Considerazioni interessanti di Vincenzo Costa. Provo a puntualizzare ulteriormente, dal mio punto di vista alcuni aspetti, riservandomi in futuro considerazioni più organiche:
il conflitto politico interno agli Stati Uniti attraversa ormai tutti i poteri, compreso il sistema giudiziario. MAGA, in questi ultimi anni, ha prestato particolare attenzione alla elezione dei procuratori, alla stessa stregua, questa volta, di Soros e delle confraternite di segno opposto. Si può dire che ci sia ormai una élite e una classe dirigente, non ancora del tutto formata, alternativa in aperta competizione e sempre più radicata negli apparati
il peso attribuito ai privati non ha valore sistemico, ma serve a destrutturare radicalmente gli attuali apparati per costruirne di nuovi. Le tesi di un ritorno ad una società neofeudale, come dello strapotere dei poteri finanziari fine a se stessi, secondo me, sono del tutto fuorvianti, specie se si tiene conto di cosa sia stata la società feudale e del fatto che il sistema feudale vero e proprio copriva solo una parte della società europea. Gli Stati Uniti, del resto, con il sistema delle agenzie (DARPA, ect) ha messo in piedi sin dalle origini, ma soprattutto con F.D. Roosevelt, un particolare sistema simbiotico ed intercambiabile pubblico/privato.
A guidare la destrutturazione non è solo la componente tecno-imprenditoriale, ma anche una componente conservatrice particolarmente attiva che, tra l’altro, sta cercando di costruire una sintesi politico-culturale con quella tecno-progressista. Dal successo di questo tentativo dipenderà la coerenza e la forza strategica e ideologica di questo movimento. L’enfasi che si tende ad attribuire alla gestione privata del potere e dell’informazione e al nesso che si determinerebbe con i processi autoritari in atto è del tutto fuorviante e travisante della situazione attuale negli USA. Intanto, in linea di principio ciò che determina gli spazi di libertà di azione e comunicazione sono le regolamentazioni dei comportamenti degli attori, siano essi privati o pubblici, il rispetto fattuale di queste; nei fatti contano il carattere competitivo delle relazioni tra i centri poliarchici e il rapporto di questi con la base popolare. Nelle fasi di destrutturazione questi spazi di libertà, solitamente, tendono ad aprirsi parallelamente agli atti proditori in attesa di una fase di restaurazione tutta da verificare. Gli Stati Uniti stanno vivendo, ormai da anni, questa fase dinamica di conflitto. L’enfasi sull’attuale carattere oligarchico ed oppressivo delle élites emergenti sono travisanti e fuorvianti.
Continuare ad individuare, come certa area tende ad insistere imperterrita, nei centri finanziari il deus ex machina del potere elude la dialettica ben più complessa del conflitto politico e spinge a concentrare l’attenzione ostile sul corollario della corruzione e sul carattere parassitario di questi centri (tra i tanti, Carnelos), piuttosto che sulla funzione proattiva dei flussi finanziari nella gestione del potere e nella determinazione delle formazioni sociali. Con la conseguenza che si tende ad omettere da una parte l’articolazione interna di funzioni di questi centri e la loro dipendenza dal quadro politico, caratteristica per altro presente in tutti i competitori geopolitici; dall’altra si tende ad attribuire ad essi il carattere di tesaurizzatori e parassitario. Quanto questa tesi sia fuorviante c’è lo ha spiegato chiaramente Marx, pur con tutti i suoi limiti, con la sua teoria del plusvalore e della realizzazione e redistribuzione del profitto.
Trump, per perseguire i suoi obbiettivi interni di Grande America e di coesione sociale, ha bisogno di una competizione non belligerante e di una sorta di regolazione più o meno tacita del conflitto e della transizione con le forze multipolari emergenti; di una significativa riduzione pilotata della sovraestensione imperialistica piuttosto che imperiale (anche questo, secondo me, termine sempre più usato a sproposito) e di modalità diverse di esercizio del potere egemonico e di influenza anche nello stesso suo “giardino di casa”
Di sicuro dovrà correre sul filo del rasoio. Un suo fallimento rischia di portare ad una frammentazione anarchica il conflitto politico interno dalle conseguenze imprevedibili.
Di sicuro, la tentazione prevalente, per altro assente nello scritto di V. Costa, di accomunare il movimento di Trump alla cerchia di potere uscente, spesso attribuendogli un carattere peggiorativo, serve solo a giustificare la postura testimoniale del magma “sovranista”, ad aggrapparsi a stereotipi inadeguati e surclassati e ad ignorare gli enormi spazi di azione politica che si potrebbero aprire.
A titolo di esempio:
il tema dei dazi, piuttosto che ad una condanna e recriminazione, dovrebbe spingere a riproporre, anche nei paesi europei e in Italia in particolare il tema ricorrente, sin dal dopoguerra, dello sviluppo industriale equilibrato più fondato sulla domanda interna, di uno sviluppo diversificato delle esportazioni, di un controllo dei flussi finanziari e delle partecipazioni azionarie, di utilizzo interno del risparmio nazionale
l’epurazione di USAID e dintorni dovrebbe servire per fare pulizia all’interno dei propri paesi e a riprendere il controllo delle proprie leve istituzionali e degli apparati
Il riflesso oppositore pavloviano, al contrario, nel migliore dei casi si rivelerebbe sterile, nel peggiore, e già qualche inquietante segnale è purtroppo visibile in Italia, come in Francia e Germania, porterà a ridursi a semplice ruota di scorta del movimento reazionario, finto-progressista, che mantiene in Europa i filamenti più striduli ed organizzati ma che allignano negli Stati Uniti i detentori ultimi delle trame. Basterebbe poco, qui in Europa, a cominciare dalla cessazione del conflitto in Ucraina, per far pendere le sorti del conflitto politico negli Stati Uniti. Quel poco, però, fatica ad emergere. Più che accanirsi su Trump e spingerlo, quindi, a compattarsi con i neocon o al suicidio, ci si dovrebbe concentrare sui corifei guerrafondai ben radicati in Europa, presenti nei comandi NATO, negli apparati e nel ceto politico nostrano i quali sono ben consapevoli di essere i primi a morire, in caso di collasso delle politiche globaliste.
Negli Stati Uniti vige ormai una sorta di stato di eccezione; qui in Europa occorrerebbe qualcosa di analogo che tarda a venire; se pure si avrà.
Post lungo e di studio. Lo ho scritto per cercare di chiarirmi le idee, nulla di più
L’approccio ai cambiamenti in corso è, per lo più, morale. Alle analisi si sono sostituite le indignazioni. Di per sé questo gioco è innocuo, non produce niente e non porta danni. E tuttavia, può divenire un impedimento a capire quello che sta accadendo, bloccando sul nascere qualsiasi tentativo di interrogarsi sui mutamenti in corso. Farlo significa esporsi all’accusa di putinismo prima, ora di putin-trumpismo. Non resta che ignorare questa fascia e tentare di capire.
1. Perché Trump è una necessità per gli USA
1. Trump è una differente risposta a un medesimo problema: la perdita di competitività dell’industria americana, di potere militare, di egemonia. In un’intervista importante Robert Lighthizer, colui che guida da decenni le linee del commercio estero dei governi repubblicani, ha chiarito che la Cina è una “minaccia esistenziale” per gli USA, perché ha il più grande esercito del mondo e lo sta rafforzando, la più grande marina militare del mondo e la sta rafforzando, “sta portando avanti e vincendo una guerra economica contro gli USA”
2. Gli stati uniti devono agire ora, in fretta, perché hanno perso la superiorità militare, tecnologica, industriale, e il tempo è poco e lavora per coloro che minacciano la supremazia: Lighthizer sostiene, giustamente, che con questo regime di libero scambio si trasferisce una quantità enorme di ricchezza alla Cina e, con essa, di tecnologia avanzata. Questo, dice, è insano.
3. Gli USA non possono più sostenere i costi delle rivoluzioni colorate, perché quel modo di ottenere la supremazia implica costi enormi, ed è per questo che Musk sta svuotando molte istituzioni, che Trump maltratta alleati fedeli come l’Arabia saudita, l’Europa, il Canada.
QUEL MODO DI MANTENERE LA SUPREMAZIA NON Può DURARE SUL LUNGO PERIODO, è autolesionista perché gli USA diventano sempre più deboli.
4. Il debito pubblico è fuori controllo, e l’economia americana si regge solo sul ruolo del dollaro, che però produce, di ritorno, deindustrializzazione. Ma ora, per molte ragioni e a causa dei molti errori dei democratici, gli investitori iniziano a ritirarsi, si inizia a parlare di dedollarizzazione.
Anche se la dedollarizzazione non è dietro l’angolo, tuttavia si usano sempre più monete locali negli scambi e la guerra in Ucraina è stata un acceleratore. Ma se il dollaro perde potere questo debito pubblico produrrà il collasso. Di qui l’urgenza di agire su vari piani: i tagli, la riduzione dell’apparato burocratico, le minacce verso i paesi esteri.
5. Di qui la sfida di Trump: fare di nuovo degli USA una potenza industriale, con la quale non conviene entrare in conflitto commerciale, che deve essere pagata per garantire sicurezza, che deve attrarre talenti per la tecnologia e non manovalanza a basso prezzo.
6. Il protezionismo, spiega Lighthizer, non è un’opzione: è una questione di sopravvivenza. Senza protezionismo il declino sarà rapidissimo. Significa trasferire ricchezza e potere altrove.
7. Del resto, già Biden aveva messo dazi del 100% sulle auto elettriche cinesi, aveva dato contributi statale importanti a Stellantis per riportare la produzione negli Usa. Gli Stati uniti hanno avuto un’emorragia enorme di posti di lavoro.
8. Se il sostegno degli americani a Trump è crescente, se neanche nel corso del primo mandato era stato così alto, le ragioni vanno cercate qui, non nella personalità autoritaria, l’identificazione con il leader, la psicologia delle masse.
9. Le cose correranno in fretta. I grandi oligarchi hanno scelto Trump perché le condizioni lo impongono
2. I RISCHI DELLA SCOMMESSA TRUMPIANA
Quella di Trump è una scommessa ad alto rischio, e sarà gestita pragmaticamente. Al di là delle sparate, Trump sarà pragmatico, è pragmatico: se una strada non funziona la cambia. Ma in ogni caso vi sono dei rischi, delle contraddizioni interne a questo progetto. Quali?
1. La società americana sta passando dalla polarizzazione al conflitto aperto.
Basta seguire i notiziari di CBS e CNN da un lato e FOX dall’altro per vivere in due mondi diversi. CBS presenta la chiusura di USAID come la chiusura di un’agenzia che curava i poveri bambini della Nigeria, che portava da mangiare agli affamati.
C’è da credere che gli elettori democratici non sappiano davvero niente delle porcherie che faceva USAID. Al contrario, FOX accentua il verminaio che era USAID, soprattutto attirando l’attenzione sugli sprechi, sui regali.
Due mondi, due americhe, bisognerà vedere se e quanto a lungo potranno convivere. Non è detto che possano farlo, non se lo scontro si acutizza ancora. I sistemi democratici hanno dei limiti nella capacità di tollerare il conflitto.
2. La chiesa cattolica americana (e forse la chiesa cattolica in se) va verso la spaccatura. L’uso del vangelo in chiave politica ha spaccato in due i cattolici, la commistione tra fede e politica ha frantumato il comune senso di appartenenza. I cattolici di Trump e quelli che si richiamano alla Pelosi o alla Ocasio-Cortez non appartengono già ora alla stessa comunità religiosa. C’è una bomba ad orologeria piazzata nella chiesa cattolica americana. Se non si è cauti esplode. Le conseguenze possono essere devastanti, e non solo per la chiesa cattolica.
3. Si è approfondita la spaccatura tra popolo e intellettuali negli USA, e si è sviluppata a un nuovo livello: adesso il popolo non è un movimento romantico antitecnologico, ma si riconosce nelle punte avanzate della tecnologia. Questa è una cosa del tutto nuovo rispetto ai movimenti populisti classici degli stati uniti.
4. Il concorrente per gli usa non è la Russia, ma la Cina e l’Europa. La Russia può, anzi, essere un ottimo partner, forse un partner indispensabile per gli USA e nella competizione globale.
5. L’artico non necessariamente deve portare a un conflitto con la Russia. Se guardate la cartina si capisce in fretta che l’Artico può essere diviso o condiviso con la Russia, escludendo altri paesi (in particolare l’Europa). E può esserlo con alcune modifiche territoriali. Groenlandia e Canada diventano strategiche per giungere a questa divisione che esclude. Il loro spostamento non intacca la Russia, traccia due sfere di influenza. Trump sta puntando a un multipolarismo che si struttura attorno a pochi poli dominanti, perché in questo modo vince. La divisione in sfere di influenze con la Russia non rappresenta una minaccia per gli USA, poiché la Russia comunque non è un competitore economico terribile.
6. Con la Russia non c’è affinità ideologica (autocrazia e oligarchia) come si vuole credere. Semplicemente, la Russia è decisiva per gli Stati Uniti nella lotta geopolitica, contro gli avversari veri, che sono Europa e Cina.
7. L’amministrazione Biden ha complicato tutto. È riuscita a distruggere l’economia europea, questo sì, ma ha fatto l’errore di portare a un legame strategico tra Russia e Cina. La scommessa di Trump è rimettere a posto questo errore, avere la Russia come alleato, strapparla alla Cina. Operazione difficile, ovviamente, oramai.
8. La questione ucraina va vista in chiave sistemica non morale. Il resto è solo fumo, che a volte segnala l’arrosto ma a volte segnale cose più o meno moralmente riprovevoli ma irrilevanti dal punto di vista sistemico.
9. Trump non sta smantellando lo Stato, Trump non è più dell’ordine del neoliberalismo, per cui ogni discorso sul neoliberalismo è superato dalla storia. Trump sta creando un nuovo modello, inedito: STA PRIVATIZZANDO LO STATO, sta dando e darà sempre più a privati la gestione di funzioni che restano comunque statali.
10. È la fine della modernità. La modernità era stata, tra tante cose, un processo attraverso cui lo Stato (il sovrano) toglieva ai privati (feudatari etc.) potere, lo erodeva, e in questo modo si è affermato un processo di razionalizzazione che implicava un processo di burocratizzazione. Ora il processo si inverte: i privati si appropriano di funzioni statale (la sicurezza per esempio). Non si tratta più di lasciare libero il mercato. I privati non rivendicano la libertà del mercato. Siamo di fronte a qualcosa di totalmente diverso. I privati si prendono lo stato, che resta Stato e non mercato.
11. La divisione dei poteri non è che sta saltando: è già saltata. I democratici usano e puntano sul potere della magistratura per fermare le politiche di Trump. Inevitabile che il conflitto sia destinato ad acuirsi
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Sull’edizione settimanale del “Die Zeit” troviamo le interviste a tutti i leader di partito sul tema geopolitico: “Come si fa a rendere sicura la Germania” …
06.02.2025
Non c’è quasi nessun altro settore politico in cui si debbano prendere simultaneamente decisioni così importanti e difficili come la sicurezza interna ed esterna. ZEIT ha quindi condotto interviste con i principali candidati di tutti i partiti rappresentati nel Bundestag e ha posto loro le stesse domande: (per proseguire la lettura cliccare su: Die Zeit (06.02.2025).5
Sull’edizione settimanale del “Die Zeit” troviamo le interviste a tutti i leader di partito sul tema geopolitico: “Come si fa a rendere sicura la Germania” …
06.02.2025
Non c’è quasi nessun altro settore politico in cui si debbano prendere simultaneamente decisioni così importanti e difficili come la sicurezza interna ed esterna. ZEIT ha quindi condotto interviste con i principali candidati di tutti i partiti rappresentati nel Bundestag e ha posto loro le stesse domande:
Come potrebbe essere una pace giusta in Ucraina?
L’America è ancora nostra amica?
E se vostro figlio dovesse andare in guerra per difendere la Germania?
Se le risposte non erano chiare, i nostri intervistatori le hanno approfondite.
Come si fa a rendere sicura la Germania?
Christian Lindner (FPD): “Difenderei il mio Paese”
Le domande sono state poste da Alice Bota e Paul Middelhoff
Signor Lindner, qual è secondo lei la più grande minaccia per la politica estera e di sicurezza della Germania?
La Russia di Putin è la risposta più ovvia. Ma vedo anche la nostra sicurezza fondamentalmente minacciata dal fatto che la coesione della nostra alleanza transatlantica potrebbe diventare fragile e il multilateralismo è in ritirata. Dobbiamo quindi rispondere alla mutata situazione di minaccia rafforzando le nostre capacità per proseguire la lettura cliccare su:Die Zeit (06.02.2025).6
Sull’edizione settimanale del “Die Zeit” troviamo le interviste a tutti i leader di partito sul tema geopolitico: “Come si fa a rendere sicura la Germania” …
06.02.2025
Non c’è quasi nessun altro settore politico in cui si debbano prendere simultaneamente decisioni così importanti e difficili come la sicurezza interna ed esterna. ZEIT ha quindi condotto interviste con i principali candidati di tutti i partiti rappresentati nel Bundestag e ha posto loro le stesse domande:
Come potrebbe essere una pace giusta in Ucraina?
L’America è ancora nostra amica?
E se vostro figlio dovesse andare in guerra per difendere la Germania?
Se le risposte non erano chiare, i nostri intervistatori le hanno approfondite.
Come si fa a rendere sicura la Germania?
Jan van Aken (Die Linke): „No, non siamo in guerra”
Le domande sono state poste da Peter Dausend e Mark Schieritz
Signor van Aken, qual è secondo lei la più grande minaccia per la politica estera e di sicurezza della Germania?
Nelle varie autocrazie del mondo. Non equiparo Donald Trump a Vladimir Putin, ma lui e le sue politiche rappresentano una sfida importante. Le sue politiche colpiranno l’Europa con forza. Dobbiamo essere preparati al fatto che il nostro rapporto con gli Stati Uniti sarà completamente diverso con un Presidente Trump autocratico. per proseguire la lettura cliccare su: Die Zeit (06.02.2025).7
Famosa come pochi politici dell’opposizione, controversa per decenni come pochi: l’ex icona della sinistra Sahra Wagenknecht si presenta per la prima volta alle elezioni del Bundestag con il suo movimento BSW. Ma da settimane è in crisi. BILD am Sonntag l’ha incontrata per un’intervista.
09.02.2025
Si fida di Putin, signora Wagenknecht?
La leader del BSW sulla sua posizione favorevole al Cremlino, sulla debolezza del suo nuovo partito e sul proprio futuro
di PETER TIEDE E HANS-JÖRG VEHLEWALD
BILD: Il vostro BSW è attualmente a volte al di sotto, a volte appena al di sopra della soglia del 5%, mentre all’apice eravate al 10%.Cosa sta andando storto?
SAHRA WAGENKNECHT: Siamo un partito che esiste solo da un anno. In questa campagna elettorale abbiamo avuto la sensazione che gli altri partiti ci stiano combattendo con ogni mezzo a loro disposizione, così come i media vicini a questi partiti. E credo che per un partito così giovane il 5,5% non sia un cattivo risultato. per proseguire la lettura cliccare su: Bild am Sonntag (09.02.2025)
Cronaca di un’inaugurazione a Görlitz (Sassonia, sul confine polacco), presente il Cancelliere Scholz: la vecchia fabbrica di vagoni ferroviari, orgoglio cittadino, è ora riconvertita a produzione militare. L’articolo riporta il dilemma di cittadini e politici, alle prese con la difesa dell’occupazione e opposte visioni di pace e di guerra, mentre è in corso la campagna elettorale… alla fine, Scholz si fa fotografare con i rappresentanti dell’industria davanti a un carro armato, che si trova di fronte agli scheletri dei vagoni …
09.02.2025
Il fronte trasversale di Putin
La pace non compare quasi mai in campagna elettorale. L’AfD, il BSW e la sinistra vogliono cambiare questa situazione insieme
Cronache di campagna elettorale “spicciola” che il giornale riporta da vari Land della Germania; oggi da una circoscrizione dell’Assia, storicamente socialdemocratica. La crisi della Volkswagen dello scorso anno ha scatenato incertezza e timori di declino; non tutti votano per l’AfD, ma “la croce indefettibile per la SPD” è diventata più rara, dice un sindacalista. Chi ha votato SPD per tutta la vita, ha dei dubbi. Forse voterà per il giovane candidato locale. Questa volta, però, non perché è nell’SPD, ma nonostante lo sia.
10.02.2025
Difesa di una roccaforte
La SPD ha vinto tutte le elezioni federali nel distretto di Schwalm-Eder, nel nord dell’Assia. Questa volta lotta contro la crisi, l’AfD e Olaf Scholz per proseguire la lettura cliccare su: Frankfurter Allgemeine (10.02.2025)
In questa intervista, lo storico Heinrich Winkler, che è un membro della SPD, propone di “sostituire il diritto d’asilo soggettivo con il diritto d’asilo istituzionale”. In quest’ottica, lo storico elogia il progetto di “legge sulla limitazione dell’afflusso” presentato dal candidato cancelliere dell’Unione Friedrich Merz (CDU), per impedire gli ingressi non autorizzati e la migrazione per asilo. “Ci sono molti elementi che fanno pensare che una simile politica di asilo toglierebbe il vento alle vele dell’AfD”.
10.02.2025
Inasprire il diritto d’asilo
Il socialdemocratico Winkler sostiene Merz. Molti elementi suggeriscono che una politica di asilo di questo tipo toglierebbe il vento alle vele dell’AfD.
Lo storico Heinrich August Winkler si è espresso a favore dell’abolizione del diritto di asilo individuale in Germania. “In effetti, non si può negare che gli stranieri entrati illegalmente nel Paese debbano invocare il diritto d’asilo solo per ottenere uno status di residenza temporanea, spesso indefinita, nella Repubblica federale, anche se non possono chiedere asilo politico”, scrive Winkler in un articolo per ‘Der Spiegel’. per proseguire la lettura cliccare su: Tagesspiegel (10.02.2025)
I sondaggi elettorali aggiornati non portano variazioni. Handelsblatt li pubblica, analizza le possibili coalizioni e ne spiega la probabilità. Molti considerano una nuova grande coalizione come lo scenario più probabile. Tuttavia, le richieste del candidato cancelliere della CDU/CSU Friedrich Merz di una politica migratoria più severa potrebbero rendere più difficile la formazione di una coalizione.
