Perché la Germania sta precipitando nella crisi. Intervista con Markus Kerber, da REVUE CONFLITS

Perché la Germania sta precipitando nella crisi. Intervista con Markus Kerber
da REVUE CONFLITS

Mostruose manifestazioni a Berlino e in tutta la Germania, crisi energetica, fragilità dell’industria, minacce di chiusura: la Germania è in preda a molteplici crisi. Quali sono le cause e come può il Paese uscirne? Intervista con Markus Kerber.
Intervista di Louis Juan

I recenti avvenimenti in Germania sembrano piuttosto opachi sulla nostra sponda del Reno. Chi sta manifestando e perché?

La Francia è abituata alle rivolte regolari degli agricoltori. Fa parte del panorama politico di un Paese con un settore agricolo molto vasto e ribelle. Al contrario, gli agricoltori tedeschi – in numero molto inferiore a quelli francesi – sono meno rumorosi. Questa volta, il grido di protesta dovrebbe essere sentito anche in Francia e il malcontento agricolo tedesco troverà un’eco in Francia. La Francia può finalmente immaginare una Germania rivoluzionaria?

In quali regioni le proteste sono più virulente?

In tutta la Germania, gli agricoltori manifestano con i loro trattori e bloccano il traffico, in un momento in cui lo sciopero delle ferrovie costringe la gente a usare l’automobile. La ritrovata fiducia e l’orgoglio sociale degli agricoltori li ha spinti a boicottare il ministro dell’Economia Habeck, costretto a rimanere un po’ più a lungo sulla sua isola di vacanza perché gli agricoltori avevano impedito il suo ritorno sul continente.

Come reagì il governo Scholz a queste richieste?

Stigmatizzando i manifestanti come “di estrema destra”. Ciò ricorda il trattamento riservato dal governo comunista ai dissidenti nella DDR nel 1989: secondo l’ufficio politico del PC, tutti i dissidenti erano “revanscisti e fascisti”. In realtà, il governo Scholz è caduto in una trappola: non ha capito l’impatto della cancellazione dei sussidi per l’acquisto del diesel, un carburante essenziale per i trattori. Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Agricoltori e macchinisti in sciopero: quali sono i rischi per l’economia tedesca?

La Germania sta sprofondando nella recessione. Ma gli effetti politici sono più importanti. I cittadini sono stufi non solo di questo governo, ma anche dell’oligarchia dei partiti: la posta che non arriva più a destinazione, i treni in ritardo e l’intera rete ferroviaria in disordine, le vessazioni giacobine dei Verdi nei confronti della popolazione e le continue violazioni del bilancio. Quando è troppo è troppo. Il sistema tedesco è allo stremo!

Il tentativo di compromesso di ridurre i sussidi in modo graduale, anziché diretto, sta riscuotendo il consenso degli agricoltori?

Ovviamente no, perché il risultato inaccettabile per gli agricoltori rimarrà lo stesso. Inoltre, non possono alimentare i loro trattori con l’elettricità come gli automobilisti. Quindi la loro battaglia è solo all’inizio.

Leggi anche

Crisi energetica: “I tedeschi capiscono di essere stati ingannati”. Intervista con Samuel Furfari

Il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner ha definito le proteste “sproporzionate”. Pensa che questa crisi rifletta una mancanza di comprensione tra il popolo tedesco e le sue élite?

Il cosiddetto partito “liberale” di Lindner, entrato in politica dopo una carriera fallimentare come “imprenditore”, ha abbandonato tutte le sue promesse: patto di stabilità, rigore di bilancio, riduzione delle tasse e dei contributi sociali. È diventato il partito delle promesse non mantenute, che sarà giudicato dagli elettori come è giusto che sia. Il piacere di essere al potere e di fare a pugni con i grandi li ha completamente accecati. Inoltre, questo ambiente liberale disprezza il mondo del lavoro, sia nell’industria che nell’agricoltura. Avranno il loro tornaconto.

In Germania, le tasse rappresentano circa il 40% del costo totale di un litro di gasolio. I tedeschi dovrebbero temere un aumento delle tasse in un momento in cui il Paese sembra impantanato in una crisi energetica?

Il prezzo del carburante oggi è paragonabile al prezzo del pane nel 1789. La Germania sta pagando a caro prezzo le sue follie ambientaliste. Questo movimento antimoderno di puristi giacobini crede di essere stato intronizzato dalla storia per ridurre a zero le emissioni della Germania. La Germania è responsabile del 2,5% delle emissioni globali di CO2. Si tratta quindi di una sfida globale che deve essere affrontata a livello globale.

Visto il mantra dell’UE sulle energie rinnovabili, dobbiamo temere eventi simili in Francia o in altri Paesi europei?

Non c’è da temere, ma da sperare.

Crisi energetica: “I tedeschi capiscono di essere stati ingannati”. Intervista con Samuel Furfari
di SAMUELE FURFARI

Dopo vent’anni di intenso lavoro di lobby a favore delle energie rinnovabili e della distruzione del nucleare francese, la Germania è stata finalmente colpita da una crescente crisi energetica. Insoddisfatti, i tedeschi si riuniscono l’8 gennaio per protestare contro l’aumento dei prezzi dell’energia. Samuel Furfari ci spiega.

Samuel Furfari è professore di Politica energetica e Geopolitica presso l’École Supérieure de Commerce de Paris (campus di Londra) e ha insegnato la materia all’Université Libre de Bruxelles (ULB) per 18 anni. Ingegnere con un dottorato in scienze applicate (ULB), è stato per 36 anni funzionario della Direzione generale dell’Energia della Commissione europea.

La Germania ha ceduto all’ideologia. Non dobbiamo dimenticare che i tedeschi sono principalmente pacifisti a causa della Seconda guerra mondiale. Hanno associato la guerra al nucleare. Quindi i pacifisti tedeschi sono anche contrari al nucleare quando si tratta di produzione di energia. Il secondo fattore è che i sovietici della Germania Est hanno convinto i tedeschi dell’Ovest che l’energia nucleare non era necessaria. L’URSS vedeva che l’Occidente stava guadagnando un vantaggio troppo grande con lo sviluppo dell’energia nucleare, e questo slancio doveva essere fermato. Queste cause hanno convinto la maggioranza dei tedeschi a essere contrari al nucleare. Da quel momento in poi, abbiamo dovuto trovare altri modi per produrre elettricità.

La Germania è sempre stata un Paese ad alta intensità di carbone, con le settime riserve mondiali di carbone, principalmente sotto forma di lignite. Per mantenerla e adottare una linea ecologica, i tedeschi volevano sviluppare le energie rinnovabili. E dopo tutto, perché no? Era logico provarci, visto che l’Unione Europea aveva sviluppato queste tecnologie fin dalla crisi petrolifera degli anni ’70. Ma è un fallimento: le energie rinnovabili sono un’opzione che non si può più fare. Ma è un fallimento: l’energia rinnovabile non produce abbastanza energia e costa molto denaro per un impatto minimo sul pianeta. La maggior parte dell’energia eolica tedesca è prodotta sulla terraferma. Il Paese ha ora bisogno di sviluppare l’energia eolica offshore, perché la terraferma è quasi satura. E se le turbine eoliche sulla terraferma sono difficili, lo sono ancora di più in mare. Spesso si rompono a causa degli spruzzi del mare. E i costi di manutenzione e riparazione sono enormi. Più turbine eoliche offshore costruisce la Germania, più costosa è l’energia. Questo è uno dei motivi per cui i prezzi dell’energia stanno aumentando. Ma oggi il governo ha trasferito l’aumento dei prezzi attraverso sussidi diretti, il che significa che sono le tasse dei tedeschi a pagare il costo aggiuntivo dell’elettricità rinnovabile.

Di fronte ai fallimenti bisogna aprire gli occhi, ma i politici tedeschi non vogliono ammettere di essere arrivati a un punto morto e stanno sprofondando nella crisi.

Quando è iniziata questa politica delle energie rinnovabili?

L’idea esiste dagli anni Settanta e Ottanta. Le energie rinnovabili sono state favorite non a causa del cambiamento climatico, ma come risposta alle crisi petrolifere. Ma è soprattutto negli anni Duemila che i tedeschi hanno iniziato a credere fermamente nelle energie rinnovabili, con una strategia chiamata EnergieWende, che abbiamo tradotto come transizione energetica. Nel 2005, la signora Merkel chiese al Presidente della Commissione europea di sviluppare una tabella di marcia per l’introduzione delle energie rinnovabili, per costringere tutti i Paesi europei ad adottarle. Ho lavorato personalmente a questo dossier. L’UE aveva proposto un pacchetto clima-energia, con la promozione delle energie rinnovabili e la riduzione delle emissioni di CO₂, che la Francia interpretava come “nucleare”.

L’adozione politica della direttiva risale al dicembre 2008, sotto la guida di Nicolas Sarkozy, che ha negoziato la direttiva stessa. Egli difendeva una politica basata sul nucleare, mentre i tedeschi puntavano sulle energie rinnovabili. È stato tutto un grande mercanteggiamento. Sarkozy è stato ingannato, perché i tedeschi hanno mantenuto la loro opposizione al nucleare. La Germania ha guidato l’intera Europa sulla sua strada.

Come sta reagendo il governo Scholz alla crisi energetica?

Il governo è completamente bloccato nella sua politica. Nella sua analisi “Fabbisogno finanziario per la produzione di energia elettrica fino al 2030”, l’Istituto per l’economia energetica dell’Università di Colonia stima gli investimenti necessari per l’energia eolica a circa 75 miliardi di euro e per l’energia solare a 50 miliardi di euro. A ciò si aggiungono i costi di sostituzione e manutenzione delle turbine eoliche e dei pannelli solari esistenti, che dovranno essere sostituiti nei prossimi anni. Personalmente, non presto molta attenzione alle previsioni numeriche, perché so come vengono formulate. Molto più importante è l’affermazione degli autori secondo cui non ci si può aspettare che questi nuovi impianti finanzino i loro costi di investimento sul mercato dell’elettricità. Non lo dicono, ma è perché il prezzo dell’elettricità in Germania è già troppo alto rispetto al resto dell’UE. Il governo fornirà sussidi, in altre parole tasserà!

Esisteva già una tassa sulla CO₂ di 30 euro per tonnellata, che dall’inizio di gennaio salirà a 45 euro. Per le famiglie si tratta di un aumento di 100 euro all’anno, che non è molto, ma su scala nazionale è molto.

Se questo è generalmente superabile per una singola famiglia, la sfida è su scala macroeconomica. Moltiplicato per diverse decine di milioni di famiglie e imprese, l’impatto rappresenta un peso enorme per l’economia del Paese. Le cifre vengono annunciate per i singoli individui, ma i costi per il Paese nel suo complesso non vengono mai menzionati. La cosa peggiore è che è tutto inutile. Se, pagando un po’ di più l’energia, i tedeschi avessero un impatto sul clima, potrebbe avere un senso. Ma il risultato è irrisorio e la gente comincia a capire di essere stata ingannata. Da quando la Germania ha intrapreso la EnergieWende, le emissioni globali di CO₂ sono aumentate del 61%. È grazie a questa consapevolezza che il 2023 rappresenta un punto di svolta, un vero passo avanti come l’EnergieWende. Quando ci si rende conto che le belle parole non hanno alcun effetto reale sul pianeta e che rendono la vita più difficile, la gente finalmente si muove.

Gli agricoltori hanno recentemente espresso il loro malcontento. Nel bilancio 2024, il governo tedesco ha deciso di aumentare le tasse sul carburante per gli agricoltori. Gli agricoltori si sono riuniti in grandi manifestazioni (7.000 trattori a Berlino), perché l’impatto sul loro portafoglio era così significativo. Il governo ha avuto un ripensamento e ha appena annunciato l’abbandono di una delle misure decise: “Contrariamente a quanto previsto, l’agevolazione fiscale sui veicoli per la silvicoltura e l’agricoltura viene mantenuta”, si legge in un comunicato stampa del governo.

Ma gli agricoltori non si arrendono e vogliono che tutte le misure decise contro di loro vengano abbandonate. L’8 gennaio si terrà in Germania una grande manifestazione contro i prezzi dell’energia, alla quale intende aderire un’ampia fetta della classe operaia, che infastidirà il Cancelliere Scholz, il cui partito SPD è vicino ai sindacati. Un’altra manifestazione è prevista per il 15 gennaio.

Il governo è in grosse difficoltà, perché il 15 novembre 2023 la Corte Costituzionale ha annullato il “fondo di transizione energetica” da 60 miliardi di euro, destinato a sovvenzionare le energie rinnovabili. Berlino dovrà trovare questa somma aggiuntiva, rispettando l’obbligo del “freno al debito” sancito dalla Costituzione.

Ci sarà una pressione sulle forniture di elettricità alle famiglie?

No. Non ci sarà un blackout, perché le centrali a carbone esistenti compenseranno l’intermittenza e la variabilità delle turbine eoliche e dei pannelli solari. L’autorità di gestione della rete (BNetzA) ha appena chiesto alle sue centrali di non programmare lo smantellamento prima del 2031. La Germania ne ha troppo bisogno.

L’unica pressione sulle famiglie tedesche sarà sul loro portafoglio, ma ripetiamolo, soprattutto a livello macroeconomico.

Che impatto avrà la crisi energetica sull’industria tedesca?

L’industria tedesca, soprattutto quella chimica, ha beneficiato per anni di prezzi energetici relativamente bassi grazie al gas russo fornito da Gazprom. Non dimentichiamo che gli idrocarburi non sono solo una fonte di energia, ma anche la materia prima per l’industria chimica, così importante in Germania. Gli alti salari tedeschi erano compensati dal basso prezzo del gas. Ora che il gas non è più disponibile, questo vantaggio è andato perduto. Il risultato è stato una grave crisi economica. L’industria chimica tedesca è stata la più colpita e si è organizzata per delocalizzare. Il governo tedesco ha finalmente deciso di reagire e ha appena firmato un accordo di fornitura di gas con la Norvegia del valore di 50 miliardi di euro. Una società statale tedesca, la SEFE (ex Gazprom Germania), si è aggiudicata il contratto perché la Germania ha bisogno di stabilità. I tedeschi stanno quindi iniziando a capire che il Paese ha bisogno di gas e carbone per funzionare e che l’energia completamente rinnovabile, da loro fortemente finanziata, è un’utopia. È stato detto loro che tutto è rinnovabile, pulito e a basso costo, ma ora il governo corre come un pollo senza testa per trovare gas ovunque possa, a qualsiasi prezzo. I tedeschi hanno capito.

Se le aziende iniziano a delocalizzare a causa dei prezzi dell’energia, la disoccupazione salirà alle stelle e il malcontento crescerà ancora di più. Come sempre in economia, i conti tornano.

E l’industria automobilistica?

Non so cosa pensare, è così incredibile. L’industria automobilistica è il fiore all’occhiello del know-how tedesco, all’avanguardia dell’innovazione tecnologica. Ma vogliono anche puntare sull’EnergieWende, sull’elettricità totale. Non solo stanno perdendo il loro know-how, ma non hanno nemmeno la necessaria elettricità a basso costo, dato che le forniture elettriche sono sotto pressione. Inoltre, agli ecologisti non piacciono le auto elettriche, perché sono… auto. A causa di un errore energetico, la Germania sta abbandonando il suo fiore all’occhiello industriale per passare nelle mani dei cinesi, che hanno il monopolio virtuale della produzione di batterie. Abbiamo appena appreso che nel 2023 nell’Unione Europea saranno vendute più auto cinesi che giapponesi. Inoltre, come abbiamo visto, la loro elettricità non è neutrale dal punto di vista delle emissioni di anidride carbonica, dal momento che hanno chiuso le loro centrali nucleari e le hanno sostituite con centrali a gas senza chiudere quelle a carbone.

Di fronte alla crisi energetica e al fatto che l’UE ha finalmente riconosciuto il nucleare come energia verde, pensa che la Germania cambierà direzione?

Tutto dipende dai cambiamenti politici. L’attuale governo di Olaf Scholz è impopolare e caotico. Ecologisti e liberali puri sono al potere fianco a fianco. I Verdi vogliono abolire le centrali a carbone, ma la SPD, vicina ai sindacati, ne difende il mantenimento. L’FDP, che un tempo era un liberale apartitico, non ama le tasse, eppure per mettersi d’accordo con gli ecologisti sta accettando sempre più tasse. Questi elettori storici se ne accorgeranno alle prossime elezioni.

Restano due anni di potere e nel frattempo l’opposizione si sta organizzando. Il partito della Merkel sta aprendo al nucleare e il crescente partito di destra (AFD) è contrario alle fonti rinnovabili. È molto probabile che le cose cambino tra due anni. Già alle elezioni europee del 9 giugno dovremmo assistere a un cambiamento significativo. In ogni caso, non possiamo pensare che l’attuale coalizione, che è così antipatica, si ritiri per andare alle urne, perché i partiti che la compongono perderebbero inevitabilmente.

La Francia è mai stata in grado di affermarsi sulla questione dell’energia nucleare in Europa?

La Germania ha dettato la politica delle energie rinnovabili. Nel 2023 c’è stata una forte reazione contro questa politica. L’odio per l’energia nucleare si era spinto a tal punto che era necessario reagire all’opposizione del movimento antinucleare a Bruxelles-Strasburgo e a Berlino. A questa situazione deleteria ha posto rimedio in extremis l’azione di Francia e Polonia, che hanno affermato nel quadro della tassonomia che il nucleare è un’energia verde.

Ma a Bruxelles-Strasburgo il peso antinucleare è ancora molto forte e la Germania domina ancora l’Europa. Su 705 eurodeputati, la Germania ne ha 96 – 3,7 volte di più della media per Stato membro.

Qual è la posizione dei partiti pro e contro il nucleare in Europa?

I leader pro-nucleare sono Francia e Polonia, seguiti da Bulgaria, Ungheria, Finlandia, Repubblica Ceca e Croazia. La Svezia è appena tornata in forze nel campo pro-nucleare. I Paesi Bassi avevano deciso di puntare sulle energie rinnovabili, ma stanno tornando al nucleare. Lo stesso vale per l’Italia, che per 30 anni è stata fortemente antinucleare.

L’altra parte dell’Europa – Germania, Austria, Spagna e Lussemburgo – si oppone.

L’articolo 194 del Trattato di Lisbona lascia agli Stati membri la libertà di scegliere la propria energia. Bruxelles-Strasburgo non può vietare il nucleare. Ma in pratica, limitando i finanziamenti e dando priorità assoluta alle energie rinnovabili, l’UE ha sabotato il nucleare negli ultimi quattro anni. Eppure il Trattato Euratom – tuttora in vigore – afferma che la missione dell’Unione è quella di contribuire al rapido sviluppo dell’industria nucleare per aiutare a “migliorare il tenore di vita” degli Stati membri.

La questione dell’energia in Europa si gioca a livello comunitario?

L’Unione europea è nata dall’energia, dal Trattato CECA e dal Trattato Euratom. Per 60 anni, l’obiettivo è stato quello di avere energia “abbondante e a buon mercato”, come deciso nella riunione di Messina del giugno 1955. Dal Trattato di Lisbona, l’energia è una competenza condivisa tra gli Stati membri e l’Unione, ma come abbiamo detto, gli Stati membri sono liberi di scegliere le energie che utilizzano. La politica di riduzione delle emissioni di CO₂ ha stravolto questa prerogativa fondamentale dei Trattati. È sorprendente che nessuno Stato membro metta in discussione l’abbandono della sovranità energetica, nonostante sia prevista dal Trattato di Lisbona. È chiaro che, grazie agli ecologisti di tutte le parti a Bruxelles-Strasburgo, la lotta al cambiamento climatico è più importante della sovranità nazionale e della sicurezza dell’approvvigionamento energetico, che sono elementi fondamentali del Trattato di Lisbona. Il ruolo della Germania, portabandiera dell’UE, è stato decisivo negli ultimi anni nella mancata applicazione dei trattati europei, ma ciò è avvenuto con la complicità degli Stati membri. È facile criticare l’uno o l’altro, ma alla fine è il Consiglio europeo il responsabile ultimo, perché tutti i Paesi hanno ceduto all’ideologia tedesca. È chiaro che la politica energetica europea oggi è ideologica, avendo abbandonato la razionalità che aveva nei primi 60 anni della sua esistenza. Lo dimostro nel mio libro Insicurezza energetica: la distruzione organizzata della competitività dell’UE.

Le elezioni europee del 9 giugno saranno cruciali. Se i sondaggi sono attendibili, gli ecologisti tedeschi perderanno molti seggi, ma è probabile che perdano anche in Belgio, Francia e altrove. Una nuova maggioranza a Strasburgo potrebbe essere ottenuta questa volta senza gli ecologisti. Ciò metterebbe in discussione l’intera politica energetica perseguita dall’attuale Commissione europea, una politica verde tedesca.

Anche la COP28, pur voluta e guidata dagli attivisti verdi, ha contribuito a invertire la rotta. A Dubai, gli attivisti ambientalisti volevano che si decidesse di abbandonare i combustibili fossili e hanno ottenuto il contrario, anche se nelle conclusioni si afferma la necessità di sviluppare le energie rinnovabili. Per garantire l’essenziale sicurezza dell’approvvigionamento energetico – molto più importante della riduzione delle emissioni globali di CO₂ – la COP28 riconosce al punto 29 che ogni Paese è libero di scegliere la propria transizione e le energie che decide di utilizzare. Questa potrebbe essere, ad esempio, la transizione dal legno al carbone (vedi la mia analisi su Factual). I Paesi in via di sviluppo – l’Africa nel suo complesso, ma anche la Cina e l’India – continueranno a utilizzare i combustibili fossili, perché hanno capito che le energie rinnovabili promosse dalla Germania sono costose e non hanno alcun impatto sulle emissioni complessive di CO₂. I media non hanno visto, o non hanno voluto vedere, il serpente che la COP28 di Dubai ha fatto ingoiare alla Germania, all’UE e agli ambientalisti di tutti i partiti. La realtà della sovranità energetica ha semplicemente capovolto la situazione e le energie rinnovabili non convincono nessuno al mondo.

Qual è l’equilibrio da raggiungere, secondo lei?

Dobbiamo innanzitutto porre fine al manicheismo, all’idea di tutte le fonti rinnovabili o anche semplicemente alla priorità data alle energie rinnovabili e al divieto del nucleare; tutto ciò è contrario al Trattato di Lisbona! In secondo luogo, dobbiamo riconoscere che le turbine eoliche non possono riprodursi da sole: non possiamo utilizzare le energie rinnovabili per produrre la moltitudine di materiali necessari al loro impiego e, più in generale, per produrre tutti i materiali di cui abbiamo bisogno per vivere. Non possiamo produrre cemento, vetro, automobili, trattori, navi container o smartphone con l’energia eolica o solare. Inoltre, nonostante l’energia nucleare sia essenziale per fornire tutta l’elettricità di cui il mondo avrà bisogno, viene utilizzata solo per produrre elettricità, che rappresenta solo il 22% del consumo finale di energia nell’UE. Il resto dell’energia è termica e viene utilizzata per riscaldare le case, alimentare i veicoli terrestri, marittimi e aerei, produrre materiali, far funzionare le fabbriche, produrre i nostri alimenti e così via. Non dobbiamo quindi dimenticare i combustibili fossili, che rappresentano l’84% dell’energia mondiale, come l’Europa sta cercando di fare da alcuni anni.

Questo è quanto è stato deciso alla COP28, con grande disappunto degli ecologisti tedeschi. La razionalità ci porta a non dimenticare le fiamme. Questo è stato l’errore della Germania, che dovrebbe rimettersi in sesto al più presto. A partire dal giugno 2024, l’Unione Europea farà meglio a liberarsi da questa tutela energetica tedesca, se vuole ancora giocare un ruolo globale.

ll sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure PayPal.Me/italiaeilmondo  Su PayPal, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)

La Polonia è nel pieno della sua peggiore crisi politica dagli anni ’80, di ANDREW KORYBKO

La Polonia è nel pieno della sua peggiore crisi politica dagli anni ’80

ANDREW KORYBKO
10 GEN 2024

O continuerà a scivolare ulteriormente sotto la tutela tedesca come uno Stato fantoccio de facto, il cui popolo sarà costretto a subire l’imposizione a tutti gli effetti delle politiche liberali-globaliste, oppure riacquisterà la propria sovranità per proteggere il proprio stile di vita storicamente conservatore-nazionalista.

In meno di un mese dal suo ritorno al potere, il primo ministro polacco Donald Tusk ha gettato il suo Paese nella peggiore crisi politica dagli anni Ottanta. L’Istituto di cultura giuridica Ordo Iuris ha concluso in un rapporto dettagliato a fine dicembre che le “riforme” giudiziarie e dei media da lui programmate sono anticostituzionali. In breve, egli vuole subordinare la sovranità polacca alle istituzioni europee controllate dalla Germania, esattamente come il presidente dell’ex partito al potere Jaroslaw Kaczynski aveva ripetutamente messo in guardia l’anno scorso.

Non è un’iperbole nemmeno descrivere la crisi politica causata da queste cosiddette “riforme” come una crisi costituzionale, dal momento che il nuovo presidente del Sejm, Szymon Holownia, ha appena sospeso i lavori per una settimana proprio con questo pretesto, utilizzando l’esatto linguaggio che lui stesso ha usato. Tuttavia, ciò non è dovuto alla silenziosa adesione della Polonia al nuovo patto migratorio dell’UE, che imporrà l’importazione di immigrati clandestini sotto pena di sanzioni pecuniarie, né all’energico sequestro dei media nazionali da parte di Tusk.

Ciò che ha portato tutto a questo punto è stato l’arresto da parte della polizia di due ex ministri all’interno del palazzo presidenziale, che erano stati precedentemente graziati dal Presidente Andrzej Duda per aver presumibilmente intrappolato un sospetto, dopo che la Corte Suprema aveva controverso riaperto il loro caso e li aveva poi condannati. Duda proviene dall’ex partito di governo e rimarrà in carica fino alle elezioni presidenziali previste per la primavera del 2025, a meno che non venga in qualche modo rimosso prima di allora, cosa che non si può escludere.

Tusk ha accusato Duda di aver ostacolato la giustizia dopo aver invitato i due ex ministri al palazzo presidenziale per l’evento a cui hanno partecipato prima di essere arrestati dalla polizia il giorno stesso. Questo scandaloso incidente è stato condannato da Kaczynski e dai suoi compagni di partito, che ne hanno approfittato per promuovere la loro “Protesta dei polacchi liberi” programmata per giovedì fuori dal Sejm. Hanno anche paragonato gli eventi all’epoca della legge marziale degli anni ’80, insinuando che il loro partito sia il nuovo movimento Solidarność.

Se l’opposizione replicherà la politica del suo predecessore di scioperi, proteste e altre forme di resistenza non violenta al governo autoritario, come è loro diritto tentare di fare date le circostanze in cui si trova ora il Paese, allora il paragone potrebbe diventare un fatto compiuto. Con questo non voglio dire che al momento non sia valido, ma solo sottolineare che il dissesto economico su larga scala che ne potrebbe derivare potrebbe portare a un inasprimento della repressione di Tusk fino alla vera e propria legge marziale.

Il futuro della Polonia sarà deciso dall’esito di questa crisi politica. O continuerà a scivolare ulteriormente sotto la tutela tedesca come uno Stato fantoccio de facto, la cui popolazione sarà costretta a subire l’imposizione a tutti gli effetti delle politiche liberali-globaliste, oppure riacquisterà la propria sovranità per proteggere il proprio stile di vita storicamente conservatore-nazionalista. Se la nuova Solidarność perderà, la società polacca sarà radicalmente e irreversibilmente trasformata come risultato della missione ideologica di Tusk.

Egli prevede che la Polonia importi innumerevoli immigrati clandestini (compresi quelli civilmente dissimili che si rifiutano di assimilarsi e integrarsi nella società), che rimuova tutte le restrizioni sull’aborto (possibilmente fino alla nascita) e che faccia dilagare la propaganda LGBT (con tutti i danni associati sulla psiche dei bambini). Il Paese non si riprenderà mai se questo accadrà, poiché Tusk è anche probabilmente favorevole alla proposta di “Schengen militare” che potrebbe portare a una presenza militare tedesca continua in tutta la Polonia.

Se la polizia locale, i membri dell’intelligence e/o le forze armate finiscono per sostenere la nuova Solidarność, allora Tusk può chiedere il sostegno della Germania per epurare questi elementi “politicamente inaffidabili” dallo Stato e svolgere le loro funzioni fino a quando non si troveranno “sostituti adeguati”. La versione di Tusk della legge marziale potrebbe quindi essere persino peggiore di quella del generale Wojciech Jaruzelski, che non ha mai richiesto il sostegno sovietico, e potrebbe preannunciare il Quarto Reich di cui Kaczynski ha parlato nel dicembre 2021.

Il primo ministro slovacco ha un approccio pragmatico al conflitto ucraino

ANDREW KORYBKO
12 GEN 2024

L’importanza del pezzo di Robert Fico è che rappresenta un’altra visione chiaramente articolata e impressionantemente pragmatica del conflitto ucraino da parte di un leader europeo, dopo le analoghe manifestazioni di Orban negli ultimi due anni.

Il Primo Ministro slovacco Robert Fico, tornato in carica dopo un periodo di pausa in seguito alla sua vittoria alle elezioni dello scorso autunno nonostante l’ingerenza americana nei suoi confronti, ha pubblicato un op-ed di impressionante pragmatismo sul conflitto ucraino. Ha esordito condannando “l’odierna demagogia liberale in difesa della strategia assolutamente fallimentare dell’Occidente contro la Russia in Ucraina”, che ha descritto come il perpetuarsi della crisi, le cui radici ha attribuito al maltrattamento della minoranza russa da parte di Kiev e al controllo degli Stati Uniti sul Paese.

Pur condannando l’operazione speciale della Russia e ribadendo di non volerla come vicina, ha anche condannato l’Occidente per non aver promosso un cessate il fuoco poco dopo l’inizio dell’ultima fase di questo conflitto ormai decennale, alludendo al sabotaggio dei colloqui di pace della primavera del 2022. Secondo Fico, “hanno valutato erroneamente l’uso della forza militare russa come un’opportunità per mettere in ginocchio la Russia” attraverso mezzi economici e militari, non avendo imparato nulla dalla storia.

Di conseguenza, “la Russia controlla completamente i territori occupati dal punto di vista militare, e i tentativi di convincere la comunità internazionale con la demagogia della demoralizzazione dei soldati russi e delle enormi perdite umane si stanno rivelando sempre più come velleità demagogiche. L’Ucraina non è in grado di effettuare una significativa controffensiva militare, è diventata completamente dipendente dagli aiuti finanziari dell’Occidente con conseguenze imprevedibili per gli ucraini negli anni a venire”.

Fico ha aggiunto che “la posizione del presidente ucraino è scossa, mentre il presidente russo aumenta e rafforza il suo sostegno politico. Né l’economia né la moneta russa sono crollate, le sanzioni antirusse aumentano l’autosufficienza interna di questo enorme Paese, i giganti energetici russi registrano forniture record a Cina e India”. Allo stesso tempo, ha richiamato l’attenzione su come rispettabili addetti ai lavori ucraini abbiano ammesso un peggioramento della corruzione, che scredita ulteriormente la causa di Kiev.

Data la sequenza di eventi e il conseguente stato di cose che ha descritto finora, Fico prevede che l’Occidente manterrà la rotta continuando a versare armi e denaro in Ucraina, anche se invano, ma comunque perché i suoi leader non possono “ammettere apertamente la scorrettezza della strategia adottata”. Questa arroganza in realtà peggiorerà ulteriormente le cose per l’Ucraina, perché porterà a una posizione negoziale ancora peggiore nel momento in cui l’Occidente deciderà finalmente di congelare il conflitto”.

Il premier slovacco ha concluso il suo intervento auspicando che gli Slavi smettano di combattersi tra di loro, facendo così eco a ciò che il suo alleato ideologico, il primo ministro ungherese Viktor Orban, ha detto lo scorso autunno descrivendo il conflitto come una “guerra fraterna slava” e facendo appello alle sue controparti dell’UE per promuovere la pace e migliorare i legami con la Russia. Il premier slovacco ha promesso di fare la sua parte e si è impegnato a “non essere più soggetto alla stupida demagogia liberale e progressista che offende la giustizia umana di base e che alla fine causerà danni enormi”.

L’importanza del pezzo di Fico è che rappresenta l’ennesima visione chiaramente articolata e impressionantemente pragmatica del conflitto ucraino da parte di un leader europeo, dopo le analoghe manifestazioni di Orban negli ultimi due anni. Con il precedente governo conservatore-nazionalista polacco perseguitato da una feroce campagna di lawfare da parte degli oppositori liberal-globalisti che lo hanno sostituito dopo le elezioni dello scorso autunno, l’Ungheria e la Slovacchia sono ora gli ultimi bastioni di questo paradigma sovrano nel blocco.

È quindi fondamentale che lavorino in tandem per amplificare al massimo i loro punti di vista condivisi, nel tentativo ben intenzionato di attirare il sostegno della base per la ripresa dei colloqui di pace il prima possibile. L’élite dell’Unione Europea, controllata dagli americani, per il momento si oppone, ma il nuovo legame dell’Italia tra gli aiuti all’Ucraina e gli “sforzi per una soluzione negoziata” potrebbe aprire la strada a un cambiamento se altri grandi Paesi seguissero il suo esempio sotto la pressione pubblica di persone ispirate dagli sforzi dei due leader.

Contestualizzare l’affermazione dei media di una possibile complicità polacca negli attacchi a Nord Stream

ANDREW KORYBKO
9 GEN 2024

Quest’ultimo sviluppo narrativo è stato progettato per sviare dalla complicità americana, screditando al contempo l’ex governo polacco e facendo maggiore pressione su Zelensky mentre il conflitto ucraino si sta finalmente concludendo.

Il Wall Street Journal (WSJ) ha riportato martedì la notizia “Nord Stream Probe Hampered by Resistance From Poland”, in cui si citano investigatori europei senza nome che hanno riferito che le loro controparti polacche non erano disposte o incapaci di collaborare, e talvolta condividevano informazioni contraddittorie quando lo facevano. Secondo le fonti del giornale, “gli sforzi dei funzionari polacchi per ostacolare le loro indagini li hanno resi sempre più sospettosi del ruolo e delle motivazioni di Varsavia”.

Il WSJ è stato il primo a riferire l’estate scorsa che la squadra di sabotatori ucraini, che secondo i funzionari occidentali sarebbe responsabile dell’attacco terroristico ecologico del 2022 nel Mar Baltico, aveva attraccato in un porto polacco, ma in questa sede è stato analizzato che si trattava solo di un depistaggio per distogliere l’attenzione dalla complicità statunitense. Il giornalista Seymour Hersh, vincitore del premio Pulitzer, lo scorso febbraio ha citato fonti dell’amministrazione statunitense senza nome per accusare gli Stati Uniti di aver compiuto l’attacco, cosa che la Russia ha accettato ma che Washington ha prevedibilmente negato.

L’ultimo rapporto di quell’outlet sembra essere finalizzato a promuovere lo stesso obiettivo narrativo di quello sopra citato, anche se questa volta implica un maggior grado di fiducia nel fatto che i funzionari polacchi possano aver avuto un ruolo in ciò che è accaduto anche “all’insaputa della leadership politica”. Sperano che il ritorno del primo ministro polacco eurofilo Donald Tusk ispiri i funzionari che avrebbero potuto subire pressioni politiche da parte del precedente governo a collaborare con le indagini.

Il problema, tuttavia, è che “pochi giorni dopo il suo insediamento, Tusk ha licenziato i capi di tutti i servizi di intelligence, compresi quelli coinvolti nell’indagine su Nord Stream”. Questa epurazione dell’ala dell’intelligence della burocrazia permanente del suo Paese è passata in gran parte inosservata dai media occidentali, ma avrebbe certamente fatto notizia se un leader conservatore-sovranista multipolare avesse fatto lo stesso invece di un leader unipolare liberal-globalista come lui. In ogni caso, questo crea maggiori complicazioni investigative.

Tuttavia, gli osservatori non dovrebbero perdere di vista il fatto che il Presidente Putin ha confermato la sua convinzione, alla fine del mese scorso, che “questo è stato fatto, molto probabilmente, dagli americani o da qualcuno su loro ordine”. L’ultimo rapporto del WSJ distoglie l’attenzione dalla complicità di quel Paese, dando credito alla teoria secondo la quale il responsabile sarebbe un gruppo di sabotatori ucraini, e la rafforza insinuando la complicità della Polonia. Quest’ultima svolta narrativa serve a prendere due piccioni con una fava in un momento politicamente conveniente.

In primo luogo, suggerisce che il precedente governo polacco, con il quale Tusk è oggi in feroce polemica per le sue politiche liberal-totalitarie nei confronti dei media e dell’immigrazione clandestina, sia stato quantomeno criminalmente negligente nel non fermare il più grande atto di sabotaggio sul suolo europeo dalla Seconda Guerra Mondiale. Nel peggiore dei casi, è stato presumibilmente complice di questo attacco che, secondo la narrazione occidentale non ufficiale dell’anno scorso, è stato compiuto da ucraini disonesti all’insaputa di Zelensky.

Questo porta al secondo uccello che viene ucciso con la stessa pietra, poiché ricorda al pubblico che potrebbe anche essere stato criminalmente negligente nel non controllare le sue forze o punirle dopo che l’anno scorso sono emersi rapporti che sostenevano che alcuni individui erano coinvolti in qualche modo. Il momento non potrebbe essere peggiore per Zelensky, poiché arriva mentre la narrazione occidentale si sposta decisamente ancora di più contro gli interessi del suo Paese, come documentato qui e ulteriormente spiegato qui a proposito del suo ultimo sproloquio.

La palla è ora nel campo di Tusk, che può scegliere se stare al gioco coinvolgendo i suoi avversari politici e quindi far progredire il suo obiettivo di migliorare i legami con l’UE a guida tedesca, oppure cogliere queste due opportunità per solidarietà con Zelensky, come lui e il ministro degli Esteri rientrante Radek Sikorsky si sono impegnati a fare il mese scorso. La prima opzione farebbe avanzare il vettore interno ed europeo delle politiche della sua amministrazione a scapito di quello ucraino, mentre la seconda farebbe avanzare il secondo a scapito del primo.

