Le probabilità (scarse) di affermazione di un Fronte Nazionale in Italia, di Massimo Morigi… prosecuzione del dibattito

Nell’ottima – e per molti versi condivisibile – analisi dell’amico Roberto Buffagni ne ” Le probabilità (scarse) di affermazione di un fronte nazionale in Italia” si rileva un soggetto che brilla per assenza, il movimento cinque stelle. Oltre che per le rilevate ragioni da Buffagni che ostacolano in Italia l’affermazione di qualcosa di simile a un fronte nazionale modello francese (e anche al di là della sacrosanta necessità di disintegrare la sinistra italiana), è da rilevare che, allo stato attuale, il principale ostacolo in Italia per innestare un reale ed efficace movimento sovranista è il movimento cinque stelle che ha fatto dell’assenza assoluta di un qualsiasi programma con un minimo di intelliggibilità la sua formula vincente (non dell’ ambiguità e/o della scarsa credibilità: questa è roba da vecchi arnesi della politica: onestà, onestà è il suo grido di battaglia. Ergo si è in presenza – come fra l’altro è stato ampiamente dimostrato – di un movimento che può assumere tutte e nessuna posizione politica e che proprio per questa sua aurea caratteristica, oltre a far man bassa di voti fra le fasce di elettori la cui educazione è solo quella di tipo informatico, è lo strumento ideale per eterodirezioni di ogni tipo e provenienza). In presenza di questa tragica immaturità dello scenario politico italiano, temo fortemente che i rimedi proposti dall’amico Buffagni ( legarsi a movimenti antisinistra e all’interno di questi condurre una battaglia culturale oltre che politica) sconti con eccessivo ottimismo questa ulteriore degenerazione politico-culturale rappresentata dal movimento cinque stelle. Giudico pertanto unica soluzione razionalmente possibile non tanto associarsi a stanchi movimenti e partiti che, sfibrati eredi della destra della prima repubblica – o eredi delle disillusioni di questa – dell’ambiguità e del gabbare il povero elettore han fatto bandiera (mi vien da ridere pensare che costoro non solo dovrebbero combattere con efficacia la sinistra ma dovrebbero anche contrapporsi al vivacissimo e – letale per le sorti d’Italia – movimento cinque stelle) ma al contrario, impegnarsi per la costruzione ab imis di un movimento politico-culturale che sulla scorta, fra l’altro, dell’inquadramento teorico (ma anche pratico, molto pratico, anche se non di facile implemetazione: a questo proposito si rimanda al Vom Kriege di Von Clausewitz e alle sue considerazioni sulla semplicità teorica e complessità applicativa dell’ arte della guerra …) di Gianfranco La Grassa possa veramente generare quel previano riorientamento gestaltico che investa in una indissolubile e al tempo stesso dinamica unità dialettica il momento culturale e quello politico. Oltre a Gianfranco La Grassa e a Costanzo Preve, riaffiorano così certe presenze che ci sono state sempre care: un certo Machiavelli, un certo Gramsci, un certo principe rinascimentale, un certo principe moderno. Se ne può parlare , se ne deve parlare (e, ovviamente, si deve anche agire) …

UNA CHIOSA di MASSIMO MORIGI a “la posta in palio delle elezioni americane”

Una chiosa di Massimo Morigi a “la posta in palio delle elezioni americane” che va al di là delle considerazioni sull’evento oggetto dell’articolo spingendosi a riflessioni sul piano teorico e sui fondamenti impliciti di questa analisi. Buona lettura
Ne “La posta in palio delle elezioni americane” Giuseppe Germinario, oltre a fornirci una completa ed esatta radiografia delle forze in campo nelle elezioni presidenziali USA del 2016, una disamina che per nitore e completezza ridicolizza tutti gli sproloqui in proposito dei vari turiferari di destra e sinistra del nostro paese il cui unico scopo è vendere ai consumatori della politica (i.e. il popolo) le magliette della propria squadra politica, è un anche un esempio di scuola di una metodo che in tempi – parafrasiamo Lenin – quando si era teoricamente più arretrati ma politicamente ben più avanzati, si sarebbe definito dialettico, metodo dialettico perché il nucleo della dialettica, in verità assai semplice da comprendere da qualsiasi persona di buon senso, è la consapevolezza che nelle società (così come nella natura, ma per il momento tralasciamo questo legame, la cui discussione va ben al di là dello scopo di queste brevi note dedicate a commentare l’articolo di Germinario) non esistono da una parte i valori e dall’altra delle forze, la cultura, l’economia, la politica, che rispondono ad una diversa legalità ma che, al contrario, fra questi vari momenti dell’espressività umana convivono, si intrecciano e si fondono tutti quegli aspetti che una mente ingenua (o più spesso, interessata) vuole tenere distinti. Prima ancora che di Marx, fu questa la fondamentale acquisizione di Machiavelli e come non machiavelliana – non nel senso deteriore del “fine che giustifica i mezzi”, concetto mai del resto espresso dal Segretario fiorentino, ma nel senso che la politica ha una morale che la morale comune, proprio perché intrinsecamente non dialettica, non può comprendere – potrebbe essere giudicata l’affermazione dove, per esempio, in relazione alle capacità di mobilitazione del Partito democratico della parte meno avvertita e politicamente consapevole della popolazione statunitense, Germinario scrive che “Il concetto di diritto individuale inteso come soddisfazione di bisogni personali e di gruppi particolaristici che sovrasta e prescinde dai contesti sociali e politici, proprio del radicalismo democratico, assurge al rango di ideologia dominante e motivante. La stessa ambizione al benessere tende ad essere ridotta al diritto a un reddito e a un sostentamento, ad una mera redistribuzione di risorse”?, o dove quel moderno imperativo categorico delle cosiddette democrazie rappresentative che va sotto il nome di ‘diritti umani’ viene messo in discussione e ricondotto alla sua valenza di instrumentum regni di matrice geopolitica quando Germinario giudica che “La stessa pratica del multilateralismo, d’altro canto, comporta una crescente dispersione delle energie politiche ed una progressiva caduta di credibilità legata alla posizione di arbitro-giocatore nei conflitti e alla mutevolezza opportunistica delle alleanze più o meno dichiarate. Una dinamica che sta erodendo inesorabilmente l’efficacia del richiamo al rispetto dei cosiddetti diritti umani”? E se “La posta in palio delle elezioni americane” è quindi un’ ottima dimostrazione di come la dialettica della lotta fra gruppi dominanti sia produttiva – oltre che, ça va sans dire, di potere – di valori, in quanto cimento dialettico è anche un importante ed affilato strumento per una rinnovata prassi politica intesa a spazzare via dalla faccia della terra tutti quegli idola fori che l’imparaticcia cultura delle cosiddette democrazie avanzate occidentali ha iniettato nelle teste dei poveri consumatori passivi della politica. L’ultimo frutto di questa pseudocultura, accanto al ridicolo concetto appartenente alla demonologia polemologica e neo-colonialista di ‘terrorista’, è l’abuso del termine ‘populismo’, che non ha altra funzione di sostituire, come strumento di demonizzazione dell’avversario, l’ormai consunto ‘fascismo’ e suoi derivati, area semantica quest’ultima ormai priva di ogni senso politico, assiologico e valoriale sia per la distanza temporale che ci separa dall’esperienza fascista e nazista (se prima le masse, almeno intuitivamente, sapevano per esperienza diretta di cosa si trattava, ora hanno perso anche questa consapevolezza) sia perché dal punto di vista scientifico assolutamente inapplicabile per definire i fenomeni di resistenza contro la retorica totale e totalizzante dell’odierna ideologia democratica. Come giustamente individua Germinario, il vero significato dell’opzione “populista” di Trump è “Il timore […] che il nascere di una alternativa politica fondata sul riconoscimento delle forze in campo internazionali e sul recupero di una economia più equilibrata in una situazione interna così fragile porti alla sconfessione di una intera classe dirigente e al crollo del sistema di relazioni illustrato”. E prosegue così concludendo il ragionamento: “Non ha senso per noi schierarci nella solita inutile tifoseria senza alcuna influenza; piuttosto dovremo valutare le opportunità che potranno sorgere da questa situazione se non addirittura da una sia pur remota eventuale vittoria di Trump. Ma sono appunto opportunità che si vuole e si deve voler cogliere con la costruzione di una nuova classe dirigente. In mancanza saremo arlecchino con due padroni, ma senza la sua furbizia”. Dal punto di vista di una corretta ed efficace prassi politica che non può non sostanziarsi in una integrale visione dialettica (si ripete, ad nauseam, il dialettico concetto ma di questi tempi …) come non ha senso schierarsi per quanto riguarda le elezioni americane con il “populista” Trump (consideriamo farlo per il suo avversario un’opzione, si passi il termine, addirittura contronatura), così a casa nostra non ha alcun senso schierarsi, in occasione del referendum costituzionale, per le vecchie oligarchie o per il nuovo “populismo” al governo (populismo, fra l’altro, che suona anche assai falso visto che si sta attualmente sviluppando in occasione delle mancate performance, soprattutto dal punto di vista dell’ecomomia, della politica dell’attuale mai eletto premier). Bisogna, piuttosto, valutando “le opportunità che potranno sorgere da questa situazione”, internazionale – dice Germinario – ed interna – dico io ma non credo proprio di tradire il pensiero di Germinario – schierarsi per la “costruzione di una nuova classe dirigente. In mancanza saremo arlecchino con due padroni, ma senza la sua furbizia”. Gramsci nei Quaderni del Carcere ci dice del machiavellismo degli Stenterelli (“Stenterello è molto più furbo di Machiavelli […]”: Quaderno 9 (XIV) § 25 ). Se ci sapremo sbarazzare di questo deteriore machiavellismo, allora si potrà avviare una prassi politica all’altezza di coloro come Machiavelli, Mazzini, Marx, Lenin e Gramsci intesero la politica come una cosa terribilmente seria (ed anche terribilmente bella). Se invece ci atterremo alla prassi di Stenterello, allora teniamoci pure la Clinton, il “populista” Trump e, a casa nostra, i vecchi oligarchi e quelli nuovi figli dei vecchi (non i vecchi o i nuovi, troppo bello: i vecchi assieme ai nuovi). L’articolo di Germinario, apparentemente solo rivolto alle elezioni USA, può così essere visto – ad una più attenta ma non certo esegeticamente particolarmente complessa lettura – come un invito ed una precisa indicazione per la vita interna del nostro paese, giusto l’oraziano e marxiano ammonimento “de te fabula narratur”.

Massimo Morigi – 2 novembre 2016

Il paradigma machiavelliano. Per la definizione di una teoria politica non ideologica, di Gennaro Scala

Fu la lettura del saggio di Marco Geuna Machiavelli e il ruolo dei conflitti nella vita politica (2005), circa 4 o 5 anni fa, a mettermi sulla traccia di un percorso di ricerca che successivamente mi ha associato alla scoperta del «continente teorico» (per usare le parole di Luca Baccelli) del «repubblicanesimo», un continente ormai esplorato teoricamente da vari decenni, ma non ancora abitato politicamente. La fertilità di questo continente apparirà in tutta la sua potenzialità soltanto se pensiamo radicalmente, se «andiamo alla radice dei problemi».

Ritengo che il repubblicanesimo possa diventare, da corrente teorica confinata all’ambito accademico, un utile strumento per iniziare a definire una nuova teoria politica per gli emergenti movimenti, più emergenti che compiutamente formati, cosiddetti «populisti» (un epiteto con cui si vorrebbe stigmatizzare un’istanza sostanzialmente democratica). È senso comune ormai ritenere che il discredito raggiunto dai partiti politici sorti nell’ambito dello stato moderno sia radicale e definitivo. I partiti politici esistenti non sono in grado, e non ne hanno nessuna intenzione, di affrontare i problemi che assillano la maggior parte delle società odierne. Vedremo in che senso il paradigma machiavelliano può essere utile per affrontare un radicale ripensamento della politica necessario per far fronte alla crisi radicale a cui ci troviamo di fronte. E questo mio scritto vuole essere un modesto quanto iniziale contributo in tal senso.

L’epoca delle ideologie, delle visioni del mondo complessive, una patologia europea del secolo scorso, è tramontata. Machiavelli a distanza di cinque secoli può essere letto con profitto, ma il suo repubblicanesimo non dovrebbe essere considerato un’ideologia, ma un paradigma che configura una teoria politica diversa rispetto alle altre teorie politiche. Tanto più che i repubblicani, sul piano puramente nominale, in Italia ci sono già già stati (un ormai scomparso partito liberale non di massa della «I repubblica» che aveva le sue radici nella storia dell’unità d’Italia), e attualmente sono uno dei due maggiori partiti degli Stati Uniti. Anche per evitare questi equivoci preferisco parlare di paradigma machiavelliano.

Com’è noto, Machiavelli è l’autore più politico dell’intera storia del pensiero occidentale: non confonde la politica con la religione, ma nemmeno con la filosofia o con l’etica. Non per questo è immorale, privo di fini etici secondo quella che è stata una diffamazione secolare. Esiste una specifica moralità della politica che è diversa dalla morale dei rapporti intersoggettivi. Il fine della politica è di mantenere la «repubblica bene ordinata», e a questo scopo è lecito usare la violenza, se necessario, perché il male che ne risulterebbe in caso di disgregazione della collettività, cioè disordine e maggiore violenza, è minore rispetto alle violenze a cui si può essere costretti per mantenere un determinato assetto politico. Come ha chiarito definitivamente Isaiah Berlin, Machiavelli non «separa la morale dalla politica», nel senso che la politica sarebbe priva di fini etici, piuttosto ha una morale diversa rispetto a quella cristiana che ha informato l’intero pensiero moderno, secondo la quale l’individuo ha la preminenza, ma è invece quella antica secondo la quale l’insieme è prioritario rispetto al singolo, la salvezza della città è più importante della salvezza dell’anima. Machiavelli pur non mancando di fini morali (la «repubblica bene ordinata» in cui gli uomini possano vivere liberi) non confonde i piani, voler subordinare l’etica, la religione, la cultura, la filosofia, l’arte ai fini politici è l’essenza della ideologia, che finisce per cancellare qualsiasi piano culturale comune al di là dei conflitti che necessariamente attraversano le relazioni umane. Il concetto marxiano di ideologia partiva da un dato di fatto: l’arte, il diritto, la filosofia, la morale dominante, la religione, persino la ricerca scientifica riflettono i conflitti del loro tempo, ma questo non vuol dire che sono pura espressione di «classe», che i romanzi di Balzac (che Marx tanto apprezzava), espressione sicuramente di un certo mondo borghese, non possano interessare i «proletari».

Il fine della politica è un fine necessariamente particolare che riguarda i conflitti tra gli esseri umani, quindi non può innalzarsi a visione generale. Chi è alla ricerca di una visione del mondo non deve rivolgersi alla politica, ma all’arte, alla filosofia, alla religione, all’insieme del cultura del proprio tempo e di quello passato. Ma proprio perché l’individualismo su cui si regge la società moderna distruggeva ogni presupposto di una cultura comune ci si rivolse alle ideologie nella ricerca di una patria spirituale, ma il rimedio fu peggiore del male.

Se oggi continuiamo a leggere Marx, Hegel, Nietzsche, Heidegger è perché nonostante una loro precisa collocazione nei conflitti del loro tempo, e nonostante il loro essere immersi nell’ideologismo del loro tempo, le loro riflessioni superavano questo fatto contingente per toccare questioni che riguardano tutti. Uno studioso non è tale se non tocca questo livello comune, altrimenti è un puro e semplice propagandista destinato ad essere dimenticato. Nel suo tener fermo alla questione politica Machiavelli è un pensatore anti-ideologico, un salutare correttivo rispetto all’ideologismo del secolo scorso. Se si trasforma la lotta politica in una lotta ideologica, simile alle lotte di religione, il conflitto politico mira necessariamente alla conversione o al non riconoscimento come interlocutore e tendenzialmente all’annientamento di chi non condivide la propria ideologia. Quando una società si divide in gruppi impegnati in una lotta ideologica questa è una società che è destinata al declino, e sottoposta all’influenza determinante di altre società che possono manipolare queste contrapposizioni.

Dopo il «crollo del muro» nessuno più crede ad una delle ideologie concorrenti del liberalismo, il comunismo, mentre per quanto riguarda quella particolare declinazione del nazionalismo che furono il fascismo e il nazismo, la questione fu chiusa con la II guerra mondiale. Oggi esiste una solo grande ideologia, il liberalismo, che non si presenta più come tale, ma come una sorta di senso comune che ogni gruppo politico che vuole avere un ruolo non può non professare. In tale «liberal consensus» che è sempre stato dominante negli Usa, che non hanno avuto movimento nazionalisti e socialisti paragonabili a quelli europei, mentre nelle nazioni europee si è venuto affermando dopo «il crollo del muro», e mentre già negli anni settanta già si iniziava a sperimentare il cosiddetto neo-liberismo in Cile, fece discutere la scoperta del «repubblicanesimo» da parte di John Greville Agard Pocock in The Machiavellian Moment portava alla luce un filone di pensiero «sommerso» che parte dal pensiero comunale repubblicano comunale italiano e che ebbe come massimo esponente Machiavelli, e passa per i pensatori inglesi della prima rivoluzione inglese (principalmente Harrington), fino ai rivoluzionari americani. Il «repubblicanesimo» metteva radicalmente in discussione il «liberal consensus», una storia del pensiero politico statunitense che vedeva «Locke e poco altro», ma non riguardava solo tale contesto, ma il modo in cui guardiamo all’insieme delle dottrine politiche moderne occidentali.

La rilettura della storia del pensiero politico «occidentale» nasceva da un disagio, se così vogliamo chiamarlo, nei confronti di tale paradigma liberale dominante e da un’insoddisfazione per la «democrazia liberale» (come recitava il titolo di un libro di Michael J. Sandel, Democracy and its discontents). In questo modo però si dava per buono il concetto che ciò che la «democrazia liberale» sia davvero tale. Il repubblicanesimo machiavelliano, tra le altre cose, è utile per evidenziare la moderna distorsione del concetto di democrazia, che secondo il significato etimologico significa pur sempre potere del popolo. Particolarmente ostico per la mentalità indivualistica moderna che si ritiene sommamente «libera e democratica» confrontarsi con l’ideale della democrazia antica basata sul cittadino-soldato. Scrive Pocock:

«È proprio l’Arte della guerra [di Machiavelli] a fornirci il quadro preciso delle caratteristiche morali ed economiche del cittadino-soldato. Costui, infatti, per nutrire il dovuto interesse per il pubblico bene, deve possedere una famiglia e avere un’occupazione che non sia quella delle armi . Il criterio qui applicato è identico a quello cui doveva corrispondere il cittadino di Aristotele, che deve, anche lui, avere una sua famiglia da reggere e guidare per non essere servo di alcuno e per poter e conseguire di persona e con le proprie forze il bene, imparando cosí ad avvertire il rapporto che il suo bene particolare ha con il bene generale della polis». 1

Grazie alla sottolineatura della continuità del pensiero repubblicano comunale con il pensiero classico greco, principalmente quello aristotelico, in un primo momento il repubblicanesimo è stato visto come una variante del comunitarismo. Ma se è vero che Machiavelli condivide l’ideale classico della democrazia antica è pur vero che aggiunge qualcosa in più rispetto al pensiero classico che costituisce il suo contributo specifico alla storia del pensiero politico.

Con la critica dell’eccessivo avvicinamento del repubblicanesimo al comunitarismo, che rischiava di far scolorire il profilo autonomo del primo, studiosi come Quentin Skinner si sono affermati nella discussione internazionale sul repubblicanesimo (discussione soprattutto di carattere accademico). Come scrive Geuna, «Skinner cerca di dare un profilo autonomo al repubblicanesimo, sottraendolo all’abbraccio di aristotelici vecchi e nuovi . A suo giudizio, il repubblicanesimo non è una forma di politica aristotelica … Per dimostrare questo, mette in luce come nel pensiero di Machiavelli, e dei repubblicani che a lui si rifanno, non ricorrano alcuni assunti tipicamente aristotelici: l’uomo, innanzitutto, non è presentato come un animal politicum et sociale, per usare l’espressione tomistica, ma come un essere esposto alla “corruzione”, un essere che tende a trascurare i suoi doveri verso la collettività»2.

Per separare il repubblicanesimo dall’ «aristotelismo» (comunitarismo) si è individuata una componente «romana» (Skinner ha adottato la definizione «repubblicanesimo romano» avanzata da Philip Pettit), ma è stata un’operazione teoricamente poco convincente. «L’enfasi sul fatto che la tradizione repubblicana sia una tradizione esclusivamente romana, per origini e caratteri di fondo, lascia più di un dubbio: quasi che l’esperienza politica e culturale di Roma sia avvenuta senza alcun legame con quella greca, quasi che Cicerone nel redigere le sue opere non abbia avuto dei precisi modelli, primo fra tutti Platone»3. Condivisibile è il proposito di differenziare il repubblicanesimo dal comunitarismo, si tratta in effetti di dottrine diverse, senza però creare una netta separazione (ignorando i legami che pur ci sono), operazione che consente a Skinner e Pettit di riavvicinarlo al liberalismo, annacquando il carattere di alternativa teorica del repubblicanesimo.

Per i greci e i romani la libertà individuale si identifica con quella collettiva: il singolo partecipando alla determinazione dei fini collettivi si considerava libero. Nel pensiero comunale e poi nel Rinascimento si fa strada una maggiore individualizzazione, tuttavia la libertà non è ancora vista come esclusivamente individuale, divergente dai fini collettivi, come sarà poi nel liberalismo. Se è vero che la libertà è un concetto fondamentale per il pensiero comunale e rinascimentale, e certo Machiavelli conosceva i versi di Dante «Libertà va cercando che è si cara», altrettanto vero è che la libertà di Machiavelli non è quella di Hobbes o di Locke, è una libertà che comprende anche la «libertà degli antichi», è, se vogliamo dirlo con il Faust di Goehte, il «vivere libero con un popolo libero». Che si tratti di libertà come «non interferenza» (liberalismo) o di libertà come «non dominio» (repubblicanesimo come inteso da Skinner e Pettit), il fine principale è sempre la libertà dell’individuo, mentre per Machiavelli, com’è noto, la salvezza della città è prioritaria rispetto alla salvezza dell’individuo. L’«urbanizzazione» (come l’ha definita Geuna) del repubblicanesimo operata da Skinner e Pettit a me pare piuttosto una compatibilizzazione con il paradigma liberale ancora dominante. Quindi, pur condividendo il proposito di differenziare il repubblicaneismo dal comunitarismo, non condivido questo avvicinamento opposto al liberalismo. Pocock resta molto più interessante nel mettere in luce tutti gli aspetti in cui il repubblicanesimo che nasce da Machiavelli cozza contro la mentalità individualista moderna.

Machiavelli è più vicino a noi rispetto ad Aristotele non solo in senso temporale, pur perseguendo un fine «comunitario» (Machiavelli si considerò sempre un patriota, disse che bisogna amare la propria patria anche quando da questa si un cattivo trattamento4), lo fa tenendo conto della divisione in classi, mentre invece il comunitarismo può significare imporre un «patriottismo», la ricerca di un’unità sociale, che alla fine non può che essere velleitaria oltre che autoritaria, in quanto prescinde dalla mancanza di volontà delle classi superiori di integrare le classi popolari nella società. Mentre si persegue deliberatamente la precarizzazione, demolendo le conquiste del movimento operaio del secolo scorso, al fine di una esclusione delle classi non dominanti, non si può pretendere che si sentano partecipi di una società che le esclude. Machiavelli è più vicino a noi perché prendeva atto del fatto che nella società esistono due «umori diversi», e l’arte della politica consisteva nel far in modo che la conflittualità che ne scaturiva fosse fonte di dinamismo e non di disgregazione. Per quanto riguarda un comunitarismo, anch’esso aristotelico, che tiene conto della divisione in classi, abbiamo un comunitarismo abbastanza unico nel panorama teorico internazionale come quello di Costanzo Preve, per il quale la comunità si può realizzare attraverso il comunismo di Marx, cioè attraverso l’abolizione delle classi, ma tale comunitarismo oggi, dopo la passata esperienza storica, si può conservare solo come utopia, o nei termini dell’ideale regolativo kantiano, come ebbe a riformulare l’ideale comunista Costanzo Preve negli ultimi anni della sua vita.

Per quale motivo il repubblicanesimo è entrato a far parte delle storia delle «correnti sommerse» (Skinner) del pensiero umano? Diamo anche in questo caso la parola a Geuna «Qual è il senso di queste argomentazioni di Skinner? A che cosa mira questo suo lavoro di scavo? Anche in questo caso, si possono individuare due ordini di ragioni: ragioni di tipo storico e ragioni di tipo teorico. Ragioni di tipo storico, innanzitutto. Skinner è alla ricerca di spiegazioni persuasive del tramonto, della decadenza della teoria neo-romana . E effettivamente convinto che le critiche mosse alla teoria neo-romana della libertà, sul lungo periodo, abbiano contato . Menziona, a dire il vero, anche altri motivi, che non attengono al piano delle argomentazioni politiche, motivi di tipo sociale . E cioè il tramonto dell’ideale del gentiluomo indipendente, che tra Sei e Settecento aveva incarnato le aspirazioni di libertà e indipendenza dei teorici neo-romani. Ma le sue ragioni sono, ancora una volta, soprattutto di ordine teorico. Skinner intende difendere la teoria neo-romana da queste critiche. E’ convinto che queste critiche, per quanto importanti ed influenti, non si misurino con il cuore dell’argomentazione dei teorici neo-romani: con il loro modo complesso di pensare la costrizione, che assegna un ruolo di rilievo alla dipendenza. Nell’esporre e discutere le tesi dei pensatori liberali, Skinner ha dunque l’occasione per ribadire la sostanziale fondatezza, coerenza, e persuasività della teoria neo-romana»5.
Ma il repubblicanesimo machiavelliano non venne dimenticato perché soccombette alle critiche degli avversari. Federico Chabod ci fornisce una convincente esposizione dei «limiti» dell’analisi politica di Machiavelli, soprattutto per quanto riguarda la critica del «mercenarismo», cioè al suo «fissarsi» soltanto sulle questione di ordine militare, senza tenere conto delle questioni di ordine «economico». «E non s’avvedeva che proprio in quei tempi il mercenarismo militare diventava una necessità assoluta per i monarchi, volti a creare faticosamente gli Stati nazionali; e non sapeva intendere come, volendo dar loro i mezzi per trionfare delle resistenze feudali, de’ particolarismi di regioni o città, e ad un tempo per consentire l’inizio di una vera, grande politica di espansione europea, fosse necessario porre sotto gli ordini del capo del governo centrale un esercito che soltanto da lui dipendesse, da lui e dal suo tesoro, ed acquistasse, nella lunga consuetudine di una vita guerresca, la disciplina e la tecnica di battaglia necessarie per una vittoria … è superfluo mettere quindi in rilievo quanto sia errata l’affermazione di Machiavelli, che i denari non sono il nerbo della guerra, l’esperienza di quegli anni stava dimostrando proprio il contrario»6. E ciò si aggiunga la diffidenza di Machiavelli per le armi da fuoco che a suo parere non potevano sostituire la virtù.

Dunque Machiavelli non seppe vedere che il futuro apparteneva allo stato nazionale basato sulla concentrazione del potere coercitivo, nella creazione degli eserciti professionali e nello sviluppo della potenza economica atta a sostenerli. Ma Machiavelli aveva in mente uno ordinamento diverso basato sulla virtù del cittadino-soldato. Più adatta fu la teoria hobbesiana quale espressione teorica della concentrazione del potere statuale, presupposto necessario per creare quelle condizioni adatte allo sviluppo del commercio e dell’industria. In verità, Machiavelli pur cogliendo gli inizi un rivolgimento storico epocale, (la civiltà europea moderna nella fase della sua formazione) non credeva molto a ciò che stava nascendo che vedeva segnato fin dalla nascita dalla corruzione7. L’incoraggiamento della ricerca della ricchezza personale (a cui Machiavelli era contrario8 ), l’auri sacra fames, è stato il principale stimolo che ha alimentato una delle rivoluzioni tecnologiche più impressionanti dell’intera storia dell’umanità, a cui la civiltà europea si è trovata alla testa, ma che riesce a realizzare mettendo insieme le scoperte di tutte le altre civiltà (carta, polvere da sparo, sistema numerico decimale, per dirne solo alcune), conferendole un enorme vantaggio sulle altre grandi civiltà. La civiltà europea ha potuto puntare tutto sulla tecnica trascurando la virtù. La superiorità tecnica ha permesso alle società europee di superare le contraddizioni interne attraverso l’espansione coloniale e imperialistica, ed è esattamente l’opposto di quello sviluppo basato sul territorialismo a cui pensava Machiavelli rifacendosi all’esperienza di Roma.