10.02.2025
Formazione del governo
Sono ipotizzabili coalizioni per un governo federale
I nuovi sondaggi per le elezioni del Bundestag hanno portato poco movimento. La formazione di una coalizione sarà comunque difficile. Quali sono le opzioni sul tavolo. per proseguire la lettura cliccare su: Handelsblatt (10.02.2025)
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La sabbia sotto il tappeto delle sabbie mobili libiche
Il generale libico Njeem Osama Elmasry, noto come Al-Masri, 66 anni e zero curriculum accademico, è l’ultimo protagonista di una polemica che ha più speculazioni che fatti. Alcuni media e politici accusano il governo italiano di aver liberato un torturatore e stupratore a Tripoli – non in Libia, perché il Paese è diviso peggio di una pizza a spicchi.
E qui arriva il vero condimento geopolitico: la faccenda si inserisce nello scontro tra il governo della Tripolitania, appoggiato dall’Occidente, e le forze di Khalifa Haftar, sostenuto da Egitto, Russia e Francia. E proprio il sostegno francese a Haftar non è un caso isolato. Dopo la sonora batosta subita nel Sahel – con la perdita di influenza in Mali, Burkina Faso e Niger – Parigi cerca disperatamente di riguadagnare terreno geopolitico. La Libia rappresenta una nuova scacchiera dove la Francia può tentare di ricostruire la propria immagine da potenza regionale. Lo stesso copione si è visto in Siria, dove i Mirage francesi hanno cercato di ritagliarsi un ruolo in un conflitto ormai saturo di attori internazionali. Insomma, dopo aver perso pezzi nel suo ex “cortile di casa”, la Francia cerca di rientrare dalla finestra della geopolitica nordafricana.
Roma, nel suo ennesimo equilibrismo politico, cerca di tenere il piede in due scarpe: da un lato, il governo Meloni strizza l’occhio a Trump con un “Guarda, sono stata brava?”, dall’altro gestisce una Libia frammentata, sperando di non far arrabbiare troppo nessuno.
E la sinistra? Ah, la sinistra dei porti aperti e dei diritti civili riscoperti! Improvvisamente si dimentica che fu proprio con Minniti e i governi Gentiloni e Letta che si gettarono le basi per questa situazione, stipulando accordi con la Libia per fermare i flussi migratori. Quelle stesse intese che ora si sono ritorte contro, esponendo tutta l’ipocrisia di chi predica accoglienza e poi, sotto sotto, firma per esternalizzare il problema oltre il Mediterraneo. La “sinistra dei diritti” fu una delle prime a nascondere la sabbia sotto il tappeto, dimenticando che quel tappeto poggiava sulle sabbie mobili libiche.
E la Libia… ah, la Libia! Tanto cara ai cuori nostalgici della destra sociale, i profeti dell’Agro Pontino, quelli che predicavano strade e opere in Cirenaica come se fossero missioni civilizzatrici. Ma non è che oggi i paladini del nazionalismo si siano dimenticati quanto costa un impero coloniale fallito? La stessa destra che ora grida allo scandalo per l’immigrazione, dimentica che i guai libici sono figli anche di quella retorica da “italiani brava gente” esportata a forza oltre il Mediterraneo.
E poi c’è lui, Matteo Salvini. L’uomo che passerà alla storia… o meglio, sarà schiacciato dalla stessa storia come da un monolite, carico di tutte le maledizioni lanciate da chi ha perso la patente per una canna fumaria tre settimane prima. Salvini, che nella sua lungimiranza politica è riuscito nell’impresa di essere utilizzato dai progressisti delle ZTL. Sì, quegli stessi che, per lavarsi la coscienza del paradosso migratorio che loro stessi hanno contribuito a creare, hanno usato il Capitano come parafulmine.
Perché non dimentichiamolo: sono stati proprio loro, i progressisti di salotto, a impostare e alimentare il sistema che ha reso l’Italia il campo profughi d’Europa, mentre svendevano la nostra sovranità monetaria. Grazie Prodi! Grazie Andreatta! Chi non vorrebbe una moneta privatizzata, eliminando pure la garanzia aurea? Insomma, l’Italia non è solo vittima dei suoi politici, ma anche dei suoi economisti illuminati che hanno pensato bene di trasformare la lira in un ricordo da collezione e l’euro in una gabbia dorata.
E come se non bastasse, da quando è arrivato l’ordine dal ministero della Propaganda globalista internazionale, non c’è talk show che non inizi con la stessa filastrocca: torturatore, oppressore, stupratore di bambini, gattini e, per completare il quadro, tifoso della Juve. Potrei sovrapporre tutti questi video uno sopra l’altro, creando un canto gregoriano della disinformazione che risuonerebbe come un’eco infinita.
Detto questo, beato chi è ancora dentro l’incantesimo, chi annuisce soddisfatto davanti all’ennesimo video di Saviano from attico West Side, o chi ridacchia pensando di aver capito tutto leggendo gli editoriali di Cappellini e Gramellini-ini-ini. Ma attenzione: non sto scherzando. Quando la magia finisce, oltre a restare molto più soli, si ride sì… ma di un riso amaro, quello che ti lascia più domande che risposte e ti fa chiedere come diavolo ci sei finito dentro in primo luogo.
Ma torniamo ad Al-Masri. In Libia, non lo conosce quasi nessuno. La stampa italiana lo dipinge come il cugino cattivo di Gheddafi, ma nella realtà libica è poco più che una comparsa nella lotta di potere tripolina. Secondo Libya Observer e The Libya Herald, Al-Masri è visto come un burocrate di medio livello, uno dei tanti ingranaggi del sistema carcerario libico, non certo il grande burattinaio delle atrocità. Ma qui da noi fa comodo trasformarlo nel simbolo del male, un capro espiatorio perfetto per giustificare giochi che con i diritti umani non hanno nulla a che fare.
In Italia, questa polemica è l’ennesima recita di uno scontro che ormai ha perso ogni dignità. Non si tratta di una battaglia sui diritti, ma di una guerra fredda tra il governo e la magistratura, con “Magistratura Democratica” a guidare il fronte giudiziario e l’opposizione politica (Schlein e soci) a cavalcare la polemica. L’indipendenza della magistratura? Un paravento. Qui si parla di lotta di potere, di sceneggiate per mantenere il controllo mediatico e politico, con personaggi che sembrano usciti da un brutto romanzo distopico.
E mentre questi attori in cerca d’autore si contendono il palcoscenico, la verità si perde tra le righe. Nemmeno Philip K. Dick avrebbe immaginato un cast tanto surreale: politici che fingono di difendere i diritti mentre nascondono le loro responsabilità, giudici che si ergono a paladini della giustizia ma giocano partite di potere, e governi che oscillano tra convenienza interna e compromessi geopolitici.
Al-Masri è a capo della polizia giudiziaria di Tripoli. Fine. Oltre la Tripolitania, il suo potere evapora. In Cirenaica e Fezzan non lo conoscono nemmeno. Certo, la Corte Penale Internazionale (CPI) ha emesso un mandato di arresto per crimini di guerra e violazioni dei diritti umani, ma solo dopo che il nostro “generale” ha gironzolato in Europa per dieci giorni. Che efficienza, la giustizia internazionale!
Dirige l’Istituto per la Riforma e la Riabilitazione (che nome rassicurante, eh?), una rete di centri di detenzione gestiti dalle Forze di Difesa Speciali sotto il governo filo-occidentale di Abdul Hamid Mohammed Dbeibah. Traduzione: è il capo delle carceri tripoline, e il governo di Tripoli – coccolato dall’Occidente – è ben consapevole delle sue attività.
Le testimonianze? Migranti intercettati e spediti in capannoni infernali, trasformati in merce per un mercato della sofferenza: torture a scopo di estorsione, aste di schiavi dove la gioventù, la bellezza e la forza fisica determinano il prezzo. Donne e adolescenti finiscono venduti nei Paesi della Penisola araba, come se fossimo tornati al Medioevo. Neonati nati e cresciuti in questi centri, bambini non accompagnati: una filiera della disperazione gestita da professionisti della crudeltà come Al-Masri.
Eppure, la CPI interviene solo ora, con lo stesso entusiasmo con cui ha emesso mandati contro personaggi come Netanyahu (21 novembre 2024), Yoav Gallant e Mohammad Deif, o Putin (17 marzo 2023). E cosa è cambiato? Netanyahu è stato accolto a braccia aperte da Trump, Putin continua a trattare con mezzo mondo. Insomma, la Corte dell’Aja sembra più un organo di giustizia selettiva che un’autorità imparziale.
Quindi, perché tanto clamore per Al-Masri? Forse perché fa comodo. Se il governo italiano avesse tenuto tutto nascosto, sarebbero piovute critiche per la mancanza di trasparenza. Ora che il rimpatrio è stato pubblico, le polemiche non mancano comunque. Tripoli, dal canto suo, non ha alcuna fretta di consegnare Al-Masri alla CPI. La risoluzione 1970 (2011) del Consiglio di Sicurezza dell’ONU dà giurisdizione sui crimini in Libia, ma qui parliamo di Tripolitania. Dettagli che, nel mare magnum della geopolitica, bastano per insabbiare tutto sotto il tappeto.
E l’unica consolazione? Aspettare che Doge faccia il suo corso. Perché, così a occhio, spulciando nei finanziamenti a pioggia degli amici degli amici worldwide del sistemone dell’impero in crisi, magari avremo delle sorprese. Magari scoprendo che la partita è sempre stata truccata. Ma attenzione: l’impero che verrà potrebbe semplicemente cambiare volto. Perché, diciamolo, certe cose sono troppo belle per essere vere e, nella stragrande maggioranza dei casi… beh, poi te ne penti.
Cesare Semovigo
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Gianni Alemanno è in carcere dalla sera del 31 dicembre 2024 pur essendosi volontariamente presentato al Comando dei CC di zona. Era in affidamento in prova per la cui fine mancavano solo 4 mesi. Sembra che abbia diverse volte disatteso gli obblighi dell’affidamento in prova (soprattutto gli orari e gli spostamenti fuori dal Comune di Roma che dovevano essere previamente autorizzati).
Questo è vero ma è altrettanto vero che è inaccettabile, ingiusto e forse anche violativo della legge, il fatto che il Tribunale di Sorveglianza di Roma abbia ritenuto di vanificare il lungo periodo di affidamento in prova già maturato da Gianni Alemanno e abbia disposto la sua permanenza in carcere per ben un anno e mezzo per scontare la pena del fumosissimo e mai chiarito reato di “traffico di influenze” (e cioè banali raccomandazioni).
La vicenda disumana che vede vittima Gianni Alemanno stride in modo eclatante con tutta una serie di provvedimenti giudiziari riscontrabili nella quotidianità.
Alemanno è in carcere per le ragioni dette, mentre rapinatori, accoltellatori e autori di reati gravissimi e nefandi vengono rimessi inopinatamente in libertà quando addirittura neppure viene confermato dalla magistratura il fermo di Polizia Giudiziaria operato per la flagranza del reato.
la Corte di cassazione, come si sa, è venuta meno alla sua funzione nomofilattica tanto che la sua giurisprudenza ricorda la “Rinascente”: ci si trova tutto e il contrario di tutto.
La giurisprudenza dei giudici di merito è quella ora descritta.
Parlare di Stato di diritto o di fiducia in una giustizia uguale per tutti (rapportata ovviamente alla diversità dei reati e alle differenti fattispecie concrete), è cosa ormai del tutto impossibile.
Stato di diritto e “giustizia giusta” sono ormai argomenti da talk show. Argomenti da “bau bau” come direbbe e farebbe la nota Augusta Montaruli.
Sul piano propriamente politico si registra l’assordante silenzio in quel di “Fratelli d’Italia” nei confronti di un vecchio compagno (pardon, camerata) di lunghi anni di comune militanza e di condivisione di idealità e di iniziative.
È peggio di un tradimento. E’ volgare opportunismo che non ha nulla a che fare con le idealità e con la politica intesa in senso alto.
E tutto ciò, a parte la disumanità di tale rumorosissimo silenzio.
Solo l'”Unità”, già organo del PCI, ha pubblicato in prima pagina una schietta denuncia della ingiustizia patita da Gianni Alemanno.
Meditate, gente, meditate.
Augusto Sinagra
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Trump emette un ordine esecutivo che annulla gli “aiuti dei donatori” al Sudafrica e sorprende molti afrikaner dichiarandoli “rifugiati” bisognosi di asilo negli Stati Uniti
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Questo articolo è la continuazione dell’articolo principale pubblicato di recente. Consiglio di leggere prima quello prima di tornare a questo seguito.
Inizierò dicendo che sostengo pienamente il taglio degli “aiuti dei donatori” da parte di Trump a tutti i paesi stranieri. Gli aiuti dei donatori non sono altro che una gigantesca operazione di traffico di influenze usata dai paesi occidentali per avere voce in capitolo negli affari delle nazioni beneficiarie.
Abbiamo chiuso il cerchio con lo sconcertante spettacolo che circonda la mitologia del “genocidio bianco” che aleggia da almeno 8 anni nei media alternativi di destra negli Stati Uniti. Trump ha finalmente agito sulla sua minaccia sui social media e ha firmato un ordine esecutivo ufficiale che ritira lo strumento di traffico di influenze spesso erroneamente definito “aiuto dei donatori”.
Sebbene il ritiro degli “aiuti dei donatori” non avrà un forte impatto sul Sudafrica, con la sua grande, sviluppata e mista economia, l’imposizione di future sanzioni statunitensi al Sudafrica potrebbe effettivamente avere un effetto.
La paura che Trump possa potenzialmente andare oltre la cancellazione degli aiuti dei donatori per imporre tariffe (o un embargo) sulle esportazioni sudafricane verso gli USA è ciò che ha fatto andare nel panico il ministro dell’agricoltura John Steenhuisen. Teme giustamente che tali misure contro le esportazioni sudafricane avrebbero un impatto sproporzionato sul settore agricolo, che include quegli stessi agricoltori bianchi che un Trump altamente disinformato vuole “aiutare”.
A parte i fanatici pro-apartheid in mezzo a loro, molti contadini bianchi sudafricani sono scesi in piazza per denunciare la falsa assurdità dell’ “espropriazione delle terre agricole dei bianchi” perché hanno correttamente capito che qualsiasi potenziale sanzione imposta da Trump alle esportazioni sudafricane decimerebbe il settore agricolo da cui dipendono i loro mezzi di sostentamento.
Screenshot del notiziario di una dichiarazione rilasciata da AgriSA, un’organizzazione che rappresenta migliaia di agricoltori bianchi in Sud Africa
In un certo senso, l’ordine esecutivo di Trump è esilarante per la sua inclusione di tutti i tropi del mito del “genocidio bianco” . Il fatto che Trump abbia firmato un ordine che concede asilo solo agli afrikaner (cioè ai boeri) – escludendo altre etnie bianche – è una testimonianza dell’ignoranza che dilaga negli USA, dove le narrazioni dei media di destra creano l’impressione che i bianchi in Sudafrica siano al 100% contadini e al 100% boeri.
In realtà, i boeri costituiscono il 60% della popolazione bianca. Il restante 40% è composto per lo più da persone di origine britannica, con un piccolo numero di italiani e portoghesi. Gli agricoltori rurali costituiscono una frazione molto piccola della forte popolazione bianca di 4,7 milioni.
Sebbene la stragrande maggioranza degli agricoltori sia sicuramente bianca, esiste un piccolo numero di agricoltori non bianchi (ad esempio i meticci di lingua afrikaans ) che possiedono grandi aziende agricole commerciali e corrono lo stesso rischio di omicidio o rapina per mano di criminali comuni.
Contrariamente allo stereotipo, i contadini rurali bianchi sono una frazione minuscola della popolazione bianca complessiva. La stragrande maggioranza dei bianchi sono abitanti delle città correttamente integrati nella vita politica, economica, sociale e culturale del Sudafrica post-apartheid, dove svolgono la funzione di giudici, avvocati, contabili, ingegneri, politici, ministri del governo, personaggi dei media, attori cinematografici, musicisti, ufficiali di polizia, personale militare, imprenditori, ecc.
Come ho spiegato nel mio precedente articolo , nel paese si stanno verificando alcune tensioni razziali e ingiuste politiche di “azione affermativa” . Ma è palesemente falso che i sudafricani bianchi stiano affrontando la prospettiva di essere sottoposti a pulizia etnica come 14,6 milioni di tedeschi etnici che furono uccisi o espulsiin massadall’Europa orientale da vendicativi cechi, polacchi, sovietici, jugoslavi, rumeni e ungheresi dopo la seconda guerra mondiale.
Tra il 1945 e il 1950, milioni di tedeschi etnici furono espulsi dall’Europa orientale in seguito alla seconda guerra mondiale. L’immagine mostra l’espulsione dei tedeschi dei Sudeti dalla Cecoslovacchia
Molti sudafricani (bianchi e neri) sono sconcertati da quanto sta accadendo con la nuova amministrazione Trump e attribuiscono erroneamente quanto sta accadendo lì esclusivamente alla petizione presentata dal Sudafrica contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia (ICJ), che non deve essere confusa con la Corte penale internazionale (CPI), completamente separata.
Sì, è certo che la potente lobby sionista negli USA ha influenzato Trump perché il suo ordine esecutivo menziona il ruolo “aggressivo” del Sudafrica nel caso della Corte internazionale di giustizia contro Israele, che è designato come “alleato degli USA” .
Tuttavia, limitare il motivo dell’emissione dell’ordine esecutivo all’insoddisfazione di Trump nei confronti del caso del Sudafrica presso la Corte internazionale di giustizia è come sfiorare la superficie di qualcosa di più oscuro.
L’agricoltore Zachariah Olivier (a destra) e i suoi dipendenti, Adrian Rudolph de Wet (al centro) e William Musora (a sinistra), al loro processo in tribunale nel 2024 per l’omicidio di 2 donne nere i cui corpi sono stati dati in pasto ai maiali da fattoria. Sebbene i media mainstream occidentali si riferiscano a Zachariah come “un agricoltore bianco”, in realtà sembra un agricoltore della comunità meticciadi colore. L’unico imputato bianco è il dipendente agricolo diciannovenne, Adrian de Wet
Dal 2017, ho consumato la produzione di media alternativi di destra negli Stati Uniti. Queste pubblicazioni americane di destra intrattengono i loro lettori con storie dell’ondata di criminalità incontrollata che sta travolgendo il Sudafrica, ma non nel contesto appropriato.
Queste pubblicazioni statunitensi non riportano la realtà che i sudafricani di tutte le razze soffrono dell’ondata di criminalità, il che spiega perché le fortune elettorali dell’ANC sono in declino da anni. Gli elettori di tutte le razze sono stufi della corruzione dell’ANC e dell’incapacità di respingere l’ondata di criminalità .
Molti neri della classe media disillusi dall’ANC si sono sempre più rivolti a partiti di opposizione più piccoli, tra cui la Democratic Alliance dominata dai bianchi liberali. Persino il partito conservatore bianco Freedom Front Plus (FFP), nostalgico dell’apartheid, ha visto un piccolo afflusso di membri neri. Un membro nero dell’FFP ha effettivamente vinto le elezioni del consiglio comunale nel 2022.
Centinaia di contadini della provincia sudafricana di Limpopo protestano contro gli attacchi alle loro fattorie da parte di criminali. Un numero significativo di contadini vigilanti è stato perseguito per aver ucciso intrusi neri. Alcuni di questi intrusi erano veri e propri criminali, mentre altri erano poveri spazzini alla ricerca di prodotti agricoli scaduti scartati dai contadini
Invece della realtà sfumata che ho articolato sopra, i media di destra statunitensi si fissano su un piccolo segmento della popolazione bianca: i contadini rurali, in particolare quelli di origine afrikaner. Ogni episodio di omicidio o rapina commesso da criminali comuni contro questi contadini viene grossolanamente travisato a un pubblico americano conservatore come “genocidio bianco sudafricano” in preparazione per “terreni agricoli da confiscare loro”.
Poiché è quasi impossibile per gli americani separare le loro guerre culturali interne dagli eventi che accadono in nazioni straniere lontane, riceviamo diversi articoli sulla stampa di destra che mettono continuamente in guardia i conservatori americani spaventati che se il Partito Democratico di sinistra prendesse il pieno controllo degli USA allora “tutti gli americani bianchi subirebbero il destino genocida dei sudafricani bianchi”. Roba completamente folle, dato che il Partito Democratico degli Stati Uniti è dominato da americani bianchi liberali.
All’interno del movimento MAGA negli Stati Uniti, Darren Beattie è noto per il suo eccellente lavoro giornalistico che ha esposto il coinvolgimento segreto dell’FBI nella rivolta del Campidoglio degli Stati Uniti del 6 gennaio 2021. Tuttavia, quando Darren non indaga sulle malefatte dell’FBI, è impegnato su Twitter a lamentare la fine del regime dell’apartheid in Sudafrica e a spiegare perché gli afroamericani non avrebbero mai dovuto ottenere i loro diritti civili.
Ma da dove prendono i media di destra degli Stati Uniti e i bigotti razziali come l’ex professore della Duke University Darren Beattie le loro informazioni spazzatura sul “genocidio dei bianchi” ? Beh, provengono dall’organizzazione pro-apartheid AfriForum gestita da un propagandista afrikaner di nome Carl Martin Kriel che vive e si muove liberamente in Sudafrica senza che nessuno tenti di strappargli la proprietà privata o di “farlo genocidiare” fino a farlo sparire.
In effetti, si può sostenere che l’ordine esecutivo di Trump sia il culmine di quasi un decennio di manipolazione da parte dell’AfriForum di Carl Kriel dei bianchi americani conservatori sensibili alla razza, inducendoli a pensare che i “compagni bianchi” in Sudafrica stiano per essere “sterminati” . Ma l’inaspettata offerta di asilo di Trump è in realtà un colpo al vero programma dell’AfriForum.
I membri pro-apartheid dell’AfriForum, che non sono affatto oppressi, non vogliono lasciare il loro soleggiato paradiso tropicale africano per diventare rifugiati in difficoltà negli Stati Uniti. Non vogliono lasciare le loro belle case unifamiliari in comunità recintate in aree urbane e le loro grandi ville rurali, servite da un esercito di domestici neri, per andare a sgobbare come rifugiati miserabili in Nord America. Ciò che vogliono davvero è l’inafferrabile Volkstaat .