Non è ancora chiaro cosa farà Tusk alla fine, ma nessuno dovrebbe dimenticare che quest’ultimo sviluppo è stato progettato per sviare dalla complicità americana, screditando al contempo l’ex governo polacco e facendo maggiore pressione su Zelensky mentre il conflitto ucraino si sta finalmente concludendo. Se collocata nel suo contesto appropriato, la tempistica dell’ultimo rapporto del WSJ ha molto più senso, e si spera che convinca un maggior numero di persone delle ragioni politiche di interesse personale dietro questa teoria occidentale non ufficiale.

L’appello di Tusk ai patrioti perché sostengano l’Ucraina è una distrazione dalla crisi politica della Polonia

ANDREW KORYBKO
14 GEN 2024

Le ultime dichiarazioni del premier di ritorno cercano chiaramente di distrarre dalla peggiore crisi politica del suo Paese dagli anni Ottanta, screditando al contempo il suo predecessore e i veri patrioti polacchi che si sono inaciditi sull’Ucraina negli ultimi mesi. L’insinuazione è che qualsiasi polacco che non sostenga una guerra perenne in Ucraina stia tradendo gli interessi nazionali del proprio Paese, ma la realtà è l’opposto: i patrioti dovrebbero sostenere il congelamento del conflitto il prima possibile.

Il primo ministro polacco Donald Tusk ha appena dichiarato in un’intervista che “ogni patriota polacco deve assolutamente riconoscere” che “non ci possono essere dubbi sulla guerra e sul nostro impegno, e quello di tutto il mondo occidentale, nei confronti dell’Ucraina nel suo confronto con la Russia”. Ha poi affermato che “la situazione in Ucraina e sul fronte è assolutamente la questione numero uno per la sicurezza polacca”. I suoi commenti hanno preceduto un viaggio programmato a Kiev dopo che il conflitto ucraino ha iniziato a concludersi alla fine dello scorso anno.

Il suo appello ai patrioti polacchi a sostenere l’Ucraina è un tentativo di distrazione dalla peggiore crisi politica del Paese dagli anni ’80, provocata dal sequestro dei media nazionali e dall’arresto di due ex ministri con pretesti giuridicamente dubbi. Per saperne di più sul suo golpe liberal-globalista de facto, che prevede anche l’importazione di immigrati clandestini che potrebbero facilmente includere quelli civilmente dissimili che non vogliono assimilarsi e integrarsi, si rimanda alla precedente analisi ipertestuale.

Il contesto più specifico in cui Tusk ha cercato di far leva sul sostegno all’Ucraina riguarda il blocco in corso al confine del Paese da parte di un gruppo di agricoltori e camionisti polacchi, che protestano per l’impatto che le politiche dell’UE a favore di Kiev hanno avuto sui loro mezzi di sostentamento. Anche l’ex premier Mateusz Morawiecki ha ammesso, in un’intervista rilasciata la scorsa settimana ai media britannici, che il conflitto ucraino “non sta andando nella giusta direzione” dopo che la controffensiva di Kiev “non è riuscita” a invertire la rotta.

Sebbene abbia affermato che il lato positivo è che l’Occidente si è unito contro la Russia, il tono generale dei suoi commenti era negativo e implicava l’esaurimento di questo conflitto, in linea con la narrazione emergente dei media mainstream nell’ultimo quarto d’anno. Il tono di Tusk è stato completamente diverso e ha persino affermato che non tollererà il cosiddetto “sentimento anti-ucraino” nella sua amministrazione, a differenza di quello che avrebbe caratterizzato quella di Morawiecki verso la fine.

Nel complesso, le ultime dichiarazioni del premier di ritorno cercano chiaramente di distrarre dalla peggiore crisi politica del suo Paese dagli anni Ottanta, screditando al contempo il suo predecessore e i veri patrioti polacchi che si sono inaciditi sull’Ucraina negli ultimi mesi. L’insinuazione è che qualsiasi polacco che non sostenga una guerra perenne in Ucraina stia tradendo gli interessi nazionali del suo Paese, dopo che egli ha anche affermato che “finché l’Ucraina è in guerra con la Russia, siamo relativamente al sicuro”.

Obiettivamente, la realtà è l’opposto, poiché un conflitto prolungato prosciugherà ulteriormente le risorse economiche e militari polacche, oltre ad aumentare il rischio di “mission creep”, che potrebbe essere accelerato da uno sfondamento russo lungo il fronte o da un altro missile vagante che colpisca la Polonia. Ciononostante, Tusk sta raddoppiando l’impegno sull’Ucraina, nonostante la maggior parte dell’Occidente ne prenda le distanze, e probabilmente lo fa per promuovere gli interessi egemonici tedeschi anziché quelli nazionali polacchi.

L’ex presidente del partito al governo Jaroslaw Kaczynski ha ripetutamente avvertito di essere un “agente tedesco” che è stato rispedito da Bruxelles, dove in precedenza ha ricoperto la carica di presidente del Consiglio europeo, per volere di Berlino al fine di eseguire i suoi ordini in patria. Nel contesto ucraino, il perpetuarsi del conflitto serve a dare un senso di urgenza al piano di un importante funzionario tedesco della NATO per una “Schengen militare” che, in sostanza, comporterebbe il ritorno su larga scala delle truppe di quel Paese in Polonia.

Potrebbero poi aiutare Tusk a mantenere il controllo se dovesse diffidare della polizia locale, dei membri dell’intelligence e/o delle forze armate nel caso in cui queste ultime si unissero al nuovo movimento Solidarność che l’opposizione conservatrice-nazionalista sta cercando di formare in modo non ufficiale. Tenendo conto di ciò, è probabile che la posizione più patriottica che un polacco possa avere al momento sia quella di sostenere i colloqui di pace volti a congelare il conflitto, esattamente come suggerito dall’ex comandante supremo della NATO.

L’ammiraglio James Stavridis ha proposto questa soluzione in un articolo pubblicato su Bloomberg a metà novembre, con il sincero intento di promuovere gli interessi collettivi dell’Occidente, compresi quelli della Polonia. Le ultime osservazioni di Tusk lasciano scandalosamente intendere che l’ex comandante supremo della NATO stia flirtando con le minacce alla “sicurezza polacca”, che può essere salvaguardata solo “finché l’Ucraina sarà in guerra con la Russia”, ma non c’è nulla di vero in quello che sta insinuando su di lui o sui polacchi che condividono la sua soluzione prevista.

È anzi offensivo insinuare qualcosa del genere, così come l’idea che la Polonia possa rimanere “relativamente sicura” solo finché c’è un conflitto armato che infuria in una nazione vicina. L’unica ragione per cui Tusk ricorre a una simile retorica è la disperazione di screditare i suoi avversari e distrarre dalla peggiore crisi politica del suo Paese dagli anni Ottanta, il che dimostra che sta sentendo il caldo dopo la grande protesta della scorsa settimana a Varsavia e che i patrioti dovrebbero quindi intensificare i loro sforzi per proteggere la democrazia polacca.

Lavrov e Karaganov confermano che la Russia non “cancellerà” l’Occidente
ANDREW KORYBKO
11 GENNAIO

LEGGI IN APP

Se la Russia si abbassasse al livello dell’Occidente e dell’Ucraina, cederebbe il primato morale nella Nuova Guerra Fredda solo per far loro un dispetto.

La “cancellazione” da parte dell’Occidente di tutto ciò che è legato alla Russia dall’inizio della sua operazione speciale, quasi due anni fa, è un bigottismo da manuale che promuove l’odio contro le persone sulla base della loro identità. Questa politica implica falsamente che si dia credito alla teoria della cospirazione di Hitler, ormai sfatata, secondo cui l’identità etnico-nazionale e/o religiosa di una persona alla nascita predetermina automaticamente le sue opinioni politiche più avanti nella vita. La Russia, tuttavia, si oppone risolutamente a questo paradigma fascista, ed è per questo che non risponderà in modo gentile.

Sergey Karaganov, l’influente presidente onorario del Consiglio per la politica estera e di difesa della Russia, ha confermato questa posizione in un’intervista rilasciata a Rossiyskaya Gazeta alla fine dello scorso anno, tradotta in inglese e ripubblicata da RT qui. Alla domanda del suo interlocutore se “dovremmo agire al contrario e ‘cancellare’ l’Occidente” a causa della sua “deliberata disumanizzazione dei russi nei media”, ha risposto come segue:

“Assolutamente no. L’Occidente sta chiudendo la cortina di ferro, innanzitutto perché noi in Russia siamo i veri europei. Siamo ancora sani. E loro vogliono escludere queste forze sane… Naturalmente, non cancelleremo nulla, compresa la nostra storia europea.

L’Europa occidentale non sta solo abbandonando la cultura russa, sta abbandonando la propria cultura. Sta cancellando una cultura che è in gran parte basata sull’amore e sui valori cristiani. Sta cancellando la sua storia, distruggendo i suoi monumenti. Tuttavia, non rinnegheremo le nostre radici europee. Sono sempre stato contrario a guardare l’Occidente con un mero schiribizzo. Non si dovrebbe fare così.

Allora saremmo come loro. E loro stanno scivolando verso una marcia inevitabile verso il fascismo. Non abbiamo bisogno di tutti i contagi che sono cresciuti e stanno crescendo nell’Europa occidentale. Compreso, ancora una volta, il crescente contagio del fascismo”.

Alcuni giorni dopo, il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha inveito contro coloro che vogliono “cancellare” l’inglese in Russia, affermando che “non credo che abbiano ragione coloro che dicono: “Beh, stanno mettendo il mondo intero contro di noi, quindi abbandoniamo la lingua inglese”. È una cosa stupida, perché la lingua non c’entra nulla. È come quando il presidente ucraino Vladimir Zelensky ha vietato la lingua russa, l’istruzione russa e i media russi in Ucraina”.

“Putin ha chiarito in modo importante che l’élite occidentale, e non l’Ucraina, sono i veri nemici della Russia” durante l’incontro con i militari in un ospedale militare il giorno di Capodanno. Anche se alcuni ideologi anti-occidentali della comunità Alt-Media non saranno d’accordo con il rifiuto della Russia di “cancellare” l’Occidente e l’Ucraina dopo che questi due paesi l’hanno già “cancellata”, questa è probabilmente la politica più pragmatica. Se la Russia si abbassasse al loro livello, cederebbe il primato morale nella Nuova Guerra Fredda solo per far loro un dispetto.

ll sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure PayPal.Me/italiaeilmondo  Su PayPal, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)

Comprendere l’approccio della Cina alla deterrenza, Di Michael Clarke

Comprendere l’approccio della Cina alla deterrenza
L’approccio cinese alla deterrenza prevede sia l’azione di persuasione che quella di dissuasione e si intreccia con l’idea di “controllo della guerra”.

Di Michael Clarke
09 gennaio 2024
Capire l’approccio della Cina alla dissuasione
Credito: Depositphotos
L’era della “competizione strategica” tra grandi potenze ha visto la deterrenza, sia come concetto che come obiettivo operativo, tornare a occupare un posto di preminenza nella difesa nazionale e nella politica strategica che non si vedeva dalla fine della Guerra Fredda.

Mentre si è prestata molta attenzione ai progressi tecnologici delle forze armate cinesi – che le forze armate statunitensi definiscono apertamente la “sfida del ritmo” – si è prestata relativamente meno attenzione ai concetti e alle strategie che possono animare le capacità dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA). L’ultima valutazione annuale del Pentagono, “Military and Security Developments Involving the People’s Republic of China”, ad esempio, ha osservato che il rapporto del Segretario Generale Xi Jinping al 20° Congresso del Partito Comunista Cinese (PCC) nell’ottobre 2022 ha fissato l’obiettivo per il PLA di “costruire un forte sistema di deterrenza strategica” basato sullo sviluppo sia della “costruzione di forze di deterrenza nucleare tradizionale” sia della “costruzione di forze di deterrenza strategica convenzionale” – ma senza esaminare ulteriormente il modo in cui la Cina concepisce attualmente la deterrenza.

Data l’escalation di esercitazioni militari nello Stretto di Taiwan nell’ultimo anno e il recente intensificarsi degli incidenti nel Mar Cinese Meridionale, è più che mai importante esaminare e comprendere come la Cina concepisca e pratichi forme di coercizione come la deterrenza. Un esame delle fonti cinesi autorevoli e semi-autorevoli sulla strategia e la dottrina del PLA rivela una serie di cose: che la Cina concepisce e pratica la deterrenza in un modo distinto che combina forme di coercizione dissuasive e coercitive; che la deterrenza è esplicitamente inquadrata come uno strumento per il raggiungimento di obiettivi politico-militari; e che la dottrina del PLA prevede un’applicazione sequenziale di posture deterrenti e coercitive attraverso uno spettro di tempo di pace-crisi-guerra.

Il pensiero cinese sulla deterrenza

Le recenti azioni cinesi nello Stretto di Taiwan e nel Mar Cinese Meridionale sottolineano il fatto che la politica internazionale “si svolge in una regione grigia di non pace e non guerra, in cui la minaccia della violenza – più che la sua semplice applicazione – è la variabile critica per la comprensione delle relazioni interstatali e delle crisi”.

Questo “potere di nuocere”, come lo ha definito Thomas Schelling, è al centro delle strategie di coercizione. Questa assume principalmente due forme: la deterrenza e la compellenza. La prima utilizza la minaccia della violenza per impedire a un attore di intraprendere un’azione che altrimenti potrebbe intraprendere in assenza della minaccia, mentre la seconda utilizza la minaccia della violenza per indurre un attore a intraprendere un’azione che preferirebbe non intraprendere. L’oggetto della deterrenza è quindi la dissuasione, ossia una minaccia “volta a impedire a un avversario di fare qualcosa”, mentre quello della compellenza riguarda l’uso di minacce “per far fare qualcosa a un avversario”.

La maggior parte dei teorici occidentali ha posto due ulteriori distinzioni tra deterrenza e compellenza. La prima riguarda il rapporto tra minaccia e uso della forza. La minaccia è solitamente considerata sufficiente per la deterrenza, ma insufficiente per la compellenza, che richiede sia la minaccia che l’uso esemplare della forza per avere successo. Il secondo è la questione di chi abbia l’iniziativa nella pratica di ciascun concetto. La deterrenza, come ha detto memorabilmente Schelling, “consiste nell’allestire la scena – annunciando, preparando il cavo d’inciampo, incorrendo nell’obbligo – e nell’aspettare”, mentre la compellenza “consiste nell’iniziare un’azione che può cessare, o diventare innocua, solo se l’avversario risponde… Per costringere uno prende abbastanza slancio da far agire l’altro per evitare la collisione”.

In sintesi, la deterrenza è una “strategia coercitiva progettata per impedire a un bersaglio di cambiare il suo comportamento”, in cui un deterrente emette minacce dissuasive “perché ritiene che un bersaglio stia per, o finirà per, cambiare il suo comportamento in modi che danneggiano gli interessi del coercitore”. La compellenza, al contrario, è una strategia coercitiva basata sull’imposizione di costi attraverso “minacce o azioni” fino a quando l’obiettivo non cambia il suo comportamento nei modi specificati dal coercitore.

In che modo queste accezioni occidentali di deterrenza e compellenza si rapportano al caso cinese?

In primo luogo, come ha sostenuto Dean Cheng della Heritage Foundation, il termine cinese più spesso tradotto in inglese come deterrenza, 威慑, “incarna sia la dissuasione che la coercizione”. Documenti autorevoli, come i compendi di Scienza della Strategia Militare (SMS) pubblicati ogni due anni dall’Accademia Cinese di Scienze Militari, illustrano questo legame nel pensiero cinese, con l’edizione più recente, del 2020, che afferma che la deterrenza ha due funzioni: “impedire alla controparte di fare ciò che vuole fare attraverso la deterrenza” (cioè la dissuasione) e “usare la deterrenza per costringere la controparte a fare ciò che deve fare” (cioè la compellenza).

La concezione cinese di questo concetto lo inquadra esplicitamente come uno strumento piuttosto che come un obiettivo della politica. L’obiettivo non è “dissuadere l’azione in uno o in un altro ambito, ma garantire l’obiettivo strategico cinese più ampio”, come impedire a Taiwan di dichiarare l’indipendenza o ottenere l’acquiescenza alle rivendicazioni cinesi sul Mar Cinese Meridionale.

Pertanto, la deterrenza non è concepita come un’attività statica, ma ha fasi di applicazione in tempo di pace, di crisi e di guerra. L’SMS del 2013, ad esempio, specifica che in tempo di pace l’obiettivo è quello di impiegare “una postura di deterrenza normalizzata per costringere l’avversario a non osare agire con leggerezza o avventatezza”, basata su “attività militari a bassa intensità”, come lo svolgimento di esercitazioni militari, “l’esibizione di armi avanzate” e l’affermazione diplomatica della “linea di fondo strategica” della Cina. Ciò fa pensare alla nozione di “deterrenza generale”, in cui “armi e avvertimenti sono un contributo all’ampio contesto della politica internazionale”, in cui l’obiettivo principale “è gestire il contesto in modo che per un avversario appaia fondamentalmente poco attraente ricorrere alla forza”.

Tuttavia, l’SMS del 2013 afferma che in situazioni di crisi il PLA adotterà “una postura di deterrenza ad alta intensità, per mostrare una forte determinazione di volontà di combattere e una potente forza effettiva, per costringere un avversario a invertire prontamente la rotta”. Il corrispettivo di questo concetto nella concezione occidentale è probabilmente la “deterrenza immediata”, che riguarda “la relazione tra Stati contrapposti in cui almeno una parte sta seriamente prendendo in considerazione un attacco mentre l’altra sta mettendo in atto una minaccia di ritorsione per impedirlo”.

La distinzione tra queste, come ha notato Lawrence Freedman, riguarda in ultima analisi “il grado di impegno strategico tra chi dissuade e chi è dissuaso”: la dissuasione immediata “implica uno sforzo attivo di dissuasione nel corso di una crisi, quando l’efficacia di qualsiasi minaccia sarà presto rivelata dal comportamento dell’avversario”, mentre la dissuasione generale “è del tutto più rilassata, e richiede semplicemente la trasmissione di un senso di rischio a un potenziale avversario per garantire che le ostilità attive non siano mai seriamente considerate”.

L’approccio cinese si discosta da questo approccio per quanto riguarda il funzionamento della deterrenza nello spazio tra crisi e guerra. Se la guerra dovesse scoppiare, l’obiettivo, si legge negli SMS 2013 e 2020, diventa il “controllo della guerra” (战争控制). Il “controllo della guerra” è stato equiparato a nozioni di gestione o controllo dell’escalation. Un’altra possibilità è suggerita dall’analisi del trattamento di questo termine nei documenti SMS 2013 e SMS 2020. Qui, infatti, il “controllo della guerra” deve essere utilizzato “nell’ambito dell’opportunità tra la guerra totale e la pace totale”. Lo scoppio della guerra è una condizione che rende possibile il controllo della guerra. La prevenzione della guerra non rientra tra i suoi imperativi”. In quanto tale, è un concetto di guerra.

L’SMS del 2013 ha fornito un’istantanea dell’essenza del “controllo della guerra” quando ha osservato che significa “afferrare l’iniziativa della guerra, essere in grado di regolare e controllare gli obiettivi, i mezzi, le scale, i tempi, le opportunità temporali e la portata della guerra, e sforzarsi di ottenere una conclusione favorevole della guerra, a un prezzo relativamente basso”. Scegliendo “i tempi per l’inizio della guerra” e sorprendendo il nemico attaccando “dove è meno preparato”, la Cina può “prendere l’iniziativa sul campo di battaglia, paralizzare il comando di guerra del nemico e dare una scossa alla volontà del nemico” e quindi “ottenere la vittoria ancora prima che inizi il combattimento”.

Il capitolo dell’SMS 2020 sul “controllo della guerra” fornisce ulteriori dettagli, identificando tre fasi necessarie per il suo impiego con successo: il “controllo delle tecniche di guerra” (cioè il controllo deliberato dell’escalation attraverso le capacità della zona grigia, convenzionali e nucleari); il controllo del ritmo, della velocità e dell’intensità del conflitto (cioè la centralità del passaggio dalle operazioni difensive a quelle offensive allo scoppio del conflitto); e la capacità di “porre fine alla guerra in modo proattivo” (cioè un approccio “escalation to de-escalate”).

Ciò suggerisce tre importanti implicazioni.

In primo luogo, l’attenzione al “controllo della guerra” si basa sul comportamento storico della Cina nei conflitti, dove Pechino ha avuto una “forte preferenza per l’escalation rispetto alla de-escalation per porre fine a un conflitto”. Questo approccio “escalation-to-deescalation” “nelle prime fasi del conflitto”, come ha osservato Oriana Skylar Mastro, si ritiene abbia rafforzato la capacità della Cina di prevenire “lo scoppio di una guerra totale” durante la guerra di Corea, la guerra di confine sino-indiana e la guerra sino-vietnamita.

In secondo luogo, la delimitazione del “controllo della guerra” in fasi distinte suggerisce che esso “è inteso a garantire la flessibilità delle opzioni militari in modo che il Partito Comunista Cinese possa realizzare le sue ambizioni politiche e influenzare la politica desiderata senza compromessi” e che gli strateghi cinesi ritengono che l’intensità del combattimento bellico possa essere controllata con precisione.

In terzo luogo, le capacità convenzionali sono ora percepite come strumenti importanti per raggiungere tale controllabilità. L’SMS 2020 ha esplicitamente osservato che “lo sviluppo di armi convenzionali ad alta tecnologia” non solo ha “ridotto il divario” tra la loro “efficacia di combattimento” e quella delle armi nucleari, ma che le capacità convenzionali ad alta tecnologia hanno “una maggiore precisione e una maggiore controllabilità”. In quanto tale, la deterrenza convenzionale “è altamente controllabile e meno rischiosa, e generalmente non porta a disastri devastanti come la guerra nucleare”. È conveniente per raggiungere obiettivi politici e diventa un metodo di deterrenza credibile”.

La pratica cinese del “potere di fare male”

La considerazione di queste implicazioni fornisce una possibile visione del futuro comportamento cinese in scenari di crisi e conflitto. L’evoluzione della strategia cinese nei confronti di Taiwan, in particolare, è coerente con la doppia accezione di deterrenza, che comprende sia la dissuasione che la compellenza negli autorevoli scritti militari cinesi. Ciò si evince dalla duplice natura della strategia cinese, che cerca di dissuadere Washington dall’intervenire nel caso in cui la Cina decidesse di usare la forza attraverso lo Stretto di Taiwan e contemporaneamente di costringere Taipei ad accettare il concetto e il modello di “riunificazione” di Pechino.

Per raggiungere il primo obiettivo (cioè dissuadere Washington), la Cina ha cercato di spostare in modo decisivo l’equilibrio militare tra lei e Taiwan, sviluppando al contempo le capacità per ritardare o negare l’accesso delle forze armate statunitensi all’isola e all’area circostante in caso di conflitto. La capacità della Cina di dissuadere l’intervento degli Stati Uniti si è basata su un significativo investimento La capacità della Cina di dissuadere l’intervento degli Stati Uniti si è basata su investimenti significativi in capacità anti-access/area denial (A2/AD), compreso il dispiegamento di una serie diversificata di missili balistici a corto raggio (SRBM), missili balistici a medio raggio (MRBM) e missili balistici a raggio intermedio (IRBM) – come gli SRBM DF-15 e DF-16, l’MRBM anti-nave DF-21D e l’IRBM DF-26 dispiegati dalle brigate della PLA Rocket Force incaricate di gestire le contingenze di Taiwan.

Significativamente, durante le esercitazioni militari dell’agosto 2022 nello Stretto di Taiwan, i lanci missilistici del PLA hanno probabilmente riguardato la variante DF-15, progettata per “attacchi di precisione, bunker-busting e operazioni anti-pista”. Altri elementi delle esercitazioni del PLA coerenti con un approccio A2/D2 nei confronti delle forze statunitensi sono stati l’inclusione di capacità anti-sommergibile aeree e marittime, come gli aerei da sorveglianza/guerra anti-sommergibile Y-8 e le sortite regolari dei caccia J-11 e J-16 dell’Aeronautica militare del PLA (PLAAF) (aerei che si pensa siano in grado di trasportare il missile aria-aria PL-15, ottimizzato per colpire gli aerei di rifornimento aereo e di controllo dell’allerta precoce attraverso la “linea mediana” dello Stretto di Taiwan). Tali capacità, come ha sostenuto Mark Cozad, analista del RAND, forniscono al PLA “numerose opzioni per mettere a rischio le principali basi statunitensi, gli hub logistici e le strutture di comando e controllo in tutta la regione”.

Il desiderio della Cina di costringere Taiwan è stato messo in mostra anche durante le esercitazioni ed è coerente con la sua strategia a lungo termine nei confronti di Taiwan, che ha cercato di integrare una serie di strumenti diplomatici, economici e militari per impedire a Taipei qualsiasi deviazione dall’interpretazione di Pechino del principio “Una sola Cina”. Le esercitazioni, e quelle successive dell’aprile 2023, suggeriscono che la Cina sta cercando di sfruttare quello che considera il suo crescente vantaggio militare nei confronti di Taiwan per dimostrare le punizioni e i costi che può imporre nel caso in cui Taipei non si muova verso quella che Pechino ritiene essere la “linea di fondo” per le relazioni nello stretto (in altre parole, l’accettazione del suo “principio di una sola Cina”).

Nell’agosto del 2022, ciò si è espresso con l’imposizione da parte di Pechino di una serie di sanzioni economiche e diplomatiche sostenute da esercitazioni militari che hanno colpito direttamente le acque territoriali, la zona economica esclusiva e la zona di identificazione della difesa aerea di Taiwan. Ad esempio, le esercitazioni condotte al largo dell’isola cinese di Pingtan, nel punto più stretto dello Stretto di Taiwan, e nel Canale di Bashi, che separa le acque della Prima Catena Insulare dal Mare delle Filippine e dal più ampio Oceano Pacifico, hanno dimostrato la capacità della Cina di controllare questi punti di strozzatura vitali in una potenziale quarantena o blocco di Taiwan.

Che queste attività siano state concepite per segnalare la capacità della Cina di imporre una simile punizione è stato sottolineato da un analista dell’Accademia di ricerca navale del PLA, il quale ha affermato che le esercitazioni dell’agosto 2022 costituiscono una “postura di accerchiamento chiuso verso l’isola di Taiwan”, in cui il PLA potrebbe imporre “una situazione di chiusura della porta e di attacco dei cani” in caso di conflitto – un colorito giro di parole che implica che il PLA potrebbe efficacemente ritardare e/o negare alle forze statunitensi l’accesso a Taiwan.

Conclusioni

Rimangono tuttavia diverse incertezze sul modo in cui gli elementi di deterrenza e di costrizione dell’approccio cinese potrebbero essere utilizzati in caso di crisi.

In primo luogo, l’SMS 2020 prevedeva l’applicazione sequenziale di strategie deterrenti e compellenti in uno spettro di tempo di pace, crisi e guerra. Possiamo quindi chiederci dove si collochino le esercitazioni dell’agosto 2022 e quelle più recenti dell’aprile 2023 in questo spettro. Il quadro è probabilmente contrastante. Alcuni aspetti di queste esercitazioni erano coerenti con la postura di “deterrenza normalizzata” – basata su “attività militari a bassa intensità” come “l’esibizione di armi avanzate” e l’affermazione diplomatica della “linea di fondo strategica” della Cina – che l’SMS 2020 identificava come appropriata per il tempo di pace. Tuttavia, la portata e l’intensità delle esercitazioni erano suggestive della “postura di deterrenza ad alta intensità” che l’SMS 2020 descriveva come progettata per dimostrare “una forte determinazione della volontà di combattere… per costringere l’avversario a invertire prontamente la rotta”.

In secondo luogo, è probabile che per la Cina la compellenza sia una forma di coercizione difficile da attuare in modo efficace. Ciò sembra particolarmente vero per quanto riguarda il suo tentativo di compellenza nei confronti di Taiwan, poiché l’obiettivo della Cina – la “riunificazione” alle condizioni di Pechino – abroga il motore della diplomazia coercitiva. L’obiettivo della diplomazia coercitiva, come ha sostenuto Tami Davis Biddle, “è quello di costringere lo Stato (o l’attore) bersaglio a scegliere tra il concedere la posta in gioco contesa o il subire il dolore futuro che tale concessione eviterebbe”. Lo Stato costretto “deve essere convinto che se resiste soffrirà, ma se concede non soffrirà”. Tuttavia, se “soffre in entrambi i casi, o se ha già sofferto tutto quello che può, allora non concederà e la coercizione fallirà”. L’attuale comportamento della Cina dimostra ampiamente a Taiwan che soffrirà indipendentemente dal fatto che resista o ceda alla coercizione di Pechino, aumentando così la determinazione di Taiwan a resistere. Ciò solleva la questione di quando, e in quali circostanze, Pechino potrebbe rivalutare l’utilità del suo uso della coercizione.

Infine, il concetto di “controllo della guerra” indica non solo che la Cina crede che la coercizione possa essere calibrata con precisione, ma anche che il suo comportamento in caso di crisi è informato dalla preferenza per un approccio di tipo “escalation-to-deescalation”. Questo comporta due possibili rischi: In primo luogo, che la Cina cerchi di rendere routinarie le sue violazioni dello spazio aereo e delle acque territoriali di Taiwan, stabilendo così un nuovo status quo che rafforzerà la sua capacità di dettare le modalità, l’intensità e la durata della futura coercizione; in secondo luogo, che la convinzione della controllabilità dell’escalation convenzionale aumenti significativamente il rischio di futuri errori di calcolo.

La concezione e la pratica della deterrenza cinese presentano quindi un quadro difficile da decifrare per gli osservatori esterni e da prevedere per il futuro comportamento cinese. Elementi chiave del pensiero cinese sulla deterrenza, come il “controllo della guerra”, suggeriscono che il PLA potrebbe avere una maggiore disponibilità a sondare e mettere alla prova le “linee rosse” avversarie, nel tentativo di prendere l’iniziativa all’inizio di una crisi, in modo da ottenere un vantaggio strategico o operativo che possa essere sfruttato per indurre gli avversari a fare concessioni. Allo stesso tempo, però, gli sforzi di compellenza della Cina potrebbero produrre rendimenti sempre minori, man mano che gli avversari riconoscono che l’imposizione di costi è imminente, indipendentemente dal fatto che accedano o resistano alla coercizione. Gli osservatori esterni possono solo sperare che il riconoscimento di questo fatto possa indurre Pechino a una maggiore cautela.

ll sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure PayPal.Me/italiaeilmondo  Su PayPal, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)

L’UNIONE EUROPEA, COORDINATA DALLA NATO, E’ LO STRUMENTO DEGLI USA NEL CONFLITTO STRATEGICO DELLA FASE MULTICENTRICA _di Luigi Longo

 

L’UNIONE EUROPEA, COORDINATA DALLA NATO, E’ LO STRUMENTO DEGLI USA NEL CONFLITTO STRATEGICO DELLA FASE MULTICENTRICA

di Luigi Longo

[…] l’Europa è diventata una Eurolandia priva di sovranità economica e soprattutto geopolitica e militare. Al suo interno è insediato un corpo di occupazione straniero, denominato NATO, inviato da tempo come mercenariato soldatesco in Asia Centrale, pronto a minacciare ed a rischiare una guerra mondiale in Georgia ed in Ucraina. Se questo è anche in parte vero, allora che senso ha elencare la tiritera del nostro grande profilo europeo, dalla filosofia greca al diritto romano, dalle cattedrali romaniche e gotiche dell’umanesimo rinascimentale, dalla rivoluzione scientifica all’illuminismo, dall’eredità classica greco-romana al cristianesimo, eccetera?

Pura ipocrisia.

Costanzo Preve*

  1. Avanzerò alcune riflessioni sull’Europa, non a partire dalla storia dell’Europa delle

Nazioni, che si formarono dopo la dissoluzione dell’impero di Carlo Magno (1), ma a partire dalla guerra Russia-Ucraina (cioè l’aggressione Usa alla Russia via Nato-Europa), che di fatto sancisce la fine del progetto dell’Unione Europea (avanzato e realizzato dopo la seconda guerra mondiale, anche se pensato intorno agli anni trenta del secolo scorso dagli Stati Uniti d’America) sostituito dal nuovo ruolo della NATO che meglio si addice alle nuove strategie statunitensi nella fase multicentrica [conflitto tra potenza egemone in declino (USA) e potenze consolidate (Russia, Cina) e in ascesa (India)] (2). Una << […] Europa occidentale (anche l’Europa orientale, mia precisazione LL) sottomessa ad una occupazione militare USA accettata dagli attuali governi fantocci, che appunto per questa ragione considero del tutto illegittimi, non importa se sanzionati o meno da elezioni manipolate >> (3).

 

  1. Raniero La Valle coglie il senso della metamorfosi, avviata già da anni (4), della NATO quando sostiene: << Da Washington a Vilnius infatti tutto torna, tutto vale per l’America e per la sua “impareggiabile” Corte: gli stessi nemici, la Russia, la Cina, l’Iran, la Corea del Nord, il “terrorismo”, la stessa vittima che unifica tutti intorno all’altare del sacrificio, l’Ucraina, la stessa determinazione all’uso anche per primi dell’arma nucleare perché la deterrenza non basta più, la stessa idea che il vecchio concetto di difesa è superato, perché oggi con le armi della guerra non si decidono solo le guerre, ma le alternative di ogni tipo, la gestione delle crisi, le politiche industriali, l’economia, il clima, i temi della “sicurezza umana”, perfino la questione dell’uguaglianza di genere e la partecipazione delle donne: tutto ha a che fare con la NATO, il nuovo sovrano, perché il suo approccio è “a 360 gradi” e i suoi tre compiti fondamentali, “deterrenza e difesa, prevenzione e gestione delle crisi e sicurezza cooperativa”, devono essere adempiuti con assoluta discrezionalità: “risponderemo a qualsiasi minaccia alla nostra sicurezza come e quando lo riterremo opportuno, nell’area di nostra scelta, utilizzando strumenti militari e non militari in modo proporzionato, coerente e integrato”; e, come pare, a decidere nell’emergenza (ma questo non è stato scritto) può essere anche il generale comandante della NATO senza interpellare “la struttura”; insomma c’è il nucleare libero all’esercizio. […] L’Ucraina è stata totalmente integrata nella NATO, ma bisogna far finta che non lo sia, per non costringere la Russia a usare l’arma nucleare; Putin accusa il colpo, deve stare al gioco, e si dice “pronto a trattare separatamente le garanzie di sicurezza dell’Ucraina, ma non nel contesto della sua adesione alla NATO”. E a Vilnius si assicura che questo non avverrà, che l’Ucraina entrerà nella NATO solo a guerra finita, ed è la ragione per cui essa, come Biden ha voluto fin dal principio, non deve avere fine; e Zelensky dopo la prima arrabbiatura che gli è valsa l’accusa di “ingratitudine” da parte del ministro della difesa inglese, è passato all’incasso ed ha lietamente manifestato il suo entusiasmo. […] (così il) colonnello dello stato maggiore ucraino e analista militare Oleg Zhdanov: “negli ultimi 16 mesi noi ci siamo integrati nella macchina militare atlantica come mai avremmo neppure sognato prima del 24 febbraio 2022; pur non appartenendo ufficialmente alla NATO ormai il 90 per cento delle nostre procedure militari segue i parametri NATO. ma c’è di più, ormai la metà dei nostri armamenti sono NATO, i circa 40.000 uomini pronti a sfondare le linee russe sono vestiti, armati, trasportati, addestrati dalla NATO; perfino le loro armi personali sono state fornite dagli alleati”, e via enumerando: “i carri armati tedeschi Leopard 2, i gipponi Humvee americani o i corazzati Bradley e Strykes, decine di tipi diversi di blindati trasporto truppe, i cannoni francesi a lunga gittata Caesar o quelli USA M777, i lanciarazzi americani Himars, gli obici semoventi Krab polacchi”, tutto corredato da assistenza, pezzi di ricambio, personale specializzato, con una catena di interscambio e cooperazione nel lungo periodo, anche se “è difficile dire quando l’Ucraina entrerà nella NATO, forse mai” >> (5).

 

  1. La NATO è fondamentale per le strategie mondiali degli Stati Uniti d’America. La sua trasformazione, da strumento di difesa dal cosiddetto comunismo sovietico a quello di aggressione e di penetrazione nelle aree di influenza della Russia e della Cina per impedire il consolidarsi del polo asiatico (ormai in fase di decollo con le sue strutture di funzionamento e di coordinamento come, per esempio, i Brics) in grado di mettere in discussione l’egemonia mondiale statunitense con il suo modello di legame sociale della produzione e riproduzione della vita. Gli USA non accettano un mondo multicentrico, la loro storia di nazione è emblematica e dovrebbe essere di insegnamento; riporto, a tal proposito, quanto già sottolineato in altri scritti: è difficile che gli Stati Uniti rinuncino al dominio mondiale assoluto, ammantato di democrazia, diritti e menzogne varie, considerata la loro storia che dal 4 luglio 1776 (anno della dichiarazione di indipendenza) li ha visti in pace solo 18 anni su 246 anni nei quali si sono gradualmente evoluti: da neo-nazione in lotta per l’indipendenza dalla Gran Bretagna (1775–1783), passando attraverso la monumentale Guerra civile americana (1861–1865) fino a trasformarsi, dopo aver collaborato al trionfo durante la Seconda Guerra Mondiale (1941-1945), nella più grande potenza al mondo dalla fine del XX secolo ad oggi, anche se, per nostra fortuna, in chiaro declino relativo. Alain Badiou non molto tempo fa sosteneva che:<< La potenza imperiale americana nella rappresentazione formale che fa di se stessa, ha la guerra come forma privilegiata, se non addirittura unica, di attestazione della sua esistenza. >> (6). La loro passione è comandare, usurpare, sottomettere ogni popolo; la loro missione è il dominio assoluto. Gli USA hanno un peso specifico maggiore che è quello del mandato divino che li porta a dominare il mondo in maniera assoluta (monocentrismo), al contrario delle altre potenze che sono per un dominio condiviso del mondo (multicentrismo). Il fattore determinante di questo sciagurato scenario sono le relazioni di potere e di dominio, le più stupide che l’essere umano sessuato si sia mai date. Altro è l’autorità! (ma questo è un altro discorso da approfondire).

Siamo, in questa fase multicentrica, in piena guerra “in senso largo” (7). Per esempio, si veda il ruolo della Norvegia/Finlandia/Svezia/Danimarca, Paesi del Nord Europa facenti parte sia della UE (ad eccezione della Norvegia) sia della NATO (ad eccezione della Svezia), che hanno firmato accordi bilaterali, in materia di difesa, con gli Stati Uniti d’America in caso di conflitto con la Russia (8).