Non è affatto «apparente»9 l’anti-imperialismo di Machiavelli, a meno di non trasformare l’anti-imperialismo in uno strumento del «politicamente corretto» con cui si condanna l’imperialismo altrui, mentre si persegue il proprio sventolando la bandiera dei diritti umani e della democrazia. Non è l’espansionismo in quanto tale ad essere imperialistico, ma un determinato tipo di espansionismo. Tutti gli stati moderni sono stati creati dall’espansionismo di una parte sull’altra che acquisisce la funzione di gruppo dominante. Il risultato finale di un anti-imperialismo basato sul concetto morale di autonomia sarebbe che ognuno dovrebbe starsene per sé. Tuttavia ci sono aggregazioni umane che lasciano uno spazio per vivere secondo i propri intendimenti e svilupparsi anche a chi è subordinato e aggregazioni basate su un dominio che tende al completo assoggettamento e controllo. Roma seguì il primo modello di dominio10 Il fascismo e il nazismo che si richiamavano per motivi propagandistici all’Impero romano seguirono il secondo. Lo sciovinismo razziale è l’antitesi della concezione imperiale romana, esso è piuttosto un prodotto dell’imperialismo europeo. Il razzialismo, poi elevato a ideologia ufficiale dal nazismo, non a caso è nato in Inghilterra. L’imperialismo vero e proprio è l’espansionismo senza limiti e senza confini che non crea un ordine, basato sulla ricerca dell’accumulazione potenzialmente illimitata di ricchezza. L’imperialismo europeo ha assoggettato e stravolto l’intero globo, ha costretto a cambiamenti radicali le altre civiltà, imponendo dappertutto il suo modello. L’imperialismo statunitense attualmente, dopo il «crollo del muro», mira alla distruzione di qualsiasi forma statuale al fine di stabilire il suo dominio mondiale. L’imperialismo europeo non ha mai creato un sistema stabile, ma ha prodotto delle «egemonie» che sono durate l’espace d’un matin rispetto all’Impero romano. Il regime finora più lungo, quello dell’egemonia britannica non è durato neanche un secolo (dalla sconfitta di Napoleone alla I guerra mondiale quando essa è già seriamente minata). Il regime statunitense sembra sulla strada di battere ogni altro «impero» (le virgolette sono d’obbligo) della storia per brevità di durata.

Per quale motivo gli stati europei non sono riusciti a costituire un sistema unitario, cioè un «impero» (tra virgolette perché a mio parere sarebbe possibile un sistema unitario di stati senza un imperatore) non può essere discusso adeguatamente in questo saggio. Dobbiamo accontentarci di riprendere alcune valutazioni di Victoria Tin-Bor Hui11: «Gli stati europei non impiegarono gli stratagemmi machiavelliani o stile-Qin l’uno contro l’altro, neanche Napoleone che “lesse avidamente e ammirò grandemente” Il Principe». Le valutazioni sul mancato impero europeo si basano su di un principio comparativo con lo sviluppo della Cina imperiale che meriterebbe di essere approfondito: «Gli europeisti credono che tale processo di formazione degli stati sia unicamente europeo e moderno. Ma le stesse dinamiche sono nel sistema dello zhongguo o stati centrali nella Cina antica»12. Possiamo dire che la politica di Napoleone fu più militaristica che strategica, motivo per cui non seppe creare un sistema di alleanze europee, come fece Roma. Non fu soltanto la mancanza dell’impiego della forza o dell’inganno, ma la mancanza soprattutto della capacità strategica che mostrarono i romani. Questo parallelo tra l’Europa moderna e la Cina antica è molto suggestivo ma data la mia scarsa conoscenza della storia cinese altro non saprei dire, mi limito a riportare un’osservazione di una certa importanza «Sun Tzu and e Fei sono talvolta chiamati i Machiavelli cinesi. Ma si potrebbe anche chiamare Machiavelli il Sun Tzu europeo»13. Rilievo ineccepibile in quanto Sun Tsu visse un millennio prima di Machiavelli. Vediamo come Machiavelli sintetizza la condotta strategica dei Romani: «Perché come ei cominciorono a uscire con gli eserciti di Italia, e ridurre i regni in provincie, e farsi suggetti color o che per essere consueti a vivere sotto i re non si curavano di esser e suggetti, ed avendo governatori romani ed essendo stati vinti da eserciti con il titolo romano, non riconoscevano per superiore altro che Roma . Di modo che quegli compagni di Roma che erano in Italia, si trovarono in un tratto cinti da’ sudditi romani ed oppressi da una grossissima città come era Roma; e quando ei s’avviddono dello inganno sotto il quale erano vissuti, non furono a tempo a rimediarvi».

Fu questo il principale stratagemma con cui Roma costituì il suo impero. Il fatto che Roma lasciò una relativa autonomia ai popoli conquistati, anche dopo che fu compiuta la sua egemonia sul Mediterraneo, dimostra che non si trattò di un puro e semplice stratagemma, ma di un carattere costitutivo della politica dei romani.

Machiavelli è il pensatore dell’Europa intesa come sistema di stati, questo è il senso principale dell’avere come modello Roma. Se è vero che un sistema di stati si è sviluppato solo in Cina e in Europa, ha molto più senso paragonare l’Europa moderna alla Cina imperiale piuttosto che all’Impero romano che si sviluppò in modo simile a quell degli altri imperi da una città-stato. Machiavelli conosceva però solo lo sviluppo dell’Impero romano e attraverso questo termine di riferimento cerca di capire la dinamica del sistema di stati europeo agli albori sotto i suoi occhi. Questo sistema implica la presenza di più stati, il che può avere sviluppi positivi in quanto «il mondo è stato più virtuoso dove sono stati più Stati che abbiano favorita la virtù o per necessità o per altra umana passione»14. Tuttavia c’è qualcosa di diverso nello sviluppo di Roma, che determina qualcosa di irrisolto nel pensiero di Machiavelli: sa che per Roma la fine del suo doppio, Cartagine (una città che aveva un sistema sociale molto simile a quello di Roma), la fine della sua sorella antagonista fu la fine della virtù di Roma. Meglio sarebbe dire che Machiavelli è fautore di quel processo che poi portò alla costituzione dell’impero. Vorrebbe che gli stati europei si indirizzassero su un percorso simile a quello di Roma e se questo sfociò nell’Impero fu negativo, ma tutte le cose di questo mondo sono finite, nondimeno Roma visse libera per 500 anni.

Se è vero che «tutto torna ma diverso», e quindi l’Europa non avrebbe seguito di pari passo l’evoluzione della Repubblica Romana#, è pur vero che qualcosa è andato storto nella storia dell’Europa moderna. Con Napoleone l’Europa si avvicinava ad un’evoluzione paragonabile a quella di Roma, ma com’è noto fu sconfitto. Noi che siamo vissuti dopo possiamo vedere come la rovina degli stati europei consista nel fatto di non esser riusciti a costruire un’aggregazione «imperiale» (secondo i termini suoi propri che non potevano essere quelli dell’antica Roma) che trascendesse e risolvesse i conflitti interni. Dalla sconfitta di Napoleone inizia una fase di decadenza dell’Europa da cui nascono le contrapposizioni ideologiche nazionalistiche o di classe. Secondo Toynbee, la nascita di un «proletariato interno» è l’indice di una frattura interna nella società che segna la sua fase di decadenza. Le contrapposizioni ideologiche non sono dovute a motivi meramente spirituali ma sono la manifestazione superficiale di fratture profonde della società.

Che Machiavelli non sia solo un patriota che auspica la nascita dello stato nazionale italiano (cosa che certamente fu, basti pensare alla parte finale de Il principe), ma che la sua ottica sia europea, lo si evince dall’analisi delle vicende dello stato francese. «Per combattere l’Inghilterra, Carlo VII costituì il primo esercito permanente in Europa, le Compagnie d’Ordinanza. Egli impose anche un drastico incremento delle tasse dirette e indirette. Sebbene rudimentali, queste furono misure auto-rafforzanti perché richiedevano alla Corte francese il miglioramento della propria capacità estrattiva [in senso finanziario]. Se la Francia avesse sviluppato queste pratiche, la storia europea sarebbe stata più simile a quella cinese … è degno di nota che Machiavelli avesse identificato il problema fin dall’inizio del sedicesimo secolo. Machiavelli elogiava la comprensione di Carlo VII della “necessità di armarsi di arme proprie”. Egli credeva che se il Regno di Francia sarebbe stato “insuperabile, se l’ordine di Carlo era accresciuto o preservato”. Sfortunatamente “re Luigi suo figliuolo spense quella de’ fanti, e cominciò a soldare Svizzeri: il quale errore, seguitato dalli altri, è, come si vede ora in fatto, cagione de’ pericoli di quello regno. Perché, avendo dato reputazione a’ Svizzeri, ha invilito tutte l’arme sua; perché le fanterie ha spento e le sua gente d’arme ha obligato alle arme d’altri; perché, sendo assuefatte a militare con Svizzeri, non par loro di potere vincere sanza essi”»15 .

Machiavelli non condivide la concezione imperiale di Dante ancora legata al medioevo e al compromesso tra i «due soli», intuendo che quanto stava venendo formandosi era qualcosa di nuovo che per affermarsi dovette lottare sia contro il Papato che il Sacro Romano Impero. La continuità tra la Roma repubblicana e quella imperiale è un elemento irrisolto del pensiero di Machiavelli, tuttavia se è vero che la fine della Roma repubblicana è la fine della virtù romana, e che fu proprio essa a dar vita all’impero si tratta di un processo inevitabile in un mondo in cui tutto è destinato a nascere, crescere e perire. Machiavelli era un patriota, ma non in senso angustamente nazionalistico. La patria di Machiavelli è laddove si sviluppa la virtù. Se la virtù muore a Roma, rinasce da qualche altra parte16.

Tuttavia vi sono delle affinità con la visione dantesca. L’Ulisse di Dante è una figura della hybris greca, la cui incarnazione con un po’ di immaginazione individuo in Alessandro Magno che dalla Persia volle raggiungere l’India in direzione di un confine ignoto, un assalto all’infinito, un voler andare oltre i limiti (come Ulisse) che poteva terminare solo con la sua sconfitta e la fine della civiltà greca.

Non a caso il Canto inizia con l’invettiva contro Firenze che stabilisce una precisa relazione con la hybris greca:

«Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,

che per mare e per terra batti l’ali,

e per lo ‘nferno tuo nome si spande!»

(Inferno, Canto XXVI)

Lo spirito capitalistico di espansione infinita, illimitata, senza confini agli albori in Firenze per Dante è erede della hybris greca. Egualmente Machiavelli condanna Atene, Sparta e Firenze da parte di Machiavelli per aver assoggettato i territori circostanti, e la condanna è sincera perché il puro e semplice desiderio di conquista è diverso dalla capacità strategica dei Romani.

Diversamente procedette Roma. Roma nei suoi mille anni di storia arrivò ad un confronto diretto con l’impero persiano solo verso la fine dell’Impero romano (e persiano). Roma operò nell’ambito suo proprio costituito dal bacino del Mediterraneo.

L’Europa moderna invece ha varcato stabilmente le colonne d’Ercole conducendo il mondo di fronte ad un pericolo mortale.

L’imperialismo europeo trasfiguratosi nel non-luogo denominato Occidente è arrivato alla conclusione del suo percorso ora che le altre grandi civiltà, ad eccezione della civiltà islamica, sono riuscite a far fronte alla minaccia distruttiva della «civiltà occidentale». L’aver fondato tutto sulla superiorità tecnica ed economica ci rivela che la civiltà occidentale si è fondata sul nulla. Forse è questo uno dei motivi, più o meno consapevoli, per cui vari studiosi hanno ripreso a leggere Machiavelli. Ad es. Skinner dichiara che il suo interesse per Machiavelli sta proprio nella sua alterità rispetto al pensiero moderno.

In realtà il repubblicanesimo non è stato sommerso del tutto, c’è un motivo per cui continua a persistere pur all’interno di una teoria dello stato dominata dal paradigma hobbesiano. Nel conflitto tra gli stati che ha portato alla piena formazione dello stato europeo (secondo la «sociologia storica» di Charles Tilly ed altri) si è avuto ancora bisogno della virtù, in particolare durante le due più importanti rivoluzioni nell’organizzazione dello stato, la guerra civile inglese seguita dalla Glorious revolution e la rivoluzione francese, che sono due rivoluzioni principalmente statuali dettate dal conflitto tra le nazioni europee che è stato il principale motore di questo sviluppo (in tal senso vedi Tilly che ne è stato il principale teorico). «L’esercito cromwelliano fu una forza rivoluzionaria perché fu meno un’armata mantenuta dallo stato che un esercito in cerca di uno stato che potesse mantenerlo»17 Harrington non può ancora concepire l’esercito professionale, poiché era ancora in formazione, ma da ciò deriva il suo interesse per la critica machiavelliana delle milizie mercenarie.

E’ nella new model army di Cromwell che si diffondono le tendenze radicali, repubblicane, rivoluzionarie fino al radicalismo dei livellatori. Il tentativo teorico di Harrington è quello di fare una sintesi tra il repubblicanesimo e l’assolutismo. Un’eguale tendenza a conciliare il repubblicanesimo con l’assolutismo si riscontra in Rousseau «un pensatore che ha inserito sul patrimonio di concettualizzazioni del diritto naturale categorie tipiche della tradizione repubblicana moderna, pur a costo di rilevanti tensioni teoriche»18.

Se è vero che l’esercito professionale da cui poi si è sviluppato l’esercito di leva è diverso («Non è stata la coscrizione militare di per sé ma l’esercito cittadino auto-equipaggiato che storicamente ha servito come baluardo contro la dominazione»19) dall’esercito di popolo sul modello romano a cui pensava Machiavelli è pur vero che è diverso dall’esercito mercenario e dall’esercito medievale. Come scrive Max Weber:

«Il motivo della democratizzazione è sempre di natura militare; sta nella comparsa della fanteria disciplinata, dell’esercito di corporazione nel Medioevo, dove l’elemento decisivo era che la disciplina militare prevaleva sulla lotta tra eroi. La disciplina militare significò la vittoria della democrazia poiché si dovevano e volevano arruolare le masse di non cavalieri, si mettevano loro in mano le armi, e quindi il potere politico»20.

Da questa necessità di coinvolgere le popolazioni nella lotte reciproche dei principali stati europei, sorgono delle contro-tendenze democratiche nella costituzione sostanzialmente oligarchica degli stati moderni fino ai nostri giorni. Riconoscere il potere «assoluto» dello stato vuol dire riconoscere il potere assoluto di chi controlla il potere coercitivo dello stato, cioè un’oligarchia. Siccome però queste oligarchie hanno avuto bisogno del popolo si è creato quello «ossimoro» vivente che sono state le «democrazie» moderne: la democrazia oligarchica come l’ha definita il direttore di un quotidiano italiano che di repubblicano ha solo il nome, senza però tematizzare la contraddizione per cui il suo «ossimoro» è semplicemente un’assurdità, tipo il secco dell’acqua, o l’umidità della fiamma.

Il repubblicanesimo liberale di Harrington e di Locke è un sistema basato su di una contraddizione di fondo: voler conciliare il repubblicanesimo con l’assolutismo. «Né Harrington né Locke si opponevano a un potere sovrano: ritenevano entrambi che in qualunque società civile si rendesse necessaria da qualche parte la presenza di un potere politico, a cui, come si doveva sottintendere, ogni individuo avesse rimesso tutti i propri diritti e poteri, e che non fosse sottoposto a limiti da parte di qualsiasi potere umano superiore o associato. Harrington fu del tutto esplicito: “Là dove il potere sovrano non è intero e assoluto proprio come nella monarchia, non ci può assolutamente essere alcun governo” . Locke pose il potere sovrano nella società civile, cioè nella maggioranza: ammetteva che la maggioranza non volesse nient’altro che il bene pubblico, e che perciò potesse detenere senza pericolo il potere sovrano da conferire a qualcuno. Ovviamente, l’uomo o l’assemblea a cui la società civile affidava allora il potere legislativo e l’esecutivo non erano sovrani; ma in questi casi, in cui il potere veniva affidato a un’assemblea elettiva piuttosto che a un’assemblea o a un monarca auto-perpetuantesi, Locke riconosceva un esercizio virtuale del potere sovrano. Sia Harrington che Locke non videro la necessità di porre irrevocabilmente il potere sovrano nelle mani di una persona o di un’assemblea di persone con l’autorità di designare il proprio successore o i propri successori; anzi, giudicarono ciò incompatibile con gli unici scopi plausibili per cui degli individui potrebbero autorizzare un potere sovrano. In effetti, si opponevano non a un potere sovrano perpetuo, ma a una persona o a un’assemblea sovrana auto-perpentuantisi»21.

Lo stesso Hobbes aveva chiarito il potere assoluto poteva essere incarnato anche da una assemblea, tuttavia poiché riteneva necessaria l’auto-perpetuazione del potere assoluto è stato visto erroneamente come un teorico della monarchia assoluta. Poiché il suo modello, prevedeva un’inevitabile frammentazione sociale dovuta alla conflittualità generalizzata, come sostiene Macpherson, non potè considerare il dominio della borghesia in modo maggiormente flessibile ammettendo la possibilità di un assetto costituzionale che consentisse importanti cambiamenti al suo interno, pur perpetuandosi come sistema di dominio. A ciò va aggiunto il fatto che il nuovo tipo di stato è ancora un modello rigido privo di quelle articolazioni che svilupperà in seguito per restando il modello di base lo stesso.

L’equivoco riguardo al rapporto tra la teoria di Hobbes e al liberalismo è dovuto al fatto che il «collettivismo», cioè il potere assoluto dello stato, sembra escludere l’individualismo, ma si tratta di una coppia polare, l’individualismo è inseparabile dal potere assoluto dello stato, come ha brillantemente messo in luce Macpherson:. «La concezione per cui individualismo e “collettivismo” sono le estremità opposte di una scala lungo la quale si possono disporre stati e teorie dello stato, senza tener conto dello stadio di sviluppo sociale in cui si formano, appare superficiale e induce in errore. L’individualismo di Locke, cioè di una società capitalistica emergente, non esclude, ma, al contrario, richiede la supremazia dello stato sull’individuo. Non si tratta di più individualismo o di meno collettivismo. Piuttosto, quanto più compiuto è l’individualismo, tanto più totale è il collettivismo. Esempio estremamente significativo ne è la teoria di Hobbes, ma il fatto di aver negato la legge naturale della tradizione e di non aver garantito la proprietà nei confronti di un sovrano che si perpetuava, non raccomandava le sue concezioni a quelli che vedevano la proprietà al centro dei fatti sociali. Locke era più accettabile, sia per la posizione ambigua sulla legge naturale, sia per un certo tipo di garanzia che forniva ai diritti di proprietà. Se si interpreta in questo modo il carattere specifico dell’individualismo borghese del diciassettesimo secolo, non è più necessario cercare un compromesso tra le affermazioni lockiane individualiste e quelle collettiviste: nel contesto infatti si implicano a vicenda»22.

Cosa vuol dire potere assoluto dello stato? Lo stato non è e non potrà mai essere il popolo. Nietzsche la denuncia come la più «fredda menzogna del mostro», ovvero il Leviatano hobbesiano. La democrazia pura cioè basata sul governo del popolo è stata costitutivamente instabile. Machiavelli rifiuta il modello ateniese, modello di ogni forma ideale di democrazia, per la sua instabilità, dissolvendosi nella lotta tra fazioni a causa della mancanza di un governo centrale, che determina il passaggio alla monarchia (governo di uno solo), che degenera in dittatura per cui si passa all’aristocrazia che degenera a sua volta in oligarchia, da cui si passa alla democrazia determinando quel ciclo in cui si erano avvitate le città greche (ad esclusione di Sparta) che secondo Polibio il sistema misto della Roma repubblicana aveva interrotto. Il sistema non instabile più vicino alla democrazia è il sistema misto, a cui al potere dello stato si affiancano dei contro-poteri esterni allo stato. Bodin lo identifica con la democrazia tout court. Assolutismo e democrazia sono termini antitetici se stiamo al significato etimologico dei due termini. Incidentalmente Kant mise in luce il carattere non democratico del sistema parlamentare proprio perché fondato sull’assolutismo.

Che cos’è un monarca assoluto? È quello che, se dice: «Guerra sia», è subito guerra. – Che cos’è viceversa un monarca limitato? Colui che prima deve chiedere al popolo se ci debba esserci o no la guerra; e se il popolo dice «Non ci dev’essere guerra», allora non viene fatta. – La guerra, infatti, è una condizione in cui tutte le forze dello stato devono stare agli ordini del suo capo supremo. Ora, le guerre che ha condotto il monarca britannico senza chiedere alcun consenso su ciò sono davvero molte. Perciò tale re è un monarca assoluto, cosa che in base alla costituzione egli non dovrebbe essere; la quale, invece, si può sempre aggirare, proprio perché attraverso quei poteri dello stato può assicurarsi il consenso dei rappresentanti del popolo, dato cioè che egli ha il potere di affidare tutti gli uffici e gli onori. Per avere successo, un tale meccanismo di corruzione non ha certo bisogno della pubblicità. Perciò rimane sotto il velo, molto evidente, del segreto»23.

Ecco perché il potere effettivo diventa qualcosa di nascosto. Il sistema parlamentare si basa fin da Hobbes su di un patto: la sovranità, cioè il potere, la gerarchia sociale non sono legittimi in sé stessi ma derivano da un accordo collettivo che conferisce il potere a qualcuno al fine di evitare la guerra di tutti contro tutti, cioè la disgregazione sociale. In realtà il potere che non deriva da nessuna legittimazione esterna esiste eccome, come tutti sanno. Tuttavia questa finzione funzionale è essenziale al sistema, per cui la gerarchia sociale diventa qualcosa di nascosto. Per questo Marx ad es. va a ricercare dove si «nasconde» la struttura del potere effettivo, individuandola nei «rapporti di proprietà», in particolare in chi controlla i mezzi di produzione, ma è una visione parziale ed erronea, chi controlla gli strumenti coercitivi dello stato ha avuto un ruolo preponderante.
Finora nessuna società è riuscita a funzionare senza una gerarchia. Motivo per cui la gerarchia sociale non avrebbe bisogno di nessuna giustificazione. Nella Roma antica i Consoli e il Senato non avevano bisogno della legittimazione popolare (giustamente per questo Polibio dice che i Consoli erano dei re), ma oltre ai Consoli e al Senato c’era un’articolazione di varie assemblee popolari che costituivano l’aspetto democratico della Roma repubblicana.
Il potere delle classi dominanti può affermare apertamente la sua legittimità quando riconosce l’esistenza di contro-poteri nelle classi popolari. Il potere assoluto adotta invece una maschera, cioè la personae fittizia dello stato.

Oggi a noi sembra addirittura inconcepibile che il popolo possa decidere della guerra, al massimo possiamo pensare che la decisione possa essere nelle mani del parlamento, quale «rappresentante della volontà popolare», ma sappiamo che il parlamento è piuttosto uno strumento dello stato, come efficacemente mette in luce Kant. Inoltre, negli ultimi tempi si è imposta la tendenza a bypassare anche il parlamento. In Italia ad es. molte missioni all’estero sono state decise dal governo con lo strumento del decreto-legge. Nella Roma repubblicana la decisione ultima sulla guerra spettava ai comitia centuriata che erano delle assemblee popolari.

Questo patto hobbesiano fonda il sistema su basi individualistiche. L’individualismo è la radice del totalitarismo, come ha ben messo in evidenza Louis Dumont nei sui Saggi sull’individualismo: il razzialismo hitleriano era un modo meccanico per ristabilire l’unità in una società individualistica. Ma come abbiamo visto l’individualismo è inseparabile dal «collettivismo» cioè dalla concentrazione del potere statuale che crea le condizioni per cui possa esistere una «sfera privata» in cui l’individuo è «libero» di perseguire il suo «interesse privato». Tuttavia perché potesse configurarsi ciò che noi definiamo totalitarismo era necessaria un’ulteriore evoluzione dello stato, la concentrazione del potere ideologico che è stata la trasformazione precipua dello stato nel XX secolo, ragione per cui molti studiosi si sono concentrati sulla funzione svolta dai media. Con la concentrazione del potere ideologico il sistema di dominio diventa più articolato e capillare, lo stato si evolve come Apparato di dominio.

I totalitarismi sovietico e tedesco furono tentativi imperfetti, rudimentali di far fronte ai mezzi, alla capacità di mobilitazione che aveva lo stato totalitario pienamente sviluppato, cioè gli Usa, il quale proprio perché funziona bene può instaurare un controllo capillare senza abbandonare la facciata democratica. Lasciamo da parte l’Unione Sovietica che aveva la concentrazione di potere statuale necessaria per questo scopo, ma non aveva lo sviluppo economico necessario per la creazione di un’ampia classe media, per cui sviluppò un totalitarismo molto rudimentale. La Germania invece già dal finire del XIX secolo era lo stato europeo più avanzato, quello che mostrava maggiori somiglianza con gli Usa, ed è stato quello che maggiormente ha sviluppato questi nuovi aspetti dello stato (lo stesso Hitler paragonava la propaganda politica alla propaganda americana delle saponette).

Questa dinamica la si può cogliere sulla base della teoria di Charles Tilly secondo cui le strutture statuali e non solo, ma l’organizzazione complessiva della società, si sviluppano attraverso il conflitto, in pratica, ogni qualvolta uno stato introduce un cambiamento che aumenta la propria potenza costringe gli altri stati ad introdurlo anch’essi, pena la sconfitta. La stessa rivoluzione francese ha le sue radici in questa dinamica (vedi il mio Ripensare la rivoluzione francese). Gli Stati Uniti, oltre alla concentrazione del capitale e alla concentrazione del potere coercitivo (che per Tilly sono i tratti costitutivi dello stato moderno), introducono la concentrazione del potere ideologico con lo sviluppo del sistema mediatico.

Questo nuovo regime ha la sua base nella classe media, che è essa stessa prodotto di un’ulteriore concentrazione del capitale e lo sviluppo dell’economia di scala: Charles Wright Mills nel suo classico studio sui «colletti bianchi» sottolineava la somiglianza di questa classe media con gli «impiegati» tedeschi descritti da Kracauer. Una classe media semi-parassitaria, privilegiata e allo stesso tempo priva di potere, che guarda con orrore alla classe lavoratrice. Da questa condizione sociale derivano tutte le storture della sua psicologia (in merito esiste un’ampia letteratura). E’ la progenitrice del ceto medio semi-colto, che è la principale base di propagazione del diritto-umanesimo e del politicamente corretto costitutivi dell’ideologia dominante (vedi in merito il mio Tendenze totalitarie odierne: la gender theory).

Machiavelli è il pensatore anti-totalitario per eccellenza proprio perché il totalitarismo è un’evoluzione dello stato moderno rispetto alla quale Machiavelli indica un’altra direzione.

Skinner si è occupato in vari scritti della nascita del concetto di stato, lavori sicuramente interessanti, frutto di un impressionante scavo storico, tuttavia individua una inesistente continuità24, al di là delle normali interazioni tra i principali pensatori della politica. Machiavelli è l’anti-Hobbes, il suo concetto dello stato è l’opposto dell’assolutismo hobbesiano. Il sistema misto come descritto da Polibio di cui Machiavelli era fautore è ciò che principalmente rifiutano i teorici dell’assolutismo.

Skinner e Pettit hanno concorso a darne una migliore definizione, ma ritengo che l’effettiva enucleazione del paradigma repubblicano machiavelliano la si debba allo studioso italiano Marco Geuna (e sulla sua scorta Baccelli), nonostante la minore notorietà internazionale (in ambito accademico), soprattutto perché riesce a mettere in evidenza la radicale alterità di Machiavelli rispetto a Hobbes, il principale teorico dello stato moderno. Credo non vi sia campanilismo quando Baccelli sottolinea l’italianità di Machiavelli, egli è pur sempre un prodotto della cultura italiana, chi ha studiato nella scuola italiana meglio può capirne le sfumature del linguaggio. Riporto qui un’estratto che contiene in sintesi una definizione del «paradigma machiavelliano» ripresa, approfondita e differenziata in vari articoli25.

È forse utile ricordare la pluralità di termini utilizzati da Machiavelli, sia nei Discorsi sia nelle Istorie, per sviluppare le sue riflessioni. Egli si serve, per lo più, dei termini ʻdisunioniʼ e ʻtumultiʼ per riferirsi a quei conflitti fra le parti costitutive della città che trovano una sorta di composizione istituzionale e arricchiscono di leggi e ordini la vita politica della res publica, mantenendo viva la sua libertà; altre volte, per riferirsi a questo primo tipo di conflitti, usa le espressioni ʻcontroversieʼ, ʻdissensioniʼ, ʻdifferenzieʼ, ʻromoriʼ.