Vogliono che gli Stati Uniti intervengano con la forza e smembrino il Sudafrica, in modo che possa essere creato un nuovo staterello di apartheid di lingua afrikaans nelle aree attorno alla storica Provincia del Capo , che fu sciolta nel 1994 e divisa in quattro parti per creare nuove province più piccole.
AfriForum ha già un prototipo di ciò che vorrebbe un futuro stato di apartheid razzialmente esclusivo. Carl Kriel e i suoi seguaci guardano a Orania , la città bianca afrikaner quasi razzialmente esclusiva fondata nel 1991 all’interno di quella che oggi è chiamata Provincia del Capo Settentrionale . Il governo provinciale del Capo Settentrionale è controllato dall’ANC mentre l’autorità municipale della città di Orania è gestita esclusivamente dal Freedom Front Plus (FFP) nostalgico dell’apartheid .
Nel 1995, il presidente Nelson Mandela visitò Orania per incontrare Betsie Verwoerd, la vedova novantenne di Hendrik Verwoerd. Il capo dell’apartheid sudafricano assassinato Hendrik Verwoerd (1901-1966) fu il principale architetto del brutalmente repressivo sistema dell’apartheid e l’uomo che imprigionò Mandela nel 1963.
Nello spirito della riconciliazione post-apartheid, i governi successivi dell’ANC hanno rifiutato di interferire con questa enclave quasi razzialmente esclusiva, Orania, che sembra un ritorno ai “bei vecchi tempi dell’apartheid” . Tuttavia, bisogna dire che molti dei suoi residenti bianchi affermano che la città esiste per preservare la cultura afrikaner. Ciò è probabilmente vero, ma i nostalgici dell’apartheid che finanziano AfriForum tendono a vedere Orania, quasi razzialmente esclusiva, come il nucleo di una futura politica di apartheid.
E proprio come la lobby sionista americana che vorrebbe che gli USA combattessero per Israele, i sostenitori dell’AfriForum speravano che un governo statunitense di destra avrebbe combattuto per il loro amato Volkstaat.
Invece, ciò che i nostalgici dell’apartheid hanno ottenuto dall’amministrazione Trump è stata una patetica offerta di “status di rifugiato” che nessun afrikaner che vive in Sudafrica desidera davvero. Non riesco a credere che questi pazzi deliranti pro-apartheid abbiano mai pensato che Trump avrebbe solcato l’oceano blu, viaggiato per migliaia di miglia, per venire e usare il potere americano per smembrare il Sudafrica al fine di creare il loro amato Volkstaat sul suolo africano.
La follia secessionista non è limitata agli afrikaner pro-apartheid di origine olandese (e ugonotta francese), c’è una manciata di sudafricani bianchi di origine britannica che sognano anche loro una sorta di Volkstaat. Tuttavia, a differenza dei nostalgici afrikaner razzialmente esclusivi, i sudafricani bianchi secessionisti di origine britannica sono disposti a considerare l’inclusione di altre minoranze razziali ( indiani sudafricani e meticci ) nella loro versione annacquata del Volkstaat.
Il leader dell’organizzazione secessionista marginale, Referendum Party, il signor Philip Craig, probabilmente non è stato contento dell’assurda offerta di asilo di Trump, che non si applicherebbe a lui, anche se avesse desiderato trasferirsi negli Stati Uniti, in quanto è di discendenza britannica bianca (piuttosto che di discendenza afrikaner come specificato nell’ordine esecutivo).
Come molti dei suoi omologhi secessionisti afrikaner, Phil Craig vuole che gli USA sostengano lo smembramento del Sudafrica per creare un nuovo paese dominato dai bianchi sul territorio della defunta Provincia del Capo. Nel tweet qui sotto, spiega utilmente agli americaniche il nuovo paese proposto fungerebbe da stato cliente per gli USA. Si lamenta anche del fatto che il Sudafrica sia “sotto l’influenza di Russia e Cina (BRICS)”.
Non è senza ragione che il fomentatore Julius Malema accusa ripetutamente i politici bianchi dell’opposizione nel suo paese di essere “strumenti dell’imperialismo occidentale e burattini degli Stati Uniti”.
Sfortunatamente per persone come Phil Craig e Carl Kriel, i giorni in cui il governo degli Stati Uniti schierava il suo arsenale militare per smembrare un paese sono finiti. L’impero degli Stati Uniti è sovraccaricato. Pertanto, nessuno attualmente al potere a Washington DC sta seriamente pensando di portare avanti un’operazione di smembramento in stile Jugoslavia in Sudafrica.
Quando diffondi storie false su un inesistente “genocidio bianco” nella speranza di attrarre la potenza di fuoco degli Stati Uniti alla tua causa secessionista, ciò che ottieni in realtà è che Donald Trump ti offre biglietti aerei per trasferirti negli Stati Uniti e diventare un rifugiato truffatore. E no, non passerai dall’essere un rifugiato truffatore a diventare il prossimo Elon Musk, che vive alla grande con i guadagni provenienti da SpaceX sovvenzionato dal governo degli Stati Uniti .
L’ultima volta che ho controllato alcuni forum dei social media sudafricani, alcune persone segnalavano che AfriForum aveva perso 15.000 membri paganti perché i suoi sforzi avevano aumentato il rischio potenziale che Trump imponesse sanzioni economiche che avrebbero avuto più probabilità di distruggere i mezzi di sostentamento dei contadini bianchi che di colpire i sostenitori dell’ANC.
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POSTSCRIPT: Cari lettori, in futuro, ho intenzione di pubblicare un articolo completo che approfondisca la storia del Sudafrica e fornisca maggiori approfondimenti sullo stato attuale delle cose del paese. Nel frattempo, vi consiglio di leggere il mio precedente articolo che discuteva dello Zimbabwe , se non l’avete già letto.
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Lo studio che qui presentiamo in traduzione automatica italiana si intitola “BEFORE VEGETIUS/ CRITICAL QUESTIONS FOR EUROPEAN DEFENSE”. A Vegezio si attribuisce il celeberrimo detto “Si vis pacem para bellum”. Gli autori sono Andrea Gilli, Mauro Gilli, Niccolò Petrelli, presentati in nota al testo. Lo pubblica lo Institute for European Policymaking della Università Bocconi.
È uno studio accurato, accademicamente serio, che pone molte domande giuste e merita un’attenta lettura.
Particolarmente interessanti sono le domande assenti. Elenco le principali:
Nello studio, “Europa” è sinonimo di Unione Europea (con l’aggiunta implicita della Gran Bretagna, probabilmente). L’Unione Europea non è uno Stato e non lo sarà mai, non ha legittimazione popolare, e riunisce Stati che per collocazione geografica e storia hanno interessi nazionali diversi, a volte contrastanti o confliggenti. Come può “l’Europa”, intesa in questa accezione, designare il nemico, decidere la guerra, chiamare alle armi cittadini che non sono “cittadini europei”?
È possibile parlare di un interesse collettivo “dell’Europa”?
In altri termini: “l’Europa” ha un nemico comune?
Ammesso che esista, questo nemico comune de “l’Europa” è la Federazione russa, come si dà per scontato? Perché? Basta la guerra in Ucraina a provarlo?
È certo che gli interessi degli Stati Uniti e “dell’Europa” coincidano, nel breve e medio periodo?
Chi designa il nemico de “l’Europa?” La Commissione europea? Gli Stati che compongono la UE, all’unanimità? La NATO, all’unanimità? Gli Stati Uniti, in quanto paese guida della NATO e dal secondo dopoguerra garante della sicurezza europea?
In un mondo più pericoloso e instabile, l’Europa deve quindi prepararsi alla guerra per mantenere la pace e la propria sicurezza: come notava Vegezio, si vis pacem para bellum. Tuttavia, l’aumento dei bilanci non è sufficiente se l’UE non affronta le questioni strategiche fondamentali.
Gli appelli all’Europa affinché faccia di più nel settore della difesa sono ormai datati. Finora, il quadro è contrastante. Da un lato, i Paesi europei dispongono di forze armate competenti, in grado di operare efficacemente nella maggior parte delle contingenze e in diverse aree del mondo;
L’industria europea della difesa è avanzata e produce sistemi d’arma di prima classe. Infine, ma soprattutto, i Paesi europei (ad esempio quelli appartenenti all’UE e alla NATO) sono ancora in pace. D’altra parte, le forze armate europee possono generare una potenza di combattimento limitata, poiché le loro forze armate possono essere impiegate solo per un periodo di tempo relativamente breve;
L’industria europea della difesa ha una capacità limitata di aumentare la produzione e, quando si tratta di tecnologie all’avanguardia, fatica a recuperare il ritardo sia rispetto alle imprese capocommessa statunitensi (che beneficiano di budget di approvvigionamento più elevati e costanti) sia rispetto alle start-up che si aprono in nuovi settori emergenti;
Per affrontare questi problemi, i Paesi europei hanno iniziato ad aumentare la spesa per la difesa, portandola a oltre 300 miliardi di euro nel 2024 rispetto ai 180 miliardi di euro di dieci anni fa;
Inoltre, la nuova Commissione europea vuole rompere con il passato: nelle parole di Andrius Kubiliu, il nuovo Commissario europeo per la Difesa e lo Spazio, l’UE dovrebbe abbandonare l’incrementalismo e adottare un approccio “big bang”, il che significa, tra l’altro, mettere a disposizione altri 100 miliardi di euro per l’acquisizione di armi dal bilancio dell’UE, che si aggiungerebbero agli oltre 100 miliardi di euro di spesa combinata per gli acquisti nazionali che i paesi europei dovrebbero raggiungere quest’anno;
Si tratta di sviluppi senza precedenti che difficilmente si sarebbero potuti prevedere qualche anno fa e forse anche qualche mese fa;
Poiché le minacce si moltiplicano, le sfide sorgono e i bilanci crescono, in questo rapporto identifichiamo alcune delle questioni che devono essere affrontate per promuovere una maggiore difesa europea.
Perché più difesa europea? Gli europei devono essere chiari sulle loro priorità politiche, dato che il tempo è poco e le risorse sono scarse.
Perché non c’è ancora più difesa europea? Senza capire perché non si è ancora raggiunta una maggiore difesa europea, il rischio di ripetere gli errori del passato è alto.
Cosa si deve difendere? La politica di difesa consiste nell’identificare gli strumenti militari necessari per raggiungere obiettivi militari ai fini di specifici obiettivi politici. I Paesi europei devono chiarire cosa vogliono difendere per capire quale difesa devono sviluppare;
Che cos’è una difesa più europea? La difesa europea ha molti significati diversi possibili: indica input (risorse), output (strumenti militari) e obiettivi, indica soluzioni istituzionali ma anche meccanismi di governance.
Quanto è sufficiente? Una volta esaminato cosa può significare una maggiore difesa europea e confrontata l’Europa con gli Stati Uniti, la Cina o la Russia, non possiamo ancora dire se la difesa europea sia troppo piccola o troppo grande e, soprattutto, se vada nella direzione giusta o sbagliata. Per capire questo problema, gli obiettivi politici devono essere tradotti in strategie specifiche, posizioni di difesa e strutture di forza. L’obiettivo non è avere una spesa efficiente, ma una difesa efficace: la distruzione che l’Ucraina sta subendo dimostra che i costi della difesa sono sempre inferiori ai costi della guerra.
Quali sono i problemi, le lacune e le carenze? Le politiche di difesa dei Paesi europei, le forze armate e le industrie della difesa soffrono di diversi problemi che, tuttavia, sono il prodotto di specifiche scelte di strategia-postura-struttura. I problemi militari dell’Europa devono essere valutati in questa prospettiva, non in termini astratti;
Quali sono i compromessi, le conseguenze indesiderate e le possibili vulnerabilità? Ogni strategia comporta delle scelte e le scelte hanno delle conseguenze. Poiché la strategia consiste nel complicare i calcoli dell’avversario, i Paesi europei non vogliono solo sviluppare le proprie strategie, ma anche capire come l’avversario sta pianificando e reagendo e quindi quali compromessi, conseguenze indesiderate o vulnerabilità può sfruttare;
Più o diverso, difesa efficiente o efficace? Luminari della tecnologia come Elon Musk chiedono sempre più spesso all’amministrazione entrante di Donald Trump di stravolgere anche la difesa degli Stati Uniti. L’idea è che il modello di SpaceX e Tesla possa essere replicato al Pentagono. È difficile dire se abbiano ragione o torto, ma in ogni caso i Paesi europei dovrebbero prestare attenzione a questi sviluppi, sia perché l’Europa vuole adottare soluzioni efficaci, sia perché, se questi approcci radicali dovessero fallire, gli europei potrebbero trovarsi senza il pieno sostegno militare degli Stati Uniti;
Non abbiamo risposte a tutte le domande o a tutte le loro implicazioni. Tuttavia, abbiamo alcune raccomandazioni:
Il processo di rafforzamento della difesa europea dovrebbe avvenire in dialogo, e non in contrapposizione, con gli Stati Uniti: è nell’interesse di entrambi gli attori, questo approccio la renderebbe più efficace e ridurrebbe in modo significativo sia i costi che i tempi.
Nel corso degli anni, è emersa una divisione funzionale del lavoro tra la NATO (militare) e l’UE (industria e mercati): questa dovrebbe essere sfruttata piuttosto che affrontata.
L’Europa è in ritardo non solo nella difesa, ma anche nell’analisi della difesa: molte delle questioni evidenziate in questo rapporto richiedono studi, giochi di guerra e simulazioni che, tuttavia, relativamente pochi Paesi, forze armate e think tank possono condurre in Europa. Senza affrontare questa lacuna, sarà molto difficile migliorare in modo significativo lo stato della difesa europea;
In particolare, quando i Paesi europei aumentano i loro bilanci per la difesa, una domanda fondamentale è se debbano investire di più nella potenza aerea o navale, nell’artiglieria o nei carri armati. Tradurre i bilanci della difesa in strategie coerenti ed efficaci richiede una valutazione dei punti di forza e delle vulnerabilità relative, delle traiettorie tecnologiche e delle opportunità di innovazione. I Paesi europei non vogliono aumentare i bilanci in modo orizzontale (un po’ in tutti i settori) seguendo una logica politica piuttosto che strategica;
L’Europa è in ritardo anche nell’innovazione. È improbabile che le recenti iniziative dell’UE e della NATO affrontino questo problema. I Paesi europei dovrebbero creare un’organizzazione simile alla DARPA. Tuttavia, questa organizzazione dovrebbe seguire perfettamente il modello statunitense, cioè tenere lontani burocrati e politici e concedere al personale il necessario spazio di manovra per prendere rischi, avviare progetti e sviluppare idee;
Molti vogliono più start-up nel settore della difesa. Tuttavia, senza l’apertura degli appalti della difesa alle aziende non tradizionali, qualsiasi iniziativa è destinata a fallire;
Il livello di spesa per la difesa non è un fattore dell’organizzazione del business della difesa, ma delle sfide strategiche da affrontare.
Nel loro Policy Brief Defense Expenditure in EU Countries, Carlo Cottarelli e Leoluca Virgadamo forniscono un’analisi informativa, basata sui dati e obiettiva della difesa europea, concentrandosi sulle tendenze della spesa militare, sulla frammentazione della domanda e dell’offerta, sulle dipendenze industriali e sui possibili meccanismi istituzionali dell’UE per finanziare la spesa futura per la difesa.
Il rigore e la completezza dell’analisi di Cottarelli e Virgadamo ci permettono di ampliare la loro prospettiva e di ragionare su un aspetto a cui, comprensibilmente, hanno potuto prestare meno attenzione: ossia la strategia;
L’acuta analisi di Cottarelli e Virgadamo fa luce sulle inefficienze e le contraddizioni della spesa europea per la difesa. Tuttavia, non ci permette di stabilire se gli attuali livelli di spesa siano adeguati o meno.
In tutto il loro lavoro, accennano a questo problema, ma non lo affrontano. Ad esempio, notano che “il livello di spesa dei Paesi dell’UE, pur aumentando in rapporto al PIL dal 2015, è ancora ben al di sotto dei livelli della fine della Guerra Fredda”. Altrove, sulla stessa linea, aggiungono che “la spesa complessiva [dell’UE] non è piccola rispetto a quella della sola Russia” […] “circa 304 miliardi, molto più dei [suoi] 109 miliardi di dollari USA”.
Individuare il livello di spesa appropriato non è tuttavia un compito facile, anche perché non esiste una vera e propria scienza in materia.
Inoltre, la spesa per la difesa deve prendere in considerazione molteplici variabili, tra cui la strategia militare e la psicologia politica;
Consideriamo la minore spesa per la difesa della Russia rispetto all’Europa: può l’Europa essere considerata sicura, dato che la sua spesa combinata per la difesa è circa 3 volte quella della Russia? Dipende.
Gli attori aggressivi e revisionisti come la Russia possono anche spendere meno dell’Europa, ma godono comunque di un chiaro vantaggio militare perché possono decidere dove, quando e come colpire: se l’Europa rafforza le sue difese terrestri nel fianco settentrionale, la Russia può lanciare attacchi sottomarini nel Mediterraneo; se l’Europa investe in capacità di guerra antisommergibile, la Russia può attaccare con missili a lungo raggio in Europa occidentale; e se l’Europa investe in difese antiaeree, la Russia può attaccare nel dominio cibernetico o spaziale.
Al contrario, le potenze difensive, reattive e che si pongono in una posizione di status-quo, come l’Europa, tendono ad essere avverse al rischio, sia quando si tratta di subire perdite civili e persino militari, sia quando si tratta di rispondere a un’aggressione militare. Di conseguenza, la spesa per la difesa deve essere sufficientemente elevata per, innanzitutto, scoraggiare gli attacchi nemici e, poi, vincere senza subire gravi perdite;
Dove andare, da qui?
La strategia consiste nel complicare i calcoli dell’avversario. Una sfida primaria per le democrazie, in generale, e per quelle europee, in particolare, è innanzitutto comprendere e accettare questo semplice e comune fatto della vita e, successivamente, tradurlo in scelte coerenti;
Questo è più facile a dirsi che a farsi per un continente che solo vent’anni fa celebrava con orgoglio, con la prima Strategia europea di sicurezza, di non essere mai stato così sicuro, così ricca e così libera – senza fare molto per preservare questo stato di cose e, anzi, facendo tutto il contrario (compreso l’acquisto di petrolio e gas dalla Russia in cambio di macchine utensili che la Russia ha usato per incrementare la propria produzione militare).
In secondo luogo, per elaborare strategie così onerose, è necessario capire chi è o chi sono gli avversari. Si tratta, tuttavia, di una questione profondamente politica e delicata, sulla quale esiste una pluralità di opinioni e di sensibilità: anche per quanto riguarda la Russia, alcuni in Europa continuano a sostenere la necessità di ripristinare il dialogo e la cooperazione.
In terzo luogo, sono necessarie alcune indicazioni strategiche generali, ad esempio sull’estensione e sull’ontologia della linea difensiva europea;
L’Europa deve solo difendere il suo territorio o anche combattere il terrorismo internazionale? I Paesi europei devono anche proteggere il traffico commerciale da cui dipendono le loro economie o i diritti umani su cui si fondano le loro società, e dove, solo nell’estero vicino (Balcani, Levante e Nord Africa) o anche più lontano? I Paesi europei dovrebbero mantenere l’equilibrio regionale di potere in aree vicine come l’Africa e il Medio Oriente, o fornire anche un importante contributo militare alla stabilità geopolitica in Asia?
Non esistono risposte giuste o sbagliate a queste domande, ma senza una risposta è impossibile determinare quali livelli di spesa per la difesa siano necessari.
Questa discussione ci porta all’ultima considerazione, probabilmente la più importante. Qualsiasi analisi della difesa europea richiede rigore analitico e prospettive strategiche. La maggior parte dei lavori in Europa manca di entrambi. Cottarelli e Virgadamo forniscono il primo;
I contributi futuri dovrebbero integrare il loro approccio anche con il secondo;
Quando si tratta di questioni di difesa, il divario con gli Stati Uniti non è solo in termini di spese e capacità militari, ma anche a livello analitico. Contribuire a colmare questo divario è un importante obiettivo accademico e politico.
Questo documento passa in rassegna i dati relativi al livello e alla composizione della spesa per la difesa negli Stati membri dell’UE, concludendo che le principali carenze ne riducono fortemente l’efficacia rispetto agli Stati Uniti e alle principali minacce alla sicurezza europea.
In particolare:
Il livello aggregato di spesa, pur aumentando dal 2015 in rapporto al PIL, fino a raggiungere un livello dell’1,7% nel 2023, è ancora ben al di sotto dei livelli della fine della Guerra Fredda (2,5%) e dell’attuale livello di spesa negli Stati Uniti.
La spesa complessiva non è piccola rispetto a quella della sola Russia, ma la sua composizione e la sua frammentazione implicano una minore efficacia a parità di spesa.
La composizione della spesa è orientata verso i compensi del personale piuttosto che verso le attrezzature, le infrastrutture, le operazioni e la manutenzione. Infatti, il livello di spesa per queste voci per unità di personale è molto più basso rispetto agli Stati Uniti. Inoltre, la spesa è particolarmente bassa per le operazioni, compreso l’addestramento. In altre parole, anche quando l’equipaggiamento è disponibile, i soldati potrebbero non essere sufficientemente addestrati per utilizzarlo.
Dal punto di vista della produzione, il settore della difesa dell’UE è di dimensioni ridotte rispetto agli Stati Uniti, anche a livello di singole aziende di equipaggiamenti militari, il che riduce le economie di scala.
L’Europa è inoltre molto più dipendente dalle importazioni dagli Stati Uniti di quanto gli Stati Uniti lo siano dalle importazioni dall’UE. Tale dipendenza è in aumento dal 2014.
Dal lato della domanda, gli appalti sono frammentati tra i membri dell’UE, con conseguenti costi più elevati e un numero eccessivo di tipi di attrezzature. Tutto ciò, unito a un’eccessiva dipendenza dalle imprese “campioni nazionali”, riduce la concorrenza e l’efficienza.
Gli obiettivi dell’UE per superare questi problemi esistono, ma non sono stati sostenuti da decisioni concrete e denaro. Se questi problemi potessero essere superati, è probabile che i risparmi sarebbero considerevoli o, in alternativa, che l’efficacia sarebbe molto maggiore rispetto all’attuale livello di spesa.