Alberto Bradanini (ex ambasciatore a Pechino dal 2013 al 2015) così chiarisce << […] poiché qualsiasi conflitto anche lontano genera insidiose turbolenze, la dirigenza cinese condivide nella sostanza il giudizio di Mosca: che la genesi del conflitto vada attribuita alla strategia americana di destrutturare la Russia con una guerra per procura (combattuta dagli ucraini con armi e finanziamenti Nato-Usa), provocarne un cambiamento di regime e se possibile causarne persino la frantumazione, rendendola facile preda degli avvoltoi di Wall Street […] Nel giudizio di Pechino […] gli Usa mirano poi a impedire la saldatura Russia-Cina e a provocare un’analoga guerra per procura anticinese, questa volta combattuta fino all’ultimo taiwanese”. A suo avviso, gli Usa non accettano l’emergere di un mondo multipolare che fiorisce intorno all’alleanza russo-cinese, cui si aggiungerebbero “l’India e altre nazioni cosiddette emergenti che, infatti, non intendono seguire Washington nella politica sanzionatoria contro Mosca […] L’espansionismo Nato/Washington verso Est ha dunque l’obiettivo strategico di impedire quel percorso di pacificazione/integrazione euroasiatica che era emerso quale promessa di pace e sviluppo alla caduta dell’Unione Sovietica”. Una svolta che aveva determinato una nuova convergenza tra Cina e Russia, non più accomunate dall’ideologia anticapitalista come ai tempi di Mao e Stalin, ma da comuni interessi economici e strategici, e dalla medesima necessità di contenere l’espansionismo americano [corsivo mio, LL] >> (9). In sintesi, per dirla con l’economista marxiano Richard D. Wolff, che racchiude bene quanto sopra riportato, si può dire che:<< […] l’impero americano, inteso come primato capitalistico e geopolitico, è finito. Ma l’America non vuole accertarlo […] La Cina ha invece creato un ecosistema produttivo mastodontico da cui il mondo non può prescindere e pertanto codetermina ormai le sorti del capitalismo. In modo consensuale prima e conflittuale ora, ma mai subordinato […] il capitalismo si è “sinizzato” (così come in Russia si è russizzato, mia specificazione, LL) in modi che l’America non riteneva possibile, stante il perdurare della crasi tra economia di mercato e Partito comunista >> (10). Le difficoltà statunitensi, che evidenziano sia il declino sia l’incapacità strategica di raggiungere gli obiettivi nel tempo e nello spazio, sono evidenti nei due conflitti aperti in Ucraina (via Nato-Europa) prevalentemente contro la Russia e in Palestina (via Nato-Europa-Israele) prevalentemente contro la Cina. La debolezza USA si evince anche nel gioco di rimessa (perché non hanno un’idea sul nuovo mondo che si sta configurando, impegnati come sono nella quarta rivoluzione industriale, quella del transumanesimo, cioè la fine della dimensione umana dell’umanità, una rivoluzione nichilista del genere umano sessuato) tentando di contrastare i progetti di respiro mondiale della Cina (le vie della seta) e della Russia (il corridoio Nord-Sud russo-indiano International North-South Transport Corridor, INSTC) avanzando il suo progetto IMEC (India-Middle East-Europe Economic Corridor): 1) guidando l’egemonia israeliana nel Nuovo Medio Oriente, come potenza regionale, con il suo progetto del canale di Gurion, concorrente del canale di Suez, con tutte le conseguenze nefaste sulla eliminazione della popolazione palestinese di Gaza per permettere lo sbocco nel Mediterraneo, 2) ridimensionando l’Egitto, 3) assestando un duro colpo alla direttrice di trasporto energetico e commerciale Bassora-Europa incentrata sulla Turchia. Dietro le infrastrutture e il controllo delle risorse energetiche si gioca una partita fondamentale nello scontro tra le potenze mondiali (USA, Cina, Russia e indirettamente la potenza in ascesa l’India) con le loro sub-potenze regionali (Israele, Iran, Turchia) (11).

 

  1. La Russia e la Cina, che sono i due centri (per ora) del costituendo polo asiatico, vogliono costruire un mondo multicentrico e sono in grado di mettere in discussione l’egemonia mondiale statunitense la quale è per un mondo monocentrico. Un polo asiatico che già nel 1956 lo storico Arnold Toynbee così configurava << Se, dopo aver così perduto l’amicizia del sottocontinente cinese, il nostro mondo occidentale dovesse perdere anche l’amicizia del sottocontinente indiano, l’Occidente avrebbe perduto a favore della Russia la maggior parte del Continente Antico tranne un paio di teste di ponte in Europa occidentale e in Africa; e questo potrebbe essere un evento decisivo nella lotta per il potere fra “mondo libero” e comunismo >> (una riflessione attuale nella sostanza se precisiamo i concetti di mondo libero e di comunismo e li rapportiamo allo storicamente dato) (12).

Costanzo Preve ha ragione quando sostiene che << […] Si tratta di una decisione (la decisione di resistere all’americanismo, mia precisazione LL) nutrita dalla consapevolezza della principale caratteristica dell’americanismo stesso, cioè della sua arroganza. […] Non si tratta solo della pura forza militare di tipo “imperiale” (Alessandro il Grande, Giulio Cesare, Gengis Khan, Napoleone). Si tratta di qualcosa di più profondo e di immensamente più abbietto, l’arroganza di essere il portatore di una civiltà superiore garantita addirittura da un mandato divino che legittima con la sua elezione inverificabile questa pretesa di superiorità. Oggi il solo portatore al mondo di questa intollerabile arroganza sono gli Stati Uniti d’America. Lo sono forse […] stati in passato l’Europa, la Russia, i mongoli, gli arabi, la Cina eccetera, ma è sicuro che nelle attuali condizioni geopolitiche non lo sono più. Questo è il dato da cui partire. >>. Un mandato divino di un Dio un po’ strano << […] il Dio di George Bush e del messianesimo ideocratico americano dei neo-conservatori (neocons) […] il Dio esclusivo e legato di fatto ad un singolo popolo eletto (un tempo gli ebrei, oggi gli americani del Destino Manifesto e della Casa sulla Collina, il popolo che lo svergognato bestemmiatore Bill Clinton ha spudoratamente definito nel suo discorso d’insediamento alla Casa Bianca “l’unico popolo indispensabile nel mondo”), il Dio in nome del quale si gettano le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki e si invade l’Irak nel 2003, il Dio in nome del quale si moltiplicano le basi militari in tutti i paesi del mondo, pianificando ossessivamente la prossima guerra con la convivenza di un’Europa asservita e terrorizzata […] >> (13).

 

  1. E’ così forte la totale servitù volontaria delle Nazioni europee (e della sua sovrastruttura rappresentata dall’Unione europea) verso le strategie statunitensi che sulle guerre Russia-Ucraina e Israele-Palestina si è verificata una omogeneità così compatta nel velare la realtà. Bisogna risalire alla storia di Catilina di cui ci è giunta una sola verità: rare volte una tradizione così abbondante è stata così compatta nell’offuscare la realtà (14). L’aggredita Ucraina si trasforma in vittima dopo aver represso le regioni delle repubbliche popolari separatiste del Donetsk e Lugansk, una repressione iniziata nel 2014 contro le regioni di lingua russa (Odessa, Dnepropetrovsk, Kharkov, Luhansk e Donetsk) che condusse ad una militarizzazione del contesto e ad alcuni massacri (a Odessa e Mariupol, i più importanti) e dopo essere stata lo strumento USA, tramite l’entrata di fatto nella NATO, della guerra alla Russia; così come l’aggredito Israele da parte di Hamas si trasforma in vittima dopo che dal 1948 (proclamazione della nascita dello Stato di Israele) ha occupato la Palestina cacciando con violenza e metodi inenarrabili i palestinesi (originariamente costituiti da arabi musulmani, arabi cristiani, ebrei e minoranze turche ed armene) (15). La menzogna sistematica che si fa verità dei dominanti! (16). E’ efficace l’osservazione di Luciano Canfora, a proposito del modello europeo pieno di democrazia, di libertà e diritti universali dei popoli con riferimento alla cosiddetta invasione russa all’Ucraina (e al piano di attacco di Hamas ad Israele), che ricorda la ferocia delle potenze europee nel perseguire il dominio del mondo: << Certo, se si pensa con quale determinazione gli europei perseguirono il dominio nel mondo, è piuttosto buffo che ora si mostrino come modello di virtù e facciano la predica agli altri. Una certa retorica europeista rassomiglia alla preghiera contrita di chi ne ha fatte di tutti i colori e improvvisamente diventa pio e virtuoso >> (17).

Si passa, cioè, da una fase storica monocentrica, a coordinamento occidentale USA fino al 1990-1991(implosione dell’ex URSS) e a coordinamento mondiale fino al 2011(ascesa delle potenze Russia e Cina), nella quale l’Europa ha avuto un ruolo da protagonista subordinato e incastrato nel sistema statunitense (americanizzazione del territorio europeo) e nelle sue strategie di dominio mondiale; ad una fase multicentrica dove l’Europa, governata e gestita dalla nuova NATO, diviene una espressione geografica di metternichiana memoria, nonchè campo di battaglia dello scontro tra potenze mondiali.

 

  1. L’Unione europea non esiste! Ciò che appare sono istituzioni (luoghi istituzionali) gestite da sub-decisori delle diverse nazioni che utilizzano le risorse delle diverse sfere sociali e realizzano le strategie di sviluppo (in alleanza o in conflitto tra loro) inserite in quelle statunitensi. Un esempio sono le sanzioni contro la Russia che hanno avuto un effetto negativo sull’Europa (l’aumento dei prezzi delle materie prime energetiche soprattutto per le imprese energivore e gasivore, la riduzione delle relazioni economiche, la recessione e l’accentuata perdita di potere d’acquisto, la sicurezza nelle nuove infrastrutture energetiche, eccetera); hanno portato vantaggi agli USA (il contenimento del calo della domanda di dollari per il commercio internazionale, la vendita del gas a prezzi multipli di quelli russi, l’attrazione delle imprese europee, eccetera); hanno stimolato l’economia russa aggirando le sanzioni: costruendo nuove relazioni in Asia (Cina, India, Iran), promuovendo lo sviluppo autosufficiente (nei settori alimentare, manifatturiero, beni di consumo, eccetera). Un altro esempio è il disastro dell’economia europea << […] il 2024 sarà un disastro per l’economia reale europea. Gli indicatori economici previsionali manifatturieri, i PMI, sono praticamente tutti negativi per i paesi Europei […] Quindi le premesse congiunturali sono pessime, ma c’è di peggio: le nuove norme europee di bilancio, quelle su cui è stato raggiunto un accordo, prevedono vincoli fortissimi allo spiegamento di politiche espansive fiscali. Il fatto che il deficit non possa superare l’uno per cento del PIL per quasi tutti i paesi europei viene a rendere impossibile qualsiasi politica di carattere anticiclico, anzi verrà a imporre tagli e aumenti delle tasse che saranno pro-ciclici. Quindi la crisi congiunturale non solo non sarà contrastata dalle politiche economiche della UE, ma perfino sarà accentuata. La crisi del 2011-2014 non ha insegnato proprio nulla […] >> (18).

L’Europa come soggetto politico unitario non è mai esistita. Sottolineo, con Luciano Canfora, che << l’Europa occidentale si divide molto presto e resta divisa: l’idea che sia un continente unitario è un’invenzione. Nel corso dei secoli la vediamo dilaniata, attraversata da conflitti di potenza, alle prese con una autorità spirituale, quella del pontefice romano, che era anche temporale e interloquiva con i governi dei singoli Stati. Ciò ha favorito una dialettica più vivace, ma anche una frantumazione strutturale, foriera di problemi >> (19).

Le potenze europee si sono sempre scontrate per l’egemonia del continente Europa: si pensi, a mò di esempio, al tentativo fallito di Napoleone Bonaparte che con rammarico affermava che << Non avevo finita la mia opera. L’Europa sarebbe diventata di fatto un popolo solo; viaggiando ognuno si sarebbe sentito nella patria comune…Tale unione dovrà venire un giorno o l’altro per forza di eventi…Abbiamo bisogno di una legge europea, di una Corte di cassazione europea, di un sistema monetario unico, di pesi e misure uguali, abbiamo bisogno delle stesse leggi per tutta l’Europa. Avrei voluto dare di tutti i popoli europei un unico popolo…Ecco l’unica soluzione >> (20). Non si può scambiare l’Europa delle diverse nazioni in concorrenza-conflitto tra loro (che pure hanno avuto un ruolo di scambio sulla religione, sull’arte, sulla cultura, sulla natura, sulla scienza, eccetera, così come è oggi) con un soggetto politico coordinato! Si pensi, a mò di esempio, al Rinascimento italiano ed europeo che, per dirla con Fernand Braudel, << […] è quella lenta trasformazione, che non finisce di compiersi, attraverso la quale la civiltà occidentale passa dalle forme tradizionali del Medioevo alle forme nuove, già attuali, della prima modernità, ancora vitali in questa stessa civiltà occidentale in cui viviamo oggi, che appena uscita dalle sue antiche contraddizioni, ne fabbrica allegramente delle altre. >> (21).

L’ipocrisia dell’Europa come soggetto politico e unitario. Non è da condividere la riflessione dello storico Paul Kennedy quando afferma che «Beh, l’Europa di certo non sparisce. Avrà anche in futuro un ruolo politico centrale. Se nel 2030 avremo un’Unione Europea che comprenderà anche l’Ucraina, assisteremo a una trasformazione storica delle dinamiche politiche internazionali. Anche tutta l’area del Caucaso sarà attratta verso la Ue. Con un conseguente maggiore isolamento della Russia» (22). Per avere un ruolo politico centrale l’Europa dovrebbe essere autonoma, indipendente, sovrana, in grado di pensare e di realizzare una strategia progettuale per un modello di sviluppo e di relazioni sociali in una società europea dei popoli, con un ruolo centrale nello scambio culturale, politico, economico e sociale tra Occidente ed Oriente nel rispetto delle diverse storie territoriali. Ma l’Europa è serva delle strategie di potenza degli USA per il dominio monocentrico mondiale. Quindi occorre ripensarla con lo sguardo ad Oriente dove sono presenti potenze consolidate, come la Cina e la Russia, e potenze in ascesa, come l’India, che sono per un mondo multicentrico (23) e possono essere portatrici di un modello di sviluppo sociale diverso, sia pure in una logica sistemica capitalistica (i diversi capitalismi), capaci ancora di stare negli equilibri naturali e umani per le loro storie, culture, tradizioni, religioni, eccetera, al contrario dell’Occidente, a guida USA che è proiettato nel transumano (andare oltre l’umano) che significa la fine dell’umanità così come la conosciamo noi:<< Trasumanar significar per verba non si porìa […] il passare ad una condizione, o modo di essere, superiore a quella normalmente propria dell’uomo che non si può esprimere […] per mezzo di parole >> (24).

Il modo di produzione e riproduzione della vita statunitense, espressione di un modello di sviluppo egemonico, ma in fase di declino per l’avanzare del multicentrismo con altri modelli di sviluppo che propongono le altre potenze mondiali (si pensi al modello cinese delle vie della seta), ha penetrato e plasmato quello europeo. L’Europa è diventata uno strumento importante (una sorta di testa di ariete) per le proiezioni strategiche contro l’Oriente e le sue potenze. Di fatto l’Europa non c’è più, quella che appare è espressione di servitù volontaria dei sub-decisori che non vogliono perdere il loro potere derivato dalla fase gestionale e da quella esecutiva delle strategie dei pre-dominanti statunitensi nei rispettivi territori nazionali. I sub-decisori decidono le linee strategiche dello sviluppo dei rispettivi territori nazionali inglobate in quella egemonica degli Stati Uniti d’America. L’americanizzazione del territorio europeo (di cui conosciamo poco) è emblematica dei processi di penetrazione del modello di sviluppo egemonico degli USA. Tale modello incide profondamente e incorpora lo sviluppo delle nazioni europee nelle strategie di egemonia mondiale statunitense. Si pensi alle trasformazioni delle città e dei territori/NATO e all’approntamento delle infrastrutture territoriali (Tav, corridoi di mobilità, basi, logistica, porti, eccetera). Nella fase multicentrica l’Unione europea non serve come collante e aggregato per le strategie statunitensi così come è stato nella fase monocentrica del mondo Occidentale (e bipolare a livello mondiale), perché è stata sostituita dal progetto NATO. Non è un caso che l’Europa, come innanzi detto, non è stata mai autonoma e sempre subordinata agli Stati Uniti d’America a partire dalla seconda guerra mondiale.

  1. Riporto una buona sintesi di quanto sopra detto sull’Europa non sovrana, di Giorgio Agamben << […] Unione Europea concepita solo su ragioni economiche che ignorano non solo quelle spirituali e culturali, ma anche quelle politiche e giuridiche […] l’Unione Europea è tecnicamente un trattato fra Stati che viene fatta passare per una costituzione democratica […] La cosiddetta Costituzione europea è illegittima […] Il giurista tedesco Dieter Grimm ha ricordato che la costituzione europea manca il fondamentale elemento democratico, perché essa non è in alcun modo il frutto dell’autodeterminazione dei cittadini europei […] La sola parvenza di unità si raggiunge quando l’Europa agisce come vassallo degli Stati Uniti, partecipando a guerre che non corrispondono in alcun modo a interessi comuni e ancor meno alla volontà popolare. Del resto alcuni degli Stati firmatari del trattato, come l’Italia, per il numero di basi militari che ospitano, sono tecnicamente dei protettorati e non degli Stati sovrani. In politica estera, esiste, a volte, un occidente atlantico, ma non certo l’Europa. Come non esiste sul piano costituzionale, l’Europa non esiste sul piano politico e militare […] Il Medio Evo aveva capito, una unità formata da società politiche dev’essere qualcosa di più o di diverso di una società politica. Il Medio Evo ne cercava il criterio nella cristianità. L’uomo europeo-a differenza degli asiatici e degli americani, per i quali la storia e il passato hanno un significato completamente diverso-può accedere alla sua verità solo attraverso un confronto col suo passato, solo facendo i conti con la propria storia. Il passato non è, cioè, per lui soltanto un patrimonio di beni e di tradizioni, ma anche e innanzitutto una componente antropologica essenziale, che fa sì che egli possa accedere al presente solo archeologicamente, solo guardando a ciò che di volta in volta è stato. Questo significa che per gli Europei il passato è innanzitutto una forma di vita. Di qui il rapporto speciale che l’Europa ha con le sue città, con le sue opere d’arte, col suo passaggio: non si tratta di conservare dei beni più o meno preziosi, ma comunque esteriori e disponibili: in questione è la realtà stessa dell’Europa, la sua indisponibile sopravvivenza […] Distruggendo, ieri, le città tedesche, gli americani sapevano di demolire in qualche modo l’identità stessa della Germania; per questo, oggi, distruggendo col cemento, le autostrade e l’Alta Velocità il paesaggio italiano, gli speculatori non ci privano soltanto di un bene, ma distruggono la nostra stessa realtà storica […] Un tempo l’ideale comune di una Europa fu espresso politicamente nell’idea romana dell’impero e poi germanica di un Impero, che lasciava intatte le specificità dei popoli […] Mentre sarebbe urgente riflettere al difficile compito di costruire una unità preservando le diversità, vediamo al contrario che in tutti i paesi europei è in corso al contrario un vero e proprio smantellamento delle scuole e delle Università, cioè delle istituzioni che, trasmettendo la cultura dovrebbero vegliare al rapporto vivente fra il passato e il presente. A questo smantellamento, corrisponde una crescente museificazione del passato, a cominciare dalle stesse città, trasformate in centri storici, i cui abitanti sono trasformati in qualche modo in turisti nella propria stessa cultura […] Un alto funzionario dell’Europa nascente, Alexandre Kojevè, sosteneva che l’Homo sapiens era giunto alla fine della sua storia e non aveva ormai davanti a sé che due possibilità: l’accesso a un’animalità post storica (incarnata dall’american way of life) o lo snobismo (incarnato dai giapponesi, che continuano a celebrare le loro cerimonie del tè, svuotate, però, da ogni significato storico). Tra un’America integralmente rianimalizzata e un Giappone che si mantiene umano solo a patto di rinunciare a ogni contenuto storico, l’Europa potrebbe offrire l’alternativa di una cultura che resta umana e vitale, perché è capace di confrontarsi con la sua stessa storia nella sua totalità e di attingere da questo confronto una nuova vita >> (25).
  2. L’accentramento del potere nella fase multicentrica è funzionale a ridurre la filiera del comando che diventa essenziale nelle fasi (multicentriche e policentriche) di aperto conflitto tra le potenze mondiali. Per esempio, si veda il tentativo di riforma, a partire dal 2015, dell’Unione europea per quanto riguarda l’allargamento e l’approfondimento dei settori di intervento verso la costituzione degli Stati Uniti d’Europa (26). Si vuole riformare l’Unione europea per renderla più affidabile e servile eliminando i vassalli e i valvassori che facevano da collante e da coordinamento nella esecuzione e nella gestione delle strategie statunitensi contro le potenze che mettono in discussione il loro ordine mondiale monocentrico (Mario Draghi è uno dei protagonisti, per conto dei pre-dominanti statunitensi, di questa riforma verso la costruzione degli Stati Uniti d’Europa) (27). E’ emblematico che uno dei settori interessati maggiormente dalla riforma sia quello militare. Un settore che deve essere assorbito e coordinato da quello statunitense e da quello della NATO e deve svolgere un ruolo di minaccia, di intimidazioni e di potenziale conflitto contro la Russia e la Cina (e le loro aree di influenza) per indebolirle e ridimensionarle (28).

L’Europa ha la necessità di essere ri-pensata e ri-costruita, a partire da un processo di liberazione dalla servitù volontaria (29) verso gli Stati Uniti, che passa dalla smilitarizzazione delle basi USA e USA-NATO sul suo territorio (l’occupazione militare, tramite basi e accordi, è la forza che ha permesso alla potenza statunitense di coordinare lo sviluppo a livello mondiale fino al 2011, fine della fase monocentrica) e dall’uscita dal sistema euro incardinato nell’egemone sistema del dollaro (in fase di messa in discussione da altri sistemi monetari che esprimono altri modelli di sviluppo e di relazioni sociali, da capire e approfondire).

Occorre ripartire dalla cesura rappresentata dalla de-americanizzazione del territorio europeo (così come, con la dottrina Monroe (30), gli Stati Uniti d’America imposero, la de-europeizzazione del continente America); è necessario, per dirla con Costanzo Preve, “un radicale riorientamento gestaltico” che faccia uscire l’Europa dalla servitù volontaria statunitense e pensare ad un’altra Europa di nazioni autodeterminate e libere. Una rottura forte e qualitativa che può essere realizzata volgendo lo sguardo ad Est, al costruendo polo asiatico allargato che racchiude il 70% della popolazione mondiale,

ben sapendo che << […] Nella realtà sociale le espressioni sì e no sono inscindibilmente connesse fra loro in un rapporto dialettico. Nella realtà sociale non esiste alcun no che non contenga qualcosa di essenzialmente positivo. >> (31).

Un ripensamento e una ricostruzione che ponga le basi per una Europa autodeterminata che guardi ad Oriente dove le potenze mondiali in ascesa avanzano proposte di multicentrismo per un nuovo equilibrio (un nuovo nomos) di dominio mondiale (32).

 

  1. Che fare? Ci sono le condizioni soggettive e oggettive per pensare, progettare e costruire un’altra Europa e non continuare nella pura ipocrisia?

 

 

 

La citazione scelta come epigrafe è tratta da:

*Costanzo Preve e Luigi Tedeschi, Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale, Casa Editrice “il Prato”, Saonara (Padova), 2016, pag.86.

 

NOTE

 

  1. Alessandro Barbero, Carlo Magno. Un padre dell’Europa, Editori Laterza, Roma-Bari, 2002, Capitolo V, pp. 113-127; sul complesso cammino della costruzione delle nazioni europee si rimanda a Andrea Zannini, Storia minima d’Europa. Dal neolitico a oggi, il Mulino, Bologna, 2019, pp. 223-237; sull’importanza della riconquista della sovranità delle nazioni per costruire un’altra Europa libera e autodeterminata come un nuovo spazio di raccordo e di scambio politico, economico e culturale tra Occidente e Oriente si vedano Costanzo Preve e Luigi Tedeschi, Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale, Casa Editrice “il Prato”, Saonara (Padova), 2016; Perry Anderson ed altri, a cura di, Storia d’Europa, Einaudi, Torino, 1993, volume primo.

2.Sul ruolo dell’Europa nelle strategie statunitensi si rimanda a Henry Kissinger, Ordine mondiale, Mondadori, Milano, 2015, pp.87-96 e pp. 234-326; Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera, Longanesi, Milano, 1998; sul ruolo dei servizi segreti nella costruzione del progetto dell’Europa unita sia per scalzare l’influenza comunista sia per inglobare l’Europa nelle strategie di dominio statunitense si veda Richard J. Aldrich, OSS, CIA e Unità europea: il comitato americano per l’Europa unita, 1948-60 (prima, seconda, terza parte), www.comedonchisciotte.org, 24/8/2020; sulla costruzione delle istituzioni europee e sul loro funzionamento si legga Perry Anderson, Verso una Unione sempre più stretta? (prima, seconda, terza parte), www.comedonchisciotte.org, 2/1/2021; sulla fine del progetto europeo statunitense rimando al mio scritto Il progetto dell’Unione europea è finito, la Nato è lo strumento degli USA nel conflitto strategico della fase multicentrica, www.italiaeilmondo.com, 26/11/2018.

  1. Costanzo Preve, Ripensare Marx oltre la destra e la sinistra, intervista a cura di Luigi Tedeschi, www.ariannaeditrice.it, 31/5/2007; Costanzo Preve, Filosofia e geopolitica, Edizione all’insegna del Veltro, Parma, 2005.
  2. Sulla metamorfosi della Nato rinvio a Luigi Longo, L’americanizzazione del territorio (Appunti per una riflessione), www.conflittiestrategie, 29/3/2014 e www.italiaeilmondo.com, 27/5/2017; Idem, Il progetto dell’Unione europea, op. cit.; Idem, La Nato è lo strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica, www.italiaeilmondo.com, 7/7/2022.
  3. Raniero La Valle, A Vilnius la Nato si è preso il mondo, www.ilfattoquotidiano.it, 25/7/2023.
  4. Redazione, La storia militare degli Stati Uniti sembra un gioco ma non lo è, www.infodata.ilsole24ore.com, 20/2/2020; Giovanni Viansino, Impero romano, impero americano. Ideologie e prassi, Edizioni Punto Rosso, Milano, 2005.
  5. Sulla definizione della guerra in senso stretto (prima (1914-1918) e seconda guerra mondiale (1939-1945) ed in senso largo per la terza (1945-1989) e per la quarta tutt’ora in corso si rimanda a Costanzo Preve, La quarta guerra mondiale, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2008.
  6. Redazione Ansa, Paesi nordici verso difesa aerea congiunta dalla Russia, www.ansa.it, 25/3/2023; Filippo Jacopo Carpani, Truppe al confine con la Russia: cosa c’è dietro la mossa USA in Finlandia, www.ilgiornale.it, 15/12/2023; Maurizio Blondet, Il ministro della Difesa tedesco: “l’Europa deve essere pronta alla guerra entro la fine del decennio”, www.maurizioblondet.it, 18/12/2023.
  7. Alberto Bradanini, Gli Usa temono un asse Russia-Cina e un mondo multipolare, intervista a cura di Luciana Borsatti, www.sinistrainrete.info, 11/5/2022.
  8. 10. Fabrizio Maronta, a cura di, conversazione con Richard D. Wolff, L’impero americano è finito ma l’America non lo accetta, “Limes” n.4/2023, pp.104-106.
  9. Maurizio Brignoli, Le cause economiche dietro il massacro di Gaza, www.ariannaeditric.it 18/11/2023; Enrico Tomaselli, La catabasi imperiale, www.ariannaeditrice.it, 24/12/2023; Pepe Escobar, Lo Yemen è pronto ad affrontare una nuova coalizione imperiale, www.comedonchisciotte.org, 23/12/2023; Jean Valyean, L’operazione “prosperity guardian” voluta dal Pentagono sta crollando dopo neppure una settimana, www.scenarieconomici.it, 24/12/2023; Marco Dell’Aguzzo, Chi (non) fa parte della coalizione Usa anti Houthi nel mar Rosso?, www.startmag.it , 30/12/2023; Manlio Dinucci, Medioriente: gli incendiari gridano “Al fuoco”, www.voltairenet.org, 31/12/2023; Enrico Tomaselli, Chi vuole allargare la guerra in Medio Oriente (e perché), www.ariannaeditrice.it , 4/1/2024.
  10. Arnold Toynbee, Il mondo e l’Occidente, Aldo Martello editore, Milano, 1956, pag.54.
  11. Costanzo Preve, Filosofia e geopolitica, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2005, pp. 38-39 e Costanzo Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia, editrice Petite Plaisance, Pistoia, 2013, pag.53.
  12. Si veda Luciano Canfora, Catilina. Una rivoluzione mancata, Laterza, Bari-Roma, 2023.
  13. Giancarlo Paciello, La conquista della Palestina, Editrice C.R.T., Pistoia, 2004; Domenico Moro, Il seme della violenza. Le origini del conflitto israelo-palestinese, www.sinistrainrete.info, 19/10/2023 e 9/11/2023, prima e seconda parte; Salvatore Bravo, La cesoia corazzata, www.comunismoecomunità.org, 20/11/2023.
  14. Costanzo Preve, Il bombardamento etico. Saggio sull’interventismo umanitario, sull’embargo terapeutico, e sulla menzogna evidente, Editrice C.R.T., Pistoia, 2000.
  15. Luciano Canfora, Intervista sul potere, a cura di, Antonio Carioti, Editori Laterza, Roma-Bari, 2013, pag. 92; a proposito delle potenze europee che ne hanno fatto di tutti i colori si legga Attilio Brilli, Dove finiscono le mappe. Storie di esplorazioni e di conquista, il Mulino, Bologna, 2012.
  16. Leoniero Dertona, Disastro economia europea: il 2024 sarà recessione con misure fiscali e monetarie cicliche, www.scenarieconomici.it, 3/1/2024; Isabella Bufacchi, Soffre l’industria tedesca, la domanda non riparte, www.ilsole24ore.com , 8/1/2024; per una lettura delle sanzioni alla Russia che hanno avuto effetti negativi per l’Europa e hanno stimolato l’economia russa in Michael Hudson, L’economia USA: sorprendentemente robusta o un villaggio Potemkin?, www.comedonchisciotte.org 20/6/2023; Megas Alexandros (alias Fabio Bonciani), Le sanzioni alla Russia: l’idiozia al servizio del “potere”, www.comedonchisciotte.org , 12/9/2022; per una lettura delle sanzioni alla Russia che hanno portato vantaggi all’economia USA in Marco Della Luna, Il prezzo di Adamo, www.marcodellaluna.info ,1/9/2023; Domenico Moro, La montagna della UE e il topolino del nuovo patto di stabilità, www.comedonchisciotte.org , 9/1/2024.
  17. Luciano Canfora, Intervista sul potere, a cura di, Antonio Carioti, op. cit., p.90-91.
  18. Alessandra Necci, Al cuore dell’impero. Napoleone e le sue donne fra sentimento e potere, Universale Economica Feltrinelli (Marsilio Editori), Milano, 2023, pag.274; si veda il docufilm scritto e narrato da Alessandro Barbero, Ei fu. Vita, conquiste e disfatte di Napoleone Bonaparte, https://www.raicultura.it/storia/articoli/2021/05/Ei-fu-Vita-conquiste-e-disfatte-di-Napoleone-Bonaparte-b85194eb-356e-499e-b3f9-e9a78b13c263.html.
  19. Fernand Braudel, L’Italia fuori d’Italia. Due secoli e tre Italie in AaVv, Storia d’Italia. Dalla caduta dell’impero romano al secolo XVIII, Einaudi, Torino, 1974, Tomo secondo, pag. 2143. Si legga anche Jacques Le Goff, L’Italia fuori d’Italia. L’Italia nello specchio del Medioevo in AaVv, Storia d’Italia. Dalla caduta dell’impero romano al secolo XVIII, Einaudi, Torino, 1974, Tomo secondo, parte III, pp. 2060-2088; Federico Chabod, Storia dell’idea d’Europa, a cura di Ernesto Sestan e Armando Saitta, Editori Laterza, Bari-Roma, 1989.
  20. Paul Kennedy, Ecco i tre poli del nuovo mondo (e l’Europa non c’è), intervista a cura di Massimo Gaggi, https://www.corriere.it/la-lettura/24_gennaio_01/paul-kennedy-ecco-tre-poli-nuovo-mondo-l-europa-non-c-e-fbd42cd6-a7cb-11ee-aaf3-63d2857ce…
  21. L’obiettivo del multicentrismo bilanciato sarà possibile solo se la potenza aggressiva, per la sua storia, gli USA, saprà condividere il dominio mondiale con le altre potenze la Cina, l’India e la Russia che sono portatrici di una condivisione, nel rispetto delle proprie peculiarità storiche e territoriali, di un equilibrio dinamico tra le potenze. Leggo il multicentrismo bilanciato in maniera diversa dalla multipolarità bilanciata di John J. Mearsheimer che può evitare la fase policentrica che significherebbe la terza guerra mondiale e la fine dell’umanità considerata la forza distruttiva delle armi nucleari. Sulla multipolarità bilanciata si rimanda a John J. Mearsheimer, La tragedia delle grandi potenze, Luiss Press, Roma, 2019, pp. 259-427.
  22. Dante Alighieri, La divina commedia. Paradiso, a cura di Daniele Mattalia, BUR, Milano, 1989 (quarta edizione), canto I, versi 70-71, nota 70, pp.22-23. Sul transumanesimo come progresso nichilista dell’Occidente si rimanda a Roberto Pecchioli, L’uomo transumano. La fine dell’umanità, Arianna Editrice, Bologna, 2023.
  23. Giorgio Agamben, La crisi perpetua come strumento di potere in “Lo Straniero” del 3/11/2013; si legga anche Alessandra Ciattini, Verso un nuovo mondo: due punti di vista, www.ilcomunista23.blogspot.com, 15/7/2023.
  24. Luca Lanzalaco, Stati Uniti d’Europa: se li conosci li eviti, se li eviti ti salvi, www.comedonchisciotte.org, 15/12/2023; Idem, La revisione dei Trattati UE è l’attacco definitivo alla sovranità e alla democrazia, www.comedonchisciotte.org, 14/6/2022. Sottolineo che l’autore non fa riferimento alcuno al ruolo dell’Unione europea nelle strategie egemoniche degli USA nel conflitto strategico mondiale.
  25. Stefano Cingolani, Stati Uniti d’Europa: la vera riforma fiscale secondo Draghi, www.ilfoglio.it, 7/9/2023; Megas Alexandros, (alias Fabio Bonciani), E’ giunta l’ora che l’esperimento di massa in corsa dell’eurozona finisca! A dircelo è Mario Draghi, www.comedonchisciotte.org, 10/9/2023; Federico Fubini, Draghi:<< Europa sia unione vera, a partire dalla politica estera e difesa. Gli errori? Russia e Afghanistan >>, www.corriere.it, 8/11/2023; Redazione Ansa, Draghi è un momento critico per l’Europa, www.ansa.it, 29/11/2023; Katia Migliore, L’Europa è in crisi? Ci vuole più Europa! www.comedonchisciotte.org, 1/12/2023; Marina Lanza, a cura di, La UE pone fine alla finzione democratica, www.maurizioblondet.it , 21/11/2023.
  26. Nick Alipour, Il ministro della Difesa tedesco: << L’Europa deve essere pronta alla guerra entro la fine del decennio >>, www.maurizioblondet.it 18/12/2023; Stefano Porcai, Cambieranno le leggi, per favorire il complesso militare-industriale europeo, www.contropiano.org, 5/1/2024; sul ruolo dell’Unione europea nell’Asia centrale si veda Pepe Escobar, L’asia centrale è il primo campo di battaglia nel nuovo grande gioco, www.comedonchisciotte.org, 21/8/2023.
  27. Sulla conversione della sudditanza esteriore in interiore sottomissione, facendo sorgere quella psicologia del suddito che Friedrich Engels chiamò “da servitori” si veda Gyorgy Lukacs, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino, 1959, pp. 3-90.
  28. Nico Perrone, Progetto di un impero 1823.L’annuncio dell’egemonia americana infiamma le borse, La Città del Sole, 2013, Napoli.
  29. Gyorgy Lukacs, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino, 1959, pag.804.
  30. Si veda, con una lettura critica, Valery Korovin, La fine dell’Europa. Insieme alla Russia sulla via del multipolarismo, Anteo Edizioni, Cavriago (RE), 2023.

 

ll sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure PayPal.Me/italiaeilmondo  Su PayPal, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)

IL PUNTO D’ARCHIMEDE, di Teodoro Klitsche de la Grange

IL PUNTO D’ARCHIMEDE

Il politico e la sfera giuridica

 

La distinzione tra “politico” e “giuridico” è particolarmente ardua perché ambito, scopo, presupposti dell’uno e dell’altro sono uguali, o simili, o, almeno in parte, coincidenti.

Se, ad esempio ci si chiede “qual è lo scopo della politica?” la risposta prevalente è il “bene comune” inteso come sicurezza (e protezione) dalle minacce (interne ed esterne), come concordia (interna) e come benessere; se si pone la stessa domanda per il diritto, la risposta prevalente sarà di regolare giustamente e con certezza i rapporti sociali; il che coincide, in parte, col “bene comune” inteso come concordia nella comunità, data da un lato la necessità di regole, dall’altro che siano condivise e accettate (prevalentemente) dagli associati.

Se, del pari, si parte dall’ambito, mentre il carattere “sociale” della politica è dato per scontato, quello del diritto ha dato qualche problema: ciò non toglie che perché esista una norma o un comando giuridico occorre sempre che esista una società, magari di due persone soltanto. Una norma che, come quella morale, sia solo interiore ed abbia a soggetti l’individuo e Dio (o la coscienza), non è giuridica. Di più: è giuridica solo se concretamente applicabile (e violabile); e – almeno in qualche misura – applicata.

Il che porta all’altro problema della efficacia del diritto, che necessita dell’uso della coazione, cioè della forza, a sua volta mezzo (tipico) della politica. E così potrebbe continuarsi a lungo.

D’altra parte ci sono le differenze e l’irriducibilità dell’uno all’altro.

