LA FASE STANCA, di Pierluigi Fagan

LA FASE STANCA. Una ricerca pubblicata su Nature e relativa 45 milioni di articoli scientifici e 4 milioni di brevetti, negli ultimi decenni, ha indagato gli andamenti di un indice sintetizzato dai ricercatori, chiamato CD ovvero Consolidamento-Distruzione. I lavori di consolidamento sono le code lunghe di processi già avviati, i lavori di distruzione aprono a cambi di paradigma a salto ed innovano strutturalmente.
Come riportano sinteticamente due grafici, inesorabile la caduta dell’indice CD a partire dal dopoguerra; quindi, l’intera impresa scientifica sembra entrata in una “fase stanca” in cui non si inventa più nulla di decisivo. Ammesse le premesse ovvero la bontà e precisione della definizione e dello studio e considerando la scienza (con premesse e conseguenze tecniche) come una parte, se non “la” parte più importante della complessiva impresa di conoscenza umana quantomeno in Occidente, vediamo cosa sembra dirci la lettura di questo fenomeno.
La prima e forse più importante cosa è una considerazione a me cara, tratta dagli studi di uno storico dell’economia, tale Robert j Gordon. Dato il testo “The Rise and Fall of American Growth” (2016) che è un inavvicinabile mattone per i non specializzati e dato che le analisi e predizioni in esso contenute erano troppo innovative e pessimistiche, ha avuto una limitata risonanza. Da Paul Krugman in giù, l’atteggiamento è stato del tipo “mah, sembra avere davvero ragione, vedremo…”. Incontrovertibile sui fatti, sulle conseguenze speriamo si sbagli. Ma se i fatti sono incontrovertibili, tracciare le deduzioni dovrebbe esser altrettanto logico e se non, che qualcuno provi ad introdurre altra metrica piuttosto che rifugiarsi nelle incertezze emotive del pessimismo o ottimismo.
Cosa sosteneva Gordon? Semplicemente che “Nel secolo successivo alla Guerra Civile, una rivoluzione economica migliorò il tenore di vita americano in modi prima inimmaginabili. L’illuminazione elettrica, gli impianti idraulici interni, gli elettrodomestici, i veicoli a motore, i viaggi aerei, l’aria condizionata e la televisione hanno trasformato le famiglie e i luoghi di lavoro. Con i progressi della medicina, l’aspettativa di vita tra il 1870 e il 1970 crebbe da quarantacinque a settantadue anni”. Quell’era di crescita senza precedenti è giunta al termine? Secondo Gordon l’unica “rivoluzione” post anni ’70 è stata quella info-digitale ma anche accordandogli ricadute sul bio-medicale, complessivamente (a numero-peso-misura e non a fallace sensazione) non c’è partita, il meglio è passato, per sempre. Il tutto misurato secondo l’indice di produttività di tutti i fattori che conferma analisi e diagnosi: non possiamo più aspettarci crescita economica significativa e costante.
Insomma, la tesi di Gordon rivela una struttura storica dei processi di invenzione ed innovazione, molto ricchi, esplosivi ed ampiamente generativi all’inizio, poi normali, poi destinati a lunghe code di valore decrescente.
Ripeto, non si tratterebbe di caratteristiche interne del fenomeno specifico, del chi, come e perché inventa o innova, ma intrinseche e più generali di ogni fenomeno conoscitivo. Un po’ come quando rovistiamo nella raccolta dei filosofi Presocratici di Diels e Kranz e poi In Platone o Aristotele. Vennero per primi e lì c’è più o meno tutto (a livello dei “fondamentali”), il resto o è nota a margine o è qualche residuo impensato portato alla consapevolezza come coda del processo o pensiero attualizzato a nuovi tempi. Non che sia inutile, ma complessivamente il peso e valore dell’impresa conoscitiva tra le due fasi è non parametrabile.
Questo non dice che è finita del tutto per sempre, non c’è più niente di importante da pensare o cercare o inventare o innovare. Dice però che dentro una forma di sistema generale è così, almeno fino a che sarà proprio il sistema generale (un certo tipo di mondo umano di stare al mondo) a fare un salto di configurazione. Chessò, in un mondo sociale in cui lavoriamo tutti tre ore al giorno per corvè necessaria, la vita umana individuale e sociale, i suoi rapporti interni ed esterni tra culture a con la Natura, offrirebbe tutto un altro sistema generale che chiamerebbe cose, forme e processi nuovi e nuovi modi di inventare ed innovare.
La tesi di Gordon implica che: a) la crescita economica tende di natura ad appiattirsi; 2) l’economia a ristagnare; 3) se la società non cambia assetto, i minori tornaconti verranno sequestrati in alto ed il basso se la passerà sempre peggio il che attiverà un ciclo di feedback negativo tendente al catastrofico. Questo per le economie ipermature. Lo studio di Nature, sembra confermare che per lo più l’impresa conoscitiva tecno-scientifica va sui comodi binari del consolidamento e perde ogni possibilità di scartare ed aprire al radicalmente nuovo (disruptive).
Su questo andamento generale ci sono poi dei peggiorativi.
Il primo è che molta invenzione ed innovazione di più di un secolo fa era alla portata di singoli individui, oggi se non si agisce dentro imponenti istituzioni non si hanno letteralmente i mezzi. Provate a farvi dare un turno di ricerca per qualche bizzarra ipotesi al CERN, è impossibile. Eppure, è proprio dal ciarpame per lo più bizzarro che qualche volta si trova la scintilla del radicalmente nuovo. L’intera evoluzione della “vita” si basa su sbagli compiuti nella copiatura del DNA che chiamiamo “errori”.
Secondo, oggi la ricerca -dato che costa sempre di più- è strettamente finalizzata ai risultati attesi. Ma le grandi innovazioni sono nate per caso, cercando altro, se uno sapesse prima che novità cercare non sarebbe una novità. Da cui il noto fenomeno dell’eccesso di pubblicazione e inter-citazione, sterile a formare immagini di mondo dominanti altrettanto conformistiche e sterili.
Terzo, il complesso di ricerca teorica è sempre troppo legata all’aspetto tecnico per cui se la tecnica non offre la possibilità materiale, è impossibile tentare una certa indagine. Ma lo sviluppo tecnico costa e quindi ricade nelle dinamiche conservative conformi il sistema in atto. Da qui anche l’espansione verso l’iperspecializzazione, ma va da sé che aggiungere virgole a discorsi fatti a monte non porta certo a nuovi discorsi.
I tre punti convergono verso la questione economica e finanziaria condizionante e condizionata dalla politica e dalla dimensione degli stati. Il tutto crea anche un condizionamento restrittivo di tipo culturale o state nel complesso culturale (accademico e non) anglosassone o non avete speranza. Questo complesso culturale è aperto certo a contributi di africani, indiani, pakistani, europei e chi altro volete, ma in genere, previa anglo-sassonizzazione. Si riduce cioè la diversità culturale e per regola, se riducete la diversità i processi vanno verso l’auto-estinzione.
A sua volta, questo complesso culturale soffre dell’invadenza di strambe teorie economiche che vedono utile solo l’attività di impresa (parametro dell’efficienza) a mai quella di Stato, ma dato che le imprese hanno finalità strette e fondi limitati, non è certo dal loro ambito che può nascere ricerca del radicalmente nuovo. Insomma, c’è una correlazione attiva tra efficienza e deficienza. Il che genera quell’altro noto fenomeno per cui c’è ipertrofia nella ricerca applicata a scapito di quella di base.
Un biologo Nobel 2002 ebbe a dire “siamo affogati dai dati ma siamo assetati di conoscenza”, a dire che ci mancano sempre più complessi di idee e il diluvio di informazioni non serve a nulla. Eppure, è proprio sul diluvio di dati che sviluppiamo le nuove imprese conoscitive e produttive, fino a dar rilievo a quella dichiarazione di distillato pensiero magico di un noto impasticcato informatico secondo il quale a furia di produrre diluvio di dati, ad un certo punto, “magicamente” sarebbe emersa la macchina auto-cosciente, la “singolarità” (termine in genere pronunciato cadendo in una tranche estatica tendente al mistico tipo “ho visto la luce” con una vena di compiaciuto terrore).
Per carità, la stupidità fa parte dell’umanità (Cipolla), tuttavia è sintomatico quanto rilievo sociale, economico e culturale sia dato ad una affermazione per la quale, oltretutto, non si capisce perché un informatico strologhi di auto-coscienza in un regime di regole per le quali si dovrebbe controllare e premiare la competenza. Un informatico è competente di informatica e con l’informatica si fanno soldi, quindi è competente, peccato lo sia in un campo che con l’auto-coscienza non ha alcuna parentela. Tra l’altro, è in parte anche questo esubero della capacità di calcolo che fuorvia dando l’impressione che la qualità sia un epifenomeno della quantità quando semmai ne è una condizione tra le altre.
Ma sebbene questo secondo capitolo di “sociologia delle conoscenza” sia attraente da indagare e pieno di nodi, credo che il problema principale sia il primo. Le nostre società si riflettono su sistemi di conoscenza conformi che hanno fatto bene il loro lavoro che però ora vanno verso la coda lunga. Sarebbe allora il caso di cominciare a pensare a quale salto di configurazione sociale dedicarsi poiché è lì che si richiede la novità radicale da cui poi discendono nuovi e più ampi alberi di condizioni di possibilità per lo sviluppo di nuovi sistemi di idee, nuove idee, nuove forme di vita associata, nuove stagioni di invenzione e reale innovazione, futuro.
La stessa auto-coscienza scientifica dovrebbe sapere che dipendenza ebbe dalla profonda trasformazione della società medioevale in moderna.
Guai a far trattare il problema futuro al sistema che ha finito il suo ciclo di esistenza, guai ad aspettarsi nuove effervescenze da mentalità stanche. Così, tra qualche mese, assisteremo alla tenzone per il potere del sistema dominante (USA) tra due ottantenni coi pannoloni, è chiaro che idea di società, culture e conoscenza vadano di conseguenza nel più tipico, surreale e beckettiano “Finale di partita”.
> L’articolo del il Post che segnalava quello di Nature: https://www.ilpost.it/…/scoperte-scientifiche…/…
> Semmai di interesse, la recensione di Krugman al libro di Gordon: https://www.nytimes.com/…/review/the-powers-that-were.html
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PER L’UCRAINA, LE CONDIZIONI PER LA VITTORIA SONO CAMBIATE: CAPIRE LA DOTTRINA ZALOUJNY

Un regime che deve la propria sopravvivenza alla prosecuzione della guerra. Il gioco del cerino è iniziato. Ma sarà lunga. Giuseppe Germinario

PER L’UCRAINA, LE CONDIZIONI PER LA VITTORIA SONO CAMBIATE: CAPIRE LA DOTTRINA ZALOUJNY
La strategia di Zelensky appartiene al passato? Per il comandante in capo delle forze ucraine, Valeri Zaloujny, dobbiamo almeno prendere atto di una realtà che si è recentemente imposta all’Ucraina: le condizioni per la vittoria sono cambiate. Di fronte alla diminuzione degli aiuti militari, Kiev deve ora “trovare la propria strada”. Introduciamo e commentiamo questo testo chiave.
AUTORE LE GRAND CONTINENT – IMMAGINE © UFFICIO STAMPA PRESIDENZIALE UCRAINO VIA AP

Mentre negli ultimi giorni si moltiplicano le voci e le indiscrezioni sul licenziamento da parte del presidente Volodymyr Zelensky del comandante in capo delle forze armate ucraine, Valeri Zaloujny, il 1° febbraio Zaloujny ha pubblicato sulle colonne del media americano CNN un testo in cui espone la sua visione della strategia ucraina nella guerra imposta dalla Russia.

La tempistica di questa pubblicazione può sorprendere. In un momento in cui l’esercito ucraino sta affrontando una situazione difficile in prima linea, con le sue capacità offensive ampiamente ostacolate dall’indebolimento dell’assistenza militare occidentale – in gran parte a causa del mancato rinnovo del budget assegnato al Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti da parte del Congresso – e dall’esaurimento dei suoi uomini sul campo, Zaloujny si lascia andare a un esercizio per il quale aveva pagato il prezzo pochi mesi prima.

Già notate in diverse occasioni, le evidenti tensioni tra il capo delle forze armate ucraine e il Presidente si sono seriamente riaccese dopo la pubblicazione di un’intervista rilasciata da Zaloujny all’Economist lo scorso novembre, quando la controffensiva ucraina lanciata nell’estate del 2023 si è rivelata un fallimento. In questo nuovo articolo, che esplora la necessità di un costante adattamento e innovazione dell’esercito ucraino e della sua strategia, Zaloujny delinea come potrebbe essere la guerra ucraina nello scenario di una riduzione – già di fatto in atto – degli aiuti militari esterni ricevuti.

Nonostante gli sforzi degli europei e di altri Paesi – in particolare della Corea del Sud – è difficile al momento immaginare che l’Ucraina riprenda l’iniziativa sul campo nell’eventualità sempre più probabile di una fine degli aiuti militari americani, almeno nella forma in cui sono stati concessi finora. Mercoledì 31 gennaio, Josep Borrell ha dichiarato che gli europei consegneranno solo 524.000 proiettili da qui a marzo, mentre l’anno scorso ne erano stati promessi un milione. Il Ministro della Difesa ucraino Roustem Oumierov stima che l’esercito abbia bisogno di almeno 200.000 proiettili da 155 mm al mese, una media di oltre 6.000 al giorno. Nelle ultime settimane, le forze ucraine hanno sparato non più di 2.000 proiettili al giorno – tre volte meno dei loro avversari.

Valeri Zaloujny Quasi ottant’anni ci separano dalle ultime battaglie della Seconda Guerra Mondiale, che sono servite come base per la visione strategica delle guerre della fine del XX e dell’inizio del XXI secolo.

Nonostante il rapido sviluppo di armi ed equipaggiamenti militari, compresi aerei, missili e mezzi spaziali, e lo sviluppo delle comunicazioni e della guerra elettronica, la strategia per la vittoria è stata quella di distruggere il nemico e catturare o liberare il territorio. Le forme e i metodi utilizzati per raggiungere questo obiettivo dipendevano direttamente dal livello di sviluppo delle armi e degli equipaggiamenti militari utilizzati.

Naturalmente, la conoscenza delle basi della strategia, dell’arte operativa e della tattica dovrebbe accompagnare lo sviluppo della carriera degli specialisti militari e servire a risolvere due compiti principali.

Il primo di questi è probabilmente secondario. Consiste nel preparare un comandante militare alla guerra che verrà, con il compito di prevedere la situazione che caratterizzerà l’inizio delle ostilità. È proprio questo compito estremamente difficile che, se risolto, permette di resistere a un attacco e di dare al nemico un rifiuto degno di questo nome, dissanguando i suoi gruppi d’attacco e guadagnando così tempo per prendere l’iniziativa. L’intero processo comporta rischi e dubbi enormi, dovuti al fatto che esiste una sola possibilità di combattere una battaglia decente con forze ridotte e risorse limitate.

Questo primo “compito principale” descritto da Zaloujny si riferisce alle prime settimane dell’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022. La rapida avanzata di Mosca nel nord-est del Paese aveva fatto temere una rapida caduta di Kiev, che molto probabilmente avrebbe portato alla fuga o alla cattura dei membri del governo ucraino, all’insediamento di un nuovo governo filorusso e, quindi, alla fine del conflitto. In realtà, a impedire che ciò avvenisse è stata probabilmente tanto la feroce resistenza ucraina quanto la disorganizzazione dell’esercito russo.

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Il secondo compito, a mio avviso, è il più importante: determinare per tempo i requisiti della guerra, che sono legati all’evoluzione del progresso tecnologico e, di conseguenza, al rapido sviluppo di armi ed equipaggiamenti militari, alla situazione politica nel mondo e nel Paese stesso, alla situazione economica, ecc. Pertanto, per ogni guerra, dobbiamo trovare la nostra strategia e la nostra logica, che ci permetterà di trovare la strada per la vittoria in nuove condizioni.

Quando parliamo di una nostra strategia, non possiamo assolutamente rifiutare le dottrine esistenti che descrivono il processo di preparazione e conduzione delle operazioni. Dobbiamo semplicemente renderci conto che saranno in continua evoluzione e che si arricchiranno di nuovi contenuti.

I principi dell’arte operativa rimarranno invariati.

Quindi, tenendo conto delle esigenze odierne, il nostro compito più importante sarà quello di adottare un nuovo punto di vista sulle forme e sui metodi di utilizzo delle forze di difesa per raggiungere la vittoria.

La ragione principale del cambiamento della strategia, delle forme e dei metodi di impiego delle truppe è, ovviamente, lo sviluppo di armi e attrezzature militari, in particolare dei sistemi senza pilota, che sono ormai ampiamente diffusi e possono essere utilizzati per un’ampia e crescente gamma di compiti. Di conseguenza, i sistemi senza pilota, insieme ad altri nuovi tipi di armi, potrebbero essere l’unica via d’uscita dalla guerra di posizione, di cui l’Ucraina non sta beneficiando in tempo per una serie di ragioni.

Sebbene i droni siano stati utilizzati in passato nei conflitti, la loro concentrazione in Ucraina non ha precedenti. In un rapporto pubblicato nel maggio 2023, il Royal United Services Institute (RUSI) ha stimato che tra i 25 e i 50 droni volano permanentemente ogni 10 chilometri lungo la linea del fronte. A soli due anni dall’inizio dell’invasione russa, stiamo già assistendo a un cambiamento nell’uso dei droni da parte di entrambe le parti. L’esercito ucraino è passato dai velivoli tattici turchi Bayraktar TB2 – lunghi oltre 6 metri – all’inizio del conflitto a modelli in miniatura disponibili sul mercato a prezzi inferiori. Pilotati a distanza o in “prima persona” tramite occhiali video, si sono dimostrati formidabili contro i veicoli corazzati russi.

La Russia – che a luglio ha completato la costruzione di un impianto di produzione di droni a Yelabuga, in Tatarstan, in collaborazione con Teheran – avrebbe una capacità produttiva di droni doppia rispetto all’Ucraina. Secondo le stime ucraine, Mosca può produrre o procurare circa 100.000 droni al mese, contro i soli 50.000 di Kiev. Le ultime ondate di attacchi aerei russi suggeriscono un cambiamento nella strategia di Mosca. La massa di droni a disposizione viene sempre più utilizzata per saturare le difese antiaeree ucraine e fornire così una migliore finestra di opportunità per i missili a lungo raggio, che sono più costosi e lunghi da produrre ma anche più distruttivi.

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Allo stesso tempo, nella situazione attuale, una serie di altri fattori influenzano senza dubbio la decisione di cercare nuove forme di impiego delle forze di difesa.

Tra questi

l’instabilità della situazione politica intorno all’Ucraina, che sta portando a una riduzione del sostegno militare
la forte probabilità che la Russia provochi una serie di conflitti, sull’esempio di Israele e dello Yemen, e distolga i principali partner dal sostegno all’Ucraina;
l’esaurimento delle scorte di missili e munizioni per l’artiglieria e la difesa aerea dei nostri partner, dovuto all’alta intensità delle ostilità in Ucraina e all’impossibilità di produrli rapidamente nel contesto di una carenza globale di polvere da sparo;
l’insufficiente efficacia della politica delle sanzioni, che sta portando al dispiegamento delle capacità dell’industria della difesa in Russia e nei suoi Stati partner, consentendo almeno una guerra di logoramento;
il significativo vantaggio del nemico nella mobilitazione delle risorse umane e l’incapacità delle istituzioni statali ucraine di migliorare la forza delle forze di difesa senza adottare misure impopolari;
l’imperfezione del quadro normativo che regola l’industria della difesa nel nostro Paese e la parziale monopolizzazione di questo settore stanno portando a difficoltà nella produzione di munizioni nazionali e, di conseguenza, a una maggiore dipendenza dell’Ucraina dalle forniture degli alleati;
l’incertezza sulla natura futura della lotta armata su questa scala, che rende difficile per i nostri alleati determinare le priorità di sostegno.
La popolazione della Russia è più di tre volte quella dell’Ucraina. Per un certo periodo, il fervore patriottico ucraino e lo scarso addestramento ricevuto dai soldati e dai volontari russi che sono andati al fronte possono aver fatto dimenticare – o almeno sfumare – questa realtà dell’equilibrio di potere tra i due Paesi, ma sul campo sta diventando sempre più evidente. In alcune zone del fronte, le truppe ucraine sono esauste e talvolta troppo poche per resistere ai ripetuti assalti russi. La scorsa settimana, Mosca è avanzata negli oblast di Luhansk, Donetsk e Kharkiv, nella parte orientale del Paese.

Mentre l’esercito russo starebbe reclutando (secondo il Bundesheer austriaco) 1.200 uomini al giorno – sufficienti a coprire le perdite – a dicembre il governo ucraino ha proposto una nuova legge volta ad aumentare il numero di persone che possono essere mobilitate, nonché le condizioni che regolano tale mobilitazione. Considerata incostituzionale, una nuova versione della legge è stata presentata pochi giorni fa. Sebbene necessarie per affrontare le forze russe, le condizioni che regolano la mobilitazione potrebbero minare il sostegno di cui godono il presidente ucraino e l’esercito come istituzione – in cui il livello di fiducia tra la popolazione è aumentato considerevolmente dal lancio dell’invasione russa nel febbraio 2022.

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L’esperienza delle forze armate ucraine, in particolare nel 2022-2023, è unica e irripetibile per noi. Pertanto, nella nostra ricerca del percorso verso la vittoria, dobbiamo costantemente rivedere le capacità disponibili che determinano l’esito della guerra e cercare modi per ottenere un vantaggio sul nemico. Inoltre, quando utilizziamo il concetto di esito delle operazioni di combattimento, comprendiamo le condizioni in cui il nemico rifiuterà ulteriori aggressioni, e la creazione di queste condizioni è considerata un uso efficace delle capacità disponibili nell’arsenale delle forze armate ucraine.

Alla luce di quanto detto e delle condizioni della guerra odierna, forse l’opzione principale per ottenere un vantaggio è quella di padroneggiare l’intero arsenale di mezzi relativamente economici, moderni ed estremamente efficaci che si stanno sviluppando rapidamente. È il tentativo di utilizzare le conquiste del progresso nello sviluppo delle ultime tecnologie che ci permetterà di vincere la battaglia scientifica, tecnica, tecnologica e tattica e che porterà non solo a una vittoria incondizionata, ma anche al risparmio e alla conservazione delle risorse sia per l’Ucraina che per i nostri partner.

La necessità di aumentare significativamente le capacità dei sistemi senza pilota e di altri sistemi tecnologici avanzati per influenzare positivamente il corso delle ostilità spinge a cercare nuove forme e metodi di applicazione che, a loro volta, influenzeranno certamente la struttura delle forze armate e di altre componenti delle forze di difesa ucraine.

L’aumento dell’impatto degli UAV e di altri sistemi avanzati sull’efficacia delle operazioni di combattimento può essere ottenuto attraverso

Migliorando continuamente la consapevolezza situazionale dei comandanti e la capacità di mantenerla in tempo reale nell’area di operazione, di giorno e di notte, con qualsiasi condizione atmosferica;
supporto per il fuoco e gli attacchi in tempo reale, 24 ore su 24;
fornire informazioni di intelligence in tempo reale per gli attacchi;
effettuare attacchi di precisione e ad alta precisione contro il nemico e i suoi obiettivi, sia in prima linea che in profondità.
È quindi necessario creare un nuovo concetto di operazioni basato sulle capacità tecnologiche esistenti, che si baserà non solo sugli indicatori spaziali e temporali delle operazioni militari (di combattimento), ma anche principalmente sulla creazione di condizioni decisive e sul conseguimento di effetti rilevanti che contribuiranno al raggiungimento dell’obiettivo dell’operazione.

Sulla base dell’esperienza bellica e delle previsioni di sviluppo del combattimento armato, queste condizioni decisive sono le seguenti:

ottenere l’assoluta superiorità aerea, in particolare ad altitudini che consentano attacchi efficaci, ricognizione, sorveglianza e logistica;
privare il nemico della capacità di condurre azioni offensive o difensive;
aumentare la mobilità delle proprie truppe e limitare completamente la mobilità delle truppe nemiche;
ottenere un accesso sicuro ai confini designati, prendendo il controllo di ampie aree di terreno;
privare il nemico dell’opportunità di ristabilire la posizione perduta e raddoppiare gli sforzi.
A prima vista, si tratta di condizioni del tutto conservative e convenzionali, che sono state a lungo soddisfatte dalle forme e dai metodi esistenti. Ma questo è solo un primo sguardo, perché i mezzi per raggiungerle sono già cambiati e i vecchi mezzi, purtroppo, sono sempre più un sogno per le forze armate ucraine, e anche i mezzi per raggiungerli stanno cambiando.

Uno dei principali messaggi che emergono dal testo di Zaloujny è la necessità per l’esercito ucraino di adattarsi di fronte all’indebolimento del sostegno militare di cui godeva all’epoca. I 50 miliardi di euro sbloccati dagli Stati europei nella riunione del Consiglio del 1° febbraio sono fondamentali per mantenere il funzionamento dell’apparato statale ucraino che sovrintende e alimenta lo sforzo bellico. Tuttavia, come riassumono le giornaliste della BBC Laura Gozzi e Sarah Rainsford, “questo programma di finanziamento non è per la prima linea, ma per la vita dietro le linee “1 .

L’aspettativa di nuovi finanziamenti da parte del Congresso degli Stati Uniti sembra sempre più una chimera, visto che la posizione dei membri repubblicani della Camera – e, in parte, del Senato – sull’assistenza all’Ucraina è cambiata nel giro di pochi mesi, sotto la spinta della campagna elettorale di Donald Trump. I senatori incaricati di negoziare un pacchetto che combina fondi per la crisi al confine meridionale degli Stati Uniti e assistenza all’Ucraina, a Taiwan e a Israele in particolare, dovrebbero svelare a breve il testo che potrebbe garantire a Kiev il supporto militare di cui il suo esercito ha bisogno per fronteggiare la Russia. Tuttavia, Trump, che durante la campagna presidenziale voleva usare l’immigrazione clandestina come arma politica contro Joe Biden, sta lavorando per bloccare questo accordo sul nascere, prendendo così due piccioni con una fava: bloccare la crisi al confine e privare l’Ucraina di fondi.

