciare, facendole fruttare domani. Perché allora non aggiungere un ultimo elemento, piccolo forse, ma non di poco conto? E’ il senso di commozione che ci accompagna in questi giorni di forzato isolamento e di brutte notizie, in cui cerchiamo di coltivare un po’ di speranza e fiducia. Abbiamo bisogno di tornare a emozionarci per una causa. Dietro la suggestione per le canzoni suonate sui balconi, lo sventolio di bandiere, le immagini dei luoghi famosi d’Italia avvolti dal silenzio e i camici bianchi negli ospedali, c’è solo questo: la sincerità, forse un po’ ingenua ma autentica, dei sentimenti, che chiedono di essere liberati.

 

* Giurista, si occupa di diritto penale, politica della giustizia e delle istituzioni. Dirige Pagine letterarie, rivista online di cultura, arte, fotografia.

 

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