Detto questo, sarebbe necessario molto più lavoro per quantificare i potenziali risparmi derivanti dalle iniziative di difesa congiunte. Le stime disponibili, che vanno dai 20 ai 100 miliardi, non sono affatto affidabili.
Purtroppo, permangono enormi problemi nel rafforzare il coordinamento della difesa. Il problema principale resta di gran lunga il dominio degli interessi nazionali, poiché l’Europa rimane un insieme di Stati nazionali sovrani, con una limitata fiducia reciproca, e la sua difesa rimane la somma di 27 diversi eserciti, marina e aeronautica.
In ogni caso, sembra esserci un ampio consenso sul fatto che, nonostante l’auspicabile miglioramento delle iniziative congiunte, il potenziamento delle capacità di difesa in Europa richiederà anche spese aggiuntive. Molti hanno chiesto l’utilizzo di fonti di prestito comuni, tra cui gli Eurobond.
L’assunzione di prestiti comuni presenta sicuramente dei vantaggi, tra cui la possibilità di alimentare iniziative di spesa comuni.
Tuttavia, bisogna sempre tenere presente che il prestito di risorse per la difesa non implica che tale spesa sia priva di costi, cioè non implica la necessità di scegliere tra “burro o pistole”.
Infatti, a meno che le attrezzature militari non vengano fornite dall’estero (cosa che aumenterebbe ulteriormente la dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti) si dovranno spostare risorse reali, in termini di lavoratori, dalla produzione di attrezzature non militari alla produzione di attrezzature militari.
L’IISS ha condotto una valutazione indipendente e di alto livello su come si configurerebbe la difesa dell’Europa e degli interessi europei se gli Stati Uniti lasciassero la NATO e non contribuissero militarmente.
Lo studio applica l’analisi di scenario – con scenari ambientati all’inizio del 2020 – per generare i requisiti di forza e valuta la capacità degli Stati membri europei della NATO di soddisfare tali requisiti sulla base dei dati del database online IISS Military Balance Plus. È stato stimato il costo per colmare le carenze di capacità identificate attraverso l’acquisizione di equipaggiamenti.
L’obiettivo dello studio è quello di consentire un dialogo politico informato sia in Europa che in ambito transatlantico. Lo studio non intende esplicitamente prevedere i conflitti futuri né le intenzioni di nessuno degli attori coinvolti. Né intende prescrivere un determinato percorso d’azione che i governi europei della NATO dovranno seguire.
Il primo scenario esaminato riguarda la protezione delle linee di comunicazione marittime globali (SLOC). In questo scenario, gli Stati Uniti si sono ritirati dalla NATO e hanno anche abbandonato il loro ruolo di presenza e protezione marittima globale, non solo per il proprio interesse nazionale ma anche come bene pubblico internazionale. Spetta quindi ai Paesi europei realizzare e sostenere un ambiente di sicurezza marittima stabile nelle acque europee e non solo, per consentire il libero flusso del commercio marittimo internazionale e proteggere le infrastrutture marittime globali. Secondo l’IISS, i membri europei della NATO dovrebbero investire tra i 94 e i 110 miliardi di dollari per colmare le lacune di capacità generate da questo scenario.
Il secondo scenario riguarda la difesa del territorio europeo della NATO da un attacco militare a livello statale. In questo scenario, le tensioni tra la Russia e i membri della NATO Lituania e Polonia degenerano in guerra dopo l’uscita degli Stati Uniti dalla NATO. La guerra porta all’occupazione russa della Lituania e al sequestro di alcuni territori polacchi da parte della Russia. Invocando l’articolo V, i membri europei della NATO danno ordine al Comandante supremo delle forze alleate in Europa (SACEUR) di pianificare l’operazione Eastern Shield per rassicurare l’Estonia, la Lettonia e la Polonia, e altri Stati membri della NATO in prima linea, scoraggiando ulteriori aggressioni russe. La NATO europea prepara e assembla anche le forze per Operazione Tempesta Orientale, un’operazione militare per ripristinare il controllo del governo polacco e lituano sui loro territori.
Mappa esemplificativa del secondo scenario che delinea i requisiti di forza che descrivono una guerra limitata in Europa, condotta da un avversario di livello statale.Rapporto Parte 3. Punto di infiammabilità del Baltico: un attacco a livello statale
L’IISS valuta che i membri europei della NATO dovrebbero investire tra i 288 e i 357 miliardi di dollari per colmare le lacune di capacità generate da questo scenario. Questi investimenti stabilirebbero un livello di forze della NATO Europa che probabilmente le consentirebbe di prevalere in una guerra regionale limitata in Europa contro un avversario di pari livello. La valutazione non riguarda una guerra continentale su larga scala in Europa.
Oltre a individuare le carenze di capacità, lo studio sottolinea la centralità della struttura di comando della NATO. Senza di essa, non sembra possibile per gli europei tentare di gestire operazioni impegnative come quelle considerate nel presente documento. Un’altra implicazione di questa ricerca è la perdurante importanza degli Stati Uniti in termini militari per la difesa dell’Europa. Questo studio fornisce una verifica della realtà per il dibattito in corso sull’autonomia strategica europea. I suoi risultati sottolineano che sarebbe utile che questo dibattito si concentrasse sulle capacità di affrontare le minacce alla sicurezza europea, piuttosto che sull’ingegneria istituzionale. Se fossero disponibili i fondi necessari a colmare le carenze, l’IISS ritiene che la ricapitalizzazione dei settori militari richiederebbe fino a 20 anni, con alcuni progressi significativi intorno ai dieci e ai quindici anni. I motivi sono la limitata capacità produttiva, il tempo necessario per decidere e produrre equipaggiamenti e armi, le richieste di reclutamento e addestramento e il tempo necessario alle nuove unità per raggiungere la capacità operativa.
Il contributo europeo all’Alleanza atlantica è tornato al centro del dibattito e un aumento dell’impegno economico del vecchio continente rimane necessario a prescindere dall’esito delle elezioni presidenziali americane. L’Europa deve far crescere la spesa militare, spendendo meglio. Ciò significa sviluppare strategie e concetti dinamici in grado di integrare sviluppi tecnologici, capacità industriali e soluzioni militari. Il primo punto da comprendere, tuttavia, è l’importanza della deterrenza: spendere in difesa significa investire nella pace.
Negli ultimi anni, e in particolare dall’elezione di Donald Trump alla presidenza americana nel 2016, il tema delle spese per la difesa da parte degli alleati NATO ha assunto una certa rilevanza anche nel dibattito pubblico. La spesa in difesa dei paesi europei – percentualmente bassa rispetto alla quota americana e quindi ritenuta insufficiente dagli Stati Uniti – non è però un tema nuovo o sorprendente. Da una parte, presidenti come Dwight Eisenhower, John F. Kennedy, George W. Bush e Barack Obama hanno, ripetutamente, evidenziato come gli alleati europei spendessero poco o comunque meno durante i loro rispettivi mandati. Infatti, per tutta la guerra fredda, mentre gli Stati Uniti spendevano tra i 400 e i 600 miliardi di dollari l’anno, i paesi europei della NATO spendevano tra i 100 e i 300 miliardi di dollari l’anno (a prezzi costanti del 2014). Dall’altra, in un famoso articolo accademico del 1975, gli studiosi Mancur Olson e Richard Zeckhauser davano una spiegazione logica a questa dinamica: in un’Alleanza, il paese protettore ha maggiori incentivi a spendere di più mentre il paese protetto ha un incentivo a spendere di meno, dando così luogo a un inevitabile free riding del secondo.
A questo ragionamento astratto, ne va aggiunto uno più pratico. Durante la guerra fredda, la competizione non era solo militare ma anche politica e dunque sociale: era necessario vincere la battaglia ideologica che, nelle democrazie occidentali, si rifletteva nella necessità di vincere le elezioni. Di qui, è evidente come la maggiore spesa sociale europea servisse anche per evitare un trionfo dei partiti comunisti, e così evitare che lo scontro militare venisse perso a livello politico. Ovviamente, ciò aveva delle conseguenze politiche ed elettorali anche negli Stati Uniti, dove bisognava pur sempre spiegare al contadino dell’Arkansas o all’allevatore del Montana che la spesa militare in America era maggiore per difendere un’Europa che offriva maggiore protezione sociale.
RISORSE E ORDINI DI GRANDEZZA. Per comprendere il dibattito sui differenti livelli di spesa per la difesa tra le due sponde dell’Atlantico bisogna in primo luogo chiarire di cosa si stia parlando. Il bilancio pubblico di ogni paese ha più voci, dalla sanità alle pensioni, dalle infrastrutture alla protezione civile. Una di queste voci è la difesa: il bilancio del ministero della Difesa. Non è però detto che tutta la spesa in difesa venga catturata da questo bilancio. Per esempio, negli Stati Uniti, parte delle spese per le armi nucleari è sotto il bilancio del dipartimento dell’Energia, mentre la sanità e le pensioni degli ex-militari sono responsabilità di un ministero a parte, il dipartimento degli Affari dei Veterani. Il dipartimento dell’Energia americano spende circa $25 miliardi l’anno per le armi nucleari, o poco meno del bilancio del ministero della Difesa italiano, mentre il dipartimento degli Affari dei Veterani ha un bilancio di $360 miliardi, pari a una volta e mezza la spesa militare di tutti i paesi dell’UE messi insieme (200 miliardi di euro). Questi rapidi esempi servono per evidenziare come la semplice comparazione non è sufficiente e deve, spesso, essere aggiustata.
Come ormai è noto anche al grande pubblico, la NATO si è prefissata un obiettivo di spesa militare pari al 2% del PIL in maniera informale dopo la fine della guerra fredda, ma questo obiettivo è poi stato formalizzato con l’impegno preso al vertice del Galles del 2014 (poco dopo l’annessione russa dell’Ucraina). A questo proposito, come si evince dalla tabella successiva, nel corso degli ultimi 10 anni, i membri europei dell’Alleanza hanno in generale aumentato le loro spese militari, ma ancora una parte importante non raggiunge il 2% del PIL. In particolare, alcuni grandi paesi quali Italia e Germania, o alcuni particolarmente benestanti, quali i Paesi Bassi e Canada, non arrivano a questo livello. La discussione su paesi grandi e piccoli mette in luce un altro elemento centrale: ovviamente non conta solo la percentuale di spesa sul PIL, ma anche la dimensione dell’economia di ogni paese. Un paese come l’Estonia, con un’economia di circa €40 miliardi, anche se spendesse tutto il suo reddito in difesa non potrebbe mai raggiungere la spesa di paesi come Francia o Gran Bretagna, che si aggira, in entrambi i casi, sui €50 miliardi. Le figure aiutano a mettere in prospettiva i valori assoluti.
UNA QUESTIONE DI “CAPACITÀ”. La spesa pubblica è al centro del dibattito pubblico da decenni, e in particolare dal Trattato di Maastricht che fissava alcuni parametri chiave per entrare, e rimanere, nell’eurozona. Di conseguenza, quando si parla di spesa pubblica, si discute spesso della sua qualità: investimenti contro spesa corrente, efficienza ed efficacia. Gli stessi temi si applicano anche alla spesa militare e al famoso 2%. Ma per ragionare sull’efficienza e sull’efficacia della spesa militare, è necessario identificarne le principali voci. Questa è divisa in quattro grandi capitoli: procurement (gli acquisti di mezzi militari); ricerca e sviluppo (gli investimenti per sistemi d’arma futuri); il personale; le operazioni e la manutenzione.
Si pensi a un caso ipotetico (e assurdo) di un paese che spenda il 2% del PIL in difesa, ma usi tutti i suoi fondi per comprare divise militari: non c’è personale, non ci sono mezzi, non ci sono operazioni. Evidentemente, se quel paese facesse parte della NATO, l’Alleanza non sarebbe più forte, nonostante il 2% venga formalmente raggiunto. Per questa ragione, la NATO raccomanda di spendere almeno il 20% di quel 2% in “capacità”.
Il fatto stesso che “capacità” non appaia tra i nomi dei capitoli precedentemente menzionati suggerisce quanto sia politicamente difficile avere categorie comunemente accettate. Capacità, infatti, include sia la spesa in ricerca e sviluppo che in procurement. A sua volta, la spesa in ricerca e sviluppo include, spesso, anche quella in test e valutazioni: test e valutazioni riguardando però lo sviluppo di prodotti, fase che solo i paesi produttori di armamenti possono permettersi e comunque svolgono.
In ogni caso, una parte considerevole di paesi europei spenda almeno il 20% del proprio bilancio militare in “capacità”, dunque ottemperando alle raccomandazioni NATO. Va però enfatizzato come, in caso di aumento della spesa militare, poiché il 20% è il frutto del rapporto tra spesa in capacità e spesa militare totale, alcuni paesi si potrebbero realisticamente trovare nella situazione di rispettare il parametro del 2% ma non più quello del 20%. A ciò va aggiunta un’altra considerazione, collegata all’inefficienza della spesa dei paesi europei. Il bilancio della difesa di tanti paesi europei è finalizzato soprattutto a sviluppare e produrre mezzi di origine nazionale (come carri armati o navi da guerra), quindi non sfruttando tutte le economie di scala possibili.
IL NODO DEI CONTRIBUTI. Nel corso degli anni, molteplici autorevoli voci hanno criticato l’indicatore del 2%. Uno dei maggiori critici è stato Anthony Cordesman, recentemente scomparso, uno dei più grandi analisti militari americani, per decenni al Center for Strategic and International Studies (CSIS) di Washington, e autore di un numero infinito di eccellenti e fondamentali pubblicazioni (tra cui spiccano i vari volumi Lessons of Modern War). Cordesman, negli anni, ha notato come il livello di spesa non dica molto (punto evidenziato in precedenza), e come la spesa in “capacità” sia a sua volta di discutibile importanza e utilità politica. Pensiamo di nuovo a un caso ipoteticamente assurdo: la Repubblica Ceca non ha sbocchi sul mare. Se la Repubblica Ceca spendesse il 40% del suo budget militare in sottomarini, secondo i parametri suggeriti dalla NATO, meriterebbe un plauso, ma la logica suggerirebbe un’altra valutazione: quei mezzi non sarebbero utilizzabili.
Questa discussione ci porta al terzo tema che caratterizza il dibattito sul burden sharing (o distribuzione degli oneri) all’interno della NATO: i contributi. Nel corso degli anni, molteplici paesi NATO (di solito quelli che non raggiungono il 2%) hanno più volte evidenziato come il loro apporto alla difesa collettiva non derivi tanto dalla spesa ma appunto dai contributi.
Un esempio ipotetico è nuovamente utile. Assumiamo ci siano due paesi, A e B. A spende il 3% del PIL in difesa. B spende l’1%. Il paese A non contribuisce però mai alle missioni della NATO. B invece partecipa con tutte le sue truppe disponibili alle missioni dell’Alleanza atlantica. In questo caso, pur spendendo di meno, B darebbe un contributo alla sicurezza collettiva maggiore rispetto ad A. Ovviamente, anche in questo caso, si pone il problema di valutare il contributo di ogni paese. Bisogna guardare al numero di truppe impiegate, al numero di mezzi, al numero di teatri in cui si opera, o al numero di perdite subite, solo per dare qualche esempio? Anche in questo caso, non c’è una visione congiunta anche perché, politicamente, le implicazioni potrebbero essere molto diverse.
STRATEGIA E NUMERI. Fin qui, abbiamo cercato di chiarire in modo sintetico il dibattito sulla spesa militare, con le sue criticità e complessità. Se ne può trarre qualche considerazione.
In primo luogo, valutare l’efficienza della spesa è difficile. L’efficienza però non è tutto, perché la spesa militare non è volta a risolvere un problema, ma a complicare i calcoli dell’avversario. Nel 1981, Mary Kaldor scrisse The Baroque Arsenal, libro nel quale sosteneva che la crescente spesa militare in ricerca e sviluppo servisse solo ad aumentare il costo degli armamenti a favore dell’industria, senza in realtà dare un contributo effettivo alla sicurezza nazionale. Purtroppo, Mary Kaldor non coglieva la logica della competizione strategica nella quale gli Stati Uniti erano coinvolti: sviluppando armamenti sempre più complessi, gli Stati Uniti spostavano di fatto la competizione con l’Unione Sovietica dal campo di battaglia a un campo nel quale avevano un vantaggio enorme e crescente: la tecnologia. In questa maniera, gli USA rendevano la vita molto più difficile al loro avversario.
Lo capì, poco dopo, Joshua M. Epstein in un fondamentale libro dell’epoca, Measuring Military Power (1986), nel quale evidenziava come, favorendo una competizione tecnologica, gli Stati Uniti obbligavano l’URSS a sviluppare sistemi d’arma sempre più avanzati, i quali richiedevano piloti più addestrati, logistica più complessa, e manutenzione più avanzata che però l’Unione Sovietica non era in grado di permettersi o generare. La stessa logica è stata, in tempi più recenti, riportata alla ribalta da Andrew F. Krepinevich, in particolare nel suo Dissuasion Strategy (2008), nel quale suggerisce una postura di difesa che sfrutti i vantaggi tecnologici americani per indebolire la sfida proveniente da avversari quali Cina, Russia e Iran. In quest’ottica, è evidente come non conti solo la spesa, ma anche la sua allocazione. Se ne deriva anche che possibili inefficienze sono assolutamente accettabili se contribuiscono al fine ultimo di mantenere la pace.
In secondo luogo, e parallelamente, l’efficacia della spesa militare non è una questione di puro calcolo ma strategica. Un altro importante studioso, Theo Farrell, nel suo libro Weapons Without a Cause (1996), affermava che il bombardiere strategico B-2 Spirit non aveva una chiara ragione di esistere. Anche in questo caso, la realtà è un po’ diversa: il B-2 è un bombardiere a lungo raggio, a bassa osservabilità, il cui valore strategico non si trova tanto nella capacità di compiere alcune missioni, ma nel fatto che la sua esistenza obbliga gli avversari a investire in costose e complesse difese antiaeree, e quindi a ridurre le risorse per altri programmi più offensivi. Anche in questo caso, un approccio “ragionieristico” finirebbe per generare risparmi ma per indebolire la deterrenza.
A prescindere dalle discussioni tecniche, è abbastanza evidente che i paesi europei devono spendere di più in difesa. Analogamente ai sistemi antincendio, che possono sembrare un costo inutile fin quando non arrivano le fiamme, così la spesa militare rivela la sua utilità solo nei momenti di crisi. Per fermare gli incendi, servono però sistemi adeguati e quindi costosi. Ugualmente, per gestire fasi di crisi servono difese appropriate. Se i singoli paesi europei spendevano tra l’1 e il 2% del PIL in difesa dopo la fine della guerra fredda, nell’attuale fase internazionale è necessario che spendano di più, anche perché il valore principale delle capacità di difesa deriva dal contributo alla deterrenza, condizione della pace: servono difese robuste soprattutto per fare desistere gli avversari dall’iniziare un conflitto.
L’efficacia e l’efficienza sono importanti, ma qualcuno accetterebbe un maggiore rischio di guerra per relativamente pochi risparmi? Questo aspetto, tra i più importanti, è spesso ignorato nel dibattito pubblico: la pace non porta logicamente ad abbattere la spesa militare, in quanto è la spesa militare, e il vantaggio competitivo che genera, che favorisce (auspicabilmente, e di fatto spesso) la pace. Proprio per questa ragione, però, i paesi europei non solo devono spendere di più, ma devono spendere meglio. Quando si parla di spendere meglio, il dibattito pubblico si concentra su questioni surreali (l’esercito europeo) o secondari quali l’integrazione militare in Europa, il consolidamento dell’industria, e la cooperazione in armamenti. Spendere meglio significa, in realtà, sviluppare in primo luogo strategie, piani e concetti dinamici e flessibili in grado di integrare sviluppi tecnologici, capacità industriali e soluzioni militari.
Maggiore efficienza nella spesa militare sia dalla parte della domanda (forze armate) che dell’offerta (industria) possono ovviamente aiutare, ma non sono condizione né necessaria né sufficiente. Negli anni Ottanta, Edward N. Luttwak si inseriva nel dibattito a cui aveva contribuito Mary Kaldor notando come il Pentagono non avesse bisogno di ragionieri, ma avesse bisogno di strateghi. È la stessa sfida che affronta la difesa europea oggi: non servono ragionieri o, nel caso europeo, giuristi. Serve più strategia e servono più strateghi, quelli che forse in Europa mancano maggiormente.