Ricorre, invece, alle espressioni ʻcivili discordieʼ, ʻintrinseche inimicizieʼ, per designare un altro tipo di conflitti, per riferirsi a quegli antagonismi che degenerano in scontro di ʻfazioniʼ e di ʻsetteʼ, e mettono a repentaglio la libertà stessa della res publica. Con questi termini, Machiavelli riesce a veicolare una riflessione sui conflitti assolutamente nuova e peculiare che lo colloca in posizione di marcata discontinuità rispetto alla tradizione antica e medioevale del pensiero politico occidentale; ma che lo situa anche ai margini, in una prospettiva altra, rispetto al cosiddetto progetto politico moderno, incentrato, da Bodin e Hobbes in poi, sul ruolo del potere sovrano e sulla neutralizzazione del conflitto da esso attuata.

Questo è in sintesi il paradigma machiavelliano, il suo principale apporto allo storia del pensiero politico, il nucleo concettuale attorno al quale Machiavelli articola la sua teoria politica, una nuova concezione del conflitto che in determinate condizioni, quando non si trasforma nella creazione di «sette» è fonte di dinamismo sociale, di difesa della libertà, e delle leggi che creano l’ordine sociale.

Per chi volesse farsene un’idea con le parole di Machiavelli stesso consiglio di primo acchitto la lettura del cap. IV dei Discorsi dal titolo Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella republica.

Proviamo ad applicare il paradigma alle principali ideologie moderne: tutte sono segnate dal paradigma hobbesiano, a dispetto delle loro differenze sono accomunate dalla volontà di eliminare i conflitti sociali.

Il liberalismo neutralizza il conflitto sociale attraverso una pseudo-democrazia, basata sul gioco di specchi fra destra e sinistra, che ha inondato di menzogna e corruzione il mondo.

Il socialismo/comunismo intendeva eliminare i conflitti eliminandone le cause economiche (addirittura eliminando la divisione del lavoro secondo l’estremismo individualistico del giovane Marx), ma tale intento si rovescia necessariamente una volta al potere nella soppressione autoritaria dei conflitti.

Il fascismo intendeva sopprimere i conflitti sociali attraverso il corporativismo. Il nazismo invece li soppresse nella creazione della comunità razziale saldata dal Führerprinzip.

Tutte e tre le principali ideologie moderne e loro derivati sono segnate da un totalitarismo di fondo perché tutte nascono dal paradigma individualista hobbesiano.

Voler eliminare la conflittualità dalle relazioni umane è un’aspirazione di per sé totalitaria. Polemos è il padre di tutte le cose, scriveva Eraclito 2500 anni fa. È il conflitto per l’esistenza tra le creature viventi, e tra queste e le condizioni ambientali (caldo, freddo, acqua, mancanza di acqua, vento), che ha fatto sorgere occhi per cogliere il più piccolo movimento, arti per correre velocemente, artigli, udito, olfatto ecc. Gli esseri umani lottano per l’esistenza tanto in cooperazione quanto in lotta con i propri simili. Il conflitto scaturisce dalla necessità di cooperazione stessa, in quanto necessita di stabilire dei singoli che abbiano un ruolo di comando (finora nessuno è riuscito a creare delle società senza gerarchie, le società primitive sono soltanto più semplici ma non ne sono prive). Soltanto attraverso il conflitto si può stabilire chi comanda, ed è con il conflitto che vengono spodestate le classi dominanti incapaci di svolgere il loro principale compito, quale assicurare un’adeguata riproduzione sociale. E’ attraverso il conflitto tra i vari insiemi sociali (stati-nazione) che si evolvono i vari sistemi sociali. Negare il conflitto attraverso il pacifismo finora è servito soltanto a screditare il nemico in modo totale, in quanto nemico della «pace», criminale da spazzare dalla faccia della terra (su tale questione è imprescindibile Carl Schmitt, e più recentemente Danilo Zolo), cioè per portare al nemico una guerra più totale rispetto a chi riconosce lo justus hostis (nemico legittimo: un concetto quasi inconcepibile per la mentalità moderna egemonizzata dall’ipocrita pacifismo). Voler eliminare il conflitto è un’aspirazione propriamente totalitaria, piuttosto bisognerebbe indirizzarlo verso forme non distruttive che favoriscano lo sviluppo sociale.

Acquisito il paradigma machiavelliano proveremo ad applicarlo per definire una nuova teoria politica, ma prima volevo riprendere un interessante contributo di Massimo Morigi che ci consente di articolare ulteriormente la definizione del repubblicanesimo. Libertà come non interferenza del potere o libertà come non dominio? Morigi ha effettuato un ribaltamento dei termini della questione, potenzialmente in grado di mettere fine alla diatriba, se non fosse che «il dibattito (accademico) deve continuare», ponendo la libertà come estensione e diffusione nella società del potere. In una serie di interventi, che mi auguro possano trasformarsi in un contributo più sistematico, egli ha delineato un «repubblicanesimo geopolitico», nel quale «l’accento è messo sul potere come energia generatrice di libertà mentre il marxismo classico vuole una società dove i rapporti di forza siano estinti (fine della storia, estinzione dello stato). Secondo perché se per il marxismo l’agente generatore di una società più libera è il proletariato, per il Repubblicanesimo Geopolitico l’agente per una maggiore libertà sono proprio quelle forze ed energie (quindi anche il proletariato ma pure le forze che vi si contrappongono) che scontrandosi originano una dialettica del potere che è alla base per un concreto e non astratto ampliamento della sfera della libertà (sottolineo che questa della conflittualità come origine della libertà e/o della forza di una comunità politica non è certo molto originale discendendo direttamente da Machiavelli e dalla sua spiegazione della forza militare degli antichi romani, la quale, secondo il Segretario fiorentino, discendeva direttamente dalla lotta fra patrizi e plebei che trovava una sua valvola di sfogo nella espansione territoriale di Roma). E queste forze ed energie per il Repubblicanesimo Geopolitico possono trovare la loro piena espressione solo a condizione che il quadro geopolitico in cui questa comunità vive la sua esperienza storica sia favorevole a che questa comunità possa irrobustire la sua identità e, di conseguenza, progettare e lottare per sempre maggiori spazi di libertà»26.

Inoltre, Morigi in un’intervista video27 sottolineava che che la divisione fra dominanti e dominati non deve condurre alla conclusione apparentemente logica che i dominati non decidono. I dominati decidono a loro modo, possono decidere di seguire o non seguire i dominanti, oppure se costretti possono decidere di seguire i dominanti in modo passivo, oppure facendo resistenza fino al sabotaggio. I romani lo sapevano benissimo ed è per questo che erano consci della necessità di coinvolgere il popolo, che costituiva la base dell’esercito, nelle decisioni. Gianfranco Campa, un «repubblicano» di origine italiana trasferitosi negli Usa, «appartenente prima al mondo militare e poi a quello delle forze dell’ordine», ha scritto un articolo28 in cui descrive a tinte fosche lo stato mentale dell’esercito statunitense dove imperversano malattie mentali, uso e abuso di droghe, alcol e psicofarmaci. Non è difficile capire perché i soldati rifiutano intimamente il loro ruolo pur essendo costretti ad esercitarlo per avere un salario. È evidente che l’essere pagati non è un motivo sufficiente per uccidere o essere uccisi, quando si è consapevoli che la propria famiglia non ha nessuna garanzia di appartenenza ad un sistema sociale che la protegga dal finire in mezzo alla strada (e negli Usa è molto facile che ciò accada). E quando non si capiscono i motivi per cui si combatte una determinata guerra, se non che questa guerra non migliorerà le condizioni della propria classe sociale. Le classi dominanti statunitensi non possono contare pienamente sul proprio esercito, ma proprio questo le rende molto pericolose, perché le può spingere ad una soluzione «tecnica» (cioè facendo affidamento su armi micidiali) della propria crisi di egemonia.

Geuna ha fornito un fondamentale contributo nella definizione del paradigma machiavelliano, tuttavia la radicalità del pensiero machiavelliano non può emergere se non osiamo andare oltre il recinto accademico, sfidando ciò che i colleghi accademici occidentali ritengono sia concepibile. Geuna alla fine ci propone una realizzazione pratica del conflitto tutta interna ad un pensiero dominante. La «contestazione» (nata in ambito studentesco) che ritiene una espressione del conflitto, sulla scorta di Pettit, è in realtà una sua parodia, ricorda piuttosto le recriminazioni adolescenziali relative alla paghetta. Se davvero vogliamo parlare di conflitto dobbiamo intendere il conflitto che avviene tra adulti. Le tesi di Pettit sono poco realistiche (come lamenta Baccelli) perché ricadono nel formalismo democratico, discostandosi alquanto da ogni realismo machiavelliano. Soltanto la teoria di Machiavelli può eguagliare in realismo quella di Hobbes. La legge senza la spada è nulla, e chi impugna la spada non è sottoposto alla legge, quindi la sovranità è per forza di cose assoluta, se è l’unico ad impugnare la spada. Il motivo per cui bisogna concedere la spada al popolo costituisce uno dei passi salienti dell’intera riflessione machiavelliana:

Per tanto, se tu vuoi fare uno popolo numeroso ed armato per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo: se tu lo mantieni o piccolo o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo puoi tenere, o ei diventa sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta.

Si doveva concedere la spada al popolo, anzi era necessario se si intendeva costruire quel tipo di repubblica espansiva sul modello romano. Questo fondamentale principio machiavelliano è simile un’arma che può essere utilizzata tanto in senso offensivo che difensivo, anche intende difendersi dall’espansionismo altrui deve poter contare su un popolo forte: altrimenti sei preda di chiunque ti assalta.

Il paradigma machiavelliano va inquadrato nel concetto di sistema misto di cui Machiavelli era fautore, soltanto in questo contesto può esplicarsi quella conflittualità virtuosa che costituì la grandezza di Roma. Riprendiamo la formulazione originaria di Polibio che Machiavelli ricalca nei Discorsi 29:

«Come ho detto sopra, tre erano gli organi dello stato che si spartivano l’autorità; il loro potere era così ben diviso e distribuito, che neppure i Romani avrebbero potuto dire con sicurezza se il loro governo fosse nel complesso aristocratico, democratico, o monarchico. Né è il caso di meravigliarsene, perché considerando il potere dei consoli, si sarebbe detto lo stato romano di forma monarchica, valutando quello del senato lo si sarebbe detto aristocratico; se qualcuno infine avesse considerato l’autorità del popolo, senz’altro avrebbe definito lo stato romano democratico»30.

Il governo misto romano nacque in uno specifico contesto, diverse sono le nostre società, ma possiamo ugualmente trarne un insegnamento: nei prossimi conflitti avranno la meglio quelle società che oltre a sviluppare gli strumenti difensivi e offensivi sapranno realizzare nuove forme di integrazione del popolo, quelle società che sapranno essere più compatte sviluppando un senso di appartenenza.

A partire da questi presupposti, proviamo a pensare un nuovo ruolo per degli ipotetici movimenti popolari di domani dei quali sentiamo assoluto bisogno. Essendo la mia formazione originaria marxista mi occuperò qui delle classi inferiori, ma ugualmente bisognerebbe tentare di ridefinire un ruolo per le classi medie. Per cominciare, le classi popolare dovrebbero creare delle proprie organizzazioni politiche che non abbiano come obiettivo inviare deputati al parlamento, perché questo è uno strumento delle classi dominanti. Cosa avrebbero detto i Populares qualora i Tribuni del popolo fossero diventati parte organica del Senato? È facile immaginarlo, avrebbero detto che non erano più i loro rappresentanti, mentre ciò avviene normalmente in tutti i sistemi parlamentari. Inoltre bisognerebbe pensare in prospettiva a forme di organizzazione militare finalizzata alla difese di queste organizzazioni, altrimenti esse sono ostaggio di chiunque detiene gli strumenti per l’utilizzo della forza.

Nella maggior parte delle nazioni occidentali, le classi popolari non possono utilizzare il rifiuto delle armi come strumento di pressione nei confronti delle classi dominanti, oggi la maggiori parte degli eserciti sono formati da professionisti volontari, e anche quando esisteva l’esercito di leva, la coscrizione impediva di utilizzare questo strumento, per la plebe romana invece questo era uno strumento di pressione maggiore ancora dello sciopero. Tuttavia bisogna capire che i professionisti militare non vivono nel nulla, il loro maggiore o minore impegno è determinato dal senso di appartenenza alla società, dalla presenza di motivi validi ed uno dei principali è il combattere per una società a cui si sente di appartenere.

Lo sciopero resterebbe una delle armi principali con cui le classi inferiori manifestano la loro indispensabilità per l’intera società, ma attualmente tale strumento è stato bagattellizzato da sindacati inghiottiti dallo stato. Anche in ambito sindacale bisognerebbe mirare a ricostuire delle organizzazioni autonome dei lavoratori.

I comunisti intendevano inserirsi nei parlamenti perché il loro obiettivo era il rovesciamento dello stato, mentre invece non deve essere questo l’obiettivo piuttosto quanto creare un contro-potere che difenda gli interessi delle classi popolari, consapevoli che una forma di comando, di governo ci deve pur essere altrimenti uno stato non è tale.

Le classi sociali non hanno una base esclusivamente «economica» eliminata la quale si eliminano anche le classi sociali, le classi sociali derivano dall’esistenza di chi comanda e chi è comandato. Tuttavia le classi dominanti se non hanno un contro-potere che le contrasta tendono ad assumere il massimo potere possibile, fino a forme estreme di esclusione dalla società di quote rilevanti delle classi popolari . Tra le sventure che possono colpire l’individuo l’esclusione sociale è oggi l’equivalente della schiavitù nel mondo antico, anzi forse per chi è «buttato in mezzo alla strada» e tagliato completamente fuori può sembrare preferibile la sorte dello schiavo a cui perlomeno era assicurato un tetto e del cibo. L’esclusione sociale condivide con la schiavizzazione la dimensione della «morte sociale» che Orlando Patterson individua come il tratto distintivo della schiavitù31. Le classi dominanti hanno per loro natura il sogno di un dominio assoluto ed eterno, compito delle classi inferiori è rendergli presente, ponendo loro un argine, che questo sogno è distruttivo perché irreale, altrimenti subiranno le tendenze distruttive delle classi superiori. Finora nessuna società è riuscita a stare insieme, ad assicurare la cooperazione dei suoi membri senza uniformare molte volontà, ad una sola o a poche volontà, e da ciò deriva la necessità di affidare il comando a qualcuno, e questo comporta l’esistenza di un potere coercitivo e relative diseguaglianze di potere. Marx ed Engels ammettevano benissimo questa realtà di fatto quando si trattava di polemizzare con gli anarchici (Engels adduceva l’esempio del comandante di una nave: quando c’è una tempesta è vitale che ognuno si uniformi alla sua volontà), tuttavia vollero conservare l’obiettivo dell’«estinzione dello stato».

Ci saranno esponenti delle classi dominanti disposti a tollerare e anche ad incoraggiare e favorire forme di auto-organizzazione delle classi popolari (e con questo termine intendo sia le classi medie che inferiori), avendo bene stampato in mente l’avvertimento di Machiavelli che senza un popolo forte, attivo alla fine un stato è preda di «chiunque l’assalta»)?

Le classi inferiori devono difendere delle condizioni di vita dignitose e difendere l’autonomia della propria classe sociale, ma allo stesso tempo devono accettare il posto subordinato nella società. Non c’è nulla di disonorevole nello stare alla base della società. Inoltre, sembra che oggi la vita non abbia senso se non si fa qualcosa di «particolare», a mio parere invece non va disprezzata una «normalità» costituita da una vita in cui si da il proprio contributo lavorativo necessario al funzionamento della società, che lasci il tempo libero necessario per curare la propria famiglia e i propri interessi, oltre alla formazione militare che rende capaci di difendere se stessi, la famiglia e la patria. Una vita fondata su queste basi è del tutto sensata. Chi invece è chiamato a compiti particolari per attitudini e vocazione, deve avere la possibilità di farlo, anche se proviene dalle classi inferiori.

La teoria marxiana che voleva la classe lavoratrice capace di gestire l’intera società si è rivelata infondata, seppur diversi sono stati partiti operai di massa del novecento costituiti dai lavoratori manuali della grande industria, in quanto Marx per classe lavoratrice intendeva dall’«ingegnere all’ultimo manovale». Le «forze mentali della produzione», cioè i tecnici non si sono uniti alla classe operaia, ma se anche si fosse verificata la dinamica prevista da Marx secondo cui la proprietà si sarebbe trasformata in un gruppo parassitario, a cui si sarebbe opposto il lavoratore associato (i lavoratori manuali insieme alla forze mentali della produzione o general intellect) credo che non avrebbe configurato una «classe intermodale», cioè capace di gestire la transizione ad un nuovo sistema sociale, poiché per guidare la società non sono sufficienti le sole conoscenze di carattere tecnico, ma è necessaria quella formazione che da sempre hanno caratterizzato le classi dominanti, cioè oltre alla formazione fornita dalla pratica politica, quel tipo di formazione definita «umanistica» che si acquisisce con la conoscenza della storia, della filosofia, della giurisprudenza, delle arti. Inoltre, la politica è un’arte e come tale necessita di attitudini specifiche, in parte innate, non solo un determinato grado di intelligenza e di formazione, ma anche le attitudini psico-fisiche per reggere il conflitto, che seppur in questo campo non si svolge direttamente con le armi, spesso è ugualmente pericoloso. La politica a tempo pieno non è per tutti, e neanche tutti sono interessati ad un tale tipo di impegno. Ci sono diversi gradi, c’è chi ne fa una ragione di vita, ma la maggioranza si interessa alle questioni politiche quando sente le proprie condizioni di vita minacciate.

Le classi popolari non possono svolgere un’efficace lotta politica senza organizzazione, la quale presuppone una forma di divisione in classi interna tra chi dirige e chi è diretto. Ciò significava il principio, che Lenin trasse dal «rinnegato Kautsky», secondo cui agli «operai la coscienza può essere portata solo dall’esterno», in base al quale si organizzarono i partiti operai del secolo scorso che ebbero come modello principale la socialdemocrazia tedesca.

L’obiettivo della «fine della società di classe» va abbandonato perché si è dimostrata un’utopia individualistica (il giovane Marx con la sua hybris estremistica individualistica avrebbe voluto addirittura abolire la «divisione del lavoro»)32. L’essere umano è un essere sociale che vive in società organizzate, cioè costituite da gerarchie. Una volta stabilito tale punto fermo tutto da discutere è il rapporto tra le classi. Sicuramente le società occidentali odierne con le loro mostruose differenze di reddito necessitano di una radicale riorganizzazione. Di una radicale riorganizzazione ha bisogno anche la forma dello stato, che miri al suo rafforzamento attraverso una sua trasformazione democratica che assegni un ruolo alle classi medie e alle classi inferiori (non mi soffermo qui sul ruolo del «ceto medio semicolto» trattato in vari interventi, che è in realtà un’appendice dell’apparato statale odierno). Tale radicale trasformazione dello stato assolutistico, implica un’estensione del potere alle classi non dominanti, per dirla con Massimo Morigi, pur mantenendo una gerarchia di poteri.

Una volta stabilito il principio dell’autonomia delle classi popolari, ma all’interno di una società organizzata, le classi popolari devono ricercare l’alleanza con i membri delle classi dominanti, se ce ne sono, che non abbiano le tendenze auto-distruttive prevalenti in quelle attuali, e che abbiano l’intenzione di combattere la deriva attuale delle società occidentali. Soltanto se si realizzare tale sinergia sarà possibile nelle condizioni attuali invertire la deriva.

Va ritrovata un’unità sociale nella difesa dello stato. I recenti movimenti «sovranisti» intendono difendere la sovranità dello stato nei confronti della «globalizzazione», cioè nei confronti del tentativo statunitense di stabilire un dominio mondiale. Tuttavia la difesa di questa sovranità implica una decisa trasformazione dello stato che ne trasformi radicalmente le basi assolutistiche sulle quali è fondato. Senza questo intento il «sovranismo» non potrà essere che un altra forma di inganno, ancora un altro partito che una volta in parlamento fa esattamente il contrario di quanto aveva promesso per ottenere il voto.

Toni Negri è un «cattivo maestro», ma si impara anche dai maestri cattivi una volta riconosciuti come tali. Come scrisse Preve, è un pensatore da prendere sul serio, perché a suo modo geniale e innovativo. In Impero egli effettua una colossale mistificazione, presentando la «globalizzazione» statunitense quale erede del repubblicanesimo machiavelliano, ma confrontandosi con i suoi argomenti, frutto di una conoscenza sofisticata, si possono migliorare gli strumenti teorici necessari per combattere i conflitti attuali. Quello di Negri è stato il tentativo più significativo di trasformare il repubblicanesimo machiavelliano in una teoria politica per l’oggi, ma pervertendone il significato, trasformandolo in un’ideologia a servizio della globalizzazione. La sua antropologia del desiderio è esattamente il contrario della virtù machiavelliana, quale attaccamento alla patria, fortezza e temperanza, senso della giustizia, capacità militare e politica allo stesso tempo, e infine audacia, perché sarà necessaria molta audacia per affrontare l’Idra. Leviatano, il mostro marino, vinse Behemoth, il mostro terrestre, e con questi poi si congiunse e con l’ausilio della Tecnica diede vita all’Idra che vuole dominare tutto il globo.

Non c’è dubbio che la critica di Toni Negri della sovranità statale corrisponda alle finalità di destrutturazione degli stati a cui mira la globalizzazione (statunitense), ciò non toglie che sia sostanzialmente giusta. Difendersi dalla globalizzazione semplicemente affermando la sovranità dello stato è una lotta di retroguardia destinata alla sconfitta, perché questo tipo di sovranità svuota di ogni forma di partecipazione le classi medie e le classi inferiori. Abbiamo una contrapposizione tra stato-apparato (l’insieme dell’apparato di dominio che comprende anche i media) e la nazione (l’intera collettività). Lo stato-nazione si difende quindi ritrovando una forma di partecipazione ad esso delle classi non dominanti, il che comporta la messa in discussione dell’assolutismo di base su cui è costruito lo stato moderno. Ecco la critica dell’assolutismo su cui si fonda lo stato moderno, è evidente che essa coglie i nodi essenziali della questione:

«La teoria hobbesiana della sovranità era funzionale allo sviluppo della monarchia assoluta e, tuttavia, il suo schema trascendentale poteva essere ugualmente applicato alle altre forme di governo: all’oligarchia e alla democrazia. Nel momento in cui la borghesia stava diventando la classe emergente, sembrava che non vi fosse alcuna alternativa a questo schema di potere. Non fu dunque casuale che il repubblicanesimo democratico di Rousseau finì per assomigliare al modello hobbesiano. Il contratto sociale di Rousseau garantisce che l’accordo tra le volontà individuali viene sostenuto e sublimato nella costruzione di una volontà generale che nasce dall’alienazione delle singole volontà a favore della sovranità dello stato. In quanto modello di sovranità, l’«assoluto repubblicano» di Rousseau non è realmente diverso dall’hobbesiano «Dio in terra», e cioè dal monarca assoluto. «Queste clausole [del contratto], beninteso, si riducono tutte a una sola, cioè all’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità». Le altre condizioni poste da Rousseau per la definizione della sovranità in senso democratico popolare sono assolutamente irrilevanti rispetto all’assolutezza della fondazione trascendente. In particolare, la nozione rousseauviana della rappresentanza diretta è completamente distorta e, in ultima analisi, viene inghiottita dalla rappresentanza della totalità a cui è strutturalmente connessa – e tutto ciò, ancora una volta, risulta perfettamente compatibile con la concezione hobbesiana della rappresentanza. Hobbes e Rousseau non facevano altro che ripetere il paradosso che Bodin aveva già concettualizzato nella seconda metà del sedicesimo secolo. La sovranità appartiene, propriamente, soltanto alla monarchia, poiché uno solo è il sovrano. Se due, tre o più avessero il potere, non vi sarebbe sovranità, poiché il sovrano non può essere soggetto al potere di altri. Le forme politiche democratiche, plurali e popolari potranno anche essere proclamate, ma la sovranità moderna avrà sempre una sola configurazione politica: un unico potere trascendente»33.

Uno dei primi a rendersi conto che una società senza una cultura comune non poteva andare avanti fu Rousseau, il quale propose di creare in sostituzione una «religione della patria», ma poiché non vi può essere una tale comunanza in presenza di differenze sociali sostanziali, egli propose allo stesso tempo una religione dell’umanità e dell’eguaglianza, che aveva anche un suo peccato originale costituito dallà «proprietà». Se all’inizio religione della patria e religione dell’umanità andavano accompagnate nella stessa persona, come ancora in Filippo Buonarroti34 successivamente finiranno per divaricarsi per dar vita a nazionalismo e socialismo (successivamente: fascismo e comunismo), diventeranno le sorelle nemiche tanto acerrime proprio perché nate dallo stesso seme. Era già iniziato il processo della disgregazione europea. Ma il problema non fu principalmente ideologico, se l’Europa non riusci a creare una cultura comune in sostituzione del cristianesimo fu perché non riusci a svilupparsi come realtà unitaria.

La civiltà europea è giunta ad un punto morto. La sua storia iniziata con le crociate si è conclusa con conflitti insolubili, sfociati in due guerre mondiali, e infine la sottomissione agli Usa, ma non prima di aver stravolto la faccia del mondo. Chi pensa di ripartire da questa storia, dai suoi nazionalismi, magari ribattezzati rispettabilmente in «patriottismo», secondo me perde tempo. La stato nazionale va difeso, pena la disgregazione totale, ma in un’ottica rivolta al futuro, e per quanto riguarda l’Europa ciò vuol dire ricostruire le sue articolazioni nazionali intorno ad un nuovo centro, il quale sarà Russia, se è vera la profezia secondo cui Mosca è la Terza Roma. Ma questa non è prospettiva a breve termine, emergerà come orizzonte politico dopo lo scontro tra le grandi potenze che si preannuncia.

Non ritengo sia tutto da buttare della storia europea, ma neanche ci si deve nascondere il sostanziale fallimento della civiltà europea. Potremmo dire che avremmo preferito con Machiavelli uno sviluppo più classico più simile a quella di Roma, con un «progresso» meno accellerato, e più integrabile dalla psiche umana e dalle strutture sociale e non lo sviluppo abnorme, mostruoso e fuori controllo a cui siamo di fronte, tuttavia la storia non segue degli sviluppi «classici» perché attinge nella natura (nel senso di physis) che per l’essere umano è imperscrutabile nei suoi fondamenti ultimi, a cui l’essere umano può accostarsi ma mai dominare a suo piacimento. A cosa ci condurrà l’odierna situazione non lo sappiamo, di sicuro l’epoca «tranquilla», seguita alla II guerra mondiale (perché basata sulla deterrenza nucleare) durata pochi decenni sta definitivamente per concludersi. Non sappiamo cosà accadrà, di sicuro saranno conflitti enormi, proporzionati alla capacità distruttiva acquisita dell’essere umano, per affrontare i quali sarà necessaria molta, tantissima virtù per non soccombere alla fortuna.

La capacità esplicativa del paradigma machiavelliano la si può verificare utilizzandola per quanto riguarda il mondo uscito dalla II guerra mondiale. Per l’occidente, e per la stessa Italia, le cose sono andate meglio fin quando gli Usa avevano un antagonista nell’Urss, era proprio questo antagonismo a creare un ordine. Non appena tale antagonista sbiadisce, e questo avviene ben prima del «crollo del muro», comincia la decadenza del mondo occidentale del dopoguerra e nasce il «neo-liberismo».

Machiavelli ritorna d’attualità nella misura in cui si esaurisce il vantaggio tecnologico «occidentale» sul resto del mondo iniziato cinque secoli fa. Se la civiltà ortodossa, quella sinica e anche quell’indiana (sebbene meno protagonista rispetto alla prime due non corre però rischi esistenziali), hanno superato la prova della minaccia mortale costituita dall’espansionismo mondiale dell’occidente, diversamente è stato per la civiltà islamica. A causa del fatto che ha avuto la sventura di trovarsi sopra i maggiori deposito di petrolio mondiale e per debolezze intrinseche dovute alle divisioni confessionali, la civiltà islamica è l’unica rimasta sotto le grinfie dell’occidente. Il tentativo di conquista del dominio mondiale degli Usa dopo il crollo del muro ha colpito soprattutto in questo ambito distruggendo l’Iraq e poi la Libia, mentre l’Iran resta permanentemente nel mirino. Attraverso l’Arabia Saudita e il Qatar si è riusciti a manipolare i movimenti islamisti che utilizzano gli attentati terroristici tra i principali mezzi di lotta, in modo da indirizzarli principalmente contro la Russia. Dato lo sporco gioco occidentale e dato il fatto che i nostro s-governanti hanno avuto la felice idea di lasciar crescere delle enclaves di popolazioni di religione islamiche nelle città europee, con organizzazioni legate all’Arabia Saudita e al Qatar è da prevedere che gli attentati cresceranno, qualora diventassero fenomeno quotidiano con un rischio statistico significativo, potrebbe essere lo sviluppo di forme di milizia popolare. Nei recenti attentati in Europa, la presenza diffusa di cittadini armati, con armi adeguate ed addestrati ad usarle, avrebbe potuto determinare esiti differenti (cittadini nel senso autentico della parola, cioè membri di una comunità capaci di difendere se stessi e la collettività in cui vivono). Altrimenti, l’alternativa sarebbe, nel caso di crescita significativa degli attentati sarebbe la militarizzazione delle società, e la fine di quella libertà di movimento a cui siamo attaccati.