È prevedibile che, con la prospettiva che Trump venga nominato dal GOP dopo le primarie, i membri repubblicani del Congresso non rischieranno di opporsi al potenziale futuro presidente. Lo stesso Mitch McConnell, leader della minoranza repubblicana al Senato, i cui rapporti con Trump sono stati tumultuosi in passato, avrebbe detto la scorsa settimana a una riunione del partito repubblicano che “la politica di confine è cambiata” e che non vuole “fare nulla per danneggiare le possibilità dei candidati presidenziali del GOP “2 . Finora, McConnell è stato uno dei più forti sostenitori dell’assistenza all’Ucraina all’interno dei ranghi repubblicani del Congresso. È difficile capire come il voto sull’accordo, che potrebbe avvenire già la prossima settimana, possa raccogliere 60 voti per passare al Senato, per non parlare della Camera.

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In linea con l’idea di creare le condizioni decisive, il processo di attuazione sarà ovviamente garantito dalla risoluzione di una serie di compiti operativi, e nel corso della risoluzione di ogni compito operativo, gli effetti necessari saranno creati grazie alle forze e alle risorse coinvolte. E sono loro che, grazie alla loro superiorità tecnologica, devono agire fuori dagli schemi e almeno in accordo con la dottrina in vigore.

La creazione degli effetti necessari porta inevitabilmente a cambiamenti radicali nel sistema applicativo. Per soddisfare le condizioni di creazione degli effetti necessari, è necessario considerare già distinti i seguenti elementi:

un’operazione di creazione di un campo numerico;
un’operazione di controllo dell’ambiente elettronico
un’operazione che combini attacchi aerei senza equipaggio e attacchi cibernetici;
un’operazione logistica.
Tutte queste operazioni sono già state padroneggiate e sviluppate. Sono condotte secondo un unico concetto e piano, sono coordinate e interconnesse, ma differiscono nel contenuto.

Per quanto riguarda la condotta concreta delle operazioni per ottenere effetti, esse dovrebbero essere essenzialmente difensive e offensive, ma possono differire in termini di metodo di esecuzione:

un’operazione per ridurre il potenziale economico del nemico ;
un’operazione di completo isolamento ed esaurimento;
operazione robotica di ricerca e attacco;
operazione robotizzata per il controllo di una zona di crisi;
operazione psicologica con mezzi d’attacco;
operazione difensiva tecnologica senza contatto.
Questo elenco di operazioni continuerà a crescere con lo sviluppo dei mezzi stessi e, naturalmente, porterà a cambiamenti nei documenti dottrinali e alla formazione di una filosofia completamente nuova dell’addestramento e delle operazioni di combattimento. L’emergere di nuove operazioni indipendenti, o di loro combinazioni, implica la necessità di creare una nuova struttura organizzativa. Tutto questo sarà possibile se le istituzioni statali reagiranno in modo flessibile e rapido ai cambiamenti.

Ad esempio, la natura e il contenuto delle tradizionali operazioni difensive, offensive e di stabilizzazione, che erano generalmente pianificate e condotte in modo lineare e basato su modelli, sono cambiati. Allo stesso tempo, l’essenza di queste operazioni è stata unificata, compresi i punti di vista dei partner. Allo stesso tempo, il noto concetto di guerra centrata sulla rete nel nuovo ambiente, grazie a mezzi di combattimento armati ad alta tecnologia, viene interpretato non attraverso le azioni delle truppe, ma attraverso la creazione di effetti e la realizzazione di condizioni decisive utilizzando capacità appropriate.

Vorrei anche sottolineare che, oltre ad aumentare l’efficacia delle operazioni di combattimento, i sistemi aerei senza pilota e altri sistemi tecnologici avanzati possono risolvere una serie di problemi chiave nell’organizzazione e nella condotta delle operazioni di combattimento da parte delle forze di difesa ucraine:

Aumentare il grado di guerra senza contatto e, di conseguenza, ridurre il livello di vittime grazie alla capacità di controllare questi mezzi da remoto;
ridurre il grado di coinvolgimento dei mezzi di distruzione tradizionali nell’esecuzione delle missioni di combattimento;
garantire operazioni di combattimento con un impegno limitato di equipaggiamento militare pesante;
nonostante l’assenza di una flotta, colpire le forze di superficie e sottomarine nemiche e le loro infrastrutture costiere quasi fino all’intera profondità del teatro di operazioni in mare, con grande efficacia e rischi minimi per il personale;
infliggere massicci attacchi a sorpresa alle infrastrutture critiche e alle comunicazioni importanti senza bisogno di costosi missili e aerei con equipaggio.
La capacità dell’esercito ucraino di resistere agli assalti russi e di condurre operazioni offensive dipende da una costante necessità di innovazione. Ciò è particolarmente vero nel Mar Nero, dove l’equilibrio di potere era ed è tuttora altamente asimmetrico, a favore della Russia. Pur non disponendo di una vera e propria marina militare, dall’inizio del conflitto l’Ucraina è riuscita a distruggere circa il 20% della flotta russa del Mar Nero, grazie soprattutto all’uso di droni navali di superficie (USV) e di missili ucraini – Neptune in particolare – e occidentali.

Tuttavia, il comandante della Marina ucraina Oleksiy Neïjpapa ha recentemente ammesso che “le tattiche sviluppate nel 2022 e 2023 non funzioneranno nel 2024. Quindi dobbiamo cambiare tattica, cambiare le caratteristiche tecniche di tutto ciò che facciamo”. Sebbene la Russia sia stata particolarmente lenta a reagire agli attacchi ucraini in Crimea e nel Mar Nero, si sta adattando e potrebbe riconquistare la sua superiorità. Di fronte a questo rischio, l’esercito ucraino sta studiando lo sviluppo di nuove capacità – ad esempio, droni subacquei autonomi – che continuerebbero a tenere a bada la flotta russa, consentendo così di mantenere il commercio nel Mar Nero.

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Questo elenco di vantaggi è incompleto e senza dubbio si evolverà, ampliando la gamma di applicazioni efficaci. È chiaro che sul campo di battaglia il nemico cercherà modi per difendersi e tenterà di prendere l’iniziativa. Pertanto, con lo sviluppo delle capacità dei sistemi d’attacco, compresi quelli senza pilota, è imperativo migliorare la difesa e le contromisure. Per padroneggiare le nuove forme e i nuovi metodi, le forze di difesa devono quindi creare un sistema di riarmo tecnologico statale completamente nuovo, che comprenderà i seguenti sottosistemi:

sviluppo e supporto scientifico ;
produzione e servizi
formazione del personale di manutenzione e generalizzazione dell’esperienza di combattimento;
impiego delle truppe
finanziamento flessibile;
logistica.
È molto probabile che ognuno di questi sottosistemi richiederà in futuro ricerche e sviluppi separati, ma si può già dire che il sistema deve essere olistico e allo stesso tempo flessibile in termini di attori che possono essere coinvolti, così come in termini di finanziamenti e modifiche alla produzione.

Non c’è dubbio che tutto questo richiederà tempo, ma il tempo è fondamentale.

Considerando il sistema applicativo esistente, le soluzioni tecniche trovate, il sistema di gestione già stabilito, l’esperienza acquisita e le opinioni dei partner nell’ambiente attuale, la creazione di un tale sistema con il volume di produzione richiesto potrebbe richiedere fino a cinque mesi. Questo periodo è dovuto alla necessità di creare strutture organizzative adeguate e di dotarle di personale, di formarle, di fornire risorse, di creare le infrastrutture e la logistica necessarie e di sviluppare un quadro dottrinale.

Tenendo conto di ciò, nel 2024 dovremo concentrare i nostri sforzi su :

creare un sistema per fornire alle forze di difesa attrezzature ad alta tecnologia;
introdurre una nuova filosofia per la preparazione e la condotta delle operazioni militari, tenendo conto dei limiti;
l’acquisizione di nuove capacità militari il più rapidamente possibile.
Stiamo parlando del fatto che, in condizioni moderne, le forze armate ucraine, così come le altre componenti delle forze di difesa dello Stato, hanno capacità che consentono loro non solo di distruggere il nemico, ma anche di garantire l’esistenza stessa dello Stato. È quindi necessario sfruttare le opportunità offerte dalle nuove condizioni di guerra per massimizzare l’accumulo delle più recenti capacità di combattimento, che consentiranno di utilizzare meno risorse per infliggere il massimo danno al nemico, ponendo fine alla sua aggressione e proteggendo l’Ucraina in futuro.

FONTI
Laura Gozzi e Sarah Rainsford, “Pacchetto di sostegno all’Ucraina del valore di 50 miliardi di euro approvato dai leader dell’UE”, BBC, 1 febbraio 2024.
Siobhan Hughes e Lindsay Wise, “Trump’s Hard-Line Border Stance Endangers Funding for Ukraine”, The Wall Street Journal, 25 gennaio 2024.

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Trasformare la CIA in un’epoca di competizione_Di William J. Burns

Spionaggio e statistica
Trasformare la CIA in un’epoca di concorrenza
Di William J. Burns
30 gennaio 2024
William Burns testimonia al Senato degli Stati Uniti, febbraio 2021
Burns testimonia al Senato degli Stati Uniti, febbraio 2021

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https://www.foreignaffairs.com/united-states/cia-spycraft-and-statecraft-william-burns

Per tutto il tempo in cui i Paesi si sono tenuti segreti l’un l’altro, hanno cercato di rubarseli a vicenda. Lo spionaggio è stato e continuerà a essere parte integrante della politica statale, anche se le sue tecniche si evolvono continuamente. Le prime spie americane hanno trascorso la guerra rivoluzionaria utilizzando codici cifrati, reti di corrieri clandestini e inchiostro invisibile per corrispondere tra loro e con gli alleati stranieri. Nella Seconda guerra mondiale, il campo emergente dell’intelligence dei segnali ha contribuito a scoprire i piani di guerra giapponesi. Durante l’inizio della Guerra Fredda, le capacità di intelligence degli Stati Uniti sono letteralmente salite nella stratosfera, con l’avvento dell’U-2 e di altri aerei spia ad alta quota che potevano fotografare le installazioni militari sovietiche con una chiarezza impressionante.

Le semplici stelle incise sul muro commemorativo della sede centrale della CIA a Langley, in Virginia, onorano i 140 funzionari dell’agenzia che hanno dato la vita per servire il loro Paese. Il monumento ricorda in modo indelebile gli innumerevoli atti di coraggio. Tuttavia, questi casi di eroismo e i molti successi silenziosi della CIA rimangono molto meno noti al pubblico americano rispetto agli errori che talvolta hanno macchiato la storia dell’agenzia. La prova decisiva per l’intelligence è sempre stata quella di anticipare e aiutare i responsabili politici a gestire i profondi cambiamenti nel panorama internazionale, quei momenti di plastica che si presentano solo poche volte ogni secolo.

Come ha ribadito il presidente Joe Biden, gli Stati Uniti si trovano oggi di fronte a uno di quei rari momenti, tanto importanti quanto l’alba della Guerra Fredda o il periodo successivo all’11 settembre. L’ascesa della Cina e il revanscismo della Russia pongono sfide geopolitiche scoraggianti in un mondo di intensa competizione strategica, in cui gli Stati Uniti non godono più di un primato incontrastato e in cui si moltiplicano le minacce climatiche esistenziali. A complicare ulteriormente le cose c’è una rivoluzione tecnologica ancora più ampia della rivoluzione industriale o dell’inizio dell’era nucleare. Dai microchip all’intelligenza artificiale fino all’informatica quantistica, le tecnologie emergenti stanno trasformando il mondo, compresa la professione dell’intelligenza. Per molti versi, questi sviluppi rendono il lavoro della CIA più difficile che mai, fornendo agli avversari nuovi potenti strumenti per confonderci, eluderci e spiarci.

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Tuttavia, per quanto il mondo stia cambiando, lo spionaggio rimane un’interazione tra esseri umani e tecnologia. Continueranno ad esserci segreti che solo gli uomini possono raccogliere e operazioni clandestine che solo gli uomini possono condurre. I progressi tecnologici, in particolare nell’intelligence dei segnali, non hanno reso irrilevanti queste operazioni umane, come alcuni hanno previsto, ma hanno invece rivoluzionato la loro pratica. Per essere un servizio di intelligence efficace nel ventunesimo secolo, la CIA deve fondere la padronanza delle tecnologie emergenti con le capacità umane e l’audacia individuale che sono sempre state al centro della nostra professione. Ciò significa dotare gli agenti operativi degli strumenti e delle tecniche per condurre lo spionaggio in un mondo di costante sorveglianza tecnologica, e dotare gli analisti di sofisticati modelli di intelligenza artificiale in grado di digerire enormi quantità di informazioni aperte e acquisite clandestinamente, in modo da poter esprimere i migliori giudizi umani.

Allo stesso tempo, sta cambiando anche l’uso che la CIA fa delle informazioni raccolte. La “declassificazione strategica”, ovvero la divulgazione pubblica intenzionale di alcuni segreti per indebolire i rivali e radunare gli alleati, è diventata uno strumento ancora più potente per i responsabili politici. Usarlo non significa mettere a repentaglio le fonti o i metodi usati per raccogliere l’intelligence, ma significa resistere con giudizio all’impulso riflessivo di tenere tutto riservato. La comunità di intelligence statunitense sta anche imparando il valore crescente della diplomazia dell’intelligence, acquisendo una nuova comprensione di come i suoi sforzi per sostenere gli alleati e contrastare i nemici possano sostenere i responsabili politici.

Questo è un periodo di sfide storiche per la CIA e per l’intera professione dell’intelligence, con cambiamenti geopolitici e tecnologici che rappresentano una prova mai affrontata prima. Il successo dipenderà dalla fusione dell’intelligence umana tradizionale con le tecnologie emergenti in modi creativi. In altre parole, sarà necessario adattarsi a un mondo in cui l’unica previsione sicura sul cambiamento è che esso accelererà.

PUTIN INDIETRO
L’era post-Guerra Fredda si è conclusa definitivamente nel momento in cui la Russia ha invaso l’Ucraina nel febbraio 2022. Ho trascorso gran parte degli ultimi vent’anni a cercare di capire la combinazione infiammabile di rancore, ambizione e insicurezza che il presidente russo Vladimir Putin incarna. Una cosa che ho imparato è che è sempre un errore sottovalutare la sua fissazione per il controllo dell’Ucraina e delle sue scelte. Senza questo controllo, egli ritiene che sia impossibile per la Russia essere una grande potenza o per lui essere un grande leader russo. Questa tragica e brutale fissazione ha già portato vergogna alla Russia e ha messo in luce le sue debolezze, dalla sua economia unidimensionale alla sua gonfiata abilità militare al suo sistema politico corrotto. L’invasione di Putin ha anche suscitato una determinazione e una risolutezza mozzafiato da parte del popolo ucraino. Ho visto il loro coraggio in prima persona durante i frequenti viaggi di guerra in Ucraina, punteggiati dai raid aerei russi e dalle immagini vivide della tenacia e dell’ingegno ucraini sul campo di battaglia.

La guerra di Putin è già stata un fallimento per la Russia a molti livelli. Il suo obiettivo originario di conquistare Kiev e sottomettere l’Ucraina si è rivelato sciocco e illusorio. Le sue forze armate hanno subito danni immensi. Almeno 315.000 soldati russi sono stati uccisi o feriti, due terzi dell’inventario di carri armati russi di prima della guerra sono stati distrutti e il vantato programma di modernizzazione militare di Putin, durato decenni, è stato svuotato. Tutto questo è il risultato diretto del valore e dell’abilità dei soldati ucraini, sostenuti dal supporto occidentale. Nel frattempo, l’economia russa sta subendo contraccolpi a lungo termine e il Paese sta segnando il suo destino di vassallo economico della Cina. Le ambizioni smisurate di Putin si sono ritorte contro anche in un altro modo: hanno spinto la NATO a diventare più grande e più forte.

Lo spionaggio rimane un’interazione tra esseri umani e tecnologia.
Anche se la morsa repressiva di Putin non sembra destinata a indebolirsi presto, la sua guerra in Ucraina sta silenziosamente corrodendo il suo potere in patria. L’ammutinamento di breve durata lanciato lo scorso giugno dal leader mercenario Yevgeny Prigozhin ha offerto uno sguardo ad alcune delle disfunzioni che si nascondono dietro l’immagine di controllo accuratamente lucidata di Putin. Per un leader che si è faticosamente costruito una reputazione di arbitro dell’ordine, Putin è apparso distaccato e indeciso mentre gli ammutinati di Prigozhin si facevano strada verso Mosca. Per molti membri dell’élite russa, la domanda non era tanto se l’imperatore non avesse i vestiti, quanto piuttosto perché ci stesse mettendo così tanto a vestirsi. L’apostolo della vendetta per eccellenza, Putin alla fine ha regolato i conti con Prigozhin, che è stato ucciso in un incidente aereo sospetto due mesi dopo l’inizio della sua ribellione. Ma la critica pungente di Prigozhin alle menzogne e agli errori militari alla base della guerra di Putin, e alla corruzione al centro del sistema politico russo, non scomparirà presto.

Quest’anno sarà probabilmente un anno duro sul campo di battaglia in Ucraina, una prova di resistenza le cui conseguenze andranno ben oltre l’eroica lotta del Paese per sostenere la propria libertà e indipendenza. Mentre Putin rigenera la produzione di difesa russa – con componenti critici provenienti dalla Cina, nonché armi e munizioni dall’Iran e dalla Corea del Nord – continua a scommettere che il tempo è dalla sua parte, che può ridurre l’Ucraina e logorare i suoi sostenitori occidentali. La sfida dell’Ucraina è quella di scalfire l’arroganza di Putin e dimostrare l’alto costo per la Russia di un conflitto continuo, non solo facendo progressi in prima linea, ma anche lanciando attacchi più profondi alle sue spalle e guadagnando costantemente terreno nel Mar Nero. In questo contesto, Putin potrebbe tornare a lanciare sciabolate nucleari e sarebbe sciocco escludere del tutto i rischi di escalation. Ma sarebbe altrettanto sciocco lasciarsi intimidire inutilmente da questi rischi.

La chiave del successo sta nel preservare gli aiuti occidentali all’Ucraina. Con meno del cinque per cento del bilancio della difesa degli Stati Uniti, si tratta di un investimento relativamente modesto con importanti ritorni geopolitici per gli Stati Uniti e notevoli ritorni per l’industria americana. Mantenere il flusso di armi metterà l’Ucraina in una posizione più forte se dovesse emergere un’opportunità di negoziati seri. Offre la possibilità di assicurare una vittoria a lungo termine per l’Ucraina e una perdita strategica per la Russia; l’Ucraina potrebbe salvaguardare la propria sovranità e ricostruirsi, mentre la Russia sarebbe lasciata a fare i conti con i costi duraturi della follia di Putin. Per gli Stati Uniti abbandonare il conflitto in questo momento cruciale e interrompere il sostegno all’Ucraina sarebbe un autogol di proporzioni storiche.

IL GIOCO DI POTERE DI XI
Nessuno più dei leader cinesi sta osservando da vicino il sostegno degli Stati Uniti all’Ucraina. La Cina rimane l’unico rivale degli Stati Uniti con l’intento di rimodellare l’ordine internazionale e il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per farlo. La trasformazione economica del Paese negli ultimi cinque decenni è stata straordinaria. È una trasformazione per la quale il popolo cinese merita grande credito e che il resto del mondo ha ampiamente sostenuto nella convinzione che una Cina prospera sia un bene globale. Il problema non è l’ascesa della Cina in sé, ma le azioni minacciose che la accompagnano sempre più spesso. Il leader cinese, Xi Jinping, ha iniziato il suo terzo mandato presidenziale con più potere di qualsiasi altro suo predecessore dopo Mao Zedong. Invece di usare questo potere per rafforzare e rivitalizzare il sistema internazionale che ha permesso la trasformazione della Cina, Xi sta cercando di riscriverlo. Nella professione dell’intelligence, studiamo attentamente ciò che dicono i leader. Ma prestiamo ancora più attenzione a ciò che fanno. La crescente repressione di Xi in patria e la sua aggressività all’estero, dalla partnership “senza limiti” con Putin alle minacce alla pace e alla stabilità nello Stretto di Taiwan, sono impossibili da ignorare.

Ma anche l’impatto della solidarietà occidentale sul calcolo di Xi circa i rischi di usare la forza contro Taiwan, che ha eletto un nuovo presidente, Lai Ching-te, a gennaio. Per Xi, un uomo incline a vedere gli Stati Uniti come una potenza in declino, la leadership americana in Ucraina è stata sicuramente una sorpresa. La volontà degli Stati Uniti di infliggere e assorbire il dolore economico per contrastare l’aggressione di Putin – e la sua capacità di radunare gli alleati per fare lo stesso – ha contraddetto fortemente la convinzione di Pechino che l’America fosse in declino terminale. Più vicino alle coste cinesi, la resilienza della rete americana di alleati e partner nell’Indo-Pacifico ha avuto un effetto di ammorbidimento sul pensiero di Pechino. Uno dei modi più sicuri per riaccendere la percezione cinese dell’incoscienza americana e alimentare l’aggressività cinese sarebbe quello di abbandonare il sostegno all’Ucraina. Il mantenimento del sostegno materiale all’Ucraina non va a scapito di Taiwan, ma invia un importante messaggio di determinazione degli Stati Uniti che aiuta Taiwan.

La competizione con la Cina si svolge sullo sfondo di una forte interdipendenza economica e di legami commerciali tra questo Paese e gli Stati Uniti. Tali legami sono stati molto utili ai due Paesi e al resto del mondo, ma hanno anche creato vulnerabilità critiche e seri rischi per la sicurezza e la prosperità americana. La pandemia COVID-19 ha reso evidente a tutti i governi il pericolo di dipendere da un solo Paese per le forniture mediche salvavita, così come la guerra della Russia in Ucraina ha reso evidente all’Europa il rischio di dipendere da un solo Paese per l’energia. Nel mondo di oggi, nessun Paese vuole trovarsi alla mercé di un unico fornitore di minerali e tecnologie critiche, soprattutto se questo fornitore è intenzionato ad armare queste dipendenze. Come hanno sostenuto i politici americani, la risposta migliore è quella di “de-rischiare” e diversificare in modo ragionevole, garantendo le catene di approvvigionamento degli Stati Uniti, proteggendo il loro vantaggio tecnologico e investendo nella loro capacità industriale.

In questo mondo volatile e diviso, il peso del “mezzo di copertura” sta crescendo. Democrazie e autocrazie, economie sviluppate e in via di sviluppo e Paesi del Sud globale sono sempre più intenzionati a diversificare le loro relazioni per massimizzare le loro opzioni. Vedono pochi vantaggi e molti rischi nell’attenersi a relazioni geopolitiche monogame con gli Stati Uniti o con la Cina. È probabile che un numero maggiore di Paesi sia attratto da uno status di relazione geopolitica “aperta” (o almeno “complicata”), seguendo la guida degli Stati Uniti su alcune questioni e coltivando al contempo le relazioni con la Cina. E se il passato è un precedente, Washington dovrebbe essere attenta alle rivalità tra il crescente numero di medie potenze, che storicamente hanno contribuito a innescare le collisioni tra quelle maggiori.

UN INTRECCIO FAMILIARE
La crisi provocata dal massacro di Hamas in Israele il 7 ottobre 2023 è un doloroso promemoria della complessità delle scelte che il Medio Oriente continua a porre agli Stati Uniti. La competizione con la Cina rimarrà la massima priorità di Washington, ma questo non significa che possa eludere altre sfide. Significa solo che gli Stati Uniti devono navigare con attenzione e disciplina, evitare di esagerare e usare la loro influenza con saggezza.

Ho trascorso gran parte degli ultimi quarant’anni lavorando in e sul Medio Oriente, e raramente l’ho visto più intricato o esplosivo. Portare a termine l’intensa operazione di terra israeliana nella Striscia di Gaza, soddisfare le profonde esigenze umanitarie dei civili palestinesi sofferenti, liberare gli ostaggi, prevenire l’estensione del conflitto ad altri fronti della regione e definire un approccio praticabile per il “giorno dopo” a Gaza sono tutti problemi incredibilmente difficili. Così come lo è far rinascere la speranza di una pace duratura che garantisca la sicurezza di Israele e la statualità palestinese e sfrutti le opportunità storiche di normalizzazione con l’Arabia Saudita e altri Paesi arabi. Per quanto sia difficile immaginare queste possibilità nell’attuale crisi, è ancora più difficile immaginare di uscire dalla crisi senza perseguirle seriamente.

La chiave della sicurezza di Israele e della regione è il rapporto con l’Iran. Il regime iraniano è stato rafforzato dalla crisi e sembra pronto a combattere fino all’ultimo proxy regionale, espandendo al contempo il suo programma nucleare e consentendo l’aggressione russa. Nei mesi successivi al 7 ottobre, gli Houthi, il gruppo di ribelli yemeniti alleati dell’Iran, hanno iniziato ad attaccare navi commerciali nel Mar Rosso e i rischi di escalation su altri fronti persistono.

Gli Stati Uniti non sono i soli responsabili della risoluzione dei problemi del Medio Oriente. Ma nessuno di essi può essere gestito, e tanto meno risolto, senza un’attiva leadership statunitense.