Un esempio, per l’attualità perdurante (e a ragione) di una differenza essenziale è quello fatto da Max Weber sulla diversa attitudine dell’uomo politico e del funzionario “…Giacchè lo spirito di parte, la lotta, la passione – ira et studium – sono l’elemento del politico. E specialmente del capo politico. Alla sua attività presiede un principio completamente diverso, anzi opposto a quello che regola l’attività del funzionario. Il funzionario, quando l’autorità a lui preposta insiste – nonostante le sue obbiezioni – su un ordine che a lui sembra errato, tiene ad onorare di saperlo eseguire, sulla responsabilità del superiore, coscienziosamente ed esattamente come se esso corrispondesse al proprio convincimento: senza tale abnegazione e disciplina etica nel senso più alto, l’intero apparato andrebbe in rovina. Viceversa l’onore del capo politico, e quindi del capo di stato,  consiste nell’assumersi personalmente ed esclusivamente la responsabilità delle proprie azioni, che egli non può né vuole evitare o addossare ad altri. Sono proprio le nature di funzionari di grande levatura morale a far dei cattivi politici, irresponsabili secondo il concetto politico della parola, e, in questo senso, moralmente vili”[1]. In questo passo è formulata la distinzione tra l’attitudine e la funzione politica (che è di dare comandi) e quella del funzionario (della burocrazia) che è d’eseguirli. Ciò stante per capire e delimitare i differenti ambiti del politico e del giuridico, occorre individuare i punti di contatto, come le differenze tra gli stessi.

  1. Quanto a quelli, il primo è dato dal carattere e dall’ambito sociale in cui si esplicano necessariamente. Come cennato, vale la regola ubi societas ibi ius, come la speculare ubi ius ibi societas. Il presupposto della socialità del giuridico, come del politico è evidente. Com’è stato scritto, anche nell’isola di Robinson Crusoe, il diritto è nato solo con la presenza di Venerdì: prima sarebbe stato assurdo. Per la politica (ed il politico) nessuno, che ci risulti, ha mai messo in forse il presupposto del rapporto (relazione) sociale, dato che la politica è sempre attività di gruppi umani.

Altro carattere comune è quello della conservazione della società, dato anch’esso, per lo più, scontato per la politica, un po’ meno per il “giuridico”. Nella realtà se il diritto porta in se, in maggiore evidenza rispetto alla politica, l’idea di giustizia (con la conseguenza estrema, espressa nel detto fiat justitia pereat mundus) è pur vero che perché un comando (una norma) giuridica sia (per lo più) applicabile (quindi efficace) è necessario sia condivisa, almeno in prevalenza, nella società: un certo grado di concordia la deve supportare. Più in generale occorre ricordare come una delle concezioni prevalenti del diritto è che sia una tecnica sociale: una buona “tecnica” deve conseguire lo scopo specifico e assegnato di conservare la società. Solo comandi su cui una larga parte di associati siano d’accordo sono suscettibili di essere eseguiti con un minimo di forza ed un massimo di consenso. E lo stesso discorso, mutatis mutandis, vale per il benessere: la “buona” tecnica deve raggiungere obiettivi di “buona” (cioè efficace e positiva) gestione.

  1. Quanto ai punti di differenza, il principale è dato dal carattere autonomo del politico, cui si contrappone quello eteronomo del giuridico. Occorre chiarire tali concetti, e il rapporto tra autonomia del politico ed eteronomia del giuridico.

In primo luogo l’autonomia della politica (e del politico) non va intesa soltanto nel senso tradizionale, come indipendenza da precetti morali (e giuridici), ma anche nel senso letterale, di ciò che da obiettivi, regole, a se stesso: ovvero in senso positivo, prima che negativo, di possibilità/capacità di prima che di libertà da. Vale per la politica (ed il politico) la considerazione di Spinoza che i limiti e le regole che lo Stato deve osservare sono quelli naturali e non delle leggi civili, e che l’essere autonomi consiste per l’uomo nell’essere “in grado di respingere ogni violenza, di esigere a suo giudizio il risarcimento del danno subito e, in una parola, di vivere a suo talento[2]; e per gli Stati, trovandosi “tra loro come uomini allo stato di natura”[3], la situazione è la medesima. Per cui carattere della politica è di essere autonoma, nel senso di dare legge: o ai sudditi, (in e con) la pace, o, ai (possibili) nemici in (e con la) guerra. Il collegamento che lo spirito romano aveva individuato tra hostis ed auctoritas ed espresso nelle XII tavole: adversus hostem aeterna auctoritas, può spiegarsi così.

Per cui carattere della politica (e del politico) è di non riconoscere leggi (comandi) che non siano quelli che (la comunità) scelga di darsi; se si obbedisce a comandi altrui, significa che si è in una situazione patologica. Come quella di uno Stato protetto rispetto alla potenza protettrice.

Di converso il “giuridico” non è pensabile se non in una cornice di eteronomia: Autonoma è, nell’uomo, o può esserlo, la coscienza (morale o religiosa); ma il comando, la norma giuridica mai. Il massimo che può farsi per aumentare il grado di “autonomia” è di partecipare alla formazione delle norme (dei comandi) pubblici, come sostenuto da Hobbes e da Rousseau. Ma anche in una democrazia quanto più vicina al “tipo ideale” della stessa il soggetto che comanda (cioè l’assemblea dei cittadini) è distinto dai “comandati” – per cui come scriveva Hobbes – non c’è “patto tra il sovrano ed alcun suddito”[4].

Quindi se l’autonomia è connotato del politico – intesa come attributo dell’unità collettiva (ovviamente non dell’individuo) – l’eteronomia lo è del giuridico.

In questo senso il principio di Kant per cui “il sovrano nello Stato ha verso i sudditi soltanto diritti e nessun dovere (coattivo)”[5], esprime compiutamente sia l’eteronomia del giuridico, che l’autonomia del politico, ovviamente in relazione allo Stato moderno. Avere solo diritti e nessun dovere significa sia poter dare comandi (leggi) sia (in caso di emergenza) non doverne rispettare alcuno (neanche quelli autonomamente assunti). Peraltro, quel coattivo tra parentesi indica proprio l’obbligo e il dovere giuridico, cioè applicabile ricorrendo alla forza (che il sovrano abbia doveri di altro genere – non giuridici – è concepibile e sostenuto, con ragione, da molti). Così da una parte il diritto, anche quello prodotto dalla autonomia privata, poggia in ogni caso su una decisione e volontà politica (anche di consentire e sostenere l’autonomia: è cioè un raro esempio di autonomia eteronoma); dall’altro il politico, cioè il carattere essenziale del potere sovrano è d’esser libero da ogni condizionamento e limite giuridico.

Il carattere “eteronomo” del diritto, riguardo alla decisione giuridica, risulta anche dalla struttura della medesima: la quale si fonda sull’autorizzazione/applicazione di comandi (norme) già decise (altrove); per cui un provvedimento o una sentenza sono sindacabili e qualificabili validi (o invalidi) in base ad un controllo di conformità rispetto alla norma o ai comandi che li supportano. Ciò sia se questi abbiano contenuto normativo (com’è, per lo più, nello Stato moderno) sia che consistano in semplici comandi (privi cioè di generalità e/o astrattezza). La decisione politica non è, di converso, sindacabile rispetto ad una norma. Mentre una sentenza è buona (valida) se il Giudice ha correttamente applicato il diritto vigente, la misura politica è buona in quanto congrua a risolvere una situazione, al limite infrangendo il diritto, comprese le norme costituzionali. Mentre per il Giudice vale il detto, sopra ricordato, fiat justitia, pereat mundus (intendendo per justitia il diritto applicabile), per la politica vale l’altro salus populi suprema lex[6]. E la salvezza dello Stato non è materia propriamente giuridica, e tantomeno di norme.

La stessa tesi fu fatta propria da Thomasius e da Kant, riguardo alla distinzione tra diritto e morale. Per il primo ogni diritto consiste di comandi esterni e non interni; Kant poi sostiene che “Il puro accordo e disaccordo di un’azione con la legge, egli dice, senza riguardo al movente dell’azione stessa, si chiama legalità (conformità alla legge) mentre quando l’idea del dovere, derivata dalla legge, è nello stesso tempo movente dell’azione si ha la moralità (dottrina morale). I doveri imposti dalla legislazione giuridica possono essere soltanto doveri esterni, perché questa legislazione non esige che l’idea del dovere, che è del tutto interna, sia di per se stessa motivo determinante della volontà dell’agente e siccome ha bisogno di moventi appropriati alle sue leggi, non può ammettere che moventi esterni. La legislazione morale, all’opposto, per quanto eriga a doveri anche azione interne, non esclude per questo le azioni esterne, ma si riferisce in generale a tutto ciò che è dovere”[7]. Da cui consegue che “al diritto è quindi immediatamente connessa, secondo il principio di contraddizione, la facoltà di costringere colui che lo pregiudica” e “un diritto stretto può dunque soltanto chiamarsi quello che è completamente esterno”; per cui “esso diritto s’appoggia unicamente sul principio della possibilità di una costrizione esterna la quale possa consistere con la libertà di ognuno secondo leggi generali”[8].

  1. Da ciò deriva che le regole (le leggi) della politica, ovvero quelle rispetto alle quali si valuta la congruità dei comportamenti politici (e delle istituzioni politiche) hanno come connotato comune proprio quello di non essere giuridiche; di non potersi cioè apprezzare (e coartare) quei comportamenti rispetto a regole di diritto (in particolare positivo, o a, seconda del significato che si da a quest’ultimo, a quello naturale). Si può condividere o meno l’opinione di Hobbes che “la legge naturale è, per definirla, un dettame della retta ragione riguardo ciò che si deve fare o non fare per conservare, quanto più a lungo possibile, la vita e le membra”, da cui consegue che i comportamenti relativi sono veri o falsi, e non come quelli, valutati sotto l’aspetto giuridico (così come le norme) leciti od illeciti, validi o non validi[9]; ovvero quella di Spinoza, secondo il quale lo Stato deve osservare solo le regole non del diritto civile, ma di quello naturale[10]; ma è sicuro che sul piano “effettuale”, questo appare vero.

D’altra parte, se si parte proprio dai “presupposti” del politico, come definiti da Freund, non si capisce come potrebbe formularsi in termini e in base a presupposti giuridici (preventivi e generali) la scelta tra pace e guerra, né se un’azione debba essere comandata e da chi, ovvero se un’attività debba essere pubblica o privata.

La prima, peraltro, non dipende (se non parzialmente) dalla volontà propria, perché scegliere di essere nemico di una data unità politica è decisione di un’altra unità; quanto agli altri due presupposti pretendere di codificare ciò che dev’essere pubblico o a chi si debba obbedire (compresa la forma di Stato) significa voler ingessare la storia. Anche se nell’illuminismo e tra i rivoluzionari dell’89 era diffusa la concezione del legislatore (e di legge, anche costituzionale) destinata a durare, tuttavia era parimenti diffusa la convinzione che una generazione non può vincolare (eternamente) le future; e, d’altra parte, a salvarli dalla deriva “giuridica” v’era il concetto del potere costituente che, comunque, sta sopra (e prima de) la stessa Costituzione, dallo stesso modificabile, anche integralmente.

L’altro presupposto del “giuridico” è, secondo Freund[11] la relazione tra permesso e vietato. Come quella tra sociale ed individuale non è esclusivo del diritto ma comune a molti altri settori dell’attività umana, in particolare alla morale. Tuttavia è la condizione di (pensabilità ed) esistenza di un comando, giacché comandare qualcosa presuppone la libertà di scegliere e quindi il vietare qualcos’altro. Né in una società in cui tutto è permesso, né in quella in cui si comandino cose impossibili (ad impossibilia nemo tenetur) è concepibile un comando eseguibile (in generale) e quindi neppure una regola giuridica.  Certo è immaginabile una società la cui grundnorm consista nel “tutto è permesso”, ma questa, oltreché mai vista nella storia, non avrebbe bisogno di diritto, inteso come apparato di coazione (quindi istituzione) atteso che non sarebbe possibile costringere ad alcunché. Una società del genere, senza istituzioni e senza divieti, è, in definitiva, l’esatta rappresentazione dello stato di natura hobbesiano.

  1. Consegue a quanto sopra che carattere essenziale delle regole della politica è proprio di non essere giuridiche, cioè suscettibili di comando e coazione esterna. Si potrebbe obiettare che la politica non ha regole (leggi); ma questa considerazione non è condivisibile. La politica ha infatti le regole che vuole osservare (questo è il primo volto dell’autonomia del politico); l’altro consiste in quelle regole che ne determinano il fine (l’hobbesiana salus rei publicae suprema lex); o nelle regole “tecniche” per la protezione della comunità e l’esercizio del potere. La filosofia ed il pensiero politico ne hanno elaborate tante. Da quella (De Benoist) di ridurre il numero dei nemici, che ha avuto le più varie formulazioni ed espressioni nel corso della storia (dal divide et impera romano al “mai la guerra su due fronti” del Quartier generale germanico del secolo scorso)[12]. Machiavelli, ma anche Hobbes e Spinoza ne hanno indicate diverse: il cui connotato comune (prevalente) è dipendere dallo scopo dell’attività politica. Cioè dalla protezione dell’esistenza comunitaria e dell’ordine che assicura, ai quali sono strumentali come mezzi al fine.

L’altro carattere del “politico” e delle sue regole è di essere “sovraordinate” al “giuridico” (e alle sue norme). Ciò non solo per la sovranità – concetto chiave perché è il punto di raccordo tra politica e diritto – e che ha (anche) la funzione di garanzia/protezione dell’ordine attraverso l’esercizio/disciplina della coazione; e non solo perché il fine della politica, nel caso d’emergenza (e talvolta non solo in quello) prevale su quello del diritto (la giustizia, o meglio l’equità), sicché, come scriveva Jhering “la forza sacrificherà il diritto per salvare la vita”; ovvero, secondo Santi Romano, la necessità è fonte di diritto[13]; ma anche perché a seguire le regole giuridiche (o, sotto un diverso aspetto, morali) piuttosto che quelle della “ragion di Stato”, una comunità prepara, come scriveva Machiavelli per il Principe “più tosto la ruina che la preservazione sua”. Se, ad esempio, le potenze occidentali avessero soccorso militarmente la Finlandia, aggredita nel 1939 dall’Unione Sovietica (come chiesto da buona parte dell’opinione pubblica), avrebbero avuto la normativa internazionale dalla loro parte (il protocollo di Ginevra del 1924 condannava la guerra di aggressione, e quella alla Finlandia lo era) ma fatta una pessima scelta politica: sia perché, oltre alla guerra con Hitler, se ne sarebbero trovati un’altra con Stalin, sia perché avrebbero consolidato la recente (e labile) alleanza tra i loro nemici. Citando Odilon Barrot, dato che talvolta la legalité nous tue, per non morire occorre “rompere” o “derogare” alla legalità.

D’altra parte è proprio il diritto positivo, con la nutrita casistica di deroghe ed eccezioni al diritto costituzionale ed ordinario che dimostra carattere e struttura di tale rapporto: rotture costituzionali, stati d’eccezione, stato di necessità, deroghe ed attenuanti alla legislazione penale.

Per cui correttamente Santi Romano riteneva, nel passo sopra citato, che anche in caso sia vietato far uso di poteri eccezionali, la necessità legittima la violazione del diritto (o meglio della legge) vigente.

In altri termini, in ogni ordinamento (che sia vitale) esiste una “clausola generale” (anche se non scritta, anche se vietata) in virtù della quale la protezione dell’esistenza (collettiva) prevale sulla legalità. Coincidendo, secondo Santi Romano il concetto d’istituzione con quello d’ordinamento[14], questa clausola è giuridica, perché costitutivo-conservativa dell’esistenza collettiva. Insieme alla sovranità – e sotto il profilo oggettivo – è il punto di raccordo tra fine del politico e finalità del diritto. Consegue da ciò che l’istituzione politica (nella modernità, e per eccellenza, lo Stato) ha il compito di far convivere esigenze della politica e del diritto, sein e sollen. Proprio nel pensiero (giuridico) istituzionista, e nel concetto d’istituzione ciò è avvertito più nettamente; secondo Hauriou “il potere è una libera energia della volontà che assume l’impresa di governo di un gruppo umano attraverso la creazione dell’ordine e del diritto”[15]. Quindi all’inizio c’è il potere; questo crea l’ordine attraverso l’istituzione[16]; il potere (e il governo) di fatto si trasforma così in un potere (e governo) di diritto. Il rapporto tra potere, ordine attraverso il diritto (cioè l’istituzione) e consenso coutumier fa si che l’istituzione debba tener conto sia del potere che del consenso e dell’ordine, e così dei “due” poli, politico e giuridico.

Il rapporto di “sovraordinazione” o di “decisività” tra politica e diritto, e di prevalenza-precedenza della prima sul secondo, cui ci ha avvicinato la tesi di Hauriou su potere ed ordine, è particolarmente evidente nel momento di fondazione (o ri-fondazione) dell’istituzione, e, in ispecie, dell’istituzione-Stato.

A questo è stato molto attento, sia negli scritti giovanili che negli ultimi, Santi Romano; lo stesso problema è, tuttavia, solitamente trascurato dai giuristi, in parte con l’attenuante che il giurista interpreta il diritto che è, e non indaga il momento genetico dell’istituzione. Ma proprio quest’ultimo mostra l’essenza e i modi del rapporto: la teoria di Sieyès sul potere costituente lo conforta (e ne è la più chiara espressione). Sieyès la fonda su tre caratteri distintivi di tale potere: il primo negativo, d’essere svincolato da ogni forma, “une nation est indèpendente de toute forme”. Al contrario dei poteri costituiti, che sono tenuti a rispettare la legalità (“il n’est legal qu’autant qu’il est fidèle aux lois qui lui ont été imposées”) la volontà nazionale (cioè il potere costituente) “au contraire n’a besoin que de sa réalité pour être toujours lègale, elle est l’origine de toute lègalité”. La nazione non è sottomessa ad una Costituzione, e non può (né deve) esserlo; non solo è indipendente d’ogni forma, ma non ha bisogno di alcuna giustificazione (supporto) giuridico. In essa realtà e legalità coincidono: la seconda è lo sviluppo-emanazione della prima. Infine “De quelque manière qu’une nation veuille, il suffit qu’elle veuille: toutes les formes sont bonnes, et sa volonté est toujours la loi suprême”; per cui è essa a determinare (ed istituire) la/e forma/e in cui si organizzerà ed articolerà l’istituzione[17]. Il politico non ha così una data forma, ma è creatore della (propria) forma. Il fatto che questa/e forma/e sia vitale (cioè efficace, capace di far esercitare il comando con successo e consenso) lo si deve al grado di accettazione da parte dei consociati, che si esprime in categorie (e concetti) essenzialmente politici (e “fattuali”) come autorità e legittimità. Così il “politico” e la volontà politica (tanto del “creatore” dell’ordine che dei governati) è il punto d’Archimede dell’ordinamento giuridico (statale): togliendo, modificando, o sostituendo quello, cambia questo: mentre non è vero il contrario; perché il cambiamento di una, o più norme (anche la maggior parte), e neppure quello di istituzioni modifica la costituzione (intesa nel senso schmittiano delle decisioni fondamentali sui modi e forme dell’esistenza politica) e ancor meno il potere costituente.

A tale proposito occorre ricordare come molti giuristi hanno notato che vi sono istituzioni originarie e derivate. Le prime sono “quelle in cui si concreta un ordinamento giuridico che non è posto da altre istituzioni e che è quindi, quanto alla sua fonte, indipendente. Ci sono viceversa istituzioni derivate, il cui ordinamento è, cioè, stabilito da un’altra istituzione, la quale afferma così, a questo riguardo, la sua superiorità sulla prima, che le rimane quindi subordinata[18]; così come lo Stato ha, secondo Rudolf Smend, il carattere che “il suo funzionamento non viene mantenuto da un motore o da un giudice esterni alla sua struttura, non viene sorretto da una causa o da una garanzia eteronome, ma si integra, grazie alla legislatività oggettiva rispetto al valore, esclusivamente in un sistema di integrazione gravitante su se stesso” per cui “In un senso del tutto diverso dalla costituzione di un’associazione, la costituzione scritta di uno Stato può perciò soltanto stimolare e limitare quella vita costituzionale che gravita su se stessa e che non può essere garantita eteronomamente[19]. In sintesi il carattere politico (e originario) dell’istituzione statale fa si che è il potere politico – e sovrano – inerente alla medesima a garantire unità, stabilità e applicazione del diritto; per le altre è un potere esterno all’istituzione (cioè, per lo più, un’altra istituzione), proprio perché priva di sovranità.

Si potrebbe con un paragone ardito,  adattare al diritto il teorema di incompletezza di Gödel, per il quale vi sono punti che il sistema non riesce a decidere né a dimostrare autonomamente. Di converso il politico, come scritto da Sieyès nel passo sopra citato, non ha necessità di legittimazione o d’essere conforme a una norma o ad una procedura giuridica.

  1. Il punto di giunzione (e frizione) tra giuridico e politico è dato dal diritto pubblico, intendendo con ciò quello che – in altre lingue romanze, come anche in italiano, ai tempi di Romagnosi – si chiama anche “diritto politico”. Nei suoi rami più alti, ma talvolta anche in quelli inferiori, sono ravvisabili diversi punti di raccordo (e di conflitto) tra esigenze della politica e principi ed istituti giuridici.

Proprio il diritto positivo (i diritti positivi) degli Stati moderni concorre a provare come il politico (e la politica) sono irriducibili al giuridico; in particolare, se si intende questo essenzialmente come regola, come norma applicabile esattamente da un giudice o da un funzionario. Le forme di questa irriducibilità sono varie. Ne ricordiamo le principali:

1) In primo luogo non c’è necessità di avere il diritto per creare il diritto: ciò è implicito nell’affermazione di Sieyès che la Nazione, per il solo fatto di esistere è tutto ciò che vuole essere: ovvero che non ha bisogno di alcuna legittimazione giuridica. Questo, oltre che da altri, è ripreso (e in certo senso, ampliato) nella nota tesi (v. supra nota 13) di Santi Romano, per cui anche senza autorizzazione legislativa all’uso di “poteri eccezionali e straordinari, questi potranno essere assunti ed esercitati in forza della necessità. Come è consuetudine, anzi a maggior ragione, data la sua maggiore energia, la necessità è fonte  autonoma del diritto, superiore alla legge[20].

2) Anche senza voler ricordare la funzione protettiva-conservatrice  dell’autorità politica, particolarmente chiara ed evidente nello “ stato di eccezione”, neppure in rapporti e situazioni non connotate dall’emergenza, ma, in un certo senso, normali, l’ambito del “politico” coincide col “normativo”. Infatti atti particolarmente rilevanti sono sottratti al sindacato del giudice, anche nelle democrazie liberali, dove il controllo è, di converso e di solito, penetrante e generale. Così nel diritto italiano gli atti politici, in quello francese gli actes de gouvernement non sono impugnabili davanti al Giudice. A tale proposito è stato sostenuto che “l’attività politica non può venir definita unicamente un’attività libera, ma un’attività libera perché politica[21]” e che gli atti espressione della funzione di governo sono “istituzionalmente sottratti ad ogni sindacato giurisdizionale. Essi sono sottratti per natura, non perché esiste l’art. 31 T.U. sul Consiglio di Stato”[22].

Anche in presenza dell’art. 113 della Costituzione italiana (che prescrive la sindacabilità generale degli atti amministrativi) la categoria degli atti politici è “sopravvissuta” alla Costituzione repubblicana[23] ; per cui ne risulta rafforzata la tesi che tali atti non sono justiciables per “natura”.

3) I poteri rappresentativi (e talvolta non solo quelli) sono immuni dalla giurisdizione penale. La prima costituzione europea moderna, cioè quella francese del 1791, già lo disponeva (titolo III, cap. I, art. 3) prescrivendo che i tribunali non potessero interferire nell’esercizio del potere legislativo né sospendere l’attuazione delle leggi: prescrizioni similari, e quelle sull’immunità dei parlamentari (dei Capi di Stato e dei Ministri) da arresti e processi erano riportate praticamente in tutte le costituzioni europee successive, degli Stati liberali prima e (poi) democratico-liberali; così come le deroghe alle competenze e forme ordinarie in caso di processo ipolitici.

L’argomento decisivo per spiegare le immunità (e le deroghe) per determinati organi “supremi” dello Stato è quello esposto, nel solco di una tradizione di pensiero sullo (o dello) Stato che risale a Bodin ed Hobbes, da Vittorio Emanuele Orlando, in un saggio del 1933. Scriveva infatti: “Che fra gli organi onde lo Stato manifesta la sua volontà e la attua, uno ve ne sia che su tutti gli altri sovrasta, superiorem non recognoscens, e che non potendo appunto ammettere un superiore (chè allora la potestà suprema si trasporterebbe in quest’altro) deve essere sottratto ad ogni giurisdizione e diventa, per ciò stesso, inviolabile ed irresponsabile, è noto” (il corsivo è nostro) [24].

  1. Il breve excursus che precede spero sia servito al chiarimento di ciò che è politico e ciò che è giuridico. La compenetrazione dei quali – nelle forme costituite – crea molteplici tipi d’interazione e rapporti, di cui il diritto positivo costituisce la testimonianza; e da cui i criteri distintivi sono registrati.

Resta il fatto che il diritto è per natura eteronomo, e gli sono essenziali (e “dati”) forma e procedura; mentre il politico è autonomo, è morfopoietico, e (in ultima analisi) non ha bisogno di osservare procedure o legittimazioni giuridiche per imporre la propria volontà.

Quando si cerca di dimenticare – o sminuire tali caratteri, i casi sono due: o si cerca di utilizzare il diritto come supporto in una battaglia politica ( come, ad esempio, l’uso leninista della legalità), ammantandosi del “valore aggiunto” della legge, rivolto – come arma in più – contro il nemico; o si confondono legalità e legittimità, forme e procedure, subordinazioni e coordinazioni, essere e dover essere, comando e obbedienza, pubblico e privato, in un caos, che la mancanza di un punto d’Archimede, visibile e riconosciuto (“pubblico”), rende durevole (quanto dannoso). Che può essere la forma ideologica di un moderatismo policratico, in cui la moderazione delle parole copre i fini particulari di una congerie (irresoluta e) tendenzialmente anarchica di poteri privati, anche se non sempre nell’oggetto, nella mentalità e nella funzione.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Politik als beruf, trad. it., Torino 1966, p. 72.

[2] V. Trattato politico, trad. it., Torino 1958, p. 168 (il corsivo è nostro).

[3] Op. cit., p. 195.

[4] Elements of Law Natural and Politic, trad. it., Firenze 1968, p. 178.

[5] Die Metaphisik der Sitten, trad. it., Bari 1973 p. 149.

[6] T. Hobbes scrive che legge, dovere e profitto del Sovrano “sono una medesima cosa, contenute nella sentenza, Salus populi suprema lex” v. Elements, sopra cit. p. 250.

[7] Die Metaphisik Der Sitten, I, Intr., § 3, op. cit., p. 21 (i corsivi sono nostri).

[8] Op. cit., p. 37

[9] “Per retta ragione nello stato naturale degli uomini non intendo, come molti fanno, una facoltà infallibile, ma l’atto di ragionare, cioè il ragionamento, proprio di ciascuno e vero, riguardo quelle proprie azioni che possono tornare a vantaggio o a danno degli altri uomini. Dico: proprio, perché, sebbene nello Stato la ragione dello Stato (cioè la legge civile) debba essere ritenuta retta da ciascun cittadino, fuori dello Stato, dove non si può distinguere la retta ragione dalla falsa, se non paragonandola alla propria, la ragione di ciascuno deve valere non soltanto come regola delle azioni proprie, fatte a proprio rischio, ma anche come misura della ragione altrui, nelle cose che ci riguardano. Ho detto: vero, cioè concluso mediante la corretta composizione di principi veri, perché ogni violazione delle leggi naturali consiste in un falso ragionamento, cioè nella stupidità di uomini che non considerano necessario alla propria conservazione l’adempimento dei loro doveri verso gli altri” Hobbes, op. cit., p. 90 (il corsivo è nostro).

[10] V. Spinoza “Vediamo dunque in qual senso si possa dire che lo Stato è soggetto alle leggi e che può delinquere. Se per legge si intende il diritto civile, ossia il diritto che si può civilmente rivendicare, e per delitto un’azione vietata dal diritto civile; ossia, se queste parole sono intese alla lettera, non si può in alcun modo dire che lo Stato sia soggetto alle leggi o che possa delinquere. Infatti, le regole e i motivi di soggezione e di ossequio, che lo Stato deve a propria garanzia conservare, non sono del diritto civile, ma del diritto naturale, giacché (per l’art. precedente) non si possono rivendicare per diritto civile, ma per diritto di guerra, e lo Stato non vi è tenuto se non per la sola ragione per cui anche l’uomo nello stato naturale è tenuto, se vuole mantenersi libero e se non vuole diventare nemico di se stesso, ad evitare di uccidersi: dovere, questo, che non implica soggezione, ma denota la libertà dell’umana natura. Il diritto civile dipende invece esclusivamente dalla volontà dello Stato, il quale, se vuole mantenersi libero, non deve adeguarsi se non al proprio talento e non riconoscere per bene o male se non ciò che esso stesso ha dichiarato tale; e quindi, non soltanto ha il diritto di imporsi, di promulgare leggi e di interpretarle, ma anche di abrogarle e di condonare la pena a qualsiasi delinquente per la pienezza del proprio potere”, op. cit., p. 205.

[11] Philosophie et sociologie, Louvain-La-Neuve 1984, p. 87 ss.

[12] Regola due volte non osservata, con le conseguenze, per la Germania, che tutti sanno.

[13] Santi Romano ritornò più di una volta sulla concezione della necessità come fonte di diritto (v. ad esempio il saggio del 1898 Saggio di una teoria sulle leggi di approvazione, ora in Scritti minori, vol. I). riportiamo il passo più significativo della seconda edizione del Diritto costituzionale generale (del 1947, l’anno della morte) “Talvolta, le leggi scritte accordano, in casi di necessità, al potere esecutivo la facoltà di emanare decreti o ordinanze, che si dicono per l’appunto di necessità o urgenza, in sostituzione del potere legislativo, cui normalmente spetterebbe la competenza di emanare le norme occorrenti. Ma anche quando tali leggi scritte mancano, o sono inadeguate alla situazione che si è formata, e persino quando espressamente vietano che si faccia uso di poteri eccezionali e straordinari, questi potranno essere assunti ed esercitati in forza della necessità. Come la consuetudine, anzi a maggior ragione, data la sua maggiore energia, la necessità è fonte autonoma del diritto, superiore alla legge. Essa può implicare la materiale e assoluta impossibilità di applicare, in certe condizioni, le leggi vigenti e, in questo senso, può dirsi che «necessitas non habet legem». Può anche implicare l’imprescindibile esigenza di agire secondo nuove norme da essa determinate e, in questo senso, come dice un altro comune aforisma, la necessità fa legge. In ogni caso, «salus rei publicae suprema lex» (il corsivo è nostro).

[14] V. L’ordinamento giuridico, rist. Firenze 1967, p. 27.

[15] Préçis de droit Constitutionnel, Paris 1929, p. 14.

[16] Op. cit., pp. 17 e ss.

[17] Qu’est-ce-que le tiérs État, Liv. V.

[18] v. Santi Romano, L’Ordinamento giuridico, cit. p. 141 (il corsivo è nostro).

[19] V. R. Smend Verfassung und Verfassungsrecht, trad. it. Milano 1988 p. 156; sul punto Smend ritorna nella voce Integration, trad. it. cit., p. 286 per sostenere che le istituzioni non statali “vengono garantite dalla dissoluzione interna per lo più mediante poteri esterni: il giudice, la coercizione amministrativa, sino agli strumenti della cosercizione sociale e a quelli della politica estera e del diritto internazionale. Per lo Stato, in quanto si pone semplicemente come compito, non vi sono affatto tali garanzie esterne” (il corsivo è nostro).

[20] Santi Romano. Diritto costituzionale generale, Milano 1947, p.92 (i corsivi sono nostri).

[21]  v.  Ranelletti-Amorth “Atti politici” in Noviss. Digesto italiano  vol. 3° p.1512 (il corsivo è nostro).

[22] v. P. Barile Atto del governo (e atto politico) in Enc. Diritto, vol, IV p. 225.

[23] V. p. es. Cass.,S.S.U.U. civili, 25/11/1983 n.7072 sugli atti della Commissione di vigilanza sui servizi radiotelevisivi.

[24]V. E. Orlando Immunità parlamentari ed organi sovrani, Rivista di diritto pubblico,  XXV Roma 1933, ora in Diritto pubblico generale, Milano 1954, p. 487. E prosegue: “circa gli attributi ed i caratteri dell’organo sovrano come furono definiti di sopra, non vi sono gravi difficoltà, quando l’ordinamento ne riconosce ed ammette uno solo: e non importa se questo unico organo sovrano sia, in relazione alle varie forme di governo, una persona fisica (monarchia), o un collegio, e questo sia costituito da componenti di una classe privilegiata o dalla universalità dei cittadini (aristocrazie o democrazie assolute)” e specifica: “Si giustifica pertanto la nostra teoria la quale può riassumersi così: non si può dare organo sovrano senza che esso sia coperto della garanzia della inviolabilità, la quale importa: essere sottratto ad ogni giurisdizione capace di esercitare una coazione fisica sulla persona. Naturalmente, come avviene sempre nel mondo del diritto, questo principio generale deve, nell’applicazione, adattarsi alle manifestazioni concrete della realtà costituzionale, assumendo forme diverse senza però venir mai meno in se stesso”.

Se si tratta di organo collegiale “come sono le assemblee parlamentari, l’inviolabilità fisica non può normalmente porsi se non in via indiretta, attraverso l’inviolabilità dei membri; ma, d’altra parte, non è necessario e sarebbe anzi sconveniente, che questa forma di inviolabilità del collegio nelle persone dei suoi membri fosse così assoluta e così rigida come deve essere in rapporto a una persona fisica”. Per cui “Attraverso tutte queste differenze, per quanto importanti possano essere, è però sempre lo stesso principio che si applica, riaffermando l’inviolabilità  come qualità inseparabile dell’organo sovrano: diritto comune e non diritto di eccezione, poiché deriva per virtù di semplice logica giuridica dalla stessa maniera di essere dell’ordinamento” perché ad essere “rigorosamente esatti” non è tanto che il Parlamento (e gli altri organi sovrani) si sottraggono ad ogni giurisdizione “ ma bensì, che compete ad esso (comprendendo il Re) la giurisdizione suprema e che tale sua qualità sia sufficiente perché possa risolvere senza concorso di un’altra autorità, le questioni della sua prerogativa”, op. cit. p. 495 ss..

ll sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure PayPal.Me/italiaeilmondo  Su PayPal, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)

 

Vincenzo Costa, “Categorie della politica. Dopo destra e sinistra”, a cura di Alessandro Visalli

Vincenzo Costa, “Categorie della politica. Dopo destra e sinistra”

 

 

 

Quando mi sono affacciato all’età adulta sentivo l’urgenza di definirmi rispetto al mondo. Una delle primissime cose che mi sembravano urgenti era di pensarmi nella collocazione del campo polare tra sinistra e destra. D’altra parte, si potrebbe ricordare a parziale giustificazione di questa riduzione, si era negli anni Settanta terminali. La mia famiglia non dava un’indicazione univoca, se pure esprimeva una tendenza. Ma percepivo la cosa in questo modo: la sinistra è quell’atteggiamento verso il mondo che ne critica le ingiustizie e la destra le difende. Messa così la cosa la scelta era già fatta.

Ma orientarsi significa, nella sua essenza, classificare da un dato momento in poi (da quando si decide, perché questa è stata, almeno per me, una decisione) ogni fatto della vita come “di destra” o “di sinistra”. Quindi identificare uno dei due come parte del nemico.

Cosa si acquista in tal modo? E cosa si perde?

 

Sinossi

Il libro di Vincenzo Costa[1] cerca una risposta. Ovviamente la cerca oggi, perché non esistono domande esterne al tempo ed al luogo, e questa è, in modo molto profondo, una domanda del tempo presente. Una domanda sulla quale mi sono anche io spesso interrogato e alla quale, nei diversi tempi della mia vita e contingenze avrei certamente dato risposte diverse.

L’autore scrive che lo scopo del libro è “sgombrare il campo [del discorso politico] da un ordine concettuale”. E il motivo di questa operazione di sgombero di macerie è che questo ordine, “invece di orientarci” (l’esigenza dei miei anni giovanili), “ci disorienta nella comprensione di ciò che sta accadendo”. Questo termine della metafisica implicita del nostro linguaggio, dis-orienta, è quindi uno di quelli da interrogare. In che senso ci dis-orienterebbe? E in quale renderebbe impossibile la com-prensione di ciò che sta, di fatto, accadendo oggi? Ma, quindi, cosa sta accadendo oggi?

Questa è la chiave di interpretazione che, di nuovo, lo stesso autore propone, e sul quale chiede di essere giudicato: “se [la proposta] descrive un movimento e un dinamismo del reale o se lo fraintende[2]. Per tale ragione nei primi capitoli il testo descrive in modo sintetico, ma perspicace, il tono del discorso politico pubblico e delle sue categorie degli ultimi cinquanta anni, a partire dalla storica frattura manifestatasi tra gli anni Settanta finali e Ottanta medi. Ciò con riferimento alle sinistre e destre politiche storiche e, nel secondo capitolo, anche alle sinistre radicali. Successivamente, individua quelle influenti rappresentazioni della diade destra/sinistra che hanno accompagnato e segnato la trasformazione delle culture politiche del primo Novecento in quelle che oggi troviamo ad occupare la scena.

Sarà dal quarto capitolo in avanti che i semi di questa interpretazione orientata cominciano a germogliare, e nel quale viene mostrato come l’opposizione Destra/Sinistra possa, in un diverso contesto, sviluppare una funzione egemonica che Gramsci avrebbe chiamato di ‘rivoluzione passiva’, ovvero di neutralizzazione delle forze effettivamente in campo (o potenzialmente in campo) imponendo variazioni meramente formali. Il neoliberismo, attraverso la falsa opposizione polare D/S (da ora, Destra/Sinistra), vince la sua battaglia neutralizzando qualsiasi alternativa effettiva. Questa interpretazione è messa alla prova descrivendo le sfide che la situazione attuale pone, ed il fabbisogno di interpretazione della sua articolazione concreta. È qui che, soprattutto, vale la sfida dell’autore. Qui si vede se la descrizione fraintende.

