Come la mobilitazione annunciata da Putin riapre uno spiraglio per il negoziato, di Francesco Russo

Per Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa, il Cremlino desidera congelare il conflitto, accontentandosi dei territori occupati finora e mostrando la sua determinazione a difenderli con ogni mezzo: “Putin vuole alzare la posta, non allargare il conflitto, ma il rischio di un’escalation c’è”

AGI – La mobilitazione parziale annunciata dal presidente russo Vladimir Putin può essere sicuramente il preludio di un’escalation ma offre anche la possibilità, se non di una tregua, di un congelamento del conflitto, purché Kiev si accontenti della riconquista dell’Oblast di Kharkiv e sia disposta a cedere a Mosca i territori persi finora nelle quattro regioni dove si svolgeranno i referendum per l’unificazione con la Russia. È la lettura offerta dal direttore di Analisi DifesaGianandrea Gaiani, in un’intervista all’Agi.

In che modo l’annuncio di una mobilitazione parziale dei riservisti russi, in seguito alla convocazione di referendum nelle quattro regioni ucraine occupate, segna un cambio di marcia del conflitto?

“Credo che il cambiamento sia a livello politico e strategico. Il riconoscimento da parte della Russia delle repubbliche di Donetsk e Lugansk, il giorno prima dell’inizio dell’operazione in Ucraina, aveva rappresentato il riconoscimento di entità politico-territoriali di una parte dell’Ucraina abitata per lo più da popolazioni russofone e in certi casi russofile, considerando che due milioni di civili del Donbass sono fuggiti in Russia.
Finora si era parlato di referendum solo per le regioni di Kherson e Zaporizhzhia. Allargare le consultazioni ad aree già in mano ai filorussi dal 2014 significa lanciare un messaggio politico e alzare il livello dell’escalation sul piano politico e militare. Mosca conferma che fa sul serio e, se prima pensavamo volesse creare una zona cuscinetto che separasse la Nato dal territorio russo, ora fa sapere che ritiene quei territori Russia. Se i referendum avranno esito positivo, e certamente lo avranno perché la popolazione filo-Kiev è fuggita da quelle zone, sul piano militare la risposta a qualunque attacco rientrerebbe nella dottrina della difesa nazionale che, in tutti i Paesi del mondo, prevede qualunque tipo di risposta con qualunque tipo di arma di distruzione, non necessariamente nucleare. Penso ad esempio a bombardamenti dei siti nei Paesi Nato dove vengono stoccate le armi da consegnare all’Ucraina.
Ad ogni modo, l’obiettivo di Putin non è allargare il conflitto ma alzare la posta per la Nato e l’Occidente. L’iniziativa russa ha lo scopo di congelare il conflitto e, soprattutto, di lanciare un monito: ‘Noi siamo disposti a difendere queste aree in quanto territorio russo, voi siete disposti a fare la guerra alla Russia?’. È un monito rivolto a tutti i Paesi Nato, in particolare a quelli europei, che in questa guerra stanno perdendo tutto”.

In concreto, la mobilitazione come potrà mutare la situazione sul campo?

“I limiti dei russi stanno nell’aver impegnato solo parte delle loro forze armate e di aver combattuto in inferiorità numerica, il che è molto difficile in una situazione offensiva. Richiamare i riservisti potrebbe compensare il deficit nei numeri, una volta trascorso il paio di mesi necessario per l’addestramento e l’aggiornamento. Il fatto che i russi mobilitino così tante forze, pur con l’obiettivo di consolidare quanto conquistato, non esclude che i russi lancino azioni offensive per completare il controllo delle regioni occupate fino ai loro confini amministrativi”.

Quali sono gli scenari possibili? Cosa attendersi dall’inverno?

“Gli scenari sono tre: una guerra di attrito prolungata, un’escalation che potrebbe coinvolgere l’Occidente o un congelamento del fronte che apre uno spiraglio per avviare le trattative, fronte sul quale è molto attiva la Turchia. Se poi la guerra si allargasse, Kharkiv e Odessa potrebbero tornare nel mirino”.

Putin ha evocato nuovamente le armi nucleari…

“Putin ha ribadito di avere questa forma di deterrenza e ha chiarito la sua determinazione nel difendere i territori presi. Se il Donbass sarà completamente russificato, viene ricordato che chi attaccherà quel territorio attaccherà il territorio russo, esponendosi a una risposta che non esclude nessun tipo di arma. Ma nessuna potenza nucleare esclude l’utilizzo di armi atomiche, perché servono come deterrenza. Anche gli Stati Uniti non lo hanno mai escluso nella crisi con la Corea del Nord”.

L’intelligence militare britannica ha suggerito che l’urgenza con cui sono stati convocati i referendum tradisca il timore di una nuova offensiva ucraina. C’è però chi sostiene che Kiev al momento non abbia la possibilità materiale di sferrare un contrattacco paragonabile a quello che ha consentito la riconquista di parte della regione di Kharkiv, che sarebbe costata notevoli perdite umane…

“In realtà è costato molte più perdite il tentato contrattacco a Kherson e su certi aspetti dell’offensiva a Kharkiv ho posto degli interrogativi. Mi ha lasciato perplesso che i russi avessero lasciato in quella regione solo due battaglioni della Rosguardia, non si fossero accorti della concentrazione di sette brigate ucraine e, invece di chiudere il tappo, si fossero ritirati lasciando sul campo molti mezzi.
Non ne discutiamo mai ma dovremmo tenere conto del fatto che russi e americani non hanno mai smesso di parlarsi e che i tentativi di trovare un’intesa non sono mai finiti. I russi sono pronti a discutere su una base negoziale che consenta loro di tenersi parte dei territori che hanno già occupato; gli ucraini forse no. L’escalation di oggi serve ad alzare la posta e stabilire i i paletti sui quali poter avviare una trattativa. Il Cremlino ha segnato una linea: il messaggio è che non c’è l’intenzione di continuare a conquistare territorio ucraino ma quella di rafforzare le aree conquistate finora, dalle quale i russi non intendono spostarsi. Vedremo entro una settimana se su questo punto c’è la possibilità che l’Europa induca l’Ucraina ad accettare un negoziato”.

In sostanza, ritieni che il ritiro da Kharkiv possa essere stato una scelta precisa che ha l’obiettivo di porre le basi per trattare?

“I russi non hanno provato nemmeno a tappare la falla. Non sappiamo se sia stata una scelta precisa o sia stato dovuto a carenza di mezzi. Il risultato è che i russi hanno perso un terreno pari a due volte la Val d’Aosta ma hanno accorciato le loro linee di difesa. Si sono ritirati anche da posizioni difendibili, nell’area al confine settentrionale dove avevano linee di rifornimento garantite da Belgorod, in territorio russo. Non escluderei che il ritiro abbia potuto rispondere all’esigenza di creare condizioni favorevoli all’apertura di un negoziato, consentendo a Zelensky di vantare un successo militare mai visto finora e sedersi al tavolo del negoziato da una posizione più vantaggiosa”.

Da Podolyak a Kuleba, gli alti funzionari ucraini hanno chiarito che intendono perseverare nei tentativi di liberare le aree occupate ma ciò non può avvenire senza nuovi, massicci rifornimenti di armi occidentali. per quanto tempo l’Occidente potrà continuare a sostenere Kiev? La Germania ha già dichiarato da tempo di aver terminato le riserve…

“L’Ucraina ha fame di mezzi, munizioni e armamenti per sostenere le sue offensive. E mantenere la pressione sui russi ha un significato politico per Zelensky, che è stato molto criticato in patria per le fortissime perdite subite. Gli eserciti occidentali non hanno però quasi più nulla da dare perché, se questa guerra continua, c’è il rischio di un loro coinvolgimento. È una questione di numeri: le forze corazzate delle principali potenze europee hanno un’entità ridicola. L’Italia ha forse 200 carri armati di cui un terzo operativo, la Francia e la Germania ne hanno 250 e non tutti operativi. Nessun esercito occidentale avrebbe la possibilità di reggere un conflitto del genere per più di qualche settimana”.

Oggi Shoigu ha affermato che gli ucraini hanno esaurito le loro scorte di armamenti sovietici. È plausibile?

“Gli ucraini hanno perduto il loro arsenale originale: mezzi pesanti, artiglieria e corazzati ex sovietici che l’Ucraina produceva pure ma adesso la sua industria bellica è stata devastata dalla guerra, perché i russi hanno colpito tutti gli stabilimenti. Ora stanno esaurendo anche le riserve di mezzi forniti dai Paesi Nato e sono mesi che continuano a chiedere più armi. Kiev sta premendo sugli Usa per ottenere armi a lungo raggio che potrebbero arrivare a colpire in profondità. Il messaggio di Putin ha quindi anche lo scopo di scoraggiare la fornitura di questo tipo di armi e incoraggiare il negoziato. Oggi Putin e Shoigu hanno alzato l’asticella. Ciò solleva la preoccupazione per un’escalation ma offre anche l’opportunità di una mediazione”.

L’Ucraina afferma però che i referendum cancellano ogni possibilita di soluzione diplomatica…

“Ci sono elementi di questa crisi che non vengono resi pubblici e che si cerca di offuscare con la propaganda da entrambe le parti. Basti pensare che l’Ucraina non ha tirato nemmeno una sassata contro il gasdotto. Tutte queste ambiguità suggeriscono che ci siano già trattative sotto banco. E lo slittamento della messa in onda del discorso di Putin significa che stanotte ci sono stati alcuni confronti con alcuni interlocutori per definire possibili scenari”.

CI sono quindi le condizioni per un accordo?

“Dipenderà dalla volontà degli europei di svolgere finalmente un ruolo da protagonisti in una guerra che minaccia la nostra sicurezza. Finora l’Europa è mancata come soggetto geopolitico e si è limitata a seguire la Nato e gli angloamericani. Quanto sta succedendo dovrebbe essere valutato anche alla luce degli interessi dell’Europa. Ci sono valutazioni di organizzazioni non certo filorusse che paventano che l’obiettivo vero della guerra sia la distruzione del primato dell’Europa come potenza economico-industriale. La Russia ne uscirà logorata ma l’Europa in primavera rischia una devastazione economico-industriale senza precedenti. Se questa è la realtà, dobbiamo venire a patti con la Russia o cessare di essere una potenza economica e industriale. E domandarci chi ci guadagnerà”.