NB_In allegato i tre documenti-base di riferimento degli articoli in italiano e in inglese
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L’ARTEFICE DELL’IMMAGINARIA COSTELLAZIONE DELL’ITALIA LAICA, IL SUO CONTRADDITTORIO REALISMO POLITICO NELLA FINE DELL’UTOPIA DELL’ITALIA DELLA RAGIONE E DEL PRI COME PARTITO DELLA DEMOCRAZIA NELLA NUOVA EPOCA DELL’ “IMPÉRIALISME EN FORME” INAUGURATA DALLA SECONDA PRESIDENZA TRUMP
Cattedratico, storico, giornalista e, infine, uomo politico che in questa sua ultima dimensione ottenne i massimi risultati venendo eletto nel 1972 senatore nella lista del PRI, nel 1979, dopo la morte di Ugo La Malfa divenendo, carica che ricoprì ininterrottamente fino al 1987, segretario del Partito Repubblicano Italiano, poi dal 28 giugno 1981 al 30 novembre 1982 ricoprendo il ruolo, incaricato dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini e primo laico nella storia dell’Italia repubblicana, di presidente del Consiglio, divenendo successivamente, dal 1983 al 1987, ministro della difesa nei due governi Craxi, riuscendo a far raggiungere al PRI nelle elezioni politiche del 1983 il 5,08%, il massimo storico di quel partito e, infine, venendo il 2 luglio del 1987 nominato presidente del Senato, carica che ricoprì fino al 14 aprile del 1994 quando il Parlamento gli preferì Carlo Scognamiglio con una votazione con pesantissimi punti interrogativi sulla sua correttezza e Spadolini provò una grandissima sofferenza per questo esito opaco, una sofferenza che lo accompagnò fino alla morte che sarebbe avvenuta da lì a poco il 4 agosto 1994, era nato il 21 giugno 1925 (nel frattempo Spadolini nel 1992 aveva mancato la presidenza della Repubblica perché il Parlamento, in seguito all’attentato a Falcone preso dalla frenesia di eleggere in fretta e furia un presidente della Repubblica, gli preferì Oscar Luigi Scalfaro), Giovanni Spadolini, presso il vasto pubblico dei suoi ammiratori del tempo, non solo i c.d. laici e non solo i repubblicani, risultava non solo come un personaggio estremamente simpatico (la sua stessa barocca corpulenza non gli procurava in nessun modo scherno ma anzi ne accresceva la popolarità, si vedano a questo proposito le amichevoli vignette di Forattini che lo ritraevano quasi sempre come un obeso putto nudo e questo concorse a renderlo ancora più simpatico, quasi un barbapapà prestato alla politica) ed affidabile (nessuno mise mai in dubbio, in quell’epoca come l’odierna squassata dagli scandali politici, la sua integrità personale ed anzi il modo come da presidente del Consiglio riuscì a gestire lo scandalo della loggia massonica P2 consacrò giustamente questa sua immagine) ma anche come una specie di genio che era riuscito ad eccellere sia, appunto, come storico che come giornalista (giovanissimo collaboratore de “Il Mondo” di Mario Pannunzio, direttore del Resto del Carlino dal 1955 al 1968 e poi fino al 1972 direttore del Corriere della Sera!). E se oggi presso le giovani generazioni (giovani si fa per dire, qui ci riferisce soprattutto agli appartenenti alla generazione dei Millenians, per quelle che seguono manco parlarne, e da queste parole si può ben capire la vetustà dello scrivente, un baby boomer, per non scendere in ulteriori imbarazzanti dettagli…) il nome di Spadolini non dice praticamente niente, ma questo è dovuto non tanto alla mancanza di spessore del personaggio ma al fatto che oggi e da molto tempo ormai si vive in un eterno presente, è singolare il fatto che, proprio mancanti pochi anni al trentesimo anniversario della sua scomparsa, anche presso coloro che furono i suoi più stretti collaboratori e coloro che, molto più giovani, afferiscono a quello che può essere definito il cenacolo spadoliniano, la figura intellettuale e professionale di Spadolini fosse stata un po’, anche se soltanto un po’, ridimensionata. Cosa allora in questo ambiente viene anche detto di Spadolini? In pratica, si dice che Spadolini fu un grande storico ma non un grandissimo storico, cioè si afferma che i suoi lavori per quanto estremamente interessanti e dissodanti per molti versi territori ancora in larga parte incolti, non costituiscono pietre miliari della scienza storica e si continua dicendo che se anche professionalmente come giornalista raggiunse, come s’e visto, le più altre vette, egli non fu assolutamente né un rinnovatore del linguaggio giornalistico né un grande organizzatore della carta stampata, come per esempio un Eugenio Scalfari o un Indro Montanelli che arrivarono alla fine a fondare nuove testate giornalistiche fortemente influenti sulla pubblica opinione.
Ovviamente, in quest’opera di piccolo, piccolissimo, ridimensionamento del personaggio, viene salvata, oltre alla figura del cattedratico di grande successo e prestigio (e non potrebbe essere diversamente: «Già nel 1950 Spadolini è incaricato dell’insegnamento di Storia Moderna II alla Facoltà di Scienze Politiche di Firenze «Cesare Alfieri », primo titolare di quella che diverrà dieci anni più tardi la prima cattedra in Italia di Storia Contemporanea: secondo della terna Gabriele De Rosa, terzo Aldo Garosci. I suoi studi sono anticipatori di originali, successivi filoni di indagine e di ricerca storiografica: i rapporti fra Stato e Chiesa, le vicende dei partiti e dei movimenti politici, la revisione del Risorgimento, la storia di Firenze e della Toscana nel contesto italiano ed europeo. Molte sue opere sono ancora considerate autentici classici della storiografia italiana. In aspettativa per mandato parlamentare, non avrebbe mai lasciato la titolarità della cattedra del «Cesare Alfieri» »: Cosimo Ceccuti, Giovanni Spadolini. Giornalista, storico e uomo delle istituzioni, introduzione di Carlo Azeglio Ciampi, Firenze, Mauro Pagliai, 2014, p. 58, quindi in Cosimo Ceccuti, il più stretto collaboratore di Spadolini, mancanti però più di dieci anni dal trentesimo anniversario della sua scomparsa, si propone l’immagine di un Giovanni Spadolini grande storico) in toto la figura dell’uomo pubblico, del politico, anzi il politico viene innalzato come nessun altro sugli scudi sottolineando, molto opportunamente, oltre alla grande impresa di essere stato il primo laico ad assumere la carica di presidente del Consiglio, il suo successo nel riavvicinare la gente alla politica, oggi come allora totalmente screditata ma il fatto che questo sia stato un successo effimero – hanno buon gioco di sostenere costoro – non è certo imputabile a Spadolini e io su questo sono parzialmente d’accordo ma anche parzialmente in disaccordo. E mi spiego perché ho usato questa circonlocuzione che sa molto di linguaggio moroteo – o di necessità di una seduta psicoanalitica dello scrivente – ma penso che non solo presso il lettore sia d’aiuto a far affiorare i contrastanti e contraddittori odierni sentimenti di una persona, il sottoscritto, che visse in pieno e con convinzione i fasti spadoliniani (ricordo la grande emozione che provai quando nel 1986 con estrema gentilezza – bontà d’animo e disponibilità che apparentemente contraddittoriamente alla esibita consapevolezza del suo valore che sfiorava l’egocentrismo e, soprattutto, ai suoi terribili scatti umorali, era un tratto distintivo del suo carattere – Spadolini siglò il frontespizio della mia prima fatica nel campo della letteratura politica, Gloria alla Repubblica Romana. Compendio de «La Repubblica Romana del 1849 di Giovanni Conti», Ravenna, Edizioni Moderna, 1986 e per chi voglia rendersi direttamente conto di quella che può essere considerata l’ultima pubblicazione palesemente e senza infingimenti retorica generata dal già morente mondo della religione politica mazziniana, può andare all’ URL di Internet Archivehttps://archive.org/details/massimo-morigi-gloria-alla-repubblica-romana-compendio-de-la-repubblica-romana-d/mode/2updove potrà apprezzare la scansione del documento col frontespizio siglato da Giovanni Spadolini) ma anche perché è proprio il lascito storico-culturale spadoliniano che, in ultima istanza, visto oggi ex post, non poteva che lasciare dietro di sé che un cumulo di macerie anche sul piano più prettamente politico.
Una caratteristica, anzi l’autentica peculiarità distintiva di Spadolini è che, contrariamente ad altri intellettuali che ad un certo punto della loro vita decidono di dedicarsi alla politica, fu che, in un certo senso, tutta la sua precedente attività come cattedratico, storico e giornalista, può considerarsi una preparazione ai ruoli politici che egli avrebbe ricoperto in seguito. Egli non fu, quindi, il classico intellettuale, ma senza una specifica autoformazione riguardo alla vita pubblica, prestato alla politica e che magari sogna di divenire in finale di carriera una sorta di consigliere del Principe, egli, al contrario, fu un intellettuale che sin dagli inizi volle farsi Principe e che, come intellettuale, inizia sin da subito a forgiare gli strumenti per ottenere questo risultato. E quali sono questi strumenti? Molto semplicemente, il cercare in maniera indefessa e diuturna di costruire attraverso l’attività di cattedratico, di storico e di giornalista la narrazione che, al di là della cultura marxista e di quella più umile ma altrettanto pervasiva cattolica, in Italia è sempre esistita una cultura alternativa, che egli definisce come Italia laica o Italia della ragione (vedi i titoli dei suoi più significativi lavori storici al riguardo: Gli uomini che fecero l’Italia, L’Italia della ragione. Lotta politica e cultura nel Novecento, L’Italia dei Laici. Da Giovanni Amendola a Ugo La Malfa (1925-1980) e, infine, Autunno del Risorgimento, libro pervaso da una vena malinconica e dalla sottesa consapevolezza che il Risorgimento ci ha lasciato profondissime e forse insanabili contraddizioni). Ora, il punto è che è vero che mai politicamente gli italiani si sono riconosciuti in blocco nei due predetti filoni ma non era proprio detto, anzi era una totale distorsione cognitiva spadoliniana, che coloro che non erano né “rossi” né “bianchi” potessero – allora come oggi! – essere considerati e quindi impiegati come una compatta falange politico-culturale prendendo come esempio – come fece Spadolini in queste ed altre sue pubblicazioni ed in moltissimi suoi interventi sulla stampa – gli illustri personaggi del passato che erano stati fuori dall’orbita marxista o da quella confessionale. Invece, proprio questo Spadolini cercò di fare: dagli Uomini che fecero l’Italia, all’Italia della ragione, all’Italia dei laici ed anche con Autunno del Risorgimento, tutti gli sforzi di Spadolini furono indirizzati alla costruzione di una narrazione politica (non dico ideologia politica, perché l’ideologia comporta il proporre uno schema di società che vada al di là della esaltazione degli eroi che devono porsi alla guida del processo di trasformazione, che poi l’ideologia rapidamente degradi nell’agiografia questo è un altro discorso ed appartiene comunque alla fase successiva della presa del potere quando necessitano ancor più facili schemi propagandistici per manipolare le masse) dove le virtù morali di coloro che non furono né marxisti né cattolici costituiscono il collante della narrazione spadoliniana e l’esempio da seguire, secondo Spadolini, per la futura Italia.
E il fatto veramente singolare di tutta questa costruzione – che potremmo definire una costellazione di medaglioni biografici che costituiscono la struttura delle predette pubblicazioni e costellazione e non galassia perché, come tutti sanno, al contrario di altre nomenclature celesti, le costellazioni sono solo una costruzione mentale e fantastica dell’osservatore che nulla di reale ci dicono sulle reali dinamiche dell’Universo – è che Spadolini, da vero, anche se non grandissimo, storico quale egli era, non sorvola affatto sulle caratteristiche culturali e politiche dei personaggi da lui presi in considerazione, da questo punto di vista egli è onestissimo e, a mio giudizio, è un esempio di deontologia applicata al lavoro dello storico, ma pretende che queste differenze non contino o contino poco o nulla rispetto alla dimensione caratteriale quiritaria, come lui amava definirla, che idealmente accomuna questi personaggi e che avrebbe dovuto costituire, questa dimensione, il tratto morale base per i partecipanti alla costruzione del futuro soggetto politico né cattolico né marxista. E così culturalmente egli liberale profondamente crociano, con una sorta di autentica devozione per Gobetti, il Gobetti della Rivoluzione liberale ma soprattutto del Risorgimento senza eroi, si trova costretto, in ragione di questo progetto politico, a dovere inserire nella sua teleologia storico-politica personaggi che non sono rivoluzionari anche se solo nel senso gobettiano della rivoluzione liberale e che talvolta potrebbero essere definiti semplicemente come conservatori della più bell’acqua o che non sono nemmeno liberali, anzi sono consapevolmente e decisamente antiliberali. Come esempio di personaggio giudicato molto correttamente e perspicuamente da Spadolini come antiliberale, valga per tutti Giuseppe Mazzini e a tal proposito riproduciamo qui per intero il suo primo articolo su Mazzini, sul quale in seguito Spadolini cercherà di svolgere un’operazione palinodica ma, per sua stessa ammissione, molto parziale: «Esiste il “mito di Mazzini”. È il tipico mito italiano, eclettico e confusionario: riassume tutto, concilia tutto, giustifica tutto. In questo senso, Mazzini si è prestato, si presta e si presterà sempre a esser sfruttato da tutti i regimi: liberali, democratici, trasformisti, fascisti, socialisti, comunisti. Ma pochi conoscono la “realtà”, del pensiero e dell’azione mazziniana, ciò che è morto, oggi, e che è vivo di lui. Cosa c’era di caduco nel mazzinianesimo? Quel riflettere gli atteggiamenti più estremi della “Weltanschauung”, massonica, di quella visione della vita che s’era formata nel Settecento e che era tutta intrisa e compenetrata di umanitarismo, di egualitarismo, dei principi della pace, della giustizia, della fratellanza, dell’armonia e del progresso universale.
E cosa c’era di genuino nel Mazzini? Quel dipingere il popolo come “profeta della rivoluzione”, quell’affermare il nesso fra Dio e popolo, quell’insistere su un’impossibile “iniziativa popolare”, quell’illusione, quella fissazione, quella passione “popolaresca”, che mai egli perse nonostante le delusioni del ’48 e le smentite del ’59.
E cosa c’era di retorico? Quell’inseguire il mito della “Terza Roma”, e anzi assegnare alla terza Roma, quale “mente della terra”, “verbo di Dio fra le razze”, centro della religione dell’umanità, il compito di unificare tutte le genti disperse d’Europa e d’America sotto un sol senso comune (quale poi fosse precisamente, nessuno sapeva). E quanto di derivato dalle dottrine straniere o antiche? A chi guardi il volto complesso e composito del mazzinianesimo, non sfuggiranno i sedimenti del gioachimismo, i ricordi e le eresie medievali, i residui della Riforma, le tracce del giansenismo, le influenze di Saint-Simon, le ripercussioni di Lamennais, i riflessi del Quinet o del Vinet, le risonanze del socialismo utopistico: del suo pensiero, ben poco resterà di originale.
Qual è dunque, la ragione dell’attuale e forse immortale vitalità del pensiero di Mazzini? Mazzini è in primo luogo l’unico grande riformatore religioso che l’Italia abbia avuto dopo Savonarola. In quel moto, a carattere essenzialmente politico-diplomatico che fu il Risorgimento, egli portò un lievito, un fermento, un tormento religioso, che danno alla rinascita italiana un significato che non ebbe nessun altro movimento nazionale europeo. In un paese, che non aveva più sentito una profonda istanza di religiosità civile, laica, umanistica dalla Controriforma in là, il pensiero mazziniano rappresentava, con l’affermazione dell’unità fra politica e morale, del nesso fra Stato e Chiesa, del vincolo fra democrazia e religione, l’affermazione solenne della necessità di un rinnovamento delle coscienze, di un’interiore “metanoia” prima ancora d’una riforma delle strutture sociali e politiche. In secondo luogo, Mazzini è il creatore del “mito” operante dell’unità. L’unità, in Italia, non era una realtà geografica, non era un’eredità storica, non era una vocazione nazionale. L’Italia era il paese delle città e dei Comuni; l’Italia era il popolo delle infinite rivoluzioni federali, e nel ’48 ne aveva vissuto l’ultima e più grandiosa; l’Italia era la terra che aveva sempre ondeggiato fra una realtà municipale e una destinazione universale, fra un presente di provincia e una meta di impero; l’Italia era infine la sede del Papato, cioè dell’organismo più universale della storia, e non solo la sede, quanto il cuore, il centro, il fulcro stesso del Pontificato romano. Mazzini riuscì a dare a questo popolo l’illusione dell’unità; riuscì a infondere nelle sue classi dirigenti il sogno, la speranza, il desiderio dell’unità. Il “mito” unitario non era per Mazzini limitato al fatto nazionale. Egli voleva l’unità fra gli italiani, in quanto, fosse a sua volta principio e premessa dell’unità fra popolo e stato, fra Stato e Chiesa, fra cielo e terra. Unità nazionale d’Italia; unità internazionale d’Europa; unità universale del mondo; unico dogma quello del progresso; unica religione quella dello spirito; unica educazione quella del vero; unico Stato quello ispirato alla democrazia e alla giustizia. L’ “unità”: ecco la grande forza di Mazzini. In un paese tendente alla molteplicità, alla diversità, alla discordia, Mazzini gettava questo seme di unità, e lo consacrava col sangue dei martiri. Se oggi si celebra il ’48 come rivoluzione nazionale, lo si deve a lui, non certo ai Principi e ai Granduchi in onore dei quali si organizzano le varie e inutili mostre commemorative. Essendo unitario, Mazzini non poteva essere, non fu mai liberale. È l’ultimo equivoco che bisogna dissipare. La visione del liberalismo moderno era per Mazzini il prodotto complessivo dell’individualismo, dell’utilitarismo e del materialismo: tutto ciò a cui bisognava opporsi nella fondazione della nuova società. Se il liberalismo rappresentava la concezione dei diritti individuali rispetto ai poteri dello Stato, Mazzini vagheggiava una concezione in cui fossero ben stabiliti i doveri “individuali” rispetto ai diritti dello Stato. Se il liberalismo era laicismo, religione della laicità, Mazzini sognava uno “Stato teocratico”, dove “fossero sacerdoti tutti con uffizi diversi”. Se il liberalismo era immanentismo, Mazzini sognava una trascendenza, sia pur diversa da quella cattolica. Se il liberalismo era umanesimo, Mazzini auspicava una rivelazione divina, che si attuasse attraverso i geni “angeli di Dio sulla terra” e il popoli “profeti di Dio in terra”. Se il liberalismo, insomma, era dialettica, dialettica di forze e di idee, di istituti e di uomini, libertà di iniziative e senso di autonomia, capacità dell’autogoverno e vigore di individuale creazione, Mazzini era, invece, per la riduzione a unità delle forze e delle idee, degli istituti e degli uomini, per il controllo delle iniziative e la subordinazione dell’autonomia personale alla nazione e allo stato, per l’educazione impartita dall’alto e secondo uno schema unitario, infine per l’opera sociale, lo sforzo collettivo, l’azione dei molti, l’associazione. Mazzini non fu mai un liberale, perché in fondo non fu mai un “politico”. Egli fu un anticipatore, un apostolo, un profeta: e io non conosco nella storia un apostolo e un profeta che sia mai stato liberale.»: Giovanni Spadolini, Mazzini oggi, in “Il Messaggero”, 5 agosto 1948 ma anche in Id.,Autunno del Risorgimento, Firenze, Le Monnier, 1971, pp. 306-308 e nel blog “Termometro politico” all’URLhttps://forum.termometropolitico.it/231944-giovanni-spadolini-firenze-1925-roma-1994-a-17.html, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20250201085119/https://forum.termometropolitico.it/231944-giovanni-spadolini-firenze-1925-roma-1994-a-17.html.
Ora, a parte il fatto che ingenuamente, molto ingenuamente, verrebbe da chiedersi come abbia fatto uno storico che pronuncia questi giudizi su Mazzini diventare segretario del Partito repubblicano che, anche se solo a livello di lip service, riteneva – e ancor meno razionalmente proclama tuttora, viste le sue posizioni politiche – Mazzini come una specie di Dio in terra e l’incisore delle tavole della legge per la fuoruscita dell’Italia dal suo stato di minorità che la accompagna sin dalla fine del Risorgimento, si tratta quello appena mostrato di uno scritto giovanile ma su questo giudizio una vera palinodia non verrà mai fatta, e quindi che un uomo valentissimo ma liberale sin nelle midolla come Spadolini sia potuto diventare segretario del PRI si spiega e con la debolezza politica di questo partito che dopo la morte di La Malfa richiedeva una altrettanto grande e rappresentativa figura da mettere al suo posto e alla sempre più declinante crisi della religione politica che formalmente ispirava (ed ispira del tutto superficialmente tuttora) il Partito repubblicano, cioè il mazzinianesimo (e sulla sempre più declinante religione politica del mazzinianesimo cfr. il mio Massimo Morigi, Lo Stato delle Cose dell’Ultima Religione Politica Italiana: il Mazzinianesimo. Una Riflessione Transpolitica per il suo Legittimo Erede: il Repubblicanesimo Geopolitico. Presentazione di Trent’anni Dopo alla Dialettica Olistico-Espressiva-Strategica-Conflittuale de Arnaldo Guerrini. Note Biografiche, Documenti e Testimonianze per una Storia dell’Antifascismo Democratico Romagnolo, pubblicato in quattro puntate sul presente sito di geopolitica “L’Italia e il Mondo”, sempre sull’ “Italia e il Mondo” in un’unica puntata in data 8 marzo 2023 all’URLhttp://italiaeilmondo.com/2023/03/08/lo-stato-delle-cose-dellultima-religione-politica-italiana-il-mazzinianesimo-integrale-di-massimo-morigi/, Wayback Machine:http://web.archive.org/web/20230330090857/http://italiaeilmondo.com/2023/03/08/lo-stato-delle-cose-dellultima-religione-politica-italiana-il-mazzinianesimo-integrale-di-massimo-morigi/e, infine, caricato su Internet Archiveagli URLhttps://archive.org/details/lo-stato-delle-cose-dell-ultima-religione-politica-il-mazzinianesimo-repubblican/page/n39/mode/2upehttps://ia801605.us.archive.org/31/items/repubblicanesimo-repubblicanesimo-geopolitico-neomarxismo-monica-vitti/Repubblicanesimo%2C%20Repubblicanesimo%20Geopolitico%2C%20Neomarxismo%2C%20Monica%20Vitti.pdf), in realtà il punto più interessante per il nostro discorso è quando Spadolini afferma che «Mazzini è il creatore del “mito” operante dell’unità. L’unità in Italia non era una realtà geografica, non era un’eredità storica, non era una vocazione nazionale. L’Italia era il Paese delle città e dei comuni; l’Italia era il popolo delle infinite rivoluzioni federali, e nel ’48 ne aveva vissuto l’ultima e più grandiosa; l’Italia era la terra che aveva sempre ondeggiato fra una realtà municipale e una destinazione universale, fra un presente di provincia e una meta di impero; l’Italia era infine la sede del Papato, cioè dell’organismo più universale della storia, e non solo la sede, quanto il cuore, il centro, il fulcro stesso del pontificato romano. Mazzini riuscì a dare a questo popolo l’illusione dell’unità; riuscì a infondere nelle sue classi dirigenti il sogno, la speranza, il desiderio dell’unità.», dove emerge ben chiara la vera nota di fondo di tutta la produzione spadoliniana sul Risorgimento, vale a dire la consapevolezza che l’unificazione italiana era stato un processo debolissimo, con scarsa base sociale ed opera quasi esclusivamente di élite. E questa consapevolezza attraversa come un sordo rintocco tutta la costellazione dei personaggi della narrazione storico-politica spadoliniana, non si rivela solo trattando di Mazzini ma trova anche sorprendenti manifestazioni che espresse come vengono espresse mettono palesemente in crisi, se ben osservate in controluce, anche la rappresentazione pubblica del disegno politico spadoliniano. Ecco cosa scrive Spadolini riguardo a Gramsci:«Dal Cinquecento ad oggi[…], il pensiero cattolico ha sempre combattuto, nel machiavellismo, lo spettro dello Stato laico, dello Stato forte, dello Stato sovrano: la logica della teocrazia, che presuppone la perfetta unione fra la politica e la morale, non potrà mai giustificare una rottura che esalta il primo termine nel suo valore assoluto e totale. Molto meno si comprende la opposizione di certi spiriti liberali al pensiero di Machiavelli. Non sarà male ricordare innanzitutto che, alle origini del nostro Risorgimento, Machiavelli fu considerato un maestro di libertà repubblicana: e come tale lo esaltarono i giansenisti della fine del Settecento, come tale lo vide Niccolini, come tale lo guardarono i neoghibellini del ’48 impegnati a respingere le suggestioni e i fantasmi del ritorno neoguelfo. Lungi dal giudicarlo come un amico dei tiranni, molti dei patrioti dell’Ottocento glorificarono in lui non solo il profeta dell’unità nazionale, quello della chiusa del Principe, ma ancor più l’anticipatore degli ideali repubblicani e democratici brillati nelle pagine dei Discorsi. Non era difficile ribattere, ai detrattori “moderati” del Segretario fiorentino, come Balbo e Cantù, non era difficile ribattere allo stesso Mazzini, sempre pronto ad accettare la logica della teocrazia sia pure al servizio di un altissimo ideale democratico, che la più violenta polemica contro il “machiavellismo” era venuta proprio da un re come Federico II, pronto a sacrificare ogni ideale di libertà alla grandezza e alla potenza dello Stato. […] Ma se Voltaire aveva ispirato la satira del principe prussiano, se l’illuminismo e il razionalismo si erano opposti alle dottrine politiche di colui che presupponeva la fede nella storia e quindi la coscienza di una lotta implacabile contro la natura ed il male, il suo difensore più efficace Machiavelli lo trovò nel filosofo, che doveva giustificare idealmente tutte le audacie del liberalismo moderno ed essere quindi scambiato per un conservatore: Giorgio Federico Hegel. Pochi ricordano che nel suo scritto giovanile Libertà e fato, che vide la luce postumo nel 1893, Hegel esaltò la tesi del Principe come la concezione più alta e più vera di un’autentica mente politica animata dai più grandi sentimenti. Profondamente consapevole com’era del problema nazionale tedesco, ansioso di promuovere la liberazione del suo popolo dal giogo straniero, Hegel esaltò in Machiavelli l’italiano, il patriota, il cittadino che per primo aveva sentito la necessità di comporre l’Italia in unità di Stato, affrancandola dalle discordie interne e dalle dominazioni esterne. […] Il dissidio fra l’essere e il dover essere, fra l’esigenza etica e quella politica, fra la voce dell’utile e quella della coscienza – dissidio che Machiavelli aveva aperto col suo libro famoso – non apparve neppure a Hegel giovane, che affermò risolutamente che “uno stato di cose nel quale il veleno e l’assassinio sono diventati armi abituali, non sopporta rimedi miti. Una vita prossima alla corruzione può essere riorganizzata soltanto per mezzo del procedimento più forte”. […] L’unico fra i recenti pensatori italiani, che abbia avuto l’esatta percezione della funzione attuale del Machiavellismo, secondo la logica storicistica e dialettica, è stato Antonio Gramsci. Nelle pagine inedite, apparse nel quadro dell’opera postuma einaudiana, sulla concezione machiavellica della politica e della vita, il teorico del comunismo italiano ha identificato il “moderno principe” col partito della classe operaia e ne ha riassunto la missione nella costruzione dello Stato rivoluzionario che risolve il contrasto fra la tecnica e la teologia, che annulla il dualismo fra i mezzi e i fini. Di fronte al pensiero di Gramsci, di fronte alla polemica dei comunisti, i liberali e i democratici italiani non saranno capaci di rivendicare l’eredità di Machiavelli? Per il solitario pensatore sardo, coerente a tutte le premesse dell’ “umanesimo marxista”,la funzione creatrice e liberatrice che Machiavelli aveva assegnato allo Stato trapassa naturalmente alla “classe”, secondo la stessa logica inesorabile per cui la guerra internazionale ha ceduto il posto a quella civile o il conflitto di nazioni si è spostato sul piano della lotta sociale. In ogni caso, qualunque sia oggi la posizione dei marxisti o dei liberali, lo Stato moderno non sarebbe mai nato senza l’intuizione di Machiavelli. Ma quell’intuizione non avrebbe dato i suoi frutti, se non fosse passata attraverso il vaglio di Hegel. Machiavelli era ancora soltanto un “laico”; Hegel era già un “credente”. Questa è la differenza. Lo stato moderno, nella sua sostanza ultima, non è altro che la “Chiesa” del liberalismo.»: Ivi, pp. 263-268).