SPIE COME NOI
La competizione e l’incertezza geopolitica, per non parlare delle sfide comuni come il cambiamento climatico e i progressi tecnologici senza precedenti come l’intelligenza artificiale, rendono il panorama internazionale diabolicamente complicato. L’imperativo per la CIA è trasformare il suo approccio all’intelligence per stare al passo con questo mondo in rapida trasformazione. La CIA e il resto della comunità di intelligence statunitense – guidata da Avril Haines, direttore dell’intelligence nazionale – stanno lavorando duramente per affrontare questo momento con l’urgenza e la creatività che richiede.

Questo nuovo panorama presenta sfide particolari per un’organizzazione incentrata sull’intelligence umana. In un mondo in cui i principali rivali degli Stati Uniti – Cina e Russia – sono guidati da autocrati personalistici che operano all’interno di circoli ristretti e insulari di consiglieri, capire le intenzioni dei leader è più importante e più difficile che mai.

Come l’11 settembre ha inaugurato una nuova era per la CIA, così l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Sono profondamente orgoglioso del lavoro che la CIA e i nostri partner di intelligence hanno svolto per aiutare il Presidente e gli alti responsabili politici statunitensi, e soprattutto gli ucraini stessi, a contrastare Putin. Insieme, abbiamo fornito un avvertimento tempestivo e accurato dell’imminente invasione. Questa conoscenza ha anche permesso al Presidente di decidere di inviarmi a Mosca per avvertire Putin e i suoi consiglieri nel novembre 2021 delle conseguenze dell’attacco che sapevamo stavano pianificando. Convinti che la loro finestra per dominare l’Ucraina si stesse chiudendo e che l’inverno imminente offrisse un’opportunità favorevole, essi sono rimasti indifferenti e impassibili, sopravvalutando la propria posizione e sottovalutando la resistenza ucraina e la determinazione occidentale.

Una buona intelligence ha aiutato il Presidente a mobilitare e sostenere una forte coalizione di Paesi a sostegno dell’Ucraina. Ha anche aiutato l’Ucraina a difendersi con notevole coraggio e perseveranza. Il Presidente ha anche fatto un uso creativo della declassificazione strategica. Prima dell’invasione, l’amministrazione, insieme al governo britannico, ha rivelato i piani russi per le operazioni “false flag” che erano state progettate per addossare la colpa agli ucraini e fornire un pretesto per l’azione militare russa. Queste e le successive rivelazioni hanno negato a Putin le false narrazioni di cui l’ho visto spesso armarsi in passato. Lo hanno messo nella posizione scomoda e poco abituale di essere in contropiede. E hanno rafforzato sia l’Ucraina che la coalizione che la sostiene.

Biden e Burns parlano davanti al muro commemorativo del quartier generale della CIA a Langley, Virginia, luglio 2022
Kevin Lamarque / Reuters
Nel frattempo, la disaffezione nei confronti della guerra continua a rosicchiare la leadership e il popolo russo, sotto la spessa superficie della propaganda e della repressione di Stato. Questa corrente di disaffezione sta creando un’opportunità di reclutamento unica nella generazione per la CIA. Non la lasceremo andare sprecata.

Se la Russia può rappresentare la sfida più immediata, la Cina è la minaccia più grande a lungo termine e negli ultimi due anni la CIA si è riorganizzata per riflettere questa priorità. Abbiamo iniziato riconoscendo un fatto organizzativo che ho imparato molto tempo fa: le priorità non sono reali se i bilanci non le riflettono. Di conseguenza, la CIA ha impegnato molte più risorse per la raccolta, le operazioni e l’analisi dell’intelligence relativa alla Cina in tutto il mondo – più che raddoppiando la percentuale del nostro bilancio complessivo dedicato alla Cina negli ultimi due anni. Stiamo assumendo e formando un maggior numero di persone che parlano il mandarino e stiamo intensificando gli sforzi in tutto il mondo per competere con la Cina, dall’America Latina all’Africa all’Indo-Pacifico.

La CIA ha una dozzina di “centri di missione”, gruppi specifici che riuniscono funzionari delle varie direzioni dell’agenzia. Nel 2021, abbiamo creato un nuovo centro di missione incentrato esclusivamente sulla Cina. Si tratta dell’unico centro di missione dedicato a un singolo Paese e fornisce un meccanismo centrale per coordinare il lavoro sulla Cina, un lavoro che oggi si estende a ogni angolo della CIA. Stiamo anche rafforzando silenziosamente i canali di intelligence con le nostre controparti a Pechino, un mezzo importante per aiutare i responsabili politici a evitare inutili malintesi e collisioni involontarie tra Stati Uniti e Cina.

Anche se Cina e Russia assorbono gran parte dell’attenzione della CIA, l’agenzia non può permettersi di trascurare altre sfide, dall’antiterrorismo all’instabilità regionale. Il successo dell’attacco statunitense in Afghanistan nel luglio 2022 contro Ayman al-Zawahiri, il cofondatore ed ex leader di al-Qaeda, ha dimostrato che la CIA rimane fortemente concentrata sulle minacce terroristiche e conserva capacità significative per combatterle. La CIA sta inoltre dedicando ingenti risorse per contribuire a combattere l’invasione del fentanyl, l’oppioide sintetico che uccide decine di migliaia di americani ogni anno. Si profilano inoltre sfide regionali familiari, non solo in luoghi considerati da tempo strategicamente importanti, come la Corea del Nord e il Mar Cinese Meridionale, ma anche in parti del mondo la cui importanza geopolitica non potrà che crescere nei prossimi anni, come l’America Latina e l’Africa.

SPIE PIÙ INTELLIGENTI
Nel frattempo, stiamo trasformando il nostro approccio alle tecnologie emergenti. La CIA sta lavorando per combinare strumenti ad alta tecnologia con le antiche tecniche di raccolta di informazioni dagli individui – l’intelligence umana, o HUMINT. La tecnologia, ovviamente, sta rendendo molti aspetti dell’attività spionistica più difficili che mai. In un’epoca di città intelligenti, con videocamere in ogni strada e una tecnologia di riconoscimento facciale sempre più onnipresente, spiare è diventato molto più difficile. Per un agente della CIA che lavora all’estero in un Paese ostile, incontrando fonti che rischiano la propria incolumità per offrire informazioni preziose, la sorveglianza costante rappresenta una grave minaccia. Ma la stessa tecnologia che a volte lavora contro la CIA – che si tratti dell’estrazione di grandi dati per rivelare schemi nelle attività dell’agenzia o di reti di telecamere massicce che possono tracciare ogni movimento di un agente – può anche essere fatta funzionare a suo favore e contro altri. La CIA è in corsa contro i suoi rivali per utilizzare le tecnologie emergenti. L’agenzia ha nominato il suo primo responsabile tecnologico. E ha istituito un altro nuovo centro di missione incentrato sulla creazione di migliori partnership con il settore privato, dove l’innovazione americana offre un significativo vantaggio competitivo.

Il talento scientifico e tecnologico interno alla CIA rimane eccellente. Nel corso degli anni, l’agenzia ha sviluppato un magazzino di gadget spionistici, il mio preferito è la telecamera della Guerra Fredda progettata per assomigliare a una libellula. La rivoluzione dell’intelligenza artificiale e la valanga di informazioni open-source che si affiancano a quelle raccolte clandestinamente, creano nuove opportunità storiche per gli analisti della CIA. Stiamo sviluppando nuovi strumenti di intelligenza artificiale che ci aiuteranno a digerire tutto questo materiale in modo più rapido ed efficiente, liberando così gli agenti di concentrarsi su ciò che sanno fare meglio: fornire giudizi e approfondimenti ragionati su ciò che conta di più per i responsabili politici e su ciò che è più importante per gli interessi americani. L’intelligenza artificiale non sostituirà gli analisti umani, ma li sta già potenziando.

Un’altra priorità di questa nuova era è approfondire l’impareggiabile rete di partnership di intelligence della CIA in tutto il mondo, una risorsa che attualmente manca ai rivali più solitari degli Stati Uniti. La capacità della CIA di trarre vantaggio dai suoi partner – dalla loro raccolta, dalla loro esperienza, dalle loro prospettive e dalla loro capacità di operare più facilmente in molti luoghi rispetto all’agenzia – è fondamentale per il suo successo. Così come la diplomazia dipende dalla rivitalizzazione di questi partenariati vecchi e nuovi, lo stesso vale per l’intelligence. In fondo, la professione dell’intelligence si basa sulle interazioni umane, e non c’è niente che possa sostituire il contatto diretto per rafforzare i legami con i nostri alleati più stretti, comunicare con i nostri avversari più agguerriti e coltivare tutti quelli che si trovano nel mezzo. In più di 50 viaggi all’estero in quasi tre anni di incarico come direttore, ho avuto modo di conoscere tutti questi rapporti.

A volte, per i funzionari dell’intelligence è più conveniente trattare con i nemici storici in situazioni in cui il contatto diplomatico potrebbe significare un riconoscimento formale. È per questo che il Presidente mi ha inviato a Kabul alla fine di agosto del 2021, per confrontarmi con la leadership talebana poco prima del ritiro definitivo delle truppe statunitensi. A volte, le relazioni della CIA in parti complicate del mondo possono offrire possibilità pratiche, come nei negoziati in corso con Egitto, Israele, Qatar e Hamas per un cessate il fuoco umanitario e il rilascio degli ostaggi da Gaza. A volte, questi legami possono fornire una zavorra discreta in relazioni piene di alti e bassi politici. E a volte, la diplomazia dell’intelligence può incoraggiare una convergenza di interessi e sostenere silenziosamente gli sforzi dei diplomatici e dei politici statunitensi.

NELLE OMBRE
Ogni giorno, leggendo i cablogrammi delle stazioni di tutto il mondo, recandomi nelle capitali straniere o parlando con i colleghi della sede centrale, mi vengono ricordati l’abilità e il coraggio degli agenti della CIA, nonché le sfide incessanti che devono affrontare. Fanno lavori difficili in posti difficili. Soprattutto dopo l’11 settembre, hanno operato a un ritmo incredibilmente veloce. In effetti, per portare a termine la missione della CIA in questa nuova e scoraggiante era è necessario prendersi cura del nostro personale. Ecco perché la CIA ha rafforzato le sue risorse mediche presso la sede centrale e sul campo; ha migliorato i programmi per le famiglie, i lavoratori a distanza e le coppie con due carriere; e ha esplorato percorsi di carriera più flessibili, soprattutto per i tecnologi, in modo che gli agenti possano passare al settore privato e poi tornare all’agenzia.

Abbiamo semplificato il processo di reclutamento dei nuovi funzionari. Ora ci vuole un quarto del tempo necessario due anni fa per passare dalla domanda all’offerta finale e al nulla osta di sicurezza. Questi miglioramenti hanno contribuito ad accrescere l’interesse per la CIA. Nel 2023 abbiamo avuto più candidati che in qualsiasi altro anno dall’indomani dell’11 settembre. Stiamo anche lavorando duramente per diversificare la nostra forza lavoro, raggiungendo i massimi storici nel 2023 in termini di numero di donne e di agenti appartenenti a minoranze assunti, nonché di numero di promossi nei ranghi più alti dell’agenzia.

Per necessità, gli agenti della CIA operano nell’ombra, di solito lontano dagli occhi e dal cuore; i rischi che corrono e i sacrifici che fanno sono raramente ben compresi. In un momento in cui la fiducia nelle istituzioni pubbliche degli Stati Uniti spesso scarseggia, la CIA rimane un’istituzione decisamente apolitica, vincolata dal giuramento che io e tutti gli altri membri dell’agenzia abbiamo fatto per difendere la Costituzione e dai nostri obblighi di legge.

Gli agenti della CIA sono anche legati da un senso di comunità e da un impegno profondo e condiviso per il servizio pubblico in questo momento cruciale della storia americana. Conoscono la verità del consiglio che ho ricevuto molti anni fa da mio padre, che ha avuto una brillante carriera militare. Mentre stavo cercando di capire cosa fare della mia vita professionale, mi inviò un biglietto scritto a mano: “Niente può renderti più orgoglioso che servire il tuo Paese con onore”. Questo mi ha aiutato a intraprendere una lunga e fortunata carriera nel governo, prima nel Servizio estero e ora alla CIA. Non mi sono mai pentito della scelta fatta. Sono molto orgoglioso di essere al servizio di migliaia di altri funzionari della CIA che sentono la stessa cosa e che stanno raccogliendo la sfida di una nuova era.

  • WILLIAM J. BURNS is Director of the Central Intelligence Agency.02

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Caratteristiche speciali della regione del Medio Oriente e del Nord Africa (MENA), di Vladislav Sotirovic

Caratteristiche speciali della regione del Medio Oriente e del Nord Africa (MENA)

Il Medio Oriente è stato la patria delle prime civiltà della storia del mondo. Qui sono nate le prime urbanizzazioni e l’alfabetizzazione. La regione del Medio Oriente comprende solitamente i territori che vanno dal litorale orientale del Mar Mediterraneo fino all’India, a est. In senso più ampio, geograficamente la regione comprende i territori del Mediterraneo orientale e dell’Asia centrale, ma molti americani, seguiti da altri accademici, politici e giornalisti occidentali, considerano il Medio Oriente e il Nord Africa (MENA) come un’unica regione.

La maggior parte degli abitanti dell’area MENA ha molti elementi in comune, come la lingua e la cultura araba, la confessione dell’Islam e così via, ma dall’altra parte esistono diverse minoranze etniche in ciascuno di questi Paesi regionali, mentre la religione islamica è divisa in due fazioni: i sunniti (maggioranza) e gli sciiti (minoranza).

Tutti gli Stati della regione del Medio Oriente e del Nord Africa (MENA) possono essere suddivisi in quattro sottoregioni (gruppi) etnico-geografici:

1) Gli Stati del Nord Africa;

2) Gli Stati del Golfo Persico;

3) gli Stati arabi centrali; e

4) Iran e Israele.

Il numero complessivo di abitanti di tutti questi Stati supera i 250 milioni (per fare un paragone, nell’UE a 28, cioè con il Regno Unito, c’erano circa 500 milioni di persone). La regione stessa vanta una cultura e una civiltà di circa 6.000 anni fa, ma la maggior parte delle nazioni attuali è relativamente nuova. In altre parole, ad eccezione dell’Iran e dell’Egitto, tutti gli altri Stati regionali sono apparsi nella loro forma attuale solo nel secolo scorso, in gran parte dopo la Prima guerra mondiale, ma alcuni di essi anche dopo la Seconda guerra mondiale (Israele). Il numero di Stati nella regione MENA può essere stabilito tenendo conto di almeno tre criteri: 1) il periodo storico; 2) le condizioni politiche; 3) la prospettiva geopolitica. Oggi si è soliti dire che nella regione MENA ci sono 24 Stati (con la Palestina) (ma con la Turchia e il Sudan 26). Tuttavia, lo Stato di Palestina non è ancora generalmente e formalmente riconosciuto come indipendente, come ci si aspettava che apparisse come tale tenendo conto dei risultati dei negoziati tra Israele e OLP (Roadmap per la pace).

Vale la pena notare che il primo Paese arabo moderno divenne l’Egitto di Muhammad Ali nella prima metà del XIX secolo, quando a causa dell’occupazione francese (napoleonica) l’Egitto conobbe alcune caratteristiche del “progresso europeo”. Di conseguenza, Muhammad Ali avviò alcune riforme di modernizzazione della società, come la creazione di un’organizzazione di governo moderna e più efficace, di un sistema economico razionale e di un esercito moderno, ristrutturato e riorganizzato secondo i principi bellici dell’Europa occidentale dell’epoca. Al Cairo è stato fondato il primo istituto di tipo occidentale, l’Istituto Egiziano, nel mondo arabo, con la funzione cruciale di diffondere gli scritti dei filosofi europei occidentali (soprattutto francesi) (come Russo e Volter).

La maggioranza delle popolazioni regionali sono arabe e musulmane. Il panarabismo è uno dei temi politici centrali della regione MENA nel XX e XXI secolo. In tempi recenti, tuttavia, la leadership del movimento panarabo è passata inizialmente nelle mani degli arabi cristiani del Libano e della Siria. Tuttavia, tutti i tentativi politici di formare una sorta di Repubblica Araba Unita sono falliti, ma ci sono storie di successo di integrazione economica macroregionale, ad esempio l’integrazione economica di sei Stati del Golfo Persico che hanno creato un Consiglio di Cooperazione del Golfo. Tuttavia, al posto della Repubblica Araba Unita esiste una Lega Araba (nata nel 1945 e oggi composta da 22 Stati membri) che promuove sistemi di comunicazione migliori per la regione utilizzando la lingua araba e l’ARABSAT (il sistema satellitare regionale arabo).

La scoperta e la produzione di petrolio sono probabilmente le caratteristiche peculiari della regione MENA (ma in particolare del Medio Oriente) nella storia contemporanea. Lo sviluppo economico e sociale di tutti i Paesi del Golfo ricchi di petrolio dipende quasi totalmente dalla politica di esportazione del petrolio e, pertanto, per una migliore cooperazione economica reciproca, le nazioni mediorientali produttrici di petrolio hanno fondato l’Organizzazione dei Paesi Arabi Esportatori di Petrolio (OAPEC), che è la variante regionale dell’OPEC globale (l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio). Di fatto, circa il 65-70% delle riserve petrolifere globali si trova nel territorio del Medio Oriente. L’estrazione e la raffinazione del petrolio svolgono un ruolo significativo sia nell’economia regionale che in quella mondiale e, pertanto, hanno un impatto significativo sul benessere e sulla politica della maggior parte dei Paesi occidentali (post-industriali) (in particolare del G7).

La mancanza di un tipo completo di “democrazia liberale” occidentale è un’altra caratteristica cruciale della regione MENA, poiché oggi le forme di governo regionali vanno dal puro autoritarismo (Arabia Saudita) ad alcune forme di esperimenti democratici basati sul modello occidentale (Libano o Israele), seguiti da regimi musulmani governati da leader religiosi (Iran dopo il 1979). Dei 22 Stati della Lega Araba oggi, 8 sono repubbliche (tra cui la Repubblica islamica di Mauritania e la Repubblica socialista Baath di Siria), 7 sono monarchie, 4 hanno un governo monopartitico, gli Emirati Arabi Uniti sono una federazione politica di sceiccati, la Somalia è, di fatto, priva di una governance funzionante e, infine, la Palestina non ha una chiara tipologia di governo e nemmeno di Stato. In generale, per quanto riguarda la politica, la regione è ancora in transizione evolutiva come risultato della modernizzazione, dell’occidentalizzazione e della globalizzazione, compresi i riferimenti allo sviluppo economico ed educativo con le attuali tendenze alla radicalizzazione dell’Islam come ideologia anticoloniale contro l’imperialismo occidentale post-industriale e la politica sionista israeliana (sostenuta dagli Stati Uniti) di apartheid (segregazione e discriminazione) e pulizia etnica.

Un antico conflitto tra due fazioni islamiche – i musulmani sunniti e quelli sciiti – è un’altra caratteristica della divisione della regione del Medio Oriente e del Nord Africa. La prima divisione all’interno dell’Islam nacque subito dopo la morte del Profeta Maometto, nel 632 d.C., quando il mondo islamico degli arabi si divise tra coloro che avevano la pretesa di ereditare il potere religioso dopo la morte del Profeta. Si crearono due fazioni principali con rivendicazioni diverse. La fazione sunnita sosteneva che il potere religioso del Califfo dopo il 632 d.C. fosse passato ad Abu Bakr – suocero di Maometto, mentre la fazione sciita (“Seguaci di Ali”) rivendicava il potere religioso al cugino e genero del Profeta – Ali ibn Abi Talib. L’assassinio del terzo Califfo, Uthman ibn Affan, nel 656, e l’elezione di Ali ibn Abi Talib alimentarono il primo conflitto armato (guerra civile) tra i musulmani, che si concluse con la Battaglia del Cammello, il 7 novembre 656, nell’attuale Iraq, a Bassora, tra i sostenitori di Aisha (vedova del Profeta) e quelli di Ali ibn Abi Talib (quarto Califfo e genero del Profeta), che vinsero la battaglia contro Aisha. Tuttavia, fu solo dopo l’assassinio di Ali e, qualche anno dopo, di suo figlio Hussein ibn Ali nella battaglia di Karbala, il 10 ottobre 680 nell’attuale Iraq, che l’Islam andò incontro a una scissione dogmatica e politica. I musulmani sciiti rifiutano la legittimità dei primi tre califfi che, invece, i musulmani sunniti seguono, avendo allo stesso tempo alcune differenze dottrinali e politiche con i sunniti. La percentuale maggiore di musulmani sciiti oggi in Medio Oriente si trova in Iran (90-95%), Bahrein (65-75%), Iraq (60-70%), Libano (45-55%) e Yemen (30-40%).

L’ultima caratteristica importante del Medio Oriente è la violenza settaria e il suo impatto in alcuni Stati regionali. Di seguito verranno citati diversi casi:

Il governo saudita è composto da sunniti e la stessa monarchia al potere appartiene esclusivamente alla fazione sunnita che è in costante competizione con l’Iran sciita. Il governo dell’Arabia Saudita teme che la Repubblica islamica teocratica sciita dell’Iran possa creare gravi disordini all’interno delle comunità sciite sia saudite che del Golfo. Tuttavia, sia l’Iran che l’Arabia Saudita, in realtà, pretendono di diventare la principale potenza della regione.
La maggioranza della popolazione del Bahrein è di fede sciita, ma al potere c’è una monarchia sunnita. Ispirati dalla Primavera araba del 2011, i credenti sciiti hanno iniziato a manifestare i loro diritti politici, ma senza il sostegno dell’amministrazione statunitense. Le autorità governative sunnite del Bahrein e i suoi alleati, tra cui l’Arabia Saudita, hanno represso violentemente le proteste, uccidendo centinaia di civili.
In Iraq, per lungo tempo, la maggioranza sciita del Paese è stata oppressa dal regime sunnita di Baghdad. Dobbiamo ricordare che in Iraq esistono i siti religiosi più sacri per i musulmani sciiti. Dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003, sono saliti al potere e la popolazione sciita ha iniziato a prendere di mira la comunità sunnita. I fedeli sunniti sono stati perseguitati e torturati dagli squadroni della morte sciiti e, in risposta alla crescente violenza contro di loro, i sunniti iracheni hanno commesso diversi attacchi suicidi e attentati. Di conseguenza, il settarismo religioso sciita-sunnita in Iraq ha esacerbato gli atteggiamenti nazionalistici e fondamentalistici dei musulmani sciiti al potere e ha contribuito a rafforzare il sostegno sunnita all’ISIS (ISIL, DAESH).
Per l’Iran, la cosa più importante è proteggere i propri interessi regionali, tra cui i diritti della popolazione sciita all’estero. Ad esempio, dopo la rivoluzione islamica iraniana del 1979 che ha portato al potere il governo sciita di Teheran, l’Iran ha iniziato a finanziare e incoraggiare le rivolte sciite nella regione orientale dell’Arabia Saudita, ricca di riserve petrolifere. Il governo iraniano sostiene anche il governo dell’alawita (un ramo dell’Islam sciita) Assad in Siria, che fa da ponte con il Libano.
Nello Yemen, i ribelli Houthi, situati prevalentemente nella parte settentrionale del Paese, sono musulmani sciiti e rappresentano circa 1/3 della popolazione totale. Gli Houthi sono riusciti a forzare le dimissioni del Presidente Hadi, riconosciuto dalla comunità internazionale. Nonostante il fatto che durante la rivolta del 2014-2015 i ribelli sciiti abbiano assunto il controllo politico, la maggior parte delle tribù sunnite dello Yemen meridionale non riconosce l’autorità sciita. Nel 2015 si è formata una coalizione di Stati arabi sotto la guida dell’Arabia Saudita per sostenere l’ex presidente Hadi contro i ribelli Houthi, che sono filo-iraniani. Ampie zone del territorio yemenita sono inoltre sotto il controllo del gruppo militante sunnita al-Qaeda, che si oppone sia agli Houthi sciiti sia all’ex governo di Hadi. Il gruppo sunnita al-Qaeda in Yemen è stato per anni bersaglio della controversa campagna di droni degli Stati Uniti all’interno del Paese.
Infine, dietro la guerra civile siriana iniziata nel 2011 c’è, in sostanza, la violenza settaria. Il Presidente siriano al-Assad appartiene alla minoranza dei musulmani alawiti, un ramo della setta sciita. Gli alawiti prendono il nome da Ali ibn Abi Talib, cugino, genero e primo seguace maschio del Profeta Maometto (alawita = “seguace di Ali”). Le proteste contro il governo di Assad sono iniziate nel marzo 2011 e sono state violentemente represse. Tuttavia, la guerra civile siriana ha in parte contribuito a esacerbare i sentimenti di odio e risentimento tra le comunità sciite e sunnite del Paese. Durante il conflitto, l’Iran sciita e gli Hezbollah sciiti del Libano meridionale, nel momento di maggiore difficoltà per il regime di Assad, sono accorsi al fianco del Presidente Assad per impedirne la deposizione. Tuttavia, allo stesso modo, i combattenti sunniti del Fronte Jabhat al-Nusra e dell’ISIS sunnita stanno combattendo in Siria contro Assad. Dobbiamo tenere presente che Jabhat al-Nusra è il ramo siriano di al-Qaeda e che le monarchie sunnite del Golfo Persico e la Turchia sunnita sostengono finanziariamente e militarmente i combattenti dell’opposizione sunnita in Siria.
La regione del Medio Oriente e del Nord Africa è un’area in cui la geografia e la storia sono fattori importanti nella vita contemporanea delle persone. Ci sono molti popoli nativi della regione, per i quali l’area MENA è considerata la patria araba. Si riferisce a quelle terre in cui si parla la lingua araba (con tutti i dialetti). Si tratta di una regione unica al mondo dal punto di vista geografico, geopolitico e geostrategico, poiché qui si incontrano tre continenti (Europa, Africa e Asia) e perché è stata il punto focale dello sviluppo delle prime civiltà. Geologicamente, la sua topografia si è trasformata dopo l’era glaciale da un clima che sosteneva le praterie e i corsi d’acqua in vaste steppe e deserti. Intorno al 2000 a.C., il popolo pastorale degli ariani, o chiamati anche indo-iraniani, migrò in India e in Occidente e in Asia centrale, compreso l’odierno Iran (Persia) e i Paesi circostanti. Dal punto di vista strategico, la regione MENA è stata sempre considerata un territorio geostrategico di grande valore in quanto crocevia di scambi commerciali, fede, conflitti o sviluppo culturale.