@cicciorusso_agi

https://www.agi.it/estero/news/2022-09-21/ucraina-russia-discorso-putin-mobilitazione-18159479/

Da “operazione militare speciale” a guerra aperta, di Gilbert Doctorow

Da ‘operazione militare speciale’ a guerra aperta: significato dei referendum in Donbas, Kherson e Zaporozie

Il discorso televisivo di ieri mattina di Vladimir Putin e il successivo commento del suo ministro della Difesa Shoigu che annuncia la parziale mobilitazione delle riserve dell’esercito russo per aggiungere un totale di 300.000 uomini alla campagna militare in Ucraina sono stati ampiamente riportati dalla stampa occidentale. La stampa occidentale ha riportato anche i piani per indire referendum sull’adesione alla Federazione Russa nelle repubbliche del Donbas questo fine settimana e anche nelle oblast di Kherson e Zaporozie in un futuro molto prossimo. Tuttavia, come accade molto comunemente, l’interrelazione di questi due sviluppi non è stata vista o, se osservata, non è stata condivisa con il grande pubblico. Poiché proprio questa interrelazione è stata messa in evidenza nei talk show della televisione di stato russa negli ultimi due giorni,

L’idea stessa di referendum nel Donbas è stata ridicolizzata dai media mainstream negli Stati Uniti e in Europa. Vengono denunciati come ‘finzione’ e ci viene detto che i risultati non verranno riconosciuti. Al Cremlino, infatti, non interessa affatto se i risultati siano riconosciuti validi in Occidente. La loro logica è altrove. Per quanto riguarda il pubblico russo, l’unica osservazione critica sui referendum è stata sulla tempistica, con anche alcuni patrioti che hanno affermato apertamente che è troppo presto per votare dato che la Repubblica popolare di Donetsk, le oblast di Zaporozie e Kherson non hanno ancora stato completamente “liberato”. Anche qui la logica di queste votazioni sta altrove.

È una conclusione scontata che le repubbliche del Donbas e altri territori dell’Ucraina ora sotto l’occupazione russa voteranno per entrare a far parte della Federazione Russa. Nel caso di Donetsk e Lugansk, è stato solo sotto la pressione di Mosca che i loro referendum del 2014 riguardavano la dichiarazione di sovranità e non l’adesione alla Russia. Tale annessione o fusione non fu accolta allora dal Cremlino perché la Russia non era pronta ad affrontare il previsto massiccio attacco economico, politico e militare da parte dell’Occidente che sarebbe seguito. Oggi Mosca è più che pronta: infatti è sopravvissuta egregiamente a tutte le sanzioni economiche imposte dall’Occidente anche prima del 24 febbraio e alla fornitura sempre crescente all’Ucraina di materiale militare e ‘consiglieri’ dei paesi NATO.

Il voto sull’adesione alla Russia raggiungerà probabilmente il 90% o più a favore. E’ perfettamente chiaro anche ciò che seguirà immediatamente da parte russa: entro poche ore dalla dichiarazione dei risultati del referendum, la Duma di Stato russa approverà un disegno di legge sulla “riunificazione” di questi territori con la Russia e nel giro di un giorno sarà approvato dalla camera alta del parlamento e subito dopo il disegno di legge sarà firmato in legge dal presidente Putin.

Guardando oltre il suo servizio come agente dell’intelligence del KGB, che è tutto ciò di cui gli “specialisti russi” occidentali parlano all’infinito nei loro articoli e libri, ricordiamo anche la laurea in giurisprudenza di Vladimir Putin. In qualità di Presidente, è rimasto sistematicamente all’interno del diritto interno e internazionale. Lo farà ora. A differenza del suo predecessore, Boris Eltsin, Vladimir Putin non ha governato per decreto presidenziale; ha governato con leggi promulgate da un parlamento bicamerale costituito da più partiti. Ha deliberato in armonia con il diritto internazionale promulgato dalle Nazioni Unite. La legge delle Nazioni Unite parla della santità dell’integrità territoriale degli Stati membri; ma la legge dell’ONU parla anche della santità dell’autodeterminazione dei popoli.

Cosa deriva dalla fusione formale di questi territori con la Russia? Anche questo è perfettamente chiaro. In quanto parti integranti della Russia, qualsiasi attacco contro di loro, e sicuramente ci saranno tali attacchi provenienti dalle forze armate ucraine, è un casus belli. Ma ancor prima, i referendum sono stati preceduti dall’annuncio di mobilitazione, che indica direttamente ciò che la Russia farà ulteriormente se gli sviluppi sul campo di battaglia lo richiederanno. Le fasi progressive di mobilitazione saranno giustificate dall’opinione pubblica russa come necessarie per difendere i confini della Federazione Russa dagli attacchi della NATO.

La fusione dei territori ucraini occupati dalla Russia con la Federazione Russa segnerà la fine dell'”operazione militare speciale”. Un SMO non è qualcosa che conduci sul tuo territorio, come relatori alla serata con Vladimir Solovyovtalk show ha commentato un paio di giorni fa. Segna l’inizio di una guerra aperta contro l’Ucraina con l’obiettivo della capitolazione incondizionata del nemico. Ciò comporterà probabilmente la rimozione della leadership civile e militare e, molto probabilmente, lo smembramento dell’Ucraina. Dopotutto, il Cremlino ha avvertito più di un anno fa che il corso dettato dagli Stati Uniti per l’adesione alla NATO per l’Ucraina comporterà la sua perdita della statualità. Tuttavia, questi obiettivi particolari non sono stati finora dichiarati; la SMO riguardava la difesa del Donbas contro il genocidio e la de-nazificazione dell’Ucraina, un concetto di per sé piuttosto vago.

L’aggiunta di altri 300.000 uomini in armi alle forze dispiegate dalla Russia in Ucraina rappresenta un quasi raddoppio e sicuramente affronterà la carenza di numeri di fanteria che ha limitato la capacità della Russia di “conquistare” l’Ucraina. È stata proprio la mancanza di stivali a terra a spiegare il doloroso e imbarazzante ritiro della Russia dalla regione di Kharkov nelle ultime due settimane. Non hanno potuto resistere alla massiccia concentrazione di forze ucraine contro la loro stessa presa scarsamente sorvegliata sulla regione. Il valore strategico della vittoria ucraina è discutibile, ma ha notevolmente migliorato il loro morale, che è un fattore importante nell’esito di qualsiasi guerra. Il Cremlino non poteva ignorarlo.

Alla conferenza stampa a Samarcanda la scorsa settimana dopo la fine del raduno annuale dei capi di stato dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, a Vladimir Putin è stato chiesto perché ha mostrato così tanta moderazione di fronte alla controffensiva ucraina. Ha risposto che gli attacchi russi agli impianti di generazione di elettricità ucraini che hanno seguito la perdita del territorio di Kharkov erano solo “campi di avvertimento” e ci sarebbero state azioni molto più “di impatto” in arrivo. Di conseguenza, mentre la Russia passa dalla SMO alla guerra aperta, possiamo aspettarci una massiccia distruzione delle infrastrutture civili e militari ucraine per bloccare completamente tutti i movimenti di armi fornite dall’Occidente dai punti di consegna nella regione di Lvov e altri confini al fronte. Alla fine potremmo aspettarci bombardamenti e distruzione dei centri decisionali dell’Ucraina a Kiev.

Per quanto riguarda un ulteriore intervento occidentale, i media occidentali hanno raccolto la minaccia nucleare appena velata del presidente Putin ai potenziali cobelligeranti. La Russia ha dichiarato esplicitamente che qualsiasi aggressione contro la propria sicurezza e integrità territoriale, come quella sollevata dai generali in pensione negli Stati Uniti che hanno parlato alla televisione nazionale nelle ultime settimane dello scioglimento della Russia, sarà accolta da una risposta nucleare. Quando la minaccia nucleare russa è diretta a Washington, come è ora il caso, piuttosto che a Kiev oa Bruxelles, supposizione fino ad ora, è improbabile che i responsabili politici a Capitol Hill rimarranno a lungo sprezzanti riguardo alle capacità militari russe e perseguiranno un’ulteriore escalation.

Alla luce di tutti questi sviluppi, sono costretto a rivedere il mio apprezzamento per quanto è emerso alla riunione dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai. I media occidentali hanno concentrato tutta l’attenzione su un solo problema: il presunto attrito tra la Russia ei suoi principali amici mondiali, India e Cina, sulla guerra in Ucraina. Mi è sembrato grossolanamente esagerato. Ora sembra essere una totale sciocchezza. È inconcepibile che Putin non abbia discusso con Xi e Modi di cosa sta per fare in Ucraina. Se la Russia ora fornisce al suo sforzo bellico una parte molto maggiore del suo potenziale militare, allora è del tutto ragionevole aspettarsi che la guerra finisca con la vittoria russa entro il 31 dicembre di quest’anno, poiché il Cremlino sembra aver promesso ai suoi fedeli sostenitori. 

Guardando oltre la possibile perdita della statualità dell’Ucraina, una vittoria russa significherà più di un naso sanguinante simile all’Afghanistan per Washington. Esporrà il basso valore dell’ombrello militare statunitense per gli Stati membri dell’UE e porterà necessariamente a una rivalutazione dell’architettura di sicurezza europea, che è ciò che i russi chiedevano prima che la loro incursione in Ucraina fosse lanciata a febbraio.

https://gilbertdoctorow.com/2022/09/22/from-special-military-operation-to-open-war/

L’esercito vuole raddoppiare o triplicare la produzione di armi mentre la guerra in Ucraina continua, di CAITLIN M. KENNEY

Una capacità da non sottovalutare, almeno sino a quando resisterà l’attuale sistema monetario, l’attuale presa sul mondo e l’attuale ordine politico interno. Giuseppe Germinario

GMLRS, HIMARS e colpi di artiglieria sono in cima alla lista.

I leader dell’esercito stanno lavorando per aumentare notevolmente la produzione di munizioni e attrezzature critiche prosciugate dagli arsenali di servizio per aiutare l’Ucraina negli ultimi mesi.

Con il supporto del Congresso, stanno lavorando per triplicare la produzione interna dei proiettili da 155 mm e almeno raddoppiare la produzione di sistemi di lancio di missili guidati a lancio multiplo e sistemi di lancio di missili di artiglieria ad alta mobilità nei prossimi anni, ha affermato Doug Bush, capo dell’acquisizione dell’esercito.

“Tutto ciò che è in corso e sarà fondamentale per sostenere l’Ucraina e il suo conflitto, ma anche per rifornirci e prepararci a sostenere i nostri alleati”, ha detto Bush ai giornalisti mercoledì.

Gli ucraini hanno combattuto l’invasione russa del loro paese per sei mesi e la loro controffensiva di successo nel nord-est ha recentemente visto analisti in Europa chiedere maggiore sostegno attraverso armi e aiuti. L’esercito ha risposto alla richiesta di armi, ha detto Bush, e si sta preparando a sostenere lo sforzo bellico in futuro.