L’ipotesi finale, chiaramente un abbozzo che attende maggiore sviluppo, è di passare da una rappresentazione binaria, che forza ogni fatto della vita ad essere giudicato per la semplice vicinanza o lontananza da un ideale, ad un modello topologico fondato su coppie orientative (Differenze/indifferenziato; Identità/differenza; Occidente/Oriente; Tradizione/emancipazione; Inclusione/esclusione; Amico/nemico; Ospitalità/Ostilità).

 

La polarità morale

C’è un ordine sottostante a questo discorso, una precondizione di natura direi morale: è la differenza, fatta anche di alterità organica direi, tra ‘classi dominanti’ e ‘popolo’ (se pure negata come alternativa all’avvio). La ripresa cioè, nel cuore del dispositivo, di qualcosa di profondamente Novecentesco (peraltro con esplicito richiamo alle posizioni di don Sturzo, da una parte, e Antonio Gramsci, dall’altra). Per comprendere la tesi per la quale la diade D/S, rappresenterebbe ormai niente di più di un’articolazione interna alle ‘classi dominanti’ bisogna dare uno sguardo a questo punto.

Un livello di superficie è quello per il quale ogni élite forza il mondo reale, quello dell’esperienza comune e ‘della vita’, entro categorie e strutture poste a priori e possedute in esclusiva. Un dover-essere che si riconduce alla fine ad una violenza. A che cosa in sostanza? Direi alla persona inserita sempre originariamente e organicamente in una comunità. Connessa e legata a beni che Charles Taylor chiama sociali e non riducibili[3], come la cultura, la lingua, o le solidarietà. Beni che sono costitutivamente sociali; non sono riducibili a pura strumentalità e funzionano sempre in contesti di reciprocità. Quando ci si riferisce a tali beni bisogna comprendere il tessuto connettivo dei significati implicati, i quali rimandano sempre a collettività e ad una totalità di rimandi.

Cosa si intenda per ‘popolo’ è il punto per me centrale del testo. E si tratta chiaramente di un tema di tremenda difficoltà. Mettere insieme Sturzo e Gramsci non è sufficiente. Perché si tratta della questione, in entrambi, della trascendenza. Percepisco in Costa una sorta di tensione tra l’idea del radicamento nella terrosità di una tradizione, vista come intrinsecamente popolare con tutti gli avvertimenti del caso, e la difesa dell’universalismo di una ragione in ultima analisi riaffermata. Una ragione, peraltro, indispensabile per l’esercizio della techné della filosofia.

Esiste nel testo una critica frontale al marxismo, condotta con ragioni piuttosto buone, dirette contro il suo nucleo archeo-teleologico (che condivide, peraltro, con tutta la traiettoria della cultura ‘borghese’ Occidentale) e la riserva per le élite (nuove); ovvero per lo sforzo razionalista di mettere in forma qualcosa che, di per sé non lo ha, portandolo dall’esterno. Accusa più appropriata per il leninismo che per il lavoro specifico di Marx[4]. Perché in effetti delle due occorre scegliere una: o si determina uno scorrere immanente del movimento storico che contiene il proprio avvenire, secondo una tradizione che affonda le sue radici nell’escatologia Occidentale e perviene alla fine ad Hegel, per cui è nel ‘popolo’ che questa coscienza esiste, se pure da suscitare. Oppure, la coscienza non esiste e va portata nel progetto (determinando una rottura costruttivista, di fatto incompatibile). Queste diverse impostazioni attraversano diagonalmente ed interamente la storia del marxismo, ma anche di ogni movimento critico.

È pur vero che, come ritiene il nostro, il kairos è stato perso alla critica marxista. Tuttavia, qui rivive la profonda questione delle diverse possibili interpretazioni del progressismo come ‘furia del dileguare’ verso il tradizionalismo come interpretazione recuperante (e non come essenzialismo illusorio). Nel mio “Classe e partito[5], si cerca di far valere le intuizioni di Benjamin in questa direzione, come anche la critica interna di un autore troppo poco studiato come Antonio Labriola. Come scriveva il nostro, per attivare il potenziale della formazione e della trasformazione della società servono condizioni, ma serve anche la forza di intenderle come mutabili. Non basta, occorre capire come. Il soggetto del cambiamento non è nel modo di produzione capitalista in quanto tale, ma neppure dentro la tradizione. Compare al punto di congiunzione, scrivevo, della volontà e della necessità, del progetto e delle condizioni[6]. Quindi occorre rifuggire dalle impostazioni provvidenzialistiche (che si possono nascondere molto bene anche nella sfocata nozione di ‘popolo’, come nella famosa ‘socializzazione delle forze produttive’[7]), ma per questo compare in primo piano la questione del rapporto tra intellettuali e masse, tra partito e classe, tra le culture. O tra evento e condizioni.

 

Aiuta la diade D/S ad orientarsi in queste questioni? O quella, appunto élite/popolo?

 

Linee di faglia

La proposta centrale di Costa è di organizzare il discorso politico piuttosto intorno ad una pluralità di linee di faglia sensibili alla situazione, linee che debbano essere considerate contestualmente. Per cui è possibile che un dato attore esprima, in uno specifico contesto, una tendenza alla valorizzazione della differenza, e all’identità culturale occidentale, ma senza far passare l’emancipazione per la distruzione della tradizione e articolando un’inclusione non totalitaria, sapendo essere ospiti. È di Destra o di Sinistra? Probabilmente attraversa diagonalmente i ‘cataloghi’ (se intesi astrattamente).

Ma si allontana certamente da quella versione della ‘sinistra’ che la Wagenknecht[8] descrive come fatta da ‘moralisti senza empatia’, per i quali è più importante distinguersi, mostrando un comportamento moralmente irreprensibile che cambiare le cose (perché, in fondo, vanno bene così). Una ‘sinistra alla moda’ che vuole solo trovare conferma di sé e della propria superiorità[9]. Una ‘sinistra’ compiutamente liberale (ma nel senso assunto dal termine negli anni Ottanta e Novanta) che riduce le classi subalterne, ovvero l’insieme del ‘popolo’ essendosene loro sdegnosamente estraniati, a “mera particolarità”, a fronte dei valori “universali” difesi dai ‘ceti medi riflessivi’. È qui concepita come ‘particolarità’, in effetti, ogni e qualsiasi forma di radicamento o attaccamento, siano esse ad un territorio specifico o a tradizioni e culture locali. Ma anche ogni solidarietà concreta (a fronte delle forme di solidarietà astratta e normativa, sbandierate con grande trasporto in ogni occasione pubblica). Come è concepita quale risposta da condannare, in quanto opposta alle forze del progresso necessario ed allo sviluppo, ogni protezione dalla concorrenza e relativi stili di vita. Tutto quello che non collima con questa visione irenica di una vita avventurosa e ricca di energia, aperta al sempre nuovo e ad ogni rischio (per il quale aiuta avere adeguati capitali relazionali e materiali) è dalla ‘sinistra’ individuata come ‘reazione’. Quindi scompare sullo sfondo sia il conflitto capitale/lavoro (che, semmai, è riletto con opposta polarità) sia il ruolo delle classi subalterne. Emancipazione è sostituita da crescita.

 

Neocontrattualismo e nuova forma della politica

In uno dei più interessanti snodi del testo è illustrata la funzione che, nel dibattito filosofico e politico degli anni Ottanta ebbe la proposta neocontrattualista di John Rawls[10], con la sua enfasi neokantiana sulla ‘giustizia’ ed i ‘diritti individuali’ che, a parere di Costa, nascondeva il mascheramento dell’interesse particolare delle classi colte e abbienti come generale. Tutto il complesso meccanismo di Rawls, in polemica con l’utilitarismo[11], si riassume, secondo il suo critico forse principale, Michael Sandel, nel seguente enunciato:

 

“la società, essendo composta da una pluralità di persone, ciascuna con i propri fini, interessi e concezioni del bene, è meglio ordinata quando è governata da principi che di per sé non presuppongono alcuna particolare concezione del bene; ciò che giustifica soprattutto questi principi normativi non è il fatto che essi massimizzano il benessere sociale o promuovono altrimenti il bene, quanto piuttosto che siano conformi al concetto di diritto, una categoria morale data che precede il bene ed è indipendente da esso”[12]

 

Sandel obietta che i limiti di questa concezione, e dunque del genere di liberalismo proposto, sono meramente concettuali, vuoti, e riguardano lo stesso ideale. O, in altre parole, che l’idea di giustizia è imperfetta e incompleta sin nella sua aspirazione[13]. Infatti, come afferma lo stesso Rawls “i diritti assicurati dalla giustizia non sono soggetti al calcolo degli interessi sociali”, ma funzionano “come briscole nelle mani degli individui”. Si tratta di una neutralità fattualmente e materialmente impossibile in società ineguali, e trascura la natura sociale dell’uomo stesso. Anzi, in sostanza, neutralizza i valori di altruismo e benevolenza, risultando una sorta di giustizia del tutto astratta e disincarnata.

 

Quel che si impone in questo discorso, malgrado alcune voci contrarie[14], anche di parte anarcolibertaria[15], è uno sguardo da nessun luogo che di fatto elimina le differenze e tutta la dialettica sociale. Per come viene percepita dalla cultura politica della ‘sinistra’ allora tutte le differenze (comunità, tradizioni, identità collettive, appartenenze di classe) diventano in linea di principio di ‘destra’.

 

Per come la mette Costa:

 

“Il neocontrattualismo vive del miraggio di un punto di vista sottratto alla storia, ma lo fa proprio perché la sua funzione è proprio quella di presentare uno specifico sguardo, radicato in una determinata concretezza e che propone una precisa prospettiva (quella delle classi dominanti), come se fosse lo sguardo da nessun luogo, imparziale, che ha messo da parte cultura e interessi”[16].

Viene sistematicamente occultato attraverso la ricerca del “moral point of view”, il fatto ineludibile che ogni giudizio dipende dal contesto interpretativo e dalla posizione. Neutralizzandoli in effetti si delegittima il conflitto tra le posizioni e si articola quella che si manifesterà nel tempo come una postura chiaramente antidemocratica. Una sorta di bullismo verso le classi subalterne che devia sistematicamente l’attenzione su individui e singole diversità (purché non di classe).

 

Il socialismo

È questo il contesto nel quale alla fine Costa chiama in causa la tradizione socialista, presa in blocco ed alquanto da lontano (per evidenti ragioni di spazio), “da Owen a Marx, fino a Lenin”, come viziata dalla medesima frattura. Quella tra le avanguardie e le masse popolari. “Alla fine si ha la sensazione che debbano essere le classi dominate ad accettare di divenire organiche agli intellettuali”[17]. E se non lo fanno ricevono lo stigma di essere ‘piccolo-borghesi’ (immagino da parte di Lenin). In questo modo, però, vengono schiacciate tra di loro cose molto diverse: la teologia negativa[18] di Marx e la comprensione costruttivista dell’impossibilità della parusia di Lenin. L’idea che la classe sociale subalterna, alla quale si estorce il valore che si distribuisce alle classi dominanti nella loro articolazione (tramite profitto, interesse e rendita), possa mutarsi direttamente in classe universale che ha il compito necessario ed inscritto nella storia stessa (dei modi di produzione) di disalienare integralmente il mondo sociale di Marx, da una parte, e la radicale relativizzazione ed estensione del conflitto all’insieme dei popoli oppressi dall’imperialismo in Lenin, dall’altra. Le applicazioni del ‘marxismo’ alle lotte di liberazione concrete (e alle lotte per la difesa delle tradizioni popolari).

 

La sinistra aristocratica

Nella sua critica alla sinistra ‘antagonista’, se possibile ancora più aspra, si vede ancora meglio questa trasformazione che cessa di individuare il soggetto da emancipare nelle classi lavoratrici e lascia svanire con esse l’intera questione dell’eguaglianza. Quel che guadagna il centro della scena, mentre la stessa composizione sociale muta, è il “desiderio dissidente”.

Qui avviene un radicale rovesciamento: le classi popolari e la ‘gente comune’ divengono “il potere” dal quale emanciparsi. Nel senso che si tratterebbe di coloro che opprimono le diverse forme di diversità e desiderio con la loro normatività. Le tradizioni culturali sono identificate direttamente con l’oppressione sull’individuo, perdendo la circostanza che queste, nella loro umana imperfezione, sono di fatto il radicamento stesso e l’essere stesso delle classi popolari.

 

“Le tradizioni sono forme di legame, e le lotte del movimento operaio furono sempre lotte per resistere alla dissoluzione del legame: è questo il nucleo di cui si nutrono le rivendicazioni di giustizia sociale e le lotte per porre un limite al dominio del capitale, poiché il capitale non conosce limiti alla sua volontà di valorizzazione, mentre le classi popolari rivendicano il loro diritto al legame”[19].

 

Il punto è che la classe non esiste in sé (come affermo anche nel mio Classe e Partito), né sono definite solo dal loro complesso rapporto con i mezzi di produzione, né esistono solo nella lotta, ma esistono, per Costa, “come un’articolazione di relazione umane, come una struttura di legami”. La produzione eventuale e non necessaria, di un “noi”, è un effetto che non è determinato dalla posizione comune rispetto ai mezzi di produzione o da comuni interessi economici. Aspettarselo ha condotto ad un’inutile attesa e deviato le forze (ma qui la lezione del Labriola, ripresa da Gramsci, aiuterebbe). Inoltre, ha condotto in un cono di ombra il fatto che le strutture di legami, di socializzazione, le culture e la tradizione sono distrutte dal capitalismo (che non ha alcuna componente socializzante intrinseca, come vorrebbe sul punto Marx, che intendeva sfuggire al volontarismo della tradizione messianico-comunistica storica ed alle forme di rimestaggio nelle bettole del futuro dei socialisti utopisti[20]).

 

Terzo passaggio, il post-moderno. La nuova macchina interpretativa si fonda sulle categorie di “dispositivo disciplinare”. In questo modo:

 

“il potere non sta nello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non consiste in un’ingiusta ripartizione del prodotto sociale che crea rapporti di subordinazione e in un modo di produzione che crea ineguaglianza e dominio. Il potere consiste invece nei dispositivi disciplinari, uno dei cui nuclei è che ‘nel sistema disciplinare non si è, secondo le circostanze, a disposizione di qualcuno, ma si è perpetuamente esposti allo sguardo di qualcuno e, in ogni caso, nella condizione di poter essere costantemente osservati’”[21].

 

Si tratta, quindi, di un dispositivo anonimo e pervasivo che fa perdere ogni possibilità di distinguere tra emancipazione ed assoggettamento, portando l’attenzione verso un impossibile (e controfattuale) liberarsi di ogni legame. In questo modo, si potrebbe dire secondo un eterno prolungarsi della adolescenza, la genealogia si tramuta in una farsa. Si tratta, ancora per Costa, di una “idea eccessiva”, radicata in una cultura che non può chiamarsi se non aristocratica e individualista. Questa idea diviene il concetto guida di una sinistra “antisistema” che si incontra di fatto con la destra aristocratica e l’anarchismo individualista di Nozick (che ho conosciuto personalmente e posso confermare come gentilissima ed aristocratica persona).

In sostanza l’esclusione (che sarebbe all’origine della stessa società) sostituisce lo sfruttamento, creando una nuova teologia negativa di grande potenza. Foucault (il cui orientamento è noto), per Costa, propone la propria specifica prospettiva come emancipazione.

Anche per questa via si afferma l’idea che la lotta per migliorare le proprie materiali condizioni di vita è di fatto ignobile e l’unica lotta degna è quella per il ‘rango’. Con questa ripresa di motivi espressamente aristocratici e premoderni (molto presenti in George Bataille) la stessa lotta di classe diventa ignobile, se non per la distruzione materiale che può provocare. Si tratta di un anarchismo estetizzante del tutto estraneo alle classi popolari. Il popolo diventa anzi chiaramente il nemico, ad esempio in Deleuze, e solo la cultura alta è chiamata ad opporsi al potere del ‘normale’. Si forma una sorta di “tribù di intellettuali-ribelli, salda nella convinzione di essere illuminata, sovversiva, eversiva e unica, di essere la comunità dei desti, contrapposta alla massa dei dormienti”[22].

 

Lotta alla tradizione

Nella prospettiva della sinistra progressista, come in quella della radicale, dunque, la nozione di eguaglianza si lega ormai a quella di lotta alla tradizione e per i diritti individuali. Realizzare l’eguaglianza è, in definitiva, abbandonare la tradizione. Si tratta di contestare il mondo da un punto di vista universale, del tutto disincarnato e da nessun luogo, rimuovendo la storia. È in questo senso che la diade D/S si traduce in un’operazione egemonica che svolge la funzione di impedire l’affermazione di altre opposizioni. Sono possibili altre linee di frattura che si presentano diagonalmente alla D/S, per come oggi si presenta, come capitalismo/anticapitalismo, alto/basso, popolo/élite, tradizione/innovazione, natura/cultura, …

Oltre a quella socialista, tradizione che non è di sinistra[23], anche quella di Sturzo è una vicenda politica e culturale che non si conforma allo schema D/S, perché si muove in un orizzonte di significato del tutto diverso. Ad esempio, gerarchia e uguaglianza non sono in opposizione reciproca, tradizione ed emancipazione sono parti di un solo movimento e la mobilità sociale non è competizione, ma resta connessa al concetto e la pratica di ‘servizio’. Lo scopo generale dell’azione politica, in linea con l’evoluzione storica, è di inserire le classi popolari nella storia nazionale[24]. Il medesimo obiettivo lo pone Gramsci[25].

 

Il populismo

Né il cosiddetto ‘populismo’, che abbiamo attraversato in versioni ‘di destra’ (dominanti) e ‘di sinistra’ negli ultimi anni, è la soluzione. Anche esso è un’articolazione entro il movimento delle élite, in quanto produce formazioni verticistiche, che raccolgono consenso volatile e meramente negativo, sconnesse con il popolo. Rappresenta al più il “nomadismo” di una massa di arrabbiati che si lasciano accumulare in “banche dell’ira”. “Banche”, inoltre create dai social media, i quali sono ben lungi dal rappresentare un reale. Essi, letteralmente, lo “fanno accadere”. In sostanza essi, seguendo una dinamica autoconsistente, disfano continuamente e creano aggregazioni effimere intorno a singoli temi. Ma qui c’è un punto da leggere con attenzione: non si tratta di parvenza, lontana dal mondo della vita. In effetti le esperienze significative, almeno alcune, sono ormai fatte nel mondo dei social. Questi creano un “mondo della vita mediatizzato”, che contaminano in modo crescente esistenze e identità politiche prima separate, nel contesto di una sorta di “epidemia di idee”. Con tutti i suoi limiti si tratta di un nuovo modo di “essere insieme nel mondo”, nel quale ad essere scambiate sono soprattutto emozioni.

 

L’Altro dall’Occidente.

Un altro grande tema affrontato nel testo, che può essere letto anche come un catalogo delle questioni di senso poste dal presente, è il rapporto da intrattenere con l’altro dall’Occidente. La tendenza dell’Occidente ad egemonia anglosassone (ovvero l’Occidente realmente esistente) è di sostituire il legame sociale, determinato da tradizioni e ragione, con il consumo. Contrariamente a quanto ritenuto da Marx (il quale, però, aveva davanti alla sua esperienza la transizione dal mondo protoindustriale dell’epoca illuminista alla prima industrializzazione, mentre noi abbiamo il passaggio dalla terza alla quarta rivoluzione industriale), la produzione di merce, la sua distribuzione ed i fenomeni di consumo non socializzano, ma isolano. La promessa di socializzazione del capitalismo maturo è fondata essenzialmente sulla disponibilità di tempo e ricchezza per ciascuno, ovvero sulla libertà di accedere a percorsi di vita scelti individualmente, avendone le risorse. Chiaramente tale promessa di salvezza[26], idolatra in senso tecnico, è costantemente tradita dal sistema sociale. Ma, nel contesto di un indebolimento progressivo (o parziale) delle forme tradizionale di legame sociale, la promessa di salvezza secolare raggiunge – anche per effetto dell’estendersi delle relazioni di scambio e di penetrazione del capitale finanziario – strati ‘borghesi’ in ogni paese, creando le condizioni di crescenti conflitti interni. Molto spesso è proprio la religione ad assumere il ruolo, non solo in questi paesi, di resistenza.

Sulla base dello schema interpretativo e categoriale prima descritto, a questo punto la sinistra antagonista e quella istituzionale, concordi, si impegnano a condannare le resistenze come arretratezza e ‘fascismo’, e la mondializzazione come soluzione dei problemi dell’umanità. Ovvero come destino di salvezza. In primo luogo, è l’impero americano che viene identificato come l’alfiere di questa trasformazione che porterà all’avvenire di pienezza. La differenza è che le letture post-operaiste o trotskiste individuano questo movimento tendenziale come la via per la rivoluzione mondiale sincronizzata, mentre le letture della sinistra istituzionale direttamente come la strada che senza scossoni porta alla pienezza della libertà e della prosperità.

 

Tuttavia non sta andando così. Piuttosto si assiste nell’ultimo decennio ad un arretramento della mondializzazione e all’emergere, nei conflitti anche militari, di un mondo multipolare. In questo contesto l’altro diventa in mostruoso e l’Occidente ancora di più la spada della verità. Acciaio della spada è l’universalismo astratto che nega in radice il pluralismo delle culture. La posizione di Costa in questo difficile incastro è di liberarsi di questa autorappresentazione celebrativa ed etnocentrica. Ma lo fa in un modo particolare, impostato in un libro precedente, L’assoluto e la storia[27], sul quale ho fatto un recente post di lettura[28]. La tesi è che “la sinistra progressista non difende l’Occidente: difende l’universalismo, davanti al quale si deve cancellare, in quanto particolare, la stessa cultura occidentale”[29], ovvero la cultura occidentale storicamente tramandata (che è fatta risalire all’apertura greca). Tecnicamente la cultura della sinistra progressista esclude, in altre parole, che l’universalità sia un rapporto con la particolarità e la immagina in senso astratto come un confluire di tutto su un modello in sé perfetto e dato. Il neocontrattualismo ne è stato un esempio.

Contrapposto a questa idea di ‘universalismo astratto’, orientato ad un modello posto, Costa propone un movimento di ‘contaminazione’ (termine che assorbe da Derrida[30]), ovviamente tra differenti. Una sorta di “universalismo storico” che presuppone la capacità di decentrarsi.

 

“A questo serve la capacità di decentrarsi, senza la quale l’Occidente perde la sua vocazione all’universalismo storico e diventa soltanto una cultura tra le altre, solo con la pretesa – esorbitante e boriosa – di dovere abolire tutte le altre”[31].

 

Sinceramente qui mi pare di rintracciare nelle parole adoperate un residuo dello spirito di maestro che parte della cultura stessa dell’Occidente, proprio dall’apertura greca, contiene. Gli occidenti sono una cultura tra le altre, alla fine, e da questo non si può scappare. Uno degli effetti del tempo, o, se vogliamo, uno degli spiriti emergenti del mondo che si cerca di far tornare nella bottiglia a furia di bombe, è che i paesi ‘non bianchi’ emerge alla consapevolezza che la pluralità di civiltà e culture esistenti ha pieno diritto di considerarsi pari con quella occidentale. La quale, ha pienamente ragione Costa, è a sua volta pluralità. Le civiltà cinese, indiane e islamica, alcune storiche radici delle culture russa[32] e sudamericana (il ‘buen vivir’), per dire solo alcune mentre andrebbero ricordate anche le civiltà africane e quelle del pacifico orientale, rifiutano crescentemente la visione gerarchica lungo il maggiore o minore ‘avanzamento’, o ‘modernità’. Ciò non significa rovesciarla, presumendosi più ‘avanzati’, o più ‘civili’.

 

Diramazione

Il concetto è stato espresso da Xi Jimping nel 2019 con queste parole: “le civiltà comunicano attraverso la diversità, imparano l’una dall’altra attraverso gli scambi e si sviluppano attraverso l’apprendimento reciproco[33] e, in un discorso del 2014, richiamando il concetto di ‘armonia senza conformità[34] che riconosce il mutuo apprendimento, senza gerarchia o maestri, come la forza motrice del progresso dell’umanità. Più profondamente qui ‘razionale’ e ‘vero’ sono concepiti come prodotti del ‘vivente’ (Dao) che è immerso in una totalità di relazioni, anziché come in occidente, come attributi oggettivati dell’essere (interpretati da un potere).

Apprendimento che implica tre principi:

–        le civiltà sono varie e rappresentano, ciascuna, la memoria collettiva dei diversi paesi, tutte sono frutto del progresso dell’umanità.

–        Le civiltà sono eguali nel valore e ciascuna ha punti di forza e debolezza, “non esiste al mondo una civiltà perfetta, né una priva di merito. Le civiltà non si dividono in superiori e inferiori, buone o cattive”[35].

–        Solo l’inclusione rende grandi, se ogni civiltà è unica la cieca imitazione è estremamente dannosa, “tutti i traguardi delle diverse civiltà meritano rispetto, tutti devono essere tenuti in gran conto”.

Quindi bisogna concluderne che i popoli di tutto il mondo sono interdipendenti, “io sono in te, tu sei in me” e formano un “destino comune”. Il pensiero strategico cinese è pieno di questa concettualizzazione; invece di agire per dominare (e uniformare il mondo) punta a che tutto, secondo la sua propensione, si trasformi (hua). Cerca di restare “sotto il cielo” per individuare “dove va la luce”, accompagnando la situazione al suo massimo potenziale ed effetto. Nel concetto di tianxia (spesso tradotto in “la via del cielo”) è incluso questo particolare universalismo concreto, che implica una dialettica dell’inclusione, e concepisce la razionalità come prorompere da una situazione collettiva accettata senza coercizione (anziché essere radicata nel cogito individuale), e la verità come prodotto dell’armonia. È in questo senso che il mondo è di tutti, 大道之行也天下為公, “quando prevarrà la Grande Via, l’Universo apparterrà a tutti”, un verso del testo confuciano “I riti”, ripreso da Qing Kang Youwei e dal Sun Yat-sen nell’espressione “Tian xia wei gong”.

 

La reciproca fecondazione delle culture può essere illustrata attraverso un episodio della storia delle idee: nel 1953 Martin Heidegger in “La questione della tecnica[36] dichiarò che l’essenza della tecnologia moderna non è a sua volta tecnologica, ma filosofica, nel senso che consiste nell’imporre una trasformazione della relazione tra uomo e mondo per la quale ogni essere è ricondotto ad essere ‘fondo’ o ‘riserva’, ovvero è ridotto ad oggetto che può essere misurato, calcolato e sfruttato. Questa linea di riflessione, che può essere compresa come riferita alla tecnica nella modernità (in quanto la tecnologia è antica come l’uomo, ma questi ha vissuto per quasi tutto il suo tempo in un mondo ‘incantato’ al quale sarebbe temerario proiettare le nostre categorie e comprensioni[37]) è stata pensata come propria dell’Occidente. In questo modo il passaggio dalla techné come poiesis, che porta alla luce delle relazioni, alla tecnologia come gestell che appresta in una sorta di telaio è letta come conseguenza necessaria della metafisica occidentale. Si tratta di un destino inscritto nell’origine. Questa critica, pur nei suoi limiti, fu accolta da diversi pensatori orientali, in particolare nella Scuola di Tokyo e nella critica daoista della razionalità tecnica. In quest’ultima il gelassenheit (serenità, tranquillità, opposta alla volontà di potenza[38]) heideggeriano viene riletto come wu wei (non-azione).

La trascrizione di questo pensiero deriva, in entrambi i paesi, dallo sconcerto per gli effetti destabilizzanti e distruttivi della tecnica (in occidente guerra, industrializzazione di massa ed estensione degli effetti anomici del consumo, in oriente le rapide trasformazioni industriali ed il loro effetto sulla cultura tradizionale e popolare).

 

Del wu wei, Stanza 47 del Dao[39].

  1. Non serve varcare la porta di casa
  2. per comprendere ciò che sta sotto il Cielo;
  3. né dalla finestra scrutare
  4. per comprendere il dao del Cielo.
  5. Più esci e più t’allontani,
  6. meno comprendi.
  7. Il Saggio, pertanto, comprende [le cose] senza muoversi [verso di loro],
  8. [le cose] nomina, senza bisogno di averle prima scorte.
  9. [Agli esseri] assicura piena realizzazione, senza farne oggetto delle proprie mire.

 

Il termine zhi, che ricorre più volte in questo brano (conoscere, sapere, agire nel mondo) indica un esperire integralmente, dislocando la vera conoscenza (che passa anche per il linguaggio) attorno e non dentro il soggetto, perché nel Laozi a questo, al soggetto, non è riconosciuto il privilegio di detenere un sapere in senso esclusivo. Più che comprendere oggetti, secondo la tradizione Occidentale, qui si tratta dell’insieme delle relazioni che rendono gli oggetti tali, in un circolo che comprende il soggetto. Il Dao (il mondo nella sua totalità di destini che interagiscono) è esperibile solo perdendosi ed abbandonandosi. Il riferimento al “senza muoversi”, indica una forma di comprensione che non dipende né da esperienze cognitive precedenti o da dati empirici; una comprensione che deriva dall’essere connessi al Dao.

Per questo il ‘Saggio’ si può dedicare al governo del mondo secondo una caratteristica linea di non-ingerenza, la quale, proprio per questa profonda immersione (ma originaria) assicura la piena realizzazione delle predisposizioni delle cose stesse. L’immobilismo produce contemporaneamente il massimo di armonia. E’ così che il saggio può ‘nominare’ (v. 8) le cose.

 

Il punto è che tutte le polarizzazioni proprie della razionalità occidentale-greca, come uomo/dio, invisibile/visibile, eterno/mortale, certo/incerto, permanente/mutevole, potente/impotente, puro/misto, certo/incerto non sono presenti in Cina[40], e la tecnica corrisponde a relazioni diverse con gli dei, gli umani ed il cosmo. Agisce una sorta di ‘risonanza’ (ganying) che genera un sentimento in relazione ad un’obbligazione morale (sia in senso sociale che politico), effetto della unità tra l’umano ed il cielo. Ovvero dell’umanizzazione del divino avvenuta in Cina (mentre in occidente avviene il movimento opposto di separazione). Ganying implica un’omogeneità tra tutti gli esseri e un’organicità delle relazioni tra parte e parte e parte/tutto. Nel contesto della tecnica questa unificazione agisce tenendo insieme Qi (strumenti) e Dao. Si tratta di una diversa focalizzazione, come propone di considerare Mou Zongsan, tra noumeno e fenomeno[41].

 

 

L’Occidente stesso, d’altra parte, ha formato sé stesso e la sua propria autocomprensione nella scoperta dell’altro, durante il 500, proprio quando, anche per effetto di questo subitaneo e potente allargamento di visione e drenaggio di enorme ricchezza (precondizione della stessa ‘rivoluzione industriale’) si accorse della propria differenza[42]. Sfortunatamente lo ha fatto nel contesto di una stagione di violenza e sopraffazione, proiettando quale giustificazione della violenza praticata[43] la propria superiorità e l’autoattribuito destino di civilizzazione. Prima delle fabbriche della prima ‘rivoluzione industriale’ vi fu l’economia di piantagione, innervata da scambi commerciali a lungo raggio che interessavano le materie prime e le merci umane (schiavi neri per lo più) a rendere ricca l’Europa.

Nel mettere a fuoco questa autocomprensione ha progressivamente oscurato (in parte in anni proprio recenti) le origini plurime e cooperative, ed i prestiti, della impresa tecnico-scientifica moderna, e, d’altra parte, tutte le tradizioni razionaliste presenti nelle altre culture (in quella araba, intanto, e poi anche in quella indiana[44]). In Orizzonti, libro recente di James Poskett[45], viene raccontato il contributo della medicina azteca, della scienza islamica, del rinascimento ottomano, dell’astronomia africana o cinese, ed indiana, dei navigatori del pacifico, delle relazioni di Newton con gli scienziati russi, dei naturalisti occidentali con quelli Tokugawa, del dawinismo Meiji o Qing, della ingegneria ottomana e della fisica giapponese, dei viaggi di Einstein in Cina e delle genetiche indiane, russe. La scienza moderna segue il mito di essere stata inventata da poche menti e tutte europee, tra il 1500 ed il 1700. Copernico riprende procedimenti matematici che individua in testi arabi e persiani, mentre astronomi ottomani percorrevano l’Europa per scambiare visioni e teorie.

D’altra parte, la scienza occidentale è anche debitrice della tradizione ellenistica, III secolo a.C., cosiddetta “Alessandrina”, dove lavorarono Euclide, Ctesibio, Erofilo di Calcedonia, contemporanei del fondatore della teoria eliocentrica, Aristarco di Samo. Ad Alessandria studiò anche Archimede, Eratostene. Crisippo invece ad Atene, mentre bisogna ricordare anche Filone di Bisanzio, Apollonio di Perga e Ipparco di Nicea del secolo successivo[46]. Tutto questo fervore terminò con la conquista romana[47], anche se tracce si registrarono fino al tardo impero ed alla vittoria del cristianesimo. Questa scienza non riguarda oggetti concreti ma enti teorici specifici, ha struttura rigorosamente deduttiva, si applica con regole di corrispondenza. Questa struttura non è presente nella tradizione filosofica classica (Platone ed Aristotele), ma si addensa a partire dalla conquista macedone della Persia e dell’Egitto. Questa è la tesi di Russo, in quanto al momento della conquista la superiorità tecnica delle ben più antiche civiltà mesopotamica ed egiziana era notevole. Le civiltà più antiche erano state in costante contatto con la civilizzazione greca, Talete e Pitagora hanno debiti riconosciuti con l’Egitto (il secondo anche con il più lontano oriente), ma quando i macedoni dovettero gestire economie e tecnologie enormemente più complesse, con metodi gestionali e di analisi razionale in parte propri, compare una nuova capacità di connessione tra il livello astratto delle teorie e l’azione concreta.

La ripresa della prospettiva scientifica, in un nuovo e più potente contesto e sotto motivazioni molto più forti (siamo negli anni in cui l’Europa si allarga al mondo, ed ha bisogno di mettere a frutto il dominio che si presenta e via via consolida) avviene nei ‘rinascimenti’ anche come riscoperta, spesso tramite manoscritti arabi, dell’ottica, delle maree e gravitazioni, delle cosmologie, etc. ellenistiche[48].

La cultura è trasmissione e contaminazione. Negarlo è uno specifico dispositivo di potere, che si affaccia ogni volta si viene sfidati.

 

L’apertura ed il punto di vista dell’altro

Torniamo al punto, se, dunque, per Costa “non siamo più in Occidente, e il compito primario politico è tornare ad abitarlo”, è necessario decentrarsi ed assumere il punto di vista dell’altro. E continua:

 

“il che non significa rinunciare all’universalismo che caratterizza la cultura europea, né accettare un realismo geopolitico spicciolo che riduce tutto a rapporti di forza. Tra le forze della storia vi sono anche i processi di incremento di riflessività e analisi razionale. Si tratta solo di lasciarsi alle spalle la versione astratta e astorica dell’universalismo, declinandolo storicamente”.

 

In questa formulazione fa problema, dal mio punto, il termine “incremento”, che sembra alludere ad una prospettiva ancorata o ad un naturalismo o ad una filosofia della storia sottostante. È chiaro che si tratta di formule sintetiche le quali non vanno prese in parola. L’autore è più che attrezzato per non scivolarvi[49] e la formula va compresa nel contesto delle attuali discussioni nel ‘mondo della vita’ frequentato.

La questione cui mira l’autore è di filosofia politica, non certo di ontologia culturale. Non esistono solo i diritti delle persone, come vorrebbe una influente tradizione che va da Hobbes in avanti, ma anche i diritti delle tradizioni e delle collettività.[50]

 

In questa prospettiva lo scontro si dà tra chi è radicato in una storia, e cerca di rinnovarla, e chi ha perso ogni memoria e quindi ha in odio ogni cultura ed ogni differenza. La ragione è che ogni contenuto non proprio è percepito come una catena. Invece, “per colui che le vive come contenuti interiori sono vincoli che legano insieme la sua anima, sé con gli altri, dunque la polis, e la città come luogo in cui una particolarità si apre a tutti gli altri”[51]. Se manca questo da una parte cresce la necessità del normativismo, dall’altra le sensazioni sono l’unico metro e svanisce la storia come responsabilità.

In Identità/differenza si tratta di aprirsi alle altre tradizioni, al loro pluralismo, e quindi sapere che ciò significa restare disponibili ad una ricerca in comune di una verità che si sottrae. Per cui la tensione all’intesa va compresa piuttosto come disponibilità al reciproco mostrarsi aperti alla verità (sapendola inafferrabile) ed alla contaminazione reciproca. Ad un confronto trasformante.

Nella coppia Occidente/Oriente, bisogna riconoscere che non si tratta di pensarsi come verità, quanto di rapportarsi ad essa come cammino e distanza. Restando aperto all’altro e disponibile a lasciarsi interrogare dalle credenze. Se l’Occidente, al suo meglio, è interrogazione, allora non può essere riassorbito dall’universalismo astratto, che è possesso (della verità).

Se si guarda alla coppia Tradizione/emancipazione si deve riconoscere che una tradizione è sempre il modo in cui una comunità storicamente data si apre al problema dell’Assoluto. Perché non c’è apertura alla verità se non a partire dall’essere situato. In altre parole, l’avvenire si nutre del passato (come voleva Benjamin[52]).

In Inclusione/esclusione si torna al tema della contaminazione, ha luogo quando le identità si formano e trasformano nell’incontro. Allo stesso modo in Amico/nemico è questione di riconoscere che l’amicizia è sempre relazione tra diversi, e in Ospitalità/ostilità è questione di riconoscere di avere da ricevere per essere ospitali. Il problema dell’Occidente è che non pensa di avere da ricevere nulla, ma di essere il maestro (a volte severo) di tutti.

 

Note conclusive

Nel post precedente sul testo di Costa, L’assoluto e la storia, avevamo concluso ricordando che se il proprio di ogni cultura è quello di non essere identica a sé stessa (perché la sua stessa nozione è il risultato di una lotta provvisoriamente vinta, di una egemonia e delle sue necessarie astrazioni), allora questa non si può dare senza l’altro da sé; senza specchiarsi in esso. Questa apertura all’altro da sé è, d’altra parte possibile perché il sé proprio, e quello con cui ci si specchia, sono entrambi rimandi di riflessi di ‘altro’.

 

La ricerca vana di una mai presente purezza è, a fronte di ciò, solo un situarsi che nasconde una hybris.