In linea di massima, il tratto distintivo della regione è la cultura araba predominante, con alcuni contrasti nelle abitudini culturali tra, ad esempio, l’Arabia Saudita e l’Egitto. Inoltre, le caratteristiche culturali di diversi altri gruppi etnici e confessionali della regione MENA forniscono un quadro più completo dei popoli e delle sfide della regione.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di Studi Geostrategici

Belgrado, Serbia

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com © Vladislav B. Sotirovic 2023

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NO COUNTRY FOR GREAT MEN: LA RECENSIONE DI CAESARE DA PARTE DELLA BBC, di Big Serge

Nota della redazione: Questo saggio è la seconda parte di “The Inverted Great Men“, una serie in tre parti sulle recenti rappresentazioni hollywoodiane e dei media mainstream di grandi personaggi storici. Leggete la prima parte su Napoleone, here.


GIULIO CESARE: LA CREAZIONE DI UN DITTATORE”: UNA RASSEGNA
L’inventario delle analogie storiche nel discorso contemporaneo è limitato. Con pochi e preziosi punti di riferimento comuni, è inevitabile che questi riferimenti finiscano per essere sovraccaricati. Soprattutto la Seconda Guerra Mondiale è oggi utilizzata come analogia per quasi tutti gli scenari di politica estera. E non troppo lontano, sicuramente, c’è la caduta di Roma (un termine che la gente usa in modo intercambiabile sia per la fine del repubblicanesimo romano che per il crollo molto più tardivo dell’Impero romano).

Roma ha un grande fascino come modello per l’Occidente e soprattutto per l’America. I Romani sono considerati i prototipi dell’Occidente; per l’America l’Impero Romano rappresenta l’archetipo del repubblicanesimo e del dominio globale. Gli Stati Uniti sono stati esplicitamente modellati sulla Repubblica romana sia dal punto di vista istituzionale che estetico. Gli americani sono orgogliosi sia della loro democrazia che del loro enorme potere, e Roma è il racconto ammonitore di uno Stato che aveva entrambe le cose e le ha perse.

Per questo motivo, quando la BBC ha annunciato una nuova docuserie su Giulio Cesare, presentata dagli autorevoli classicisti Tom Holland e Andrew Wallace-Hadrill, il rischio che questo affascinante argomento venisse corrotto da pesanti allegorie sulla politica contemporanea era evidente. Il titolo carico di significato – Giulio Cesare: The Making of a Dictator – ha fatto capire la direzione che avrebbe preso il film. Ma, probabilmente come molti, sono troppo romanista per resistere al canto delle sirene di Cesare sullo schermo.

Lo spettacolo è presentato come un docudrama, il che implica che sarà caratterizzato da drammatiche rievocazioni di eventi storici. Purtroppo, i filmati delle rievocazioni assumono la forma di vignette non verbali. Non c’è dialogo da parte di nessuno dei personaggi storici rappresentati; ogni parola pronunciata nello show proviene dal narratore o dal gruppo di commentatori. Cesare non parla, anzi, si accende di rabbia silenziosa mentre il narratore ci racconta cosa sta succedendo e interpola le motivazioni. Questo rende la serie una grande delusione come intrattenimento. Non si tratta di un vero e proprio docudrama, ma di una lezione.

La lezione, ovviamente, non è sottile. Come se il titolo stesso non lo rendesse evidente, il suo obiettivo è convincere il pubblico che Giulio Cesare è stato personalmente e unicamente responsabile della fine della Repubblica romana. L’implicazione è che le democrazie sono sempre vulnerabili al rovesciamento per l’ambizione di un singolo individuo. Cesare diventa un tipo particolare di figura politica che deve essere neutralizzata ovunque si trovi. Uno dei presentatori, il politico e presentatore britannico Rory Stewart, afferma esplicitamente che Cesare dimostra che “un populista può corrompere un intero Stato”.

Se non si conoscesse nulla della storia romana prima di guardare Cesare, si avrebbe l’impressione che un sistema politico romano stabile sia stato distrutto da una sola persona. O, come dice Stewart, “questa repubblica è stata rovesciata dalle ambizioni di un solo uomo”. È ridicolo; non è affatto storia. La Repubblica romana era in uno stato di crisi istituzionale molto prima della nascita di Cesare. Il germe del problema era che le istituzioni politiche di Roma erano state originariamente costruite per una modesta città-stato che ora si trovava a controllare un vasto impero che cingeva la periferia del Mediterraneo.

Ai tempi del repubblicanesimo romano, quando Roma si stava ritagliando gli inizi del suo impero in Italia, una base di piccoli agricoltori costituiva il cuore della cittadinanza e dell’esercito. L’ideale romano era quello di un contadino-cittadino-soldato che lavorava personalmente i campi, partecipava alle istituzioni civiche come le elezioni e i doveri religiosi e combatteva nell’esercito quando veniva chiamato. L’esempio idealizzato è quello di Lucio Quinto Cincinnato, che lavorò la propria fattoria fino alla vecchiaia, finché non fu chiamato dai cittadini ad assumere poteri dittatoriali di fronte a un’invasione. Dopo aver ottenuto una vittoria totale in poche settimane, rinunciò ai suoi poteri e tornò alla sua fattoria.

Una società costruita su piccoli contadini-soldato funziona bene per una città-stato che combatte guerre nelle sue immediate vicinanze. Finché la guerra è limitata alla penisola italiana, l’esercito è in grado di combattere una campagna e poi di sciogliersi per occuparsi delle proprie fattorie. Ecco perché la divinità romana Marte era il dio della guerra e dell’agricoltura: era il dio del cittadino romano ideale, che combatteva e coltivava su base stagionale. La società romana aveva stagioni distinte per le campagne e per la coltivazione, e Marte si occupava di entrambe.

Sfortunatamente, questa dinamica sociale non poté essere mantenuta con la crescita della potenza di Roma. Quando i suoi impegni imperiali si estesero sempre di più lungo il bacino del Mediterraneo, il contadino-soldato divenne un anacronismo. Un soldato che combatte contro i Sanniti nell’Italia centrale può tornare a casa in tempo per raccogliere il grano. Un soldato che combatte contro il Ponto, nell’odierna Turchia, non può. La sua fattoria cadrebbe in rovina, lui stesso potrebbe essere ucciso e la sua terra potrebbe essere acquistata da uno dei membri dell’ultra-ricchezza romana.

L’enorme successo di Roma e il suo impero sempre più vasto portarono tre importanti cambiamenti che distrussero le basi sociali delle istituzioni romane: in primo luogo, le lunghe campagne e le crescenti distanze misero fine alla possibilità del contadino-soldato stagionale; in secondo luogo, la morte di un enorme numero di uomini romani in battaglia permise ai ricchi di accumulare le loro terre; in terzo luogo, l’afflusso di manodopera schiava dalle vittorie all’estero distrusse le basi del lavoro cittadino. La forma sociale romana fu radicalmente cambiata: da una società di contadini-soldati-cittadini che lavoravano nelle loro piccole fattorie si trasformò in un’oligarchia di ultra-ricchi, che possedevano vaste proprietà lavorate dai loro schiavi.

Questa trasformazione creò un’enorme disuguaglianza economica, amareggiando gran parte della popolazione romana e piantando i semi della corruzione in politica. Quando Cesare arrivò sulla scena, c’era già una forte spaccatura tra i cosiddetti “populisti”, che cercavano riforme volte a sostenere la gente comune, e i conservatori che volevano difendere le prerogative senatorie. La violenza politica era ormai normalizzata da tempo. Alcuni decenni prima della nascita di Cesare, due politici populisti di spicco – i fratelli Gracchi – furono pugnalati a morte da senatori. Nell’82 a.C. scoppiò una breve guerra civile che vide Lucio Cornelio Silla schiacciare i suoi avversari nella battaglia di Porta Collina, dichiararsi dittatore e attuare un’epurazione coordinata dei suoi nemici politici con un’ondata di esecuzioni. Nel 63 a.C., un senatore tentò un colpo di stato contro i consoli in carica e fu giustiziato sommariamente.

Le elezioni furono ampiamente corrotte dalla pratica della compravendita dei voti e delle tangenti, al punto che il tentativo di alcuni senatori idealisti di reprimere l’ambitus (come veniva chiamata la corruzione politica) fu accolto con rabbia dall’opinione pubblica, che aveva visto le tangenti elettorali come una parte regolare del proprio reddito. Cesare non fece precipitare la repubblica in una crisi; piuttosto, la crisi creò Cesare. Allora perché la BBC, due millenni dopo, sente il bisogno di attribuirgli tutte le colpe? Forse la nostra democrazia contemporanea si trova nella stessa posizione della Repubblica romana e si identifica con essa?

BBC’s “Julius Caesar: The Making of A Dictator”

Forse la risposta migliore risiede in una profonda fissazione per quello che io chiamo il “Grande Uomo invertito”. L’accademia di questi tempi ha una forte repulsione per la teoria del Grande Uomo della storia, che enfatizza il ruolo di individui dinamici che incarnano le grandi svolte della storia: i Cesari, i Washington, i Colombo e i Napoleoni del mondo. L’idolatria di queste figure è un anatema, condito dalla paura dei culti della personalità, della tirannia e del noto spauracchio del fascismo. Di conseguenza, ci viene fornita la forma invertita della teoria: I grandi uomini possono esistere finché sono malvagi. Non c’è spazio per il Grande Uomo convenzionale, che incarna la volontà e la vitalità del popolo e manifesta una svolta storica, ma c’è spazio per l’Uomo Molto Cattivo, che distrugge tutto e inaugura la tirannia. Non ci sono eroi, ma ci sono cattivi.

Da qui i bizzarri culti della personalità contemporanei attorno a figure come Donald Trump e Vladimir Putin, non da parte dei loro sostenitori, ma dei loro nemici e detrattori. Nessuno ha ossessionato la presidenza Trump come hanno fatto i notiziari liberali, analizzando la sua andatura e le sue espressioni facciali, inseguendo ogni voce con ansia e andando in apnea per i tweet cattivi. È nato un genere di microcelebrità su Twitter (la #Resistenza) interamente dedicato all’osservazione di Trump, convinto che fosse sul punto di essere arrestato per crimini capitali e/o di instaurare una dittatura fascista. Alla fine, ovviamente, non ha fatto nessuna delle due cose. Allo stesso modo, i critici occidentali attribuiscono poteri fantasmagorici a Vladimir Putin, immaginandolo come qualcosa di simile a un cattivo di Bond. Ma pensano a lui molto più spesso di quanto non facciano i cittadini russi.

Giulio Cesare: The Making of a Dictator è un tentativo di dare una parvenza di legittimità accademica a questo culto inverso della personalità e alla qualità tirannica del populista. La serie è piena di riferimenti impliciti al nostro tempo e alla presunta applicabilità della storia di Cesare alla nostra democrazia. Nella sequenza introduttiva, il narratore ci avverte che “la democrazia deve essere costantemente combattuta”, altrimenti “arriverà un nuovo Cesare”. Cesare è stato per lungo tempo l’archetipo dell’uomo d’azione e di potere, che si fa strada tra la corruzione e il degrado. L’intento di questa serie è di trasformarlo in un archetipo oscuro, una forza puramente distruttiva senza virtù personali o contesto storico.

Cesare diventa un capro espiatorio per il crollo di un sistema politico secolare, distogliendo l’attenzione da quella che avrebbe potuto essere una discussione produttiva sulle reali cause del marciume socio-politico. Soprattutto, impedisce di capire perché Cesare sia stato in grado di ottenere ciò che ha fatto, o perché elementi potenti della società romana si siano radunati dietro i suoi successori e abbiano lottato per preservare la rivoluzione cesariana. E questa è una domanda che vale la pena di porsi. Perché, a più di 2.000 anni dalla sua morte, questo generale romano ha ancora i suoi ammiratori? Che cos’è il cesarismo? Un onesto confronto con l’archetipo cesarista rende evidente che Cesare nasce in una crisi di autorità. Lo stesso insieme di motivi si manifesta ripetutamente: l’alienazione della popolazione dalla classe politica, la disuguaglianza economica, la volontà di trasgredire le norme politiche e l’incapacità di formare un governo stabile.

I presentatori della BBC aborriscono chiaramente Cesare. Parlano di lui con un velato disgusto. In netto contrasto, celebrano Catone il Giovane. Catone era un senatore contemporaneo di Cesare, noto come uno dei leader della coalizione anti-cesariana. Nel documentario della BBC, viene trattato con qualcosa che rasenta la riverenza, come un difensore di principio e senza compromessi delle tradizioni repubblicane e della democrazia romana.

In realtà, Catone fu uno dei grandi ostacolatori della storia politica e contribuì in modo determinante al crollo finale del repubblicanesimo romano. Adottò una politica radicale di non negoziazione e di belligeranza e lavorò instancabilmente per convincere il resto della classe senatoriale che Cesare era un tiranno in attesa che doveva essere fermato a tutti i costi. L’ostruzionismo sistematico di Catone fu un fattore critico nell’allontanare dal Senato uomini potenti come Cesare e il suo ex alleato Pompeo e andò profondamente contro le norme politiche romane che da tempo privilegiavano la negoziazione, il dibattito e il compromesso. Catone bloccò la legislazione popolare e le nomine che avrebbero potuto ottenere questo effetto. La sua volontà di accettare la disfunzione piuttosto che il compromesso fu un catalizzatore essenziale per la guerra civile. Il fatto che The Making of a Dictator abbia scelto di esaltare Catone come un eroe tragico, che si è battuto per l’ultima volta contro il cesarismo, è molto eloquente. Rory Stewart sostiene l’ostruzionismo di Catone, affermando che “l’idea di scendere a compromessi con Cesare gli appare emotivamente come quella di scendere a compromessi con Hitler negli anni ’30”. Il parallelo con il nostro contesto politico non potrebbe essere più evidente.

E così, chiudiamo il cerchio. Cesare conserva un grande prestigio come archetipo riconoscibile dell’uomo forte restauratore, che emerge in una crisi dell’autorità governativa e dell’inefficienza burocratica, rinvigorendo lo Stato attraverso il dominio personale e il dinamismo. Presentarlo come nient’altro che un supercattivo da cartone animato che ha rovesciato una repubblica stabile per la sua vana ambizione serve a distruggere l’archetipo alla sua origine, delegittimando l’idea dell’uomo forte e facendo di Cesare un capro espiatorio per lo sgretolamento della Repubblica romana. È politicamente utile, ma è anche una cattiva storia. Sembra strano, forse, parlare di un colpo contro un uomo che è morto da 2.000 anni, ma questo è il fascino duraturo di Cesare. In tempi di disordini, lo si cercherà sempre, con uguale misura di paura e speranza.

Sergei is a writer focusing on military history. He writes on bigserge.substack.com and can be followed @witte_sergei.

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Cosa ci dice la crisi in Ucraina sulla NATO?_di HUGUES-MARIE FOISSEY

Cosa ci dice la crisi in Ucraina sulla NATO?

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La guerra in Ucraina ha riportato la NATO al centro dell’attenzione in Europa. Ma ci sono ancora accesi dibattiti in Europa e negli Stati Uniti sulla natura dell’organizzazione e sul suo ruolo in Europa. La guerra in Ucraina sta mettendo in luce il ruolo della NATO.
John Mearsheimer, noto analista realista delle relazioni internazionali, sostiene che l’Occidente, attraverso l’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico (NATO), è in parte responsabile della devastante guerra in Ucraina. A chi denuncia l'”imperialismo russo”, l’analista americano risponde che questa realtà violenta è il risultato della “politica delle grandi potenze”[1]. Non è stato Otto Von Bismarck a dire che “la diplomazia senza armi è come la musica senza strumenti”? Con l’Unione Europea che ha mobilitato 83 miliardi di euro[2] e gli Stati Uniti d’America che si avvicinano agli 80 miliardi di dollari in aiuti all’Ucraina dal 2022, analizziamo la risposta della NATO a questa guerra “ad alta intensità” che si svolge alle porte dell’Alleanza. Di fronte al dibattito sulle responsabilità della NATO nel conflitto e all’immagine immaginaria di un’organizzazione onnipotente capace di tutto, ci sono alcuni preconcetti che devono essere decostruiti. Il presente documento cercherà di dimostrare che, nonostante la sua reale potenza militare, questa alleanza difensiva (cfr. articolo 5 del Trattato dell’Atlantico del Nord) agisce nell’ambito delle sue competenze definite nel Trattato del 4 aprile 1949. Anche se la NATO è uscita dal suo “stato di morte cerebrale”[3] dopo l’aggressione della Russia all’Ucraina, le sue azioni rimangono limitate perché dipendono dalle decisioni prese da tutti gli Stati membri, che non sempre sono sulla stessa lunghezza d’onda.

Questo articolo cercherà quindi di capire come la gestione della crisi in Ucraina, Paese non membro dell’Alleanza, da parte della NATO, rifletta le basi stesse del Trattato di Washington e illustri le reali competenze dell’Alleanza. In primo luogo, esamineremo i fondamenti giuridici e ideologici della NATO per poter analizzare le sue azioni militari e politiche di fronte alla guerra russo-ucraina; poi analizzeremo tali azioni, ossia come l’Alleanza ha agito nell’ambito delle sue prerogative per sostenere l’Ucraina dal 2014. Infine, esamineremo i limiti intrinseci della sua natura multinazionale, che in ultima analisi ne limitano l’efficacia.

Le basi ideologiche e giuridiche della NATO
Olivier Schmitt e Sten Rynning definiscono un’alleanza come “un’associazione formale o informale di Stati che concordano le condizioni per l’uso della forza (o la minaccia della forza) contro attori esterni all’associazione”[4]. Tuttavia, il mandato della NATO ci sembra molto più ampio. Che cos’è dunque la NATO?

Senza dubbio dovremmo aggiungere a quanto detto da O. Schmitt e S. Rynning con la definizione di “confederazione” fornita dal dizionario Littré. La NATO non assomiglierebbe forse a “un’unione di interessi e di sostegno tra […] Stati per fare causa comune [che implica] una difesa reciproca”[5]? Nel preambolo del Trattato NATO, i valori comuni fondamentali sono definiti come “basati sui principi della democrazia, della libertà individuale e dello Stato di diritto”. È su queste basi che i membri fondatori “si sforzeranno di eliminare ogni opposizione nelle loro politiche economiche internazionali e incoraggeranno la collaborazione economica tra di loro […]”[6]. In questo modo, in opposizione al comunismo collettivista del blocco sovietico, i suoi membri hanno sancito i loro principi liberali nell’articolo 2. Ci furono eccezioni a questo ideale: l’Estado Novo del Portogallo, dittatura sovranista nel 1949 ma neutrale durante la Seconda Guerra Mondiale e alleato storico della Gran Bretagna, e la Turchia, alleato necessario nella Guerra Fredda del 1952. Cosa c’entra dunque la NATO con la democrazia imperfetta e persino oligarchica dell’Ucraina? In linea con questi principi e in vista di un’eventuale adesione dell’Ucraina, l’Alleanza si aspetta riforme politiche, giudiziarie ed economiche, in particolare per affrontare la corruzione, come definito nel Piano d’azione per l’adesione (Membership Action Plan, MAP) elaborato al vertice di Bucarest nel 2008. Oggi, i progressi compiuti vengono regolarmente valutati nell’ambito del “Programma nazionale annuale”. Inoltre, il sito ufficiale della NATO sostiene che gli ucraini stanno difendendo “i nostri valori comuni” e il proprio Paese, richiamando la logica conflittuale esposta da V. Putin nel suo discorso alla Nazione (russa) del 21 febbraio[7]. In esso ha denunciato la “perversione [e] l’abuso dei bambini” da parte degli occidentali. Si tratta forse di una critica al “Comitato per l’educazione atlantica”, che si preoccupa del “modo in cui l’Organizzazione alleata viene ritratta nei libri di testo scolastici”?

Preoccupati per la legittimità giuridica delle loro azioni, nel preambolo del trattato gli Stati membri ribadiscono il loro attaccamento alla Carta delle Nazioni Unite. Si impegnano a “risolvere tutte le controversie internazionali con mezzi pacifici” (cfr. art. 1 del Trattato di Washington), riecheggiando gli articoli 33-38 della Carta delle Nazioni Unite: questo è anche ciò che si è cercato di fare con il Protocollo di Minsk del 2014, volto a porre fine alla guerra nel Donbass. Inoltre, gli interventi militari su larga scala della NATO (Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Afghanistan, Libia, ecc.) sono stati effettuati sulla base delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, anche se il bombardamento della Serbia (1999) e l’intervento in Libia (2011) si sono basati su interpretazioni giuridiche che sono state oggetto di controversie e critiche. È quindi sulla base dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, che sancisce il diritto di uno Stato all’autodifesa, che la NATO giustifica il suo sostegno all’Ucraina agli occhi del diritto internazionale. Per rendere legale la “guerra preventiva” che la Russia sostiene di stare conducendo, sarebbe stata necessaria una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, uno strumento che viene sequestrato quando si tratta degli interessi delle nazioni che vi siedono. Ma non era Bismark a dire che “il potere è giusto”?

Sebbene i trattati siano una delle tre fonti del diritto internazionale, il Trattato di Washington da cui dipende l’esistenza della NATO non contiene clausole giuridicamente vincolanti, a parte il divieto di ratificare trattati che “siano in conflitto con le disposizioni del presente Trattato”. In particolare, l’articolo 5, pilastro di questa alleanza difensiva, offre a ogni Stato membro la scelta sovrana di “qualsiasi azione ritenuta necessaria, compreso l’uso della forza armata”, lasciando a ciascuno un margine di apprezzamento. Al contrario, l’intervento della NATO in Afghanistan (l’Organizzazione ha assunto nel 2003 il comando della Forza internazionale di assistenza alla sicurezza, lanciata nel 2001 da alcuni Stati membri) corrisponde a un’interpretazione bellicosa di questo articolo, poiché gli Stati Uniti sono stati attaccati sul loro territorio durante gli attentati dell’11 settembre 2001. Tuttavia, possiamo chiederci fino a che punto questa logica si spingerebbe se la Russia, che dispone di armi nucleari, attaccasse uno Stato membro, dato che finora la NATO è intervenuta solo contro Paesi non dotati di armi nucleari.

La risposta della NATO alla crisi ucraina: gli Stati membri prendono l’iniziativa[8].
La NATO è quindi molto più di un’alleanza difensiva: è un ideale verso cui i suoi membri tendono. Tuttavia, poiché un ideale non è uguale a un altro, le nazioni con eserciti potenti desiderano mantenere la sovranità sulle loro strategie. Queste strategie determinano la posizione di ciascun membro di fronte alla guerra in Oriente, e di conseguenza quella dell’Alleanza nel suo complesso.

Dal 2014, i membri della NATO hanno sostenuto la modernizzazione dell’esercito ucraino vendendogli equipaggiamenti, per lo più americani, e addestrando i suoi soldati. Anche se questi aiuti sono coordinati tra gli Stati, l’iniziativa è specifica per ciascuno di essi. Tuttavia, per standardizzare l’addestramento vengono applicati gli STANAG (Standardisation Agreement) della NATO. Questi STANAG riuniscono vari documenti dottrinali per l’azione nei 4 ambienti (aereo, terrestre, marittimo e spaziale) in vista dell’interoperabilità tra le nazioni e del desiderio di avere un corpo comune di dottrina. Va notato, tuttavia, che la dottrina non è una camicia di forza: può essere adattata a ogni impegno operativo e non copre tutte le situazioni. Ogni nazione può quindi decidere di applicarla in toto, in parte o non applicarla affatto. Inoltre, l’Ucraina ha partecipato alle esercitazioni della NATO come “Stato partner” [9] (“un rapporto di dialogo e cooperazione su questioni politiche e di sicurezza tra l’Alleanza e altri Paesi non membri”). In risposta ai timori delle nazioni sul fianco orientale dell’Alleanza, nel 2014 è stata creata la “Very High Readiness Joint Task Force (VJTF)”, una forza di reazione rapida sotto comando unificato e a rotazione (Francia nel 2022). Si tratta di una “forza di punta” integrata nella preesistente Forza di risposta della NATO (NRF), a sua volta una forza multinazionale di 40.000 soldati[10]. Non si tratta di una forza armata sotto un’unica bandiera come i “caschi blu” dell’ONU, ma di un contingente militare che dipende dai contributi dei membri in base alle loro capacità e al loro obiettivo politico di affermare il proprio potere all’interno dell’Alleanza. Questo processo è noto come “generazione della forza”.

Nel febbraio 2022, quando è stato invocato l’articolo 4 (richiesta di consultazione da parte di uno Stato membro se “l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza di una delle Parti [è] minacciata”), i leader si sono riuniti in videoconferenza e, per la prima volta nella sua storia, hanno attivato la cosiddetta VJTF, dispiegando migliaia di soldati a est in pochi giorni per adottare una postura dissuasiva sul fianco orientale dell’Alleanza. Gli Stati membri hanno inviato ulteriori truppe ai quattro battaglioni terrestri multinazionali già presenti in Polonia e negli Stati baltici, oltre a rinforzare le forze aeree in missioni di “polizia aerea”[11] per proteggere lo spazio aereo di questi stessi Paesi. Questi battaglioni, presenti da anni, sono il risultato di iniziative prese dagli Stati membri che decidono di istituire una missione in collaborazione con i Paesi ospitanti.