Riconsideriamo quindi il monito che risuona nei secoli lanciato da Machiavelli alle classi dominanti:

Per tanto, se tu vuoi fare uno popolo numeroso ed armato per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo: se tu lo mantieni o piccolo o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo puoi tenere, o ei diventa sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta35.

Se è vero che gli eserciti odierni hanno una ineliminabile componente di specializzazione, è anche vero che ad usare questi strumenti sono pur sempre degli uomini e in quanto tali devono avere delle motivazioni per combattere. Il culto del drone radiocomandato è un simbolo del nichilismo tecnologico in cui si sono infognate le società occidentali. Ma il drone non si guida da solo, neppure è in grado di combattere Igor il cattivo, protagonista della recente e scadentissima saga mediatica. Le società occidentali individualiste e disgregate non forniscono queste motivazioni. Man mano che si intensificherà lo scontro multi-polare Machiavelli tornerà d’attualità. L’«occidente» ha puntato tutto sulla superiorità tecnica, ma il divario tecnico è la cosa più facile da colmare, mentre è molto più difficile far risalire la china ad una società disgregata, divisa al suo interno. Il divario tecnico di cui ha goduto l’occidente è già praticamente superato, e nel prossimo scontro vinceranno le società più compatte che sapranno realizzare forme di inclusione del popolo, che sapranno trovare un popolo disposto e capace di difendere la propria nazione.

Il Progresso è un’idea scaduta, messa radicalmente in discussione da due guerre mondiali e dall’invenzione della bomba atomica. Il progresso tecnico accresce tanto le capacità costruttive quanto quelle distruttive dell’essere umano. Affidarsi al Progresso equivale ad affidarsi alla Divina Provvidenza, un concetto religioso di cui il Progresso fu una secolarizzazione. Per gli occidentali che di fronte alla superstizione del progresso hanno adottato più o meno consapevolmente l’attitudine di alcuni superstiziosi in Italia secondo cui «non è vero ma ci credo», cioè essi non credono più al Progresso, ma continuano a credere che la «civiltà occidentale» sia comunque al culmine della civiltà mondiale, forse la visione ciclica di Machiavelli ha qualcosa da dire: «…la virtú partorisce quiete, la quiete ozio, l’ozio disordine, il disordine rovina, e similmente dalla rovina nasce l’ordine, dall’ordine virtù, da questa gloria e buona fortuna»36. Non è forse l’aver pensato di essere il culmine della civiltà e di non avere più nemici una delle cause della disgregazione e decadenza delle oscietà occidentali?

La cultura americana (statunitense) ha inondato il mondo di ciarpame, ma rispetto alla cultura europea attuale (se ne esiste una visto che ormai si limita a seguire al traino quella statunitense) è possibile rovistando trovare qualcosa di utile, talvolta indispensabile. Prendiamo la questione della guerra, è da tempo ormai che la cultura europea è incapace di affrontare tale fondamentale realtà umana, mentre invece la cultura statunitense non ha bisogno di rimuoverla. C’è un’attenzione alla questione del conflitto assente nella produzione intellettuale delle nazioni europee. Ad es. non saprei indicare un testo di uno scrittore europeo contemporaneo che possa eguagliare per profondità e realismo il libro di James Hillman, Un terribile amore per la guerra, una lettura altamente consigliata che può offrire un valido aiuto per affrontare i tempi che verranno, in quanto affronta la guerra da un punto di vista filosofico e psicologico. Penso inoltre inoltre a tutta una corrente storiografica e sociologica che ha visto nella guerra il principale fattore di sviluppo dello stato moderno. Proprio il marxismo, che si dimostra in questo un frutto della decadenza europea, è stato uno dei principali promotori di questa vera e propria rimozione. Nato, il marxismo, in un momento in cui le nazioni europee si incartavano, per così dire, in conflitti regressivi, pensava di superare questa situazione rimuovendo del tutto il fattore dell’identità di gruppo, della nazione, della conflittualità tra gli esseri umani, che ha caratterizzato ogni epoca della storia umana, sostituendovi la sola conflittualità tra le classi sociali, la quale portata all’estremo avrebbe creato un mondo senza conflitti. Il marxismo ha contribuito di molto alla perdita di contatto con la realtà della cultura europea. Non che il conflitto tra le diverse classi non esiste, l’errore è isolarlo dagli altri conflitti, non metterlo in relazione ad es. a quello inter-nazionale, mentre invece è in questa relazione che acquisisce significati diversi, anche opposti (vedi in merito il mio Relatività dei conflitti. Per un nuovo paradigma nell’analisi politica).

Guardiamo con realismo alla questione del conflitto. Ciò che ha moderato il carattere sostanzialmente oligarchico e degli stati occidentali che ha creato uno spazio per le rivendicazioni salariali è stata la necessità che si è avuta del coinvolgimento popolare per condurre il conflitto con gli altri stati. Dopo la seconda guerra mondiale la presenza dell’alternativa di sistema costituita dall’Unione Sovietica aveva spinto a delle misure, soprattutto in Europa, atte a mantenere un certo consenso popolare, da ciò è sorto il cosiddetto stato sociale. Dopo che, l’Unione Sovietica cessò di essere una sfida, prima del crollo del muro, già negli anni settanta si aveva sentore del non funzionamento del sistema sovietico, ritornò il neo-liberismo. Esso è sostanzialmente una forma estrema di individualismo, come disse la Thachter «la società non esiste». Le città statunitensi, dopo il breve periodo di ordine del dopoguerra, ritornavano allo hobbesiano stato di natura. Frank M. Colman in un articolo degli anni settanta, riconducendo il sistema alla sue radici hobbesiane, coglieva benissimo la tendenza (neo)liberista (ri)nascente. Come ha scritto successivamente Colemanm, lo stato hobbesiano quale incarnazione del creazionismo biblico nullifica il mondo. Il nichilismo in cui si è conclusa la cultura «occidentale», e che di conseguenza ha infettato le culture di tutto il mondo, è frutto di un lungo percorso. Se non altro Hobbes, il suo primo e principale fautore, ebbe l’onestà di chiamarlo con il suo nome di mostro marino, Leviatano. Esso combattè con un mostro terrestre, Behemoth, che sconfisse. Da allora Leviatano si è ingrandito al punto di essere capace ora di inghiottire la Terra, ma pochi osano dichiarare la sua mostruosità.

L’ «occidente» deve prendere atto dell’esistenza di altre civiltà con cui deve convivere. Esse non possono essere sottomesse o distrutte. L’unico tentativo «serio» di impedire la rinascita delle altre civiltà è stato quello nazista. Figurarsi quindi se l’ «occidente» oggi sarebbe in grado di sottomettere la Cina o la Russia.

Bisogna ricercare un assetto che prenda atto realisticamente della competizione per le sfere d’influenza fra le potenze eredi delle grandi civiltà, compresa la possibilità di conflitti locali e a margine delle linee di faglia degli stati eredi delle grandi civiltà, senza però che questo degeneri nel conflitto di civiltà. Il timore, anzi l’orrore, per le conseguenze probabili di una collisione diretta tra civiltà è ciò che deve guidare in negativo le relazioni internazionali. Per l’«occidente» si richiederebbe una decisa inversione di rotta dall’imperialismo da cui è sorto il globalismo (cioè la tendenza al dominio mondiale) ad un territorialismo che curi l’ordine interno. La campagna elettorale di Trump è stata improntata a un «protezionismo» che sembrava riflettesse in una certa misura il desiderio di una inversione di tendenza, ma naturalmente ora eletto non sta mantenendo nessuna promessa. Dicono perché costretto dal «deep state» (cioè dal potere effettivo nascosto, il vero stato), ma temo che quei settori delle classi dominanti che hanno sostenuto Trump non hanno avuto fin dall’inizio l’intenzione di effettuare una seria inversione di marcia. Il «populismo dall’alto» non potrà mai funzionare, se non si incontra con «populismo dal basso». Mi chiedo quanto le classi dominanti possano abusare del popolo nella loro infinita arroganza, finché i cittadini non decidano che sia il tempo di dare loro una lezione. Tra l’altro negli Usa si è conservato uno dei principi fondamentali del repubblicanesimo, cioè la possibilità per il popolo di portare le armi. Di solito si vuole discreditare questo principio sacrosanto attribuendogli la responsabilità dell’alto tasso di violenza. Accusa infondata in quanto in Canada e in Svizzera, dove ugualmente la possibilità di portare liberamente le armi è sancita dalla costituzione, vi sono tassi di mortalità per le armi da fuoco simili a quelli europei, mentre in varie nazioni dell’America Latina dove non vi è questo diritto costituzionale i tassi di mortalità sono più alti di quelli statunitensi.

Un radicale cambiamento di indirizzo degli Usa dal globalismo alla cura dell’ordine interno non è possibile senza cambiamento radicale della sua struttura interna. Tale cambiamento sembra molto difficile nelle condizioni attuali, ma l’alternativa è il declino e il disfacimento interno, oppure la ricerca di una «soluzione tecnica» della crisi attraverso le micidiali armi attuali che comporterebbe una catastrofe mai vista nell’intera storia dell’umanità. Anche se non credo che comporterebbe la fine del genere umano, si tratterebbe comunque di una catastrofe di proporzioni inenarrabili.

Siamo ad una tappa decisiva, che impone un radicale cambiamento di indirizzo, di un percorso iniziato oltre tre millenni fa. Ciò che Jaspers chiama il periodo assiale andrebbe visto come un percorso in cui l’essere umano è passato dalla soggezione verso la natura al tentativo di conquistarla. Non credo che la volontà di non essere in balia della natura sia in sé sbagliata, sicuramente vanno capite bene le modalità e i rischi che essa comporta. Innanzitutto l’essere umano può conquistare uno spazio di preminenza all’interna della natura, ma non può pensare di mettersi al di sopra di essa perché da essa è generato. Come aveva ben capito Jaspers è proprio attraverso l’insensato proposito dell’essere umano che la natura ristabilisce la preminenza. «La soggezione dell’uomo alla natura è resa manifesta in maniera nuova dalla tecnica moderna. La natura minaccia di sopraffare in modo imprevisto l’uomo stesso, proprio mercé il dominio enormemente maggiore che questi ha su di essa. Attraverso la natura dell’uomo impegnato nel lavoro tecnico, la natura diventa davvero la tiranna dell’essere umano. C’e il pericolo che l’uomo sia soffocato dalla seconda natura, a cui egli da vita tecnicamente come suo prodotto, mentre può apparire relativamente libero rispetto alla natura indomata nella sua perpetua lotta fisica per l’esistenza.»

Heidegger nell’analisi della illimitata volontà di potenza a cui Nietzsche diede l’espressione più pregnante, e che non fu certo solo della Germania nazista, scrisse: «La volontà di potenza non è soltanto il modo in cui e il mezzo mediante il quale accade la posizione di valori, ma è, in quanto essenza della potenza, l’unico valore fondamentale in base al quale viene stimata qualsiasi cosa che deve avere valore o che non puo pretendere di averne. «Ogni accadere, ogni movimento, ogni divenire come uno stabilire rapporti di grado e di forza, come una lotta… . Chi è che in tale lotta soccombe è, in quanto soccombe, nel torto e non vero. Chi è che in questa lotta rimane a galla è, in quanto vince, nella ragione e nel vero. Per che cosa si lotti è, pensato e auspicato come fine con un contenuto particolare, sempre di importanza secondaria. Tutti i fini della lotta e le grida di battaglia sono sempre e solo strumenti di lotta. Per che cosa si lotti è già deciso in anticipo: è la potenza stessa che non ha bisogno di fini. Essa è senza-fini, così come l’insieme dell’ente privo-di-valore. Questa mancanza-di-fini fa parte dell’essenza metafisica della potenza. Se mai qui si puo parlare di un fine, questo fine è la mancanza di fini dell’incondizionato dominio dell’uomo sulla terra. L’uomo di questo dominio è il super-uomo (Uber-Mensch)»37.

Frank Coleman, nell’analizzare il rapporto tra Hobbes e l’Antico Testamento, ritiene che nella misura in cui «il capitalismo è ciò che genera la percezione di un difetto nella natura, è anche il capitalismo, assistito dalla scienza moderna, che mostra ad Hobbes la via d’uscita. Il modo in cui il capitalismo ci libera dalla presenza di un difetto nella natura è attraverso il progetto di derivazione biblica di dominio sulla terra. I poteri del Dio dell’Antico Testamento sono riattribuiti al capitale e alla scienza moderna che procede quindi alla produzione di un artefatto della società civile che fa da parallelo e da rinforzo all’artefatto costituito dallo stato. […] Non è tanto il ruolo politico assegnato al capitalismo e alla scienza in sostegno allo stato moderno che è di interesse, ma il concetto che di natura ad esso sottostante. L’idea di derivazione biblica della natura quale artefatto, lasciatemi sottolineare, soggiace allo stato leviatano, alla scienza moderna, e al capitalismo nella teoria hobbesiana»38.

Seppure l’Antico Testamento ha giocato un ruolo fondamentale, io credo esso vada collocato nella cornice più ampia del movimento del pensiero umano costituito dal periodo assiale. Non a caso l’Artefice, il Creatore, the Maker (secondo la lingua inglese) ha un suo antenato nel Demiurgo platonico, figura che nasce dal e allo stesso tempo intende superare il netto dualismo tra mondo delle idee e realtà sensibile. Il trascendentalismo dominante durante il periodo assiale, che si differenzia rispetto ad un periodo precedente dominato da religioni immanenti alla natura, è l’espressione della volontà dell’essere umano di porsi al di sopra della natura. Poiché ciò che trascende l’essere umano è la natura da cui esso è generato, spostare la trascendenza dalla natura allo spirito, determinando una netta contrapposizione tra materia e spirito, tra corpo e anima, significa porre la trascendenza nell’intelligenza, in ciò che l’uomo ritiene che lo ponga al sopra degli altri esseri viventi, restringendo il significato di natura che nell’accezione dei greci comprendeva l’intero cosmo, alle sole «creature» viventi.

Il peccato maggiore dei moderni, prima che due guerre mondiali e la Bomba spegnessero le illusioni, è stata la hybris. Prometeo fu trasformato in una figura positiva, mettendone in secondo piano la tragicità. Persino Goethe, il più equilibrato di tutti, non fu esente da questa distorsione. Eppure se Prometeo fu condannato ad un pena terribile non fu senza ragione. Non tanto per aver rubato il fuoco agli Dei, quanto per aver pensato in questo modo di rendere gli uomini simili ad essi. Il peccato della hybris consiste nell’illusione di poter diventare padroni della natura, dimenticando che siamo sempre soggetti ad essa. Massima è la hybris di Marx secondo il quale sarebbe stato possibile padroneggiare addirittura la Storia, prevederne gli esiti. La storia e la natura hanno le loro radici nell’Ignoto, non sono prevedibili e padroneggiabili nei loro fondamenti ultimi. Far fronte a tale condizione esistenziale è compito degli esseri umani, ma senza pensare di poter padroneggiare ciò da cui siamo stati generati. Engels, un pensatore originale scrisse che la natura «si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti in prima istanza le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto impreveduti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze (…). Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato (…). Tuttavia il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo più appropriato»39.

Quando leggiamo Machiavelli lo sentiamo come un moderno, qualcuno che parla di un mondo che è anche il nostro, ma riguardo al rapporto dell’uomo con la natura appare la diversità del «pagano» Machiavelli portavoce di una modernità diversa rispetto a quella che ha prevalso.

«Quanto alle cause che vengono dal cielo, sono quelle che spengono la umana generazione, e riducano a pochi gli abitatori di parte del mondo. E questo viene o per peste o per fame o per una inondazione d’acque: e la più importante è questa ultima, sì perché la è più universale, sì perché quegli che si salvono sono uomini tutti montanari e rozzi, i quali, non avendo notizia di alcuna antichità, non la possono lasciare a’ posteri. […]. E che queste inondazioni, peste e fami venghino, non credo sia da dubitarne; sì perché ne sono piene tutte le istorie, sì perché si vede questo effetto della oblivione delle cose, sì perché e’ pare ragionevole ch’e’ sia: perché la natura, come ne’ corpi semplici, quando e’ vi è ragunato assai materia superflua, muove per sé medesima molte volte, e fa una purgazione, la quale è salute di quel corpo; così interviene in questo corpo misto della umana generazione, che, quando tutte le provincie sono ripiene di abitatori, in modo che non possono vivervi, né possono andare altrove, per essere occupati e ripieni tutti i luoghi; e quando la astuzia e la malignità umana è venuta dove la può venire, conviene di necessità che il mondo si purghi per uno de’ tre modi; acciocché gli uomini, sendo divenuti pochi e battuti, vivino più comodamente, e diventino migliori»40.

Vediamo quindi come Machiavelli ripristina spontaneamente la trascendenza nella natura. La modernità dalla antica visione del mondo si rivela tutta in queste parole che dovrebbero essere da monito per noi viventi. Se gli esseri umani non riusciranno ad invertire la tendenza riparando ai mali prodotti da un percorso millenario, che non è condannare in sé, quale volontà dell’essere umano di non essere in completa balia della natura, ma solo nell’illusione di poter soggiogare la natura, dimenticando che essa stabilisce comunque la sua preminenza rispetto al singolo individuo.

Il Grande Falegname (per quelli del tempo della Bibbia) o il Grande Ingegnere Interstellare per quelli di oggi è un concetto antropomorfico. C’è bisogno di un concetto che indichi l’esistenza di ciò che trascende la capacità di comprensione umana o che l’essere umano può cogliere in minima parte senza poterla esaurire, possiamo chiamarlo Dio, Infinito, Natura. E’ da superare il concetto di Dio creatore della natura (che il settimo giorno si riposò), perché è una proiezione dell’illusione umana di dominare la natura.

Se non si metterà il massimo impegno a invertire una «crescita» che ormai somiglia più al diffondersi di una metastasi e ristabilire un equilibrio allora sarà la natura a farlo. Questo non vuol dire affatto porsi dalla parte della «de-crescita», quel semplicismo per cui basta mettere il segno negativo al valore della «crescita». Sapranno conquistare l’egemonia quei sistemi sociali che sapranno indicare ai popoli un diverso modello qualitativo di sviluppo.

Siamo oggi nel crepuscolo del Demiurgo. Si spera che la notte che incombe non sia illuminata da esplosioni nucleari.

Non il pacifismo, né il buonismo, questi due figli ipocriti della carità cristiana, entrambi arruolati dal globalismo, ma la virtù machiavelliana può ispirare uno spirito di antagonismo nei confronti dell’Idra le cui teste sono sparse in tutto il globo, l’Apparato di potere che rischia di devastare l’intero mondo nella sua agonia. Il pericolo maggiore è che l’Idra-Apparato voglia ricorrere alla Tecnica (nello specifico all’utilizzo delle armi atomiche su vasta scala), sulla quale ha fatto sempre affidamento prioritario, per impedire o ritardare la sua fine, perché non può ricorrere alla virtù che da tempo ha soffocato nei suoi sottoposti. Il compito prioritario degli «occidentali» sarebbe distruggere questo mostro che altrimenti li porterà alla rovina. Siamo sulla strada che porterà ad uno scontro generalizzato che ridefinirà i rapporti inter-nazionali, acquisiranno un ruolo di primo piano le società che faranno affidamento non solo sulla superiorità tecnica degli armamenti, ma sulla loro maggiore compatezza, sul maggiore attaccamento dei loro cittadini al proprio stato, al proprio sistema sociale, alla proprià civiltà. Gli occidentali questo attaccamento non l’hanno, troppo marce sono diventate le società occidentali, troppo piene di diseguaglianza e plateali ingiustizie, troppo pieni di menzogne i programmi dei partiti politici, inqualificabili sono i media occidentali si dedicano deliberatamente al rimbambimento dei loro spettatori e a suscitare tutti i più miseri particolarismi.

Prepariamoci psicologicamente e fisicamente, non esiste una netta distinzione, a tempi difficili. La cosa peggiore è la fuga dalle realtà degli «occidentali», ma per chi non vuole essere in balia degli eventi, per chi ritiene che la dignità dell’essere umano consista nel tentare almeno di far fronte ai colpi della Fortuna, Machiavelli è sicuramente un compagno di strada.

1Pocock, Il momento machiavelliano, ed. it. II vol. p. 389. Ho semplificato i riferimenti bibliografici, con gli attuali strumenti informatici è molto facile ritrovare i testi citati. Inoltre, poiché ho utilizzato la versione digitale di molti testi, ho inserito il numero di pagina solo quando era disponibile, non l’ho inserito nel caso di articoli e introduzioni. L’eventuale lettore interessato al contesto da cui sono tratte alcune citazioni non farà fatica a ritrovarlo. Vorrei infine ringraziare che ha allestito il sito http://gen.lib.rus.ec/, dove ho reperito tantissimi testi e senza il quale non avrei potuto portare a termine questo lavoro.

2 Marco Geuna, Introduzione a Skinner, La Libertà prima del liberalismo, p. XVII

3 M. Geuna, Introduzione a Philip Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, p. 28

4 «Sempre ch’io ho potuto onorare la patria mia, eziandio con mio carico et pericolo, l’ho fatto volentieri: perché l’uomo non ha maggiore obbligo nella vita sua che con quella, dependendo prima da essa l’essere, e dipoi tutto quello che di buono la fortuna e la natura ci hanno conceduto; e tanto viene a essere maggiore in coloro che hanno sortito patria piú nobile. E veramente colui il quale con l’animo et con l’opera si fa nimico della sua patria, meritamente si può chiamare parricida, ancora che da quella fussi suto offeso». Machiavelli, Discorso intorno alla nostra lingua

5 M. Geuna, Introduzione a Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo

6 Chabod, Scritti su Machiavelli, p. 77

7 «Questo esemplo, con molti altri che di sopra si sono addotti, mostrano quanta bontà e quanta religione fusse in quel popolo [romano], e quanto bene fusse da sperare di lui. E veramente, dove non è questa bontà, non si può sperare nulla di bene; come non si può sperare nelle provincie che in questi tempi si veggono corrotte: come è la Italia sopra tutte l’altre, ed ancora la Francia e la Spagna di tale corrozione ritengono parte». Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

8« …tener ricco il pubblico, povero il privato, mantenere con sommo studio li esercizi militari, sono le vie a far grande una Repubblica» Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

9William J. Connell, L’espansione come telos dello stato

10 «Se però è corretto definire Impero “una organizzazione tale che in essa l’unità non agisca in modo distruttivo e livellatore nel riguardo della molteplicità etnica e culturale da essa compresa”, a ragione si può affermare con de Benoist che l’Impero romano, sotto questo profilo è un esempio particolarmente illuminante: nell’Impero romano la tolleranza religiosa è la norma, esiste una doppia cancelleria imperiale, in Egitto si continua ad applicare il diritto indigeno spolverato di diritto greco e il diritto ebraico continua ad essere valido per gli ebrei. Ogni comunità cioè ha il diritto di organizzarsi in base alla propria tradizione, benché chi gode del diritto di cittadinanza romana (concessa con l’editto di Caracalla del 212 d. C. a tutti gli abitanti liberi dell’impero) possa sempre appellarsi alla giustizia imperiale. Insomma, il cittadino romano si trova a dipendere sia dalla città in cui è nato sia dall’amministrazione imperiale. E Maurice Sartre giunge a sostenere: “Se c’è un insegnamento che dobbiamo trarre dalla storia dell’Impero romano potrebbe essere proprio questo: la coesione di un insieme tanto disparato che si basa sul rispetto di strutture locali responsabili della gestione della vita quotidiana, guardiane delle tradizioni […] A conti fatti, il rispetto delle identità culturali è più importante, a lungo termine, del successo economico o degli imperativi strategici”, in quanto sono in gioco un modello di civiltà e un sistema di valori che si ritiene di dover difendere “contro chi vorrebbe metterli in discussione, all’esterno (i barbari) o all’interno (in particolar modo i cristiani)”». Fabio Falchi, L’impero come «grande spazio» . Vedi l’intero articolo per una distinzione tra il concetto di impero e l’imperialismo. Anche se personalmente preferisco utilizzare il termine territorialismo al posto di impero. (L’articolo si può consultare sullo spazio dell’autore in academia.edu).

11da War and State Formation in Ancient China and Early Modern Europe Victoria Tin-Bor Hui, un’apparentemente modesta ricercatrice accademica, ma dal pensiero affilato come la lama di una katana, ha elaborato un interessantissimo saggio comparativo tra la sviluppo della Europa moderna e quello della Cina antica. Putroppo, lo stato comatoso della cultura europea ha lasciato passare inosservato questo saggio che pur ha ricevuto una serie di premi in ambito accademico statunitense.

12 Victoria Tin-Bor Hui, op. cit. p. 39

13Victoria Tin-Bor Hui, op. cit. p. 28

14 Arte della guerra

15Victoria Tin Hui, op. cit. p. 140-1. La citazione di Machiavelli è da Il principe

16… giudico il mondo sempre essere stato ad uno medesimo modo, ed in quello essere stato tanto di buono quanto di cattivo; ma variare questo cattivo e questo buono di provincia in provincia, come si vede per quello si ha notizia di quegli regni antichi, che variano dall’uno all’altro per la variazione de’ costumi, ma il mondo restava quel medesimo: solo vi era questa differenza, che dove quello aveva prima allogata la sua virtú in Assiria, la collocò in Media, dipoi in Persia, tanto che la ne venne in Italia e a Roma. E se dopo lo Imperio romano non è seguíto Imperio che sia durato né dove il mondo abbia ritenuta la sua virtú insieme, si vede nondimeno essere sparsa in di molte nazioni dove si viveva virtuosamente; come era il regno de’ Franchi, il regno de’ Turchi, quel del Soldano, ed oggi i popoli della Magna, e prima quella setta Saracina che fece tante gran cose ed occupò tanto mondo, poiché la distrusse lo Imperio romano orientale. In tutte queste provincie adunque, poiché i Romani rovinorono, ed in tutte queste sétte è stata quella virtú, ed è ancora in alcuna parte di esse, che si desidera e che con vera laude si lauda.

  1. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

17 Pocock, Introduzione a James Harrington The Commonwealth of Oceana and A System of Politics

18 M. Geuna, Rousseau interprete di Machiavelli

19 Victoria Tin-Bor Hui, op. cit. p.. 194

20 Max Weber, Storia economica, p. 227-8

21Crawford Brough MacphersonLibertà e proprietà alle origini del pensiero borghese: la teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke

22Idem

23 Kant, Il conflitto delle facoltà

24Come sintetizza il titolo, From the state of princes to the person of the state, del capitolo finale del II vol. di Vision of Politics

25Diversi testi di Marco Geuna sono disponibili sul sito academia.edu

26Gli interventi di Massimo Morigi sul Repubblicanesimo Geopolitico sono stati pubblicati dal sito http://corrieredellacollera.com

27https://www.youtube.com/watch?v=VeOUHYC8zq8&t=533s

28http://www.cogitoergo.it/l%E2%80%99esercito-esaurito/

29E avvengaché quelli suoi re perdessono l’imperio, per le cagioni e modi discorsi; nondimeno quelli che li cacciarono, ordinandovi subito due Consoli che stessono nel luogo de’ Re, vennero a cacciare di Roma il nome, e non la potestà regia: talché, essendo in quella republica i Consoli e il Senato, veniva solo a essere mista di due qualità delle tre soprascritte, cioè di Principato e di Ottimati. Restavale solo a dare luogo al governo popolare: onde, sendo diventata la Nobilità romana insolente per le cagioni che di sotto si diranno si levò il Popolo contro di quella; talché, per non perdere il tutto, fu costretta concedere al Popolo la sua parte e, dall’altra parte, il Senato e i Consoli restassono con tanta autorità, che potessono tenere in quella republica il grado loro. E così nacque la creazione de’ Tribuni della plebe, dopo la quale creazione venne a essere più stabilito lo stato di quella republica, avendovi tutte le tre qualità di governo la parte sua. E tanto le fu favorevole la fortuna, che, benché si passasse dal governo de’ Re e delli Ottimati al Popolo, per quelli medesimi gradi e per quelle medesime cagioni che di sopra si sono discorse, nondimeno non si tolse mai, per dare autorità agli Ottimati, tutta l’autorità alle qualità regie; ne si diminuì l’autorità in tutto agli Ottimati, per darla al Popolo; ma rimanendo mista, fece una republica perfetta: alla quale perfezione venne per la disunione della Plebe e del Senato

30Polibio, Storie (Libro VI) L’eccellenza della costituzione romana

31Slavery and Social Death

32Sull’individualismo di Marx vedi Louis Dumont, Homo aequalis

33Michael Hardt (Autore), Antonio Negri (Autore), A. Pandolfi (a cura di), D. Didero (a cura di), Impero

34Vedi in merito il lavoro di James H. Billington, Fire in the Minds of Men: Origins of the Revolutionary Faith

35 Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

36 N. Machiavelli, Istorie fiorentine

37 Nietzsche

38The prosthetic God: Thomas Hobbes, the bible, and modernity

39Dialettica della natura

40Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

http://www.gennaroscala.it/2017/06/21/il-paradigma-machiavelliano-per-la-definizione-di-una-teoria-politica-non-ideologica/

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LA STRATEGIA USA NEL MONDO RACCONTATA DA GEORGE FRIEDMAN NEL 2015 E DA ME NEL 2022, di Antonio de Martini

George Friedman é il miglior analista strategico vivente negli USA, fondatore e direttore per parecchi lustri dell’agenzia STRATFOR che ha offerto i migliori approfondimenti fino a che l’ha diretta personalmente.