 

Riesce il testo nel suo compito di sgombrare il terreno dalle macerie della diade D/S? E farlo senza terminare nel relativismo apolitico, per cui tutto va bene e resta solo il potere nudo, rintracciando un movimento di ricerca insieme al suo oggetto impossibile (la tradizione, o l’identità)? A me pare che si muova sul crinale di alta montagna, nel quale l’aria leggera, pura ma rarefatta, fa da contraltare al rischio costante di mettere il piede su una malferma pietra. Tuttavia, il passo va affrontato.

La tradizione, come l’identità, non è identificabile quale campo di conflitti a partire dalla diade D/S, ma solo nel confronto con l’altro da sé. A condizione, però, che questo confronto non sia già risolto nello schema di ruolo maestro/allievo. In esso, tentazione costante del non-dialogo polare tra D e S, ogni identità (inclusa quella del mitico Occidente) è infatti congelata in astrazione. Non ritengo che ciò significhi, nel testo di Costa, che le tradizioni politiche critiche, sulla linea che emana dalle grandi rivoluzioni (plurali al loro interno e nella loro essenza contingenti[53]), ovvero quella socialista e democratico-radicale, siano da oltrepassare insieme alla diade criticata. Non è difficile rintracciare nella discussione sulle coppie di orientamento (e nella loro stessa scelta) proposta dall’autore una loro chiara presenza.

Quello di Costa è un richiamo, piuttosto, a tornare al popolo. Dove ciò significa allontanarsi con decisione da quei ‘moralisti senza empatia’ e ‘aristocratici senza popolo’ che sono divenuti nel tempo le sinistre (sia istituzionali sia radicali). A tale scopo è mobilitato un apparato di notevole interesse ed estensione, ricostruiti i passaggi storici ai quali abbiamo assistiti negli ultimi quaranta anni, e criticato anche l’essenzialismo incorporato nella tradizione critica marxista. I due punti sui quali ho concentrato la discussione in questo non brevissimo testo sono questa critica, corretta ed ingenerosa al tempo, e la questione del nostro tempo: il riposizionamento della cultura occidentale di fronte alla sfida del mondo multipolare. L’attacco portato all’universalismo astratto mi trova pienamente in accordo, e questo è tanta parte della presa di distanza dall’astratta diade D/S per come si presenta concretamente oggi in campo.

Nel produrre un pensiero politico, ovvero rivolto all’azione, si propone di sostituirlo con un movimento storico e reciproco di contaminazione. Che Costa chiama “universalismo storico”. Il termine “storico”, nella mente occidentale influenzata inevitabilmente dalla freccia del tempo, riletta nella tradizione escatologica ebraica e cristiana come cammino della salvezza e del compimento, fa però problema. Varrebbe lasciarlo, insieme a quello ‘universalismo’. Non esistono valori, principi e culture universali, se non per effetto di una decisione, di una imposizione. In primo luogo interna, volta a ridurre la pluralità e la storia dei conflitti che sono stati dati. A far tacere il suono dei morti.

 

E’ proprio per questo, per dimenticare l’universalismo ma non la tensione all’apertura, che si possono usare le coppie proposte, per riattivare la loro voce e riprendere la lotta.

[1] – Costa, V., Categorie della politica. Dopo destra e sinistra, Rogas Edizioni, Roma 2023.

[2] – Tutti questi riferimenti da un post dell’autore su Facebook, 20 novembre 2023.

[3] – Taylor, C., Philosophical arguments, Harvard University Press, Cambridge, 1995, cap.7.

[4] – Marx non è un autore compiutamente coerentizzato. Nella sua opera convivono strettamente, in ogni momento, l’apertura di un filosofo di scuola hegeliana, di uno scienziato al senso dell’Ottocento ipnotizzato dalla purezza delle leggi newtoniane, e della fascinazione empirista, e di un politico che vuole trasformare il mondo (e non solo capirlo). Tuttavia, la liberazione diventa possibile, per Marx, solo perché è immanente nella situazione concreta (ovvero in quel che chiama “modo di produzione” capitalistico). Si tratta di una teleologia, e quindi di una impostazione archeo-teleologica, che conduce alla socializzazione delle forze produttive verso un esito nel quale si avrà una società interamente individualizzata nella quale ognuno troverà spontaneamente il proprio posto.

[5] – Visalli, A., Classe e partito. Ridare corpo al fantasma del collettivo, Meltemi, Milano 2023.

[6] – Visalli, cit., p. 288

[7] – Termine che indica l’aumento progressivo e necessario, implicato nella stessa crescita del contenuto tecnico-scientifico del produrre e del lavoro, del controllo cosciente dei lavoratori sulle modalità meramente sociali e tecniche della produzione stessa. Per questa ragione, molto profonda, il comunismo è l’esito immanente e terminale del processo di socializzazione capitalistico. Per questa ragione ciò che rallenta lo sviluppo delle forze produttive allontana il momento in cui l’avvenire si manifesterà.

[8] – Wagenknecht, S., Contro la sinistra neoliberale, Fazi Editore, Roma 2022, p.43.

[9] – Si veda anche l’eccellente Friedman, J., Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime, Meltemi, Milano 2018.

[10] – Si veda almeno John Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1981 (ed. or. 1971), e John Rawls, Liberalismo politico, Edizioni di Comunità, Milano 1994 (ed.or. 1993).

[11] –  Ovvero alla presunzione che in fondo una politica sia da considerare giusta quando, semplicemente, produce la maggiore felicità per il maggior numero di membri della società. Una formulazione così semplice è giudicata da alcuni ovvia (Hare, 1994) mentre da altri completamente difettosa (Williams, 1985). L’utilitarismo è infatti una teoria parsimoniosa, apparentemente semplice e naturale che si può riassumere in una frase: ogni azione è giudicabile solo per le sue conseguenze e queste lo sono per la somma dei benefici in termini di utilità.

[12] – Sandel, M., Il liberalismo e i limiti della giustizia, Feltrinelli Milano 1994 (ed. or. 1982), p. 11.

[13] – Per questa ricostruzione si veda “Michael Sandel, il liberalismo ed i limiti della giustizia”, Tempofertile, giugno 2019.

[14] – Sono quelle dei cosiddetti “comunitari”, ovvero tra i più rilevanti: Alasdair MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Feltrinelli Milano 1988 (ed. or. 1981), e Michael Walzer, Sfere di giustizia, Feltrinelli Milano, 1987 (ed. or. 1983).

[15] – Nozick, R., Anarchia, stato e utopia. Quanto stato serve?, Il Saggiatore Milano 2000 (ed. or. 1974).

[16] – Costa, V., cit., p. 25

[17] – Costa, V., cit., p. 39

[18] – Si veda, oltre a Visalli, A., Classe e partito, op.cit., Dussel, E., Le metafore teologiche di Marx, Inschibboleth, Roma 2018 (ed.or. 1993).

[19] – Costa, V., p. 63

[20] – Si può vedere su questo punto, su tanti, l’interpretazione di Costanzo Prece o quella di Gregory Clayes. Preve, C., Storia e critica del marxismo, La città del sole, Napoli 2007. Clayes, G., Marx e il marxismo, Einaudi, Torino 2020 (ed. or. 2018).

[21] – Costa, V., p. 67. Cit. Foucault, M., Follia e psichiatria. Detti e scritti, 1957-84, Cortina Milano 2006, p. 55.

[22] – Costa, V., p. 85

[23] – Su questo si veda il lavoro di Jean-Claude Michéa. Ad esempio, Michéa, J-C., I misteri della sinistra. Dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto, Neri Pozza, Vicenza 2013 (ed.or. 2013); Michéa, J-C., Il nostro comune nemico. Considerazioni sulla fine dei giorni tranquilli, Neri Pozza, Vicenza, 2018 (ed. or. 2017); Michéa, J-C., L’impero del male minore. Saggio sulla civiltà liberale, Scheiwiller, 24 Ore Motta cultura, Milano 2008 (ed. or. 2007).

[24] – Il grande fatto della politica dell’avvio secolo è l’irruzione delle masse nella vita sociale e politica, per effetto dell’estensione del suffragio, dell’urbanizzazione, della mobilitazione determinata dalla guerra.

[25] – Si veda Paolo Desogus, “La questione meridionale di Gramsci dall’economico-corporativo all’etico-politico”, in AAVV, A partire da Gramsci. Aspetti e problemi della questione meridionale oggi, Consecutio Rerum, Anno VII, n. 14, 2/2022-2023.

[26] – Su questo punto capitale si veda la ricostruzione della critica posta dalla teologia della liberazione in Visalli, A. Classe e partito, op.cit., cap. 3, p. 118 e seg. Oppure Assmann, H., Hinkelammert, F., Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia, Castelvecchi 2020 (ed. or. 1989); Dussel, E., Filosofia della liberazione, Queriniana, Brescia 1992 (ed or 1972); Gutiérrez, G., Teologia della liberazione, Queriniana, Brescia 1972 (ed. or. 1971).

[27] – Costa, V., L’assoluto e la storia. L’Europa a venire, a partire da Husserl, Morcelliana, Brescia 2023.

[28] – Visalli, A., “Vincenzo Costa, L’assoluto e la storia. L’Europa a venire, a partire da Husserl, Tempofertile, dicembre 2023.

[29] – Costa, V, Categorie della politica, op.cit., p. 150

[30] – Derrida, J. “Margini della filosofia”, Einaudi, Torino, 1997 (ed.or. 1972).

[31] – Costa, V., Categorie della politica, op.cit., p. 150

[32] – Si veda, per avvicinarsi alla complessità e pluralità intrinseca della cultura russa, Kappeler, A., La Russia. Storia di un impero multietnico, Edizioni Lavoro, Roma 2006 (ed. or. 2001).

[33] – Xi Jimping, “Gli scambi ed il mutuo apprendimento rendono le civiltà più ricche e variopinte”, discorso al quartier generale dell’Unesco, 27 marzo 2014, in Xi Jimping, “Governare la Cina”, Giunti Editore 2016.

[34] – Dialoghi di Confucio, “Zilu”. Si veda anche Lunyu 13,24, “he er bu tong”, dove “he” indica la corrispondenza tra i suoni, nella quale ognuno esprime pienamente la propria potenzialità articolandosi in perfetta sintonia con gli altri, questa parola implica consenso (gongshi) che tiene tutti in gioco. Esclusione e conflitto sono l’opposto del concetto di ‘armonia’ (una traduzione possibile di “he”) che implica l’impegno di mediazione tra tutte le parti in gioco allo scopo di realizzare una società che incontri il massimo consenso di tutti, dando ascolto anche ad istanze diverse e contraddittorie, senza indulgere né nell’autoritarismo di sceglierne una né nel libertarismo di lasciarle senza armonia. La tensione tra ordine (zhi) e disordine (luan), sia a livello sociale sia individuale e spirituale, è alla radice del perseguimento dell’armonia nella ricerca costante del miglior punto di equilibrio tra le forze in gioco.

[35] – Xi Jimping, cit., p. 324

[36] – Heidegger, M., Saggi e discorsi, Mursia 1991, “La questione delle tecnica”.

[37] – Su questo si veda, ad esempio Taylor, C., L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2007 (ed. or. 2007).

[38] – Heidegger, M., L’abbandono, Il melangolo, Genova, 1983

[39] – Laozi, Daodejing. Il canone della Via e della Virtù, Einaudi, Torino, 2018, p. 127 e seg.

[40] – Hou, Y., Cosmotecnica, Nero 2021 (ed.or. 2016), p. 27

[41] – Hou, op.cit., p. 43

[42] – Si veda Greengrass, M., La cristianità in frantumi. Europa 1517-1648, Laterza, Bari-Roma 2014 (ed.or 2014).

[43] – Tra tanti si veda, ad esempio, Gosh, A., La maledizione della noce moscata. Parabole per un pianeta in crisi, Neri Pozza, Vicenza 2022 (ed. or. 2021); Dalrymple, W., Anarchia, Adelphi, 2022 (ed. or. 2019); Todorov, T., La conquista dell’America. Il problema dell’altro, Einaudi, Torino 1984 (ed. or. 1982); Galeano, E., Le vene aperte dell’America Latina, Sperling & Kupfer, 2015 (ed.or., 1997); Reinhard, W., Storia del colonialismo, Einaudi, Torino 2002 (ed. or. 1966); Hochschild, A., Gli spettri del Congo. Storia di un genocidio dimenticato, Garzanti, Milano 2022 (ed. or. 2020); Green, T., Per un pugno di conchiglie. L’Africa occidentale dall’inizio della tratta degli schiavi all’Età delle rivoluzioni, Einaudi, Torino 2021 (ed. or. 2019); Lowell, J., La guerra dell’oppio e la nascita della Cina moderna, Einaudi, Torino 2022 (ed. or. 2011); French, H., L’Africa e la nascita del mondo moderno, Rizzoli, 2023 (ed. or. 2021).

[44] – Si veda Sen, A., L’altra India. La tradizione razionalista e scettica alle radici della cultura indiana, Mondadori, Milano 2005, (ed. or. 2005)

[45] – Poskett, J., Orizzonti. Una storia globale della scienza, Einaudi, Torino 2022 (ed. or. 2022).

[46] – Russo, L., La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli, Milano 1996.

[47] – Russo, L., Il tracollo culturale. La conquista romana del Mediterraneo (146 -145 a.C.), Carocci, 2022.

[48] – Russo, L., La rivoluzione dimenticata, op.cit., p. 401 e seg. Si veda anche, Russo, L., Santoni E., Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia, Feltrinelli, Milano 2010.

[49] – Tra i testi che mi pare possano individuare, se non altro per rendere più complessa da costituzione di questo enunciato c’è la “Introduzione” a Husserl, E., Fenomenologia dello spazio e della geometria, Morcelliana, Brescia 2021 (a cura di Vincenzo Costa); Costa, V., Esperienza e realtà. La prospettiva fenomenologica, Morcelliana, Brescia, 2021; Costa, V., Husserl, Carocci, Roma 2009; Costa, V., Il movimento fenomenologico, Morcelliana, Brescia, 2014; Costa, V., Distanti da sé. Verso una fenomenologia della volontà, Jaca Book, Milano 2011; Costa, V., Fenomenologia dell’intersoggettività. Empatia, socialità, cultura, Carocci, Roma 2010.

[50] – Costa, V., Categorie della politica, op.cit., p. 151

[51] – Costa, V., cit., p. 153

[52] – Cfr. Visalli, A., Classe e partito, op.cit., cap. 1, p. 39 e seg.

[53] – Cfr. Visalli, A., Classe e partito, op.cit., cap 2.

ll sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure PayPal.Me/italiaeilmondo  Su PayPal, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)

L’istituzionalizzazione dei BRICS: Dalla revisione della letteratura alla realizzazione della realtà_ Di Evelina Fokina

L’istituzionalizzazione dei BRICS: Dalla revisione della letteratura alla realizzazione della realtà
Di Evelina Fokina

Man mano che il BRICS si consolida, ci si chiede quale sia il tipo di istituzionalizzazione di cui il gruppo ha bisogno per renderlo più efficace e per dargli più contenuto. -Suresh P. Singh e Memory Dube

Con l’espansione del gruppo, la necessità di istituzionalizzazione e di creazione di apparati è diventata apparentemente più visibile. Ai fini dell’articolo, l’istituzionalizzazione è definita come “l’atto o il processo di stabilire un gruppo, un movimento, un programma, ecc. come entità permanente e pubblicamente riconosciuta per la promozione di una particolare causa”. Questo processo di creazione di istituzioni è considerato cruciale per la fornitura di strutture e la realizzazione di risultati. Pertanto, affinché le ambizioni del gruppo possano essere raggiunte, è necessario considerare alcuni degli ostacoli che si frappongono a un’istituzionalizzazione di successo e proporre una struttura unica. L’articolo si articola come segue: inizia con una rassegna della letteratura, passando poi all’analisi delle istituzioni esistenti e simili a quelle dei BRICS, per dare ulteriore considerazione alle specificità dei BRICS come alleanza.

Importanti studiosi hanno avanzato vari suggerimenti sulle pratiche di istituzionalizzazione del gruppo, il principale dei quali fa riferimento alla creazione della NDB e della CRA come “il primo tentativo riuscito di istituzionalizzare il gruppo”, o “un passo importante verso l’istituzionalizzazione di un’agenda economica”. Tuttavia, per una chiara creazione dell’istituzione, occorre riflettere sul tipo di istituzione in questione. Nel 2014, alla luce del 6° Forum accademico dei BRICS, l’Institute of Applied Economic Research (IPEA) ha condiviso una breve descrizione dell’alleanza: “Come gruppo, i BRICS hanno un carattere informale. Non esiste uno statuto, non lavora con un segretariato fisso e non dispone di fondi per finanziare le sue attività. In definitiva, ciò che sostiene il meccanismo è la volontà politica dei suoi membri. Tuttavia, i BRICS hanno un grado di istituzionalizzazione che si definisce man mano che i cinque Paesi intensificano la loro interazione”. Inoltre, con le attuali caratteristiche dei BRICS, l’alleanza viene spesso paragonata al G7, “un gruppo informale di democrazie avanzate che si riunisce annualmente per coordinare la politica economica globale e affrontare altre questioni transnazionali”, e analogamente manca di qualsiasi base legale o istituzionale. Tale collegamento è comprensibile a causa di una struttura informale molto simile, che comprende, tra l’altro, vertici annuali dei capi di Stato e di governo con presidenza a rotazione, riunioni ministeriali e gruppi di lavoro. Nonostante i frequenti paragoni, i rappresentanti dei BRICS sottolineano che: “Non vogliamo essere un contrappunto al G7, al G20 o agli Stati Uniti”. Inoltre, l’ambito funzionale del gruppo si è ampliato sia in larghezza che in profondità; la natura dell’alleanza comprende una combinazione di caratteristiche uniche e rivendicazioni per la cooperazione Sud-Sud; l’espansione del gruppo è diventata un fattore promettente per il suo ruolo nell’arena internazionale. Pertanto, pur non essendo un’organizzazione intergovernativa (IGO) formale, esistono i prerequisiti per una tale tendenza. Pertanto, ai fini dell’articolo, l’alleanza BRICS è definita come un’organizzazione intergovernativa informale che naturalmente richiede un’ulteriore istituzionalizzazione per un livello più elevato di operatività e funzionalità.

“L’istituzionalizzazione informale, caratterizzata dalla preferenza per accordi informali basati su convenzioni e comprensione reciproca piuttosto che su regole formali, pone chiari limiti alla potenziale capacità di azione”, ha affermato Jens-Uwe Wunderlich. L’autore prosegue: “Al contrario, un’istituzionalizzazione più formalizzata migliora la coesione interna e la rappresentanza negli affari internazionali”. Pertanto, il processo di costruzione delle istituzioni ha un impatto sull’agire internazionale in vari modi: “In primo luogo, determina le questioni di rappresentanza. In secondo luogo, influenza la coesione interna attraverso una cultura di regole, norme e meccanismi di conformità. In terzo luogo, definisce i processi decisionali e l’articolazione degli interessi collettivi”. Inoltre, è fondamentale sottolineare le carenze istituzionali individuate nel gap capacità-aspettative (CEG) da Christopher Hill. Commentando la creazione del concetto, l’autore indica che “il divario tra capacità e aspettative [era] visto come la differenza significativa che si era creata tra la miriade di speranze e richieste dell’UE come attore internazionale e la sua capacità relativamente limitata di realizzarle”. Facendo un paragone con lo sviluppo dei BRICS nel tempo, si potrebbe sostenere che il CEG, composto da risorse, strumenti e coesione da un lato e aspettative interne ed esterne dall’altro, si è ridotto grazie alla crescente gamma di capacità e a un livello di aspettative proporzionato. Nonostante alcuni autori sostengano che le organizzazioni informali offrano un certo grado di flessibilità e adattamento e siano quindi più attraenti per alcuni attori, tutti questi argomenti attestano l’importanza dell’istituzionalizzazione.

Un articolo sostiene che le tre caratteristiche principali sono predominanti nell’identificazione delle istituzioni, ovvero: a) il sistema di deliberazione, “gli spazi istituzionali in cui gli Stati svolgono il processo di negoziazione per stabilire un accordo o un consenso”, b) il sistema informativo, “l’insieme di norme e regolamenti volti a risolvere e regolare i flussi di informazione prodotti istituzionalmente”, e c) il sistema di incentivi istituzionali, “l’insieme di norme e regole che disciplinano il comportamento degli attori al fine di indurre determinati comportamenti e scoraggiarne altri”. Per quanto riguarda i BRICS, le pratiche istituzionali comprendono spazi di deliberazione come i vertici esecutivi annuali, le riunioni ministeriali, principalmente nei settori della finanza, degli affari esteri e della sanità, le riunioni tecnico-burocratiche, autonome o delegate, e i contatti interpersonali. Inoltre, il documento rileva l’importanza delle dichiarazioni come risultato principale nell’ambito del sistema informativo. Infine, vengono forniti gli incentivi istituzionali, tra i quali quelli economici e finanziari sono ampiamente rappresentati dalla creazione della NDB e della CRA. L’autore conclude che l’intergovernativismo predomina nelle relazioni dei membri, sottolineando che essi “[…] non hanno rinunciato a nessun tipo di sovranità di fronte alle organizzazioni BRICS, ma hanno cercato di stabilire norme e regole comuni che permettessero loro di raggiungere il consenso necessario senza dover rinunciare a competenze sovrane lungo il percorso”. In effetti, l’opinione più diffusa sull’istituzionalizzazione dei BRICS suggerisce che i processi sono già iniziati con la creazione della Nuova Banca di Sviluppo (NDB) e del Contingent Reserve Arrangement (CRA). Un altro studio considera il grado di istituzionalizzazione del gruppo nell’ambito del suo outreach, ovvero “l’interazione collaborativa tra gli attori BRICS […] e altri attori all’interno e all’esterno dell’area BRICS”. Lo studio suggerisce che “l’istituzionalizzazione dell’outreach dei BRICS è una funzione della coesione della strategia di outreach dei BRICS, che a sua volta è legata alla coesione politica complessiva dei BRICS”, e conclude che la sfiducia, le divergenze e la natura relativamente immatura del gruppo sono i principali ostacoli al consolidamento. Significativamente, la NDB “presenta un grado più elevato di istituzionalizzazione e […] di coesione politica nell’ambito tematico del finanziamento delle infrastrutture”. Al contrario, un rapporto del Comitato nazionale per la ricerca sui BRICS sostiene che l’alleanza sia “un nucleo consolidante di civiltà e potenze in ascesa”. Inoltre, il documento ipotizza che: “Ciò implica l’istituzionalizzazione dei BRICS come unione intercivile a tutti gli effetti con il Segretariato Generale, con l’interazione tra gli organi esecutivi, legislativi e settoriali, la base scientifica, educativa e informativa, basandosi su un sistema di accordi interstatali”.

Un documento di ricerca ha proposto quattro possibili forme di istituzionalizzazione del gruppo:

– conservativa – sviluppo dei processi di istituzionalizzazione lungo il percorso tradizionale di espansione della cooperazione,

– sviluppo più attivo delle relazioni bilaterali e utilizzo delle migliori pratiche bilaterali per creare nuovi meccanismi di interazione multilaterale nel quadro dei BRICS,

– interazione più attiva dei singoli partecipanti ai BRICS nell’ambito di altre organizzazioni internazionali di cui fanno parte, e successiva implementazione di tali meccanismi all’interno dell’alleanza BRICS, e

– la creazione di nuove istituzioni che avrebbero un effetto moltiplicatore sullo sviluppo del gruppo (ad esempio, la NDB).

Questo articolo suggerisce che tutte le suddette forme di processi di istituzionalizzazione possono essere presenti e intrecciate all’interno dell’alleanza BRICS. Commentando le prospettive di istituzionalizzazione, un altro articolo propone un modello di integrazione orizzontale mainstream in cui non esiste una rigida subordinazione o interdipendenza di integrazione, che corrisponde quindi ai principi principali della creazione del multipolarismo. Gleb Toropchin menziona la mancanza di istituzionalizzazione ufficiale, sottolineando inoltre che: “Tuttavia, nella pratica, i principi dell’esistenza dei BRICS sono già stati definiti de facto, e la loro incorporazione è il prossimo passo in questa direzione”.

In effetti, esiste un grado sostanziale di meccanismi operativi esistenti che potrebbero diventare la base istituzionale del gruppo. La missione del Forum parlamentare dei BRICS “è quella di intensificare gli sforzi concertati per affrontare le preoccupazioni reciproche e rafforzare costantemente le relazioni interparlamentari degli Stati membri dei BRICS, sottolineando il fatto che una solida cooperazione parlamentare è fondamentale per l’essenza della cooperazione dei BRICS”. In effetti, il Consiglio della Federazione dell’Assemblea federale della Federazione Russa ha pubblicato una nota dopo il XV Vertice BRICS, in cui ha sottolineato il suo sostegno a “ulteriori sforzi verso un BRICS più inclusivo, l’istituzionalizzazione della sua dimensione parlamentare e l’espansione dei contatti interpersonali”. Le riunioni ministeriali e degli alti rappresentanti diventano una caratteristica più ricorrente all’interno di questa organizzazione intergovernativa, consentendo agli attori di scambiare opinioni sulle principali questioni globali e regionali. Inoltre, esiste già una natura complessa di cooperazione in ambiti diversi, che può essere rintracciata nel contenuto delle dichiarazioni annuali del gruppo. Nella sfera della sicurezza, le nazioni ricordano la loro determinazione per la pace e lo sviluppo secondo i principi delle “soluzioni africane ai problemi africani”, il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra il Regno dell’Arabia Saudita e la Repubblica Islamica dell’Iran, la promozione di una soluzione duratura alla crisi siriana e molte altre. Nello stesso ambito, si fa spesso appello al rafforzamento del disarmo e della non proliferazione. Inoltre, le misure antiterrorismo rimangono di grande importanza. Sul fronte economico, si possono ricordare la Strategia per il Partenariato Economico BRICS 2025, la Strategia sulla Cooperazione per la Sicurezza Alimentare dei Paesi BRICS, il Gruppo di Lavoro sull’Economia Digitale BRICS, il Partenariato BRICS sulla Nuova Rivoluzione Industriale (PartNIR) e molti altri. Sono stati firmati numerosi documenti nei settori delle finanze, del commercio e dell’innovazione, come l’Intesa BRICS sulla facilitazione degli investimenti, il Memorandum dei principi delle DFI BRICS per un finanziamento responsabile e il Memorandum d’intesa tra le Agenzie BRICS per la promozione del commercio e degli investimenti (TIPA)/Organizzazioni di promozione commerciale (TPO), tra gli altri. Inoltre, un’attenzione particolare è riservata allo sviluppo sostenibile, in cui viene riaffermato il principio delle responsabilità comuni ma differenziate e delle capacità rispettive (CBDR-RC). Infine, il BRICS Academic Forum, il BRICS Think Tank Council e il lavoro generale del BRICS Working Group on Culture sono alcuni degli esempi di cooperazione “people-to-people” in ambito culturale. Pertanto, l’ambito di lavoro dell’alleanza è ampio e richiede un meccanismo di operatività più coordinato, soprattutto alla luce dell’espansione del gruppo. Di seguito, criteri teorici e pratici vengono combinati per proporre una struttura istituzionale dei BRICS.

Considerando il quadro teorico, le OIG sono create attraverso trattati multilaterali “che agiscono come una costituzione, in quanto gli Stati contraenti acconsentono a essere vincolati dal trattato che stabilisce le agenzie, le funzioni e gli scopi dell’organizzazione”. Inoltre, una OIG richiede un organo legislativo che crei atti giuridici e quindi vincoli i suoi membri in base al diritto internazionale, un organo esecutivo che ne faciliti l’operatività e un meccanismo di risoluzione delle controversie. La struttura generale consiste in “un piccolo consiglio esecutivo, un’assemblea plenaria in cui sono rappresentati tutti i membri […], un segretariato che svolge le attività amministrative quotidiane dell’organizzazione e organi sussidiari che svolgono funzioni speciali”.

Considerando le implicazioni pratiche, si potrebbe fare un confronto con le organizzazioni intergovernative che hanno subito un processo di istituzionalizzazione. Alice D. Ba esplora le pratiche di istituzionalizzazione dell’ASEAN e sostiene una concezione più anticonvenzionale, secondo la quale “alcune delle pratiche più durature (“istituzionalizzate”) non sono affatto il prodotto di strutture legali o applicate a livello centrale, ma piuttosto le norme disciplinari e le convenzioni sociali di una determinata comunità”. L’autore sottolinea inoltre l’importanza del principio di non interferenza che si riflette nella natura della cooperazione, non “necessariamente armonizzata nel senso di standardizzazione o omogeneizzazione”. Inoltre, Alice D. Ba commenta che: “Il processo decisionale basato sul consenso contrasta con il processo decisionale basato sulle regole della maggioranza, in cui gli Stati minoritari devono subordinare le proprie preoccupazioni a quelle della maggioranza. Il consenso riguarda il rispetto dell’autodeterminazione nazionale e l’accomodamento reciproco verso un risultato che tutti possono sostenere”. La mancanza di meccanismi vincolanti e la conseguente non conformità sono citati tra le carenze di tale struttura organizzativa. Alice D. Ba risponde che “essi esercitano comunque forti pressioni normative sui tipi di cooperazione che gli Stati sono in grado di perseguire” nella regione e devono essere considerati non sotto le forme legali e contrattuali della cooperazione, ma alla luce dell’istituzionalizzazione come “il processo attraverso il quale le pratiche sono rese più affidabili”. Anticipando le potenziali critiche per l’eterogeneità del gruppo e le attuali controversie bilaterali e facendo un paragone con i Paesi dell’ASEAN, il fatto di tenere i conflitti bilaterali fuori dall’agenda dell’organizzazione o di fare riferimento ad altre organizzazioni internazionali per la risoluzione delle controversie non è contrario alle sue norme e pratiche. Tutte queste caratteristiche potrebbero essere prese in considerazione per la costruzione istituzionale dei BRICS.

Le proposte avanzate di seguito presuppongono che il gruppo decida di approfondire i suoi processi di integrazione e di diventare un’alleanza formale, rispettando allo stesso tempo la sovranità e l’integrità territoriale di ogni Stato, senza imporre decisioni obbligatorie ma rafforzando le premesse di istituzionalizzazione già esistenti e assicurando il suo ruolo sulla scena internazionale. Per questo motivo, si potrebbe fare un paragone parallelo con l’ASEAN o il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), piuttosto che con l’Unione Europea, a causa dei profondi processi di integrazione che sottendono il principio di non interferenza fortemente presente in quest’ultima. La Carta dell’ASEAN, ad esempio, afferma direttamente il “rispetto dell’indipendenza, della sovranità, dell’uguaglianza, dell’integrità territoriale e dell’identità nazionale di tutti gli Stati membri dell’ASEAN” e la “non interferenza negli affari interni degli Stati membri dell’ASEAN”. È importante notare che l’articolo 5.2 menziona “l’emanazione di un’appropriata legislazione nazionale, per attuare efficacemente le disposizioni della presente Carta e per rispettare tutti gli obblighi derivanti dall’adesione”. Pertanto, la creazione della Carta sarebbe vista come il primo passo verso l’istituzionalizzazione e consentirebbe all’organizzazione di ottenere una personalità giuridica, di migliorare la responsabilità e la conformità istituzionale e di rafforzare il ruolo dei BRICS come attore internazionale serio. In seguito, i processi potrebbero assumere varie modalità. In termini di integrazione strutturale, il principale organo decisionale potrebbe comprendere tutti gli Stati membri su un piano di parità sotto forma di Commissione del Capo, sancendo così il principio del consenso. Facendo un parallelo con il Consiglio Supremo del CCG, esso “sarà formato dai capi degli Stati membri” e “la sua presidenza sarà a rotazione in base all’ordine alfabetico dei nomi degli Stati membri”, ricordando chiaramente la struttura organizzativa dei Vertici BRICS. Analogamente, le funzioni del Vertice dell’ASEAN (articolo 7 della Carta), come la fornitura di orientamenti politici, le istruzioni ministeriali e la gestione delle situazioni di emergenza, tra le altre, potrebbero essere racchiuse nell’ampiezza della funzionalità di un organo simile del Vertice BRICS. Il potenziale ramo legislativo potrebbe essere rappresentato sotto forma di Parlamento e Consiglio ministeriale dei BRICS. Sempre facendo riferimento alla Carta del CCG, le funzioni di tale organo consisterebbero in, ma non solo, quanto segue: “Proporre politiche, preparare raccomandazioni, studi e progetti volti a sviluppare la cooperazione e il coordinamento tra gli Stati membri in vari settori e adottare le risoluzioni o le raccomandazioni necessarie a questo proposito”. Per migliorare il coordinamento amministrativo, potrebbe essere nominato il Segretariato BRICS, composto da segreterie nazionali indipendenti. Infine, sarà istituita la Commissione per la risoluzione delle controversie per fornire meccanismi di risoluzione delle controversie interne.

In termini di costruzione istituzionale orizzontale, si dovrebbe prestare particolare attenzione alla determinazione di sotto-organi settoriali. Le principali aree di cooperazione potrebbero essere rintracciate attraverso le dichiarazioni del gruppo e l’orientamento dei vertici. Da questo punto di vista, quindi, si potrebbero considerare i potenziali organi da istituire. Per citare i più visibili, la divisione potrebbe essere fatta lungo le tre sfere principali: a) politico-sicurezza, b) economico-finanziaria e c) socio-culturale – tutte in accordo con i valori e i principi fondamentali dello sviluppo sostenibile dei BRICS. Questi organi principali dovrebbero avere una struttura organizzativa con principi e linee guida concordate e pienamente condivise. Per evitare la creazione di un’altra organizzazione, si potrebbero adottare misure più proattive e sostanziali in ogni campo. Ad esempio, l’istituzione di un gruppo di lavoro antiterrorismo in una regione soggetta ad alti livelli di atti terroristici, la fusione degli sforzi con l’Unione Africana e la Comunità dei Caraibi (Caricom) per la creazione di un fondo di riparazione, o l’alleggerimento dei requisiti e delle procedure per i visti tra i Paesi alleati. Oltre ai principali sotto-organismi, potrebbe essere istituito un organo speciale di coordinamento degli sforzi regionali. Un ruolo importante nel XV Vertice BRICS è stato dedicato all’Area di libero scambio continentale africana (AfCFTA). È importante notare che gli Stati membri dei BRICS comprendono un’ampia rete di organizzazioni regionali come l’Unione Economica Eurasiatica (EAEU), l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), il Mercato Comune del Sud (MERCOSUR), l’Unione Africana (UA) e l’Associazione per la Cooperazione Regionale dell’Asia Meridionale (SAARC), creando così una sorta di alleanza BRICS Plus o BRICS Outreach, che dovrebbe essere coordinata per migliorarne l’efficienza. È importante che i meccanismi di monitoraggio e valutazione siano sottoposti a un rigoroso controllo a ogni livello delle operazioni, per evitare una cattiva gestione dovuta all’ampio raggio d’azione dell’organizzazione e dei suoi organi. “È necessario che i risultati siano orientati agli obiettivi e vincolati a scadenze precise, accompagnati da misure e meccanismi appropriati per la consegna e l’attuazione, legati a sistemi di monitoraggio adeguati”, hanno osservato Suresh P. Singh e Memory Dube sul “modo definitivo di consolidare l’istituzionalizzazione dei BRICS”.

Un’attenzione particolare va rivolta ancora una volta agli scopi di questa alleanza. Per garantire un mondo veramente multipolare, i Paesi del Nord globale dovrebbero essere invitati a impegnarsi con il gruppo in vari campi e a far parte del potere decisionale, ma con un’attenta considerazione degli interessi di tutte le parti in gioco. Tra le altre raccomandazioni, alcuni autori richiamano l’attenzione sulla promozione dell’apprendimento tra pari, sull’espansione della dimensione di base della società civile e sulla spesa per la ricerca e lo sviluppo.

Non c’è accordo sulla definizione del gruppo. L’articolo ha stabilito che l’alleanza, nella sua fase attuale, rappresenta un’organizzazione intergovernativa informale, che può quindi diventare formale con ulteriori processi di istituzionalizzazione. Il quadro teorico dell’istituzionalizzazione è stato oggetto di un’ampia serie di considerazioni. In breve, la revisione della letteratura è stata proposta per considerare diversi punti di vista sul posizionamento dei BRICS, sia nei suoi processi di istituzionalizzazione che nella struttura generale della cooperazione Sud-Sud. Inoltre, l’articolo ha preso in considerazione i meccanismi di cooperazione esistenti che potrebbero servire da base per l’istituzionalizzazione, come il Forum parlamentare dei BRICS o il Gruppo di lavoro sull’economia digitale dei BRICS. La transizione dell’ASEAN verso un organismo internazionale formale è stata considerata un potenziale modello, soprattutto per le sue analogie con le caratteristiche dei BRICS, come i processi decisionali consensuali o la rigida posizione di non interferenza. Alcuni spunti rilevanti sono stati dati dal confronto con il CCG. Infine, è stata proposta una struttura istituzionale unica. Altri studiosi potrebbero contribuire all’analisi prendendo in considerazione un’alternativa di cooperazione istituzionale funzionale caso per caso, o facendo paragoni con altre organizzazioni che hanno subito l’istituzionalizzazione.

Evelina Fokina – Laurea, Università di Roma Tor Vergata.

Diplomazia moderna

Fonte: moderndiplomacy.eu

ll sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure PayPal.Me/italiaeilmondo  Su PayPal, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)

Caratteristiche speciali della regione del Medio Oriente e del Nord Africa (MENA), di Vladislav B. Sotirovic

Caratteristiche speciali della regione del Medio Oriente e del Nord Africa (MENA)

Il Medio Oriente è stato la patria delle prime civiltà della storia del mondo. Qui sono nate le prime urbanizzazioni e l’alfabetizzazione. La regione del Medio Oriente comprende solitamente i territori che vanno dal litorale orientale del Mar Mediterraneo fino all’India, a est. In senso più ampio, geograficamente la regione comprende i territori del Mediterraneo orientale e dell’Asia centrale, ma molti americani, seguiti da altri accademici, politici e giornalisti occidentali, considerano il Medio Oriente e il Nord Africa (MENA) come un’unica regione.

La maggior parte degli abitanti dell’area MENA ha molti elementi in comune, come la lingua e la cultura araba, la confessione dell’Islam e così via, ma dall’altra parte esistono diverse minoranze etniche in ciascuno di questi Paesi regionali, mentre la religione islamica è divisa in due fazioni: i sunniti (maggioranza) e gli sciiti (minoranza).