“Non so quanto durerà il conflitto”, ha detto. “Stiamo facendo delle cose per assicurarci che, se va avanti a lungo, saremo in un posto per supportarlo sulla base delle migliori informazioni che abbiamo. La guerra come impresa incerta”.

Bush ha detto che di solito ci vogliono da diversi mesi a un anno per aumentare la produzione di qualcosa come un HIMARS da un tasso di cinque al mese a otto, motivo per cui i leader dell’esercito stanno lavorando a stretto contatto con gli appaltatori della difesa. Tuttavia, una maggiore produzione significa anche altri problemi da superare.

“A volte ci sono limitazioni, limitazioni fisiche, in cui puoi riempire una fabbrica, portarla a un tasso di produzione e poi se vuoi andare più in alto stai costruendo un’altra fabbrica, o stai trovando un’altra azienda per fare la stessa cosa da qualche altra parte, che non è nemmeno dall’oggi al domani”, ha detto. “Quindi direi che questi obiettivi sono più nell’alto numero di mesi o un anno per cercare di ottenere pienamente manifestati questi tassi di produzione aumentati”.

All’8 settembre, gli Stati Uniti hanno inviato 807.000 proiettili da 155 mm in Ucraina. Un anonimo funzionario della difesa ha dichiarato al Wall Street Journal il mese scorso che le azioni statunitensi sono ora “sgradevolmente basse”.

Bush ha respinto la caratterizzazione dei titoli da parte del funzionario, dicendo che solo i leader dell’esercito dovrebbero esprimere quei giudizi. Ha aggiunto che il servizio sta ancora producendo e accumulando scorte sufficienti per il normale addestramento e le missioni.

Bush ha detto che il rifornimento dei colpi sta ricevendo “la più grande attenzione in questo momento”.

I proiettili da 155 mm sono “la cosa su cui stiamo dedicando più sforzi e [su cui] abbiamo ricevuto un enorme sostegno dal Congresso, a causa dei tempi di consegna e della necessità di aumentare drasticamente quei tassi di produzione”, ha affermato.

Altre priorità principali sono GMLRS, missili anticarro Javelin e missili Stinger, quest’ultimo dei quali secondo Bush è “ben sotto controllo ora”.

Gli Stati Uniti hanno inviato “migliaia” di round GMLRS in Ucraina, ha affermato la scorsa settimana il generale Mark Milley, presidente del Joint Chiefs of Staff .

Ha anche inviato più di 8.500 giavellotti. Da allora il Congresso ha fornito ai militari oltre 1 miliardo di dollari per sostituire i missili. Martedì, l’esercito ha ordinato più di 1.800 giavellotti da consegnare entro il 30 novembre 2026, nell’ambito di un contratto da 311 milioni di dollari a Raytheon e Javelin Joint Venture di Lockheed Martin. Più di 1.800 di questi riforniranno le scorte statunitensi, ma il contratto copre anche un numero imprecisato di sistemi Javelin e supporto alla produzione per l’esercito americano e clienti internazionali Lituania e Giordania.

Bush ha affermato che il loro obiettivo è quello di obbligare tutti i soldi per la produzione di Javelin entro la fine dell’anno fiscale 2023.

Il Pentagono sta lavorando con i paesi alleati anche per produrre più di queste munizioni e incoraggiarli a donare all’Ucraina per alleviare parte della pressione sugli Stati Uniti, ha affermato Bush.

https://www.defenseone.com/policy/2022/09/army-wants-double-or-triple-some-arms-production-ukraine-war-continues/377225/

Condividere i segreti è stato “efficace” contro la Russia, ma la tattica ha dei limiti, afferma il capo della CIA

È solo una delle nuove aree per un’agenzia di spionaggio alle prese con cambiamenti tecnologici.

La declassificazione dell’intelligence per disinnescare le narrazioni russe ha “svolto un ruolo molto efficace” nella guerra durata mesi in Ucraina, secondo il capo della Central Intelligence Agency, in particolare quando fa parte di una strategia più ampia. Ma la sua utilità ha dei limiti quando si tratta di intelligence sulle minacce informatiche.

“Le decisioni di declassificare l’intelligence sono sempre molto complicate, ma penso che quando il presidente [Joe] Biden ha deciso con molta attenzione e in modo molto selettivo di rendere pubblici alcuni dei nostri segreti, ha giocato un ruolo molto efficace nel corso degli ultimi sei mesi , e penso che possa continuare a farlo, ancora una volta, se ne facciamo l’eccezione, non la regola”, ha detto giovedì William Burns, direttore della CIA durante un keynote al Billington Cybersecurity Summit.

Burns ha affermato che la gestione sconsiderata delle informazioni era il “modo più sicuro” per perdere l’accesso a una buona intelligence, ma rispetto all’invasione russa dell’Ucraina, ha aiutato a contrastare le false narrazioni fuori dal Cremlino.

“Penso che sia stato un mezzo molto importante per negare a Vladimir Putin qualcosa che l’ho visto usare troppo spesso in passato, ovvero creare false narrazioni, cercare di incolpare gli ucraini, creare false provocazioni in vista della guerra ”, ha detto Burns.

“E penso che quello che siamo stati in grado di fare lavorando con i nostri alleati e partner sia esporre il fatto che anche la guerra di Putin è un’aggressione nuda e non provocata e penso che quella giocata, quella declassificazione molto selettiva e molto attenta, abbia giocato un ruolo perfetto .”

Ma la declassificazione dell’intelligence potrebbe non funzionare per tutti gli scenari, in particolare quando si tratta di declassificare l’intelligence sulle minacce informatiche, sottolineando che la declassificazione deve essere eseguita “con attenzione”.

“Penso che dovremo stare attenti ad altri casi, che si tratti di minacce informatiche o di altri tipi di sfide che gli Stati Uniti e i nostri alleati dovranno affrontare in futuro”, ha affermato Burns.

Adattarsi al mondo digitale

La CIA sta anche facendo i conti con i rapidi cambiamenti nella tecnologia e come potrebbero costringere l’agenzia a cambiare il suo approccio alla raccolta di informazioni umane.

“Certamente, la rivoluzione tecnologica nell’era della sorveglianza tecnica onnipresente e delle città intelligenti, ha trasformato il modo in cui i nostri funzionari conducono il nostro mestiere e lavorano all’estero”, ha affermato Burns.

Ha affermato che gli avversari ora possono utilizzare l’intelligenza artificiale e l’apprendimento automatico per estrarre anni di dati passati e “riconoscere i modelli nelle nostre attività che rendono molto più complicato condurre il nostro mestiere e la nostra professione e l’intelligenza umana in particolare, nel modo in cui eravamo abituato a farlo da anni e anni prima”.

Nel tentativo di adattarsi , l’agenzia ha creato un centro di missione per contrastare la Cina e un altro, il Transnational and Technology Mission Center, che mira a comprendere meglio “modelli e innovazione” nelle tecnologie commerciali.

“Abbiamo un contributo da dare in concorrenza con la Cina e con altri rivali, e cercando di aiutare i responsabili politici a capire qual è il modo migliore per sostenere le vulnerabilità nella nostra catena di approvvigionamento. Come possiamo competere con successo nelle sfere critiche, come tutti voi sapete benissimo, dai semiconduttori all’informatica quantistica fino alla biologia sintetica. Quindi stiamo investendo molta energia e risorse in questi sforzi”, ha affermato Burns.

Ha affermato che circa un terzo degli ufficiali della CIA lavora su questioni relative alla tecnologia, dalla sicurezza informatica all’innovazione digitale.

Ad aprile, la CIA ha assunto il suo primo chief technology officer: Nand Mulchandani, che in precedenza guidava il centro di intelligenza artificiale del Pentagono. Mulchandani è incaricato di produrre la strategia tecnologica decennale dell’agenzia e di promuovere i collegamenti tra l’agenzia, il mondo accademico e il settore commerciale e pubblico.

Burns ha affermato che è importante che la CIA disponga di una strategia tecnologica che “attinga tutto il talento e tutte le risorse che abbiamo”, in particolare nelle catene di approvvigionamento dei semiconduttori.

“Il primo incarico di Mulchandani è di lavorare, ancora, con tutti i nostri colleghi della CIA per produrre per la prima volta una seria strategia tecnologica a livello di agenzia che guardi a lungo termine, quindi penso che ci siano molte opportunità qui”, Burns ha detto.

https://www.defenseone.com/policy/2022/09/sharing-secrets-has-been-effective-against-russia-tactic-has-limits-cia-chief-says/376882/

Ucraina, il conflitto_16a puntata. Equilibrio instabile_Con Max Bonelli e Stefano Orsi

Il conflitto in Ucraina ha raggiunto una fase di relativo equilibrio. Lo slancio offensivo nella parte nord del fronte, presentato come una marcia trionfale, ha perso quasi completamente il proprio slancio. Quella che è apparsa una rotta dell’esercito russo, si è rivelato alla fine un ripiegamento ordinato, con scarsa perdita di mezzi, tranne che per la propaggine a nord, verso il confine russo di Belgorod. A sud le forze ucraine si sono dissanguate nei continui e sterili attacchi nella zona di Kherson. L’epicentro della battaglia, però, sembra
fissarsi nella zona di Kharkyv e, soprattutto, di Zhaporija, in una situazione però di crescente pressione su vari punti del migliaio di chilometri di linea. E’ una corsa contro il tempo, in attesa che il richiamo parziale della riserva, ordinato da Putin, possa manifestare i primi effetti determinanti sul campo.
Come in ogni conflitto, anche il più virulento, i canali riservati di comunicazione tra i contendenti non mancano e con esso qualche spiraglio di tregua. E’ una situazione sul campo pesantemente influenzata dalle dinamiche geopolitiche delle quali il recente vertice SCO a Samarcanda e l’assemblea generale dell’ONU hanno offerto una rappresentazione simbolica potente con qualche venatura patetica, quale si è dimostrata la prolusione di Mario Draghi. Il tempo lungo offrirà alla Russia le vie di uscita da una condizione critica, grazie alle dinamiche innescate assieme a Cina ed India. La contingenza, però, annuncia continui pericoli e focolai a ridosso dei suoi confini, suscettibili di destabilizzare il paese. Sono le carte che l’attuale leadership statunitense intende giocare ai limiti dell’azzardo e dell’avventurismo; impulsi nutriti da una smodata indole predatoria altrettanto nefasta, confermata dalla intenzione del Congresso Americano di stornare all’Ucraina i 300 miliardi di dollari di fondi sequestrati alla Russia. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v1l4op1-ucraina-il-conflitto-16a-puntata-equilibrio-instabile-con-max-bonelli-e-ste.html

L’UCRAINA È IN MACERIE, MA LA UE RILANCIA L’ESCALATION, di Marco Giuliani

L’UCRAINA È IN MACERIE, MA LA UE RILANCIA L’ESCALATION

Nuovo massiccio invio di armi a Kiev. I russi soffrono, ma alla Von der Leyen non basta: “Zelensky deve vincere”. E l’Italia è ormai appaltata da Washington

La nuova, cervellotica campagna di guerra lanciata dalla sig.ra Ursula Von der Leyen sulla pelle degli ucraini, non lascia spiragli a una (eventuale) trattativa che possa condurre verso una tregua. Così, per la gioia di Blinken – al quale Draghi ha poche ore fa giurato fedeltà ribadendo, in sostanza, che l’Italia è un appalto della Nato – e per il riarmo di Zelensky, che è al riparo nel suo bunker di Kiev e continua a mandare in onda i suoi show televisivi, la UE dichiara ancora guerra a Mosca. «L’Ucraina vincerà», ha affermato la Presidente della Commissione europea a seguito di alcuni territori rioccupati da Kiev e da cui, per la verità, i militari russi hanno presumibilmente spostato le loro operazioni. Ipse dixit. Una Russia sconfitta sappiamo tutti che è un’evenienza che non potrà in alcun modo verificarsi, a meno di un ricorso all’arma nucleare e l’interessamento di paesi terzi. Europa che ha lasciato intendere, tra l’altro, di voler cacciare l’Ungheria di Orban perché non allineata al piano anti-Putin commissionato da Washington (la scusa dell’antiabortismo è una pagliacciata). Entriamo nel merito, riportando, come è nostro uso, fatti e riscontri.