Ora, a parte la difesa del machiavellismo, aspetto sul quale torneremo fra breve, quello che sorprende è il ragionamento di Spadolini su Gramsci che ci porta ad una prima considerazione 1) che il moderno Principe di Gramsci, il Partito comunista della classe operaia e della classe contadina che organizza queste masse, viene in linea di principio giudicato nient’affatto con sospetto, anzi è quasi un modello da imitare, e ciò pone Spadolini ai margini della tradizione politica liberale cui appartiene, per la quale Gramsci e il suo moderno Principe sono sempre stati visti con estrema avversione, come una premessa, in altre parole, del totalitarismo. E sorprende anche che, però, il moderno Principe à la Spadolini non debba organizzare le masse operaie e contadine ma i democratici e i liberali, insomma già da questo si vede la debolezza della narrazione spadoliniana concepita non in funzione dell’organizzazione di vaste masse elettorali e quindi di una grande mobilitazione interclassista ceti medi più masse operaie e contadine da contrapporre al moderno Principe à la Gramsci che organizza le masse proletarie contadine ed operaie – e che, per quanto riguarda i ceti medi, guarda quasi esclusivamente agli intellettuali in via di proletarizzazione, o sempre a ceti medi non meglio specificati professionalmente ma solo se e in quanto se, come gli intellettuali, in via di rapidissimo declassamento –, che devono costituire il cervello pensante del moderno Principe-Partito comunista ma unicamente per compiere un’operazione esclusivamente all’insegna di una politique d’abord e senza alcuna pretesa di egemonia politico-culturale su tutta la società ma accatastando caoticamente e disorganicamente in un solo partito quell’Italia minoritaria di ceti intellettuali medio-alti (e come da noi già sottolineato, tutt’altro che omogenea dal punto di vista ideologico) che non si riconosceva né nella cultura cattolica né in quella comunista; 2) secondo critico aspetto della narrazione politica spadoliniana, è che a Spadolini non è affatto estranea la visione realistico-machiavelliana della politica, solo che,ahimè, questo realismo deve costantemente fare i conti con il suo progetto politico-culturale di costruzione di una costellazione di personaggi e di racconti biografici tutti diversi fra loro ma uniti non in virtù di una concezione realista della società e della politica, una concezione machiavelliana in altre parole, ma in ragione del valore morale di questi personaggi. Un valore morale che Spadolini, ricorrendo ad un lemma richiamante emotivamente la Roma antica (e in questo possiamo udire l’ eco del mito della Roma repubblicana filtrato attraverso Machiavelli), sovente definisce con l’aggettivo di ‘quiritario’, virtù quiritaria che avrebbe dovuto costituire quell’elemento distintivo di quell’ ‘Italia della ragione’ o di quell’ ‘altra Italia’ – termini entrambi carissimi a Spadolini anche se il secondo non era di conio spadoliniano ma che prima di Spadolini era stato impiegato come titolo per un serie di articoli che Ugo La Malfa aveva pubblicato su “Il Mondo” ma che, a sua volta, Ugo La Malfa aveva preso da Piero Gobetti, uno degli intellettuali che Spadolini ebbe fra i suoi più amati – che non si riconosceva né nella cultura cattolica né in quella marxista e tratto morale ‘quiritario’ come fomento generatore di quel ‘partito della democrazia’, altro termine molto caro a Spadolini, che avrebbe dovuto sorgere sulle basi del mazziniano PRI ben poco mazziniano già a quei tempi e ancor meno partito con possibilità di espansione. E che il realismo politico fosse una delle più vive contraddizioni del pensiero spadoliniano lo vediamo in questo rapido passaggio dove Spadolini ricorda lo storico Federico Chabod: «Munito di tutte le cautele del più agguerrito storicismo, lo Chabod non indulgeva mai alle pregiudiziali deterministiche e si guardava dalle pregiudiziali classificatorie: la sua sensibilità storiografica ripudiava gli schematismi e le astrazioni, respingeva le suggestioni delle “dottrine pure” e delle “pure strutture”, rifiutava il monopolio delle statistiche e dei diagrammi e, pur nell’indagare il giuoco degli interessi, non piegava alle assurde regole della “geopolitica”, non si muoveva sul piano della esclusiva e particolare storia diplomatica (pronto invece a cogliere la vibrazioni degli uomini, le sfumature delle correnti, le reazioni dell’opinione). »:Ivi, pp. 448-449.
Singolarissimo passaggio che oltre a restituirci una vivida rappresentazione dello storico valdostano, proprio per il difficoltosamente rattenuto pathos che lo pervade si presta anche ad essere un (molto poco) involontario ritratto di Spadolini stesso, in realtà un autoritratto dal quale possiamo estrarre due elementi.
Primo) Lo Spadolini-Chabod, da vero storicista crociano rifiuta il determinismo marxista o meglio rifiuta il determinismo marxista di scuola marxista-leninista(semmai verrebbe da chiedersi quanto nell’Italia di inizio anni ’70 fosse egemone in seno alla sinistra il marxismo-leninismo mentre nel partito comunista era sicuramente più seguito il marxismo umanistico di Antonio Gramsci tradotto per le masse del PCI e come instrumentum regni ideologico per i quadri e i dirigenti nella versione geneticamente modificata di Palmiro Togliatti del partito Nuovo e che del moderno Principe gramsciano, in pratica, non sapeva che farsene perché in questo partito Nuovo era solo il momento politico che avrebbe dovuto organizzare le masse e l’apporto degli intellettuali all’organizzazione e direzione del partito Nuovo non era visto alla luce di una continua prassistica dialettica momento intellettuale/momento politico ma solo come subordinazione degli intellettuali alla dirigenza politica – come infatti sempre fu il PCI di Togliatti e dei suoi successori – e abbandonando il partito Nuovo togliattiano ogni velleità egemonica sulla società, una egemonia che, secondo Gramsci, avrebbe dovuto essere il prodotto politico della dialettica fra momento intellettuale e momento politico che nel partito comunista-moderno Principe avrebbe trovato la sua più alta entelechia ed efficacia perchè volto al coinvolgimento diretto delle delle masse proletarie e contadine in questa stessa dialettica, in un processo sì egemonico su tutta la società ma egemonico non per l’esito autoritario in senso politico-istituzionale ma perchè realmente trasformatore di tutti i rapporti di classe e reali rapporti di forza fra queste – e in questo empito totalitario di Gramsci, totalitario cioè nel senso di trasformazione totale della società, come non vedere anche dei riflessi del totalitarismo mazziniano, per il quale repubblica significava trasformazione totale della società imponendone un imperativo di miglioramento etico-sociale: certo Gramsci guardava alla lotta di classe, Mazzini invece alla collaborazione di classe ma in entrambi incombe la presenza, o si registra la presenza se vogliamo usare un verbo meno urticante, di uno Stato etico mazziniano o di un moderno Principe gramsciano, se si preferisce, che progetta di rivoltare come un calzino la società in dispregio a tutte le “conquiste” individualiste del liberalismo; inteso, invece, il partito Nuovo togliattiano esclusivamente come il generatore, seppur autoritario, di una inclusività puramente addizional-matematica e non organica di tutte le classi sociali all’interno del partito, partito Nuovo di Togliatti, quindi, autoritario ma non nel senso del Partito comunista-moderno Principe di Gramsci per il quale la decisione verticistica ed inappellabile era solo giusticata dalla finalità di far scaturire una libera dialettica sociale annientatrice della sottomissione di classe del regime capitalista, ma profondamente connotato da un autoritarismo che rinunciando ad una reale egemonia sulla società, aveva anche abbandonato ogni pretesa alla trasformazione dialettica della stessa come invece avrebbe fatto il Partito comunista-moderno Principe, limitandosi il partito Nuovo a dovere tracciare una linea mediana di sintesi puramente geometrico-calcolatoria fra le varie e divergenti istanze della società; ma su queste sottigliezze preferiva sorvolare Spadolini tutto teso a compattare un fronte liberaldemocratico che, per quanto più a sinistra del partito liberale non poteva certo transigere sulla contrapposizione al comunismo o, meglio, sulla contrapposizione di quello che oramai solo nel nome e nella ingenua rappresentazione dei suoi detrattori e dei suoi militanti poteva essere definito Partito comunista. Un partito Nuovo togliattiano meramente addizionatore matematico delle spinte e controspinte che provengono dalla società – insomma, una sorta di Democrazia Cristiana più di sinistra e che ha rinunciato ad ogni riferimento identitario alla religione cattolica, in altre parole, l’attuale PD – e non momento fondamentale della loro sintesi dialettica che conduce all’egemonia culturale e politica del partito sulla società e che perciò è veramente la pallida e svirilita caricatura del partito comunista-moderno Principe di Antonio Gramsci, come cerca di farcelo accettare con debolissimo ragionamento – in realtà dimostrando di non crederci nemmeno lui – Cino Tortorella:«Così il partito di cui Gramsci traccia l’idea ha un compito altissimo, politicamente e moralmente. Viene di qui una concezione che tende a fare del «moderno Principe» un soggetto che può porsi come assoluto: «Il “moderno Principe”, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il “moderno Principe” stesso, e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo» (Q. XIII, l). Questa concezione del partito in Gramsci non può dunque essere ridotta e banalizzata – come è stato fatto – quasi che essa costituisse l’imitazione o l’eco di quel che intanto andava accadendo nell’Urss e del ruolo che vi acquistava il partito. Era una concezione che, tuttavia, andava superata; e così è già in Togliatti con l’idea del «partito nuovo», cui si aderisce su base programmatica. Il laicismo moderno e la laicizzazione integrale che Gramsci considerava come finalità essenziale avrà bisogno di un partito comunista che, senza nulla perdere del proprio impegno ideale e morale, sappia considerarsi come un soggetto tra gli altri: capace di battersi per i propri convincimenti e per i propri programmi senza ignorare le ragioni degli altri.»: Cino Tortorella, Partito come moderno principe, da noi citato all’URL dell’ “Associazione Enrico Berlinguer. Per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale della sinistra italiana”https://enricoberlinguer.org/home/glossario-gramsciano/64-partito-come-moderno-principe.html, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20221205104904/https://enricoberlinguer.org/home/glossario-gramsciano/64-partito-come-moderno-principe.html, messo in Rete dall’“Associazione Enrico Berlinger” senza data ma sicuramente non dopo il congelamento Wayback Machine avvenuto in data 15 agosto 2022 e articolo a sua volta originariamente in Aldo Tortorella, Partito come «moderno Principe», in Carlo Ricchini, Eugenio Manca e Luisa Melograni (a cura di), Gramsci. Le idee nel nostro tempo, Roma, Editrice L’Unità, 1987, pagine del collocamento all’interno del documento ugualmente non disponibili).
Secondo) Spadolini rifiuta sempre, in nome di una visione antideterminista, anche la geopolitica e su questo punto occorre soffermarsi. Oggi si fa un gran parlare e straparlare di geopolitica, la geopolitica serve per condire qualsiasi immangiabile pietanza ed effettivamente da parte dei suoi più beceri turiferari la geopolitica viene tirata in ballo per giustificare immancabilmente e deterministicamente tutto e il contrario di tutto. Lo si è ben visto nel corso dell’attuale guerra Nato-Russia, che dai sopraddetti turiferari viene raccontata come una guerra Russia-Ucraina dove la Russia sarebbe l’aggressore e l’Ucraina l’aggredito, mentre in realtà l’Ucraina non fa altro che agire per procura della Nato la quale sin da prima dello scoppio del conflitto, da Euromaidan del 2013 in poi, aveva sempre più aumentato la sua pressione sull’Ucraina per renderla nemica della Russia allo scopo di diminuire la profondità strategica di questa in un processo che nei disegni Nato avrebbe dovuto portare ad uno smembramento della stessa Federazione russa (geopolitica non racconti di fate per masse incolte e credulone, please!), una geopolitica dove i Russi, per questi esimi autoproclamati esperti in questa disciplina, starebbero immancabilmente collassando in ragione del fatto che sarebbero costretti ad andare all’assalto con le pale per poi scoprire che l’apparato bellico russo è superiore come livello di produzione (e come qualità dei sistemi d’arma prodotti e dispiegati) a quello di tutti i paesi dell’Unione europea messi assieme, una geopolitica che ci diceva che le sanzioni contro la Russia l’avrebbero schiantata in pochi mesi mentre ora la Russia prospera e quella che si sta economicamente schiantando a causa delle sanzioni è l’Europa (discorso diverso per gli Stati Uniti, che ha come non mai lucrato per le sanzioni europee contro la Russia in campo energetico: da questo punto di vista, se la Russia ha praticamente vinto il conflitto armato, l’altro vincitore, almeno dal punto di vista economico, sono gli Stati uniti. Ma su questo i nostri grandi geopolitici da talk show nulla dicono. Aspettiamo fiduciosi…) e una geopolitica che, nonostante le sue deliranti affermazioni sulle immense perdite umane inflitte dagli Ucraini ai Russi, non riesce a dare una spiegazione minimamente razionale sul fatto gli ucraini sono costretti ad una sempre più pervasiva mobilitazione, progettando di richiamare alle armi anche i diciottenni (già fatto per i malati oncologici ed anche per chi soffre di gravi malattie mentali e deficit cognitivi, tanto per fare la carne da cannone…), delirando di costringere i paesi europei a farsi consegnare i più o meno patriottici profughi ucraini per spedirli immantinente al fronte, in uno sconsiderato, inefficace e criminale richiamo alle armi anche di coloro precedentemente risparmiati, dove le squadre dei reclutatori girano per strada compiendo rapimenti nello stile della vecchia marina britannica e che per questo rischiano regolarmente di incappare in schioppettate da parte dei reclutandi mentre in Russia fanno la fila per essere volontariamente arruolati nell’esercito, invogliati da ciò sia dalle alte paghe che vengono corrisposte ai militari ma anche dall’innegabile dato di realtà che per un militare russo questo mestiere non corrisponde al suicidio mentre il contrario si può dire per un militare ucraino. Caposcuola di questa esimia figliata di geopolitici fai da te è un certo personaggio, una sorta di Fantomas (o se si preferisce, di Lex Luthor o anche di Kurtz-Marlon Brando di Apocalypse Now di Coppola) de Noantri, certamente loquace nel presentare la sua mercanzia sciorinandoci le sue profonde verità geopolitiche ma al, al contrario, afasico e poco trasparente nel rappresentarci con dovizia di altrettanto illuminanti particolari i suoi quarti di nobiltà accademici, che di per sé non fanno un geopolitico ma che, come in questo caso, nelle modalità con cui costui ce li rende di pubblico dominio, gettano un’ombra sulla pubblica affidabilità del suo sentenziare, quarti di nobiltà, comunque, con i quali o senza i quali il nostro eroe in questione è un campione del mondo di analisi geopolitiche sballate e regolarmente smentite e ridicolizzate dai fatti successivi ma mai da lui pubblicamente riconosciute come tali e rettificate.
Ma questo riguarda l’oggi ma agli inizi degli anni ’70, quando Spadolini scrive quelle parole qual è la situazione della conoscenza presso il più vasto pubblico – ed anche presso gli intellettuali – della geopolitica? A questo si può rispondere che la geopolitica in quegli anni era praticamente sconosciuta, ma anche aggiungere che, nonostante questo, si può dire che Spadolini ne aveva una buona conoscenza che in virtù del difetto principale in cui può incorrere la geopolitica – e incisivamente rilevato, come s’è visto, da Spadolini scrivendo su Chabod –, e cioè una visione troppo sovente determinista delle dinamiche politiche, economiche e geostrategiche, gli consentiva di rigettarla nel suo insieme. Ma avanziamo ora un’ipotesi su questa esibita diffidenza di Spadolini verso la geopolitica, una idiosincrasia che, riteniamo, fosse più un atteggiamento pubblicamente rappresentato che profonda convinzione perché a Spadolini non era affatto estranea la dimensione machiavelliana e quindi realistica, e l’ipotesi è – ma ipotesi molto forte perchè totalmente compatibile con tutto il suo profilo intellettuale e politico fin qui tracciato – che questa contrarietà verso la geopolitica fosse stata pubblicamente ostentata perché questa scienza tendeva, pur nelle varie sfumature dei suoi autori, a mettere assolutamente in secondo piano, fino a ritenere del tutto ininfluenti, tutti quei fattori sovrastrutturali di tipo quiritario e morale (meglio: moralistici tout court) che Spadolini aveva tanto cari e per l’edificazione del suo progetto politico in Italia ed anche per il mantenimento della narrazione filoccidentale e filoatlantica cui il Professore tanto teneva non so quanto per convinzione personale ma certamente fondamentale per posizionare il futuro partito della ragione – al tempo di quel giudizio sulla geopolitica Spadolini non era ancora segretario del PRI, ma certamente più di un pensiero in proposito doveva averlo fatto! e se divenire segretario del Partito repubblicano non era certo obiettivo programmabile in anticipo, non altrettanto si può dire di una carriera politica da notabile all’interno della c.d. area laica, per Spadolini preferibilmente il Partito repubblicano o quello liberale – come il più affidabile guardiano del dogma atlantista (già il PRI, i liberali e i socialisti di Saragat lo erano ma Spadolini Segretario del PRI riuscirà ad accentuare ancor di più questa caratteristica del Partito repubblicano). Per farla breve, nel novero dei personaggi pubblici e politici, egli fu il più accanito filoatlantista ed anche filoisraeliano che mai fosse apparso e mai più apparirà in Italia e un posizionamento che a livello pubblico venne sempre giustificato da Spadolini in base a ragionamenti di natura extrastorica ed intrinsecamente antigeopolitica di matrice unicamente moralista basati sulla necessità di difesa dell’occidente e della democrazia e mai perché magari si doveva fare così e schierarsi così perché le alternative, geopolitiche o geostrategiche o storiche che dir si voglia, non consentivano di far diversamente.