Tutti gli Stati della regione del Medio Oriente e del Nord Africa (MENA) possono essere suddivisi in quattro sottoregioni (gruppi) etnico-geografici:

1) Gli Stati del Nord Africa;
2) Gli Stati del Golfo Persico;
3) gli Stati arabi centrali; e
4) Iran e Israele.

Il numero complessivo di abitanti di tutti questi Stati supera i 250 milioni (per fare un paragone, nell’UE a 28, cioè con il Regno Unito, c’erano circa 500 milioni di persone). La regione stessa vanta una cultura e una civiltà di circa 6.000 anni fa, ma la maggior parte delle nazioni attuali è relativamente nuova. In altre parole, ad eccezione dell’Iran e dell’Egitto, tutti gli altri Stati regionali sono apparsi nella loro forma attuale solo nel secolo scorso, in gran parte dopo la Prima guerra mondiale, ma alcuni di essi anche dopo la Seconda guerra mondiale (Israele). Il numero di Stati nella regione MENA può essere stabilito tenendo conto di almeno tre criteri: 1) il periodo storico; 2) le condizioni politiche; 3) la prospettiva geopolitica. Oggi si è soliti dire che nella regione MENA ci sono 24 Stati (con la Palestina) (ma con la Turchia e il Sudan 26). Tuttavia, lo Stato di Palestina non è ancora generalmente e formalmente riconosciuto come indipendente, come ci si aspettava che apparisse come tale tenendo conto dei risultati dei negoziati tra Israele e OLP (Roadmap per la pace).

Vale la pena notare che il primo Paese arabo moderno divenne l’Egitto di Muhammad Ali nella prima metà del XIX secolo, quando a causa dell’occupazione francese (napoleonica) l’Egitto conobbe alcune caratteristiche del “progresso europeo”. Di conseguenza, Muhammad Ali avviò alcune riforme di modernizzazione della società, come la creazione di un’organizzazione di governo moderna e più efficace, di un sistema economico razionale e di un esercito moderno, ristrutturato e riorganizzato secondo i principi bellici dell’Europa occidentale dell’epoca. Al Cairo è stato fondato il primo istituto di tipo occidentale, l’Istituto Egiziano, nel mondo arabo, con la funzione cruciale di diffondere gli scritti dei filosofi europei occidentali (soprattutto francesi) (come Russo e Volter).

La maggioranza delle popolazioni regionali sono arabe e musulmane. Il panarabismo è uno dei temi politici centrali della regione MENA nel XX e XXI secolo. In tempi recenti, tuttavia, la leadership del movimento panarabo è passata inizialmente nelle mani degli arabi cristiani del Libano e della Siria. Tuttavia, tutti i tentativi politici di formare una sorta di Repubblica Araba Unita sono falliti, ma ci sono storie di successo di integrazione economica macroregionale, ad esempio l’integrazione economica di sei Stati del Golfo Persico che hanno creato un Consiglio di Cooperazione del Golfo. Tuttavia, al posto della Repubblica Araba Unita esiste una Lega Araba (nata nel 1945 e oggi composta da 22 Stati membri) che promuove sistemi di comunicazione migliori per la regione utilizzando la lingua araba e l’ARABSAT (il sistema satellitare regionale arabo).

La scoperta e la produzione di petrolio sono probabilmente le caratteristiche peculiari della regione MENA (ma in particolare del Medio Oriente) nella storia contemporanea. Lo sviluppo economico e sociale di tutti i Paesi del Golfo ricchi di petrolio dipende quasi totalmente dalla politica di esportazione del petrolio e, pertanto, per una migliore cooperazione economica reciproca, le nazioni mediorientali produttrici di petrolio hanno fondato l’Organizzazione dei Paesi Arabi Esportatori di Petrolio (OAPEC), che è la variante regionale dell’OPEC globale (l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio). Di fatto, circa il 65-70% delle riserve petrolifere globali si trova nel territorio del Medio Oriente. L’estrazione e la raffinazione del petrolio svolgono un ruolo significativo sia nell’economia regionale che in quella mondiale e, pertanto, hanno un impatto significativo sul benessere e sulla politica della maggior parte dei Paesi occidentali (post-industriali) (in particolare del G7).

La mancanza di un tipo completo di “democrazia liberale” occidentale è un’altra caratteristica cruciale della regione MENA, poiché oggi le forme di governo regionali vanno dal puro autoritarismo (Arabia Saudita) ad alcune forme di esperimenti democratici basati sul modello occidentale (Libano o Israele), seguiti da regimi musulmani governati da leader religiosi (Iran dopo il 1979). Dei 22 Stati della Lega Araba oggi, 8 sono repubbliche (tra cui la Repubblica islamica di Mauritania e la Repubblica socialista Baath di Siria), 7 sono monarchie, 4 hanno un governo monopartitico, gli Emirati Arabi Uniti sono una federazione politica di sceiccati, la Somalia è, di fatto, priva di una governance funzionante e, infine, la Palestina non ha una chiara tipologia di governo e nemmeno di Stato. In generale, per quanto riguarda la politica, la regione è ancora in transizione evolutiva come risultato della modernizzazione, dell’occidentalizzazione e della globalizzazione, compresi i riferimenti allo sviluppo economico ed educativo con le attuali tendenze alla radicalizzazione dell’Islam come ideologia anticoloniale contro l’imperialismo occidentale post-industriale e la politica sionista israeliana (sostenuta dagli Stati Uniti) di apartheid (segregazione e discriminazione) e pulizia etnica.

Un antico conflitto tra due fazioni islamiche – i musulmani sunniti e quelli sciiti – è un’altra caratteristica della divisione della regione del Medio Oriente e del Nord Africa. La prima divisione all’interno dell’Islam nacque subito dopo la morte del Profeta Maometto, nel 632 d.C., quando il mondo islamico degli arabi si divise tra coloro che avevano la pretesa di ereditare il potere religioso dopo la morte del Profeta. Si crearono due fazioni principali con rivendicazioni diverse. La fazione sunnita sosteneva che il potere religioso del Califfo dopo il 632 d.C. fosse passato ad Abu Bakr – suocero di Maometto, mentre la fazione sciita (“Seguaci di Ali”) rivendicava il potere religioso al cugino e genero del Profeta – Ali ibn Abi Talib. L’assassinio del terzo Califfo, Uthman ibn Affan, nel 656, e l’elezione di Ali ibn Abi Talib alimentarono il primo conflitto armato (guerra civile) tra i musulmani, che si concluse con la Battaglia del Cammello, il 7 novembre 656, nell’attuale Iraq, a Bassora, tra i sostenitori di Aisha (vedova del Profeta) e quelli di Ali ibn Abi Talib (quarto Califfo e genero del Profeta), che vinsero la battaglia contro Aisha. Tuttavia, fu solo dopo l’assassinio di Ali e, qualche anno dopo, di suo figlio Hussein ibn Ali nella battaglia di Karbala, il 10 ottobre 680 nell’attuale Iraq, che l’Islam andò incontro a una scissione dogmatica e politica. I musulmani sciiti rifiutano la legittimità dei primi tre califfi che, invece, i musulmani sunniti seguono, avendo allo stesso tempo alcune differenze dottrinali e politiche con i sunniti. La percentuale maggiore di musulmani sciiti oggi in Medio Oriente si trova in Iran (90-95%), Bahrein (65-75%), Iraq (60-70%), Libano (45-55%) e Yemen (30-40%).

L’ultima caratteristica importante del Medio Oriente è la violenza settaria e il suo impatto in alcuni Stati regionali. Di seguito verranno citati diversi casi:

1. Il governo saudita è composto da sunniti e la stessa monarchia al potere appartiene esclusivamente alla fazione sunnita che è in costante competizione con l’Iran sciita. Il governo dell’Arabia Saudita teme che la Repubblica islamica teocratica sciita dell’Iran possa creare gravi disordini all’interno delle comunità sciite sia saudite che del Golfo. Tuttavia, sia l’Iran che l’Arabia Saudita, in realtà, pretendono di diventare la prima potenza della regione.
2. La maggioranza della popolazione del Bahrein è di fede sciita, ma al potere c’è una monarchia sunnita. Ispirati dalla Primavera araba del 2011, i credenti sciiti hanno iniziato a manifestare i loro diritti politici, ma senza il sostegno dell’amministrazione statunitense. Le autorità governative sunnite del Bahrein e i suoi alleati, tra cui l’Arabia Saudita, hanno represso violentemente le proteste, uccidendo centinaia di civili.
3. In Iraq, per lungo tempo, la maggioranza sciita del Paese è stata oppressa dal regime sunnita di Baghdad. Dobbiamo ricordare che in Iraq esistono i siti religiosi più sacri per i musulmani sciiti. Dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003, sono saliti al potere e la popolazione sciita ha iniziato a prendere di mira la comunità sunnita. I fedeli sunniti sono stati perseguitati e torturati dagli squadroni della morte sciiti e, in risposta alla crescente violenza contro di loro, i sunniti iracheni hanno commesso diversi attacchi suicidi e attentati. Di conseguenza, il settarismo religioso sciita-sunnita in Iraq ha esacerbato gli atteggiamenti nazionalistici e fondamentalistici dei musulmani sciiti al potere e ha contribuito al rafforzamento del sostegno sunnita all’ISIS (ISIL, DAESH).
4. Per l’Iran, la cosa più importante è proteggere i propri interessi regionali, tra cui i diritti della popolazione sciita all’estero. Ad esempio, dopo la rivoluzione islamica iraniana del 1979 che ha portato al potere il governo sciita di Teheran, l’Iran ha iniziato a finanziare e incoraggiare le rivolte sciite nella regione orientale dell’Arabia Saudita, ricca di riserve petrolifere. Il governo iraniano sostiene anche il governo dell’alawita (un ramo dell’Islam sciita) Assad in Siria, che fa da ponte con il Libano.
5. Nello Yemen, i ribelli Houthi, situati prevalentemente nella parte settentrionale del Paese, sono musulmani sciiti e rappresentano circa 1/3 della popolazione totale. Gli Houthi sono riusciti a forzare le dimissioni del Presidente Hadi, riconosciuto dalla comunità internazionale. Nonostante il fatto che durante la rivolta del 2014-2015 i ribelli sciiti abbiano assunto il controllo politico, la maggior parte delle tribù sunnite dello Yemen meridionale non riconosce l’autorità sciita. Nel 2015 si è formata una coalizione di Stati arabi sotto la guida dell’Arabia Saudita per sostenere l’ex presidente Hadi contro i ribelli Houthi, che sono filo-iraniani. Ampie zone del territorio yemenita sono inoltre sotto il controllo del gruppo militante sunnita al-Qaeda, che si oppone sia agli Houthi sciiti sia all’ex governo di Hadi. Il gruppo sunnita al-Qaeda in Yemen è stato per anni bersaglio della controversa campagna di droni degli Stati Uniti all’interno del Paese.
6. Infine, dietro la guerra civile siriana iniziata nel 2011 c’è, in sostanza, la violenza settaria. Il Presidente siriano al-Assad appartiene alla minoranza dei musulmani alawiti, un ramo della setta sciita. Gli alawiti prendono il nome da Ali ibn Abi Talib, cugino, genero e primo seguace maschio del Profeta Maometto (alawita = “seguace di Ali”). Le proteste contro il governo di Assad sono iniziate nel marzo 2011 e sono state violentemente represse. Tuttavia, la guerra civile siriana ha in parte contribuito a esacerbare i sentimenti di odio e risentimento tra le comunità sciite e sunnite del Paese. Durante il conflitto, l’Iran sciita e gli Hezbollah sciiti del Libano meridionale, nel momento di maggiore difficoltà per il regime di Assad, sono accorsi al fianco del Presidente Assad per impedirne la deposizione. Tuttavia, allo stesso modo, i combattenti sunniti del Fronte Jabhat al-Nusra e dell’ISIS sunnita stanno combattendo in Siria contro Assad. Dobbiamo tenere presente che Jabhat al-Nusra è il ramo siriano di al-Qaeda e che le monarchie sunnite del Golfo Persico e la Turchia sunnita sostengono finanziariamente e militarmente i combattenti dell’opposizione sunnita in Siria.
La regione del Medio Oriente e del Nord Africa è un’area in cui la geografia e la storia sono fattori importanti nella vita contemporanea delle persone. Ci sono molti popoli nativi della regione, per i quali l’area MENA è considerata la patria araba. Si riferisce a quelle terre in cui si parla la lingua araba (con tutti i dialetti). Si tratta di una regione unica al mondo dal punto di vista geografico, geopolitico e geostrategico, poiché qui si incontrano tre continenti (Europa, Africa e Asia) e perché è stata il punto focale dello sviluppo delle prime civiltà. Geologicamente, la sua topografia si è trasformata dopo l’era glaciale da un clima che sosteneva le praterie e i corsi d’acqua in vaste steppe e deserti. Intorno al 2000 a.C., il popolo pastorale degli ariani, o chiamati anche indo-iraniani, migrò in India e in Occidente e in Asia centrale, compreso l’odierno Iran (Persia) e i Paesi circostanti. Dal punto di vista strategico, la regione MENA è stata sempre considerata un territorio geostrategico di grande valore in quanto crocevia di scambi commerciali, fede, conflitti o sviluppo culturale.

In linea di massima, il tratto distintivo della regione è la cultura araba predominante, con alcuni contrasti nelle abitudini culturali tra, ad esempio, l’Arabia Saudita e l’Egitto. Inoltre, le caratteristiche culturali di diversi altri gruppi etnici e confessionali della regione MENA forniscono un quadro più completo dei popoli e delle sfide della regione.

Dr. Vladislav B. Sotirovic Caratteristiche speciali della regione del Medio Oriente e del Nord Africa (MENA)
Ex professore universitario
Ricercatore presso il Centro di Studi Geostrategici
Belgrado, Serbia
www.geostrategy.rs
sotirovic1967@gmail.com © Vladislav B. Sotirovic 2023
Disclaimer personale: l’autore scrive per questa pubblicazione a titolo privato e non rappresenta nessuno o nessuna organizzazione, se non le sue opinioni personali. Nulla di quanto scritto dall’autore deve essere confuso con le opinioni editoriali o le posizioni ufficiali di altri media o istituzioni.

ll sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure PayPal.Me/italiaeilmondo  Su PayPal, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)

L’IMPORTANTE È NON PARTECIPARE_di Pierluigi Fagan

L’IMPORTANTE È NON PARTECIPARE. La società demo-liberista tende a deviare la rabbia e lo scontento su tutto ciò che è per lei innocuo ed anzi, proficuo. Ecco allora l’ampio e coinvolgente gioco di società delle guerre culturali. Ve ne sono diverse versioni per diversi gusti e profili socio-psico-culturali.
Uno scenario che va molto è quello conservatori vs progressisti. Si tratta di due varianze dello spettro liberale classico, dai tempi dei tories e whigs inglesi del XVII secolo o repubblicani vs democratici americani. L’impianto della società è comune e ben accetto, si tratta solo di interpretarlo in chiave culturale più tradizionale o innovativa.
Un altro scenario è quello dei generi sessuali e dei sessi. Qui la varianza è su due livelli: c’è quello sessuale maschi vs femmine (o viceversa) o c’è quello dell’interpretazione sessuale arrivato ormai ad acronimo da codice fiscale: LGBTQIA2S ovvero Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender, Questioning, Intersex, Asexual e Two-Spirit. Ma credo ne esistano anche versioni più complesse, basta andare su un sito porno che sono lo shopping mall (ipermercato) del settore.
Ancora un altro scenario vede i maggioritari indigeni contro vari tipi di minoranze etniche, con una variante anche rispetto alle credenze religiose.
C’è anche quello anagrafico sebbene sia poco frequentato, quello tra anziani e giovani. S’è un po’ rivitalizzato durante il Covid con gli anziani più preoccupati della possibile infezione e sue conseguenze che imponevano come standard generale restrizioni delle sacre libertà giovanili, immuni o più resilienti verso il virus o convinti di esser tali.
Riguardo il contesto generale, troviamo la guerra climatico-ambientale e quella dell’opinione sulle guerre reali.
La guerra culturale sull’ambiente è oscurata da quella specifica sul clima: il clima sta cambiando? Sì, no? Perché, cosa o chi ne è la causa? L’importante è fare finta di occuparsi della realtà e soprattutto ridurre la complessità del tema eco-logico a slogan ed obiettivi deviati ed innocui per un modo economico la cui natura entropica è autoevidente dato il Secondo principio della termodinamica.
Quanto alle guerre di opinioni sulle guerre reali, abbiamo avuto due grandi festival in sequenza, quello ucraino-russo e quello israelo-palestinese. Sul primo, filo-americani, filo-russi, filo-pacifisti a priori o a posteriori, si sono dati sanguinosa battaglia per qualche mese, poi il filone della passione combattente si è esaurito. La guerra in quanto tale è andata avanti e soprattutto è andata sempre peggio per i filo-ucraini che non avevano mai sentito parlare di Ucraina e forse neanche sapevano dove trovarla sulla cartina. Poiché le guerre culturali sono mosse da posizioni morali effimere, l’attenzione si consuma presto, se poi il corrispondente concreto va anche male, meglio dimenticarle. Anche per non fare i conti di responsabilità con la tonnellata di stupidaggini che si sono dette, anche urlando con rabbia ed arrivando ad un niente dal voler mettere le mani addosso all’avversario d’opinione.
Il secondo festival è esploso in una baraonda di opinioni etno-religiose con nazisti, antisemiti, Shoa, minaccioso islam armato, grandi satana, civiltà vs barbarie et varia. A soli sessanta giorni dall’inizio del festival abbiamo: 1200 morti e 5000 feriti israeliani, 16.000 morti e 45.000 feriti stimati tra i palestinesi. Come inascoltati sostenevano all’inizio della tempesta, è oramai certo che -ovviamente- i vertici di Israele sapevano in anticipo dell’azione di Hamas&Co. È altrettanto chiaro come inascoltati sostenevano sin dall’inizio che il problema per Israele non era affatto Hamas, ma i palestinesi in quanto tali, quelli di Gaza in particolare. Forse le due cose sono collegate (far finta di non sapere nulla così da avere la scusa per perseguire il secondo scopo), ma fare abduzioni è complottismo. Così i 2,3 milioni di abitanti della striscia prima sono stati spinti verso sud, ora vengono attaccati proprio lì dove li si è concentrati così da fargli capire che semplicemente, se ne debbono andare. Dove, non è un problema di Tel Aviv. L’opinione morale filo-palestinese ha esaurito impeto per impotenza, lo scandalo è palese, sotto gli occhi di tutti, nessuno fa niente, per salvarsi dalla frustrazione da impotenza meglio volgere lo sguardo da altra parte. A sua volta, l’opinione morale filo-israeliana ha tolto lo sguardo perché vabbè, una reazione anche forte si capisce e si giustifica, una vera e propria guerra etnica magari no. Entrambi gli schieramenti però possono cambiare scenario ed entrare in uno di quelli descritti sopra.
Come nel ponte ologrammi di Star Trek, gli scenari sono infiniti. Intendiamoci, non è che il sottostante di queste guerre culturali sia inesistente, esiste. Tuttavia, non è affatto detto che sia correttamente rappresentato negli stereotipi culturali degli schieramenti d’opinione. Uno dei grandi vantaggi di queste guerre culturali è proprio sublimare le contraddizioni reali in un mondo di rappresentazione nette da offrire allo sdegno morale, suggerendo esiti deviati.
Ad esempio, non domandarsi che mondo sarebbe se la metà del Cielo avesse avuto ed avesse davvero la possibilità di esprimere il suo specifico (che è di origine bio-psichico evidente), ma offrirgli l’opportunità di diventare generale di corpo d’armata come fanno i maschi.
O domandarsi cosa mai ce ne dovrebbe fregare di come si innamorano o si eccitano o fanno sesso gli umani e perché mai qualcuno di tipo A dovrebbe esser meglio al tipo B.
O porsi davvero il problema di come convivere con complessi culturali diversi, né esagerando, né minimizzando il problema. O definire meglio cosa significa “convivere”, se accettiamo l’Altro o si può evitare “aiutandolo a casa sua” e nel caso, come. O magari scoprire che non sarebbe male importarne qualcuno visto che siamo in profondo inverno demografico che ci porterà a contare 10 milioni di connazionali in meno tra trenta anni. Ma “qualcuno” chi e come? O domandarci come mai un problema continentale non viene trattato a livello europeo.
O riflettere su quale è lo stato dell’assistenza sanitaria in Italia, la disponibilità ospedaliera, il rapporto tra pubblico e privato, gli occupati, la medicina di prossimità e la condizione ed organizzazione delle case per anziani quali siamo sempre di più (dove abbiamo primati mondiali).
O non ridurre la questione ecologica e climatica ad automobili elettriche che poi abbiamo anche scoperto che non sappiamo o possiamo produrre per via dello sbilancio tra costi di produzione e costi di acquisto, nonché scoprire che hanno bisogno di materie prime cinesi che però è il nostro nuovo grande nemico nello scontro tra democrazie ed autocrazie.
Quest’ultimo scontro foriero di altra guerra culturale che ha la stessa forma imposta al dibatto sessuale. Cosa mai ce ne dovrebbe fregare, ad esempio a noi europei, se i cinesi vivono in un paese dalla forma imperiale che però si definisce “comunista”? Perché potrebbero invadere Taiwan? Ma chi l’ha detto? Intanto Taiwan va ad elezioni presidenziali tra un mese e nei sondaggi il partito relativamente più filo-cinese è in testa sebbene di poco, quello più filo-americano o anti-cinese recupera ma siamo lì, un terzo che sulla questione è equidistante e si dedica più a questioni interne potrebbe fare da terzo incluso poggiandosi un po’ di qua o un po’ di là. La Cina dichiarò che la provincia ribelle doveva esse reintegrata entro il 2049, non c’è alcuna fretta ovvero non c’è alcuna attualità.
Così per le ragioni concrete sottostanti il conflitto ucraino che ci è costato non poco sotto molti punti di vista, pare inutilmente visto lo scontato esito e sul quale dovevano semmai domandarci perché non abbiamo fatto nulla per impedire che accadesse. Che poi vale anche per l’annosa questione israelo-palestinese. Salvo domandarci magari perché ci eccitiamo per l’autonomia dei taiwanesi e non di quella dei palestinesi che sono lì ad un tiro di schioppo. O che fine ha fatto l’eccitazione per questione curda? O magari domandarci perché non c’è una questione armena nel Nagorno-Kararabakh oggetto di pulizia etnica in corso ad opera degli azeri che poi sono i principali acquirenti di armi israeliane e base per tutte i nefandi commerci d’armi a base NATO, come ormai noto da tempo.
Il concetto di guerra culturale si deve ad un sociologo americano, non tutti gli americani hanno perso la ragione. Lo presentò in un libro del 1991 come lettura della struttura culturale a forte base morale riconducibile al mondo delle credenze spirituali. “Le visioni progressiste e ortodosse sono principalmente sistemi di comprensione morale. Identifica l’ortodossia come un punto di vista attraverso il quale la verità morale è statica, universale e sanzionata attraverso poteri divini; in contrasto al progressismo, che vede la verità morale come in evoluzione e contestuale. Questi due gruppi sono bloccati in un’eterna “guerra culturale” per affermare il dominio sulle varie entità istituzionali e sistemiche influenzate dalla prassi culturale contemporanea, in particolare i rami governativi dell’America.”. Si tratta, in sostanza, di un gioco sociale con valenze politiche tipicamente americano che noi abbiamo importato o ci è stato imposto a seguire Halloween, il Black Friday, l’NBA e Taylor Swift.
Nel catalogo delle guerre culturali manca quella tra i tanti sempre meno ricchi ed i pochi sempre più ricchi, quella è vietata, davvero amorale, scandalosa, abbietta.
Poiché fine di ogni gioco è intrattenere e divertire, si dice che l’importante non è vincere ma partecipare. Ma credo che dovremmo invece domandarci se partecipare o meno. Questi giochi di importazioni a volte attecchiscono a volte no, ci fu anche la sfuriata delle sale Bingo poi diventate deserti spettrali e patetici per mancanza di allocchi. Forse prima di imbracciare la tastiera per urlare al mondo il nostro sdegno o la nostra accorata passione per l’opinione A o B, dovremo domandarci perché ci vogliono intrattenere e far divertire quando ci sono tante cose nel mondo concreto intorno a noi che non vanno affatto bene. Astenersi, a volte, è meglio che partecipare. Non cambia nulla lo stesso, ma almeno si salva la dignità di non contribuire a tenere in piedi queste macchine del nonsenso in cerca di consenso per fini non nostri.
L’ORIGINE DELLE IMMAGINI DI MONDO. All’oggi di centosessantaquattro anni fa, esce la prima edizione dell’Origine delle specie di C. Darwin.
A testimonianza di come noi spesso discutiamo di discorsi fatti da altri e non di discorsi attinenti ai fatti segnalo due punti.
Il primo è che nella prima edizione dell’Origine (1859) ed in quelle successive fino a quella che sopraggiunse ventitré anni dopo che recepiva i toni del dibattito svoltosi nel frattempo, Darwin non usò mai il termine “evoluzione”. Ricorda un po’ il caso di “capitalismo” in Marx, anche in questo caso un concetto non proprio del sistema di pensiero del tedesco, rilanciato in verità solo nel 1902 da un sociologo, W. Sombart. In effetti, così come Marx non era marxista, Darwin non era darwinista.
Evoluzione è termine derivato dal latino ciceroniano dove significava l’atto di srotolare una pergamena. Lo si poteva intendere come “svolgimento” e nel caso in questione come “trasformazione”. Il senso stesso dell’opera di Darwin era sostenere, cosa inedita per i tempi per quanto a noi nota e banale, che le specie cambiano nel tempo. L’immagine del mondo del tempo, invece, pensava che poiché le specie erano state create da Dio, erano perfettissime come il loro Creatore, quindi, non avevano alcun motivo di cambiare, quindi erano fisse.
Essendo quindi non pensabile il cambiamento delle specie, quando tre anni prima dell’Origine si trovarono i primi resti di quello che poi verrà chiamato “Neanderthal”, unanimemente vennero registrati come resti di un portatore di malformazione cranica. Se in via logica dovevano essere perfettissime le specie, figuriamoci l’uomo creato da Dio “a sua immagine e somiglianza”.
Se Darwin non usò per anni il termine evoluzione, usò però il verbo “…da un così semplice inizio innumerevoli forme, bellissime e meravigliose, si sono evolute e continuano ad evolversi” che termina l’opera con un lirismo raro nella scrittura dell’inglese. Ma ripeto, solo col significato di “…si sono trasformate e continuano a trasformarsi”.
Il termine evoluzione, usato da Spencer, appaiò il concetto di progresso anch’esso centrale nell’opera e nel pensiero del socio-filosofo positivista. Essere più o meno evoluto noi lo intendiamo come esser più o meno sofisticato, migliorato, idoneo. C’è anche una sorta di sottostante credenza sull’incedere combinatorio della materia, biologica e non, verso livelli maggiori di complessità.
A riguardo va ricordato che la specie più longeva della Terra, sono i batteri che hanno trascorso quattro miliardi di anni senza diventare minimamente più complessi. Credo siano ancora oggi la maggior parte della biomassa esistente. Quindi non c’è alcuna freccia della maggior complessità. Sono idonee specie semplicissime e l’incremento di complessità si è avuto per logica combinatoria come ramo parallelo dell’esistente. Altresì, forme più complesse possono esser idonee alla maggior complessità del vivente nel suo complesso, ma sono anche più complessivamente fragili poiché richiedono tante e ben precise condizioni di possibilità.
Le specie si trasformano perché sono annegate nel mondo che cambia sempre. Se il contesto cambia sempre come molti hanno di recente scoperto osservando che ci sono stati periodi molto più caldi o molto più freddi dell’attuale Olocene, ciò che sta dentro deve cambiare di conseguenza, trasformarsi, solo in questo senso “evolversi”. Lo debbono fare per superare il vaglio adattivo.
Ma qui troviamo un altro concetto che non c’era nell’Origine ed è stato apposto, anch’esso, da Spencer ovvero “selezione del più adatto”. Selezione e vaglio dicono una cosa simile ovvero giudizio di amissione, solo che lo fanno presupponendo due situazioni ben diverse. Vaglio è come nei processi di controllo delle produzioni, individuare e scartare le poche copie uscite male dai macchinari. Selezione, invece e viepiù se usiamo il “più adatto”, implica un tanto da cui viene un poco. Quindi un poco da un tanto non va bene nel primo caso, un poco da un tanto va bene nel secondo caso. La formulazione sembra simile ma il concetto è diversissimo, l’uno è l’opposto dell’altro.
Spencer era un positivista liberale inglese della seconda metà dell’Ottocento e questa idea della selezione del più adatto mimava la forma della società dove una ristretta élite è tale perché più adatta in quanto più evoluta. Ma in biologia, non si nota affatto questa selezione severa del poco dal tanto, al contrario con il concetto di biodiversità sanciamo che ci sono “innumerevoli forme” tutte “bellissime e meravigliose” nella loro varietà adattativa.
Niente, volevo solo segnalare con quale invisibile logica si formano concetti e complessi di credenza nelle immagini di mondo. Da una parte l’idea del cambiamento costante per rimanere adatti al cambiamento costante dei contesti porta all’evoluzione di enti come trasformazione adattiva che troverà molte e diverse soluzioni per superare il vaglio adattivo. Dall’altra una marcia costante verso una qualche direzione di bene e valore assoluto che è il solo modo per superare la severa selezione del più adatto che vince l’agone competitivo.
Il primo caso è come funziona natura e realtà, il secondo è come funziona una narrazione che dia ragione dello strano modo in cui funziona la società moderna di tipo occidentale spacciandola per modo naturale.
CREDERE IN BIO. Il domenicale di oggi è un discorso molto complicato su un argomento complesso, in poco spazio. Spero quindi risulti intellegibile, ma non sarà facile. A me serve come appunto del pensiero, voi ne farete l’uso che vorrete, come spesso si fa su questa pagina. E’ molto lungo.
L’argomento è relativo l’immagine di mondo (idm) termine col quale intendiamo l’intera mentalità, di cui esistono innumerevoli versioni individuali, ma dentro un contesto del pensabile determinato da un numero molto minore di varianti, quello delle idm pubbliche e condivise. La più importante di queste idm generali, è l’idm dominante che è di solito un adattamento di una versione più longeva che connota una intera epoca storica e civiltà. Nel nostro caso, l’idm moderna occidentale. Attenzione perché anche le idm sfidanti, alternative a questo dominio del pensabile e del credibile, risentono nella forma del dominio di quella dominante.
Nelle idm c’è infatti una struttura ed un risultato di tale struttura, come c’è un genotipo ed un fenotipo. Le idm sfidanti, spesso, cercano un diverso fenotipo, ma condividono il genotipo di quella dominante più di quanto pensino. La radicale trasformazione di una idm, si ha quando introduciamo novità nel genotipo (ad esempio dalla forma medioevale a quella moderna), non nel fenotipo.
In paleontologia, S.J.Gould ed altri, ad un certo punto provarono ad inserire il concetto di saltazionismo nel cambiamento evolutivo che Darwin aveva previsto lento e costante. Al pari della dialettica tra riformismo e rivoluzione, Gould et alter, spingevano per la rivoluzione, una radicale trasformazione in un breve tempo. Il caso in esame erano i famosi fossili nell’argillite di Burgess in Canada (500 mio anni fa), che mostravano una relativamente improvvisa eccezionale produzione di nuovi phyla (gruppi tassonomici tra regno e classi). Il tutto è raccontato in un bel libro dal titolo “La vita meravigliosa” a cui però l’Autore aggiunge “I fossili di Burgess e la natura della storia”. A dire come nelle idm, si può parlare apparentemente di evoluzionismo, ma il pensante lo fa con lo stesso strumento (la sua mente e la sua versione di mentalità) con cui pensa ad esempio “la storia” o “la politica”. Gould poi ne trarrà un concetto che chiamerà “equilibri punteggiati” ovvero lunghe fasi di equilibrio e salti radicali improvvisi e brevi come metrica del cambiamento. In verità il tempo in cui occorsero tali cambiamenti del piano genetico è breve solo su scala molto ampia (centinaia di migliaia di anni, forse addirittura qualche milione), tuttavia citavo il caso perché quei cambiamenti non solo erano avvenuti sul piano del genotipo, ma di alcuni geni in particolare, proprio i geni “strutturali”, quelli che definiscono i piani corporei.
Trasferendoci alla gnoseologia delle immagini di mondo (anche se questo argomento è rubricato nella più limitata epistemologia), troviamo identico meccanismo nel concetto di “paradigma” di T. Khun. Quando cambia il paradigma, la più piccola struttura ordinante una intera immagine di mondo, cambia tutta l’immagine di mondo a cascata, radicalmente. Tant’è che questi salti, nella modernità, sono spesso detti “rivoluzioni”, ad esempio quella copernicana o quella quanto-relativistica in fisica. Altri ritengono (tra cui chi scrive) che in effetti non si danno mai rivoluzioni è sempre un lento accumulo di novità che poi porta a riconfigurazioni complessive come nella Gestalt. Tuttavia, rimane la possibile analogia tra novità dei geni strutturali e paradigmi delle immagini di mondo.
Il post quindi si dedica ad osservare la nascita di un possibile spostamento di paradigma nelle nostre immagini di mondo generali. Noi qui ci siamo spesso lamentati del fatto che di recente il mondo è cambiato radicalmente ma non così le nostre immagini di mondo. Siamo cioè in una nuova epoca storica ma continuiamo a pensare con le forme del moderno. Vediamo allora di cosa si tratta.
Di recente, ha fatto parecchio rumore una nuova teoria generale dell’essere, una teoria fisica derivata però dalla biologia. Un team multidisciplinare con tre filosofi della scienza, due astrobiologi, un data scientist, un mineralogista e un fisico teorico, provenienti dalla Carnegie Institution for Science, dal California Institute of Technology e dall’Università del Colorado, oltre alla Cornell, hanno presentato una teoria generale che è una sorta di estensione all’inorganico della teoria dell’evoluzione di Darwin nell’organico.
La teoria dice che nel vasto mondo dell’essere materiale c’è una selezione positiva per sistemi fisico-chimici che mostrano almeno tre caratteristiche. La prima è la stabilità atomo-molecolare, ciò che è stabile permane. La seconda è che vengono selezionati sistemi con fornitura costante di energia. La terza e forse più importante, è che vengono selezionati positivamente i sistemi che producono novità. Questo terzo punto assieme al primo, dice che c’è una condizione generale positiva tra costanza e cambiamento, alimentata dal secondo punto, la fornitura costante di energia.
È una costante tensione tra equilibrio interno ed equilibrio nella relazione con l’esterno, col contesto. Il contesto che ospita gli enti cambia sempre, di sua natura. Dal cosmo alla Terra, dalla geografia all’eco-clima, è da sempre, tutto in movimento, in divenire. È portato delle impostazioni della nostra idm occidentale e moderna, ad esempio, lo sforzo fatto da molti pensatori di individuare le “leggi della storia”, come se si dovesse trovare un motore interno le forme di vita associata umana che desse conto del perché c’è il cambiamento, cioè la “storia”. Ma se collocate l’oggetto nel suo contesto, dato che questo cambia sempre di default e dato che l’oggetto deve risultare adatto allo stato dell’essere generale, va da sé che la storia è la storia di queste rincorse che le forme ordinate della vita associata (culture, stati, civiltà) che avevano trovato una loro stabilità funzionale, sono obbligate a fare per rimanere adatte. Da qui la tensione tra permanenza e novità, tradizione e cambiamento, ordine e disordine.
Questo è il primo tentativo, a me noto, di sfida alla posizione di paradigma scientifico ma forse di paradigma generale dell’immagine di mondo complessiva, portato non dalla fisica come s’è verificato nei quattro secoli della modernità, ma dalla biologia. La cosa potrebbe svolgere una funzione genotipica-strutturale per il cambiamento delle nostre immagini di mondo, aprire al cambiamento della sua intera forma che è poi quello che ci serve per avere nuove immagini di mondo adatte ai nuovi tempi non più semplicemente moderni. Ne conseguirebbe infatti, una cascata di nuove costellazioni concettuali e cambiamenti strutturali del pensabile.
Ad esempio, lo stato standard del divenire e dell’essere non più ritenuti alternativi ma abbinati ovvero come essere nel divenire (la “nave di Teseo”, metaforizzarono i Greci). Ma anche il concetto di adattamento ovvero quella sistematica convocazione dei contesti che spesso lamentiamo come mancanza nel discorso pubblico, dalle nuove guerre alla caterva dei nuovi fatti sociali. I biologi evoluzionisti dicono “adattamento” in due sensi: cambiare il dentro di sé per adattarsi al contesto, ma anche cambiare il contesto per favorirsi l’adattamento.
In geopolitica, le grandi potenze si dedicano attivamente a modificare continuamente i contesti per non dover cambiar internamente. Le non potenze, invece, rincorrono trafelate ed esauste il cambiamento dei contesti, dilaniandosi nella dialettica tra conservazione e cambiamento. Ma anche quando decidono di cambiare, lo fanno passivamente non scegliendo il come ed il quando, subiscono interamente la dittatura della realtà, per mancanza di potenza. Non hanno potenza per intermediare il cambiamento, quindi subiscono il contesto.
Sono molti i portati concettuali da esplorare in questa nuova traiettoria. Ad esempio, cosa cambia nelle nostre pretese di precisione. A. Koyrè scrisse un bel libro dal titolo “Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione” per significare il passaggio dalla mentalità del medioevo alla modernità operata su base scientifica della fisica meccanica. Per costruire cose materiali (ponti, macchinari etc.) è richiesta questa precisione che poi diventa dominio della matematica e metafora generale per la quale una vite deve corrispondere precisamente alla filettatura del buco in cui si deve fissare. Per costruire economie o società umane o trovare nuovi equilibri mondiali tra sistemi umani e tra sistemi umani ed ambiente geo-atmosferico, però, tale precisione (stabilità, certezza, precisione) è non solo impossibile, ma anche non adattativa. Manca infatti quello scarto di vocazione alla novità che modifica continuamente l’ente poiché cambia il contesto per rimanere nella banda di oscillazione adattiva. Ci troviamo in una sorta di passaggio “dall’universo di precisione all’universo del pressappoco”.
Per chi penserà che questo concetto sulla “precisione o limitata imprecisione” non sembra poi così rilevante a prima vista, segnalo che ha effetti diretti sulla nostra concezione della “verità”. E la “verità” o almeno la nostra credenza su cosa sia, è invece massimamente rilevante per giudicare la legalità di una immagine di mondo, una teoria, un giudizio.
La questione ha effetti diretti sull’intero spettro delle discipline umano-sociali ed il loro statuto di scienze. Le scienze non hanno in comune il metodo, hanno semmai in comune la natura dell’oggetto. Oggetti fisico-chimico-geo-biologici sono passibili di scienza, oggetti dotati di intenzionalità (uomo individuale e sociale e tutto ciò a cui dà vita studiato in psicologia e psicoanalisi, etno-antropologia, sociologia, economia, linguistica, diritto, politica, storia), no. Si può e si deve estendere ciò che si può estendere del famoso “metodo scientifico” (ad esempio non l’esperimento cruciale), ma ciò non farà queste discipline delle scienze. Ogni conoscenza è fatta certo di metodo ma applicato alla natura dell’oggetto o fenomeno e gli oggetti o fenomeni dotati di intenzionalità hanno natura diversa da atomi o molecole o neuroni.
Per questo dobbiamo rinunciare al criterio di precisione ed abbracciare, ci piaccia o meno poco importa, quello di pressappoco. Certo vanno trovati i criteri ammessi di questo pressappoco che non può rifluire nella vaghezza sfocata e contradditoria del dire tutto ed il suo contrario, senza verifiche e fondazioni per quanto elastiche e provvisorie. Definire cioè il suo statuto di verità o ammissibilità, specie nel discorso pubblico (episteme, doxa, endoxa). Ne conseguirebbe anche la fine di quella mania di cercare “leggi” in cose e fenomeni che non mostrano alcuna legge ma al massimo una regolarità imprecisa e mai assoluta. Non può essere “assoluta” perché sono enti non sciolti da legami, sia perché sono fatti e dediti a creare legami (sono cose intessute, intrecciate assieme da “cum-plexus”), sia perché seguono adattativamente il contesto che è sempre in divenire. Quindi meno leggi e più regole.
Un nuovo dominio paradigmatico del bio cambierebbe la forma delle immagini di mondo in modi radicali, si pensi a cos’è l’economics astratta (una “fisica dell’economia” nell’intento che poi però si perde proprio la dimensione fisica) e la bioeconomica, l’architettura e la bioarchitettura, la riduzione dell’ecologia ai motori elettrici, la storia evenemenziale basta su “i grandi uomini del destino” e la geostoria che reintroduce i contesti e la natura in cui si svolgono i fatti umani, umani che poi sono fatti di natura.
Anche in politica e sociologia politica si dovrebbe forse indagare una nuova forma di pensiero che potremmo chiamare “biopolitica” non nel senso francese, ma in quello aristotelico, su base di una nuova biosociologia che nulla avrebbe in comune con la scriteriata sociobiologia (o almeno quella della prima ora poi morta, per fortuna). Per precisare, alcuni pensatori biopolitici sono compattamente scesi in campo al tempo dei problemi relativi alla gestione del Covid, ma a mio avviso mostravano tutti una certa misconoscenza proprio del “bio”. Sebbene non sia chiaro il poter dare statuto di “vivente” ad un virus, il problema “virus-corpo” è prettamente un problema “bio”.
Segnalo che Foucault studiò filosofia ma proveniva da una famiglia con padre chirurgo e nonni chirurghi e madre con genitori chirurghi quindi la critica sociale e politica della medicina ci sta; tuttavia, studiare un po’ meglio il bio di cui si occupa la medicina non gli avrebbe fatto male. Magari avrebbe evitato di prendersi l’AIDS di cui morì. Altresì, Diogene Laerzio ci dice che la netta maggioranza di scritti di Aristotele (a noi non pervenuti) era di biologia. Quando notiamo ad esempio in Politica, una concezione più “organica” dello Stagirita rispetto ad altri, forse a questa sua idm più generale dobbiamo pensare.
Un campo in cui si mostra questo iato tra materia morta e materia viva è la c.d. “intelligenza artificiale”. Per motivi che qui non posso approfondire, ritengo che sia impossibile in via di principio replicare una funzione corpo-mentale come l’intelligenza umana usando materia morta, usando la teoria dell’informazione come medio logico riduttivo (ovvero ridurre l’intelligenza corpo-mentale a teoria dell’informazione e farsi guidare da questa per maneggiare materia morta che ad un tratto diventerebbe per funzione, analoga a quella viva). Sarà per questo che nei multimiliardari gruppi di ricerca e sviluppo dell’IA mancano in genere i biologi. È curioso (ma meno inusuale di quanti si pensi) che in questo fronte più avanzato della tecno-scienza si mostri un ampio fondo di pensiero magico. L’intelligenza artificiale o meglio la teoria dell’informazione così usata, mi ricorda l’ostia che dovrebbe sintetizzare il corpo di Cristo.
Tutta la modernità è stata dominata in idm dalle nostre scoperte su come funziona la materia morta, è tutta una lunga storia di macchinismo e di culto religioso della scienza meccanica. Forse le auspicate prospettive di sviluppo di nuovi modi di pensare potrebbero beneficiare dalla sostituzione in paradigma del molto più complesso ed impreciso mondo della materia viva, quella parte della natura che fino ad oggi abbiamo evitato per eccesso di complessità, misconoscendo la nostra stessa natura e lo stesso mondo cui dobbiamo adattarci.
Chiudo con una citazione, si tratta di un geografo e geopolitico ma anarchico, Elisée Reclus: l’uomo è la natura che prende coscienza di sé stessa.
ll sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure PayPal.Me/italiaeilmondo  Su PayPal, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)

Non si può fare, non si vuole fare!_di AURELIEN

Non si può fare, non si vuole fare!
Ma mettersi in posa è facile e divertente.