La nuova escalation promossa dalla Casa Bianca, ratificata da Bruxelles e messa a punto dai singoli membri della UE (l’Italia, tanto per cambiare, è scattata sull’attenti), ha i suoi risvolti nei nuovi pacchetti di armi in partenza per Kiev e nella discriminante relativa alla messa al bando dall’Ungheria di Orban, rea di non seguire alla lettera le politiche militariste e sanzionatorie euroatlantiche. Per Budapest, si prospettano i tagli dei fondi del Pnrr e l’eventuale proposta di esclusione dall’unione, magari per lasciare spazio proprio all’Ucraina, che di diritti civili ha ancora molto da imparare. Ma veniamo al punto. Lascia un tantino perplessi, ancora una volta, la quasi totale inconsistenza di una iniziativa autonoma da parte dei singoli stati, a fronte di una situazione che va purtroppo peggiorando di giorno in giorno. La Germania si trova in difficoltà ed è oggetto di un crescente dissenso della sua opinione pubblica, con il quale dovrà prima o poi fare i conti; la Francia, salvo l’ipotesi di tagliare le forniture elettriche all’Italia per due anni, è tra i pochissimi superstiti a riuscire a confrontarsi (telefonicamente) ancora con Mosca, ma sembra piuttosto immobile e in balia degli eventi; abbiamo già detto di Draghi, per cui però bisogna apporre una postilla. Il 25 settembre in Italia ci saranno le elezioni, e ciò che si prospetta è solo un rimpasto che porterà a ricalcare in fotocopia la linea degli ultimi 6 mesi. Questa è la sensazione, nata da una serie di indizi derivati dai proclami e dalle politiche messe in atto dai partiti maggiori e dai loro consimili. L’ex Goldman Sachs ha soltanto preparato il terreno.

I movimenti di destra, centro e sinistra sono letteralmente appiattiti, salvo poche voci isolate, su posizioni che non fanno presagire un cambio di passo circa la diplomazia internazionale e le (enormi) difficoltà di undici milioni di italiani che Eurostat ha definito “in povertà”. Proprio in queste ore di campagna elettorale, infatti, stanno per essere inviati – si parla del decreto aiuti – altri settecento milioni di euro a Kiev, mentre nelle Marche si è verificata un’alluvione che ha messo in ginocchio interi paesi e località. Sarebbe curioso sapere quanto intende stanziare in merito il dimissionario governo, che evidentemente sembra di nuovo più concentrato su ciò che accade agli ucraini anziché ai suoi connazionali. Se queste sono le premesse, compreso l’acquisto di materiali energetici in ordine sparso (anche dall’Iran, dove poche ora fa è stata linciata un’altra ragazza perché con il velo in disordine), a prezzi maggiorati e non certo dalle più illuminate democrazie, l’autunno sarà sanguinoso. Ma tutto fa brodo, purché venga danneggiata Mosca. In questa maniera, ci si chiede, quale tipo di supporto potranno ricevere gli italiani di fronte alla dilatazione delle bollette, del caro-vita che non accenna a ridimensionarsi o di fronte all’aumento dei carburanti?

Ma stiano tutti tranquilli: il premier con valigie in mano, nel frattempo, tra economisti in doppiopetto e finanzieri ebrei con la kippah in grande sfoggio, si è guadagnato il World Statesman di New York, premio fedeltà ricevuto dai suoi padri putativi americani a seguito di iniziative partite dalla Casa Bianca e che lui si è solo limitato ad applicare. Per chi, come tanti commercianti, ha visto l’aumento della luce del 300% nel giro di poche settimane, magra, magrissima consolazione. Anzi, una vera e propria beffa. Ovviamente, in attesa degli ulteriori aumenti previsti a ottobre 2022.

 

MG

 

 

BIBLIOGRAFIA & SITOGRAFIA

 

Mario Draghi premiato come “World Statesman a New York, agenzia di Aska News uscita il 20 settembre 2022–

Sky TG24, edizione del 30 agosto 2022 –

Televideo Rai del 18/09/2022, p. 150 –

www.agi.it, pagina del 17/09/2022 consultata il 20/09/2022 –

www.europa.today.it, pagina del 17/09/2022 consultata il 19/09/2022 –

www.adnkronos.com, pagina del 16/09/2022 consultata il 19/09/2022 –

 

Europa ad oriente! Cambiamenti e persistenze_con Francesco Dall’Aglio

I paesi dell’Europa Orientale sono il perno attraverso il quale gli Stati Uniti intendono trascinare l’intero subcontinente nelle loro avventure ed assogettarlo ulteriormente alle proprie strategie conflittuali nei confronti della Russia e della Cina. Il prezzo da pagare per i paesi europei è enorme, probabilmente insostenibile. La compromissione nella costruzione di dinamiche geopolitiche autonome più cooperative con la Russia ampiamente pregiudicata. In questo quadro il ruolo della Unione Europea assunto sino ad ora viene ampiamente ridimensionato nell’ambito dell’alleanza occidentale. L’istituzione rischia di diventare superflua e di ridursi ad un simulacro paralizzante. Con essa la stessa Germania è destinata a subire un ridimensionamento politico ed economico drammatico sino ad azzerare la rendita consentitale dalla passata centralità di affidataria. La partita, però, non è ancora chiusa. Dipenderà dall’esito del conflitto ucraino e dalle contraddizioni che una strategia così aggressiva sta aprendo all’interno del fronte occidentale. Ha iniziato l’Ungheria; la Bulgaria potrebbe seguire la stessa strada, come pure la Moldova; in Francia Macron mostra segni crescenti di difficoltà di tenuta; in Svezia il cammino si fa più incerto. In questo quadro grandi cambiamenti sono in corso in Europa Orientale, come pure emergono persistenze sedimentate in secoli di storia. Sono le tracce di cui discutiamo e che ci consentono di ponderare gli eventi e le possibili vie di uscita. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v1kpqdl-europa-ad-oriente-cambiamenti-e-persistenze-con-francesco-dall-aglio.html

La geopolitica delle riparazioni russo/sovietiche alla Polonia, Di Andrew Korybko

La questione delle riparazioni russo/sovietiche alla Polonia è guidata molto più dai grandi progetti strategici di Varsavia per far rivivere il suo ruolo a lungo perduto di Grande Potenza che dalla giustizia storica che sostiene ci sia dietro questa causa. È un mezzo intelligente per quell’aspirante leader regionale per espandere la sua influenza prevista a spese di Russia e Germania, che a loro volta creerebbero spazio per farlo salire al loro posto e quindi riempire il vuoto risultante.

Il parlamento polacco (Sejm) ha appena approvato una risoluzione che chiede alla Germania riparazioni per la distruzione del loro paese da parte dei nazisti durante la seconda guerra mondiale, la cui geopolitica l’autore ha precedentemente analizzato in un pezzo che può essere letto qui . Il presente si concentrerà sulla richiesta complementare di riparazioni russe per l’intervento militare dell’URSS nella Seconda Repubblica Polacca. Cominciò il 17 settembre 1939, due settimane e mezzo dopo l’invasione nazista, e portò all’incorporazione delle contese Eastern Borderlands (” Kresy “) nelle Repubbliche sovietiche di Bielorussia, Lituania e Ucraina.

La questione delle riparazioni relative a tali sviluppi è nata da un emendamento dell’ultimo minuto alla risoluzione menzionata nell’introduzione in cui si affermava che “la Polonia non ha ancora ricevuto un’adeguata compensazione finanziaria ed espiazione per le perdite subite dallo Stato polacco durante la seconda guerra mondiale come risultato dell’aggressione dell’Unione Sovietica. Il presidente polacco Andrezj Duda ha detto poco dopo che “la Germania ha iniziato la seconda guerra mondiale e ha attaccato la Polonia. Naturalmente, la Russia si è unita a questa guerra in seguito e quindi, a mio avviso, dovremmo chiedere riparazioni anche alla Russia”.

La proposta di Duda ha spinto il presidente della Duma russa Vyacheslav Volodin ad accusarlo di aver violato le leggi del suo paese riabilitando il nazismo poiché è illegale paragonare l’URSS al suo nemico esistenziale. Ha aggiunto su Telegram che “è giusto che le autorità di vigilanza studino il commento di Andrzej Duda e prendano le misure appropriate per portarlo alla responsabilità penale”. Volodin ha anche ricordato a tutti che “Oggi la Polonia esiste come stato solo grazie al nostro Paese”. Dopo aver spiegato lo sfondo immediato di questa controversia, verranno ora condivise alcune brevi parole sulla sua storia più profonda.

La Polonia considera l’intervento militare sovietico come un’invasione non provocata che è stata pianificata in anticipo in collusione con i nazisti e quindi rende l’URSS ugualmente responsabile dell’inizio della seconda guerra mondiale. Il capo della spia straniera russa Sergey Naryshkin, tuttavia, ha affermato nel suo articolo dettagliato per RT sull’80 ° anniversario del patto Molotov-Ribbentrop che ” Non c’era altro modo “. Il presidente Vladimir Putin ha anche dedicato molta attenzione alla questione delle relazioni polacco-sovietiche in quel momento nel suo pezzo sulla ” Responsabilità condivisa verso la storia e il nostro futuro ” pubblicato nel 75 ° anniversario della Grande Vittoria.