Ritengo molto opportuno a questo punto, per dare forma compiuta a questo discorso su Spadolini, sul suo progetto politico, sulle sue contraddizioni e, soprattutto, su quanto queste contraddizioni possano farci da segnalatore d’incendio sulle attuali, intese come costituzione materiale ideologica di un paese che – destra e sinistra in questa Stimmung ideologica accomunate indifferentemente – non riesce a darsi una decente narrazione che faccia veramente gli interessi globali dell’ Italia vista come comunità nazionale dotata di una sua peculiare identità, che è il suo bene più prezioso da tutelare (insomma, per mettere a fuoco quanto questo discorso su Spadolini possa essere d’aiuto per un’Italia formata in senso rigorosamente ed autenticamente mazziniano), ricorrere al Nomos della Terra di Carl Schmitt: «Nell’epoca interstatale del diritto internazionale, databile tra il secolo XVI e la fine del XIX, si conseguì un reale progresso nel campo della civiltà: quello di circoscrivere e definire giuridicamente la guerra in ambito europeo. Come osserva Alfred von Verdross nella sua recensione al Nomos, è di importanza centrale il passaggio, avvenuto attorno ai secoli XVI-XVII, dall’analisi teologico-morale della justa causa belli a quella puramente giuridica dello justus hostis (e quindi del bellum justum interstatale). Questo passaggio è realmente importante e merita di essere evidenziato, anche perché il concetto di “equilibrio interstatale” che esso introduce si sarebbe mantenuto sostanzialmente inalterato fino a tutto il secolo XIX. Cessata l’unitarietà medievale dei punti di riferimento e di orientamento spaziale, è l’uguaglianza tra le nuove figure (o “persone”) statali che determina la limitazione dei mezzi bellici consentiti nel bellum justum. Non più valutazioni contenutistiche tese a giustificare (o ingiustificare) il ricorso alle armi in base a verità ultime ed esclusive, ma solo la precisa definizione giuridico-formale delle parti contendenti come Stati sovrani titolari di un potere effettivo può consentire l’esercizio del bellum justum. La guerra statale si contrappone allora alla guerra di religione che alla guerra civile, assumendo un’inconfondibile forma giuridica, facendosi cioè guerre enforme. Se gli Stati territoriali, nella veste di personae publicae, si considerano sempre cavallerescamente l’un l’altro come justi hostes, ne consegue che la guerra riesce a diventare qualcosa di analogo a un duello, a un combattimento tra personae morales individuate territorialmente e radicate nell’ambito spaziale europeo. A confronto con la brutalità espressa dalle guerre di religione e di fazione, che sono per la loro stessa natura guerre di distruzione in cui i nemici si discriminano a vicenda come criminali, e a confronto con le guerre coloniali, condotte contro i popoli “selvaggi”, ciò significa una razionalizzazione ed un’umanizzazione di grande valore. Ad entrambe le parti in lotta spetta lo stesso riconoscimento giuridico-formale, con la conseguenza di poter distinguere, grazie a criteri certi, il nemico dal criminale. Il concetto di nemico non corrisponde più a “qualcosa da annientare”, ovvero ad un assoluto negativo, al quale non è dovuto neppure alcun rispetto umano e morale. Ora aliud est hostis, aliud rebellis. Diventa pertanto possibile procedere ad un trattato di pace con i vinti e – cosa egualmente importante – diventa possibile agli Stati estranei al conflitto mantenersi in uno status giuridico-internazionale di neutralità, quali terzi. Ora, va riconosciuto che con il secolo XX proprio questa funzione, limitativa del diritto internazionale è venuta meno, determinandosi un quadro segnato: a) dalla sempre possibile guerra di annientamento totale (dove il passaggio dall’uso delle armi convenzionali a quello delle armi nucleari non è ‘trattenuto’ se non da occasionalismi storico-politici); b) dalla perdita irreversibile del senso di una normatività naturale (che era stata, per il passato, la condizione di possibilità, quasi l’a priori metafisico, del nomos della terra); c) dalla falsa ipotesi teorica, che informa assai spesso la prassi dei governi, secondo cui cause di tipo economico-strutturale (ad esempio relative alla distribuzione delle risorse materiali) sono sufficienti a spiegare il problema dell’equilibrio mondiale e le ragioni profonde del conflitto (escludendo quindi tra l’altro che le leggi del ‘politico’ abbiano una loro ben chiara autonomia nei confronti di quelle dell’ ‘economico’ o del ‘giuridico’).»: Carl Schmitt, Il Nomos della Terra Nel Diritto Internazionale dello “Jus Publicum Europaeum”, traduzione e postfazione di Emanuele Castrucci, cura editoriale di Franco Volpi, Milano, Adelphi, 20064, pp. 437-439.
Con una piccola modifica della locuzione ‘guerre en forme’ possiamo dire che con la seconda presidenza Trump siamo passati da un imperialismo che aveva bisogno di giustificazioni politico-morali per agire (la difesa della democrazia e/o dell’occidente ed altre autentiche corbellerie come la difesa dei diritti delle minoranze, solo che vallo a far capire a queste assatanate zucche vuote – od autosvuotate, «Attacca ‘o ciuccio addò vo’ ‘o padrone», come si dice dalle parti di Partenope – di imperialisti old style che, ammesso e non concesso che in una data area del globo vi siano queste minoranze conculcate, fare una guerra in loro nome non ne accresce certo la popolarità presso i loro oppressori. Ma niente paura: empiricamente, nella stragrande maggioranza dei casi, queste minoranze sono pienamente rispettate e tutelate e i problemi arrivano dopo i salvifici interventi occidentali, nel senso che coloro che subentrano agli immaginari conculcatori, si mettono di buzzo buono a fare il contrario di quello di coloro che hanno rovesciato con l’aiuto occidentale, Siria docet, con l’odierna pietosa condizione, fra le altre minoranze, dei cristiani dopo il criminale rovesciamento del legittimo presidente Bashar al-Assad ad opera dei jihādisti ed altre variopinte formazioni di tagliagole appoggiate logisticamente e foraggiate finanziariamente dalla Nato, dalla Turchia e da Israele, ad ognuno di questi signori della guerra il suo tagliagole preferito fino al prossimo definitivo smembramento della Siria e vicendevole macello fra queste salvifiche formazioni di tagliagole con aggiunta dello sterminio delle minoranze che si diceva di volere proteggere) ad un ‘impérialisme en forme’ per il quale per agire sono dannose ed assurde le astratte regole del diritto internazionale ma vale solo l’interesse dell’agente statale imperiale, che per raggiungere i suoi obiettivi può anche ricorrere alla guerra che non si giustifica più in quanto avviene contro un nemico dell’umanità (egli, infatti, da ora da demone si tramuta in justus hostis: se notiamo, per Trump Putin non è più un pazzo criminale ma un amico, o un quasi nemico, col quale si deve trattare, e che se non ragiona, si tramuterà in justus hostis da colpire con sanzioni verso la Russia ma non certo un pazzo criminale, come espressamente faceva intendere Biden, da cancellare dalla faccia della Terra, solo che, ovviamente, ciò non era tecnicamente possibile ma per Biden, per tutto la sua amministrazione e più in genere, per tutta la genia dei suoi amici imperialisti infrolliti non ‘en forme’, nulla poteva essere escluso – non poteva, cioè, essere esclusa una bella guerra nucleare in Europa ma solo in Europa perché si può essere dal punto di vista del realismo politico e della salute mentale ‘fuori forma’ quanto si vuole ma lo spettro di una guerra termonucleare totale e combattuta anche sul territorio degli Stati uniti contro la Russia che detiene l’indiscusso primato in questo tipo di armamenti è capace di far rinsavire anche le menti più tarde e a gelare anche i più bollenti ed ottusi spiriti …) ma in quanto la guerra (e nel nostro caso, le mire imperialistiche) sono una modalità corretta e naturale dei rapporti internazionali fra Stati. Ci prendiamo il canale di Panama perché è nostro ed è stato un errore cederlo a Panama, ci prendiamo la Groenlandia perché ci conviene e non ha senso che un insignificante regno come la Danimarca voglia negarne il possesso a noi che siamo tanto più forti e capaci di farla fruttare e se così agendo si sovverte l’ordine internazionale basato sull’ipocrita precedenza del diritto sulla forza chissene …, e, infine, ci prendiamo il Canada perché siamo due fratelli e non ha senso che si viva in case separate mentre vivendo assieme potremmo dividere le spese, rectius: così gli Stati uniti possono spalmare meglio il loro immenso debito pubblico e l’altrettanto pauroso deficit della bilancia commerciale. Sovviene un dubbio: non è che Trump, al contrario di tutti i gallinacci impagliati liberal-liberisti e senescenti imperialisti vecchio stile, sia stato ispirato tramite una seduta spiritica – dubitiamo che sia un accanito lettore della letteratura economica ma non si sa mai! – dall’economista austriaco Kurt W. Rothschild laddove disse, già nel 1947, che per capire come funziona l’economia piuttosto che compulsare Adam Smith e i neoclassici, era meglio rivolgersi a Carl von Clausewitz e studiare il suo Vom Kriege? Vista la timida ed introversa natura del nuovo presidente degli Stati uniti nel quale la discrezione sulla sua vita privata e formazione è il tratto dominante della sua personalità e la natura altamente spirituale, per non dire esoterica, della domanda, forse non lo sapremo mai… ma per chi volesse approfondire la più prosaica questione dello sconcertante consiglio per le deboli menti degli imperialisti ‘fuori forma’di Rothschild, si cita, tanto per iniziare, da p. 135 di Michael Landesmann, Kurt Rothschild’s ‘Price Theory and Oligopoly’ Revisited, in Altzinger, Wilfried, Guger, Alois, Mooslechner, Peter, Nowotny, Ewald, Economics as a Multi-Paradigmatic Science. In Honour of Kurt W. Rothschild (1914-2010), Oesterreichische Nationalbank, Vienna, 2014, pp. 132-136: «Kurt Rothschild throughout his article prefers the language of Clausewitz (‘Principles of War’) to that of either game theory or to biological or psychological terms to characterise the behaviour of oligopolists (see pp. 305-07). This is also linked to Rothschild’s life-long interest in the role of power in economics; see his well known Penguin volume (Rothschild, 1971) [versione PDF del documento all’URLhttps://research.wu.ac.at/ws/portalfiles/portal/18977011/FINAL_VERSION_-_October_2014.pdf, Wayback Machine:https://research.wu.ac.at/ws/portalfiles/portal/18977011/FINAL_VERSION_-_October_2014.pdf ].», da p. 8 di Eckhard Hein and Achim Truger, Interview with G.C. Harcourt. The General Theory is not a book that you should read in bed!:«Doing my undergraduate dissertation I was very much influenced by K.W.Rothschild. He published this extraordinary paper Price theory and oligopoly (1947) about using Clausewitz’s Principles of War to examine oligopolist behaviour, about how secure profits are as important as maximum profits, in price wars and in the intervals between wars. [documento disponibile solo nella versione PDF all’URLhttps://www.elgaronline.com/view/journals/ejeep/8/1/article-p7.pdf, nostro “congelamento” autonomo su Wayback Machine:http://web.archive.org/web/20250204213148/https://www.elgaronline.com/downloadpdf/view/journals/ejeep/8/1/article-p7.pdf, nostro caricamento autonomo su Internet Archive:https://archive.org/details/kurt-w.-rothschild-repubblicanesimo-geopolitico-massimo-morigiehttps://ia904504.us.archive.org/35/items/kurt-w.-rothschild-repubblicanesimo-geopolitico-massimo-morigi/Kurt%20W.%20Rothschild%2C%20Repubblicanesimo%20Geopolitico%2C%20Massimo%20Morigi.pdf] » e, infine, citando direttamente dal Price theory and oligopoly di K.W. Rothschild, dove alle pp. 299-320 di “The Economic Journal”, vol. 57, n° 227 (Sep., 1947) viene pubblicato il predetto documento e dove a p. 307 si può apprezzare la famosa sentenza dello stesso Rothschild su Clausewitz e il suo Vom Kriege: «The oligopoly-theorist’s classical literature can neither be Newton and Darwin, nor can it be Freud; he will have to turn to Clausewitz’s Principles of War. There he will not only find numerous striking parallels between military and (oligopolistic) business strategy, but also a method of a general approach which – while far less elegant than traditional price theory – promises a more realistic treatment of the oligopoly problem. To write a short manual on the Principles of Oligopolistic War would be a very important attempt towards a new approach to this aspect of price theory; and the large amount of descriptive material that has been forthcoming in recent years should provide a sufficient basis for a start. [documento da noi raggiunto all’URLhttps://www.roterboersenkrach.at/wp-content/uploads/2011/12/rothschild-1947-price-theory-and-oligopoly.pdf, Wayback Machinehttps://web.archive.org/web/20210308202431/https://www.roterboersenkrach.at/wp-content/uploads/2011/12/rothschild-1947-price-theory-and-oligopoly.pdfe nostro caricamentoautonomo su Internet Archive agli URLhttps://archive.org/details/kurt-wilhelm-rothschild-kurt-w.-rothschild-price-theory-and-oligopoly-1947-massiehttps://ia600608.us.archive.org/29/items/kurt-wilhelm-rothschild-kurt-w.-rothschild-price-theory-and-oligopoly-1947-massi/Kurt%20Wilhelm%20Rothschild%2C%20Kurt%20W.%20%20Rothschild%2C%20Price%20Theory%20and%20Oligopoly%2C%201947%2C%20Massimo%20Morigi%2C%20Repubblicanesimo%20Geopolitico.pdf]».Ma a questo punto della nostra acribia citatoria, siamo fiduciosi di aver reso un buon servizio non solo ai lettori de “L’Italia e il Mondo” ma anche al neoeletto presidente Trump che così, sulla scorta di questo documento di cui forse non era a conoscenza, potrà rendere ancora più teoricamente scaltriti e concretamente operativi ed efficaci i suoi imérialisme en forme e le appena iniziate guerre doganali che ne sono il necesssario corollario e dal quale ci aspettiamo, per questo, un cenno di ringraziamento, anche privatamente, vista la discrezione che è il suo marchio di fabbrica. Attendiamo speranzosi…
Non possiamo sapere come Spadolini avrebbe reagito politicamente e pubblicamente di fronte a questa rozza manifestazione di geopolitica à la Trump, (espressa per ora solo verbalmente ma siamo agli inizi del suo secondo mandato e diamo tempo al tempo), un ‘impérialisme en forme’ che ha letteralmente disintegrato tutti i velami ideologici della difesa dell’occidente, della democrazia et similia. Su un piano strettamente interiore, sono sicuro che avrebbe condiviso, come la quasi totalità della pubblica opinione ma anche come la quasi totalità di coloro che, pur addentro negli arcana imperii, della politica non hanno una visione informata ad un concetto di realismo di marca predatoria, lo sdegnato orrore che naturalmente e giustamente ispira questa inedita situazione di ‘impérialisme en forme’. (Come predatorio non è il realismo del Repubblicanesimo Geopolitico, machiavellianamente conflittualista ma tutt’altro che predatorio perché basato su una filosofia della prassi che implica un rapporto dialettico fra soggetto ed oggetto, che non sfocia mai nella soppressione di uno di questi due momenti, che rifiuta espressamente, cioè, al contrario che in Carl Schmitt, l’eliminazione del nemico, ma è consustanziale e quindi necessariamente complementare alla continua trasformazione dell’amico e del nemico attraverso il loro incessante confronto dialettico di vicendevole superamento ma non annientamento, lungo una linea di pensiero dialettico che parte dal realismo del conflittualismo civile e repubblicano di Niccolò Machiavelli, passa per l’ Aufhebung delle forme storiche e politico-sociali e della dialettica continuamente evolutiva e trasformatrice del rapporto servo-padrone concepiti da Hegel, comprende in sé l’impostazione olistica della comunità nazionale di Giuseppe Mazzini, per il quale repubblica non significa la mera sostituzione di un re con un presidente ma quella forma di Stato che sappia garantire, al contrario della monarchia, il continuo rafforzarsi di questa natura olistica della società contro tutte le spinte disgregatrici ed anomizzanti ingenerate dalla concezione del diritto individuale che dovrebbe sempre prevalere sui doveri sociali così come vorrebbe il liberalismo, mentre, per Mazzini, l’organizzazione politico-sociale deve poggiare su una teoresi e pratica politica dove i doveri dell’uomo verso la società sono sempre gerarchicamente superiori ai diritti che la società concede – per Mazzini: concede come corrispettivo dei doveri compiuti ma non che deve concedere per una sorta di inesistente diritto naturale, diritto naturale inesistente ma molto presente nella mente dei moderni a causa dell’ideologia liberal-liberista che, in realtà, con questa menzogna vuole rendere gli uomini schiavi e l’un contro l’alto armati attraverso l’azione anomizzante e disgregatrice del vincolo sociale di questi “diritti naturali” – ai suoi componenti, fino a giungere al marxismo cultural-volontaristico ed antideterministico e alla filosofia della prassi di Antonio Gramsci, gemmazione diretta quest’ultima, attraverso il suo rifiuto di un marxismo positivista e sotto la forte influenza di una Weltanschauung profondamente segnata dal volontarismo sorelliano, dell’idealismo italiano nella versione dell’attualismo di Giovanni Gentile: idealismo italiano che come fiume carsico attraversa, anche se a monte di fine percorso dividendosi in corsi gettantisi in mari politici di diverso nome e vocazione, il rivoluzionario Gramsci e il patriota liberale ma anche gobettiano nel senso della Rivoluzione Liberale Giovanni Spadolini!)
Ma siccome Spadolini, oltre che l’immaginifico assemblatore di costellazioni di personaggi che, in fondo, in comune avevano ben poco, era anche, quando lo voleva, un solido realista, in chiusura di questo ragionamento, mi sia consentito di sintetizzare la Gestalt più profonda di questo profilo di Giovanni Spadolini, citando le parole conclusive che egli stesso, negli Uomini che fecero l’ Italia impiegò nel suo medaglione su Salandra, dove il nome del biografato può non solo essere sostituito, mantenendo la moralità del testo, con quello del compianto Professore ma anche con i nomi di tutti quelli che, lo scrivente compreso, forse non hanno compreso in tempo il ‘compiuto peccato’ di un’Italia che forse perché non poteva fare diversamente ma anche perché non l’ha voluto si è adagiata, dopo il secondo conflitto mondiale, sui comodi ma falsi concetti, miti e parole dei più potenti pseudoamici d’oltreoceano: «Ora che tante di quelle passioni sono spente, nessuno può valutare esattamente il posto che Salandra occuperà nel quadro della storia italiana. Con le sue stesse contraddizioni, le sue intransigenze ideali ed i suoi compromessi politici, Salandra rappresenta un momento della vita del paese, riflette passioni che furono anche generose ed alte. Difficile pensare che sopravviva, di lui, una vera e propria concezione politica; altrettanto difficile pensare che basti, a difenderne la popolarità, il giurista, pur così eminente. Più facile supporre che il suo nome, affidandosi alle memorie dell’intervento e della prima guerra mondiale, sarà ricordato con affettuoso rispetto da generazioni di ragazzi e giovani, da tutti coloro che crederanno ancora ai valori della patria e alla sua continuità. E che non si porranno mai quei problemi che interessano solo lo storico di professione.»: Giovanni Spadolini, Gli uomini che fecero l’Italia, vol. II, Il Novecento, Milano, Longanesi, 1972, p. 185.
Giovanni Spadolini «È sepolto nel cimitero monumentale delle Porte Sante, ai piedi della basilica di San Miniato, nel piccolo prato che sovrasta Firenze, accanto a Vasco Pratolini, Pietro Annigoni, Giorgio Saviane e Mario Cecchi Gori. Davanti alla cappella della famiglia, dove riposano, fra gli altri, i genitori.»: Cosimo Ceccuti, cit., p.63. Per sua disposizione volle che sulla sua lapide – una lapide che nella forma ci vuole suggerire l’immagine di fogli sparsi e libri, quei libri che egli tanto amò – fosse incisa unicamente la scritta ‘Un Italiano’.
S. Non so se queste mie parole possano costituire una risposta alle considerazioni suscitate a ws dai miei precedenti interventi in tema di Risorgimento, mazzinianesimo e Partito repubblicano. Personalmente, ricostruire il profilo politico-intellettuale di Giovanni Spadolini, non è stato solo un esercizio di conio di un medaglione biografico e ulteriore chiarificazione di teoria politica dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico ma è stato, anche sotto l’aspetto sentimentale, una recherche du temps perdu, che mi ha profondamente toccato. Spero solo che un po’ di questa emozione, non per le limitate capacità espressive dello scrivente, ma per il valore umano e di inattingibile esempio di pubblica moralità – al di là dell’ attualità delle sue concezioni ideali e delle sue azioni politiche – di Giovanni Spadolini che volle incarnare le speranze o le illusioni per un Italia migliore e lo ha fatto nei momenti in cui c’era ancora una gioventù e un popolo che, al di là delle appartenenze politiche, credeva ancora in questa possibilità, siano state trasmesse ai gentili lettori dell’ “Italia e il Mondo”, anche – se non soprattutto– a coloro di diversa origine politica ma che, fondamentale, sono accomunati nell’amore per l’Italia, un amore che fu l’unica vera passione che costantemente ispirò l’operato e le speranze di Giovanni Spadolini.
Massimo Morigi, terzo intervento sul mazzinianesimo pubblicato dal blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo” in data IX Febbraio 2025, 176° anniversario della proclamazione della Repubblica Romana del 1849
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Zelensky si è avvicinato sempre di più alla conclusione logica finale del percorso di mobilitazione dell’Ucraina e alla prova del fuoco demografica in uno. In una nuova intervista con Reuters, il leader condannato ha annunciato che le autorità ucraine stanno progettando un nuovo, attraente “contratto” per la fascia 18-24:
“Le brigate di combattimento, quelle esperte, insieme al Ministero della Difesa… stanno lavorando a un’opzione contrattuale per i giovani dai 18 ai 24 anni… Ci sarà un accordo speciale, ci saranno molte preferenze… ci sarà un sostegno finanziario molto elevato”, ha detto Zelensky.
Ciò rientra nella recente iniziativa di Zelensky di procedere gradualmente in punta di piedi verso la piena mobilitazione dell’ultimo contingente di giovani, inizialmente incentivandoli pesantemente, e poi rafforzando gradualmente il giogo con varie disposizioni e vincoli che eliminano le categorie di esenzione una alla volta.