Nel 2015 in una conferenza a Chicago, tra esperti, ha spiegato la strategia generale degli Stati Uniti per mantenere l’egemonia mondiale. Ecco in inglese, con sottotitoli in francese, in un filmato You tube estratti della sua visione, mai contestata da alcuno. Lascio a lui il compito della illustrazione dei principi che considero realistica e solidamente fondata.

Una prova di quanto qui detto e previsto é certamente il conflitto ucraino e il successivo atteggiamento americano nei confronti della Unione Europea e della Brexit. Se ne deduce che interpretare correttamente gli avvenimenti e le scelte riguardanti il conflitto ucraino é di importanza vitale per noi e per il futuro del continente.

CAPIRE LE LEZIONI DELLA NUOVA GUERRA UCRAINA

L’alluvione di chiacchiere, sovente mendaci, vanitose o inconcludenti, specie in Italia da parte di coloro che non sono riusciti a collocarsi come esperti di pandemia, ha impedito a una pubblica opinione distratta dall’endemico qualunquismo, di ascoltare le poche considerazioni logiche e a mente fredda sulle ragioni dello scontro, sulle strategie e sulle tattiche impiegate e identificare, distinguendo, quali siano gli interessi rispettivamente degli USA, dell’Europa ( EU) e dell’Italia.

Si naviga a vista, annaspando tra l’etica a buon mercato e la speranza di non essere creduti. Sempre più vero il detto che ” é difficile far capire qualcosa ad un uomo quando il suo stipendio dipende dal non capire.”

Di conseguenza abbiamo i “no war “che si affiancano ai “no vax” e i possibilisti che non comprano più i quotidiani per non farsi imbottire di comunicati – diretti e indiretti- emessi da scarti di leva anche professionale, privi di esperienza militare, digiuni di geografia, di storia e privi di conoscenza delle lingue più utili ( inglese, ucraino e russo), senza quindi accesso diretto alle fonti.

I cattolici, guerrafondai per non perdere il posto in Rai, stati messi in fuori gioco dall’intervento del Papa e i fautori della NATO hanno strillato tanto tempestivamente e tanto in falsetto da far capire a tutti che i ragazzi del coro erano stati istruiti con cura, ma con tonalità da stadio.

Proviamo a mettere ordine nel buio in cui brancoliamo noi italiani ?

GLI ANTEFATTI

Per facilitare la comprensione di fatti e antefatti sfuggiti ai più, ecco qui sotto, a disposizione per consultazione, una serie di links di questo blog ( ma ce ne sono anche altri che mi sono stancato di radunare. Potete cercarli clikkando in alto a sinistra nella finestra ” cerca”) che vi riportano al 2014 e alle omissioni dei media italiani. La crisi era prevista e prevedibile, l’intervento armato russo più volte minacciato. Nessuno se ne é preoccupato. Nessuno ha capito che una guerra in Europa, avrebbe significato la perdita dell’ubi consistam della Unione Europea, diventata l’avatar della NATO.

La disinvolta smentita al primo solenne ” mai più guerre in Europa” pronunziato dal 1945 in poi da ogni singolo politico del continente, implica fatalmente una perdita di credibilità anche dell’altro “ mai più” che in questi giorni riecheggia per ogni dove sulla shoà. Presto tradiranno anche quello.

https://corrieredellacollera.com/2014/02/25/ucraina-prima-pedina-della-teoria-del-domino-o-prova-di-una-nuova-yalta-a-geometria-variabile-di-antonio-de-martini/

https://corrieredellacollera.com/2014/02/28/ucraina-tra-usa-e-russia-con-germania-mezzana-dalla-ribellione-alla-secessione-a-di-antonio-de-martini/

https://corrieredellacollera.com/2014/02/15/la-sfida-usa-russia-per-lucraina-intanto-pagano-i-paesi-brics-con-svalutazioni-selvagge-brasile-india-cina-sud-africa-di-antonio-de-martini/

https://corrieredellacollera.com/2014/03/14/la-russia-riponde-allamerica-con-una-proposta-globale-di-sfruttamento-economico-sostenibile-dellasia-sebastopoli-e-ormai-come-sagunto-ma-questa-volta-io-tifo-per-annibale-di-antonio-de-marti/

https://corrieredellacollera.com/2014/03/02/crisi-ucraina-in-crescendo-per-supplire-alla-impossibilita-militare-di-intervento-n-a-t-o-e-soddisfare-la-fazione-bellicista-di-antonio-de-martini/

https://corrieredellacollera.com/2014/03/08/ancora-su-ucraina-italia-stati-uniti-ma-scomodiamo-carl-schmitt-e-la-grande-bellezza-scegliete-di-antonio-de-martini-e-massimo-morigi/

Le ragioni della scelta del punto di attacco all’impero russo

A) La ragione principale é che l’Ucraina si prestava come zona di scontro ideale per via dell’esistenza di una resistenza ed un odio sordo accumulati durante gli anni della industrializzazione forzata che ha distrutto la piccola proprietà agricola e il latifondo, per dare vita a grandi complessi industriali ormai cadenti; l’esistenza di reduci della guerra mondiale che avevano combattuto con la Wehrmacht e anche con le SS contro l’odiato Stalin (oltre 250.000 uomini, ottocentomila se consideriamo logistica e retrovie), la continuità nel tempo dell’organizzazione Gehlen e dei partigiani nazionalisti, che fornirono subito dopo la concessione dell’indipendenza, una base storica e politica all’aspirazione, legittima, dell’Ucraina ad allontanarsi dalla sua ex potenza coloniale. Meglio avere il padrone a novemila Km da Kiev che a novecento. Il contrasto tra queste due Ucraine ha fornito il brodo di coltura dello scontro cui ha contribuito la generale corruttela del paese, la sua relativa vicinanza a Mosca, gli errori politici di Nikita Krusciov che fece tutta la sua carriera politica come segretario del partito ucraino e che cercò di ammansire gli ucraini con particolari riconoscimenti e annacquare il loro nazionalismo con attribuzioni di territori russofoni ( Crimea e e Donbass ) all’Ucraina con una rettifica delle frontiere verso est immettendo alcuni milioni di russi. Riteneva impensabile una secessione.

Anche il fatto che l’urto militare sia stato iniziato – e maldestramente- dai russi ha giovato alla narrativa propagandistica americana, lungamente preparata e ammirabilmente dispiegata.

B) I rapporti privilegiati dell’URSS ( che fu il primo paese a riconoscere il nuovo stato ebraico) con lo stato di Israele e il via vai creatosi con l’autorizzazione all’emigrazione, rese il paese facilmente permeabile in entrambi i sensi quella frontiera rispetto ad altre ( es il Caucaso) da parte di elementi estranei. Anche la presenza sul territorio ucraino di significative minoranze polacche , rumene e ungheresi facilitavano la creazione di spinte centrifughe.

C) la vicinanza – a partire dal 1990/91- delle frontiere occidentali e segnatamente quella polacca.

D) La riconosciuta validità della “ strategia Schulenburg“, dal nome del capo del “Dipartimento 13” del ministero degli esteri del Reich incaricato di amministrare i territori russi occupati che ha costituito un precedente. Si legga ( editore SugarCo) “Fra Hitler e Stalin” di Hans von Herwarth, segretario di Schulenburg miracolosamente scampato alla forca.

Schulenburg, dopo anni di vita in Russia, dove era nato, elaborò e mise in opera l’idea che “per battere i russi, servono altri russi e ogni guerra alla Russia, per riuscire deve essere trasformata da guerra in guerra civile”. La strategia ebbe successo, tanto che Hitler ne frenò il reclutamento per eccesso di riuscita perché – contrastava con la filosofia nazista degli untermenschen slavi – e, scoperto che Friederik Schulenburg ( e il suo interfaccia militare Claus Von Stauffenberg) erano anche l’anima dell’attentato del 20 luglio 1944 , impiccò tuttifornendo un alibi antinazista postumo agli USA per utilizzare le reti clandestine create durante la guerra dai tedeschi.

In questa mia intervista a un canale you tube di qualche settimana fa, cerco di illustrare la situazione.

n parole povere entrambi i contendenti sul terreno hanno accettato la sfida ed entrambi hanno fallito nella speranza di realizzare vittorie lampo. Siamo allo stallo. Nel primo conflitto mondiale i contendenti impiegarono quattro anni ad accorgersene.Nel secondo i tempi si allungarono per via dell’imposizione della resa senza condizioni che costrinse a combattere fino alla fine. Oggi si cerca di prolungare la guerra fornendo armi e illusioni all’Ucraina, ma evitando il coinvolgimento diretto.

Lo scopo degli USA é provocare un salasso di uomini e denari fatale alla Russia, farla diventare – uso le parole che Winston Churchill pronunziò a proposito nelle rappresaglie provocate dagli inutili attentati del SOE britannico – “ il popolo più odiato d’Europa” con drammatici resoconti di “bombardamenti sulla popolazione inerme” ( che però la propaganda dipinge come intrepido e destinato alla vittoria) e soprattutto – come spiegato da Friedman nel suo video– per scavare un abisso di morti e inimicizia tra la Germania e la Russia che abbinando tecnologie e risorse naturali relegherebbero gli USA a potenza di terza fila.

COSA SUCCEDE ADESSO: L’ALLARGAMENTO?

Nel suo sforzo di far durare la guerra gli USA rischiano di estenderla in direzioni non volute distruggendo quel che resta della Unione Europea, già mutilata della secessionista Gran Bretagna, certamente incoraggiata dal governo d’oltreatlantico. Altri sono pronti a seguire, come il gruppo di Visegrad ( filo britannico, composto da Repubblica Ceca ( che ha appena eletto presidente ìl’ex comandante NATO, Slovacchia, Polonia e l’Ungheria) e l’Italia che litigando con pretesti speciosi con la Francia, tendono a isolare Francia e Germania che sono state il nucleo motore della maldestra costruzione europea che va smantellata per evitare che seguano la Germania nella marcia verso est. Quanto conti l’Europa per gli USA, é dimostrato dall’ormai famoso ” fuck Europe” della plenipotenziaria del Dipartimento di stato, Victoria Nuland intercettata durante la predisposizione del governo filo NATO uscito dalla ” rivolta di piazza Maidan.

Continuare ad alimentare la guerra anche con sole armi e denari, comporta – oltre al pericolo di sfaldamento della coalizione occidentale – il rischio concreto di essere bombardati proprio come é accaduto nei giorni scorsi all’Iran che é apparso – negano, ma non vengono creduti – come il fornitore di armi ( Droni a basso costo e in gran numero per saturare le difese elettroniche) della Russia. Chi la fa, l’aspetti e l’anello più debole della NATO ( siamo chiamati a Bruxelles, ” l’anello di spaghetti”) siamo noi italiani.

Le punzecchiature polemiche di Putin e Medvevdev all’Italia servono a polemizzare senza attaccare la Germania che viene trascinata quasi a forza nel campo occidentale, mentre Svezia e Finlandia , consce di rappresentare un possibile prossimo fronte, hanno di molto raffreddato il loro entusiasmo verso l’adesione alla NATO e hanno inscenato roghi del Corano – e ammesso ufficialmente di finanziare il PKK – per passare la patata bollente del rifiuto a Erdogan che pur di essere protagonista accetta anche parti di ” cattivo”. La Turchia, bastione militare dell’ala destra dello schieramentoNATO, é già ostentatamente neutrale e l’unica che si adopera per trovare scappatoie negoziali. Al pericolo di allargamento dello scontro al contenzioso Serbia-Kosovo, ho dedicato un articolo tre giorni fa. In Israele sono ripresi gli scontri cruenti coi palestinesi e il Papa , quando invoca la cessazione delle ostilità ormai chiede tregua ” su tutti i fronti”.

IL RIDIMENSIONAMENTO USA?

Per parte loro, i russi hanno dato cenno, prima di volontà di prolungamento dello scontro con il reclutamento di 300.000 riservisti, adesso di prepararsi all’allargamento del conflitto con la chiamata alle armi di altri cinquecentomila uomini, ma dettaglio trascurato volutamente dagli occidentali, l’allarme nucleare lo ha dato alle truppe del Pacifico, dando a intendere che mira a rappresaglie casomai verso gli Stati Uniti e non verso l’Europa.

Gli resta da capire che gli USA non possono essere colpiti nel portafoglio, dato che stampano dollari senza limiti, ma che devono essere colpiti nell’immagine e nel prestigio come fece Ben Laden con un attacco nel cuore di Manhattan.

La Marina americana si vanta di essere la regina degli oceani come l’Inghilterra di un tempo, ma non vedo nuovi Nelson all’orizzonte. Il comandante della V flotta USA ( di stanza a Bahrein) si é suicidato di recente e la flotta del Pacifico é in ristrutturazione dopo una serie di incidenti degni della scoperta della tomba di Tutankamon.

Una iniziativa, la meno cruenta possibile, che chiuda il canale di Panama separando flotte e oceani, oppure nello stretto di Hormuz ( golfo persico) che interrompa il 30% dei flussi di greggio del mondo, distruggerebbe la politica dell’embargo e il presto dell’America in uno con le residue speranze di Biden di restare alla Casa Bianca.

SCELTE PER L’EUROPA E L’ITALIA.

Tra una Europa strutturata come oggi e gli USA, credo la scelta di giocare la carta americana sia obbligata, a condizione che sia a fronte di contropartite militari, politiche ed economiche concrete e non promesse all’inglese.. Diversa sarebbe la situazione in cui il direttorio franco tedesco si rendesse conto della necessità di riconoscere l’importanza politica, strategica ed economica di spostare il baricentro verso il sud e il mediterraneo con un ruolo centrale a Italia, Spagna, eTurchia, nonché al Maghreb che secoli di corteggiamento e le presenti risorse minerarie rendono omogeneo con noi.

L’Italia potrebbe intanto dare un segnale di serietà rinunziando da subito all’accordo con Inghilterra e Giappone per progettare l’aero da combattimento del futuro. Che senso ha dire che siamo un paese serio che tiene fede alla parola con gli alleati, quando si progetta “l’aereo del futuro” con due paesi estranei alla UE mentre si progetta contemporaneamente di “diventare l’hub energetico del centro europa? Che senso ha privarsi di una delle cinque( inadeguate e insufficienti) batterie antiaeree con cui dovremmo difendere l’intero territorio italiano per regalarla a un paese che viene bombardato da oltre un anno ( stando a quanto detto dai media)…Che senso ha annunziare previsioni economiche quando si sono sbagliate tutte quelle fatte negli ultimi venti anni? Che senso ha che il Consiglio supremo di Difesa chieda alla NATO un rafforzamento dell’ala sud dell’alleanza quando in contemporanea mandiamo i nostri carri armati nel nord Europa e i nostri aerei in Romania?

Ecco , la nostra presidente del Consiglio Meloni, fa bene a non voler scimmiottare il fascismo, ma dio ci salvi se intende (o intendono?) scimmiottare il ” La guerra continua” di Pietro Badoglio buonanima.

https://corrieredellacollera.com/2023/01/31/la-strategia-usa-nel-mondo-raccontata-da-george-friedman-nel-2015-e-da-me-nel-2022/

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Coronavirus_Qualche risposta ai tanti perché, a cura di Giuseppe Germinario

Proseguiamo con la nostra carrellata sui diversi approcci alla crisi pandemica adottati dai vari paesi e spesso dalle varie regioni all’interno di essi. All’articolo iniziale (iniziatico?) di Roberto Buffagni, al podcast di Gianfranco Campa, agli elzeviri di Massimo Morigi, ai contributi preziosissimi di Giuseppe Imbalzano, alle riflessioni di T.K. de la Grange, ai contributi esterni, tutti raccolti in un apposito dossier, segue questo articolo dedicato alla Germania. Una modalità di azione sottotraccia quella adottata dal ceto politico e dalla classe dirigente dominanti di quel paese. Una costante delle tattiche adottate a partire dalla disastrosa disfatta militare del ’45. A cominciare dalla manipolazione di dati poco realistici. Non si tratta solo della casuale disparità dei criteri di rilevazione frutto ed indice della eterogeneità insopprimibile della galassia europea ed europeista e delle sue esigenze politiche. E’ probabilmente un accorgimento, certamente meno guascone rispetto a quello adottato dai francesi, teso a contenere l’allarmismo e il rischio di destabilizzazione interna, a giustificare misure meno draconiane e meno selettive nell’ambito delle relazioni sociali e soprattutto economiche e a porre, quindi, il paese in una posizione migliore rispetto a quella di paesi dai comportamenti più schizofrenici e massivi nell’agone internazionale, in particolare geoeconomico. Pur tuttavia, non si tratta di un mero espediente. L’articolo qui in basso rivela chiaramente anche il substrato di una gestione della crisi pandemica decisamente più accorta e preveggente sia nelle modalità operative che nella tempistica adottate. Probabilmente queste misure, in aggiunta alla annunciata valanga di sovvenzioni e di protezioni del proprio apparato economico, non saranno sufficienti a parare i terribili colpi di là da venire. La Germania è un paese troppo controllato, subordinato politicamente e militarmente, con una area di influenza diretta in un Est Europeo legato di contro a doppio filo piuttosto agli statunitensi ed una economia dai volumi e da una organizzazione impressionante, ma tecnologicamente poco innovativa e troppo vulnerabile dal punto di vista finanziario, troppo legata ai settori più speculativi della finanza anglosassone, troppo esposta alle crescenti instabilità e chiusure del commercio internazionale. Se a questo si aggiunge la sua atavica propensione a confondere le mire egemoniche in Europa con la predazione e l’annichilimento puri e semplici dei propri “fratelli europei” specie latini, non ci vorrà molto a valutare la effettiva dimensione e le conseguenze del suo progressivo e fatale isolamento. Al suo cospetto rifulge ancora di più la drammatica e sconsolante condizione nella quale si sta progressivamente cacciando il nostro paese. Un paese ormai da trenta anni dilaniato da conflitti politici tanto più virulenti quanto più privi di strategie e tattiche in grado di offrire prospettive nazionali dignitose e autonome. Un salto di qualità mancato e un degrado già ben avviato negli anni ’80 ma che ha conosciuto la propria apoteosi con l’epurazione di Tangentopoli e il progressivo emergere di un ceto politico particolarmente abile nell’annichilire ed asservire gli apparati e le competenze pubblici alle proprie baruffe di fazione. Una sterilità ed una miseria che ha trovato una ulteriore occasione di prevaricazione con questa crisi pandemica. Uno scontro ormai sordo e feroce disposto a sacrificare e strumentalizzare la stessa dedizione ed il coraggio manifestati dalle categorie professionali chiamate ad affrontare i rischi della crisi sanitaria. Uno scontro asimmetrico nella posizione dei belligeranti che lascia presagire la prevalenza di una fazione, quella più compromessa politicamente ma meno esposta amministrativamente, piuttosto che la possibilità di una emersione di una nuova classe dirigente o quantomeno di una vecchia almeno rinsavita, più accorta e autorevole. Da una parte le forze della maggioranza governativa detengono il controllo e quindi la più grave responsabilità politica di una gestione a dir poco contraddittoria e intempestiva della crisi. Appunto una responsabilità politica che facilmente potrà sfuggire alle pendenze giudiziarie e ai desideri di rivalsa delle vittime della mala conduzione che già si manifestano numerosi. Una elusione delle responsabilità  culminata nella mancata avocazione di poteri speciali, nella assenza di direttive univoche e cogenti, nella sovrapposizione di incarichi esecutivi a persone chiaramente inadatte e spesso compromesse con il processo di debilitazione delle strutture pubbliche. Figure di secondo piano destinate a non oscurare il futuro politico dei protagonisti e una insipienza a suo modo funzionale a scaricare le responsabilità sui centri amministrativi più esposti. Un rituale del cerino acceso destinato a rimanere in mano ai responsabili regionali e amministrativi. Lo stesso gioco se si vuole che, a parti rovesciate, sta probabilmente giocando Trump con i suoi avversari democratici, impelagati nel focolaio epidemico di New York. Ma con una differenza sostanziale: gli Stati Uniti sono appunto una Federazione di Stati, non di regioni dalle competenze sovrapposte. Dall’altra una opposizione, in particolare la Lega, sua componente maggioritaria, reduce già da numerosi e clamorosi errori politici che ne hanno minato credibilità e sicumera e gestore a buon titolo di una regione, il Veneto, capace di affrontare decorosamente l’emergenza, ma anche della Lombardia, epicentro della epidemia e degli errori di gestione più marchiani e dolorosi. Nei tempi ravvicinati vincerà probabilmente chi detiene il pallino dei mezzi di comunicazione e chi potrà eludere l’agorà giudiziaria. Su questo il centrosinistra è chiaramente avvantaggiato di parecchie spanne. Bisogna dar atto della resistenza di Conte alle profferte capziose degli ologrammi di Bruxelles di utilizzo dei fondi del MES e di prestiti obbligazionari con garanzie dei singoli stati; come pure del tentativo di fronte comune dei paesi mediterranei. Tentativo per altro già messo in forse dal comportamento ambiguo e subdolo di Macron, quindi della Francia. La partita non è ancora chiusa; qualche incrinatura si intravede anche nella stessa Germania e Olanda. L’esempio preclaro della devastazione della Grecia e del vacuo successo del miracolo spagnolo sono un avvertimento, un incubo chiaro più alle popolazioni che alle élites dominanti. Lo scontro all’ultimo sangue tra reciproche debolezze, il nocciolo dell’acceso scontro politico in Italia, non lascia presagire molto di buono. I ricatti, le minacce e le ritorsioni possono essere il preludio ad un ennesimo e clamoroso cedimento, ad una definitiva capitolazione seguiti da proteste ed opposizioni di comodo. Vedremo cosa succederà domani, 7 aprile. Sorge a questo punto un interrogativo angosciante. Come possono forze politiche paralizzate da una crisi sanitaria tutto sommato circoscrivibile, se gestita a suo tempo con maggiore accortezza, contrattare al meglio la propria posizione in Europa o gestire il piano B della uscita dall’euro e dalla attuale Unione Europea senza cadere in una visione assistenzialistica e parassitaria, residuale apparentemente alternativa all’attuale? Già in almeno tre occasioni l’attuale ceto politico è mancato all’appuntamento, a volte persino offerto, negli ultimi tre anni. La stessa sottovalutazione delle implicazioni geopolitiche del comunque ben accetto sostegno umanitario lascia intravedere il pressapochismo dei passi intrapresi. Si blatera tanto di volerci liberare della signoria statunitense, ignorandone le pesanti implicazioni; in realtà si fa fatica a liberarsi persino dalle angherie e dalle grettezze del suo maggiordomo tedesco, non ostante le spinte e gli incoraggiamenti nemmeno troppo velati a saltare il fosso. Al peggio non si intravede la fine. Scusate lo sfogo. Non saremo profeti in patria, almeno in Russia hanno avuto modo di apprezzare e riconoscere la competenza professionale dell’esperto che su questo blog ci ha illuminato di cotanta sagacia e supponenza nazionali. Un sincero augurio per la nuova avventura. Giuseppe Germinario

Ecco perché in Germania si muore molto meno per coronavirus rispetto all’Italia

In Germania il tasso di letalità è 1,4%, in Italia 12,5%

In Germania la percentuale delle persone che muoiono per coronavirus è bassissima rispetto ai casi rilevati in confronto alle percentuali di letalità indicate dai dati ufficiali in Italia. In parte la differenza può essere provocata da dati ufficiali poco affidabili. Ma questa da sola non può essere una spiegazione sufficiente.

Una inchiesta del NYT di cui riportiamo la traduzione di ampi stralci ci aiuta a capire perché. Ne emerge purtroppo un quadro impietoso per l’Italia

I “corona-taxi”

Heidelberg, Germania. Li chiamano “taxi corona”: medici equipaggiati con indumenti protettivi guidano per le strade deserte per controllare i pazienti che sono a casa. Prendono l’esame del sangue cercando segni che il paziente possa avere il covid19 e che le sue condizioni possano aggravarsi. Possono suggerire il ricovero in ospedale anche a un paziente che ha solo sintomi lievi: le possibilità di sopravvivere sono notevolmente più alte se si affronta il virus all’inizio.

I taxi corona di Heidelberg sono solo una delle iniziative. Ma illustrano un livello di impegno di risorse pubbliche nella lotta contro l’epidemia che aiuta a spiegare uno degli enigmi più intriganti della pandemia: perché il tasso di mortalità della Germania è così basso?

Un tasso di letalità inferiore di 9 volte a quello dell’Italia

Il virus e la malattia risultante, Covid-19, hanno colpito la Germania con forza: secondo la Johns Hopkins University il paese ha più di 90.000 infezioni confermate in laboratorio al 4 di aprile, più di qualsiasi altro paese tranne gli Stati Uniti, l’Italia e Spagna.

Ma con circa 1.300 morti, il tasso di letalità in Germania si attesta all’1,4 per cento, rispetto al 12,5 per cento in Italia, a circa il 10 per cento in Spagna, Francia e Gran Bretagna, al 4 per cento in Cina e al 2,5 per cento negli Stati Uniti. Anche la Corea del Sud, un modello di riferimento internazionale per la lotta al covid19, ha un tasso di letalità più elevato, l’1,7 per cento.

“Si è parlato di un’anomalia tedesca”, ha detto Hendrik Streeck, direttore dell’Istituto di virologia presso l’ospedale universitario di Bonn. Il professor Streeck ha ricevuto chiamate di colleghi dagli Stati Uniti e altrove. “‘Che cosa stai facendo diversamente?” mi chiedono. “Perché il tuo tasso di letalità è così basso?”

Ci sono diverse risposte dicono gli esperti, differenze molto reali nel modo in cui il paese ha affrontato l’epidemia rispetto ad altri.

Molti più test = molti casi rilevati in tempo

Una delle spiegazioni per il basso tasso di letalità è che la Germania ha testato molte più persone rispetto alla maggior parte delle nazioni. Ciò significa che individua più persone con pochi o nessun sintomo, anche tra i più giovani, aumentando il numero di casi noti ma non il numero di vittime.

Una delle conseguenze del gran numero di test è che l’età media delle persone rilevate come infette è inferiore in Germania rispetto a molti altri paesi. Molti dei primi pazienti hanno preso il virus nelle stazioni sciistiche austriache e italiane ed erano relativamente giovani e sani, ha detto il professor Kräusslich. “È iniziato come un’epidemia di sciatori”, ha affermato.

Poi con il diffondersi delle infezioni, sono state colpite più persone anziane e anche il tasso di letalità, solo lo 0,2 per cento due settimane fa, è aumentato. Ma l’età media di chi si sa che contrae la malattia rimane relativamente bassa, 49 anni in Germania, mentre in Italia è 62 anni secondo i rapporti ufficiali.

La Germania sta conducendo circa 350.000 test di coronavirus a settimana, (oltre 3 volte di più che in Italia) e comunque molto più di qualsiasi altro paese europeo. Test precoci e diffusi hanno permesso alle autorità di rallentare la diffusione della pandemia isolando i casi infettivi. Ha inoltre consentito di somministrare il trattamento salvavita in modo più tempestivo.

Preparati in anticipo alla pandemia

A metà gennaio, molto prima che la maggior parte dei tedeschi pensasse al virus, l’ospedale Charité di Berlino aveva già sviluppato un test e pubblicato la formula online.
Quando la Germania registrò il suo primo caso di Covid-19 a febbraio, i laboratori di tutto il paese avevano accumulato uno stock di kit di test.

Diagnosi precoci = meno morti

“Il motivo per cui in Germania abbiamo così poche morti al momento rispetto al numero di infetti può essere ampiamente spiegato dal fatto che stiamo facendo un numero estremamente elevato di diagnosi di laboratorio”, ha affermato il dott. Christian Drosten, capo virologo di Charité , il cui team ha sviluppato il primo test.

“Quando ho una diagnosi precoce e posso curare precocemente i pazienti (ad esempio collegarli a un ventilatore prima che le loro condizioni si deteriorino) – le possibilità di sopravvivenza sono molto più elevate”, ha affermato il professor Kräusslich.