Dopo la seconda guerra mondiale, il “Kresy” rimase parte dell’Unione Sovietica, ma la Polonia ricevette in cambio territorio dall’ex Germania nazista, che Varsavia aveva storicamente affermato essere parte del suo primo stato un millennio fa, ma da allora aveva controllato solo brevemente . Inoltre, questi “Territori recuperati” furono etnicamente ripuliti dai milioni di tedeschi che vi abitavano da secoli. L’URSS ha anche ricostruito la Polonia del dopoguerra, che era ormai diventata il suo “partner minore”. I sovietici lo consideravano un atto caritatevole di solidarietà socialista mentre molti polacchi lo consideravano un’occupazione.

Gli ultimi due paragrafi precedenti sono stati inclusi in questa analisi al fine di indirizzare i lettori intrepidi nella direzione di saperne di più sulle interpretazioni opposte degli eventi di ciascuna parte. È un loro diritto indipendente sostenere qualunque scuola di pensiero storico vogliano, anche se la loro scelta non fa differenza quando si tratta di analizzare oggettivamente la geopolitica delle riparazioni russo/sovietiche alla Polonia. Questo perché Varsavia non vuole solo ciò che sostiene essere giustizia storica, ma vuole portare avanti i suoi interessi strategici nell’attuale contesto della Nuova Guerra Fredda .

Per spiegare, la Polonia sta pianificando di accelerare l’ espansione della sua influenza regionale nell’Europa centrale e orientale (CEE) su questa base di soft power facendo appello alle percezioni popolari di molte persone in questa parte del continente che nutrono simili rancori contro l’ex URSS . Spera di catalizzare una reazione a catena di richieste imitative che creerà una base emotiva per avvicinare le loro società nel presente, sia in termini di legame su ciò che considerano il loro trauma storico condiviso, sia sugli scenari isterici che i loro leader li hanno convinti ad aspettarsi dai piani futuri della Russia.

Non solo l’influenza polacca potrebbe invadere gli stati della ” Iniziativa dei tre mari ” (3SI) e quindi accelerare i piani di Varsavia per costruire un blocco regionale orientato alle riforme all’interno dell’UE dominata dalla Germania, che intende impiegare per impedire a Berlino di completare il suo secolo -un lungo complotto per conquistare il controllo del continente, ma potrebbe anche creare una formidabile barriera a qualsiasi futuro riavvicinamento Russia-UE. Questo perché i membri della CEE/3SI di quel blocco potrebbero subordinare un tale scenario al fatto che Mosca rispetti le loro richieste di riparazione, cosa che non si aspetterebbero realisticamente che la Russia faccia comunque.

Con questi due ulteriori motivi geopolitici in mente, la questione delle riparazioni russo/sovietiche alla Polonia si rivela essere guidata molto più dai grandi progetti strategici di Varsavia per far rivivere il suo ruolo a lungo perduto di Grande Potenza che dalla giustizia storica che sostiene ci sia dietro questa causa. È un mezzo intelligente per quell’aspirante leader regionale per espandere la sua influenza prevista a spese di Russia e Germania , che a loro volta creerebbero spazio per farlo salire al loro posto e quindi riempire il vuoto risultante. Manipolando magistralmente il “ nazionalismo negativo ”, i piani della Polonia otterranno probabilmente un successo impressionante.