Dal punto di vista legale e militare, sono le “regole per l’uso della forza” concordate tra il Paese ospitante e la nazione quadro (cioè la nazione che guida la missione e che fornisce la maggior parte delle attrezzature, delle risorse umane e della struttura di comando a livello tattico) a definire il ruolo e la responsabilità di ciascuna parte[12], sia che si tratti di missioni di “air policing” che di battaglioni multinazionali. Inoltre, nell’ambito del dispiegamento della VJTF, la Francia ha avviato una missione come nazione quadro in Romania con l’obiettivo di sostenere questo Stato membro di fronte alla possibile minaccia russa. Inoltre, ogni dispiegamento di forze è approvato dal Consiglio della NATO (l’organo decisionale politico e operativo in cui siedono i membri) per consenso (cioè preso di comune accordo, nessuna nazione si è opposta), quindi pianificato dall’Alleanza attraverso le sue operazioni di comando alleato (ACO) e comandato a livello strategico dal Comandante supremo alleato per l’Europa (SACEUR), mentre la tattica è gestita dalle nazioni coinvolte. L’Alleanza è anche impegnata diplomaticamente di fronte a questa guerra, in particolare con il vertice straordinario della NATO tenutosi a Bruxelles il 24 marzo 2022, che ha portato alla stesura di una dichiarazione congiunta che invita la Russia a sospendere immediatamente le sue operazioni militari[13].

In termini di intelligence militare, secondo Gérald Arboit, direttore dell’équipe di studi sull’intelligence del Conservatoire National des Arts et Métiers (CNAM), la NATO è coinvolta in Ucraina attraverso le sue uniche due unità cosiddette “flagged” sotto l’unica bandiera della NATO: l’unità aerea AWACS, che vola con sistemi di stazioni radar, e l’unità AGS (Alliance Ground Surveillance) dotata di droni RQ-4D Pheonix che volano ad altissima quota. I velivoli di queste due unità sorvolano lo spazio aereo rumeno e il Mar Nero per raccogliere informazioni sul fronte ucraino. 14] Non volendo essere coinvolta nel conflitto, l’Alleanza assicura comunque il coordinamento tra i suoi membri e l’Ucraina, in particolare attraverso il “Consiglio NATO-Ucraina” creato nell’ottobre 2023 (il Consiglio NATO, unico organo istituito dal Trattato, è l’unico che può creare entità sussidiarie). Questa nuova entità permette di identificare efficacemente le esigenze militari e umanitarie dell’Ucraina, alle quali i membri possono decidere di contribuire. Molti Stati membri stanno inviando armi e materiale bellico all’Ucraina. Questi aiuti militari sono coordinati attraverso l’Ukraine Defense Contact Group (UDCG), un gruppo di 54 Stati creato e guidato dagli Stati Uniti, a cui partecipano tutti gli Stati membri della NATO. Da parte sua, la NATO non fornisce nulla all’Ucraina, che non dispone di attrezzature proprie, a parte i già citati aerei e droni. Sebbene l’UDCG si riunisca in un quadro internazionale sotto l’impulso degli Stati Uniti, il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg partecipa alle riunioni in rappresentanza dell’Alleanza.

In pratica, l’Alleanza, che per sua natura è espandibile (si veda l’art. 10 del Trattato, che pone come condizione l’adesione all’Alleanza da parte di altri Stati), sta intensificando il tacito processo di integrazione dell’Ucraina, che va contro gli obiettivi politico-militari russi alla base dell’invasione dell’Ucraina. L’altro fallimento strategico della Russia è l’integrazione della Finlandia e presto della Svezia nell’Alleanza Nord Atlantica, un grande successo strategico per gli Alleati che era ancora inimmaginabile all’inizio del 2022.

La necessità di agire della NATO, ma la sua natura multinazionale rende difficile farlo
Al di là dell’immaginario collettivo e mediatico che attribuisce alla NATO il ruolo di un’entità che si sostituisce agli Stati membri per agire a loro nome, è importante riconoscere il ruolo di coordinamento dell’Alleanza e la sovranità dei Paesi membri nelle loro azioni. In definitiva, è qui che si trovano i limiti di un’organizzazione internazionale di questo tipo.

Certo, il Trattato non prevede alcun obiettivo di integrazione militare, ma resta il fatto che il tentativo di creare la Comunità europea di difesa (CED) all’inizio degli anni Cinquanta ha lasciato il segno. Di fronte alle pressioni americane per riarmare la Germania Ovest al fine di integrarla nella NATO, Robert Schuman, allora Ministro degli Esteri francese, propose la creazione della CED per integrare tutte le forze aeree e terrestri degli Stati membri della CECA in un unico esercito “posto agli ordini del Comando Supremo delle Forze Atlantiche in Europa” (il SACEUR della NATO, guidato da un generale americano), secondo René Pleven, allora Presidente del Consiglio francese. Quello che divenne noto come piano Pleven prevedeva che l’esercito francese (come quelli della Germania, dell’Italia e dei Paesi del Benelux) si sottomettesse “alle esigenze europee [per] fonderlo in un’organizzazione sovranazionale, senza privilegi o riserve”. 15] Nel 1954, l’Assemblea nazionale francese, sostenuta dai comunisti e dai gollisti, respinse la ratifica del trattato che istituiva la CED, il che significò che il progetto di una comunità politica europea, a cui era istituzionalmente legato, fu infine abbandonato.

È vero che oggi la situazione è molto diversa: 31 Paesi sono membri della NATO, rispetto ai 12 della sua creazione. Tuttavia, nella strategia dell’Alleanza, definita nel “Concetto strategico”, permangono la stessa egemonia e influenza americana. L’edizione 2022 definisce la Russia come la principale minaccia per gli alleati e non più come un “partner” (vedi le tre edizioni precedenti). Il fatto che il generale americano a capo del Supreme Allied Command Europe (SACEUR) sia anche a capo delle forze americane di stanza in Europa (EUCOM) illustra questa influenza americana sulla direzione strategica della NATO. Il generale de Gaulle deplorava l’egemonia americana e la dipendenza strategica della Francia dagli Stati Uniti. Per questo motivo ritirò la Francia dal comando militare integrato della NATO nel 1967, senza tuttavia mettere in discussione le basi dell’Alleanza Atlantica rinnovando l’adesione della Francia al Patto Atlantico (il Trattato di Washington) nel 1969.

Oggi, il desiderio di sovranità delle varie nazioni dell’Alleanza frena la volontà di integrazione, tanto più che le esigenze non sono le stesse tra gli eserciti di primo e di secondo rango. Di conseguenza, l’unità di sorveglianza aerea AGS, pur essendo sotto un’unica bandiera, non comprende la Francia, il Regno Unito (due membri fondatori della NATO) e la Spagna, perché questi Paesi ritengono che i loro eserciti abbiano già capacità di raccolta di informazioni e che questa missione sia nel loro interesse nazionale. In definitiva, il desiderio dei Paesi di unire le proprie forze nasce dal desiderio di acquisire potere, se non di superare le debolezze. Guadagnare o attenuare (senza necessariamente opporre le due cose), qual è la posizione di ciascun membro della NATO? L’affermazione della sovranità si esprime anche e soprattutto nello sviluppo di strategie militari o diplomatiche, e gli Stati membri mostrano il loro disaccordo di fronte al conflitto russo-ucraino. In effetti, la Turchia, l’Ungheria e la Slovacchia sono in disaccordo con gli altri alleati per quanto riguarda il loro atteggiamento nei confronti della Russia. La Turchia consolida la sua politica di non allineamento (sanzioni contro la Russia non imposte o addirittura aggirate, colloqui di pace, aumento degli scambi commerciali, vendita di armi ai due belligeranti, ecc.), mentre l’Ungheria riafferma le sue buone relazioni con la Russia (intenso commercio di gas, blocco delle nuove sanzioni UE, rifiuto del transito di armi verso l’Ucraina e incontro tra i leader). La Slovacchia, da parte sua, riafferma “una politica estera slovacca sovrana”[16] (sospensione del sostegno militare all’Ucraina, blocco delle nuove sanzioni UE).

Questi dissensi si ripercuotono sul potere politico dell’Alleanza nel mondo? Perché se la NATO ha una vocazione difensiva, ha anche una vocazione diplomatica. Infatti, nel marzo 2022, all’indomani del vertice NATO, si sono tenuti i vertici del G7 e del Consiglio europeo per rafforzare il peso diplomatico della condanna “occidentale”. Se da un lato ciò dimostra la coesione di questi partner, dall’altro non rivela forse una NATO senza voce? Nonostante l’eminente peso diplomatico di alcuni dei suoi membri, l’Alleanza non ne ha una vera e propria. Oltre ai dissensi interni, la natura militare dell’Alleanza, per quanto “difensiva”, ostacola la sua aura diplomatica. Anche se la guerra è “una continuazione della politica con altri mezzi” secondo Clausewitz, gli interventi bellicosi della NATO in passato hanno generato diffidenza in tutto il mondo.

A proposito di guerra, i membri della NATO non sono più in grado di condurre una guerra cosiddetta “ad alta intensità”? Questo sembra emergere dalle critiche espresse dagli ucraini sull’addestramento ricevuto, sostenendo che gli STANAG non sono adeguati alle realtà dei conflitti del XXI secolo e devono essere aggiornati[17] Il feedback dell’Ucraina sarà prezioso per l’Alleanza ed è, inoltre, un ulteriore argomento per integrarla una volta finita la guerra.

Un’altra limitazione della NATO è la sua dipendenza dagli Stati Uniti, che costituisce un vincolo importante per la capacità dell’Alleanza di svolgere la sua missione in Ucraina e di difendere l’Europa. Anche se D. Trump ha annunciato che gli Stati Uniti si ritireranno dall’Organizzazione in caso di rielezione e ha invitato gli alleati a una maggiore autonomia, quest’ultima è paradossalmente impedita dalla volontà americana di favorire la propria industria militare a scapito delle ammiraglie europee. Le posizioni assegnate ai membri nelle strutture di comando dipendono dal loro PIL. In effetti, gli Stati Uniti, la più grande economia del mondo, sono onnipresenti in queste strutture e hanno il potere di influenzare l’acquisto di attrezzature militari americane da parte degli altri membri. Entro il 2035, i jet da combattimento Lockheed-Martin rappresenteranno il 50% dell’intera flotta europea, mentre gli europei rappresentano il 40% delle competenze e del know-how mondiali in questo campo. 18] Inoltre, secondo Arnaud Danjean,[19] la maggior parte dei Paesi europei si affida all’Alleanza Atlantica per la propria difesa e trascura gli investimenti nelle proprie capacità militari nazionali, non riuscendo così a stimolare le industrie europee. Questa situazione di concorrenza aggressiva si ripercuote sugli aiuti degli Stati membri all’Ucraina. Una forte industria nazionale della difesa permetterebbe di garantire la continuità di questi aiuti in caso di un eventuale ritiro americano o di una riduzione degli aiuti americani (considerati molto costosi in termini di finanziamenti e attrezzature). Inoltre, ciò è essenziale in tempi di guerra, come dimostra la capacità della Russia di continuare il conflitto[20]. A questo proposito, l’Ucraina sta cercando di sviluppare la propria industria degli armamenti per mantenere le proprie capacità militari, considerando che gli aiuti alleati rischiano di esaurirsi. Se ci riuscirà, le sue capacità competeranno con le industrie europee una volta ristabilita la pace; se l’Ucraina perderà la guerra, la politica di “pacificazione” della NATO sarà vista come un fallimento sulla scena internazionale.

Per concludere…
La gestione della crisi ucraina da parte della NATO rivela il principio mutevole e inapplicato dell’ideale NATO, che in ultima analisi si basa sulla volontà degli Stati membri di procedere verso un’integrazione collettiva (non tanto militare quanto politico-ideologica). In particolare, gli interessi talvolta divergenti delle singole nazioni frenano il raggiungimento degli obiettivi dichiarati della NATO in Ucraina, che sono il ristabilimento della pace e dell’integrità territoriale (obiettivo suscettibile di cambiare a seconda dei progressi in prima linea), e poi la finalizzazione dell’adesione all’Alleanza Nord Atlantica, obiettivo affermato al vertice di Vilnius nel luglio 2023, ma che richiederà a tempo debito il consenso unanime dei membri, cosa che oggi sembra compromessa (opposizione dell’Ungheria e persino della Turchia). Sebbene l’Alleanza stia estendendo le sue prerogative, con 24 nazioni (su 31 membri) che supervisionano l’acquisto di “munizioni critiche” attraverso la stesura di contratti quadro da parte della NATO Support and Procurement Agency (NSPA), ci sembra che “dopo questo conflitto, il ruolo della NATO sia stato sopravvalutato” (Amélie Zima, ricercatrice dell’IHEDN).

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Site de l’Organisation de l’Atlantique Nord, « Police du ciel – Sécuriser l’espace aérien de l’alliance », 17 février 2023.

[1] CHOTINER Isaac, “John Mearsheimer on Putin’s ambitions after nine months of war”, The New Yorker, 17 novembre 2022.

[2] Selon la présidente de la Commission européenne.

[3] Agence France Presse (AFP), « Pour Emmanuel Macron, l’Otan est en état de « mort cérébrale », Le Figaro, 7 novembre 2019.

[4] Olivier Schmitt, « Alliances », in B. Durieux, J.-B. Jeangène Vilmer et F. Ramel, Dictionnaire de la guerre et de la paix, Paris, 2017, p. 57.

[5] É. Littré, « Alliance », Dictionnaire, 1873.

[6] Extraits du préambule et de l’Article 2 du Traité de l’Atlantique Nord, Site de l’Organisation de l’Atlantique Nord.

[7] LANCEREAU Guillaume, « Discours de Poutine : la politique intérieure de l’agresseur », Le Grand Continent, 22 février 2023.

[8] Propos recueillis auprès du GBA Xavier Foissey breveté du Collège de défense de l’OTAN.

[9] Radio France International (RFI), « Exercices de l’OTAN en mer Noire, un « sérieux défi », pour Vladimir Poutine », RFI, 13/11/2021.

[10] Site de l’Organisation de l’Atlantique Nord (informations sur la Force de réaction de l’OTAN) / Consulté le 21 octobre 2023.

[11] Site de l’Organisation de l’Atlantique Nord, « Police du ciel – Sécuriser l’espace aérien de l’alliance ».

[12] Propos recueillis auprès du GBA Xavier Foissey breveté du Collège de défense de l’OTAN.

[13] Site de l’Organisation de l’Atlantique Nord.

[14] Radio France International, « Exercices de l’OTAN en mer Noire, un « sérieux défi », pour Vladimir Poutine », 13 novembre 2021.

[15] Claire Sanderson, « France, Grande-Bretagne et défense de l’Europe 1945-1958, L’impossible alliance ? », Éditions de la Sorbonne, Paris, Collection internationale, 2003, pages 265 à 328.

[16] France 24, « Slovaquie : le nouveau gouvernement annonce l’arrêt de ses livraisons d’armes à l’Ukraine », France 24, 26 octobre 2023.

[17] Jacques Follorou, “Avec les soldats ukrainiens formés à l’étranger : « Je leur disais, aux formateurs de l’OTAN, que leurs manuels ne s’appliquaient pas chez nous » », Le Monde, 26 septembre 2023.

[18] Meta Defense, « La moitié des avions de chasse en Europe auront été construits par Lockheed-Martin en 2035 », 4 novembre 2023.

[19] Emmanuel Berreta, « Arnaud Danjean : « La défense européenne est un complément de l’OTAN », Le Point, 25 mars 2022.

[20] Meta Defense, « Pourquoi l’Europe occidentale sous-estime gravement le devenir de la menace militaire russe ? », 15 avril 2023.

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La cultura araba e le sue caratteristiche fondamentali_di Dr. Vladislav B. Sotirovic

La cultura araba e le sue caratteristiche fondamentali

Che cos’è l’arabo?

La comprensione della cultura araba e dei valori su di essa basati sono i punti cruciali per una corretta comprensione della moderna regione MENA (composta da Medio Oriente e Nord Africa) e delle sue caratteristiche fondamentali. Tuttavia, va notato che tutti i popoli della regione MENA non sono arabi, come i turchi, gli ebrei, alcune tribù nordafricane o gli iraniani. La Lega Araba (o Lega degli Stati Arabi) è composta da 22 Paesi arabi. Anche se gli Stati arabi, da un punto di vista culturale, sono considerati mediorientali (in senso lato), non tutti appartengono al Medio Oriente (in senso stretto) e non tutti i Paesi del Medio Oriente o MENA sono arabi.

Un’altra caratteristica fondamentale del mondo arabo è che non tutti gli Stati membri hanno atteggiamenti, comunicazioni, comportamenti, tradizioni, ecc. simili. Ci sono, ad esempio, Stati arabi musulmani come la Mauritania, il Sudan o la Somalia in cui di solito si parlano lingue tribali piuttosto che l’arabo, seguite da molte tradizioni culturali fondate sui costumi e sul patrimonio africano locale.

Dobbiamo anche tenere presente che non tutti gli arabi sono musulmani, poiché ci sono arabi mediorientali che sono cristiani (ad esempio in Libano). Tuttavia, le nazioni arabe sono composte da una schiacciante maggioranza musulmana (sunnita o sciita). La caratteristica successiva che dobbiamo considerare è che gli arabi sono una categoria etnica di un popolo semita più ampio (anche gli ebrei sono semiti), mentre il termine musulmano determina il credo religioso e l’orientamento confessionale. Tuttavia, il riferimento agli arabi è fondamentalmente rivolto a persone distinte che possiedono un modello di comportamento unico fondato sul loro particolare tipo di cultura, tradizione, religione, lingua e costumi. Tuttavia, gli arabi non hanno tutti lo stesso aspetto o vestito e non devono essere stereotipati. Va sottolineato che gli arabi non sono una razza, un colore della pelle, una nazionalità o un musulmano. Nell’autentico periodo pre-islamico, un arabo era un abitante della penisola arabica, membro di alcune tribù beduine nomadi, ma al momento dell’espansione dell’Islam arabo, gli arabi portarono la loro nuova religione, lingua e cultura nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa e oltre (come nella penisola iberica), mescolandola con i popoli conquistati dalla Spagna e dal Portogallo alla Persia.

Le conquiste arabe sono state le guerre che, nel secolo successivo alla morte del Profeta Maometto nel 632, hanno creato un grande Stato (califfato/impero) che si estendeva dai Pirenei in Europa al fiume Indo in Asia. La conquista iniziò inizialmente come guerra santa (jihad) contro le tribù beduine che si rifiutavano di accettare l’Islam, ma ben presto la guerra santa divenne ispirata dalla prospettiva di acquisire vaste terre e dalla convinzione che la morte nella guerra santa avrebbe portato il guerriero in paradiso. Nelle province bizantine di Egitto e Siria, i conquistatori arabi permisero a cristiani ed ebrei di continuare a esprimere le loro confessioni come “popoli del libro” o “popoli protetti” (dhimmi) dietro pagamento di una certa tassa. A causa della resistenza in Persia e in Nord Africa, le conquiste divennero più lente. Dopo la prima guerra civile del 656-661, la capitale araba fu trasferita da Medina a Damasco dalla dinastia degli Omayyadi e sotto la nuova dinastia degli Abbasidi a Baghdad, dove fiorì la cultura islamica. A prescindere dal fatto che la coerenza politica di questo impero arabo (storicamente c’erano quattro califfati) non esisteva più a causa dei califfati rivali apparsi in Nord Africa e nella Penisola iberica nel IX e X secolo, la coerenza culturale fu mantenuta dall’università della lingua araba e dalla legge islamica (sharia) seguita dal traffico di mercanti, studiosi e pellegrini.

In seguito alle conquiste arabe e alla mescolanza dell’arabo con le culture locali, oggi gli arabi non sono un gruppo etnico separato, ma piuttosto una comunità con uno stato d’animo. La confusione sul significato del termine arabo deriva molto spesso dal fatto che viene usato come sinonimo dei popoli dell’area MENA e/o dei musulmani in generale. Tuttavia, la domanda è: quali sono le caratteristiche cruciali della cultura araba?

I tratti distintivi della cultura araba

Come ogni cultura distintiva, anche quella araba ha i suoi valori – i valori arabi (come, ad esempio, i valori asiatici). Nelle società tradizionali arabe, le virtù più preziose sono la dignità, l’onore e la reputazione. Ad esempio, agli stranieri che si trovano in un Paese arabo viene suggerito di evitare di far perdere la faccia o di far vergognare un arabo; nel caso di una donna, per aver perso la verginità prima del matrimonio. La lealtà degli arabi nei confronti della famiglia e la comunicazione educata e amichevole devono essere rispettate. Nelle comunità tribali o arabe tradizionali, la scala delle priorità va prima all’individuo, poi al parente, al compagno di tribù e infine a coloro che condividono la stessa confessione e lo stesso Paese. Nonostante la rapida urbanizzazione che ha ridotto l’influenza del tribalismo, esiste ancora un certo grado di collettivismo. Tuttavia, il problema principale è quello di prendere in considerazione tutti gli aspetti dell’impatto della modernizzazione, per quanto tempo la comunità araba locale potrà riuscire a preservare le proprie caratteristiche tradizionali di generosità, galanteria, coraggio, pazienza e resistenza, soprattutto in presenza di falsi stereotipi sugli arabi creati dai mass media occidentali, dall’industria cinematografica e televisiva.

Gli effetti del colonialismo occidentale, delle invasioni culturali e militari nelle società arabe dell’area MENA hanno causato gravi cambiamenti a caro prezzo, quali: 1) problemi urbani come l’inadeguatezza degli alloggi e dell’organizzazione del traffico; 2) indebolimento dell’autorità genitoriale e della coesione familiare; 3) povertà per le masse e ricchezza per le élite; 4) case distrutte, materialismo e promiscuità sessuale. Il risultato dell’impatto dell’occidentalizzazione sulla regione MENA è stato molteplice:

I tradizionalisti islamici propagandano la lotta contro quella che considerano la decadenza della civiltà occidentale seguita dall’aumento dell’immoralità. Rifiutano la democrazia occidentale (liberale) in quanto non adatta alla cultura islamica tradizionale, come la libertà individuale al di sopra della responsabilità collettiva, i diritti delle donne secondo gli standard occidentali, compresa la loro piena istruzione, e molte altre pratiche comuni nelle nazioni (post)industrializzate. I fondamentalisti islamici o i tradizionalisti estremi cercano di formare le autorità governative secondo l’antica (autentica) legge islamica basata sul Corano. La maggior parte dei gruppi estremisti organizza attacchi violenti contro i valori, la cultura e gli stranieri occidentali, compresi i turisti.
Diversi governi degli Stati dell’area MENA hanno risposto ai tradizionalisti islamici con misure di sicurezza dure e autoritarie, tra cui il trattamento di tutti i dissidenti nei loro Paesi come terroristi. Ciò è accaduto, ad esempio, in Algeria o in Egitto, dove i tentativi della popolazione di eleggere democraticamente un governo islamico sono stati repressi dal potere al potere, molto sostenuto dalle autorità occidentali (gli Stati Uniti).
I bombardamenti, le uccisioni e le devastazioni occidentali nei Paesi arabi musulmani in nome della democrazia liberale occidentale negli ultimi 33 anni hanno provocato l’ascesa del fondamentalismo islamico in Medio Oriente e dintorni, che potrebbe provocare, come ha scritto S. P. Huntington, lo “Scontro di civiltà” o più precisamente una guerra focale tra le società arabe e le altre società musulmane contro l’ordine occidentale giudaico-cristiano.
Ci sono persone da entrambe le parti che, nonostante le differenze di confessione, cultura, valori, storia o costumi, credono nella riconciliazione e nella comprensione tra i giudeo-cristiani e gli arabi musulmani. Tuttavia, tali differenze culturali e persino le divisioni antagonistiche possono essere superate solo se le autorità locali e i leader commerciali diventano più sensibili e meno assertivi nei confronti dell’ethos e delle aspirazioni islamiche (arabe). Si suggerisce che i luoghi ottimali per iniziare a creare una maggiore cooperazione culturale con le comunità musulmane (arabe) siano i Paesi occidentali di entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico, soprattutto dopo l’11 settembre, quando in Occidente si sono moltiplicati i crimini d’odio contro musulmani innocenti.
Una delle caratteristiche principali della cultura araba è che gli arabi cercano relazioni personali strette, principalmente senza grandi distanze o mediatori. Gli odori del corpo e del cibo sono utilizzati per migliorare le relazioni. Il corpo è un fattore importante nel processo di scelta del partner. Per gli arabi, guardarsi perifericamente è un modo poco educato. Da un lato, gli arabi non cercano la distanza personale se interagiscono con gli amici, ma possono cercare una distanza personale maggiore nelle conversazioni con gli estranei e in queste occasioni sociali, per esempio, gli arabi possono preferire sedersi ai lati opposti di una stanza e parlare l’uno di fronte all’altro. Gli arabi sono generalmente persone calorose ed espressive, che partecipano attivamente gli uni agli altri, ma resistono all’affollamento in spazi chiusi o ai confini. La cordialità è il fulcro della cultura araba. Il saluto tradizionale consiste nell’appoggiare la mano destra sul petto, vicino al cuore, come segno di sincerità, anche se gli arabi moderni possono procedere al saluto con una lunga e floscia stretta di mano. È usanza che gli uomini si bacino su entrambe le guance. Per i musulmani arabi, alcuni insegnamenti islamici influiscono molto sulle relazioni sociali, come ad esempio i tabù contro il consumo di carne di maiale, il consumo di alcolici e il gioco d’azzardo.

La posizione sociale e il ruolo delle donne arabe sono alcune delle caratteristiche più particolari della cultura araba, almeno rispetto a quella occidentale. In linea di principio, nel mondo arabo esiste una grande diversità per quanto riguarda lo status delle donne sia nella famiglia che nella società. È un dato di fatto che la cultura patriarcale araba pone l’uomo in posizione e ruolo dominante, mentre la protezione e il rispetto delle donne sono le regole comuni. In una famiglia araba, il marito è il capo con un ruolo e un’influenza forti, ma la donna, in quanto madre, è molto spesso l’autorità in materia di questioni familiari.