AURELIEN
3 GEN 2024
Stamattina ho visto un piccolo avviso che diceva “5000 abbonati dietro la prossima curva”. È molto di più di quanto mi sarei mai aspettato per dei saggi lunghi e complicati su argomenti difficili, quindi grazie a tutti voi, soprattutto per il fatto che c’è stato pochissimo ricambio e ho perso solo un piccolo numero di abbonati lungo la strada. E grazie soprattutto a coloro che continuano a lanciarmi qualche moneta e a offrirmi una tazza di caffè.

Vi ricordo che questi saggi saranno sempre gratuiti, ma potete sostenere il mio lavoro apprezzando e commentando, e soprattutto trasmettendo i saggi ad altri e ad altri siti che frequentate. Ho anche creato una pagina Buy Me A Coffee, che potete trovare qui.☕️ Grazie a tutti coloro che hanno già contribuito.

Grazie anche a coloro che continuano a fornire traduzioni. Le versioni in spagnolo sono disponibili qui, e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili qui. Anche Marco Zeloni sta pubblicando alcune traduzioni in italiano. Sono lieto di annunciare che sono in preparazione un’altra traduzione in francese e una in olandese. E ora passiamo all’attrazione principale.

***********

Ho già scritto diverse volte sul declino galoppante delle capacità dello Stato moderno e del sistema politico, nonché delle organizzazioni esterne al governo e del settore privato. Questo sta diventando un tema: Yves Smith su Naked Capitalism ha scritto e ospitato una serie di articoli e discussioni sull’argomento, così come John Michael Greer sul suo blog Ecosophia. Ma anziché limitarmi a un’altra lamentela, voglio approfondire la questione, non solo del perché di questa incapacità, ma anche della sua origine e del perché sembra che le istituzioni non si preoccupino più della loro incapacità di fare qualcosa.

In termini storici, questo declino delle capacità, per non parlare della totale indifferenza con cui viene visto, sembra straordinario. La crescita della civiltà come la conosciamo è intimamente legata alla crescita della capacità dello Stato e delle sue istituzioni. E ancora oggi, gli stessi governi occidentali che sono sempre più incapaci di infilare un ago da soli, sono pieni di idee per “aumentare la capacità di governo” nel Terzo Mondo, promuovendo la “responsabilità”, la “trasparenza”, combattendo la “corruzione” e instaurando il “buon governo”, anche se dimostrano di non essere in grado di governare come un sacco di carta bagnato a casa loro. Che cosa sta succedendo?

Fino a poco tempo fa, la crescita del governo e delle capacità istituzionali era considerata essenziale e indispensabile: il mondo moderno era inconcepibile senza di essa. Come esercizio, consideriamo un operaio o un bracciante nato, per esempio, nel 1850. Provate a spiegare a questa persona che un suo lontano discendente, nato un secolo dopo, sarebbe cresciuto in un mondo in cui la stragrande maggioranza dei bambini sopravviveva fino all’età adulta, in cui le case avevano acqua corrente pulita e fognature adeguate, in cui il lavoro minorile era vietato, in cui la legislazione aveva ridotto in modo massiccio l’orario di lavoro e le morti e gli infortuni sul lavoro, in cui l’istruzione era gratuita a tutti i livelli se si avevano le capacità e tutti avevano il diritto di voto. Sareste stati immediatamente liquidati come fantasisti politici.

Si noti che questo non è un elenco di sviluppi ad alta tecnologia. Certo, le automobili, i servizi ferroviari, gli aerei, i telefoni, le televisioni e così via hanno fatto un’enorme differenza nella vita delle persone (e la maggior parte di essi ha richiesto il coinvolgimento del governo, anche se sono stati originati da altri), ma gli sviluppi veramente importanti sono nati essenzialmente dall’aumento della capacità istituzionale e della volontà politica. L’installazione di fognature non era tecnicamente complessa. L’istruzione universale è stata una questione di volontà politica e di creazione di istituzioni. La sanità pubblica è sempre stata un’attività a bassa tecnologia. Eppure, nella maggior parte dei Paesi occidentali, vediamo che le semplici basi della vita hanno smesso di migliorare qualche tempo fa, e ora stanno addirittura peggiorando. Tuttavia, le risorse non sono sempre il problema. Oggi i computer sono presenti ovunque nelle scuole, ma, nonostante i sogni di febbre dei sostenitori della tecnologia, gli scolari sono molto meno istruiti rispetto a cinquant’anni fa. Gli addetti ai lavori della maggior parte dei Paesi occidentali affermano che il problema dei servizi sanitari spesso non è la mancanza di denaro in quanto tale, ma la mancanza di competenze e capacità, nonché la mancanza delle persone e delle risorse giuste nei posti giusti. In parole povere, come è stato orribilmente dimostrato durante l’apice dell’epidemia di Covid, i governi occidentali non sanno più come fare le cose, e la tecnologia tende a peggiorare questo problema di capacità, non a migliorarlo.

Eppure i governi non danno alcun segno di averlo capito. Un fallimento catastrofico delle capacità viene affrontato negando che sia accaduto, istituendo un’inchiesta, relativizzando il problema, incolpando altri e costringendo a qualche dimissione. Una risposta tipica è quella del governo di Macron durante l’apice della crisi di Covid: Ok, non saremo un granché, ma guardate che molti altri Paesi sono peggio! Si potrebbe perdonare la sensazione che i governi di oggi siano incapaci di distinguere tra fantasia e realtà. In un certo senso, e come vedremo, forse lo sono.

Questo non significa, ovviamente, che i governi non facciano letteralmente nulla. In effetti, i politici e i loro sempre più numerosi seguaci non sono mai stati così attivi. La loro è un’esistenza di sette giorni su sette, 24 ore su 24, e la politica è ormai diventata uno stile di vita totalizzante, piuttosto che un lavoro. Sembra incredibile che, cinquant’anni fa, Ted Heath, in qualità di Primo Ministro britannico, potesse allontanarsi di tanto in tanto per dedicarsi al suo hobby delle regate oceaniche. Ora, i politici sembrano quasi non dormire: ma in questo caso, perché non fanno nulla di utile con il loro tempo?

Quello che fanno, ovviamente, è parlare: incessantemente, in modo vacuo e ripetitivo. La politica di questi tempi consiste nell’essere qualcuno, non nel fare qualcosa. Parlare di cose è come farle, anzi è più attraente perché è più facile. Ma perché?

È possibile indicare una serie di ragioni pratiche. La creazione di un sistema politico amorfo e unitario, che io chiamo il Partito, con le sue feroci faide interne, ma in definitiva con lo stesso ampio insieme di convinzioni, ha praticamente monopolizzato lo spazio politico. Sebbene possa essere bello vincere, non vale la pena di rischiare di sostenere, e tanto meno di perseguire, idee eterodosse e di essere bollati come “populisti” per aver indagato su ciò che l’elettorato effettivamente vuole. In una situazione del genere, nessuna fazione del Partito ha nulla da guadagnare nel fare promesse di cambiamento, tanto meno nel realizzarle. Come nel 1984, il Partito Interno cerca di convincere la gente, e anche i membri del Partito Esterno, che le cose non cambieranno mai e non miglioreranno mai. La protesta e l’agitazione sono quindi inutili.

Questa è una parte della risposta. È anche vero che Internet e i social media hanno incoraggiato il bombardamento infinito di lamentele e richieste che caratterizza la politica di oggi. Ma in realtà la stragrande maggioranza dell’elettorato occidentale usa i social media con parsimonia, se non addirittura per nulla, e in genere per motivi professionali, familiari o comunitari, per cui la sua influenza effettiva è minore di quanto si possa pensare. D’altra parte, la diffusa deregolamentazione della televisione a partire dagli anni ’80 ha progressivamente creato un mostro che richiedeva di essere alimentato con una dieta infinita di polemiche e scandali, trasformando la banalità e persino la pura immaginazione in notizie a sé stanti. E notate ancora una volta che questo è stato il risultato di decisioni politiche, non di un progresso ineluttabile della tecnologia.

E ancora, la stragrande maggioranza della Casta Professionale e Manageriale (PMC) fa parte del Partito Esterno e cerca disperatamente di entrare nel Partito Interno, con i suoi stipendi, la sua sicurezza e il suo status. Il modo per farlo non è la competenza – si può sempre assumere la competenza – ma la purezza ideologica. L’ultima cosa che volete fare è acquisire la reputazione di pensatore indipendente (per non dire “difficile”), quindi il miglior mezzo per fare carriera è quello di attaccarvi a iniziative che sono puramente ideologiche e che quindi non possono fallire nella pratica, perché non c’è pratica.

Ma c’è di più. Dopo tutto, oggi la politica è dominata dalla performance, piuttosto che dall’azione, in una misura impensabile in tempi passati. Ora “performance” e “discorso performativo” sono stati generalmente intesi come azioni o discorsi che portano da qualche parte. Così “Ti condanno all’ergastolo” detto da un giudice o “La Gran Bretagna è ora in guerra con la Germania” detto dal Primo Ministro nel 1939 sono discorsi performativi perché conducono ad azioni definite. Vorrei ampliare un po’ questo concetto per includere tutte le attività performative praticate oggi, tenendo conto del fatto che molti discorsi e attività sembrano comportare conseguenze reali, ma in realtà non lo fanno. Si tratta solo di un gioco sofisticato, di una performance che mostra quanto si è virtuosi e pensanti. È una dichiarazione di ciò che si è, non di ciò che si fa o si intende fare.

Ci vorrebbe un saggio lunghissimo solo per spiegare quest’ultimo paragrafo, e potrei fare decine di esempi. Ma permettetemi di citarne solo alcuni, in contrasto tra loro, per mostrare cosa intendo. Supponiamo che la vostra organizzazione decida di avere “tolleranza zero per il razzismo”. Bene, cosa significa? Beh, non significa altro che “siamo persone virtuose”. (È anche un modo per dire “siamo persone intolleranti”, che potrebbe non essere il messaggio che volete trasmettere, ma non importa). Non richiede di fare nulla di concreto. Poiché il “razzismo” è semplicemente un insulto ideologico e deve essere distinto, ad esempio, dalla discriminazione razziale, che è un fenomeno reale, si può sostenere che tutta una serie di dichiarazioni e azioni performative siano “lotta al razzismo”: affiggere manifesti, cancellare conferenze, bruciare libri, promuovere persone con il giusto colore della pelle, gridare contro i nemici politici. Tutto questo, ovviamente, invece di affrontare i problemi reali di discriminazione razziale che possono esistere. Ma ancora una volta, lo scopo è solo quello di dire “siamo brave persone”.

Quindi, quando i governi o i politici annunciano “iniziative”, chiedetevi cosa contengono in realtà e se è probabile che ne derivi un’azione concreta. Nella maggior parte dei casi, la risposta è no. Anche quando c’è la promessa di un’azione (ad esempio, il controllo dell’immigrazione), lo scopo è di solito quello di fare una dichiarazione sul tipo di governo. Le reali conseguenze pratiche non hanno molta importanza. È ancora più facile quando le figure politiche vogliono opporsi alle cose, perché l’opposizione non deve essere pratica: è sufficiente dire “X è contro le nostre norme e i nostri valori”. Negli anni ’80, quando l’immigrazione incontrollata cominciava a essere un problema, l’allora primo ministro francese Michel Rocard protestò perché la Francia non poteva occuparsi di “tutta la miseria del mondo”. Fu furiosamente maltrattato per questo, così come Emmanuel Macron quando ripeté l’osservazione nel 2017, non sulla base del fatto che ciò che avevano detto era pragmaticamente falso (poiché ovviamente era vero), ma piuttosto che avevano detto la cosa sbagliata, minando così la percezione dell’orgoglioso status della Francia come terra di rifugio per gli oppressi. Naturalmente sarebbe ragionevole far sedere questi oppositori di fronte a una giuria di esperti e chiedere loro come e con quali passi ritengono che un solo Paese possa affrontare tutti i problemi del mondo, ma probabilmente ciò sarebbe considerato ingiusto.

Questo è un buon esempio di “essere” un esempio per il resto del mondo, piuttosto che “fare” qualcosa. La distinzione fondamentale è che non è necessario fare nulla per rivendicare un certo status: esso esiste esistenzialmente, per così dire, e in modo affermativo. Non deve essere acquisito, è semplicemente così. Molti anni fa, un mio amico africano a una conferenza a Ottawa fu sorpreso di ricevere un pacchetto di documenti in una cartella con la scritta “Canada: una superpotenza morale”. Il motto è stato ripetuto altrove. Nonostante le diligenti ricerche, non riuscì a scoprire cosa il Canada avesse fatto o stesse facendo per meritarsi questo status, e nemmeno come si potesse dimostrare oggettivamente l’esistenza di tale status. Nello stesso periodo, il partito laburista di Blair salì al potere nel Regno Unito e divenne rapidamente il simbolo definitivo del passaggio generazionale da governi che fanno cose a governi che dicono cose, come esemplificato dal fatto che la seconda persona più importante del Paese era il capo delle comunicazioni di Blair, Alastair Campbell. In breve tempo, il governo ha iniziato a dire alla gente che voleva che la Gran Bretagna “fosse una forza per il bene nel mondo”. È chiaro che questo è meglio che essere una forza del male, ma si noti che la formulazione riguarda l'”essere” e non il “fare”. Si tratta, ancora una volta, di uno status esistenziale, derivato dall’asserita virtù delle azioni britanniche, non da alcun risultato pratico in quanto tale.

Ma questo tipo di dichiarazioni, avulse da qualsiasi azione pratica, sono ormai diventate la norma in politica. La realtà consiste ora in dichiarazioni ai media, conferenze stampa, tweet, discussioni in televisione, cerimonie e gesti vuoti. Ma poiché il pubblico implicito non sono gli elettori e i cittadini, ma i vostri rivali nel partito esterno e i vostri superiori nel partito interno, questa disconnessione non ha alcuna importanza. Pertanto, la via del successo nella Gran Bretagna di Blair, sia per i funzionari di governo che per i politici, è stata quella di capire e agire in base a “ciò che vuole Tony”, e quindi cercare opportunità per enfatizzare la propria purezza ideologica competitiva.

Ad esempio, si sostiene spesso che le comunità di minoranza sono più povere e hanno meno successo di quelle maggioritarie, e questo a causa di bla bla razzismo strutturale bla bla. Ma in realtà, la maggior parte di queste comunità sono povere perché composte in gran parte da immigrati recenti. In Francia, per esempio, c’è un gran numero di immigrati afghani e ceceni. In generale, arrivano senza parlare il francese (una grande percentuale è analfabeta), senza competenze spendibili sul mercato e spesso in grandi gruppi familiari segnati da conflitti. Un adolescente afghano di tredici anni che arriva in Francia riceverà un anno di formazione linguistica da un gruppo di insegnanti di lingue straniere sovraccarico di lavoro e sempre più disperato, con forse una dozzina di nazionalità da gestire, prima di essere rilasciato nel sistema scolastico per un paio d’anni, incapace di seguire le lezioni e senza alcuna competenza utile. Le possibilità professionali successive sono in gran parte limitate al lavoro non qualificato o alla piccola criminalità. (Ora, una politica sensata potrebbe prevedere uno o entrambi i tipi di controllo dell’immigrazione e l’impiego di risorse massicce per l’assimilazione alla società, alla lingua e alla cultura francesi. Non si fa nessuna delle due cose, perché i controlli sono “contro le nostre tradizioni” e l’assimilazione implica che pensiamo che gli immigrati siano culturalmente inferiori e non vogliamo che la gente creda questo di noi. In fondo, noi non facciamo il Fare, ma l’Essere.

Essere, ma non fare, non è solo una questione di capacità, ma anche di volontà o di semplice disinteresse. Non è che sia più facile mettersi in posa ed essere “ciò che siamo”, è anche quanto la nostra attuale classe politica è disposta a fare. Perché? Ecco alcune idee.

La classe politica occidentale è oggi composta per la maggior parte da laureati. Le cifre variano, ma nella maggior parte dei Paesi il 70-80% dei politici è laureato, e tra i politici più giovani la percentuale può arrivare quasi al 100%. Inoltre, molto spesso queste persone hanno conseguito titoli di studio superiori presso prestigiose istituzioni internazionali. Ciò significa che molti entrano in politica, dopo alcuni anni come assistenti di ricerca, tirapiedi di ONG o di partito, con l’esperienza della politica delle università e delle piccole organizzazioni. Sembra essere una regola di natura che in politica quanto meno importanti sono le questioni, tanto più violente, intolleranti e personalizzate sono le discussioni. (Inoltre, la politica in questi contesti è essenzialmente una questione di personalità, ego e ideologia. I giovani in questi ambienti raramente hanno un’importanza o una responsabilità reale, e in effetti gli aspiranti politici giovanili in genere evitano di essere eletti in posizioni che abbiano conseguenze reali, a favore di posizioni che permettano loro di essere visibili. Le organizzazioni politiche studentesche sono generalmente minuscole, elitarie e irrimediabilmente divise. In Francia, ad esempio, appena il 5% degli studenti è iscritto a tutti i Syndicats messi insieme, eppure i loro leader, che passano la maggior parte del tempo in aspre dispute ideologiche tra loro, sono solennemente richiesti dai media per pronunciarsi su questioni di istruzione, come se le loro opinioni contassero davvero. In queste organizzazioni si raggiunge il potere non grazie alla competenza (dato che in genere non si ha nulla di pratico da fare), ma grazie alla purezza ideologica, e convincendo i piccoli elettori che si è più puri ideologicamente degli altri candidati. Gli aspiranti politici iniziano, in altre parole, come intendono proseguire.

Una seconda influenza è il ruolo dello “studio” del commercio e del management, e in parte dell’economia, che gli aspiranti politici sentono di dover aggiungere al proprio curriculum. Così le scuole di economia proliferano in tutto il mondo, come un tempo le facoltà di teologia, per dare accesso a una carriera, ma senza il rigore intellettuale e l’utilità pratica che almeno le facoltà teologiche portavano. Ma ciò che forniscono sono formule che escludono la conoscenza e l’esperienza, metodologie precotte per affrontare qualsiasi domanda su qualsiasi argomento e un discorso internazionale, per lo più in inglese, vuoto di qualsiasi contenuto e valore reale. L’influenza di tutto ciò nella politica di oggi è sotto gli occhi di tutti. In passato, gli “uomini d’affari pratici” che cercavano di entrare in politica (spesso in modo disastroso) potevano almeno affermare di aver fondato e gestito aziende, di aver gestito un gran numero di persone e di aver assunto responsabilità. Al giorno d’oggi, le scuole di economia insegnano soprattutto a farsi strada attraverso il sapere cosa pensare e dire, e soprattutto a presentare se stessi e i risultati del proprio lavoro nella migliore luce possibile. Gran parte del lavoro dei manager oggi consiste, notoriamente, nella manipolazione dei numeri, di cui non sono mai chiamati a rendere conto. Tutto ciò che conta è l’effetto sul prezzo delle azioni e i loro bonus. Ciò che conta non è ciò che l’azienda è, e ancor meno ciò che fa, ma piuttosto ciò che sembra essere. (In questo clima, non sorprende che le statistiche governative su questioni importanti oggi abbiano raramente un rapporto con la realtà, e anzi spesso non sono destinate a essere prese sul serio). Ai manager in formazione viene insegnato come gestire la propria immagine, come attirare il patrocinio e come ottenere un avanzamento: tutto, in effetti, tranne che come fare un buon lavoro. Quando entrano in politica sono quindi ben preparati.

Il settore privato pratica da decenni la cosiddetta “pubblicità editoriale”, anche se in genere senza effetti misurabili sulle vendite o sui profitti. Ma le presentazioni patinate di “questo siamo noi” e “chi siamo” hanno gonfiato l’ego dei manager e fatto vincere premi alle agenzie pubblicitarie, quindi non è tutto da buttare. (Naturalmente, la stessa mania di parlare del proprio ego ha invaso la politica). In realtà, l’unica dichiarazione di missione di cui ha bisogno un’azienda privata è quella di fornire beni o servizi che la gente vuole comprare, a prezzi che è disposta a pagare. Ma una nuova generazione di manager, tutti di passaggio per ottenere un lavoro migliore, si sente in qualche modo obbligata a blaterare di diversità e responsabilità sociale, come se a qualcuno importasse. Questa tendenza è arrivata sempre più a dominare anche la politica, creando spesso quella che sembra una sorta di realtà parallela, in cui ciò che accade nei media e ciò che accade sul campo si sono irrimediabilmente allontanati. Ciò è stato evidente in molti episodi di cattiva gestione della crisi di Covid. Ad esempio, il riferimento al fatto (indiscusso) che l’epidemia è iniziata in Cina e le proposte di vietare i voli da quella parte del mondo sono stati accolti con un’isterica opposizione politica e della PMC, perché ciò avrebbe significato “stigmatizzare” i cinesi. Le questioni reali di vita e di morte sembravano appartenere a una realtà separata, messe da parte dall’orgoglioso desiderio di mostrare quanto la nostra società fosse tollerante e antirazzista. Nel mondo degli affari, queste disconnessioni spesso non hanno importanza: il fatto che un’azienda che predica la responsabilità sociale faccia uso di lavoro minorile può fare qualche paragrafo su un sito di media, e sarà presto dimenticato. Ma come abbiamo visto, fare politica allo stesso modo può essere letale.

Un’altra influenza, curiosamente, è la sopravvivenza di certi modi di pensare cristiani molto tempo dopo il declino dell’influenza formale della religione. (L’Occidente, checché se ne dica, è ancora fondamentalmente segnato dalla sua eredità cristiana, e lo sarà ancora per qualche tempo). Il cristianesimo primitivo era notoriamente dilaniato da aspre dispute dottrinali su ciò che era necessario credere per ottenere la salvezza. La visione dominante per molti secoli era che i poveri esseri umani, colpevoli del peccato originale e incapaci di compiere opere che avrebbero meritato la salvezza, dovevano affidarsi all’ineffabile grazia di Dio e alla salvezza per fede. (La Chiesa, a volte, ha fatto marcia indietro sostenendo l’idea della salvezza attraverso le opere, ma è rimasta dominante la severa dottrina secondo cui il cristianesimo consiste nell’essere, non nel fare. Pertanto, i peccati più gravi, gli unici veramente importanti, erano i peccati della mente, motivo per cui la superbia era in testa alla maggior parte degli elenchi di peccati che si trovano nelle opere di teologia medievale. Fu naturalmente la Riforma a trascinare definitivamente gran parte del mondo cristiano in questa direzione, poiché Lutero, Calvino e i loro seguaci sostenevano che la grazia di Dio, dispensata attraverso un rapporto personale con il divino e non soggetta all’intermediazione di una Chiesa corrotta, fosse il fondamento di tutta la religione. Inutile dire che questo modo di pensare era molto attraente per le classi medie in ascesa, che lo adottarono come in seguito adottarono le dottrine correlate del liberalismo politico ed economico.

Tuttavia, sorse rapidamente il paradosso (come era accaduto in precedenza con i movimenti millenaristi) che se sono già salvato, non c’è motivo per cui dovrei comportarmi bene, dato che nulla di ciò che faccio può influire sul mio stato di salvato. Questo paradosso fu risolto con l’ingiunzione che era necessario dimostrare quanto si era salvati con azioni pratiche, sicuri della consapevolezza del proprio status morale superiore. Fare, in questo contesto, significava semplicemente dimostrare questo status morale superiore agli altri, con azioni che non potevano essere messe in discussione o criticate: erano semplicemente giuste. (In pratica, ovviamente, una società del genere sarebbe stata completamente anarchica, per cui paradossalmente le comunità protestanti estreme come la Ginevra di Calvino arrivarono ad assomigliare a stati di polizia ideologica collettiva: un po’ come una moderna università americana senza le squadre sportive). Una volta che l’idea che ciò che contava davvero era nella tua testa e non nelle tue azioni ha preso piede, si è dimostrata immensamente persistente in tutti i modi. È stato sostenuto, ad esempio, che un buon marxista degli anni Trenta doveva accettare le purghe di Stalin, senza necessariamente sostenerle, perché la storia si stava svolgendo in un modo particolare e, finché si manteneva la fede nella destinazione finale, si dovevano accettare gli ostacoli lungo il percorso. L’importante era ciò che il comunismo era, non ciò che faceva.

Nel peggiore dei casi, sia nella sua veste religiosa che in quella laica successiva, questo modo di pensare produce un comportamento ristretto, moralista e intollerante, che premia soprattutto la purezza del credo e vede le azioni non tanto come cose buone da fare in sé, quanto piuttosto come prove di quanto si è virtuosi. Almeno si può dire che nel XIX secolo i ferventi evangelisti non solo sono riusciti a tenere sotto controllo i peggiori eccessi del liberalismo, ma hanno anche fatto una grande quantità di bene oggettivo, dall’abolizione della tratta degli schiavi al ritiro dei bambini di dieci anni dalle miniere. Ma i loro successori oggi seguono una sorta di calvinismo laico degenerato, in cui politici e opinionisti competono tra loro per dimostrare di essere persone migliori perché i loro cuori e le loro convinzioni sono più puri, e castigano gli altri le cui convinzioni sono in qualche modo difettose.

Infine, non si deve pensare che il trionfo dell’Essere sul Fare nella nostra società sia limitato ai politici e ai loro seguaci. È andato ben oltre. Diverse generazioni di opinionisti si sono guadagnati da vivere semplicemente assumendo pose di superiorità morale e condannando come moralmente carente chiunque non condivida le loro opinioni. È profondamente ironico, infatti, che la Chiesa non si senta più in grado di pronunciarsi su questioni morali importanti, mentre le persone che una volta andavano a una conferenza sull’etica di Kant non si sentono in obbligo di farlo, perché dopo tutto sono brave persone e dare lezioni agli altri li fa sentire superiori al resto di noi.

Queste persone, o almeno la loro fazione di opinionisti, sono come i calvinisti salvati di Ginevra: la loro legittimità non deve essere guadagnata, deriva da chi e cosa sono, non da quanto sanno o da cosa hanno sperimentato. Dalla comodità dei loro studi possono istruire i governi a fare la guerra, ad accettare i rifugiati, a votare in questo o quel modo, a sostenere questa o quella parte in un conflitto, giustificati non da qualcosa che hanno fatto, ma semplicemente da ciò che sono.

Si trovano esempi ovunque. Uno dei miei preferiti è la posa di chi mette in discussione la saggezza convenzionale. Queste persone, infatti, accettano quasi tutta la saggezza convenzionale e possono essere piuttosto aggressive quando vengono messe in discussione le parti di essa che sottoscrivono. Ma un modo sicuro per affermarsi come opinionista, o semplicemente come commentatore noto su un sito Internet, è quello di cantare la canzone “mettere in discussione solo la saggezza convenzionale”, che si tratti dell’Olocausto, dell’assassinio di JFK, dello sbarco sulla Luna dell’Apollo, della distruzione delle Torri Gemelle, delle ultime elezioni contestate da qualche parte o di qualsiasi altra cosa vi piaccia. Non è necessario che tu sappia nulla, che tu abbia fatto studi o ricerche, anzi, quello che sei, l’eroico contestatore della saggezza convenzionale, ti dà tutto lo status di cui pensi di aver bisogno.

Allo stesso modo, se avete un iPhone potete, da un giorno all’altro, “diventare” un Citizen Journalist. Ora, per quanto io sia spesso critico nei confronti dei giornalisti, quelli bravi che ho conosciuto possedevano una combinazione di formazione, esperienza, rigore analitico e competenze professionali banali ma importanti. Ma in realtà, mi fiderei di un giornalista cittadino quanto di un chirurgo cerebrale cittadino, solo che quest’ultimo probabilmente ucciderebbe meno persone. Crederò che i citizen journalist siano più che propagandisti quando pubblicheranno materiale accuratamente controllato e adeguatamente presentato che non aiuterà la parte che sostengono. Mi aspetto di dover aspettare a lungo: dopo tutto, è quello che sono che conta, non quello che fanno e quanto bene lo fanno.

Abbiamo quindi una classe politica, così come una PMC e i suoi seguaci, che non solo non sono in grado di fare molto, ma non ne sentono nemmeno il bisogno. Vivono in un mondo in cui non solo le ricompense tangibili, ma anche la soddisfazione interiore di essere una brava persona, non derivano da ciò che fai, ma da ciò che sei. E l’essere una brava persona, uno degli eletti, giustificato dalla fede e non dalle opere, dà quel senso di superiorità pazzesco e quella tendenza insopportabile a fare la morale agli altri, che deriva in ultima analisi da alcuni filoni del cristianesimo e dei suoi derivati secolari. Si noti in particolare che una persona del genere non vede alcun obbligo di fare qualcosa: è già salvata. Ma d’altra parte questo status dà loro il diritto di arringare e fare la morale ai malvagi e ai preteriti. Questo, ne sono convinto, è il motivo per cui le attuali élite politiche possono solo fare la morale e insultare la gente comune, piuttosto che cercare razionalmente di argomentare per i loro voti. Gesù avrebbe potuto insegnare loro una o due cose. (A questo proposito, ho sempre sostenuto che “noi” è una delle parole più pericolose e infide della politica: la prossima volta che qualcuno vi dice che “dobbiamo…” chiedetegli quale preciso contributo personale intende dare).

C’è una piccola difficoltà nel prendere un modello derivato dal bigottismo religioso e dalla certezza di una vita ultraterrena e applicarlo al disordinato mondo della politica elettorale occidentale moderna: le due cose non hanno assolutamente alcun punto di contatto tra loro. Gli elettori comuni che vivono vite comuni hanno preoccupazioni comuni, alle quali si aspettano ragionevolmente che i politici rispondano. Ma al giorno d’oggi le loro preoccupazioni vengono trattate come irragionevoli e persino stupide: possono pensare che l’economia stia peggiorando, che non riescano a sfamare le loro famiglie, che il loro tenore di vita si stia abbassando ogni anno, ma questo perché sono troppo stupidi per leggere e capire le statistiche ufficiali che mostrano quanto la vita stia migliorando. In altre parole, sono i preteriti, i non eletti, condannati alle tenebre esterne e al di là di ogni aiuto.

Per reprimere la critica popolare e le richieste di una vita dignitosa, niente è più efficace di una finta indignazione morale. Prendiamo un paio di esempi tratti da esperienze recenti. Vostra figlia quindicenne torna a casa da scuola in lacrime perché è stata inseguita nel cortile da gruppi di ragazzi che la chiamavano prostituta perché indossava la gonna. Le lamentele all’insegnante producono un’alzata di spalle rassegnata. Questo succede sempre più spesso e non si può fare nulla. Le lamentele al preside della scuola sono altrettanto inefficaci: alle scuole è stato detto di non “fare rumore” per questi incidenti, perché potrebbero essere sfruttati dagli islamofobici e contribuire a rafforzare l’estrema destra. In teoria, questo tipo di comportamento è un reato penale, ma il commissariato locale vi dirà che non indaga su queste denunce per razzismo. Siamo un Paese che combatte con orgoglio il razzismo e l’islamofobia. Questo è ciò che siamo e non dobbiamo fare nulla che metta in discussione questo status. Mandate vostra figlia a scuola con i jeans.

Allo stesso modo, in molte città europee, i centri cittadini sono deserti a tarda sera a causa della violenza delle bande e dell’accattonaggio aggressivo misto a furti. I ristoranti chiudono, i fornitori di cibo e bevande falliscono e i posti di lavoro scompaiono. Ma in realtà è colpa di persone stupide come voi e me, influenzate dalla paura del crimine (solo due persone sono state uccise fuori dai ristoranti questo mese!) e dall’estrema destra che diffonde bugie come parte della sua propaganda di odio anti-immigrati. Per reprimere questi crimini dovremmo comportarci in modi che non ci appartengono, quindi dovrete sopportarlo.

Anche preoccupazioni del tutto estranee possono essere in qualche modo assimilate a questa logica. Siete stufi delle grandi città? Volete vivere in una piccola comunità dove conoscete i vostri vicini? È solo un caso di razzismo mascherato! Volete vivere in un mondo di posti di lavoro e famiglie sicure? Sei un idiota che non capisce la Nuova Dispensazione! Nel dubbio, insulta.

Eppure una delle regole più tenaci, ma meno apprezzate, della politica è che nulla dura per sempre, e tutto alla fine produce una reazione. Più lunga ed estrema è l’oscillazione del pendolo in una direzione, più violenta è di solito la reazione. In circostanze normali, quindi, gruppi di politici mainstream in vari Paesi sarebbero già apparsi e avrebbero iniziato a sostenere la necessità di prendere in considerazione le preoccupazioni della gente comune. Il fatto che ciò non stia accadendo è il più inquietante sviluppo politico dei nostri tempi: persino il Partito Comunista Sovietico nei suoi ultimi anni ha mostrato una maggiore flessibilità rispetto agli attuali sistemi politici dell’Occidente. O forse, come a volte mi chiedo, il Partito stesso si è scoraggiato e disgustato di se stesso, forse la tensione dell’implacabile conformismo ideologico sta cominciando a essere eccessiva e forse sta per commettere un suicidio collettivo, lasciando il futuro ad altri. Questo va bene, ma chi sono gli altri e dove sono?

1 44 45 46 47 48 155