In passato ho pubblicato vari video che mostrano che è già in corso una specie di mobilitazione “furtiva” di 18+, come questo del deputato della Rada Dmitry Razumkov . A seconda della reale portata della mobilitazione furtiva, potrebbe significare che l’Ucraina affronterà seri guai se mai dovesse davvero annunciare “ufficialmente” una mobilitazione di 18+, perché quelle riserve sarebbero già state prosciugate in anticipo.
In un certo senso, sia Putin che Zelensky stanno giocando allo stesso gioco: Putin si è rifiutato di fare un’altra chiamata di massa “ufficiale”, affidandosi a varie forme di opzioni di mobilitazione “lowkey”, dal lavoro dei prigionieri, ai volontari e ai mercenari, in parte per evitare che la società si inasprisca nei confronti della guerra. Ora Zelensky fa lo stesso, ma si trova in una situazione molto più disperata.
In una nuova intervista ha affermato di non riuscire nemmeno a immaginare come l’Ucraina combatterà la guerra se gli Stati Uniti cesseranno il loro sostegno:
È interessante notare che menziona che il supporto degli Stati Uniti è rimasto lo stesso ma “nessun nuovo pacchetto” è stato annunciato sotto l’amministrazione Trump. Gli esperti hanno soppesato che questa linea continua di armamenti deriva dagli ordini dell’amministrazione Biden tramite il programma di supporto diretto del Pentagono, ma nulla è arrivato dalla Casa Bianca tramite le autorità di prelievo del presidente o altri strumenti diretti di aiuti speciali.
In effetti, Trump ha raddoppiato la sua idea che qualsiasi supporto futuro dovrebbe essere strettamente negoziato in cambio delle risorse dell’Ucraina, come si vede in questo nuovo video di oggi. Guardate la seconda parte, dove ho inserito anche i nuovi commenti di Zelensky, che sono piuttosto esplicativi:
Non è ironico che Zelensky mostri una mappa della ricchezza mineraria ucraina, suggerendo che la Russia è il nemico perché vuole l’Ucraina per le sue risorse naturali, eppure è il suo stesso “alleato” primario che ha appena descritto apertamente l’Ucraina come niente più che un’opportunità commerciale transazionale per le risorse naturali. Gli Stati Uniti sono letteralmente ciò che Zelensky crede che sia la Russia, eppure la maschera ipocrita deve essere mantenuta per presentare ingiustamente la Russia come il cattivo.
A proposito, nell’intervista Zelensky ha ammesso che il 50% di quelle terre rare tanto desiderate sono già sotto il controllo russo:
Come si può vedere, la stragrande maggioranza delle risorse rimanenti passerà sotto il controllo russo in un futuro non troppo lontano:
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Ora l’Ucraina ha lanciato una nuova offensiva localizzata a Kursk, che ha ripreso il piccolo insediamento di Cherkasskaya Konopelka, appena a sud di Sudzha:
Le forze nemiche si sono accumulate nella regione di Sumy per diversi giorni. Le riserve sono state attaccate, anche dall’Iskander OTRK, molti hanno visto il video ieri, è stato pubblicato sui canali Telegram. Il nemico ha attaccato oggi nella regione di Kursk, sperando nel maltempo, l’ultima volta ha attaccato durante “cieli sereni”. In totale, il nemico ha lanciato fino a 30 unità di equipaggiamento nella prossima offensiva, ora la stanno eliminando e questa offensiva per il khokhol finirà allo stesso modo delle precedenti, cioè con sconfitta e pesanti perdite.
Grandi interessi
Lo scopo è quello di dare un po’ di respiro a Sudzha, che le forze russe hanno messo sotto pressione nelle ultime settimane. L’offensiva ha visto diversi battaglioni di truppe e circa 30-50 veicoli già dichiarati distrutti in un altro tiro al tacchino. D’altro canto, la parte ucraina sostiene che anche le forze russe hanno subito pesanti perdite. In questo caso, i russi hanno avuto il sopravvento sulla propaganda con decine di video di equipaggiamento ucraino distrutto e uomini che si riversavano fuori, tra cui molti oggetti “rari” – ora distrutti – come i carri armati Challenger, i Bergepanzer, i Wisent-1 e gli IMR-2, il che ha portato gli analisti a ritenere che l’AFU stesse raschiando il fondo del barile per le armi pesanti da usare.
Un piccolo elemento che crea atmosfera:
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Nel frattempo il DailyMail ha pubblicato un altro “piano di pace” di Trump “trapelato”:
Come al solito, non ha alcuna possibilità di essere accettato da Putin, anche se fosse reale.
L’unica vera domanda a questo punto, come hanno appena chiesto i Duran nel loro ultimo programma , è se Trump “intensificherà” o se ne andrà. In una nuova intervista con il NYT , Keith Kellogg avrebbe detto che l’attuale “livello di sofferenza” delle sanzioni russe è di circa 3 su 10 e che Trump ha molto più margine per aumentare quel “livello di sofferenza” esercitando una pressione sulle sanzioni sul petrolio e sul gas russi.
L’applicazione delle sanzioni alla Russia è “solo circa un 3” su una scala da 1 a 10 su quanto possa essere dolorosa la pressione economica, ha detto Kellogg. Le sanzioni statunitensi stesse, come quelle che prendono di mira il redditizio settore energetico russo, sono nominalmente il doppio, ma c’è ancora spazio per aumentarle.
“Si potrebbero davvero aumentare le sanzioni, specialmente le ultime sanzioni [che prendono di mira la produzione e le esportazioni di petrolio]”, ha detto. “Ha aperto un varco molto in alto per fare qualcosa.
Se questo è l’unico dardo rimasto nella faretra di Trump per “danneggiare” la Russia, allora temo che gli USA abbiano poche possibilità di convincere Putin. La maggior parte delle azioni dell’Occidente e dell’Ucraina contro le industrie energetiche russe finiscono ironicamente per aiutare solo la Russia aumentando i prezzi del petrolio, il che annega la Russia in profitti record; ad esempio gli attacchi dei droni ucraini alle raffinerie di petrolio russe. Ma con la conferenza di Monaco alle porte, Kellogg promette che presto apprenderemo maggiori dettagli sul vero “piano di pace” di Trump nel prossimo futuro.
Ci si chiede se l’amministrazione Trump continuerà la tradizione di risparmiare l’unico governatore speciale nei prossimi pacchetti di sanzioni:
Tuttavia, Kellogg ha dimostrato un briciolo di buon senso nell’intervista:
“Per la Russia, questo è in un certo senso nel loro DNA nelle operazioni militari: fondamentalmente, sei in una lotta di logoramento”, ha detto. “Se guardi alla storia, non vorresti mai entrare in una lotta di logoramento con i russi, perché è così che combattono. Ci sono abituati. Voglio dire, questo è un paese che era disposto a perdere, e lo ha fatto, 700.000 uomini nella battaglia di Stalingrado in sei mesi, e non ha battuto ciglio”.
“E quindi la pressione non può essere solo militare. Bisogna fare pressione economica, bisogna fare pressione diplomatica, qualche tipo di pressione militare e leve che si useranno sotto quelle per assicurarsi che [questo vada] dove vogliamo che vada”, ha spiegato.
Siamo onesti: in definitiva, l’ unica opzione rimasta agli Stati Uniti che potrebbe anche solo lontanamente influenzare l’inesorabile avanzata russa è che Trump annunci un importante intervento militare diretto in Ucraina. Per ovvie ragioni, non credo che si arriverà a questo, anche se Trump potrebbe tentare di tirare fuori qualche carta vincente minacciando una specie di stratagemma inverso all’aeroporto di Pristina per far atterrare le truppe da qualche parte dall’altra parte di una immaginaria “DMZ”, ma senza una gigantesca coda logistica nell’ovest del paese, non convincerebbe mai nessuno, non ultimo lo stato maggiore russo. Per minacciare anche lontanamente le forze russe avresti bisogno non solo di una vasta quantità di manodopera dispiegabile, ma anche della capacità di sostenerle per periodi credibili di scambi ad alta intensità.
Ma come ho detto, anche se è improbabile, è l’ unica cosa che Trump potrebbe fare per ostacolare la Russia. Nessuna quantità di sanzioni potrebbe fermare la marcia in avanti russa, né una risposta europea fiacca e umida con una specie di “forza di rapido spiegamento” leggera dall’altra parte del fiume. In quanto tale, Trump non può che scavarsi una buca più profonda, poiché più aspetta a liberarsi da questo conflitto, più doloroso sarà per la sua eredità.
Il team Duran ha fatto bene a dire che Trump ha una rara opportunità d’oro, anche se per poco, per staccare la spina al coinvolgimento degli Stati Uniti in questa guerra, in mezzo al tumulto assordante dello scandalo USAID e alla valanga di sconvolgimenti correlati. Per un momento ha i democratici storditi e in totale disordine, con la CIA e altre importanti agenzie sovversive-nemiche-straniere nel processo di alcune convulsioni paralizzate che consentirebbero a Trump di agire come desidera. Più aspetta, più permette al fumo di diradarsi e ai suoi oppositori di rimettersi in piedi, riorganizzandosi in una formazione coerente contro le sue politiche più impattanti.
Naturalmente, si potrebbe sostenere il contrario, ovvero che Trump non può ancora scaricare l’Ucraina perché non ha prosciugato abbastanza la palude per proteggersi o liberarsi dei neoconservatori dello stato profondo che porrebbero ostacoli credibili. In quanto tale, potrebbe aspettare il momento giusto per continuare a stanare prima queste patelle dello stato profondo, prima di dare davvero il colpo di grazia. Ad esempio:
Con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, Washington sta rapidamente rivedendo la sua politica sull’Ucraina. Tutti i dipendenti del Pentagono sono già stati licenziati e rimossi e l’USAID responsabile di questa pista è stata liquidata, e lo stesso Trump ha chiarito: non ci si dovrebbe aspettare il precedente livello di supporto finanziario e militare per Kiev.
Per quanto riguarda i “piani trapelati”, Julian Roepcke, come al solito, non li ha presi bene:
In effetti, ultimamente Julian ha posto alcune domande molto “scomode”, in particolare criticando aspramente un “analista” pro-UA che stava ipotizzando “importanti” perdite russe sul fronte:
Qui Roepcke sembra avere ragione in gran parte: 100-200 vittime giornaliere totali equivalgono a circa 50-100 morti in azione, il che è molto più vicino alla realtà rispetto ai numeri occidentali comuni; come si può vedere, anche i più saldi stanno lentamente cambiando idea dopo tre anni di sconfitta da parte della propaganda sempre più distorta della loro stessa fazione.
Un politico ucraino ha avuto di recente lo stesso “risveglio”:
Anna Konstantinovna Skorokhod, una politica ucraina, ha affermato che i russi avrebbero cessato di esistere da tempo se avessero creduto alle cifre ufficiali, secondo cui per ogni ucraino morto ci sono 10 russi morti e per ogni ferito ci sono 17 russi feriti.
Consiglio a Zelensky di smetterla di dare ascolto agli idioti e di pretendere dati affidabili.
E un ultimo video importante su questo argomento: un ufficiale ucraino descrive come solo il 10% dei morti ucraini vengano rimossi dal campo:
Pensateci: è in linea con molte “cifre ufficiali” ucraine, persino con i cosiddetti 40.000 morti di Zelensky: quelli sono i morti ufficialmente recuperati e identificati, mentre la cifra reale potrebbe essere di 400.000 o più, come sopra.
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Per tornare all’intervista iniziale a Kellogg, che rappresenta un degno coronamento, vorrei citare un’ultima cosa da lui detta:
“Francamente, entrambe le parti in qualsiasi negoziazione devono cedere; è così che vanno le negoziazioni”, ha detto. “Ed è lì che devi scoprire, ‘OK, dov’è questo? Cosa è accettabile?'”
“Sarà accettabile per tutti? No. Sarà accettabile per tutti? No. Ma cercate di gestire questo equilibrio”, ha aggiunto.
Questo riassume perfettamente la natura totalmente ignara del team di Trump, che sta semplicemente armeggiando in uno “spettacolo” teatrale di leadership globale che non è altro che un pessimo teatro Kabuki. Perché la Russia dovrebbe attenersi alle “regole dei negoziati” come se fosse una specie di gioco da tavolo? La Russia sta vincendo, l’Ucraina sta esaurendo gli uomini, non c’è molto di più. La Russia non deve “dare” nulla, e se Kellogg ci crede davvero è inaffidabile come il suo omonimo della colazione. Questa è davvero un’ora da dilettanti, con un vecchio e decadente Egemone che cerca disperatamente di mostrare a un mondo sotto shock e in preda alla policrisi che ha ancora “la stoffa” e può spingere le persone in giro senza dover realmente fare un vero sforzo per risolvere problemi complessi, invece di vomitare una facciata di “logica” insensata e insensata come un ex campione ubriaco che sferra pugni in aria per impressionare qualche avventore da bar ingobbito di alcol.
Immagino che dovranno imparare a proprie spese che prosciugare alcune ONG della Washington DC non annullerà decenni di atrofia terminale, né darà a una star dei reality e a un magnate dei casinò la supremazia militare sul consiglio di guerra di una grande potenza.
Il tuo supporto è inestimabile. Se hai apprezzato la lettura, apprezzerei molto se sottoscrivessi un impegno mensile/annuale per supportare il mio lavoro, così che io possa continuare a fornirti report dettagliati e incisivi come questo.
Molte persone mi hanno chiesto se avrei commentato le prime caotiche settimane della nuova presidenza Trump. La saggezza dell’età mi ha portato a essere cauto nell’investire troppo in cicli di notizie in movimento che cambiano di ora in ora, e la nuova amministrazione Trump sembra aver adottato una strategia di mantenere deliberatamente il ciclo delle notizie mainstream in uno stato di isteria permanente. Steve Bannon l’ha chiamata “velocità iniziale”, che assicura che i media siano tre storie indietro rispetto agli ultimi sviluppi.
Tuttavia, e contro il mio miglior giudizio, l’altro giorno ho iniziato a scrivere un pezzo sull’America che sta entrando in una fase “tartaruga” del suo impero, vale a dire una strategia difensiva piuttosto che la strategia “palla di neve” che ha utilizzato dalla seconda guerra mondiale. Le sabbie mobili del dibattito sulle tariffe hanno reso il mio saggio ridondante, ma ritengo che l’analogia con i videogiochi di strategia sia appropriata. Alla fine della seconda guerra mondiale, l’America si è ritrovata in piedi come un colosso sulla scena mondiale. Poi, ha iniziato a capitalizzare la sua posizione di forza, espandendo la sua portata culturalmente, politicamente e persino moralmente. Una vittoria ha portato all’altra finché, come abbiamo scoperto questa settimana, il contribuente americano ha speso 2 milioni di dollari per promuovere il transessualismo in Guatemala. Il problema con le palle di neve è che più diventano grandi, più si muovono lentamente e più si intasano di escrementi di cane, vetri e pietre. La purga di DEI segnala effettivamente un cambiamento che non è solo interno, ma come abbiamo visto nello sventramento di USaid, anche la fine della diffusione di Globohomo in tutto il mondo. Come ho già notato in precedenza, l’odio anti-bianco e il transessualismo erano pessimi sostituti di Michael J Fox e Ghostbusters .
Il rinnovato interesse di Trump per la Groenlandia, il Canada e Panama segnala un consolidamento del fronte interno e la formazione di una linea difensiva che va oltre la tradizionale sfera di influenza della Dottrina Monroe, espandendo il nucleo stesso. Adottare una posizione più difensiva, o “turtling”, non significa che il giocatore abbia abbandonato la scacchiera e rinunciato. È semplicemente un cambiamento strategico che contribuisce maggiormente all’emergere di un mondo multipolare. Acquisire più terra e risorse possibili, sia informalmente che formalmente, consentirà all’America di rintanarsi e attutire il colpo della sua discesa a essere solo una Grande Potenza tra tante.
Ci sono, ovviamente, un paio di casi anomali qui: Gran Bretagna e Israele. Nonostante la Gran Bretagna sia la “Corea del Nord woke”, l’amministrazione Trump si è finora comportata in modo amichevole nei confronti di Keir Starmer e del regime laburista. È come se il Regno Unito fosse effettivamente in fila per un ruolo di Airstrip One nell’emergente Oceania americana. Sorprendentemente, l’angolo della Groenlandia gioca in questo, e una vecchia linea difensiva che risale alla Guerra Fredda chiamata “GIUK Gap”.
Uno scenario ideale per un’America nuovamente isolazionista sarebbe quello in cui Nigel Farage e Reform governassero la Gran Bretagna, mentre l’America si abbuffasse dei preziosi minerali della Groenlandia, compensando il vantaggio della Cina.
Se qualcosa dovesse paralizzare l’ideale America First, sarà, naturalmente, il loro più grande alleato, Israele. Mentre scrivo, il presidente Trump ha appena annunciato in una conferenza stampa con Netanyahu che annetterà Gaza!
Qui, torniamo al problema di offrire commenti sugli eventi mentre si svolgono e di cercare di aggrapparsi alle montagne russe del hot-take. Il discorso online riguardante Canada ed Europa ha portato a uno tsunami di nazionalismo meschino sciovinista in cui molti americani hanno esultato alla prospettiva di intimidire i loro vassalli più deboli, solo per vedersi strappare il tappeto da sotto i piedi quando Trump ha annunciato le sue politiche verso Israele e Gaza e la risoluzione amichevole (finora) della questione canadese.
Più invecchio, più mi rendo conto che spesso non dire nulla è la cosa migliore da fare.
L’ideologia dei meme di Tucker
La scorsa settimana, Tucker Carlson e Piers Morgan si sono scontrati in uno scambio spesso acceso. Devo ammettere che non ascolto Carlson di frequente e Morgan lo ascolto a malapena. Non è che Carlson non mi piaccia, esattamente, ma trovo irritanti i suoi modi ridacchianti e leggermente isterici. Tuttavia, come detto prima, spesso è meglio tenere a freno la lingua e lasciare che le persone si godano le cose. Quanto a Piers Morgan, lo considero da tempo la voce dell’establishment, una banderuola per il Potere e i desideri e le esigenze dello Stato Profondo.
La loro discussione ha toccato vari argomenti, dalla guerra Russia/Ucraina a Israele e Trump alla libertà di parola. Non sorprende che Carlson abbia adottato la posizione “dissidente” su quasi ogni argomento e Morgan abbia preso la linea del centro. Mi aspettavo che Carlson sparasse una pletora di bombe di verità a Morgan e che Morgan avrebbe sputato per l’indignazione e che avrei potuto godermi il suo disagio durante una piacevole passeggiata.
Ma questo, secondo me, non è accaduto.
Fondamentalmente, Carlson sembrava aver dato per scontato che, poiché era più strettamente allineato con la visione dell’Internet di destra, aveva automaticamente argomenti più forti. Tuttavia, Morgan era sconcertato e non una volta si è mostrato sorpreso o colto alla sprovvista dalle bombe di verità di Carlson. Ad esempio, la narrazione dominante sull’Internet di destra riguardo alla guerra Russia/Ucraina è che la politica estera americana ha spinto Putin all’invasione. Carlson, che ha intervistato Putin nel 2024, è stato ovviamente influenzato da John Mearsheimer, con cui Morgan ha ripetutamente dibattuto su questo stesso argomento. Eppure, quando è stato ripetutamente incalzato su quale azione avrebbe dovuto essere intrapresa dopo l’invasione di Putin, Carlson ha tergiversato, offuscato e ridacchiato, ma non è arrivata alcuna risposta. Non voleva assumersi la responsabilità di aiutare l’Ucraina, ma non voleva nemmeno essere responsabile del fatto che venissero lasciate marcire.
La coppia ha poi continuato a discutere dell’etica del lancio di bombe atomiche sul Giappone alla fine della seconda guerra mondiale. Morgan è uscito per l’azione come al solito, e Carlson si è opposto. È interessante notare che Carlson ha fatto scivolare il fatto che è stata la città più cristiana del Giappone a essere distrutta, sottintendendo che potrebbe esserci stato un sospetto elemento anticristiano nella politica o nella leadership americana. Alla fine, per aggirare il problema delle vittime americane necessarie per invadere il Giappone, Carlson ha negato che il Giappone avrebbe dovuto essere invaso. È una linea di argomentazione curiosa da seguire, dato che Carlson difende o almeno è favorevole all’invasione russa dell’Ucraina. Ma ancora una volta, riflette il discorso online, completo di un’implicazione che “loro” stessero dando i colpi.
Morgan era su un terreno molto meno solido quando la conversazione si spostò sulla Gran Bretagna come stato di polizia emergente, e il suo sventolare la parola “prigionia politica” come mera questione di persone che incitano alla violenza fu disonesto. Tuttavia, Carlson non era preparato e sembrò comportarsi come se fosse scontato che la Gran Bretagna fosse un inferno distopico. Era solo una “vibrazione” che tutti percepivano, ovvio.
È interessante notare che, per quanto riguarda Israele, Morgan ha fatto un inganno e ha messo Carlson nel ruolo di apologista sionista e difensore dei crimini di guerra di Israele, chiedendogli perché Israele ha il suo appoggio mentre l’Ucraina no.
Di volta in volta, Tucker Carlson ha utilizzato un trucco retorico di dire “Non so nemmeno cosa significhi” in risposta a un termine o a una parola o a un altro. Questo mira a far sì che l’interlocutore metta in discussione le sue premesse fondamentali e le sue convinzioni fondamentali. Una parola in cui è stata utilizzata questa tattica è stata “alleato”, che Morgan poteva facilmente, e un po’ perplesso, spiegare, definire e contestualizzare.
Alla fine, il dibattito Tucker vs. Morgan si è tradotto in una giustapposizione tra il vecchio centro, rappresentato da Morgan, e il mondo delle idee di destra di Internet, rappresentato da Tucker. Il “bulldog liberalism” di Piers Morgan non è complesso o difficile da capire; me lo hanno inculcato per tutta la vita. Eppure è, per molti versi, la formula politica che ci ha portato dove siamo negli anni 2020. Al contrario, mi chiedo a cosa corrisponda in realtà l’ideologia di Tucker, basata su argomenti di discussione su Internet e bombe nucleari della verità. Sappiamo cosa non vogliamo, ma cosa vogliamo ?
È fondamentale chiederselo perché, sotto la superficie dello scontro tra i due uomini, si stava ponendo una domanda: nell’era post-woke, Trump 2.0, quale di questi uomini costituisce effettivamente il centro? Alla fine, credo che anche loro si stessero chiedendo questo.
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