Nella vita pubblica, la donna si sottomette al marito, ma nella sfera privata è più influente. Va sottolineato che, paradossalmente, l’Islam non promuove la pratica dell’inferiorità intrinseca femminile, ma solo le differenze femminili. L’Islam non percepisce l’inferiorità biologica, ma afferma invece l’uguaglianza potenziale tra maschi e femmine.

È vero che in alcuni Stati arabi le donne della famiglia sono uguali ai maschi, ma in altri hanno solo un ruolo limitato nella famiglia e una posizione ristretta nella società. Nelle comunità arabe più conservatrici e tradizionali gli uomini possono avere fino a cinque donne, comprese quelle di origine straniera, mentre le donne possono sposare un solo marito, esclusi gli stranieri. Nella società araba, il marito può divorziare senza indicare una causa reale, ma la moglie è obbligata a specificare le basi del divorzio per soddisfare il tribunale che riconosce la testimonianza di due donne come uguale a quella di un testimone maschio.

Nel Corano non è scritto che le donne devono essere velate, ma solo che devono essere vestite in modo modesto coprendo le braccia e i capelli, che sono considerati molto sensuali dal punto di vista della morale. È importante sottolineare che le donne occidentali (o in generale le donne straniere – quelle di origine non araba e islamica) che visitano i Paesi arabi devono prestare molta attenzione a ciò che è accettabile o inaccettabile nella comunità araba islamica locale di visita. Che si tratti di una semplice visitatrice-turista o di una persona d’affari, le donne devono adeguarsi a ciò che è considerato un comportamento consentito e corretto e vestirsi adeguatamente secondo le regole morali locali. Le persone estranee alla cultura che non rispettano le regole morali arabe locali, sia uomini che donne, possono avere esperienze spiacevoli con i membri della comunità locale o con il tribunale.

Tuttavia, lo stile di vita arabo tradizionale sta subendo cambiamenti sostanziali negli aspetti sociali, politici, economici e religiosi. Le pratiche culturali e morali possono variare a seconda del grado di secolarizzazione e di sviluppo economico seguito dall’impatto dell’istruzione e della modernizzazione.

Reazioni anti-occidentali degli arabi dell’area MENA

Gli arabi dell’area MENA nutrono un lungo sospetto nei confronti delle ex potenze coloniali europee, soprattutto francesi e britanniche, che hanno governato la maggior parte della regione. Molti occidentali hanno immagini e stereotipi negativi sui mediorientali e sui nordafricani e sui loro contributi culturali alla storia della civiltà globale, ma è vero, soprattutto per quanto riguarda la presentazione dei mass media dell’Europa occidentale e del Nord America sulla regione e sugli arabi. Tuttavia, dopo l’11 settembre, la politica aggressiva degli Stati Uniti nei confronti della regione del MENA, per quanto riguarda il suo popolo, la sua cultura e la sua religione, è diventata il fondamento della politica anti-occidentale dei mediorientali e dei nordafricani, che ha ridotto le relazioni politiche e commerciali tra la regione del MENA e l’Occidente.

Un simile processo si è verificato in Iran, che è un Paese/nazione non arabo, nel 1979, quando l’influenza e le azioni politico-militari degli Stati Uniti hanno messo in discussione l’identità della cultura persiana/iraniana fino alla violenta presa di potere e alla presa di ostaggi nell’ambasciata statunitense a Teheran. Tuttavia, dobbiamo tenere presente che le azioni terroristiche dei radicali islamici sono nate principalmente dalla paura che i valori culturali occidentali distruggessero la cultura araba tradizionale. I risultati dell’afflusso di occidentali nella regione MENA possono essere così riassunti dalla prospettiva araba:

Gli occidentali esprimono la loro presunta superiorità civile, seguita da arroganza.
Gli occidentali conoscono le risposte migliori a tutto.
Molti occidentali non vogliono condividere il merito di ciò che viene realizzato con sforzi congiunti.
La maggior parte degli occidentali è costantemente incapace o addirittura non disposta a rispettare e ad adattarsi ai costumi e alle tradizioni culturali arabe locali.
Molti occidentali non riescono a innovare per soddisfare le esigenze della cultura araba locale, preferendo cercare soluzioni facili basate sulle condizioni dei loro Paesi d’origine.
Gli occidentali sono spesso troppo imponenti, aggressivi, insistenti e maleducati.
Ciò che fa arrabbiare gli arabi è il fatto che gli americani e gli europei occidentali forniscano costantemente molti più aiuti finanziari e sostegno materiale all’Israele sionista che agli arabi palestinesi e ai loro diritti umani.
Infine, ci sono quattro proposte di possibile cooperazione pacifica tra i popoli della regione MENA e gli occidentali che possono contribuire alla soluzione delle attuali sfide in Medio Oriente e Nord Africa:

La ricostruzione dell’Iraq e dell’Afghanistan in modo che i loro cittadini possano godere dei diritti umani fondamentali, della libertà e della dignità.
La risoluzione della guerra tra l’Israele sionista e gli abitanti autoctoni della Palestina – gli arabi palestinesi.
La risoluzione delle dispute interne tra al-Fatah e Hamas.
La modernizzazione dei sistemi socio-politico-economici nella regione MENA.
Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di Studi Geostrategici

Belgrado, Serbia

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com © Vladislav B. Sotirovic 2024

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La prossima guerra globale, Di Hal Brands

Cadetti dell’esercito ucraino durante una cerimonia di giuramento a Kiev, settembre 2023
Viacheslav Ratynskyi / Reuters

L’era post-Guerra Fredda è iniziata, all’inizio degli anni Novanta, con visioni di pace globale. Si sta concludendo, tre decenni dopo, con rischi crescenti di guerra globale. Oggi l’Europa sta vivendo il conflitto militare più devastante da generazioni. Una lotta brutale tra Israele e Hamas sta seminando violenza e instabilità in tutto il Medio Oriente. L’Asia orientale, fortunatamente, non è in guerra. Ma non è nemmeno esattamente pacifica, dato che la Cina costringe i suoi vicini e accumula potenza militare a un ritmo storico. Se molti americani non si rendono conto di quanto il mondo sia vicino a essere devastato da conflitti feroci e interconnessi, forse è perché hanno dimenticato come è nata l’ultima guerra globale.

Quando gli americani pensano alla guerra globale, di solito pensano alla Seconda Guerra Mondiale o alla parte della guerra iniziata con l’attacco giapponese a Pearl Harbor nel dicembre 1941. Dopo quell’attacco e la successiva dichiarazione di guerra di Adolf Hitler contro gli Stati Uniti, il conflitto si è configurato come un’unica, totale lotta tra alleanze rivali su un campo di battaglia globale. Ma la Seconda Guerra Mondiale iniziò come una serie di contese per la supremazia in regioni chiave che si estendevano dall’Europa all’Asia-Pacifico, contese che alla fine raggiunsero il culmine e si combatterono in modi che consumarono il mondo. La storia di questo periodo rivela gli aspetti più oscuri dell’interdipendenza strategica in un mondo devastato dalla guerra. Illustra anche scomodi parallelismi con la situazione che Washington sta affrontando attualmente.

Gli Stati Uniti non si trovano di fronte a un’alleanza formalizzata di avversari, come un tempo durante la Seconda Guerra Mondiale. Probabilmente non assisteremo alla riproposizione di uno scenario in cui potenze autocratiche conquistano vaste aree dell’Eurasia e delle sue regioni costiere. Tuttavia, con le guerre in Europa orientale e in Medio Oriente che già infuriano e i legami tra gli Stati revisionisti che si accentuano, basterebbe uno scontro nel conteso Pacifico occidentale per dare vita a un altro terribile scenario: quello in cui intense lotte regionali interconnesse travolgono il sistema internazionale e creano una crisi della sicurezza globale mai vista dal 1945. Un mondo a rischio potrebbe diventare un mondo in guerra. E gli Stati Uniti non sono neanche lontanamente pronti per questa sfida.

GUERRA E MEMORIA

I ricordi americani della Seconda Guerra Mondiale sono indelebilmente segnati da due aspetti unici dell’esperienza statunitense. In primo luogo, gli Stati Uniti entrarono in guerra molto tardi: più di due anni dopo che Hitler aveva sconvolto l’Europa invadendo la Polonia e più di quattro anni dopo che il Giappone aveva iniziato la guerra del Pacifico invadendo la Cina. In secondo luogo, gli Stati Uniti si unirono alla lotta in entrambi i teatri contemporaneamente. La Seconda Guerra Mondiale fu quindi globalizzata dal momento in cui gli Stati Uniti vi entrarono; dal dicembre 1941 in poi, il conflitto vide una coalizione multicontinentale, la Grande Alleanza, combattere un’altra coalizione multicontinentale, l’Asse, su più fronti. (L’eccezione fu che l’Unione Sovietica rimase in pace con il Giappone dal 1941 al 1945). Si trattava di una guerra mondiale nel suo senso più completo e totale. Tuttavia, il conflitto più terribile della storia non iniziò così.

La Seconda guerra mondiale fu l’aggregazione di tre crisi regionali: La furia del Giappone in Cina e nell’Asia-Pacifico; il tentativo dell’Italia di conquistare l’impero in Africa e nel Mediterraneo; la spinta della Germania all’egemonia in Europa e oltre. Per certi versi, queste crisi sono sempre state collegate. Ognuna era opera di un regime autocratico con un’inclinazione alla coercizione e alla violenza. Ognuna di esse ha comportato un tentativo di dominio in una regione di importanza globale. Ognuna di esse contribuì a quella che il presidente americano Franklin Roosevelt, nel 1937, definì una “epidemia di illegalità mondiale”. Tuttavia, non si trattava di un mega-conflitto integrato fin dall’inizio.

Le potenze fasciste inizialmente avevano poco in comune, se non una governance illiberale e il desiderio di frantumare lo status quo. In effetti, il razzismo feroce che pervadeva l’ideologia fascista poteva lavorare contro la coesione di questo gruppo: Hitler una volta derise i giapponesi come “mezze scimmie laccate”. Anche se questi Paesi, a partire dal 1936, siglarono una serie di patti di sicurezza che si sovrapposero, per tutta la fine degli anni Trenta furono tanto rivali quanto alleati. La Germania di Hitler e l’Italia del Primo Ministro Benito Mussolini si scontrarono nelle crisi dell’Austria nel 1934 e dell’Etiopia nel 1935. Nel 1938, la Germania sosteneva la Cina nella sua guerra di sopravvivenza contro il Giappone; l’anno successivo, firmò una tacita alleanza con l’Unione Sovietica, che allora combatteva un conflitto non dichiarato contro Tokyo in Asia. (Mosca e Tokyo firmarono poi un patto di non aggressione nell’aprile 1941, che durò fino al 1945). Solo gradualmente le crisi regionali si unirono e le coalizioni rivali si coalizzarono, a causa di fattori che oggi potrebbero suonare familiari.

In primo luogo, a prescindere dalle loro specifiche – e talvolta conflittuali – finalità, le potenze fasciste avevano una somiglianza di intenti più fondamentale. Tutte cercavano un ordine globale drammaticamente trasformato, in cui le potenze “che non hanno” si ritagliassero vasti imperi attraverso tattiche brutali e in cui i regimi brutali superassero le democrazie decadenti che disprezzavano. “Nella battaglia tra democrazia e totalitarismo”, dichiarò il ministro degli Esteri giapponese nel 1940, “il secondo … vincerà senza dubbio e controllerà il mondo”. Esisteva una solidarietà geopolitica e ideologica di base tra le autocrazie del mondo, che le ha avvicinate nel tempo, e i conflitti che hanno seminato.

La Seconda Guerra Mondiale iniziò come una terna di contese per la supremazia in regioni chiave.

In secondo luogo, il mondo sviluppò una forma perversa di interdipendenza, poiché l’instabilità in una regione esacerbava l’instabilità in un’altra. Umiliando la Società delle Nazioni e dimostrando che l’aggressione poteva pagare, l’assalto dell’Italia all’Etiopia nel 1935 spianò la strada alla rimilitarizzazione della Renania da parte di Hitler nel 1936. La Germania si rifece poi nel 1940 schiacciando la Francia, mettendo il Regno Unito sull’orlo del baratro e creando un’occasione d’oro per l’espansione giapponese nel sud-est asiatico. Anche particolari tattiche migrarono da un teatro all’altro; l’uso del terrore aereo da parte delle forze italiane in Etiopia, ad esempio, prefigurò il suo uso da parte delle forze tedesche in Spagna e di quelle giapponesi in Cina. Non da ultimo, il gran numero di sfide all’ordine esistente disorientò e debilitò i suoi difensori: il Regno Unito dovette trattare con cautela con Hitler nelle crisi sull’Austria e sulla Cecoslovacchia nel 1938, perché il Giappone minacciava i suoi possedimenti imperiali in Asia e le sue vie di comunicazione nel Mediterraneo erano vulnerabili all’Italia.

Questi due fattori contribuirono a un terzo: i programmi di aggressione estrema polarizzarono il mondo e lo divisero in campi rivali. Alla fine degli anni Trenta, Germania e Italia si unirono per proteggersi reciprocamente dalle democrazie occidentali che avrebbero potuto tentare di frustrare le loro rispettive ambizioni. Nel 1940, il Giappone si unì al partito nella speranza di dissuadere gli Stati Uniti dall’interferire con la sua espansione in Asia. Attraverso programmi multipli e reciprocamente rafforzati di revisionismo regionale, i tre Paesi dichiararono che avrebbero creato un “nuovo ordine di cose” nel mondo.

Questo nuovo Patto Tripartito non scoraggiò Roosevelt, ma lo convinse, come scrisse nel 1941, che “le ostilità in Europa, in Africa e in Asia sono tutte parti di un unico conflitto mondiale”. In effetti, man mano che l’Asse si coagulava e la sua aggressione si intensificava, costringeva gradualmente una vasta gamma di Paesi a un’alleanza rivale dedicata a frustrare quei disegni. Quando il Giappone attaccò Pearl Harbor e Hitler dichiarò guerra a Washington, coinvolsero gli Stati Uniti nei conflitti in Europa e nel Pacifico, trasformando questi scontri regionali in una lotta globale.

IL PASSATO È PRESENTE

I parallelismi tra quell’epoca e il presente sono sorprendenti. Oggi, come negli anni Trenta, il sistema internazionale si trova ad affrontare tre grandi sfide regionali. La Cina sta rapidamente accumulando potenza militare nell’ambito della sua campagna per espellere gli Stati Uniti dal Pacifico occidentale e, forse, diventare la potenza preminente del mondo. La guerra della Russia in Ucraina è il fulcro omicida del suo sforzo di lunga data per reclamare il primato nell’Europa orientale e nell’ex spazio sovieticoIn Medio Oriente, l’Iran e il suo gruppo di proxy – Hamas, Hezbollah, Houthi e molti altri – stanno conducendo una lotta sanguinosa per il dominio regionale contro Israele, le monarchie del Golfo e gli Stati Uniti. Ancora una volta, i punti in comune fondamentali che legano gli Stati revisionisti sono la governance autocratica e il rancore geopolitico; in questo caso, il desiderio di rompere un ordine guidato dagli Stati Uniti che li priva della grandezza che desiderano. Pechino, Mosca e Teheran sono le nuove potenze “che non hanno”, in lotta contro gli “che hanno”: Washington e i suoi alleati.

Due di queste sfide sono già diventate calde. La guerra in Ucraina è anche una feroce contesa per procura tra la Russia e l’Occidente; il presidente russo Vladimir Putin si sta preparando a una lotta lunga e spietata che potrebbe durare anni. L’attacco di Hamas a Israele dello scorso ottobre – favorito, anche se forse non esplicitamente benedetto, da Teheran – ha innescato un intenso conflitto che sta creando violente ricadute in tutta la regione. L’Iran, nel frattempo, si sta avvicinando alle armi nucleari, che potrebbero dare un impulso al suo revisionismo regionale, indennizzando il suo regime da una risposta israeliana o statunitense. Nel Pacifico occidentale e nell’Asia continentale, la Cina si affida ancora per lo più alla coercizione, senza ricorrere alla guerra. Ma quando l’equilibrio militare si sposterà in punti sensibili come lo Stretto di Taiwan o il Mar Cinese Meridionale, Pechino avrà migliori opzioni – e forse una maggiore propensione all’aggressione.

Come negli anni Trenta, le potenze revisioniste non sono sempre d’accordo. La Russia e la Cina cercano entrambe la preminenza in Asia centrale. Si stanno spingendo anche in Medio Oriente, in modi che a volte sono in contrasto con gli interessi dell’Iran. Se i revisionisti finiranno per spingere il loro nemico comune, gli Stati Uniti, fuori dall’Eurasia, potrebbero finire per litigare tra loro per il bottino, proprio come le potenze dell’Asse che, se avessero in qualche modo sconfitto i loro rivali, si sarebbero sicuramente rivoltate l’una contro l’altra. Tuttavia, per ora, i legami tra le potenze revisioniste sono fiorenti e i conflitti regionali dell’Eurasia sono sempre più strettamente interconnessi.

La Russia e la Cina si stanno avvicinando grazie alla loro partnership strategica “senza limiti”, che prevede la vendita di armi, l’approfondimento della cooperazione tecnologica nel settore della difesa e dimostrazioni di solidarietà geopolitica come le esercitazioni militari nei punti caldi del pianeta. Proprio come il patto Molotov-Ribbentrop del 1939 permise alla Germania e all’Unione Sovietica di scatenarsi nell’Europa orientale senza rischiare di entrare in conflitto tra loro, la partnership sino-russa ha pacificato quello che un tempo era il confine più militarizzato del mondo e ha permesso a entrambi i Paesi di concentrarsi sulle contese con Washington e i suoi amici. Più di recente, la guerra in Ucraina ha rafforzato anche altre relazioni eurasiatiche – tra Russia e Iran e Russia e Corea del Nord – intensificando e intrecciando le sfide che i rispettivi revisionisti pongono.

I conflitti regionali dell’Eurasia sono sempre più strettamente interconnessi.

Droni, munizioni d’artiglieria e missili balistici forniti da Teheran e Pyongyang, insieme al sostegno economico di Pechino, hanno sostenuto Mosca nel suo conflitto contro Kiev e i suoi sostenitori occidentali. In cambio, Mosca sembra trasferire tecnologia e know-how militare più sensibile: vendere aerei avanzati all’Iran, offrire aiuti ai programmi di armamento avanzato della Corea del Nord e forse anche aiutare la Cina a costruire il suo sottomarino d’attacco di nuova generazione. Altri scontri regionali stanno rivelando dinamiche simili. In Medio Oriente, Hamas sta combattendo contro Israele con armi cinesi, russe, iraniane e nordcoreane che ha accumulato per anni. Dal 7 ottobre, Putin ha dichiarato che i conflitti in Ucraina e in Medio Oriente fanno parte di un’unica, più grande lotta che “deciderà il destino della Russia e del mondo intero”. In un’altra eco del passato, le tensioni nei teatri chiave dell’Eurasia assottigliano le risorse degli Stati Uniti, ponendo la superpotenza di fronte a molteplici dilemmi contemporaneamente. Le potenze revisioniste si aiutano a vicenda semplicemente facendo le proprie cose.

Una differenza cruciale tra gli anni Trenta e oggi è la portata del revisionismo. Per quanto Putin e l’ayatollah iraniano Ali Khamenei siano cattivi, non hanno divorato enormi porzioni di regioni cruciali. Un’altra differenza cruciale è che l’Asia orientale gode ancora di una pace tenue. Ma con i funzionari statunitensi che avvertono che la Cina potrebbe diventare più bellicosa man mano che le sue capacità maturano – forse già nella seconda metà di questo decennio – vale la pena considerare cosa accadrebbe se la regione esplodesse.

Un simile conflitto sarebbe catastrofico sotto molteplici aspetti. L’aggressione cinese contro Taiwan potrebbe scatenare una guerra con gli Stati Uniti, mettendo l’uno contro l’altro i due eserciti più potenti del mondo e i loro due arsenali nucleari. L’aggressione cinese a Taiwan potrebbe innescare una guerra con gli Stati Uniti, mettendo l’uno contro l’altro i due eserciti più potenti del mondo e i loro due arsenali nucleari. Polarizzerebbe ulteriormente la politica globale, in quanto gli Stati Uniti cercherebbero di riunire il mondo democratico contro l’aggressione cinese, spingendo Pechino in un abbraccio più stretto con la Russia e altre potenze autocratiche.

Ma soprattutto, se combinata con i conflitti in corso altrove, una guerra in Asia orientale potrebbe creare una situazione diversa da quella degli anni Quaranta, in cui tutte e tre le regioni chiave dell’Eurasia sono contemporaneamente infiammate da una violenza su larga scala. Non è detto che questa diventi una guerra mondiale unica e totalizzante. Ma sarebbe un mondo tormentato dalla guerra, in cui gli Stati Uniti e gli altri difensori dell’ordine esistente si troverebbero ad affrontare conflitti multipli e interconnessi che si estendono su alcuni dei terreni strategici più importanti della Terra.

TEMPESTE IN ARRIVO

Ci sono molte ragioni per cui questo scenario potrebbe non verificarsi. L’Asia orientale potrebbe rimanere in pace, perché gli Stati Uniti e la Cina hanno immensi incentivi per evitare una guerra terribile. I combattimenti in Ucraina e in Medio Oriente potrebbero placarsi. Ma vale comunque la pena di riflettere su questo scenario da incubo, perché il mondo potrebbe essere a un passo da un conflitto eurasiatico pervasivo anche solo per una crisi mal gestita, e perché gli Stati Uniti sono così impreparati a questa eventualità.

In questo momento, gli Stati Uniti stanno cercando di sostenere contemporaneamente Israele e l’Ucraina. Le esigenze di queste due guerre – in cui Washington non è ancora un combattente principale – stanno mettendo a dura prova le capacità degli Stati Uniti in settori come l’artiglieria e la difesa missilistica. I dispiegamenti nelle acque intorno al Medio Oriente, volti a scoraggiare l’Iran e a mantenere aperte le rotte marittime critiche, stanno mettendo a dura prova le risorse della Marina statunitense. Gli attacchi contro gli obiettivi degli Houthi nello Yemen stanno consumando risorse, come i missili Tomahawk, che avrebbero un valore superiore in un conflitto tra Stati Uniti e Cina. Questi sono tutti sintomi di un problema più grande: la riduzione delle capacità dell’esercito americano rispetto alle sue numerose sfide interconnesse.

Nel corso degli anni 2010, il Pentagono si è gradualmente allontanato da una strategia militare volta a sconfiggere contemporaneamente due Stati canaglia avversari, optando invece per una strategia di una sola guerra volta a sconfiggere un’unica grande potenza rivale, la Cina, in uno scontro ad alta intensità. In un certo senso, questa è stata una risposta sensata alle esigenze estreme che un tale conflitto avrebbe comportato. Ma ha anche lasciato il Pentagono mal equipaggiato per un mondo in cui una combinazione di grandi potenze ostili e gravi minacce regionali minacciano più teatri contemporaneamente. Forse ha anche incoraggiato gli avversari più aggressivi degli Stati Uniti, come la Russia e l’Iran, che sicuramente si rendono conto che una superpotenza sovraccarica – con un esercito che si concentra disperatamente sulla Cina – ha una capacità limitata di rispondere ad altre sonde.

Naturalmente, nel 1941 gli Stati Uniti non erano pronti per una guerra globale, ma alla fine hanno prevalso grazie a una mobilitazione di potenza militare e industriale di portata mondiale. Il Presidente Joe Biden ha evocato quel risultato alla fine dello scorso anno, affermando che gli Stati Uniti devono tornare a essere “l’arsenale della democrazia”. La sua amministrazione ha investito nell’espansione della produzione di munizioni per artiglieria, missili a lungo raggio e altre armi importanti. Ma la dura realtà è che la base industriale della difesa che ha vinto la Seconda Guerra Mondiale e poi la Guerra Fredda non esiste più, grazie al persistente sottoinvestimento e al più ampio declino dell’industria manifatturiera statunitense. Le carenze e i colli di bottiglia sono diffusi; il Pentagono ha recentemente riconosciuto “lacune materiali” nella sua capacità di “scalare rapidamente la produzione” in caso di crisi. Molti alleati hanno basi industriali di difesa ancora più deboli.

Il mondo potrebbe essere a un passo da un conflitto eurasiatico pervasivo, anche solo per una crisi mal gestita.

Pertanto, gli Stati Uniti avrebbero grandi difficoltà a mobilitarsi per una guerra multiterritoriale, o anche a mobilitarsi per un conflitto prolungato in una singola regione mantenendo gli alleati riforniti in altre. Potrebbero avere difficoltà a generare i vasti caricatori di munizioni necessari per un conflitto tra grandi potenze o a sostituire navi, aerei e sottomarini persi nei combattimenti. Sicuramente sarebbe difficile tenere il passo con il suo più potente rivale in una potenziale guerra nel Pacifico occidentale; come si legge in un rapporto del Pentagono, la Cina è ora “la centrale industriale globale in molti settori, dalla costruzione navale ai minerali critici alla microelettronica”, il che potrebbe darle un vantaggio cruciale nella mobilitazione in una competizione con gli Stati Uniti. Se la guerra dovesse coinvolgere più teatri dell’Eurasia, Washington e i suoi alleati potrebbero non vincere.

Non è utile fingere che esista una soluzione ovvia e a breve termine a questi problemi. Concentrare la potenza militare e l’attenzione strategica degli Stati Uniti in modo preponderante sull’Asia, come sostengono alcuni analisti, comporterebbe in ogni caso un tributo alla leadership globale americana. In un momento in cui il Medio Oriente e l’Europa sono già in profonda agitazione, potrebbe equivalere a un suicidio della superpotenza. Ma anche se aumentare drasticamente la spesa militare per ridurre il rischio globale è strategicamente essenziale, sembra politicamente poco conveniente, almeno fino a quando gli Stati Uniti non subiranno uno shock geopolitico più forte. In ogni caso, ci vorrebbe tempo, che Washington e i suoi amici potrebbero non avere, perché anche un aumento consistente delle spese per la difesa abbia un effetto militare tangibile. L’approccio dell’amministrazione Biden sembra comportare l’arrangiarsi in Ucraina e in Medio Oriente, facendo solo aumenti marginali e selettivi della spesa militare e scommettendo sul fatto che la Cina non diventi più bellicosa: una politica che potrebbe funzionare abbastanza bene, ma che potrebbe anche fallire in modo disastroso.