INVECCHIARE MALE, di Pierluigi Fagan

INVECCHIARE MALE. La chart mostra lo sviluppo progressivo della Shanghai Cooperation Organization, nata nel 2001, l’anno dell’entrata nel WTO della Cina e del 11/9. Originariamente fondata da Cina, Russia ed i quattro “-stan” centroasiatici, ha poi aggiunto India e Pakistan tra i membri, più una periferia a gironi. Ci sono Stati in procedura di cooptazione (Iran e Bielorussia), osservatori (Mongolia, Afghanistan) e partner di dialogo (oggi ben 14 tra cui Turchia, Egitto, quasi tutto il Medio Oriente). Al momento, rimane fuori il vivace sud est asiatico (ASEAN), ma non cedo rimarrà tale a lungo per ragioni di logica materiale.
L’Asia, complessivamente, conta oggi il 60% della popolazione mondiale, quasi il 50% del Pil mondiale, per circa 50 Stati. Sono, in media, Stati grandi e massivi, tant’è che in numero sono praticamente pari a quelli europei (49 a 45), con la differenza che l’Asia conta 4,5 miliardi di persone mentre l’Europa ne conta solo 750 milioni, ma ci sono vari modi contare (ad esempio in queste cifre la Russia è contata come europea perché fino ad oggi in geografia così s’è ritenuto di fare, ma si può dubitare così si continuerà a fare).
Questa la statica. La dinamica mostra un futuro incremento di popolazione per l’Asia ed un ancor più pronunciato incremento della percentuale di Pil mondiale, consenso unanime di tutti gli analisti. Eccetto il Giappone, tutti gli stati asiatici hanno adottato le forme dell’economia moderna (tecnoscienza-mercato-capitale), solo dal dopoguerra e progressivamente rispetto anche allo sviluppo del lento processo di de-colonizzazione. La Cina, ad esempio, s’incammina lungo i percorsi di economia moderna solo da fine anni ’70, l’India anche dopo.
Quest’ultimo punto va meglio spiegato. Lo sviluppo portato dall’utilizzo dei principi di economia moderna è una curva. Poiché è fatto storico relativamente recente (XIX secolo, in Europa e Stati Uniti), nessuno ha mai chiarito se tale curva che indubbiamente mostra una linea ascensionale più o meno pronunciata, arriva poi ad un tetto, lì rimane un po’ e poi tende a calare o come i più implicitamente pensano, scambiando la logica della fisica con quella metafisica, cresce all’infinito. Purtroppo, questo argomento è viziato dalle ideologie e l’economia è oggi il campo preferito delle ideologie che si sono dichiarate morte in politica, per altro assai prematuramente. Nei fatti, i fatti si misurano in dati (numero-peso-misura), la crescita delle principali economie moderne (o capitalistiche o OCSE o peggio ancora G7), negli ultimi cinquanta anni, tende a flettere in intensità, a volte in assoluto. Sembrerebbe quindi che, come logica delle curve logistiche impone, quello dell’economia moderna sia un ciclo che per lunga fase iniziale sviluppa, poi si ferma, poi tende a sgonfiarsi. Si può discutere se si possa allungare come e quanto il raggiunto livello del momento ottimale, ma pare che l’idea di una crescita e sviluppo infinito è inconsistente, come ben sanno i fisici che quando trovano “infiniti” nelle equazioni, sanno che stanno sbagliando qualcosa.
Tutto ciò non ha solo direttamente a che fare con le obiezioni sulla crescita infinita fatte già negli anni ’50 da un economista della complessità (Kenneth Boulding) e ripetute poi da decrescisti armati di Secondo principio della termodinamica. Ha a che fare col “sottostante” dell’economia, del ciò che compone il fare economico. L’economia produce beni e servizi, ma la quantità di beni e servizi utili o quasi utili o superflui ma piacevoli, fino ai superflui insensati come la televisione 3D o i monopattini elettrici, è comunque tendente alla saturazione, ad un limite. Si dirà: ma il desiderio umano è un motore infinito, già, ma forse la sua conversione in prodotti e servizi che promettono di soddisfarlo (in realtà non soddisfacendolo mai altrimenti il sistema collassa), no. A dire che se prendete in storia sociale dell’economia l’Europa dell’inizio del XIX secolo, scorrete fast-forward il film, vedrete spuntare edifici, palazzi, strade, fogne, ferrovie, porti, aeroporti, macchine, moto, televisioni, radio, computer, ogni altro ben di dio materiale e molti servizi connessi poi -ad un certo punto- vi accorgerete che c’è già più di tutto e non si vede cos’altro manchi per trainare la curva in su. Non che non ci sia più nulla da inventare o produrre, certamente si può fare ancora molto ad esempio in termini di economia pubblica piuttosto che privata, ma quando andrete a fare i conti, non troverete più le vivaci condizioni di possibilità che c’erano nella fase ascensionale della curva. Tutto ciò lo stiamo scoprendo, a fatica, ora, poiché è la prima volta nella storia che si presenta il fenomeno dell’economia moderna. Quasi tutti, liberali non meno che keynesiani ovvero teorici interni il campo “economia moderna”, danno per scontata l’infinità della curva prodotta dall’utilizzo dei principi e delle forme di economia moderna. Ne consegue la loro difficoltà esistenziale ad ammettere che la curva non è infinta e quando comincia a flettere occorrerebbe ripensare non solo le forme dell’economia in generale, ma il suo ruolo nell’ordinamento delle nostre società.
Quest’ultimo punto però porterebbe a dover la lasciar il campo ai teorici socio-politici e questo per un economista non si dà. O quantomeno ad un fertile dialogo multidisciplinare per capire “quanto” si deve lavorare (lavoriamo più o meno secondo gli standard fissato nella convenzione internazionale del 1919, pensate un po’ quanto è assurdo il mondo), chi e come, con quale reddito, con quali servizi pubblici, dedicando a cosa il restante tempo etc. La questione non è solo tecnica ovvio, è l’ordine complessivo della società e dei poteri che finirebbe con l’essere trasformato, da cui una certa resistenza ad accettare la realtà.
Tutta questa lunga digressione, per sottolineare come l’Asia sia complessivamente nella fase iniziale della curva di sviluppo, noi nella fase terminale. Loro con sotto 4,5 miliardi di produttori-consumatori giovani che hanno spesso ancora bisogno dei fondamentali, noi con 0,7 miliardi di tendenzialmente anziani, sempre meno produttivi, annegati nel superfluo ma anche meno consumanti visto che le aspettative passano dalla spider ai pannoloni.
Tutto ciò in novelle condizioni perigliose quanto ad ambiente, ecologie e clima ovvero stato del tavolo di gioco.
Tutto ciò è un problema? Non lo so, so che è un fatto ed a ogni fatto dello stato del mondo in cui viviamo, ci si dovrebbe adattare. Come ci adattiamo? Revochiamo la globalizzazione per impedire che la loro crescita ci superi, li trattiamo come paria perché non sono bianchi, profumati e democratici, eleviamo sanzioni per correggere la loro endemica tendenza al dispotismo asiatico, aumentiamo la spesa in armi, espandiamo le nostre alleanze militari e riempiamo le nostre popolazioni di cazzate emesse a banda larga 24/7. Così, a naso, non mi pare una grande strategia.
A poker, non so se l’espressione è valida in tutta Italia, si dice “piatto ricco mi ci ficco” a dire che quando il piatto promette vincite consistenti, varrebbe la pena di rischiare e stare al gioco. Noi che siamo nella curva flettente, sia dell’esistenza che dello sviluppo economico che, forse, della nostra stessa civiltà, invece di partecipare allo sviluppo asiatico, alziamo muti, barriere, emaniamo fatwe, ostracizziamo, ci armiamo. Invecchiamo male, acidi, rancorosi, ottusi.
Di solito, in Storia, va sempre così e nonostante ciò -credo di non spoilerare nulla di inaspettato-, di solito finisce molto male. Regoliamoci.
PEACE WITHOUT LOVE. [Post lungo]. Come esseri umani siamo un amalgama di razionalità e sentimento. E’ culturale la divisione che facciamo tra i due modi di essere che condividiamo come umani. Significa che facciamo questa divisione in descrizione, più o meno accentuata e problematica, ma tale distinzione in natura non c’è affatto.
Nulla più che la politica e di conseguenza la geopolitica (ed altri casi tribali come il calcio), eccita entrambi i modi umani. Tuttavia, ci sono buone ragioni per suggerirci di tenere a bada questa commistione o meglio, la sua parte emotiva.
In effetti, se la politica è il trovare il modo di convivenza entro un popolo, la geopolitica potrebbe essere il trovare il modo di convivenza tra i popoli. A livello epistemologico non è esattamente così, geopolitica va sovrapposta ad un’altra disciplina, le Relazioni Internazionali e forse anche altre più normative, per ampliare il suo statuto da descrittivo a prescrittivo. Tuttavia, regge l’idea che come la politica cerca di trasformare conflitti e caos potenziale in un regolamento per le relazioni interne, “geopolitica” -nel senso più ampio datole- dovrebbe cercare di trovare il modo di gestire conflitto e caos potenziale nelle relazioni esterne.
Messa così, che sia politica interna o politica estera, le discipline che studiano le relazioni interne esterne delle poleis (gli Stati), dovrebbero essere razionali e governare l’emotività intrinseca che ci connota e che viene eccitata quando abbiamo a che fare con “l’Altro”.
Da quando siamo finiti a vivere assieme agli estranei, agli albori della civiltà cinque-seimila anni fa circa, s’è posto questo problema del trovare ordine interno ed esterno, problema che prima non c’era. Prima non c’era questo problema quanto agli ordini interni perché i gruppi umani, la vita associata, era basata su longeve interrelazioni tra persone che si conoscevano bene, figli e figlie di altri che si conoscevano bene. Questo “conoscersi” significava -di minima- sapere cosa aspettarsi dall’altro, se non avere un congruo set di comuni valori, mentalità, tradizioni unificanti. Ordine, insomma, in senso ampio. Non così nell’andare a vivere con “estranei” quindi “diversi” come accadde quando sorsero le prime città con decine di migliaia di reciproci estranei.
Quanto alle relazioni esterne, prima della civiltà e per lo più, c’era abbastanza spazio che divideva i gruppi umani, non troppo e quindi favorevole all’interrelazione e scambio (idee, persone, cose), non troppo poco da farli urtare l’un con l’altro. In più, il rapporto tra dotazioni di sussistenza dei territori ed esigenze dei gruppi umani e soprattutto loro dimensione, era ben bilanciato e quindi non c’era il conflitto per lo “spazio vitale”.
L’avvento della “civiltà” che non fu una condizione piovuta da non si sa dove, ma il compimento di una serie di traiettorie soprattutto demografiche ed ecologiche (che nulla avevano a che fare con l’invenzione dell’agricoltura che risale a millenni prima dell’avvento della civiltà), ci mise però in altra condizione. Appunto, trovare regolamenti di convivenza interni ai gruppi umani ed esterni tra gruppi umani. I gruppi non si auto-organizzavano più per eccesso di complessità. Per cinquemila anni, questi due regolamenti dell’interno e dell’esterno, prevalentemente, sono stati forme interne di stretta gerarchia, con un piccolo gruppo di maschi anziani di potere a capo e per lo più la guerra tra gruppi umani, intervallata da periodi di relazioni pacifiche a base di scambi di idee, persone e cose per l’esterno.
La guerra, nonostante gli sforzi di certi “scienziati” bio-sociali anglosassoni che dominano la formazione della nostra immagine di mondo, gente capace di scriverti un libro sul “gene delle guerra” o tirar fuori improbabili teorie sull’aggressività primate trasferita a noi, non è un istinto umano, anche perché mette a rischio la vita e tutta la nostra complessione raffinata in più di tre milioni di evoluzione e cambiamenti, è fatta per evitare la morte il più a lungo possibile. E’ fatta anche di continuo affinamento della capacità di gestire gli istinti, per altro. Da cui la razionalità.
Non solo siamo emotivamente avversi a correre rischi di morte, ma dotati di razionalità, dovremmo esserlo anche sul piano della consapevolezza cosciente. L’aggressività animale a livello inter-individuale, che senz’altro c’è, non porta di per sé all’aggressività di gruppo se non sollecitata intenzionalmente. Tant’è che il registro etno-antropologico è pieno di casi di conflitto tra gruppi simulato, non veramente agito, senza vero spargimento di sangue. Se non mediazioni a base di scambi fino all’andare a vivere da un’altra parte. Negli studi storici, poi, si può apprezzare la sofisticata fantasia narrativa con cui i vari gruppi di potere hanno convinto o costretto i propri giovani ad andar a morire per motivi spesso assai bizzarri.
Tuttavia, l’estrema primitività del nostro grado di civiltà (si ricordi che il genere homo ha tre milioni di anni, il sapiens trecentomila, la “civiltà” solo cinquemila, lo 0,16% del tempo totale) è ancora basata sul fatto che le oligarchie che dominano l’ordine delle nostre società, tali sono per via di sistemi di ordine interno che richiede spesso il dominio esterno, il che porta a conflitto. Il fenomeno non si forma per libera decisione razionale a livello di popolazioni, è formato per via emotiva, l’odio per l’Altro diretto dall’alto.
Molti storici della mentalità hanno osservato sbigottiti la repentina trasformazione di pacifici idraulici e ragionieri europei in quel dei primi del Novecento, in esagitati e schiumanti belve pronte all’assalto con la baionetta. Ancora ci si domanda come sia potuto avvenire nel cuore della “civiltà europea”, Francia, Germania ed altri.
Alcuni che non hanno le idee molto chiare, i “pacifisti” in genere, sono per principio contro la guerra e quindi il conflitto esterno, ma ne deducono improvvidamente la necessità di amare l’Altro. In genere, solo gli stessi che dicono di amare l’Altro che viene occasionalmente a vivere con loro, lo “straniero” o il “migrante”. Meglio senz’altro delle élite conflittuali, non c’è dubbio, ma temo che tali atteggiamenti non aiutino a risolvere il problema della “convivenza con gli estranei”.
In Svezia hanno “amato” democraticamente l’Altro migrato da loro, fino a che questi non hanno raggiunto una massa critica, si sono determinati in enclave culturalmente diversa, creando attriti e potenzialità di conflitto interno. Capita così che la media della popolazione cominci a soffrire di mille piccoli attriti di convivenza con estranei, arriva un partito post-fascista che dice loro “avete ragione! Ora mettiamo ordine, con le buone o con le cattive!” e dopo decenni di serena social-democrazia, vince le elezioni. Che poi, ironia della sorte storica, questo evento di politica interna, è sincronico ad uno di politica estera ovvero la rinuncia allo stato di neutralità che la Svezia ha coltivato per ben due secoli, a partire dalle guerre napoleoniche. Paura, politica della paura, usata da politici diversi, per intenti diversi.
Fare politica o geopolitica coi sentimenti non è buona guida. Con la razionalità, invece, si possono ottenere risultati molto migliori come quelli che ottenne Kissinger che portò il suo presidente, un ultra conservatore americano, a Beijing a stringere la mano a Mao Zedong, pur di dividere la comunista Cina dalla comunista Unione Sovietica che preoccupava gli americani ben di più, impensabile oggi.
Così anche nei problemi di convivenza interna non c’è da amare o da odiare l’Altro, c’è solo da provare e riprovare a trovare una forma di utile convivenza gestita, gestita come lo scopriremo provando e riprovando formule varie. Formule non semplici e naturali, c’è da saperlo senza scandalizzarsi ed accendere l’emotività, farla facile o farsi prender dalla scoramento. Quanti stranieri, di che tipo, in quale congiuntura economica, studiando spesso questioni culturali che i più ignorano, come ad esempio non far finanziare le moschee da sauditi e qatarioti (centri di reclutamento al Qaida e Isis nel primo caso, Fratelli musulmani nel secondo). Se si decidesse di ospitare musulmani sarebbe meglio finanziarle noi le moschee, magari a prestito pluridecennale, il 98% dell’islam non è affatto salafita, basta andare in Oriente per notarlo. Con-vivenza non è né assimilazione, né ostracismo, è lenta e paziente mediazione razionale.
Tutto ciò a seguito della lettura di alcuni commenti sul mio ultimo post a sua volta ripostato da alcuni di Voi sulla propria pagina. Ho letto di gente che pensava esser l’autore del post un amico di Putin o Lukashenka o Xi Jinping o Bin Laden o forse il diavolo in persona, probabilmente anche un po’ razzista e xenofobo con venature orbaniane e criptofasciste, il che per un democratico radicale è ben curiosa misinterpretazione.
La misinterpretazione non credo sia colpa di ciò che scrivo, ma di ciò che molti si sono fatti ficcare in testa. C’è una crescita di sentimenti di odio, interni alla comunità e sincronicamente esterni. Sulla stampa di oggi si trova: a Samarcanda si riunisce il club dei dittatori che vogliono distruggere l’Occidente, il Sauron di Mosca è avido del nostro sangue, Il subdolo cinese ci vuole irretire coi suoi involtini primavera ma poi tirerà fuori la scimitarra per far volar le nostre teste democratiche (dopo aver invaso Taiwan), ci sono addirittura gli iraniani! Se non li odi allora vuol dire che li ami! Principio di non contraddizione applicato a vanvera.
Ricordate, la storia mostra che ogni volta un ordine interno sta per crollare, si irrigidisce internamente (l’Inquisizione non è un fenomeno del pieno Medioevo, solo della sua lunga fine) ed esternamente, il che porta alla guerra.
Per i livelli tecnologici applicati alle armi che abbiamo raggiunto, questa volta la guerra sarebbe da evitare in ogni modo. C’è da trovare il come, non facile. Ma impossibile se non stiamo attenti a sospendere i sentimenti di odio e di amore per l’Altro e non trattiamo la faccenda in modo razionale.
[Non sono sicuro esista davvero in Senegal questo proverbio, ma dovevo mettere una immagine ed è trovato questa che mi sembrava ben precisa rispetto al post]

Stati Uniti! Primarie ultimo atto, inchieste ultimi atti_con Gianfranco Campa

Siamo all’ultimo atto delle primarie repubblicane. Con esso la componente neocon del partito è praticamente scomparsa e destinata ad un ruolo irrilevante. Rimane l’arma dei finanziamenti, necessaria a catturare i favori del voto di opinione attraverso i canali mediatici. Ridefiniti i rapporti di forza interni al partito, il confronto e lo scontro politico si manifesterà sempre più all’interno della componente trumpiana. Non tarderanno ad emergere, tanto più che parallelamente prosegue inesorabile il duello giudiziario in grado di alterare pesantemente i possibili equilibri e di compromettere sempre più la credibilità delle istituzioni americane, in primo luogo quelle preposte alla sicurezza e all’ordine pubblico. Nel frattempo almeno una parte del gap tecnologico statunitense in alcuni settori del complesso militare sembra colmato. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v1kfl17-stati-uniti-primarie-ultimo-atto-inchieste-ultimi-atti-con-gianfranco-campa.html

Di quale NATO abbiamo bisogno?_ di Stephen M. Walt

Dal punto di vista statunitense la 4a sarebbe la più conveniente e sostenibile, ma anche la più rischiosa. Tutto dipenderebbe dalle garanzie di fedeltà tedesche. Giuseppe Germinario

Quattro possibili assetti futuri per l’alleanza transatlantica.