Costanti test al personale medico

Il personale medico, particolarmente a rischio di contrarre e diffondere il virus, viene regolarmente testato. Per semplificare la procedura, alcuni ospedali hanno iniziato a eseguire test di blocco, utilizzando i tamponi di 10 dipendenti e dando seguito a test individuali solo se si riscontra un risultato positivo.

Da aprile test gratuiti su larga scala per trovare i possibili focolai

Alla fine di aprile, le autorità sanitarie hanno anche in programma di lanciare uno studio su larga scala, testando campioni casuali di 100.000 persone in Germania ogni settimana per valutare dove si sta accumulando immunità.

Una chiave per garantire test su larga scala è che i pazienti non pagano nulla per questo, ha affermato il professor Streeck. Questa, ha detto, è una notevole differenza con gli Stati Uniti nelle prime settimane dell’epidemia. “È improbabile che negli USA un giovane senza assicurazione sanitaria e prurito alla gola si rechi dal medico e quindi rischia di infettare più persone”, ha affermato.

Il caso della scuola di Bonn

Un venerdì di fine febbraio, il professor Streeck ha ricevuto la notizia che un paziente del suo ospedale di Bonn si era rivelato positivo per il coronavirus: un uomo di 22 anni che non aveva sintomi ma il cui datore di lavoro (una scuola) gli aveva chiesto di fare un test dopo aver saputo che aveva preso parte a un evento di carnevale in cui qualcun altro si era dimostrato positivo.

Nella maggior parte dei paesi, compresi Italia e Stati Uniti, i test sono in gran parte limitati ai pazienti più malati, quindi probabilmente all’uomo sarebbe stato rifiutato un test.

Non in Germania. Non appena i risultati del test sono arrivati, la scuola è stata chiusa e a tutti i bambini e il personale è stato ordinato di rimanere a casa con le loro famiglie per due settimane. Sono state testate circa 235 persone.

Test e monitoraggio sono la strategia che ha avuto successo in Corea del Sud e abbiamo cercato di imparare da ciò”, ha affermato il professor Streeck.

La Germania ha anche imparato a correggere i propri errori presto: la strategia di tracciamento dei contatti avrebbe dovuto essere utilizzata in modo ancora più aggressivo, ha affermato.

Tutti quelli che erano tornati in Germania da Ischgl, una stazione sciistica austriaca che aveva avuto un focolaio, per esempio, avrebbero dovuto essere rintracciati e testati, ha detto il professor Streeck e non lo abbiamo fatto ma poi abbiamo imparato.

Un robusto sistema di assistenza sanitaria pubblica

Prima della pandemia di coronavirus in tutta la Germania, l’ospedale universitario di Giessen aveva 173 letti di terapia intensiva dotati di ventilatori. Nelle ultime settimane, l’ospedale ha cercato di creare altri 40 posti letto e ha aumentato il personale che era in standby per lavorare in terapia intensiva fino al 50%.

“Abbiamo così tanta capacità ora che stiamo accettando pazienti da Italia, Spagna e Francia”, ha dichiarato Susanne Herold, specialista in infezioni polmonari che ha supervisionato la ristrutturazione. “Siamo molto forti nell’area della terapia intensiva.”

In tutta la Germania, gli ospedali hanno ampliato le loro capacità di terapia intensiva e sono partiti da un livello elevato. A gennaio la Germania aveva circa 28.000 letti di terapia intensiva dotati di ventilatori, cioè 34 ogni 100.000 persone, quasi 3 volte di più che in Italia dove il rapporto è di 12 ogni 100.000 persone.

Ora ci sono 40.000 letti di terapia intensiva disponibili in Germania.

Fiducia nel governo

La cancelliera Angela Merkel ha comunicato in modo chiaro, calmo e regolare durante la crisi, imponendo misure di distanziamento sociale sempre più rigorose nel paese. Le restrizioni, che sono state cruciali per rallentare la diffusione della pandemia, hanno incontrato poca opposizione politica e sono ampiamente seguite.

Le valutazioni di approvazione verso la Merkel sono aumentate vertiginosamente.

“Forse la nostra più grande forza in Germania”, ha affermato il professor Kräusslich, “è il processo decisionale razionale ai massimi livelli di governo combinato con la fiducia di cui il governo gode nella popolazione”.

Una fiducia che riesce a guadagnarsi grazie ai fatti.

https://www.peopleforplanet.it/ecco-perche-in-germania-si-muore-molto-meno-per-coronavirus-rispetto-allitalia/?fbclid=IwAR3SKu4ZclYWLzpPQqWFMKFKTGKqxeDbBbyWO3JVAeyKN3w_0FLetvzKuuY

IL FUTILE PARAVENTO DELLA “PIATTAFORMA ROUSSEAU” OVVERO DELL’ETERNO RITORNO DELL’UGUALE, di Emilio Ricciardi

IL FUTILE PARAVENTO DELLA “PIATTAFORMA ROUSSEAU” OVVERO DELL’ETERNO RITORNO DELL’UGUALE.

A seguito del suo intervento del 6 settembre 2019 (d’ora innanzi “Intervento”) intitolato “Colpo di extrastato”, in cui Massimo Morigi attribuisce a questo sintagma dignità di categoria teorica atta a cogliere la presunta epocale novità rappresentata dal voto elettronico espresso mediante la Piattaforma Rousseau dagli iscritti (a ciò legittimati) del Movimento 5 Stelle in relazione alla recente formazione dell’attuale governo, lo stesso autore è tornato sulla questione una prima volta il 9 settembre 2019 per approntare una replica (d’ora in poi “Replica”) ad un mio commento (in appresso “Commento”) al suo Intervento e, ancora, il 14 settembre 2019, per operare ulteriori annotazioni, che tuttavia non aggiungono alcunché di sostanziale alla completa esposizione della propria tesi, difatti già compiuta nei suoi primi due testi.

Quindi, seppure non vada trascurato di soffermarsi sui passaggi pertinenti dell’ultimo dei tre testi citati, è prevalentemente sui primi due, ma con attenzione ancor maggiore sulla Replica (di cui ringrazio Morigi per il tempo e la cura ad essa dedicati), che conviene incentrare le presenti mie considerazioni. Anticipo comunque sin d’ora che la Replica (ed a maggior ragione anche l’ultimo scritto) non è stata in grado di convincermi sull’asserita utilità e consistenza concettuale della categoria di “colpo di extrastato”. E ciò per i seguenti motivi.

0. Occorre prendere le mosse dalla constatazione secondo cui Morigi finisce per darmi ragione quando nella Replica afferma che “Il vero punto è […] non tanto la più o meno esibita trasparenza dei partiti” giacché, aggiunge, “se i partiti fossero trasparenti svanirebbero come la neve al sole dalla notte al mattino”.

Difatti, il nucleo fondamentale della critica all’Intervento espressa nel mio Commento era così compendiato: “nell’economia del testo di Morigi, il riferimento alla scarsa trasparenza di procedura ed esito del sondaggio svolto sulla piattaforma telematica dei 5 stelle, appa[re] tutto sommato superfluo, come del resto in buona sostanza sottolineato dallo stesso suo autore. Anche perché, se si continua a rimarcare la scarsa trasparenza di questa operazione, dolendosene, si corre il rischio di accreditare implicitamente l’idea secondo cui finora i processi decisionali interni ai partiti politici (che, è bene ricordarlo, sono semplici associazioni private non riconosciute) si siano svolti all’insegna delle più luminose democrazia ed, appunto, trasparenza. Il che sarebbe, com’è ovvio, balla colossale oltreché offensiva dell’intelligenza quanto meno del lettore abituale di queste pagine”.

Sulla mancanza di “trasparenza” quale fattore ampiamente noto e preesistente nelle teoria e prassi politiche (italiane e straniere, passate ed attuali), dunque, nulla quaestio[1].

  1. La dimensione fortemente problematica della concezione di Morigi, piuttosto, comincia a far esplicitamente capolino nella Replica allorché in questa si soggiunge: “Il vero punto è, come rileva anche Ricciardi ma come stranamente Ricciardi sembra non attribuirmi una piena consapevolezza in merito, […] che questi partiti, un tempo tanto importanti e la cui esistenza veniva espressamente citata anche in Costituzione, oggi non sono più lo snodo principale del conflitto strategico che si svolge all’interno delle élite politiche nazionali impegnate nella lotta per la conquista del potere”.

Senonché, basta leggere il mio Commento per avvedersi che nemmeno mi pongo il quesito in merito alla piena consapevolezza o meno di Morigi circa la pretesa novità rappresentata dalla sopraggiunta perdita d’importanza dei partiti politici.

E non me lo pongo perché già Morigi nel suo Intervento aveva in buona sostanza negato che questa fosse una novità, sostenendo ciò che ha poi confermato nella Replica (come segnalato sopra al paragrafo 0), ossia che “il punto importante per dare corpo alla categoria ‘colpo di extrastato’ non è tanto il fatto che la piattaforma Rousseau è tutto tranne che trasparente (in passato la <democrazia> dei partiti era nascostamente pesantemente guidata, quando questa etero direzione non era addirittura teorizzata, vedi centralismo democratico del vecchio PCI; e le lobby che da sempre manovrano le decisioni dei parlamenti delle moderne democrazie sono forse il fenomeno più studiato dall’attuale scienza politica, fino ad arrivare alla <postdemocrazia> teorizzata da Colin Crouch)”.

È indubbio, difatti, che sostenere che “in passato la <democrazia> dei partiti era nascostamente pesantemente guidata” e dunque assoggettata ad una “etero direzione”, equivalga a sostenere che i partiti non sono mai stati, non solo oggi ma anche in passato, “lo snodo principale del conflitto strategico”.

Di conseguenza, perché nel mio Commento avrei dovuto anche solo evocare o lambire la questione del se Morigi fosse pienamente consapevole o meno della sopraggiunta perdita d’importanza dei partiti, quando egli stesso nel suo Intervento ha mostrato di ritenere che pure nel passato i partiti erano etero diretti e che, quindi, nulla, sul punto, è davvero sopraggiunto?[2]

  1. Semmai, rilevo in Morigi una contraddizione (non la prima, per vero, e comunque generatrice di un’impasse che egli ha tentato di eludere in un modo che esaminerò nel successivo intero paragrafo 4) tra, da un lato, il riconoscimento della etero direzione e nulla trasparenza caratterizzanti da sempre i partiti politici e, dall’altro lato, l’asserzione circa la novità costituita dalla totale intrinseca mancanza di trasparenza nel Movimento 5 Stelle.

Peraltro, mentre tale asserzione è contenuta, per lo meno esplicitamente (spiegherò i motivi di questa puntualizzazione nel successivo sottoparagrafo 3.1.), nella sola Replica, quel riconoscimento è stato operato sin da subito nell’Intervento (e di poi ribadito nella Replica).

Il fulcro dell’Intervento, in effetti, voleva essere esplicitamente altro rispetto all’opinione inerente la mancanza di trasparenza della piattaforma Rousseau: “il punto fondamentale è un altro, ed è cioè che tutti, dalla pubblica opinione, alle massime cariche istituzionali, per dare vita ad un governo hanno aspettato senza fiatare una esplicita e chiara decisione di un corpo, ma un corpo che non è previsto né in Costituzione né in alcuna prassi politica sviluppatasi sotto il mantello costituzionale”.

Quest’ultima proposizione è poi ripresa, onde ribadirne la correttezza, nel testo del 14 settembre 2019, laddove si ripete essere la Piattaforma Rousseau un corpo politico-decisionale del tutto estraneo e prevalente al testo e alla prassi costituzionali”.

Senonché, una volta riconosciute, come si è visto aver fatto Morigi, la mancanza di trasparenza ed anzi la totale etero direzione caratterizzanti l’azione (anche) dei vecchi partiti politici, deriva necessariamente che anche tale azione si ponga contro ed al di fuori della Costituzione, atteso che l’art. 49 di questa esige il “metodo democratico” di essa azione (laddove mancanza di trasparenza ed etero direzione risultano invece evidentemente incompatibili con detto metodo).

E deriva altresì’ necessariamente che è contraddittorio affermare che un’azione politica di tal fatta si sia sviluppata “sotto il mantello costituzionale”, perché una prassi politica priva di trasparenza ed etero diretta e quindi lesiva del “metodo democratico” dettato dalla Costituzione non può, per definizione, trovare legittimazione (ossia “copertura”, quale ”mantello giuridico”) in questa stessa Costituzione.

Pertanto, se si sostiene che la Piattaforma Rousseau (recte: l’insieme degli iscritti al Movimento 5 Stelle legittimati al voto elettronico mediante utilizzo di questo dispositivo telematico) è “corpo che non è previsto né in Costituzione né in alcuna prassi politica sviluppatasi sotto il mantello costituzionale”, ed insomma “del tutto estraneo e prevalente al testo e alla prassi costituzionali”, allora si deve pure logicamente concludere che anche i vecchi partiti politici partecipano delle medesime caratteristiche che dunque non potrebbero non definirsi eversive.

Ciononostante, in costanza dell’esistenza dei vecchi partiti sia la “pubblica opinione, [sia] le massime cariche istituzionali, per dare vita ad un governo” aspettavano normalmente “senza fiatare una esplicita e chiara decisione” di organi decisionali di partiti che pure, per quanto rilevato, agivano in sostanziale spregio di quel “metodo democratico” prescritto dall’art. 49 della Costituzione.

Di conseguenza, la disamina svolta sino a questo punto delle considerazioni di Morigi sembra consentire di affermare che con la Piattaforma Rousseau non si è attuato alcun “colpo di extrastato”, in quanto asserita nuova forma della prassi politica rispetto a quella invalsa nella precedente fase storica.

Occorre ora, giunti a questo tratto del discorso che si sta conducendo, soffermarsi sull’ultimo argomento addotto da Morigi a favore della propria tesi.

  1. Prima devo tuttavia rendere una spiegazione, che mi consente anche di affrontare alcune affermazioni svolte da Morigi nel già menzionato suo testo del 14 settembre 2019.

In particolare, più sopra ho accennato alla circostanza per cui soltanto nella Replica viene sottolineata e stigmatizzata espressamente la mancanza di trasparenza del processo decisionale elettronico del Movimento 5 Stelle. Mi riferisco, precisamente, al seguente passaggio: “è la prima volta che si riconosce […] come fondamentale e fondante per la decisione politica […] una sorta di accrocchio tecnologico informatico dove la <trasparenza> non è che venga conculcata come nei vecchi partiti classici (ma ricordiamoci l’adagio <l’ipocrisia è il tributo che il vizio paga alla virtù>) ma è un concetto totalmente alieno proprio per il processo tecnologico e verificabile solo da esperti informatici nell’emissione dei suoi responsi”.

Ebbene, a parte il fatto che, sul piano degli effetti, sfugge la reale e sostanziale differenza tra conculcamento della trasparenza nei vecchi partiti politici ed eliminazione di essa già sul piano concettuale a causa dell’applicazione delle tecnologie informatiche al procedimento elettorale interno al partito de quo.

Ma soprattutto, ciò che preme rimarcare è che anche il procedimento elettorale incentrato sulla segretezza del voto cartolare risulta intrinsecamente privo di trasparenza, se per questa si intenda, come devesi e pur semplificando, l’insieme degli accorgimenti che garantiscono la certezza, per i votanti, dell’autenticità del voto espresso e del suo conteggio fino alla pubblicazione dei risultati. Difatti, è difficile negare che, se è vero che l’elettore che esprime un voto segreto conosce il dato (il suo voto) che così è immesso nel meccanismo ed il dato (aggregato) che ne è emesso, ossia il risultato elettorale, non ha invece modo di verificare l’iter che ha compiuto quel dato dal momento della sua immissione fino alla sua confluenza nel dato complessivo, o quantomeno non può avere la certezza di quale sia stato tale iter. Proprio perché nessuno potrà mai dargli la garanzia assoluta, nemmeno assistendo allo scrutinio, che nella fase di quest’ultimo il documento su cui ha apposto il suo voto sia davvero oggetto di conteggio, e di un conteggio corretto.

A ciò si aggiunga la difficile se non impossibile verificabilità della correttezza delle operazioni di conteggio del voto cartolare, e ciò a causa dell’effetto combinato dell’elevato numero di votanti (come sovente accade nelle elezioni politiche nazionali della stragrande maggioranza dei paesi a democrazia rappresentativa) e dell’esistenza di particolari regole costituzionali che devolvono la giurisdizione esclusiva inerente la contestazioni elettorali ai medesimi organi elettivi, con la conseguente assai ridotta capacità operativa di procedere ad un controllo di decine di milioni di schede elettorali in tempi fisiologici e ragionevoli, ossia tali da scongiurare un’eccessivamente prolungata incertezza riguardo la reale legittimazione popolare degli eletti[3].

Insomma, se trasparenza non c’è nel voto elettronico, con la connessa difficoltosa verificabilità della genuinità della relativa procedura, lo stesso deve dirsi per il voto cartaceo.

3.1.   Quest’ultima sottolineatura ben introduce la disamina della seguente affermazione contenuta nel testo di Morigi del 14 settembre 2019, in quanto anch’essa incentrata, come mostrerò più oltre, e sebbene Morigi non lo dichiari in modo esplicito, sul concetto di trasparenza (e con ciò giustifico l’individuazione, dianzi operata, di un legame fra essa affermazione e la critica, già analizzata, alla mancanza di trasparenza della Piattaforma Rousseau svolta nella Replica): una “procedura di voto elettronica, corretta o truffaldina che sia, designa chiaramente una costituzione materiale dello Stato che non ha assolutamente nulla a che fare con la precedente dove la scelta e selezione dei decisori alfa-strategici da parte dei decisori omega-strategici avveniva  – almeno a livello politico –  attraverso una procedura non elettronica ma semplicemente cartacea (con tutti i brogli che questa comportava, ma almeno per quanto riguarda il punto 2 questo è un elemento del tutto secondario)”.

Qui Morigi non motiva espressamente l’implicito favore che sembra accordare al voto cartaceo rispetto a quello elettronico. Ed insomma non si perita di precisare in che modo e perché la procedura elettorale elettronica determinerebbe addirittura uno stravolgimento radicale della costituzione materiale dello Stato rispetto a quella vigente in costanza dell’omologa cartacea. Nondimeno, sembra di poter capire che, secondo Morigi, la presenza di schede elettorali cartacee, pur non eliminando il rischio di brogli elettorali, consentirebbe comunque di verificarne la perpetrazione, ciò che, invece, il voto elettronico non permetterebbe di fare. In altri e più concisi termini: per Morigi sarebbe la trasparenza, sub specie verificabilità di eventuali brogli elettorali, il tratto che differenzia il voto cartaceo da quello elettronico (dunque non trasparente, come quello della Piattaforma Rousseau, secondo quanto asserito, esplicitamente, nella Replica).

Tuttavia, così in thesi argomentando, Morigi trascura che, come illustrato più sopra, anche la procedura elettorale cartacea con voto segreto, soprattutto nella fase dello scrutinio (ma anche in quella della trasmissione centralizzata) dei voti, e quando si attua in paesi con decine di milioni di votanti, non può mai né garantire al votante certezza circa la correttezza delle operazioni né rendere possibile un controllo completo dell’intera procedura medesima, tanto meno in tempi tali da essere compatibili con l’esigenza dell’opinione pubblica di avere risposte celeri in merito all’esistenza o meno di una legittimazione democratica degli eletti.

Certo, nel voto elettronico la verificabilità dei brogli è più difficoltosa di quanto lo sia con il voto cartaceo, ma si tratta di una differenza di ordine quantitativo, ossia attinente al maggior rischio di brogli (perché minore è la possibilità di verificarli) che il primo esibisce, non già di una differenza di ordine qualitativo, idonea cioè, come invece sostiene Morigi, ad incidere addirittura, sfigurandola irreversibilmente, sulla “costituzione materiale dello Stato”.

3.2.   Eppure anche in altro passaggio del suo testo del 14 settembre 2019, Morigi esprime il convincimento che “è del tutto assurdo dire che una costituzione materiale e una forma di Stato che ha avuto la sua nascita in una  passata epoca tecnologica è la stessa costituzione materiale e forma di Stato dei tempi di Internet”, e lo fa in base all’assunto, introdotto immediatamente prima, “che nelle vicende sociali e politiche i cambiamenti ed i mutamenti non appartenenti stricto sensu all’ambito politico e sociale agiscono su quest’ambito non solo additivamente ma anche qualitativamente”.

Senonché, il nesso causale che con tale assunto viene delineato su un piano generale risulta da una petizione di principio, enunciato e non dimostrato, ed allo stesso modo anche il nesso causale specifico, quello in virtù del quale la scoperta ed uso di internet non può non avere determinato un cambiamento della “costituzione materiale e forma di Stato”, risulta meccanico e proclamato in modo apodittico. Al punto da giungersi financo ad una concezione feticistica dell’innovazione tecnologica, quale potenza che plasma e trasforma la struttura e l’essenza dei rapporti poltico e sociali, a loro volta puri elementi passivi, inerti e direi neutri, che subiscono l’azione demonica ed incandescente della prima.

Per contro, non è affatto scontato che un elemento nuovo, nato in un ambito diverso dalle dimensioni politica e sociale in senso stretto, una volta trasmigrato in quest’ultime in virtù dell’uso che di esso elemento è fatto, debba divenire il fattore che trasforma la conformazione essenziale delle predette dimensioni qual era stata sino a quel momento. Insomma, può ammettersi perfettamente l’ipotesi che l’elemento sia immesso nel sistema esterno (a quello della sua genesi) e da esso assorbito senza subire, il sistema recettore, alcuna trasformazione o comunque modificazione rilevante.

  1. Terminata così la digressione resasi però necessaria per discutere le due soprariferite affermazioni contenute nel testo di Morigi del 14 settembre 2019. è possibile finalmente affrontare, come già avevo anticipato, l’ultimo argomento, stavolta svolto nella Replica del 9 settembre 2019.

In particolare, in quest’ultima viene introdotto ex novo un tema che non era stato oggetto del benché minimo accenno, nemmeno implicito, nell’Intervento: l’importanza dell’illusione.

Così al riguardo si afferma: “Ma il vero snodo, lo ripeto, della categoria di <colpo di extrastato>, non è tanto la trasparenza o l’opacità dei processi decisionali è che nella pubblica opinione, nella pubblicistica politica per finire con la scienza politica la caduta da parte di tutti dell’illusione della trasparenza nei processi decisionali non viene segnalata”.

Ebbene, qui si ha l’impressione che Morigi sia stato costretto a ricorrere all’ulteriore argomento basato sull’assunto circa la passata esistenza dell’illusione della trasparenza dell’azione dei partiti politici, al fine di aggirare la difficoltà logica di continuare a sostenere il carattere di novità epocale della Piattaforma Rousseau in quanto enigmatica ed impersonale entità telematica non controllabile se non “da esperti informatici[4], ed allo stesso tempo nondimeno riconoscere che anche nei vecchi partiti politici la trasparenza era completamente assente.

Nella Replica si sostiene, difatti, che non già la mancanza di trasparenza dei e nei partiti politici segna la novità della presente epoca del presunto “colpo di extrastato” rispetto all’epoca precedente, bensì la caduta dell’illusione della trasparenza, in passato invece esistente.

È necessario, quindi, indagare motivi e legittimità dell’asserzione che attribuisce decisiva rilevanza a questa illusione.

4.1.   Al riguardo, nella Replica si indicano due esempi per tentare di dimostrare l’importanza delle illusioni nutrite circa l’esistenza della trasparenza dei processi decisionali dei partiti politici.

Il primo esempio attinge al rapporto tra la Chiesa cattolica e la Democrazia Cristiana, affermandosi che “la Chiesa esplicitamente non ha mai fatto trapelare una esplicita e pubblica decisione a favore di questo o quel governo ma si limitava, in ottemperanza del suo alto magistero religioso e morale, a vietare ai cattolici, pena l’inferno, di votare per quei partiti che erano a suo giudizio l’espressione politica del cancro dell’ateismo e dell’irreligiosità”.

Vero; ma in questo caso non vedo dove e come avrebbe agito l’illusione sull’esistenza della trasparenza nelle decisioni della Democrazia Cristiana, atteso che all’epoca per qualsiasi osservatore ed elettore minimamente attrezzati era chiaro e palese il penetrante condizionamento vero e reale esercitato costantemente dalla Chiesa cattolica sulla prima.

Il secondo esempio riguarda più nello specifico la trasparenza dei partiti ed anche su questo punto il ragionamento fa leva sull’importanza delle false rappresentazioni, o meglio la concreta modalità di come queste possono essere rappresentate. Nei vecchi partiti per arrivare ad un decisione e/o prevalere nello scontro politico venivano messe in atto le più ignobili manovre ma se queste manovre non avevano in concreto nulla di democratico e trasparente avevano un grande pregio. Queste manovre erano condotte da uomini in carne ed ossa e chi avesse voluto vedere un po’ più a fondo avendone la formazione e l’intelligenza riusciva a mettere a fuoco, molto chiaramente e con tanto di nomi e cognomi, i volti di questi manovratori”.

Ma è proprio il contenuto del testé riportato secondo esempio a dirci in maniera inequivocabile come anche in questo caso non siano all’opera “false rappresentazioni” in ordine alla trasparenza. Difatti, posto che era nelle manovre oscure interne ai partiti che si sostanziava la mancanza di democrazia e trasparenza; e posto che, nonostante il carattere nascosto e letteralmente osceno di tali manovre, si “riusciva a mettere a fuoco, molto chiaramente e con tanto di nomi e cognomi, i volti di questi manovratori”; allora ne consegue che era possibile vedere chiaramente la vera realtà delle lotta politica interna ai partiti, senza farsi irretire, appunto, da alcuna illusione.

Peraltro, l’affermazione secondo cui sarebbero state sufficienti volontà e capacità intellettuali per lacerare il velo dell’apparenza ed identificare addirittura gli oscuri “manovratori” delle decisioni dei partiti politici, mi pare pecchi di ottimismo se non di una sorta di onnipotenza del pensiero. Si considerino, difatti, a confutazione e comunque forte ridimensionamento della portata della soprarichiamata affermazione, tutti quegl’importanti e gravi accadimenti della nostra vita politica nazionale i quali, seppure ascritti (in tutto o in parte) alle decisioni manifeste dei partiti politici, non è stato possibile ricondurre ai responsabili ultimi “con tanto di nomi e cognomi”. Laddove, in quei pochi casi in cui ciò si è verificato, lo è stato comunque a distanza di decenni, ed il più delle volte a seguito dell’emersione di circostanze e documenti, avvenuta di rado casualmente, più spesso deliberatamente, in vista del perseguimento, in quest’ultima evenienza, di scopi ulteriori poiché funzionali a nuove strategie, naturalmente ignote alla generalità della popolazione nel momento del loro dipanarsi in atto.

In definitiva, i due esempi riportati nella Replica non mi paiono così calzanti e persuasivi.

4.2.   Però nel contesto dell’esposizione del primo esempio è operato un fugace accenno al ruolo delle illusioni in generale, il quale sembra poter fornire qualche indizio utile per capire la funzione che gioca questo elemento nell’impianto argomentativo di Morigi.

Precisamente, si afferma che “in politica, come nel resto di tutte le altre faccende della vita, le illusioni contano e quando queste cadono non si può far finta di nulla pensando che siccome si trattava di illusioni la loro scomparsa conta meno di nulla e non vale nemmeno la pena di segnalarle e di cercare di elaborare un pensiero non banale a proposito”.

Ora, affermare che “le illusioni contano”, in questo contesto discorsivo, sembra voler significare che le illusioni non sono nulla, e che producono effetti reali. Se questa mia interpretazione è corretta, allora deve dirsi che tali effetti saranno pure reali, ma i pensieri e le azioni inclusi nella cerchia di tali effetti saranno irrimediabilmente inficiati dall’esser derivati da una percezione errata (qual è appunto l’illusione) della realtà vera, e dunque, in definitiva, da erroneità e falsità.

Se poi si traslano queste considerazioni generali nell’ambito del discorso che si stava conducendo, ne viene che l’asserito diffuso convincimento, presente nella precedente epoca storico-politica, circa la trasparenza delle decisioni dei partiti politici era un’illusione e, in quanto tale, un falso convincimento.

Libero, quindi, Morigi, naturalmente, di elaborare “un pensiero non banale” sulla suddetta illusione (e sulla sua presunta caduta). Ma mi permetto di osservare che se il pensiero vuole conoscere la realtà e le determinazioni vere di una presunta nuova era politica e le sue differenze rispetto alla precedente (e non v’è dubbio che Morigi voglia applicarsi alla produzione di un pensiero di tal fatta), non può accontentarsi fermandosi alla considerazione delle false rappresentazioni che sulle corrispondenti epoche storiche si sono formate, assumendole quali dati di realtà di ultima istanza. E non può perché in questo modo non sarebbe in grado di nemmeno tentare di conseguire quello scopo prefissosi (ossia l’acquisizione della conoscenza delle vere determinazioni di una nuova epoca politica).