La scena internazionale si è drammaticamente oscurata negli ultimi anni. Nel 2021, l’amministrazione Biden poteva prevedere una relazione “stabile e prevedibile” con la Russia, fino all’invasione dell’Ucraina nel 2022. Nel 2023, i funzionari statunitensi ritenevano il Medio Oriente più tranquillo che mai in questo secolo, poco prima che scoppiasse un conflitto devastante e destabilizzante per la regione. Le tensioni tra Stati Uniti e Cina non sono particolarmente accese al momento, ma l’acuirsi della rivalità e lo spostamento dell’equilibrio militare costituiscono un mix pericoloso. Le grandi catastrofi spesso sembrano impensabili finché non accadono. Con il deterioramento dell’ambiente strategico, è tempo di riconoscere quanto sia diventato eminentemente pensabile un conflitto globale.

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Trump sta già ridisegnando la geopolitica, Di Graham Allison

Trump sta già ridisegnando la geopolitica
Come gli alleati e gli avversari degli Stati Uniti rispondono all’eventualità di un suo ritorno
Di Graham Allison
16 gennaio 2024

https://www.foreignaffairs.com/united-states/trump-already-reshaping-geopolitics
Ottieni la citazione

Nel decennio precedente la grande crisi finanziaria del 2008, il presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, è diventato un semidio a Washington. Come ha detto il senatore americano John McCain, repubblicano dell’Arizona, “Se è vivo o morto non importa. Se è morto, basta puntellarlo e mettergli degli occhiali scuri”.

Nei due decenni di presidenza di Greenspan, dal 1987 al 2006, la Fed ha svolto un ruolo centrale in un periodo di crescita accelerata dell’economia statunitense. Tra le fonti della fama di Greenspan c’era quella che i mercati finanziari chiamavano “Fed put”. (Una “put” è un contratto che dà al proprietario il diritto di vendere un’attività a un prezzo fisso fino a una data prestabilita). Durante il mandato di Greenspan, gli investitori erano convinti che, per quanto rischiosi fossero i nuovi prodotti che gli ingegneri finanziari stavano creando, se qualcosa fosse andato storto, il sistema avrebbe potuto contare sul fatto che la Fed di Greenspan sarebbe intervenuta in soccorso e avrebbe fornito una soglia al di sotto della quale i titoli non avrebbero potuto scendere. La scommessa ha dato i suoi frutti: quando i titoli garantiti da ipoteca e i derivati di Wall Street hanno portato al crollo di Lehman Brothers, innescando la crisi finanziaria del 2008 che ha dato il via alla Grande Recessione, il Tesoro degli Stati Uniti e la Fed sono intervenuti per evitare che l’economia scivolasse in una seconda Grande Depressione.

Questa dinamica merita di essere ricordata quando si considera l’effetto che le elezioni presidenziali americane del 2024 stanno già avendo sulle decisioni dei Paesi di tutto il mondo. I leader stanno iniziando a rendersi conto che tra un anno l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump potrebbe davvero tornare alla Casa Bianca. Di conseguenza, alcuni governi stranieri stanno prendendo sempre più in considerazione nei loro rapporti con gli Stati Uniti quello che potrebbe diventare noto come “Trump put”: ritardare le scelte nella speranza di poter negoziare accordi migliori con Washington da qui a un anno, perché Trump stabilirà effettivamente un limite massimo a quanto le cose possono peggiorare per loro. Altri, al contrario, stanno iniziando a cercare quella che potrebbe essere definita una “copertura Trump”: analizzare i modi in cui il suo ritorno potrebbe lasciare loro opzioni peggiori e prepararsi di conseguenza.

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IL FANTASMA DELLE PRESIDENZE PASSATE
I calcoli del presidente russo Vladimir Putin nella sua guerra contro l’Ucraina forniscono un esempio vivido del Trump put. Negli ultimi mesi, con l’emergere di una situazione di stallo sul terreno, sono cresciute le speculazioni sulla disponibilità di Putin a porre fine alla guerra. Ma a causa del Trump put, è molto più probabile che la guerra sia ancora in corso l’anno prossimo. Nonostante l’interesse di alcuni ucraini per un cessate il fuoco prolungato o addirittura per un armistizio che ponga fine alle uccisioni prima che un altro rigido inverno si abbatta su di loro, Putin sa che Trump ha promesso di porre fine alla guerra “in un giorno”. Nelle parole di Trump: “Direi al [presidente ucraino Volodymyr] Zelensky, niente più [aiuti]. Devi fare un accordo”. Avendo buone probabilità che tra un anno Trump offra condizioni molto più vantaggiose per la Russia di quelle che il presidente americano Joe Biden offrirebbe o Zelensky accetterebbe oggi, Putin aspetterà.

Gli alleati dell’Ucraina in Europa, invece, devono prendere in considerazione una copertura da parte di Trump. Mentre la guerra si avvicina alla fine del suo secondo anno, le immagini quotidiane di distruzione e morte causate dagli attacchi aerei e dai proiettili di artiglieria russi hanno sconvolto le illusioni europee di vivere in un mondo in cui la guerra è diventata obsoleta. Prevedibilmente, questo ha portato a una rinascita dell’entusiasmo per l’alleanza NATO e per la sua spina dorsale: l’impegno degli Stati Uniti a intervenire in difesa di qualsiasi alleato attaccato. Ma mentre le notizie dei sondaggi che vedono Trump in vantaggio su Biden cominciano a farsi sentire, cresce la paura. I tedeschi, in particolare, ricordano le conclusioni dell’ex cancelliere Angela Merkel dopo i suoi dolorosi incontri con Trump. Come l’ha descritta lei stessa, “dobbiamo lottare per il nostro futuro da soli”.

Trump non è l’unico leader statunitense a chiedersi perché una comunità europea che ha una popolazione tre volte superiore a quella della Russia e un PIL più di nove volte più grande debba continuare a dipendere da Washington per la sua difesa. In un’intervista spesso citata con il capo redattore di The Atlantic, Jeffrey Goldberg, nel 2016, il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha lacerato gli europei (e altri) per essere “free riders”. Ma Trump è andato oltre. Secondo John Bolton, all’epoca consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, quest’ultimo avrebbe detto: “Non me ne frega niente della NATO” durante un incontro del 2019 in cui ha parlato seriamente di ritirarsi completamente dall’alleanza. In parte, le minacce di Trump erano uno stratagemma per costringere gli Stati europei a rispettare l’impegno a spendere il 2% del PIL per la propria difesa, ma solo in parte. Dopo due anni di tentativi di persuadere Trump sull’importanza delle alleanze degli Stati Uniti, il Segretario alla Difesa James Mattis ha concluso che le sue differenze con il Presidente erano così profonde da non poter più servire, una posizione che ha spiegato candidamente nella sua lettera di dimissioni del 2018. Oggi, il sito web della campagna elettorale di Trump chiede di “rivalutare radicalmente lo scopo e la missione della NATO”. Nel considerare quanti carri armati o proiettili d’artiglieria inviare all’Ucraina, alcuni europei si stanno ora soffermando a chiedersi se potrebbero aver bisogno di quelle armi per la propria difesa se Trump venisse eletto a novembre.

I leader si stanno svegliando al fatto che Trump potrebbe tornare alla Casa Bianca.
Le aspettative derivanti da una candidatura di Trump sono state messe in atto anche durante il vertice sui cambiamenti climatici COP28 recentemente conclusosi a Dubai. Storicamente, gli accordi della COP su ciò che i governi faranno per affrontare la sfida climatica sono stati lunghi nelle aspirazioni e brevi nei risultati. Ma la COP28 si è spinta ancora di più nella fantasia annunciando quello che ha definito un accordo storico per “abbandonare i combustibili fossili”.

In realtà, i firmatari stanno facendo esattamente il contrario. I principali produttori e consumatori di petrolio, gas e carbone stanno attualmente aumentando – e non riducendo – il loro uso di combustibili fossili. Inoltre, stanno facendo investimenti per continuare a farlo fino a quando l’occhio potrà vedere. Il più grande produttore di petrolio al mondo, gli Stati Uniti, ha aumentato la sua produzione ogni anno nell’ultimo decennio e ha stabilito un nuovo record di produzione nel 2023. Il terzo produttore di gas serra, l’India, sta festeggiando una crescita economica superiore, guidata da un programma energetico nazionale il cui fulcro è il carbone. Questo combustibile fossile rappresenta i tre quarti della produzione di energia primaria dell’India. La Cina è il primo produttore sia di energia rinnovabile “verde” che di carbone inquinante “nero”. Sebbene nel 2023 la Cina abbia installato più pannelli solari di quanti ne abbiano installati gli Stati Uniti negli ultimi cinque decenni, sta anche costruendo un numero di nuovi impianti a carbone sei volte superiore a quello del resto del mondo.

Pertanto, sebbene la COP28 abbia visto molte promesse sugli obiettivi per il 2030 e oltre, i tentativi di convincere i governi a intraprendere oggi azioni costose e irreversibili sono stati contrastati. I leader sanno che se Trump tornerà e porterà avanti la sua promessa elettorale di “trivellare, baby, trivellare”, tali azioni non saranno necessarie. Come recitava una battutaccia che ha fatto il giro dei bar della COP28: “Qual è il piano non dichiarato della COP28 per abbandonare i combustibili fossili? Bruciarli il più rapidamente possibile”.

UN MONDO DISORDINATO
Un secondo mandato di Trump promette un nuovo ordine commerciale mondiale o un disordine. Il primo giorno del suo mandato nel 2017, Trump si è ritirato dall’accordo commerciale Trans-Pacific Partnership. Le settimane successive hanno visto la fine delle discussioni per la creazione di un equivalente europeo e di altri accordi di libero scambio. Utilizzando l’autorità unilaterale che la sezione 301 del Trade Act del 1974 conferisce al potere esecutivo, Trump ha imposto tariffe del 25% su importazioni cinesi per un valore di 300 miliardi di dollari, tariffe che Biden ha in gran parte mantenuto in vigore. Come ha spiegato il negoziatore commerciale dell’amministrazione Trump Robert Lighthizer – che la campagna Trump ha identificato come il suo principale consigliere su questi temi – nel suo libro pubblicato di recente, No Trade Is Free, un secondo mandato di Trump sarebbe molto più audace.

Nell’attuale campagna elettorale, Trump si definisce “l’uomo delle tariffe”. Promette di imporre una tariffa universale del dieci per cento sulle importazioni da tutti i Paesi e di abbinare i Paesi che impongono tariffe più alte alle merci americane, promettendo “occhio per occhio, tariffa per tariffa”. Il patto di cooperazione con i Paesi dell’Asia-Pacifico negoziato dall’amministrazione Biden – l’Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity – sarà, secondo Trump, “morto il primo giorno”. Per Lighthizer, la Cina è l'”avversario letale” che sarà il bersaglio centrale delle misure commerciali protezionistiche statunitensi. A partire dalla revoca dello status di “relazioni commerciali normali permanenti” concesso alla Cina nel 2000 in vista dell’adesione all’Organizzazione mondiale del commercio, l’obiettivo di Trump sarà quello di “eliminare la dipendenza dalla Cina in tutti i settori critici”, tra cui elettronica, acciaio e prodotti farmaceutici.

Poiché il commercio è uno dei principali motori della crescita economica globale, la maggior parte dei leader ritiene quasi inconcepibile la possibilità che le iniziative statunitensi possano far crollare l’ordine commerciale basato sulle regole. Tuttavia, alcuni dei loro consiglieri stanno ora esplorando futuri in cui gli Stati Uniti potrebbero avere più successo nel disaccoppiarsi dall’ordine commerciale globale che nel costringere gli altri a disaccoppiarsi dalla Cina.

La liberalizzazione del commercio è stata un pilastro di un più ampio processo di globalizzazione che ha visto anche una più libera circolazione delle persone in tutto il mondo. Trump ha annunciato che il primo giorno della sua nuova amministrazione, il suo primo atto sarà quello di “chiudere il confine”. Attualmente, ogni giorno, più di 10.000 cittadini stranieri entrano negli Stati Uniti dal Messico. Nonostante gli sforzi dell’amministrazione Biden, il Congresso si è rifiutato di autorizzare ulteriori aiuti economici a Israele e all’Ucraina in assenza di cambiamenti importanti che rallentino in modo significativo questa migrazione di massa dall’America centrale e da altri Paesi. In campagna elettorale, Trump sta facendo del fallimento di Biden nel rendere sicure le frontiere degli Stati Uniti una questione importante. Ha annunciato i suoi piani per rastrellare milioni di “stranieri illegali” in quella che definisce “la più grande operazione di deportazione interna della storia americana”. Nel pieno delle elezioni presidenziali, i messicani stanno ancora cercando le parole per descrivere l’incubo in cui il loro Paese potrebbe essere travolto da milioni di persone che attraversano i confini settentrionali e meridionali.

ALTRI QUATTRO ANNI
Storicamente, ci sono state epoche in cui le differenze tra democratici e repubblicani sulle principali questioni di politica estera erano così modeste che si poteva dire che “la politica si ferma in riva al mare”. Questo decennio, tuttavia, non è uno di quelli. Per quanto possa essere inutile per i responsabili della politica estera e per le loro controparti all’estero, la Costituzione degli Stati Uniti prevede degli equivalenti quadrimestrali di quello che nel mondo degli affari sarebbe un tentativo di acquisizione ostile.

Di conseguenza, su ogni questione – dai negoziati sul clima o sul commercio o sul sostegno della NATO all’Ucraina ai tentativi di convincere Putin, il presidente cinese Xi Jinping o il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ad agire -iden e la sua squadra di politica estera si trovano sempre più svantaggiati, poiché le loro controparti soppesano le promesse o le minacce di Washington rispetto alla probabilità di avere a che fare con un governo molto diverso tra un anno. Quest’anno si preannuncia pericoloso, poiché i Paesi di tutto il mondo osservano la politica statunitense con una combinazione di incredulità, fascino, orrore e speranza. Sanno che questo teatro politico sceglierà non solo il prossimo presidente degli Stati Uniti, ma anche il leader più importante del mondo.

GRAHAM ALLISON è Douglas Dillon Professor of Government alla Harvard Kennedy School e autore di Destined for War: Can America and China Escape Thucydides’s Trap?

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Biden non sarà rimosso per la corruzione in Ucraina, ma le nuove accuse possono avere un impatto, di ANDREW KORYBKO

Biden non sarà rimosso per la corruzione in Ucraina, ma le nuove accuse possono avere un impatto

ANDREW KORYBKO
16 GEN 2024

I repubblicani potrebbero condizionare il sostegno a maggiori aiuti all’Ucraina a un’indagine congiunta su queste accuse, vanificando così qualsiasi accordo e/o l’amministrazione Biden o il regime di Zelensky potrebbero far trapelare le prove se l’altro non esegue i loro ordini, dato che si ricattano a vicenda a causa di questi crimini congiunti.

L’ex deputato ucraino Andrey Derkach ha lanciato una serie di notizie bomba sugli affari corrotti di Biden in Ucraina in una recente intervista con la giornalista italo-americana Simona Mangiante. Le conclusioni possono essere lette qui, ma si riducono essenzialmente a tangenti e riciclaggio di denaro, oltre ad altri reati. Se da un lato queste accuse potrebbero dare impulso agli sforzi dei repubblicani per l’impeachment alla Camera, dove l’opposizione ha una maggioranza risicata, dall’altro la mancanza di una maggioranza di due terzi al Senato significa che non sarà rimosso dall’incarico.

Tuttavia, queste nuove accuse possono ancora avere un impatto importante sugli eventi, che potrebbe essere molto più significativo di un impeachment superficiale da parte della Camera. I procedimenti a quel livello si sono politicizzati, come dimostra la caccia alle streghe dei Democratici contro Trump, il che non vuol dire che i Repubblicani stiano portando avanti la loro contro Biden, ma solo sottolineare che l’impeachment da parte della Camera non ha un significato tangibile. Al massimo, rafforzerà gli sforzi di entrambi i partiti per ottenere il voto a novembre.

L’importanza reale di queste ultime accuse risiede nel contesto più ampio del conflitto ucraino, che ha iniziato a spegnersi alla fine dello scorso anno dopo il fallimento della controffensiva di Kiev e la conseguente diminuzione degli aiuti occidentali. I Repubblicani hanno già subordinato il loro accordo su qualsiasi altro accordo di questo tipo a solide riforme della sicurezza dei confini, ma ora potrebbero includere anche l’ulteriore condizione di un’indagine congiunta completa con l’Ucraina sulle notizie bomba di Derkach su Biden.

Se l’opposizione avanzasse una proposta di questo tipo, i Democratici non potrebbero accettare, annullando così la possibilità di un compromesso sulla questione fino al prossimo anno, dopo le elezioni di novembre, che potrebbero scuotere le dinamiche congressuali e potenzialmente portare anche all’estromissione di Biden. Inoltre, non si può contare sul fatto che il regime di Zelensky assista in buona fede a qualsiasi teorica indagine congiunta, dal momento che anche figure di spicco sono implicate in questa corruzione secondo le rivelazioni di Derkach.

Questo particolare punto aggiunge una curiosa svolta allo scandalo, poiché suggerisce che potrebbero essere in grado di ricattare anche l’amministrazione Biden, il che fornisce un nuovo livello di comprensione del motivo per cui il presidente in carica e la sua squadra sono stati così entusiasti di perpetuare la guerra per procura della NATO contro la Russia attraverso l’Ucraina. Zelensky sa che qualsiasi risultato al di sotto della vittoria massimalista di cui fantastica, ucciderebbe la sua carriera politica, quindi ha ragioni di interesse personale nel voler trasformare questa situazione in una cosiddetta “guerra per sempre”.

Gli interessi nazionali oggettivi degli Stati Uniti non sono serviti dall’esaurimento di un numero ancora maggiore di scorte, riducendo così la loro capacità di rispondere in modo flessibile alle crisi estere che si presentano, o che potrebbero essere provocate dall’America o dai suoi partner; ecco perché è diventato popolare parlare di congelamento del conflitto. La proposta dell’ex comandante supremo della NATO, l’ammiraglio James Stavridis, di un armistizio “terra in cambio di pace”, simile a quello coreano, avanzata l’anno scorso, potrebbe essere un punto di partenza, ma solo se l’Occidente accetterà le richieste di garanzia di sicurezza della Russia in Ucraina.

Tuttavia, l’Occidente si è dimostrato riluttante a farlo, motivo per cui non sono stati compiuti progressi al riguardo. Una delle ragioni alla base della recalcitranza degli Stati Uniti potrebbe essere non solo la preoccupazione di “perdere la faccia” al raggiungimento di una serie pragmatica di compromessi reciproci con la Russia, ma anche il fatto che Zelensky stia ricattando l’Amministrazione Biden, dicendo che vuoterà il sacco se oseranno perseguire questa politica. Dato il suo precedente status di “divinità” nei media occidentali, qualsiasi conferma delle affermazioni di Derkach potrebbe essere ampiamente creduta dagli occidentali.

Sanno che Zelensky non è un cosiddetto “agente russo” e si sono convinti che sia un “combattente per la libertà democratica”, quindi sarebbe molto dannoso per la reputazione dei Democratici in carica se si impegnasse in una “frequentazione limitata” condividendo alcune informazioni rilevanti. Naturalmente non coinvolgerebbe se stesso o i suoi alleati più fedeli, ma potrebbe far fuori un paio di funzionari meno affidabili politicamente in quell’occasione (forse come parte di un’epurazione), condannando forse la rielezione di Biden e ribaltando il Senato.

Il controllo repubblicano della Casa Bianca e del Congresso, unito a quella che molti considerano una Corte Suprema di destra, potrebbe portare all’incubo peggiore dei Democratici, ovvero che i loro avversari invertano la maggior parte delle politiche di Biden. Nel frattempo, l’incubo peggiore di Zelensky è che Biden si pieghi al sentimento popolare degli americani di ridurre la partecipazione del loro Paese a questa guerra per procura e lo costringa a riprendere i colloqui di pace con la Russia, in modo che ciascuno possa tenere sotto controllo l’altro attraverso questo ricatto reciproco.

La legittimità dell’amministrazione Biden e del regime di Zelensky dipende quindi dal fatto che ciascuno di essi taccia sul proprio piano di corruzione, ma l’uno o l’altro potrebbe almeno in teoria rivelare alcuni dettagli al riguardo se iniziasse a non fidarsi dell’altro o volesse sbarazzarsene. Ad esempio, l’Amministrazione Biden potrebbe far trapelare alcune informazioni sulla corruzione di Zelensky ai media filo-democratici per fare pressione su di lui affinché riprenda i colloqui di pace o per spianare la strada a un “governo di unità nazionale“.

Questa proposta è stata avanzata il mese scorso da un membro dell’influente think tank del Consiglio Atlantico in un articolo per Politico e potrebbe essere credibilmente interpretata come un segnale che l’Amministrazione Biden sta iniziando a stufarsi di Zelensky. Per quanto riguarda il leader ucraino, è già stato spiegato che potrebbe essere il primo a far trapelare alcuni dettagli di questo schema se ritiene che il sostegno dei Democratici a questa guerra per procura stia vacillando, il che potrebbe essere una delle sue “opzioni nucleari” in quel caso insieme a un grande false flag.

Tornando alle ultime accuse di corruzione di Derkach, il loro impatto in termini di conflitto ucraino è molto più importante della possibilità che favoriscano gli sforzi dei Repubblicani per impeachment di Biden alla Camera, dato che non possono rimuoverlo a causa della scarsità di sostegno al Senato. I repubblicani potrebbero condizionare il sostegno a maggiori aiuti all’Ucraina a un’indagine congiunta su queste affermazioni e/o l’amministrazione Biden o il regime di Zelensky potrebbero far trapelare le prove se l’altro non esegue i loro ordini.

La Germania sta ricostruendo la “Fortezza Europa” per aiutare il “Pivot (back) to Asia” degli Stati Uniti
ANDREW KORYBKO
19 GENNAIO

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L’obiettivo è sfruttare questo progetto geostrategico per costringere la Russia a scomodi compromessi nel conflitto ucraino, facilitando al contempo il “Pivot (back) to Asia” degli Stati Uniti. Il primo obiettivo potrebbe fallire, ma il secondo probabilmente no.

Diversi sviluppi interconnessi suggeriscono fortemente che il piano della Germania di prendere il controllo del continente senza sparare un colpo, di cui si era parlato nel luglio e nel dicembre 2022 nelle precedenti analisi ipertestuali, si sta finalmente realizzando. Il catalizzatore è stato il ritorno di Donald Tusk come Primo Ministro polacco, che ha eliminato i suoi oppositori conservatori-nazionalisti che ostacolavano questo piano e cercavano di ritagliarsi una propria “sfera di influenza” nell’Europa centrale e orientale.

Una volta chiarito il suo ritorno al potere, il capo della logistica tedesca della NATO Alexander Sollfrank ha proposto a fine novembre la “Schengen militare”, volta a ottimizzare la burocrazia e la logistica per trasformare il blocco in un unico spazio militare. L’impulso successivo è stato dato da Berlino che, meno di un mese dopo, a metà dicembre, ha concluso un accordo a lungo atteso con la Lituania per lo stazionamento di una brigata di carri armati e di 5.000 soldati in questo Paese dalla posizione geostrategica, confinante con la Bielorussia e Kaliningrad.

Il nuovo viceministro degli Esteri polacco Andrzej Szejn ha poi accettato questo schema in linea di principio proprio lo scorso fine settimana, dopo aver dichiarato a Rzeczpospolita che “quando la guerra si svolge al di là del nostro confine orientale, qualsiasi aiuto e cooperazione da parte dei nostri alleati è il benvenuto”. Quindi se i tedeschi vogliono rafforzare il fianco orientale della NATO in Polonia come hanno fatto in Lituania, herzlich willkommen!”. Questo è avvenuto nello stesso giorno in cui la Bild ha fatto trapelare le previsioni dettagliate del Ministero della Difesa tedesco sullo scenario di guerra contro la Russia.

Il documento riservato prevedeva che la Russia avrebbe incoraggiato i suoi coetanei negli Stati baltici a rivoltarsi entro l’estate, scatenando una crisi più ampia con la NATO. È stato poi sostenuto che “la prevista deportazione di alcuni russi da parte della Lettonia potrebbe mettere in moto lo scenario previsto dalla Bild” ed espandere la zona di tensione fino a nord, verso l’Artico, data la nuova adesione della Finlandia alla NATO e la solidarietà che potrebbe mostrare nei confronti dei suoi parenti estoni se anch’essi venissero coinvolti in questa vicenda.

La “Schengen militare” potrebbe quindi essere attuata ad un ritmo accelerato, con il falso pretesto che questa crisi artificiale conferisce a questo piano un senso di urgenza maggiore, portando così al dispiegamento di truppe tedesche lungo il confine occidentale della Russia per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale. Parallelamente, la “Moldova Highway” che la Romania sta costruendo in modalità “d’emergenza” ottimizzerà i movimenti militari dal Mediterraneo all’Ucraina secondo il meccanismo suddetto.

Se tutti questi tasselli si uniscono in questo modo, e se eventualmente emergono ostacoli imprevisti per impedirli, la Germania avrebbe probabilmente ricostruito una versione moderna della “Fortezza Europa” con il sostegno degli Stati Uniti. Il leader de facto dell’Occidente ha interesse a sostenere questo progetto geostrategico, in modo che la Germania possa contenere la Russia in Europa come suo principale proxy “Lead from behind”, mentre l’America si sta rapidamente “riorientando” verso l’Asia per contenere più muscolarmente la Cina nel prossimo futuro.