In un mondo in costante cambiamento, spicca la resistenza della partnership transatlantica. La NATO è più vecchia di me e non sono un giovane. È in circolazione da più tempo di quanto la regina Elisabetta II abbia regnato in Gran Bretagna. La sua logica originale – ” tenere fuori l’Unione Sovietica, dentro gli americani e giù i tedeschi” – è meno rilevante di quanto non lo fosse un tempo (nonostante la guerra della Russia in Ucraina), ma suscita ancora riverenza riflessiva su entrambe le sponde dell’Atlantico . Se sei un aspirante politico che spera di lasciare il segno a Washington, Berlino, Parigi, Londra, ecc., imparare a lodare le virtù durature della NATO è ancora la mossa intelligente per la carriera.

Questa longevità è particolarmente notevole se si considera quanto è cambiato da quando è stata costituita la NATO e l’idea di una “comunità transatlantica” ha cominciato a prendere forma. Il Patto di Varsavia è finito e l’Unione Sovietica è crollata. Gli Stati Uniti hanno trascorso più di 20 anni combattendo guerre costose e senza successo nel grande Medio Oriente . La Cina è passata da una nazione impoverita con poco peso globale al secondo paese più potente del mondo, ei suoi leader aspirano a un ruolo globale ancora più grande in futuro. Anche la stessa Europa ha subito profondi cambiamenti: cambiamenti demografici, ripetute crisi economiche, guerre civili nei Balcani e, nel 2022, una guerra distruttiva che sembra destinata a continuare per qualche tempo.

A dire il vero, la “partenariato transatlantico” non è stata del tutto statica. La NATO ha aggiunto nuovi membri nel corso della sua storia, a cominciare dalla Grecia e dalla Turchia nel 1952, seguite dalla Spagna nel 1982, poi da una raffica di ex alleati sovietici a partire dal 1999 e, più recentemente, dalla Svezia e dalla Finlandia. Anche la distribuzione degli oneri all’interno dell’alleanza ha oscillato, con la maggior parte dell’Europa che ha ridotto drasticamente i propri contributi alla difesa dopo la fine della Guerra Fredda. La NATO ha anche subito vari cambiamenti dottrinali, alcuni dei quali più consequenziali di altri.

Vale quindi la pena chiedersi quale forma dovrebbe assumere in futuro il partenariato transatlantico. Come dovrebbe definire la sua missione e distribuire le sue responsabilità? Come con un fondo comune di investimento, il successo passato non è garanzia di prestazioni future, motivo per cui i gestori di portafoglio intelligenti che cercano i migliori rendimenti regoleranno le attività di un fondo al variare delle condizioni. Dati i cambiamenti passati, gli eventi attuali e le probabili circostanze future, quale visione ampia dovrebbe plasmare la partnership transatlantica in futuro, supponendo che continui ad esistere?

Mi vengono in mente almeno quattro modelli distinti per il futuro.

Modello 1: Business as usual

Un approccio ovvio – e data la rigidità burocratica e la cautela politica, forse il più probabile – è quello di mantenere più o meno intatte le attuali disposizioni e cambiare il meno possibile. In questo modello, la NATO rimarrebbe principalmente focalizzata sulla sicurezza europea (come suggerisce l’espressione “Nord Atlantico” nel suo nome). Gli Stati Uniti rimarrebbero il “primo soccorritore” dell’Europa e il leader incontrastato dell’alleanza, come lo è stato durante la crisi ucraina. La condivisione degli oneri sarebbe ancora distorta: le capacità militari americane continuerebbero a sminuire le forze militari europee e l’ombrello nucleare statunitense coprirebbe ancora gli altri membri dell’alleanza. La missione “fuori area” sarebbe sminuita a favore di una rinnovata attenzione all’Europa stessa, una decisione che ha senso alla luce dei risultati deludenti delle passate avventure della NATO in Afghanistan, Libia e i Balcani.

Ad essere onesti, questo modello ha alcune ovvie virtù. È familiare e mantiene il “ciuccio americano” d’Europaa posto. Gli stati europei non dovranno preoccuparsi dei conflitti che insorgono tra di loro finché lo zio Sam sarà ancora lì per fischiare e sciogliere le liti. I governi europei che non vogliono tagliare i loro generosi welfare state per pagare i costi del riarmo saranno felici di lasciare che lo zio Sam si occupi di una quota sproporzionata dell’onere, e i paesi più vicini alla Russia saranno particolarmente desiderosi di una forte garanzia di sicurezza degli Stati Uniti. Avere un chiaro leader dell’alleanza con capacità sproporzionate faciliterà un processo decisionale più rapido e coerente all’interno di quella che altrimenti potrebbe essere una coalizione ingombrante. Quindi, ci sono buone ragioni per cui gli atlantisti irriducibili lanciano l’allarme ogni volta che qualcuno propone di manomettere questa formula.

Tuttavia, il modello business-as-usual presenta anche alcuni seri svantaggi. Il più ovvio è il costo opportunità: mantenere gli Stati Uniti come primo interlocutore dell’Europa rende difficile per Washington dedicare tempo, attenzione e risorse sufficienti all’Asia, dove le minacce agli equilibri di potere sono significativamente maggiori e l’ambiente diplomatico è particolarmente complicato . Un forte impegno degli Stati Uniti nei confronti dell’Europa può smorzare alcune potenziali cause di conflitto lì, ma non ha impedito le guerre nei Balcani negli anni ’90 e lo sforzo guidato dagli Stati Uniti per portare l’Ucraina nell’orbita di sicurezza occidentale ha contribuito a provocare la guerra in corso. Questo non è ciò che qualcuno in Occidente intendeva, ovviamente, ma i risultati sono ciò che conta. I recenti successi dell’Ucraina sul campo di battaglia sono estremamente gratificanti e spero che continuino, ma sarebbe stato molto meglio per tutti gli interessati se la guerra non si fosse verificata affatto.

Inoltre, il modello business-as-usual incoraggia l’Europa a rimanere dipendente dalla protezione europea e contribuisce a un generale compiacimento e mancanza di realismo nella conduzione della politica estera europea. Se sei sicuro che la potenza più potente del mondo salterà dalla tua parte non appena inizieranno i problemi, è più facile ignorare i rischi di essere eccessivamente dipendenti dalle forniture energetiche straniere e eccessivamente tolleranti verso l’autoritarismo strisciante più vicino a casa. E sebbene quasi nessuno voglia ammetterlo, questo modello ha il potenziale per trascinare gli Stati Uniti in conflitti periferici che potrebbero non essere sempre vitali per la sicurezza o la prosperità degli stessi Stati Uniti. Per lo meno, il business as usual non è più un approccio che dovremmo approvare acriticamente.

Modello 2: Democrazia Internazionale

Un secondo modello per la cooperazione transatlantica in materia di sicurezza mette in evidenza il carattere democratico condiviso di (la maggior parte) dei membri della NATO e il crescente divario tra democrazie e autocrazie (e soprattutto Russia e Cina). Questa visione è alla base degli sforzi dell’amministrazione Biden di enfatizzare i valori democratici condivisi e il suo desiderio apertamente dichiarato di dimostrare che la democrazia può ancora superare l’autocrazia sulla scena globale. La Fondazione Alliance of Democracies dell’ex segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen riflette una concezione simile.

A differenza del modello business-as-usual, incentrato principalmente sulla sicurezza europea, questa concezione del partenariato transatlantico abbraccia un’agenda globale più ampia. Concepisce la politica mondiale contemporanea come una contesa ideologica tra democrazia e autocrazia e crede che questa lotta debba essere condotta su scala globale. Se gli Stati Uniti sono “perno” verso l’Asia, allora anche i suoi partner europei devono farlo, ma allo scopo più ampio di difendere e promuovere i sistemi democratici. Coerentemente con questa visione, la nuova strategia indo-pacifica della Germania richiede di rafforzare i legami con le democrazie di quella regione e il ministro della Difesa tedesco ha recentemente annunciato una presenza navale ampliata anche lì nel 2024.

Questa visione ha il merito della semplicità – democrazia buona, autocrazia cattiva – ma i suoi difetti superano di gran lunga le sue virtù. Tanto per cominciare, un tale quadro complicherà inevitabilmente le relazioni con le autocrazie che gli Stati Uniti e/o l’Europa hanno scelto di sostenere (come l’Arabia Saudita o le altre monarchie del Golfo, o potenziali partner asiatici come il Vietnam), ed esporrà il convivenza con l’accusa di dilagante ipocrisia. In secondo luogo, dividere il mondo in democrazie amichevoli e dittature ostili è destinato a rafforzare i legami tra queste ultime e a scoraggiare le prime dal giocare divide et impera. Da questo punto di vista, dovremmo essere lieti che l’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon e il suo consigliere Henry Kissinger non abbiano adottato questa struttura nel 1971, quando il loro riavvicinamento con la Cina maoista diede al Cremlino un nuovo mal di testa di cui preoccuparsi.