Di conseguenza, e per tornare specificamente al discorso centrale di questo scritto, può affermarsi ciò: posto che la totale mancanza di trasparenza dei processi decisionali dei partiti politici e dunque la loro etero direzione sono dati caratterizzanti sia la precedente sia l’attuale fase storica, ne discende che l’utilizzo della piattaforma Rousseau non integra alcuna novità inerente i predetti processi, con il corollario per cui il ricorso alla nozione di “colpo di extrastato”, per qualificare tale utilizzo ed evidenziare così tale presunta novità, non pare rivestire utilità teorica. Anzi, ribadisco che, a mio avviso, il convogliamento delle energie intellettuali individuali e collettive nell’elaborazione di tale nozione può essere financo dannoso poiché rischia di distogliere l’attenzione dal tentativo di cogliere le vere configurazioni dei processi politici reali.

  1. Vergo, infine, due ordine di notazioni inerenti il seguente, in parte già riportato, passaggio: “nella pubblica opinione, nella pubblicistica politica per finire con la scienza politica la caduta da parte di tutti dell’illusione della trasparenza nei processi decisionali non viene segnalata e non segnalando la caduta di quest’illusione non si riesce a vedere un fatto di primaria importanza: e cioè che si riconosce piena titolarità politica e decisionale a corpi del tutto inediti ed extracostituzionali”.

Il primo ordine di notazioni si risolve in un unico rilievo di natura logica. In particolare, se si assume essere intervenuta “la caduta da parte di tutti dell’illusione della trasparenza nei processi decisionali”, vuol dire che questi “tutti”, ossia i soggetti portatori di tale illusione, sono consapevoli della caduta di questa, del suo venir meno. Difatti, una volta svanita una determinata illusione, i soggetti di essa si avvedono di ciò che era stata, proprio perché, essa svanendo, non ne sono più irretiti e la possono riconoscere in quanto tale. Di conseguenza, non può porsi un problema di mancata evidenziazione da parte delle “pubblica opinione”, “pubblicistica politica” e “scienza politica” della caduta, del dileguarsi di questa illusione, proprio perché il suo svanire ha segnalato ciò che essa stessa era ai soggetti che ne risultavano avvolti.

Il secondo ordine di notazioni è di natura fattuale. Contrariamente a quanto si sostiene nella Replica, esponenti di quelle istanze e discipline dianzi menzionate, ossia la pubblica opinione nonché la pubblicistica e la scienza politiche, hanno, in occasione della nota recente consultazione telematica, levato dolenti e pensosi ammonimenti di fronte al presunto nuovo ed esiziale pericolo generato dall’asserita inaudita anomalia extracostituzionale della piattaforma Rousseau[5].

D’altronde, questi ammaestramenti vanno ad alimentare una serqua di allarmi rivolti ormai da tempo sullo stesso tema da molte voci della stampa[6]. Cosicché la Piattaforma Rousseau finisce per essere ormai largamente additata, segnalata e riconosciuta all’opinione pubblica come la scatola nera che inghiotte le velleità di democrazia diretta sbandierate dai suoi fautori. È dunque la mancanza di trasparenza che si rivela in modo trasparente. O, riprendendo il titolo di questo scritto, l’innocuo paravento che tenta senza esito di mascherare l’ampiamente consolidata realtà di forze che agiscono dietro le formazioni politiche operanti sulla scena.

Peraltro, gli argomenti adoperati dai menzionati critici della recente votazione elettronica in questione esibiscono tutti quale sfondo comune la salda fede nella democrazia rappresentativa, architrave della legalità costituzionale ed anzi eterna garanzia di trasparenza messa a repentaglio da quell’inedita procedura decisionale telematica.

Ecco, il tenore di tali argomenti, ma anche la biografia pubblica dei personaggi che se ne sono resi fautori, mi pare comprovino ampiamente la fondatezza di quanto da me paventato nel Commento riguardo al rischio (che investe anzitutto il piano culturale e della consapevolezza) generato dalla concentrazione dell’analisi politica sulla ritenuta novità rappresentata dal carattere malefico ed oscuramente extracostituzionale della piattaforma Rousseau: si finisce per accreditare l’idea che questo dispositivo abbia infranto il preesistente paradiso terrestre della trasparente democrazia rappresentativa incentrata armonicamente sui partiti politici in quanto operanti con “metodo democratico”.

Idea falsa e risibile, naturalmente[7].

Ma su ciò Morigi suppongo convenga senza riserve.

 

 

[1]   Semmai sollevo un rilievo, anche se non essenziale e quindi da collocarsi non nel testo ma appunto in questa nota, il quale mira ad evidenziare una perplessità riguardo il “consiglio” di Morigi di non “avventurarsi a cuor leggero in merito alla natura più o meno privata dei partiti, i quali nella nostra Costituzione vengono citati anche se poi riguardo al loro <dover essere> ci si limita ad una vacua retorica democratica che dice tutto e il contrario di tutto”. Difatti, quale che possa essere stato lo spirito con cui nel Commento mi sono accostato (non già avventurato) a siffatto tema, e dunque se con colpevole spensieratezza (come pare ritenere Morigi) oppure con animo gravido di timore e tremore, il dato certo ed incontestabile è che la natura giuridica dei partiti politici nell’ordinamento italiano è, come segnalavo, quella di “semplici associazioni private non riconosciute”. Ed è dato la cui solidità non viene scalfita di un ette dall’accenno ai partiti che opera la Costituzione, rientrando, tale accenno, nel novero delle tanto belle quanto vacue dichiarazioni di principio o programmatiche di cui è infarcita la Carta, secondo quanto, del resto, riconosce lo stesso Morigi. Ma allora poco si comprende la congruenza di uno schema argomentativo che contempla, in un primo momento, a ritenuto sostegno della propria tesi, il richiamo alla rilevanza di un elemento che io avrei omesso di considerare (e cioè il riferimento costituzionale ai partiti politici) e, subito dopo, la radicale squalificazione dell’elemento medesimo. Non è la prima volta, peraltro, che Morigi indulge ad una simile modalità argomentativa di stampo palinodico.

[2]   Tant’è che di questo, del fatto cioè che nell’Intervento la c.d. assenza di trasparenza nei partiti non è presentata in realtà come una novità e quindi non fa problema, ho dato puntualmente atto nel mio Commento: “nell’economia del testo di Morigi, il riferimento alla scarsa trasparenza di procedura ed esito del sondaggio svolto sulla piattaforma telematica dei 5 stelle, appa[re] tutto sommato superfluo, come del resto in buona sostanza sottolineato dallo stesso suo autore.

[3]   A questo proposito, la vicenda delle elezioni politiche nazionali italiane del 2006 è paradigmatica. Esse videro la vittoria della coalizione di centrosinistra, ma con un esiguo scarto di voti alla Camera dei Deputati. La coalizione avversaria chiese allora inizialmente di procedere al riconteggio di tutte le schede elettorali, per poi accettare, a seguito di un accordo politico, di contare solo le schede del 10% dei seggi (https://www.repubblica.it/2006/12/sezioni/politica/polemica-schede/riconteggio-totale/riconteggio-totale.html). La Giunta per le elezioni, tuttavia  unico organo munito di giurisdizione al riguardo ai sensi dell’art. 66 della Costituzione, riuscì a ricontare soltanto le schede relative a 180 seggi, di contro ai programmati 6000 seggi, ossia l’equivalente del suddetto 10%, e calcolò che per ricontare il totale ci sarebbero voluti due mandati addizionali di 5 anni (traggo questi dati da http://paduaresearch.cab.unipd.it/6293/1/carlotto_paolo_tesi.pdf).

[4]   D’altronde, va pure di molto stemperata l’enfasi sulla presunta natura “malefica” di questa “sorta di accrocchio tecnologico informatico” dispensatore di “responsi” ordalici. Difatti, in base allo statuto del Movimento 5 Stelle, la devoluzione alla “consultazione in Rete degli iscritti” dell’assunzione della generalità delle decisioni politiche del Movimento stesso, tra cui è rientrata infatti anche quella riguardante la costituzione del nuovo attuale governo, non è affatto obbligatoria, ma è rimessa alla scelta totalmente discrezionale del suo “Capo Politico ovvero, in sua assenza od inerzia, d[e]l Garante” [v. art. 4, lettere a), comma 2°, ultimo alinea e b), comma 1°, dello Statuto, visionabile qui: https://s3-eu-west-1.amazonaws.com/associazionerousseau/documenti/statuto_MoVimento_2017.pdf]. Pertanto, se pure si volesse dare rilevanza all’apparenza (o illusione) della trasparenza, e dunque in definitiva sapere – per riprendere le parole usate nella Replica – “con chi dobbiamo prendercela”, la responsabilità della decisione di costituire il nuovo governo, ove per responsabilità si intende la causa prima che ha consentito agli iscritti di esprimersi, sarebbe ascrivibile formalmente e sostanzialmente a Luigi Di Maio quale “Capo Politico” ed a Giuseppe Piero Grillo quale Garante del Movimento 5 Stelle (come del resto rilevato dalla stampa: https://www.ilpost.it/2019/09/03/piattaforma-rousseau-voto-oggi).

[5]   Di seguito, riporto una breve silloge di alcune delle opinioni espresse al riguardo, tutte da me tratte dall’articolo https://www.ilfoglio.it/politica/2019/09/09/news/la-soffitta-dei-simboli-inutili-272931/. Ferruccio de Bortoli: “<#Rousseau, uno dei giorni più bui della nostra democrazia rappresentativa>”; Francesco Storace: “<La democrazia italiana nelle mani della piattaforma #Rousseau. Decide #Casaleggio senza alcuna trasparenza se il governo deve partire o no. Ora #Mattarella potrà nominare i ministri>”; Mara Carfagna:<Ah, quindi il Conte-bis non sarà legittimato dalle Camere, ma dalla piattaforma #Rousseau? Eppure non mi pare che i Padri Costituenti, nella loro saggezza e nel ruolo di rappresentanti del popolo italiano, avessero previsto di inserire la Casaleggio Associati in Costituzione>”; il presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick: “<non è incostituzionale in sé, ma mi sembra contro lo spirito della Carta far diventare la piattaforma Rousseau, o un’altra simile, uno strumento per l’esercizio della sovranità>”, Cesare Mirabelli: “<Il presidente incaricato, sulla base del voto di un numero ristretto di persone, sia pure iscritte al partito M5s, si ritira e restituisce il mandato nelle mani del presidente della Repubblica? Non è quanto stabilisce la Costituzione>”.

[6]   Tra gli innumerevoli interventi giornalistici, cfr. https://www.ilsole24ore.com/art/il-lato-oscuro-rousseau-hacker-bilanci-e-votazioni-non-certificate-ACDjgeg.

[7]   È significativo, al riguardo, che già nel 1966 un intellettuale come Lelio Basso, convinto assertore dell’imprescindibile funzione storica dei partiti e certamente distante da un estremismo antiparlamentare, dopo aver negato “che il parlamento sia veramente o possa essere la sede effettiva del potere e che tutti i problemi possano risolversi con la semplice azione parlamentare”, evidenziava il compimento di un “processo di progressivo svuotamento di un’autonoma funzione del parlamento a beneficio dell’esecutivo e dei partiti”, che riconosceva contestualmente essersi “rivelati strumenti politici più adeguati, anche se largamente insufficienti, alla democrazia di massa”, avendo cura però di soggiungere immediatamente che i reali beneficiari di tale processo di progressivo svuotamento erano “dietro di essi [ossia “dell’esecutivo e dei partiti”], [la] burocrazia, [i] gruppi di pressione e [le] forze economico-sociali” (http://leliobasso.it/documento.aspx?id=5b7a6827d18ca804ef8249e24302aaed).

QUOTA 500 ovvero la coalizione dei volonterosi, di Giuseppe Germinario

Con il breve ed incisivo post di ieri il sito ha raggiunto quota 500 pubblicazioni tra saggi, articoli, interviste e podcast. A due anni dalla fondazione, mi pare un risultato di tutto rispetto per quantità e soprattutto per qualità considerando soprattutto tre fattori. La redazione è composta da collaboratori in tutt’altre faccende affaccendati e ciononostante disposti a sacrificare gran parte del tempo libero allo studio teorico e all’analisi politica. Non gode di alcuna forma di finanziamento né, tanto meno, dell’accesso a strutture accademiche e di ricerca che possano agevolare un lavoro sistematico. Visti i condizionamenti e lo stato dell’arte di gran parte di quegli ambienti, quest’ultimo aspetto rappresenta certamente un grosso limite operativo ma garantisce nel contempo una libertà di azione che il conformismo vigile perennemente in azione di quelle strutture rischierebbe in qualsiasi momento di soffocare sul nascere.

Lo sparuto gruppo fondatore era appena uscito da una amara e purtroppo poco edificante conclusione del rapporto con il blog di “conflitti e strategie”. L’intento della nuova iniziativa era quello di offrire un luogo aperto di confronto che mettesse a frutto l’intuizione dell’ispiratore di quel blog, Gianfranco la Grassa, cercando di attingere in sovrappiù dalle ceneri delle grandi correnti di pensiero dei due secoli scorsi, in particolare quello marxista, quello liberale e quello del realismo politico. Da qui i contributi interni ed esterni di Longo, Morigi, de la Grange, Buffagni, Visani, Falchi, Visalli, Fagan. Tutti contributi interessanti e originali ma attualmente ancora giustapposti. I limiti oggettivi e soggettivi del coordinatore non consentono di avviare ancora un confronto serrato e di pervenire ad una sintesi comune almeno provvisoria, come deve essere del resto ogni lavoro teorico e di analisi. La complessità crescente della situazione e il ritardo teorico non sono del resto di aiuto. Di sicuro contribuisce una caratteristica prevalente a gran parte dei blog affini presenti nelle piattaforme informatiche: l’assenza, all’interno dello stesso lavoro teorico, di una finalità politica che spinga al confronto rigoroso ma fattivo. L’assoluta prevalenza dell’interesse personale e autoreferenziale nella ricerca condita spesso e volentieri da narcisismo e dominata dal mero interesse professionale. Il tempo e soprattutto la durezza dei tempi che ci attendono aiuteranno probabilmente a superare questi limiti ormai connaturati o quantomeno ad addomesticarli entro cornici più positive.

Diventa fondamentale la ricerca di spazi nelle istituzioni preposte al lavoro teorico e di analisi, l’individuazione e il contatto con quei centri di potere potenziali e consolidati sensibili a queste tematiche e agli approcci sostenuti ancora in maniera larvata e scarsamente convincente nella pletora di iniziative, il conseguimento di risorse finanziarie adeguate.

Tutte condizioni necessarie, anche se non sufficienti, a creare e fornire strumenti a nuove élite e a una nuova classe dirigente. Il cammino è immenso.

Il blog non è stato solo questo.

I contributi di Gianfranco Campa hanno aperto, senza falsa modestia, una vetrina unica in Europa sui contenuti e sui retroscena degli avvenimenti politici nel paese chiave delle dinamiche geopolitiche: gli Stati Uniti.

De Martini, da par suo, ha aperto squarci impressionanti sugli scenari mediorientali. Il suo bagaglio di esperienza e di cultura va ben oltre l’orizzonte offerto dal sito.

Il sottoscritto, con tutti i suoi limiti, Paoloni, Bonelli e Buffagni hanno saputo offrire analisi del contesto nazionale le quali, in diverse occasioni, hanno saputo centrare e innescare, vedi il caso dell’assassinio di Pamela Mastropietro, un dibattito dirompente.

Senza nessuno spirito di recriminazione e al netto della mancata utilizzazione di tecniche adeguate di promozione e diffusione, un impegno che inizia a dare lentamente frutti ma che meriterebbe un riconoscimento più esplicito ed aperto di una parte dei fruitori.

Garanzie certe sulle attività future non ce ne sono, vista la volontarietà dell’impegno e l’esposizione delle iniziative alle vicissitudini personali, anche le più banali, dei collaboratori. L’intenzione di proseguire, di crescere e di allargare la platea di volonterosi c’è. Vedremo se ci saranno le condizioni per costruire una struttura più adeguata e più operativa, quindi più proficua, senza sacrificare la libertà di ricerca e la finalità politica in apparente antitesi. Germinario Giuseppe

INTRODUZIONE ALLA “POLITICA COME DESTINO”_2A PARTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

http://italiaeilmondo.com/2018/07/02/introduzione-alla-politica-come-destino_1a-parte-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/

Qui sotto la seconda parte del saggio di TKdlG. Continuiamo per tanto con la pubblicazione di testi alquanto interessanti riguardanti l’approccio al “politico” del pensiero liberale “forte” in contrapposizione e critica al pensiero liberale “debole” ancora nettamente predominante, se pure in crisi nella sua capacità persuasiva. Il discrimine tra le due varianti riguarda appunto l’atteggiamento verso e l’analisi della funzione del politico, inteso nella sua essenza e nella sua relazione con i diversi ambiti dell’agire umano. Il peso ancora minoritario della componente realista di questa corrente di pensiero è evidenziato dal misconoscimento dell’importanza, in particolare in Italia, di pensatori come Julien Freund e dalla demonizzazione e travisamento di altri come Carl Schmitt. Essa, la sua componente “realista” appunto, al contrario rientra a pieno titolo nell’alveo del dibattito sul conflitto strategico tra centri decisionali ripreso ed elaborato ultimamente in Italia da Gianfranco La  Grassa. E’ il nuovo punto di incontro e di confronto decisivo di varie correnti del pensiero politico cresciuto ed affermatosi nel ‘800 e nel ‘900 e ormai giunto ad una drammatica crisi delle proprie chiavi di interpretazione. Teodoro Klitsche de la Grange continua ad offrire da par suo il proprio contributo e ad alimentare il dibattito intrapreso pure da questa redazione, in particolare da Massimo Morigi e Luigi Longo. Buona lettura_Germinario Giuseppe

Sotto un altro profilo la concezione di Schmitt, corroborata dalle regolamentazioni normative che cita[1], è in linea con il “fattuale”. La regolamentazione/previsione dei poteri eccezionali è aderente alla realtà e alla necessità: se le costituzioni possono scegliere, disporre e regolare o meno i poteri eccezionali (cioè abolirli o non istituirli) non possono abolire le situazioni eccezionali. Solo l’Onnipotente può evitare guerre, calamità naturali, crisi economiche. Così un liberalismo realistico non può non prescrivere la normativa necessaria in siffatte emergenze; ed in effetti in quasi tutte le costituzioni lo dispone. Dove non è prescritta vale la regola di Jhering, e più ancora di Santi Romano: che “la necessità fa legge” ossia che è sicuro che nella situazione d’emergenza la costituzione sarà violata. E, se non violata, probabilmente sarà distrutta l’istituzione politica. Cosa che il liberalismo “ideale” – o almeno parte di esso – non considera, contrariamente a Schmitt, la cui critica è quindi confortata dalla storia.

  1. Sempre il liberalismo esangue (e post-moderno, ma non solo) ha, se non abolito, messo tra parentesi il nemico (e la guerra); senza considerare sia la possibilità concreta che l’ostilità degeneri in guerra, sia soprattutto che gli interessi contrapposti, non possano essere conciliati con procedure giuridiche (trattati, mediazioni, Tribunali internazionali). Già da prima Constant e Spencer ritenevano le società orientate ad attività economiche tendenzialmente pacifiche; e Schmitt critica Constant perché considerava le società orientata al commercio (e al benessere economico) meno guerrafondaie delle comunità tradizionali.

Il tempo si è incaricato se non di contraddire, almeno di ridimensionare questa concezione. La diffusione nel periodo dell’imperialismo (classico) e cioè nel XIX secolo (ed oltre) di guerre dettate da motivi economici, d’altra parte tutt’altro che sconosciute prima (e dopo), ne è la prova[2].

Nella successiva “fase” tardo-moderna (e post-moderna) si è creduto di trasferire dall’economico e addossare al diritto il fardello di poter eliminare e/o ridurre (e decidere) i conflitti non solo all’interno – che è più naturale – ma anche all’esterno della sintesi politica. Ma se all’interno c’è comunque il soccorso della sintesi politica “totale e decisiva” col monopolio della violenza legittima e della decisione in ultima istanza, cioè sovrana e (spesso apparentemente) “neutra”, all’esterno mancano l’uno e l’altra.

Il che ha condotto a derogare, nel corso del XX secolo al principio internazionalistico che “par in parem non habet jurisdictionem”, attivando istituzioni e Tribunali internazionali, sia per la soluzione di controversie con (e tra) Stati e tra privati e Stati, sia per giudicare, specialmente dopo le guerre, i vinti da parte dei vincitori[3]. Il tutto in nome di un “diritto” universale che, al di là delle buone intenzioni, ha perso di vista come il diritto abbia anche, necessariamente, un momento (e apparati) d’applicazione. La fase successiva è stata di promuovere guerre – non denominate tali – in nome dei “diritti umani” che per lo più, al di là delle buone intenzioni – sempre presenti – hanno dimostrato che è solo la proporzione delle forze a determinare se, in quei Tribunali si è giudicati (e prima ancora, se il “reo” è debellabile senza (o con pochi rischi); onde, successivamente, i capi dell’unità politica “pacificata”, sono giudicati dalle apposite Corti (internazionali o meno). Perché un’operazione di peacekeeping contro una potenza, anche media, ancorché notoriamente vi si pratichi la violazione dei diritti umani, non si è finora vista. Spedizioni punitive del genere (e successivi giudizi dinanzi a Corti internazionali) sono state promosse in conflitti (prevalentemente) etnici, relativamente a entità statali minori e gruppi politici non consolidati, privi di strumenti militari decisivi, ed hanno visto sfilare come imputati generali e politici balcanici o dell’Africa nera.

Nessuno dei quali aveva il potere d’opporsi realmente all’operazione benintenzionata come avrebbero potuto fare tanti altri, perciò al riparo da interventi umanitari. Il che conferma il detto di Hegel che non c’è Pretore tra gli Stati[4]; perché fondandosi ciò su volontà particolari sovrane, avrebbe carattere “accidentale”. Più che altro mentre a fondamento della giustizia statale c’è un istituzione, di per sé generale, superiore, decisiva e durevole, a base di quella internazionale vi sono soltanto uffici (chiamarli organi è forse eccessivo), la cui esistenza è frutto di accordi e trattati particolari e pertanto carente (del carattere) di “istituzionalizzazione”, politica in specie.

Anche in tal caso la critica di Schmitt coglie nel segno: non appare realistico né confermato dalla storia che possano eliminarsi o ridursi drasticamente i conflitti e quindi l’inimicizia politica che ne deriva, né per l’orientamento sociale all’attività ed al benessere economico, né per decisione dei Tribunali[5].

Come la costituzione è l’assetto e l’organizzazione della comunità politica, in base all’insopprimibile (Freund) presupposto del politico  del comando/obbedienza; così non è possibile eliminare dal mondo la lotta e il nemico, altro presupposto del politico.

A base di tali illusioni c’è la credenza che sia possibile trovare, tra esseri razionali, un punto d’incontro, malgrado diverse visioni del mondo. Max Weber assicurava che si arriva comunque a valori non negoziabili e non vi è modo di conciliarli[6]. Un acuto studioso argentino come Bandieri, ha qualificato una delle correnti riconducibili a un (vago) liberalismo esangue, e cioè il c.d. “neocostituzionalismo”, come positivismo di valori, che distingue da quello di Kelsen (ed epigoni) che è positivismo di norme.

Nei casi estremi (quelli che più contano), tra comunità riconoscentesi in “tavole di valori” inconciliabili una decisione giuridificata o meglio (e soprattutto) giurisdizionalizzata, è pertanto impossibile.

Valitutti sostiene che “secondo Schmitt, l’unità politica è sempre unità decisiva, sovrana e totale. Egli scrive, e noi lo abbiamo già riferito, che è totale perché l’uomo viene afferrato tutto alle radici stesse del suo essere dalla partecipazione politica alla quale egli si da. Aggiunge incisivamente che la politica è destino… Il destino è il fatum in senso greco-latino, cioè una necessità superiore e ineluttabile. Per Schmitt il totalitarismo politico è il destino in questo significato”.

Conseguenza di ciò è che “il nostro è un tempo nel quale la distinzione schmittiana tra amicus e hostis, come distinzione totale e totalizzante, fornisce il criterio interpretativo di porzioni e manifestazioni cospicue della nostra realtà politica e sociale”[7]. Secondo il liberale italiano questo iperpoliticismo è viziato: “Il vizio, se così possiamo chiamarlo, attraverso il quale passa nella realtà effettuale il totalitarismo politico, è quello stesso attraverso il quale passa l’unilateralità dell’apoliticismo, cioè la reductio ad unum della multiforme vita spirituale dell’uomo”. L’apoliticismo è frutto non tanto del primato del Bourgeois sul citoyen ma dell’essere in corso “una grande rivoluzione utilitaristico-edonistica, che ha le sue armi nella scienza e nella tecnica e che è liberatrice di ingenti forze già compresse, ma che intanto produce uno squilibrio della vita spirituale”[8]. Nella vita spirituale del (tardo) XX secolo (ma anche oggi) è sovrana la praxis[9]. Così si crea uno squilibrio, riduttivo della comune umanità[10].

Il tutto presuppone, scrive Valitutti, la priorità della figura dell’hostis anche su quella dell’amicus[11].

  1. A considerare la critica di Valitutti a Schmitt, ancorché le censure del primo al secondo siano centrate, occorre valutarle nel contesto del pensiero di Schmitt, oggigiorno maggiormente noto al lettore italiano per la traduzione quasi integrale dell’opera del giurista di Pletteberg e per i contributi che ha suscitato.

Valitutti rimprovera a Schmitt l’ “iperpoliticismo” e, ad esso strettamente collegata, una concezione per così dire “settoriale” dell’uomo. Tuttavia l’intero pensiero di Schmitt è orientato allo stato d’eccezione. Come scrive nella Politische theologie nella situazione d’emergenza “L’esistenza dello Stato dimostra qui un’indubbia superiorità sulla validità della norma giuridica”[12]. Quindi l’eccezione, e la guerra, che dello stato d’eccezione è l’aspetto più rilevante, non nega la normalità, ma ne ridimensiona l’importanza e la stessa capacità di comprendere interamente il diritto, pubblico in particolare. Il diritto è norma ed eccezione: è ordinamento della vita della comunità e questa è fatta sia di situazioni normali che di eccezionali.

La critica al costituzionalismo liberale esangue consiste così proprio nel fatto che non considera l’unità e la completezza dell’ordinamento e che questa ricomprende sia norme che ordinamento, sia comando che obbedienza, legittimità oltre che legalità, forza e norma, principi di forma politica e principi dello Stato borghese. E dimentica che in tante occasioni, come nella seconda guerra mondiale, l’esistenza politica delle democrazie liberali è stata difesa anche con bombardamenti indiscriminati (atomici e non), non proprio da considerare mezzi umanitari. Alla fine le teorie da Schmitt criticate sono più che errate, parziali: coperte strette che non coprono e non spiegano l’intero e tantomeno come, proprio nello stato d’eccezione, la parte “politica” prevalga su quella “normativa”. Così avviene anche per gli altri aspetti.

Come l’antropologia di Schmitt: se è vero, come scrive Valitutti, che Schmitt non considera l’uomo “tutto intero” ma enfatizzandone l’aspetto politico, è pure vero che, nel caso di guerra il cittadino (il componente della comunità) ha il dovere di difendere la comunità e così il rischio di morire. Cosa che generalmente non succede nel discutere una teoria scientifica o filosofica.

Quindi è nell’emergenza (e in vista di quella) che lo “squilibrio”  notato da Valitutti, si realizza a causa del montare di quello che Clausewitz chiamava il “sentimento politico”, elemento fondamentale – ancorché non esclusivo – del triedro della guerra[13].

Anche in questo caso il prevalere della politica è ridimensionato proprio dallo (e in vista) dello stato d’eccezione, d’altronde, come scrive Agamben, istituto tipico degli ordinamenti costituzionali moderni.

Piuttosto quanto sostiene Valitutti è spiegabile con il periodo in cui è scritto: in pieno sessantottismo e post-sessantottismo dove  si consumavano le ultime battute del comunismo (prossimo all’implosione), con slogans che ne enfatizzavano il potenziale liberatorio e di conformazione di una nuova società umana, per realizzare la quale nessuno sforzo (e mezzo) doveva essere risparmiato (terrorismo compreso). In quel contesto il personale (era) politico: espressione che coniuga iperpoliticismo con un sotteso edonismo (cioè con la maior pars dell’a-politicismo).