A questo proposito, “Gli Stati Uniti stanno radunando gli alleati in vista di una possibile guerra con la Cina”, sostenuti dal sistema di alleanze AUKUS+, simile a quello della NATO, che stanno costruendo in Asia con il Giappone e le Filippine, rispettivamente lungo i fronti nordorientale e sudorientale. Anche se “Il vertice Xi-Biden potrebbe aiutare a gestire meglio la rivalità sino-statunitense” dopo che i loro leader si sono incontrati a San Francisco durante il vertice APEC di novembre, non si prevede una pace duratura tra i due.

Piuttosto, ciascuno dei due sembra interessato a guadagnare tempo in modo pragmatico per posizionarsi in modo più vantaggioso in vista di quello che potrebbe essere un inevitabile scontro su Taiwan, per il quale si stanno impegnando in concessioni reciproche come misura temporanea di costruzione della fiducia. Gli Stati Uniti stanno politicamente prendendo le distanze dall’India, come spiegato qui, qui e qui, mentre la Cina sta finanziariamente prendendo le distanze dalla Russia, come spiegato qui e come confermato dall’ultimo rapporto di Bloomberg qui.

Per essere chiari, non si prevede una rottura dei legami indo-americani o sino-russi, e ogni corrispondente allontanamento dall’altro ha il solo scopo di placare il rivale come misura temporanea di rafforzamento della fiducia, per guadagnare tempo e posizionarsi in modo più vantaggioso in vista di una possibile crisi di Taiwan. Questi calcoli strategici sono rilevanti nel contesto della ricostruzione della “Fortezza Europa” da parte della Germania, poiché questo progetto geostrategico libererà le risorse militari degli Stati Uniti per il ridispiegamento in Asia.

Serve anche a mettere l’Occidente in una posizione più vantaggiosa per costringere la Russia a scendere a compromessi scomodi per congelare il conflitto ucraino, dopo che alla fine dell’anno scorso ha iniziato a concludersi in seguito al fallimento della controffensiva estiva e al ritardo della NATO nella “corsa alla logistica”. Il Presidente Putin ha segnalato che l’Ucraina deve essere smilitarizzata, denazificata e costituzionalmente neutrale per poterlo fare, ma la “Fortezza Europa” potrebbe costringerlo a riconsiderare le sue richieste.

L’Occidente è interessato a congelare la linea di contatto (LOC) secondo la proposta di armistizio “terra in cambio di pace”, di stampo coreano, avanzata dall’ex comandante supremo della NATO James Stavridis lo scorso novembre, al fine di solidificare il progetto geopolitico summenzionato e facilitare il ridispiegamento delle risorse militari statunitensi in Asia. Tuttavia, il leader russo non è a suo agio con le garanzie di sicurezza richieste, motivo per cui l’Occidente vuole far leva sulla “Fortezza Europa” per spaventarlo e indurlo al compromesso di Stavridis.

Se si verificasse la reazione a catena descritta in precedenza in questa analisi e si verificasse una grave crisi tra la NATO e la Russia lungo il fronte artico-baltico, l’Occidente potrebbe offrire un’attenuazione della situazione in cambio del fatto che la Russia faccia lo stesso in Ucraina e di conseguenza rinunci alle richieste precedentemente menzionate. La narrativa è già stata introdotta, come spiegato qui, per far passare la ripresa dei colloqui di pace come una presunta debolezza della Russia, in modo che il pubblico occidentale accetti lo scenario di Stavridis.

Nel caso in cui il Presidente Putin non si muova dalla sua posizione di principio di assicurare la totalità delle tre richieste di garanzia di sicurezza interconnesse del suo Paese, allora potrebbero verificarsi le incursioni terroristiche simili a quelle di Belgorod dalla Polonia, alle quali la Bielorussia ha detto di prepararsi il mese scorso. Il loro scopo sarebbe quello di esercitare la massima pressione su di lui per indurlo ad accettare la loro proposta di armistizio “terra in cambio di pace”, simile a quella coreana, intensificando ulteriormente l’escalation, nonostante il pericolo, per poi diminuire l’escalation a quelle condizioni.

Tuttavia, potrebbe comunque non accettare la loro coercizione geostrategica, soprattutto perché il recente “Accordo di cooperazione per la sicurezza tra Regno Unito e Ucraina” mira essenzialmente a ottimizzare il modo in cui l’Occidente conduce le sue guerre per procura in vista di una probabile continuazione del conflitto in Ucraina dopo l’armistizio. Sebbene la fuga di notizie della Bild abbia suggerito che ciò potrebbe avvenire entro la metà del 2025, il Primo Ministro estone Kaja Kallas ha affermato che la NATO ha ancora cinque anni per prepararsi, il che coincide anche con una delle tempistiche della crisi di Taiwan.

Altri prevedono l’inizio dell’anno prossimo, coincidendo così con lo scenario previsto dal Ministero della Difesa tedesco, mentre un altro prevede che potrebbe verificarsi nel 2027 e un altro ancora lo prevede per il 2035. Partendo dal presupposto che gli Stati Uniti scatenerebbero ogni conflitto provocando la Russia e la Cina, a meno che una di esse non li colga di sorpresa come ha fatto la prima con la sua operazione speciale, è più sensato che non si verifichino entrambi contemporaneamente e che si inizi più tardi che presto, per riarmare il più possibile prima di allora.

Poiché la Russia ha già sorpreso l’Occidente una volta, è imperativo che la Germania ricostruisca subito la “Fortezza Europa” con il sostegno degli Stati Uniti, per essere in una posizione più vantaggiosa nel caso in cui ciò si ripeta, come nel caso in cui la Russia riesca a sfondare la linea di confine in primavera, come previsto anche dalla soffiata della Bild. L’obiettivo è quello di sfruttare questo progetto geostrategico per costringere la Russia a compromessi scomodi, facilitando al contempo il “Pivot (back) to Asia” degli Stati Uniti. Il primo obiettivo potrebbe fallire, ma il secondo probabilmente no.

La prevista deportazione di alcuni russi da parte della Lettonia potrebbe mettere in moto le previsioni di scenario della Bild

ANDREW KORYBKO
18 GEN 2024

Questo esercizio di pensiero non deve essere interpretato come un suggerimento che una guerra tra la NATO e la Russia nei Paesi Baltici (e possibilmente nell’Artico attraverso il nuovo membro Finlandia) sia inevitabile, ma solo che presto potrebbe verificarsi una reazione a catena in cui gli eventi assomigliano allo scenario previsto dalla Germania, anche se senza essere colpa della Russia.

La Bild ha citato documenti riservati trapelati dal Ministero della Difesa per riferire recentemente che la Germania si sta preparando alla guerra con la Russia, il cui impatto narrativo è stato analizzato qui come avanzamento della proposta di “Schengen militare” avanzata dal capo della logistica tedesca della NATO Sollfrank lo scorso novembre. Come suggerisce il nome, questo concetto mira a ottimizzare la burocrazia e la logistica in tutto il blocco per trasformarlo in un unico spazio militare, con l’intento di facilitare i movimenti militari verso il confine russo.

Secondo il rapporto della Bild, lo scenario previsto dal Ministero della Difesa tedesco prevede che la Russia incoraggerà i suoi co-etnici negli Stati baltici a rivoltarsi entro l’estate, mettendo così in moto una crisi più ampia con la NATO. L’insinuazione è che non abbiano rimostranze legittime e che lo farebbero solo su sollecitazione del Cremlino, ma la realtà è che in Estonia e Lettonia sono considerati cittadini di seconda classe, il che li autorizza a protestare pacificamente in qualsiasi momento a favore di maggiori diritti.

La Lativa potrebbe essere sul punto di iniziare a muoversi, vista l’imminente deportazione di quasi 1.000 cittadini russi che non hanno soddisfatto i severi standard di conoscenza della lingua previsti lo scorso anno per il rinnovo dei documenti di residenza. L’emittente pubblica estone ha riferito lo scorso settembre che i cittadini russi sono 25.000, quindi non sarebbe una questione di poco conto espellerne così tanti; per questo motivo il Presidente Putin ha appena dichiarato che si tratta di una questione “molto seria e che riguarda direttamente la sicurezza del nostro Paese”.

Non si può nemmeno escludere che quest’ultima mossa preceda la deportazione della minoranza russa “non cittadina” della Lettonia, che è essenzialmente apolide poiché non ha mai ricevuto la cittadinanza della sua patria storica né quella del suo luogo di nascita, non avendo soddisfatto i severi requisiti linguistici di quest’ultimo. Sono circa un terzo della minoranza russa della Lettonia, che a sua volta rappresenta circa un quarto della popolazione, il che equivale a circa 130.000 persone che si aggiungono alle 25.000 già citate.

Oltre l’8% dell’attuale popolazione lettone potrebbe quindi essere candidata all’espulsione nel caso in cui il Paese estendesse i suoi rigidi standard di conoscenza della lingua ai “non cittadini” legalmente designati. Le critiche da parte dei paesi membri dell’UE per motivi di diritti umani potrebbero essere contrastate con la paura delle implicazioni per la sicurezza di una loro permanenza in Lettonia, secondo le previsioni del Ministero della Difesa tedesco, citate dalla Bild nel suo scandaloso reportage.

A coloro che ancora rimangono scettici sulla legittimità di questa mossa speculativa si potrebbe poi dire che è comunque “molto più umana” della violenta pulizia etnica di Israele dei palestinesi di Gaza e che la Russia potrebbe facilmente accettare i suoi co-etnici in qualsiasi momento, proprio come Egitto e Giordania potrebbero facilmente accettare i loro. Questa tattica manipolatoria di gestione della percezione omette il fatto che sia i russi del Baltico che i palestinesi di Gaza sono nati lì e che costringerli a trasferirsi è una vera e propria pulizia etnica.

Tornando all’ultima mossa che il Presidente Putin ha definito “molto grave e che riguarda direttamente la sicurezza del nostro Paese”, non si può dare per scontato che i circa 130.000 russi “non cittadini” della Lettonia si mobiliteranno politicamente, anche se è possibile che interpretino questa mossa come un segnale che sono i prossimi. Questo potrebbe accadere indipendentemente da qualsiasi incoraggiamento da parte del Cremlino, che preferirebbe che vivessero dove sono nati, a meno che non scelgano di tornare volontariamente nella loro patria storica.

Tuttavia, qualsiasi mobilitazione politica indipendente da parte di questa comunità di seconda classe è già stata presentata come “gestita dal Cremlino” e potrebbe essere inserita nel contesto delle previsioni di scenario del Ministero della Difesa tedesco, al fine di incutere il massimo timore sulle implicazioni. Questo potrebbe a sua volta servire come finto pretesto di sicurezza per promulgare una legislazione segretamente pianificata per la loro deportazione e per accelerare i piani per l’attuazione dello “Schengen militare”.

L’Estonia potrebbe coordinare qualsiasi mossa di questo tipo con la Lettonia a causa di quelle che potrebbero essere le preoccupazioni legate alla sicurezza della propria minoranza russa, che gode di diritti relativamente migliori rispetto alla nazione vicina e la maggior parte della quale è riconosciuta come cittadino estone. Se ciò dovesse accadere, la Finlandia potrebbe essere coinvolta in questa crisi che sta emergendo rapidamente a causa dei suoi legami di parentela con l’Estonia e della sua nuova adesione alla NATO, che ha più che raddoppiato i confini del blocco con la Russia.

A fine novembre si è detto che “la Finlandia è decisa a posizionarsi come Stato NATO di prima linea contro la Russia” e il mese scorso si è osservato che “la CNN sta mentendo su chi è responsabile dell’apertura del fronte artico della nuova guerra fredda”, il che ha preconizzato narrativamente gli occidentali. Per solidarietà con l’Estonia, la Finlandia potrebbe richiedere un numero senza precedenti di truppe ed equipaggiamenti della NATO, facilitati dalla possibile attuazione dello “Schengen militare”.

Questo esercizio di riflessione non deve essere interpretato come un suggerimento che una guerra tra la NATO e la Russia nei Baltici (e possibilmente nell’Artico attraverso il nuovo membro Finlandia) sia inevitabile, ma solo che potrebbe verificarsi presto una reazione a catena in cui gli eventi assomigliano in modo inquietante allo scenario previsto dalla Germania. Invece di essere colpa della Russia, tuttavia, la colpa sarebbe dell’Occidente stesso, che vorrebbe che tutto questo si svolgesse per ripulire etnicamente i russi dai Baltici, militarizzare l’Artico e far nascere la “Schengen militare”.

Le sperate “garanzie di sicurezza” dell’Ucraina non sono tutte quelle che erano state propagandate

ANDREW KORYBKO
17 GEN 2024

Lungi dall’equivalere a un’adesione de facto alla NATO, con ciò che l’articolo 5 viene popolarmente ma inesattamente immaginato dal pubblico, sono solo formalizzazioni dello status quo per ottimizzare il modo in cui vengono condotte le guerre per procura dell’Occidente.

Il nuovo “Accordo di cooperazione per la sicurezza tra Regno Unito e Ucraina” viene presentato come il primo patto ufficiale sulle cosiddette “garanzie di sicurezza” per l’Ucraina, in conformità con una delle richieste avanzate nella “formula di pace” in 10 punti di Zelensky. La realtà, tuttavia, è completamente diversa, se solo si legge il documento stesso sul sito web ufficiale del settore pubblico del Regno Unito, qui. Così facendo, diventa chiaro che le sperate “garanzie di sicurezza” dell’Ucraina non sono tutte quelle che sono state pubblicizzate.

Se è vero che l’accordo copre un’ampia gamma di ambiti legati alla sicurezza, non comporta alcun obbligo per il Regno Unito di inviare truppe in Ucraina nel caso in cui questa venga nuovamente attaccata per qualsiasi motivo, a differenza di quanto l’opinione pubblica immaginava che le “garanzie di sicurezza” avrebbero comportato. La parte VIII, articolo 3, lo spiega abbastanza chiaramente e questa parte del testo sarà condivisa integralmente qui di seguito prima di essere analizzata nel contesto più ampio della ricerca di tali “garanzie” da parte dell’Ucraina:

“Il Regno Unito si impegna a fornire all’Ucraina, in tali circostanze e agendo in conformità con i suoi requisiti legali e costituzionali, assistenza rapida e sostenuta in materia di sicurezza, equipaggiamento militare moderno in tutti i settori, se necessario, e assistenza economica; a imporre alla Russia costi economici e di altro tipo; a consultarsi con l’Ucraina sulle sue esigenze nell’esercizio del diritto all’autodifesa sancito dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite”.

Tutto questo sta già accadendo, quindi le “garanzie di sicurezza” appena ottenute dall’Ucraina equivalgono semplicemente a formalizzare lo status quo, esattamente come ci si aspetta che facciano anche quelle previste dalla Francia con quel Paese, e lo stesso vale per chiunque altro segua l’esempio di Londra. Con ogni probabilità, gli oltre 50 Paesi che stanno fornendo un certo grado di sostegno all’Ucraina potrebbero raggiungere i propri patti per formalizzare le spedizioni di armi, gli aiuti economici, le sanzioni e il coordinamento diplomatico in caso di un altro conflitto.

Sebbene tale cooperazione sia davvero unica in termini di scala e portata, non è stata così ad hoc come il pubblico potrebbe pensare, come dimostra la rapidità con cui Stati Uniti, Regno Unito, Polonia e Stati baltici sono entrati in azione per aiutare l’Ucraina con questi mezzi poco dopo l’inizio dell’operazione speciale della Russia. Questi piani di guerra per procura sono sempre stati presi in considerazione per tali contingenze, ma alcuni membri della NATO come la Germania e partner stretti come la Corea del Sud erano inizialmente riluttanti a metterli in atto per motivi personali.

Con il tempo, questa cooperazione è diventata la norma all’interno del miliardo d’oro dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti e la sua formalizzazione garantirà un coordinamento più stretto per le future guerre per procura contro altri Stati del Sud globale. Questa osservazione significa che la stipula di ulteriori “garanzie di sicurezza” con l’Ucraina non è insignificante, ma è comunque importante ribadire che ciò non obbliga gli altri a inviare truppe in Ucraina. In sostanza, questi patti sono molto al di sotto delle aspettative dell’Ucraina, come spiegano le tre analisi seguenti:

* 13 luglio 2023: “Korybko a Timofei Bordachev: hai ragione sull’allargamento della NATO come minaccia per gli Stati Uniti”.

* 23 novembre 2023: “Perché le garanzie di sicurezza dell’UE all’Ucraina non includono la difesa reciproca?”.

* 7 dicembre 2023: “Il membro della Rada Goncharenko ha ragione: ‘Non ci sarà la NATO’ per l’Ucraina”.

Invece di garanzie di difesa reciproca simili all’articolo 5, che popolarmente ma in modo impreciso si immagina obblighino gli altri a inviare truppe ai loro alleati che si trovino sotto attacco, indipendentemente dal contesto, tutto ciò che viene promesso all’Ucraina è più dello stesso, il che non è un male ma nemmeno un bene. Dopotutto, uno dei motivi per cui il conflitto ucraino ha iniziato a esaurirsi alla fine dello scorso anno è che l’Occidente non è riuscito a competere con la Russia nella “corsa alla logistica”/”guerra di logoramento”, quindi le forniture stanno diminuendo.

Tenendo conto di ciò, le “garanzie di sicurezza” che potrebbero essere raggiunte nel corso del prossimo anno serviranno solo a rassicurare l’Ucraina del sostegno del “Gruppo Ramstein” nel caso di una continuazione del conflitto in futuro, anche se Kiev lo provocherà, proprio come è stata responsabile di aver provocato l’operazione speciale della Russia. L’Occidente semplicemente non ha la capacità militare in eccesso per mantenere il ritmo, la scala e la portata dei suoi aiuti armati all’ex Repubblica Sovietica sulla falsariga di quelli forniti in precedenza.

È quindi necessario un po’ di tempo per riarmarsi in vista di questo scenario, che probabilmente sarebbe la provocazione da parte di Kiev del suddetto conflitto di continuazione per volere dei suoi patroni occidentali come in passato, e questo potrebbe accadere verso la fine del decennio. Il primo ministro estone Kallas ha recentemente affermato che l’Occidente ha solo cinque anni per prepararsi alla guerra con la Russia, ma dato il contesto spiegato, probabilmente intende dire che il riarmo occidentale dovrebbe essere completato entro quella data per riaccendere il conflitto entro il 2030.

Da qui ad allora, ricordando l’incapacità dell’Occidente di mantenere gli aiuti armati all’Ucraina, è possibile che si raggiunga una sorta di accordo per congelare il conflitto. La Russia sarà d’accordo solo se ciò comporterà la smilitarizzazione, la denazificazione e il ripristino della neutralità costituzionale dell’Ucraina, cosa che l’Occidente è stato finora riluttante a fare. Qui sta il dilemma: non possono continuare a combattere questa guerra per procura ancora a lungo, ma non vogliono nemmeno soddisfare le richieste della Russia.

In assenza di una svolta diplomatica che soddisfi le richieste di “garanzia di sicurezza” della Russia, come spiegato, l’attuale conflitto continuerà e potrebbe portare a ulteriori guadagni da parte di Mosca, che potrebbero a loro volta indurre l’Ucraina alla capitolazione, a un intervento occidentale decisivo a suo sostegno e/o a un compromesso. Qualunque cosa accada, la dinamica attuale è che gli aiuti occidentali stanno diminuendo senza che i colloqui di pace siano in vista, ma l’Occidente si sta già preparando per una continuazione del conflitto entro il 2030.

Le “garanzie di sicurezza” occidentali per l’Ucraina, la prima delle quali con il Regno Unito omette vistosamente qualsiasi obbligo di invio di truppe a suo sostegno, sono un passo in direzione di un’altra guerra per procura con la Russia in Ucraina, una volta che quella in corso sarà terminata, quando ciò avverrà. Lungi dall’equivalere a un’adesione de facto alla NATO, con ciò che l’articolo 5 viene popolarmente ma inesattamente immaginato dal pubblico, sono solo formalizzazioni dello status quo per ottimizzare il modo in cui vengono condotte le guerre per procura occidentali.

I piani di guerra tedeschi contro la Russia, trapelati, mirano a far avanzare la proposta di “Schengen militare”

ANDREW KORYBKO
17 GEN 2024

Mentre Mosca si oppone allo “Schengen militare” per la facilità con cui faciliterà l’aggressione della NATO contro la Bielorussia, Kaliningrad e/o la Russia “continentale” e considera ridicola la fuga di notizie della Bild, il Cremlino non è preoccupato dal fatto che la Germania reimposti la sua egemonia sulla Polonia attraverso questi mezzi.

La Bild ha citato documenti classificati per riferire domenica che la Germania si sta preparando alla guerra con la Russia in base a uno scenario dettagliato, mese per mese, elaborato dal Ministero della Difesa, che inizia nel febbraio 2024 e si estende fino al maggio 2025. Secondo questi documenti, la Russia potrebbe destabilizzare gli Stati baltici e minacciare il Corridoio di Suwalki dopo l’offensiva contro l’Ucraina, provocando così una grave crisi di sicurezza. La Russia ha respinto il documento, mentre la Germania ha affermato che si tratta solo di uno scenario di addestramento.

La tempistica di questa fuga di notizie arriva poco meno di due mesi dopo che il capo della logistica tedesca della NATO, il tenente generale Alexander Sollfrank, ha proposto la creazione di una “Schengen militare” per ottimizzare il movimento di tali attrezzature attraverso l’UE. Poco dopo, a metà dicembre, la Germania ha firmato un accordo a lungo atteso per basare una brigata di carri armati in Lituania, che è stato analizzato qui come il primo passo verso i piani di cui sopra, coinvolgendo la Polonia di Donald Tusk, sostenuta dalla Germania, in questo schema.

“La Polonia è nel pieno della sua peggiore crisi politica dagli anni ’80” a causa del suo colpo di stato liberal-globalista contro l’opposizione conservatrice-nazionalista, e “l’appello di Tusk ai patrioti affinché sostengano l’Ucraina è una distrazione”, che serve anche a far avanzare la proposta di “Schengen militare”. Il fatto di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli affari interni e dal conflitto in questa nazione vicina conferisce al suggerimento di Sollfrank un senso di urgenza maggiore.

Lo stesso giorno in cui la Bild ha riportato la previsione dello scenario classificato, il viceministro degli Esteri polacco Andrzej Szejn ha dichiarato a Rzeczpospolita che “quando la guerra si svolge al di là del nostro confine orientale, qualsiasi aiuto e cooperazione da parte dei nostri alleati è benvenuta. Quindi se i tedeschi vogliono rafforzare il fianco orientale della NATO in Polonia come hanno fatto in Lituania, herzlich willkommen!”. RT ha fatto notare che questo sarebbe il primo dispiegamento militare tedesco in Polonia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

L’analisi collegata a due paragrafi precedenti avvertiva che lo “Schengen militare” avrebbe potuto portare Tusk ad affidarsi ai tedeschi per aiutare ad epurare i membri “politicamente inaffidabili” della polizia locale, della comunità di intelligence e/o delle forze armate se si fossero uniti al nuovo movimento Solidarność dell’opposizione. Il pretesto per richiedere un intervento tedesco potrebbe essere che la Russia sta manipolando l’opposizione polacca, proprio come il Ministero della Difesa tedesco ipotizza che farà presto nei Paesi baltici, secondo la fuga di notizie della Bild.

In realtà, “il ritorno di Tusk al potere in Polonia potrebbe essere una buona notizia per la Russia se fa gli ordini della Germania”, nel caso in cui Berlino tirasse i fili come durante la sua prima premiership per assicurarsi il sostegno di Varsavia a un cessate il fuoco in Ucraina e la revoca di alcune sanzioni anti-russe come ricompensa. Con le truppe tedesche lungo la frontiera con la Russia al momento dell’attuazione dello “Schengen militare”, Tusk potrebbe poi ritirare i piani di rafforzamento militare del suo predecessore e lasciare che questi due paesi cogestiscano gli affari europei.

Per la Russia sarebbe molto meglio, in termini di grande strategia, che se l’opposizione conservatrice-nazionalista tornasse al potere e raddoppiasse la sua politica di trasformare la Polonia in un cuneo geopolitico tra la Russia e la Germania, sostenuto dagli Stati Uniti. Allo stesso tempo, però, c’è anche il rischio che la riaffermazione dell’egemonia tedesca sulla Polonia – accelerata dalla “Schengen militare” – possa portare la Germania a sfruttare la Polonia per minacciare la Russia per procura in Bielorussia e/o a Kaliningrad.

Sebbene non sia ancora chiaro quale direzione prenderanno le relazioni tra Germania e Russia, dopo la fuga di notizie della Bild e l’annuncio di Szejn nello stesso giorno non dovrebbero esserci dubbi: lo “Schengen militare” è probabilmente un fatto compiuto, ma è prerogativa di Berlino usarlo per esacerbare o migliorare i legami con la Russia. In ogni caso, la Russia probabilmente preferisce un Tusk di stampo tedesco in Polonia rispetto a un conservatore-nazionalista sostenuto dagli americani, poiché ha una storia di collaborazione con Berlino molto migliore di quella con Washington.

Per questo motivo, mentre Mosca si oppone allo “Schengen militare” per la facilità con cui faciliterà l’aggressione della NATO contro la Bielorussia, Kaliningrad e/o la Russia “continentale” e considera ridicola la fuga di notizie della Bild, il Cremlino non è preoccupato dal fatto che la Germania reimposti la sua egemonia sulla Polonia attraverso questi mezzi. C’è ora la possibilità che la Germania convinca la Polonia a sostenere un riavvicinamento alla Russia, che sarebbe del tutto impossibile se l’opposizione conservatrice-nazionalista russofoba tornasse al potere.

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