Infine, mettere i valori democratici in primo piano e al centro rischia di trasformare la partnership transatlantica in un’organizzazione crociata che cerca di impiantare la democrazia ovunque sia possibile. Per quanto desiderabile tale obiettivo possa essere in astratto, gli ultimi 30 anni dovrebbero dimostrare che nessun membro dell’alleanza sa come farlo in modo efficace. Esportare la democrazia è estremamente difficile da fare e di solito fallisce, specialmente quando gli estranei cercano di imporla con la forza. E dato il precario stato di democrazia in alcuni degli attuali membri della NATO, adottare questa come la principale ragion d’essere dell’alleanza sembra estremamente donchisciottesco.

Modello 3: Globalizzazione contro la Cina

Il Modello 3 è un cugino stretto del Modello 2, ma invece di organizzare le relazioni transatlantiche attorno alla democrazia e ad altri valori liberali, cerca di coinvolgere l’Europa nel più ampio sforzo degli Stati Uniti per contenere una Cina in ascesa. In effetti, cerca di unire i partner europei multilaterali dell’America con gli accordi bilaterali hub-and-spoke che già esistono in Asia e portare il potenziale di potere dell’Europa contro l’unico serio concorrente che gli Stati Uniti probabilmente dovranno affrontare per molti anni venire.

A prima vista, questa è una visione allettante e si potrebbe indicare l’accordo AUKUS tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia come una sua prima manifestazione. Come ha osservato di recente Michael Mazarr della Rand Corp. , ci sono prove crescenti che l’Europa non vede più la Cina semplicemente come un mercato redditizio e un partner di investimento prezioso, e sta iniziando a “bilanciare dolcemente” contro di essa. Da una prospettiva puramente americana, sarebbe altamente auspicabile che il potenziale economico e militare dell’Europa si schierasse contro il suo principale sfidante.

Ma ci sono due problemi evidenti con questo modello. In primo luogo, gli stati si bilanciano non solo con il potere, ma con le minacce e la geografia gioca un ruolo fondamentale in tali valutazioni. La Cina può essere sempre più potente e ambiziosa, ma il suo esercito non marcerà attraverso l’Asia e colpirà l’Europa, e la sua marina non navigherà per il mondo e bloccherà i porti europei. La Russia è molto più debole della Cina ma molto più vicina, e il suo comportamento recente è preoccupante anche se le sue azioni hanno inconsapevolmente rivelato i suoi limiti militari. Ci si dovrebbe quindi aspettare il più morbido bilanciamento morbido dall’Europa e non uno sforzo serio per contrastare le capacità della Cina.

I membri europei della NATO non hanno la capacità militare di influenzare in modo significativo l’equilibrio di potere nella regione indo-pacifica ed è improbabile che la acquisiscano presto. La guerra in Ucraina potrebbe portare gli stati europei a prendere sul serio la ricostruzione delle loro forze militari, finalmente, ma la maggior parte dei loro sforzi andrà ad acquisire capacità di terra, aria e sorveglianza progettate per difendere e scoraggiare la Russia. Ciò ha senso dal punto di vista dell’Europa, ma la maggior parte di queste forze sarebbe irrilevante per qualsiasi conflitto che coinvolga la Cina. L’invio di alcune fregate tedesche nella regione indo-pacifica può essere un bel modo per segnalare l’interesse dichiarato della Germania per l’ambiente di sicurezza in evoluzione lì, ma non altererà l’equilibrio di potere regionale o farà molta differenza nei calcoli della Cina.

L’Europa può aiutare a bilanciare la Cina in altri modi, ovviamente, aiutando ad addestrare forze militari straniere, vendendo armi, partecipando a forum di sicurezza regionali, ecc., e gli Stati Uniti dovrebbero accogliere favorevolmente tali sforzi. Ma nessuno dovrebbe contare sull’Europa per fare molto duro bilanciamento nel teatro indo-pacifico. Cercare di mettere in atto questo modello è una ricetta per la delusione e un aumento del rancore transatlantico.

Modello 4: una nuova divisione del lavoro

Sapevi che sarebbe arrivato: il modello secondo me è quello giusto. Come ho affermato in precedenza (incluso più recentemente qui in Foreign Policy ), il modello futuro ottimale per la partnership transatlantica è una nuova divisione del lavoro, con l’Europa che si assume la responsabilità primaria della propria sicurezza e gli Stati Uniti che dedicano molta più attenzione nella regione indo-pacifica. Gli Stati Uniti rimarrebbero un membro formale della NATO, ma invece di essere il primo soccorritore dell’Europa, diventerebbero il loro alleato di ultima istanza. D’ora in poi, gli Stati Uniti avrebbero pianificato di tornare a terra in Europa solo se l’equilibrio di potere regionale si fosse eroso in modo drammatico, ma non altrimenti.

Questo modello non può essere implementato dall’oggi al domani e dovrebbe essere negoziato in uno spirito di cooperazione, con gli Stati Uniti che aiutano i loro partner europei a progettare e acquisire le capacità di cui hanno bisogno. Poiché molti di questi stati faranno tutto ciò che è in loro potere per convincere lo zio Sam a restare, tuttavia, Washington dovrà chiarire che questo è l’unico modello che sosterrà in futuro. A meno che e fino a quando i membri europei della NATO non crederanno davvero che staranno per lo più da soli, la loro determinazione a intraprendere le misure necessarie rimarrà fragile e ci si può aspettare che si ritiri nei loro impegni.

A differenza di Donald Trump, la cui spavalderia e magniloquenza durante il suo periodo come presidente degli Stati Uniti ha infastidito gli alleati inutilmente, il suo successore Joe Biden è in una posizione ideale per avviare questo processo. Ha una meritata reputazione di atlantista devoto, quindi spingere per una nuova divisione del lavoro non sarebbe visto come un segno di risentimento o irritazione. Lui e il suo team sono in una posizione unica per dire ai nostri partner europei che questo passo è nell’interesse a lungo termine di tutti. Intendiamoci, non mi aspetto davvero che Biden & Co. faccia questo passo , per ragioni che ho spiegato altrove , ma dovrebbero.

Finalmente Svezza l’Europa al largo di Washington

Di Stephen M. Walt

Quando la politica estera ha chiesto per la prima volta l’impatto della guerra in Ucraina sulla strategia degli Stati Uniti cinque mesi fa, ho sostenuto che l’invasione illegale dell’Ucraina da parte della Russia era un’opportunità ideale per avviare il processo di svezzamento degli alleati europei degli Stati Uniti dalla loro eccessiva dipendenza dalla protezione degli Stati Uniti. Semmai, da allora la tesi per una nuova divisione del lavoro si è rafforzata.

La guerra ha dimostrato che l’hard power conta ancora nel 21° secolo, ha messo in luce le carenze militari dell’Europa, ha sottolineato sottilmente i limiti dell’impegno degli Stati Uniti e ha rivelato i limiti militari duraturi della Russia. Ricostruire le difese dell’Europa richiederà tempo e denaro, ma fare in modo che l’Europa si assuma maggiori responsabilità per la propria difesa consentirà agli Stati Uniti di spostare maggiori sforzi e attenzione sull’Asia per affrontare le numerose sfide poste da una Cina più potente e assertiva.

Sfortunatamente, l’amministrazione Biden sta ignorando queste implicazioni e sta rafforzando la dipendenza europea dallo Zio Sam. Se questo corso continua, gli Stati Uniti rimarranno sovraccarichi e la loro capacità di bilanciare efficacemente la Cina ne risentirà.

Cosa è successo negli ultimi cinque mesi per sostenere la tesi dello svezzamento dell’Europa da Washington?

La tesi per una nuova divisione del lavoro tra Stati Uniti ed Europa si è rafforzata solo dall’inizio della guerra.

In primo luogo, le prestazioni militari della Russia non sono migliorate in modo significativo e le sue forze armate continuano a subire perdite sostanziali. Anche se il maggiore potere latente di Mosca le consentirà di ottenere una sorta di vittoria di Pirro in Ucraina, la sua capacità di minacciare il resto dell’Europa in futuro sarà minima. La Russia ha perso una parte considerevole delle sue armi più sofisticate e della sua forza lavoro militare meglio addestrata. Le sanzioni occidentali hanno danneggiato in modo significativo la sua economia. Le restrizioni alle esportazioni renderanno molto più difficile l’acquisizione da parte dell’industria della difesa russa dei semiconduttori avanzati e altre tecnologie che richiedono armi all’avanguardia. Nel tempo, gli sforzi europei per ridurre la dipendenza dal petrolio e dal gas russi priveranno Mosca delle entrate e ostacoleranno ulteriormente la sua capacità di ricostruire le sue forze militari una volta che i combattimenti in Ucraina saranno finiti.

In secondo luogo, Svezia e Finlandia sono state accolte nella NATO. A differenza di altri nuovi membri del blocco, entrambi i paesi hanno potenti forze militari e il loro ingresso complica enormemente la pianificazione della difesa russa, trasformando il Mar Baltico in un lago virtuale della NATO. Questo inclina gli equilibri di potere in Europa in modo ancora più decisivo a favore della NATO.

Terzo, gli eventi in Asia, come le vaste esercitazioni militari cinesi seguite alla recente visita della presidente della Camera degli Stati Uniti Nancy Pelosi a Taiwan, hanno sottolineato il ruolo centrale del potere statunitense nel preservare un favorevole equilibrio di potere in Asia. Se impedire l’emergere di un egemone rivale in una regione strategica vitale rimane un principio cardine della grande strategia statunitense, allora è essenziale orientarsi verso l’Asia, indipendentemente da ciò che accade in Ucraina.

Sfortunatamente, l’amministrazione Biden potrebbe ora ripetere gli stessi errori che in passato hanno incoraggiato i partner europei di Washington a trascurare le proprie capacità di difesa. Gli Stati Uniti si sono assunti la responsabilità primaria di armare, addestrare, sovvenzionare e consigliare l’Ucraina. A febbraio, l’amministrazione ha annunciato il dispiegamento a tempo indeterminato di 20.000 truppe americane aggiuntive in Europa, con l’aggiunta di altre nuove forze a giugno. Non sorprende che la determinazione europea a fare di più stia svanendo e le abitudini radicate nel free-riding stiano riemergendo. L’imminente recessione europea non farà che esacerbare queste tendenze, mettendo in dubbio le audaci promesse che la Germania e altri stati europei hanno fatto alcuni mesi fa.

Se questa tendenza non viene invertita, Washington si ritroverà a fare più del necessario in Europa ma non abbastanza in Asia. Per la grande strategia statunitense, sarebbe un errore fondamentale.

Stephen M. Walt è editorialista di Foreign Policy e Robert e Renée Belfer professore di relazioni internazionali all’Università di Harvard.

https://foreignpolicy.com/2022/09/14/nato-future-europe-united-states/

https://foreignpolicy.com/2022/09/02/us-grand-strategy-ukraine-russia-china-geopolitics-superpower-conflict/

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