Valitutti fa carico a Schmitt di sottovalutare l’attività spirituale e teorica dell’uomo. Anche qui pare piuttosto che Schmitt segua quanto scrive de Maistre “L’uomo, per il fatto di essere contemporaneamente morale e corrotto, giusto nell’intelligenza e perverso nella volontà, deve necessariamente essere governato”[14]. E, in connessione con la sua antropologia, la perversità della volontà umana, è indipendente dalla (razionalità) e giustizia della sua intelligenza (e, spesso su quest’ultima prevalente).

Va da se che in tale contesto realistico è una nobile quanto illusoria aspirazione pensare che una decisione si possa raggiungere attraverso l’accordo tra uomini razionali, ispirati da imperativi categorici[15].

Quando poi Valitutti stigmatizza come “fantoccio polemico” il liberalismo criticato da Schmitt, la censura è largamente condivisibile. A un liberale italiano, peraltro di formazione  idealistica come Valitutti, non possono che apparire (almeno) parziali e riduttivi gli appunti, pur spesso centrati, di Schmitt al “liberalismo”. Per un liberale italiano il liberalismo è soprattutto “religione della libertà” e, scriveva Croce, come tutte le religioni, crea guerre di religione. Così furono in Italia le guerre civili del 1799 e del 1860 (senza aggiungere quella del 1806) in particolare nel Mezzogiorno. Lo Stato nazionale non fu costruito da congressi, accordi, trattati, sentenze ma da tre guerre interstatali e da una guerra civile (il c.d. brigantaggio). Altro che agreements tra esseri razionali. E di ciò è consapevole ogni liberale che abbia senso storico-politico. Diceva V.E. Orlando che “nulla per noi è più intollerabile della contrapposizione; Libertà e Patria”.

Lo Stato nazionale fu costituito – diversamente che in altri paesi europei – non dalle monarchie assolute, ma dalla collaborazione tra monarchia sabauda e movimento nazionale, di cui i liberali erano  la maior pars e cui era evidente che lo Stato era “nel fatto sorto da un procedimento rivoluzionario”[16].

Il principio politico (la monarchia mista con elementi di democrazia) era coniugato ai principi del Bürgerliche Rechtstaat in uno Stato “rappresentativo”. Il che vaccinava (per lo più) i liberali italiani da certe concezioni riduttive del liberalismo, come quelle criticate dal giurista renano. Lo stesso termine con cui giuristi e scienziati politici del periodo liberale dello Stato nazionale lo qualificavano prevalentemente come rappresentativo[17] è indice sia della consapevolezza del processo di costruzione nazionale (e radicamento) che dell’unione dei principi di forma politica con quelli dello Stato borghese.

C’è un altro aspetto, meno “esclusivo”, ma comunque importante, nel pensiero liberale italiano[18]: è la concezione realistica dell’uomo, l’antropologia (moderatamente) negativa. Questa, tuttavia, è comune a ogni pensiero liberale “forte”.

Già gli autori del Federalista fondavano su quella sia la necessità dello Stato sia quella del costituzionalismo (liberale)[19]. La stessa antropologia realistica è presupposta nelle concezioni di Croce, di Fortunato, Einaudi, Puviani e tanti altri. Soprattutto nel pensiero di Mosca e Pareto l’uomo non è considerato  (solo) essere razionale e soprattutto capace di seguire una condotta  razionale, ma anche dotato di volontà, istinti, pregiudizi in grado di determinare le azioni assai più della razionalità.

Proprio Pareto con la sua teoria dei  residui  (non razionali, corrispondenti ad interessi e istinti  ) e delle derivazioni (apparentemente razionali) ne ha fatto una trattazione analitica “preceduta” dall’ancora più rilevante tra azioni logiche  e azione non logiche: le une e le altre soprattutto in relazione allo                      iato tra scopo perseguito e risultato conseguito.

Anche Mosca giudicava che la grande maggioranza degli esseri umani non agisce in base a convinzioni razionali (scientifiche) ma a illusioni diffuse[20].

Ciò non era carattere “proprio” ed esclusivo del pensiero italiano: ma è, in questo, almeno nel periodo suddetto, particolarmente sviluppato (ed autorevole).

  1. In particolare il fantoccio polemico, che Valitutti critica in Schmitt è ciò che il giurista tedesco vede nei pensatori dallo stesso criticati, ma che non è né il liberalismo storico “classico” – in particolare italiano – né quello che emerge da un’analisi fattuale ma anche giuridico-normativa, sia dei comportamenti che degli ordinamenti dello Stato borghese. È piuttosto quel che risulta da condivisibili aspirazioni che hanno il limite di non considerare o di sottovalutare le costanti ossia, le regolarità della politica (Miglio), con la conseguenza di non spiegare la conformazione dello stesso Stato democratico (o borghese a seguire Schmitt).

In questo senso l’analisi di Valitutti fatta all’inizio della “rinascita” in Italia dell’interesse per il pensiero del giurista renano[21] e in tempi in cui era demonizzato (e misconosciuto) molto più di oggi, è espressione di un coraggio intellettuale e di una pregevole indipendenza e chiarezza di giudizio.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] V. Verfassungslehere, trad. it. cit. p. 154 ss, v. anche pp. 46,56, 236.

[2] D’altra parte Schmitt ha avanzato anche la spiegazione, assai interessante, che ciò dipendeva dalla centralità nello spirito europeo del XIX secolo dell’economia e del conseguente criterio del raggruppamento (principale) di amicus/hostis. Per cui il raggruppamento decisivo è quello borghese/proletario, come evidente in particolare nei bolscevichi e nel concetto di guerra civile mondiale. V. ne Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 167 ss.

[3] Anche se la normativa internazionale più recente ha evitato (almeno) che nel ruolo dei giudici vi fossero i vincitori e in quella dei giudicati, i vinti, precostituendo dei giudici non coinvolti.

[4] Hegel spiegava che la rappresentazione kantiana di una pace perpetua, presuppone la concordia tra gli Stati. Considera che questa si baserebbe su fondamentali morali, religiosi ed altri; ma avrebbe “pur sempre per base delle volontà sovrane particolari”, e perciò rimarrebbe affetta da accidentalità. Grundlinien des Philosophie des Recht, trad. it. di V. Cicero, Milano 1995, §333 p. 555

[5] Anzi è l’esistenza e lo svilupparsi del conflitto che rende necessario (per arrivare ad una soluzione dello stesso) ad “internazionalizzare” il diritto derogando a quello normale “interno”, come scriveva Santi Romano, nel caso delle guerre civili (amnistie, scambi di prigionieri, accordi), v. Corso di diritto internazionale, Padova, p. 73. Il processo di cui scrive il giurista è proprio l’inverso di quello criticato e la cui ratio è di applicare per risolverlo istituti di diritto interno. Infatti come nota Santi Romano “Così, in caso d’insurrezione o di guerra civile, le norme di diritto internazionale, specialmente attinenti alla guerra e alla neutralità, vengono spesso riferite agli insorti … Ciò può accadere per diverse ragioni, che però si riducono ad una sola: l’impotenza dello Stato nel quale scoppia l’insurrezione a dominare col suo ordinamento gli autori di essa, per cui lo stesso Stato sente il bisogno, per mitigare la lotta, di condurla secondo le norme internazionali, purchè anche gli insorti adottino uguale comportamento” (il corsivo è mio).

[6] “Tra i valori, cioè, si tratta in ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra «dio» e il «demonio». Tra di loro non è possibile nessuna relativizzazione e nessun compromesso. V. ora trad. it.. di P. Rossi ne Il metodo delle scienze storico-sociali, Milano 1980, p. 332. Tuttavia prosegue: “Beninteso, non è possibile secondo il loro senso. Poiché, come ognuno ha provato nella vita, ve ne sono sempre di fatto, e quindi secondo l’apparenza esterna, ad ogni passo”. Il che significa che il compromesso è spesso praticabile ma non sempre e non in tutti i casi.

[7] Ed aggiunge “Oggi si sta moltiplicando il purus politicus, l’uomo per cui non esiste che la politica. Poiché la politica è lotta, il purus politicus è un uomo lottante … non poche antitesi si trasformano e si esasperano in antitesi politiche nel senso chiarito da Schmitt, cioè in antitesi tra amici e hostes.

[8] E prosegue “perciò si arrugginiscono, quando non si atrofizzano, quelle altre attitudini che permettono all’uomo di abbracciare tutta la realtà e di nutrirsene, e in particolare le attitudini conoscitive”

[9] “La scienza e la tecnica sono baconianamente ricercate e utilizzate per il cangiamento e il miglioramento delle condizioni di vita. La praxis è sovrana e assorbente e distoglie dalla teoria. È l’impeto della vitalità che ostruisce ad un tempo quelle che il filosofo ha chiamato le fonti della cratività morale e le vie della ricerca della verità”.

[10] Scrive Valitutti che ciò comincia da Marx e dalla celebre 11ª postilla a Feuerbach, per cui compete ai filosofi (futuri) cambiare il mondo più che interpretarlo “Oggi si tende a possedere la realtà solo praticamente e perciò solo utilitaristicamente”. La ragione è “neutralizzata; perde il rapporto con il contenuto oggettivo perché è usato per soli fini utilitari, e non per conoscere la verità”. Da un lato c’è l’apoliticismo la cui conseguenza è che “scarseggiano i fattori unificanti e aumentano quelli dirompenti. Gli uomini si accomunano e concentrano nel godimento del benessere che è intrinsecamente isolante”. E l’altra faccia di questo Giano è il “raggrupparsi politico, in cui il cemento è l’ostilità contro l’hostis, cioè contro il raggruppamento nemico. Tra apoliticismo e panpoliticismo c’è passaggio pur se il secondo si manifesta talvolta con il volto tragico del vendicatore che vuole colpire la tirannia dell’edonismo”

[11] “Concezione che ritiene erronea e “cattiva”; ma cattive teorie possono originare cattive coscienze: “come la cattiva coscienza si insinua nella cattiva teoria e le fornisce impulsi e stimoli, così la cattiva teoria fornisce un sostegno alla cattiva coscienza”.

[12] V. trad. it. di P. Schiera ne “Le categorie del politico” Bologna 1972 p. 39, e aggiunge “Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue nella norma giuridica e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto. Per la dottrina dello Stato di diritto di Locke e per il razionalistico XVIII secolo, lo stato d’eccezione era qualcosa di incommensurabile. La diffusa consapevolezza del significato del caso d’eccezione che domina il diritto naturale del XVII secolo, va presto perduta nel corso del secolo seguente, allorché viene instaurato un ordine relativamente durevole … Solo una filosofia della vita concreta non può ritrarsi davanti  all’eccezione e al caso estremo, anzi deve interessarsi ad esso al più alto grado. Per essa l’eccezione può essere più importante della regola, e non in base ad una ironia romantica per il paradosso, ma con tutta la serietà di un punto di vista che va più a fondo delle palesi generalizzazioni di ciò che comunemente si ripete. L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione. Nell’eccezione, la forza della vita reale rompe la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione” e conclude il passo “Abitualmente non ci si accorge della difficoltà poiché si pensa al generale non con passione ma con tranquilla superficialità. L’eccezione al contrario pensa il generale con energica passionalità”

[13] Si noti che il generale prussiano il quale distingue, tra l’altro, guerra assoluta e guerra “normale”, anche nella concezione generale del fenomeno bellico ritiene che “la guerra si presenta inoltre nel suo aspetto generale, sotto il rapporto delle tendenze che regnano in essa, come uno strano triedro composto:

  1. della violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto;
  2. il giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima;
  3. della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.

La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo” Vom Kriege trad. it. Milano 1970, vol. I, p. 40. Quindi anche nella guerra sono presenti elementi razionali, che contribuiscono a ridimensionarla ed umanizzarla.

[14] V. Du Pape, trad. it. Milano 1995, p. 155.

[15] Che è poi uno dei presupposti di un liberalismo esangue, ispirato al pensiero di Kant (ma sottovalutando il “legno storto”). Ma che tale condivisibile aspirazione possa costituire una base – sempre e ovunque valida – non è credibile, per cui si trasforma in una sicura illusione, che seleziona della natura umana il connotato più gestibile: la ragione. E, al tempo, sminuisce quello che lo è meno, la volontà (istinti, interessi, pregiudizi e così via).

[16] V. V.E. Orlando Principii di diritto costituzionale p. 51.

[17] Ricordiamo tra gli altri: G. Mosca, Appunti di diritto costituzionale, Milano 1912 (il quale scrive anche di governo rappresentativo, di regime rappresentativo).

[18] D’altra parte condiviso anche con gran parte dai pensatori liberali non italiani.

[19] “Ma cos’è il governo se non la poderosa analisi dell’umana natura? Se gli uomini fossero angeli non occorrerebbe alcun governo. Se fossero gli angeli a governare gli uomini, ogni controllo esterno o interno sul governo diverrebbe superfluo.

Ma nell’organizzare un governo di uomini che dovranno reggere altri uomini, qui sorge la grande difficoltà: prima si dovrà mettere il governo in grado di controllare i propri governanti, e quindi abituarsi ad autocontrollarsi”. V. Il federalista, trad. it. di Bianca M. Tedeschini Lalli, Bologna 1980, p. 396. (Il corsivo è mio).

[20] “La scienza e tutti quei brani di verità… sono sempre stati l’opera di un numero molto scarso d’individui… Le masse finora non hanno mai vissuto della scienza e per la scienza, ma di grandi illusioni collettive, che trovano la loro base non nel raziocinio, ma nel sentimento umano” v. Partiti e sindacati nella crisi del regime parlamentare, Bari 1949, p. 85 (il corsivo è mio).. D’altra parte considerazioni simili si trovano in altre opere di Mosca.

[21] Che ha preceduto la “rinascita” dell’interesse in altri paesi. Günther Maschke, in un  saggio dedicato all’impatto del pensiero di Schmitt (scritto poco dopo la morte del giurista) giudicava che l’Italia di quella rinascita costituiva la parte più cospicua, v. trad. francese (col titolo Carl Schmitt «Fossoyeur de la République» «Kronjurist» ou «Dernier classique»? in Nouvelle École n. 44, 1987, p. 53 ss.

SCHEDA DEL LIBRO OGGETTO DI CRITICA

SCHEDA de “LA POLITICA COME DESTINO”

Originariamente pubblicato nella rivista “Nuovi studi politici” nel 1976 e quindi in un volume contenente anche uno scritto di Karl Lowith nel 1978, La politica come destino di Salvatore Valitutti torna oggi nuovamente nelle librerie italiane per i tipi della Liberilibri.

Valitutti, pur da liberale e con atteggiamento critico, accanto alle ragioni di dissenso riuscì ad intuire l’incisività e la validità di alcune intuizioni di Carl Schmitt.

Pubblichiamo pertanto per la gentile concessione della Società Liberilibri e dell’autore, il saggio introduttivo di Teodoro Klitsche de la Grange al libro di Salvatore Valitutti.

INTRODUZIONE ALLA “POLITICA COME  DESTINO”_1A PARTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

Continuiamo con la pubblicazione di testi alquanto interessanti riguardanti l’approccio al “politico” del pensiero liberale “forte” in contrapposizione e critica al pensiero liberale “debole” ancora nettamente predominante, se pure in crisi nella sua capacità persuasiva. Il discrimine tra le due varianti riguarda appunto l’atteggiamento verso e l’analisi della funzione del politico, inteso nella sua essenza e nella sua relazione con i diversi ambiti dell’agire umano. Il peso ancora minoritario della componente realista di questa corrente di pensiero è evidenziato dal misconoscimento dell’importanza, in particolare in Italia, di pensatori come Julien Freund e dalla demonizzazione e travisamento di altri come Carl Schmitt. Essa, la sua componente “realista” appunto, al contrario rientra a pieno titolo nell’alveo del dibattito sul conflitto strategico tra centri decisionali ripreso ed elaborato ultimamente in Italia da Gianfranco La  Grassa. E’ il nuovo punto di incontro e di confronto decisivo di varie correnti del pensiero politico cresciuto ed affermatosi nel ‘800 e nel ‘900 e ormai giunto ad una drammatica crisi delle proprie chiavi di interpretazione. Teodoro Klitsche de la Grange continua ad offrire da par suo il proprio contributo e ad alimentare il dibattito intrapreso pure da questa redazione, in particolare da Massimo Morigi e Luigi Longo. Buona lettura_Germinario Giuseppe

INTRODUZIONE ALLA “POLITICA COME  DESTINO”

  1. Quando un liberale italiano come Salvatore Valitutti si confronta con il pensiero di Carl Schmitt è inevitabile che accanto a ragioni di dissenso ve ne siano di apprezzamento, spesso critico, e non demonizzazione aprioristica.

E’ quanto capita in questo saggio, pubblicato prima su “Nuovi studi politici” nel 1976 e poi in libro insieme a un saggio di Karl Lövith su Schmitt (del 1935).

I punti principali della critica di Valitutti a Carl Schmitt, da un punto di vista liberale, sono tre.

Il primo è che la distinzione propria del “politico”, ovvero quella tra Amicus ed Hostis, la quale è come quelle di “buono e cattivo nel settore morale, di bello e brutto nell’estetico e di utile e dannoso nell’economico”, indipendente dalle altre e ad esse irriducibile. Cioè, come avrebbe sostenuto Freund, la politica è un’ “essenza”  (come l’etica, l’economia, l’estetica).

“La distinzione tra amicus ed hostis, di amico e nemico, (è) la estrema intensità di un legame o di una separazione…Amicus  è un gruppo di individui tenuto stretto e compatto dalla reciproca solidarietà determinata dal bisogno di difendersi, per sopravvivere, dall’Hostis. L’hostis  è hostis in quanto si contrappone al gruppo che gli è ostile, ma in se stesso è amicus.  La politica è perciò ostilità che divide e contrappone due gruppi ciascuno dei quali è amicus in se stesso, e cioè reso compatto contrapponendosi all’altro”, scrive Valitutti. I due gruppi hanno un senso dato dall’ostilità, che implica la possibilità di lotta armata. Da qui il rapporto necessario tra politica e guerra per cui se “Clausevitz scrisse che la guerra non è altro che una continuazione delle relazioni politiche con l’intervento di altri mezzi. Schmitt rovesciando la formula avrebbe potuto dire che la pace è la continuazione della guerra con l’intervento di altri mezzi”.

Schmitt, continua Valitutti, sente il bisogno di difendersi dell’accusa di una visione “guerrafondaia”. Lo fa realisticamente, spiegando che ciò consegue dall’ostilità (naturale in un pluriverso) “perché questa è la negazione essenziale di un altro essere”, affermazione che ricorda da vicino quella di Hegel sul nemico come differenza etica (in Schmitt esistenziale)[1]. Centrale, nel pensiero di Schmitt è, secondo Valitutti, il concetto di unità politica “soggetto della politica è il gruppo ma solo alla condizione che il gruppo realizzi una perfetta unità politica. L’essenza dell’unità politica consiste nell’esclusione del contrasto politico all’interno dell’unità stessa”. Ne consegue che “la teoria politica di Schmitt è una teoria monistica perché si basa sulla compattezza dell’unità politica”: una teoria pluralista diviene facilmente strumento di dissoluzione. Tuttavia se all’interno la concezione di Schmitt è monistica, all’esterno è pluralista[2].

Il secondo punto è il pessimismo antropologico.

Si fonda sulla concezione pessimistica dell’uomo, che è la medesima su cui si fonda la scriminante etica (buono, cattivo) e la possibilità di scegliere, cioè la libertà. Ma, scrive Valitutti “Schmitt nell’individuare nella malvagità dell’uomo la molla che fa scattare la politica come distinzione fra amico e nemico, non si avvede che giunge a mettere in crisi proprio   quella autonomia della politica, intesa come indipendenza dalle altre distinzioni esistenti, operanti nella vita umana…giungendo, come giunge, al presupposto  della malvagità umana   come condizione da cui scaturirebbe la necessità della politica, intesa come distinzione fra amico e nemico , egli riconduce la politica stessa proprio ad uno dei termini della coppia degli opposti che è la coppia della vita morale”.

Da ciò consegue la centralità dell’unità politica per comprenderne l’anti-liberalismo di Schmitt[3]. Questo è la “bestia nera” di Schmitt, secondo il quale ha dominato il secolo XIX. Il liberalismo combattuto da Schmitt è tuttavia un fantoccio polemico: “In questo fantoccio figurano lineamenti che appartengono al liberalismo storico ma che sono scissi da altri lineamenti essenziali dello stesso corpus di dottrine e di esperienze e che perciò appaiono deformati”[4]. Schmitt riconosce tuttavia che il liberalismo, come realtà storica, non è sfuggito né all’identificazione/designazione del nemico, né all’abolizione della guerra (perché impossibile)[5]. E Valitutti rileva che “Nella sua polemica contro il liberalismo Schmitt, credendo di incolparlo in realtà gli rende omaggio e comunque è nel vero anche quando sottolinea il rispetto del valore dell’autonomia delle varie forme dell’attività umana come un carattere distintivo del liberalismo” (il corsivo è mio)[6]. Peraltro Schmitt, partendo dal postulato dell’unità politica ha come obiettivo della di esso critica soprattutto il liberalismo sociale e associativo, che garantisce la società come “pluralità di legami sociali”. Ma così configura uno Stato che realizza continuamente “la sua unità come sintesi dialettica di differenti e congiunti centri di iniziativa. L’unità politica, secondo Schmitt, la quale ha la sua più perfetta espressione nello Stato, è viceversa un’unità monistica, immediata e immota”[7].

La distinzione amicus/hostis relativizza tutte le altre in quanto giunge a definire la distinzione politica come quella totale e totalizzante; “per cui Schmitt praticamente vanifica tutte le altre distinzioni. È l’unità politica che decide quello che è buono, bello e utile, e, in contrapposizione, quello che è cattivo, brutto e dannoso”. Il vizio di tale concezione è evidente: nel momento in cui la distinzione politica prevale sulle altre questa è non solo indipendente da quelle, ma superiore[8].

Nota poi Valitutti che tra le tante opposizioni il giurista di Plettemberg non ricorda mai quella di vero/falso[9]

Ovviamente, scrive Valitutti, in questa concezione la “volontà politica è regina assoluta”; onde è legittimo chiedersi “se egli si sia installato con tanta sicurezza e facilità nella sua teoria proprio in quanto è partito dalla preliminare negazione della realtà e del valore del pensiero teoretico”.

Valitutti prende in esame il saggio di Löwith su Schmitt pubblicato insieme al suo nel libro (da cui è tratto il saggio di Valitutti), scrivendo che Löwith attribuisce a Schmitt di credere “solo al valore della decisione per la decisione, cioè alla decisione come fine a se stessa”. Secondo Valitutti è più importante collocare storicamente la teoria di Schmitt tra “quegli atteggiamenti volontaristici e attivistici posti in essere nell’età post-hegeliana in contrapposizione alla tradizione del primato del pensiero teoretico, alcuni dei quali hanno rasentato o investito la stessa ragione deteriorandola o distruggendola”.

  1. Il saggio di Valitutti appare condizionato (v. la nota bibliografica pubblicata nello stesso volume e redatta dall’autore) dal riferirsi, praticamente nella totalità delle opere di Schmitt che cita, a quelle tradotte in italiano fin verso la metà degli anni ’70 del secolo scorso, ed ai saggi su Schmitt pubblicati in Italia nello stesso periodo. Questo fa si che le note critiche dell’autore a Schmitt non tengono conto né delle opere tradotte successivamente (la stragrande maggioranza di quanto scritto dal giurista di Plettemberg) né dei successivi interventi intorno al pensiero del medesimo. Il che non significa che Valitutti abbia travisato la teoria del pensatore renano; ma che la conoscenza di queste ne avrebbe permesso di “centrare meglio” contenuto, obiettivi e senso.

In primo luogo: è vero che il liberalismo considerato da Schmitt è un “fantoccio polemico”; ma lo è per due ragioni.

La prima, ancora diffusa, nelle sue declinazioni “post-moderne”, nell’Italia degli anni a cavallo dei due secoli, e anche attualmente (che è quella prevalente, anche nell’ambiente politico e culturale non italiano) secondo la quale, sintetizzandola al massimo, il liberalismo è quell’ideologia che: a) tutela i diritti fondamentali b) prescrive la distinzione dei poteri (alla Montesquieu) c) discute ogni proposta e soluzione nelle assemblee rappresentative e (soprattutto) nell’opinione pubblica d) tutela i diritti (prevalentemente) attraverso il potere giudiziario e) ritiene la decisione dei conflitti più opportuna se disposta da organi giudiziari.

Non tutti questi aspetti godono di un consenso unanime da parte dei (spesso sedicenti) liberali, ma buona parte si.

Ciò che rende particolarmente ficcante la critica di Schmitt a tale/i concezione/i è che da un lato vi manca un qualcosa che costituisca l’unità politica; dall’altro che il liberalismo è, a intenderlo in senso ideale, non un modo di costituire il potere, ma quello di limitarlo. Onde aspettarsi di costituire una sintesi politica senza un principio politico costitutivo è vano. Come scrive Schmitt citando Mazzini “sulla libertà non si costituisce nulla”.

Ne consegue, come scrive Schmitt nella Verfassungslehre[10], che “I principi della libertà borghese possono ben modificare e temperare uno Stato, ma da soli non fondano una forma politica… Da ciò segue che in ogni costituzione con l’elemento dello Stato di diritto è connesso e misto un secondo elemento di principi politico-formali[11].

Il liberalismo può modificare qualsiasi forma di Stato, facendolo diventare una monarchia o una democrazia liberale, ma non può eliminare il principio di forma politica su cui necessariamente lo Stato si basa. La costituzione dello Stato liberale è così necessariamente mista “nel senso che l’elemento in se autonomo e concluso dello Stato di diritto si unisce con elementi politico-formali”.

L’errore di credere che possa esistere una costituzione liberale “pura” senza politica, né soprattutto elementi di forma politica era già espresso nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: “Toute société dans laquelle la garantie des droits n’est pas assurée, ni la séparation des pouvoirs déterminée, n’a point de constitution”. Fu stigmatizzato già da de Bonald, che lo riprendeva dalle (entusiastiche) parole di adesione di M.me De Staël.

Scriveva de Bonald che chiedersi se uno Stato esistente ed esistente da secoli come la Francia, non avesse una Costituzione, è come domandare ad un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere. Ciò perché, come avrebbero affermato circa un secolo dopo altri eminenti giuristi come Santi Romano, uno Stato esistente non ha, ma è una costituzione[12]. E lo stesso faceva Schmitt nel distinguere il concetto assoluto di costituzione come “concreto modo di esistere che è dato spontaneamente con ogni unità politica esistente[13] e la cui forma “indica qualcosa di conforme all’essere uno status e non qualcosa di conforme ad un principio giuridico o di normativamente dovuto”[14]. Tuttavia “per motivi politici è spesso indicata come «vera» o «pura» costituzione solo ciò che corrisponde ad un determinato ideale di costituzione”[15]. Ma ritiene il giurista di Plettemberg “Una costituzione che non contenesse altro che queste garanzie dello Stato borghese di diritto, sarebbe impensabile; giacché lo Stato stesso, l’unità politica, ossia ciò che è da controllare, deve pur esistere ovvero al tempo stesso essere organizzato”[16].

I due elementi, quello politico e quello dei principi dello Stato di diritto, sono sempre congiunti e presenti[17].

Dove si constata la “prevalenza” dell’elemento politico su quello dello Stato borghese di diritto è nella disciplina dello Stato di eccezione con la sospensione, deroga, rottura della normativa costituzionale[18] … “In questi casi si mostra assai chiaramente che il moderno Stato costituzionale nella sua struttura è composto di due diversi elementi: di una serie di intralci al potere statale propri dello Stato borghese di diritto e di un sistema – sia esso monarchico o democratico – di attività politica”[19].

Nelle emergenze l’elemento politico (il potere costituito) sospende la normativa del bürgerliche rechtstaat, così come Jhering sosteneva che, nelle crisi gravi la forza “sacrificherà il diritto per salvare la vita”[20].

Ciò che distingue la disciplina dello “stato d’eccezione” dello Stato borghese da quello di altre sintesi politiche è l’accurata distinzione tra situazione normale  ed eccezionale, che in altri regimi è assente o sfumata. Laddove la sovranità è attribuita al vertice politico (al principe) vale il principio ulpianeo quod principi placuit legis habet vigorem applicabile ad ogni situazione contingente (quindi anche dell’emergenza); nello Stato liberal-democratico (o borghese secondo la terminologia preferita da Schmitt) i presupposti, (in parte) la normativa relativa all’eccezione, e le sanzioni per l’inosservanza sono regolate dalla Costituzione. Una norma, regolarmente votata dal Parlamento in uno Stato liberale democratico a forma di governo parlamentare che violasse la Costituzione, sarebbe annullata dal Giudice costituzionale (generalmente) istituito in tali forme di Stato. In una monarchia assoluta o in una dittatura sovrana, no. Come sostenuto da Agamben al riguardo “In ogni caso è importante non dimenticare che lo stato di eccezione moderno è una creazione della tradizione democratico-rivoluzionaria e non di quella assolutista”[21].

[1] Per una esposizione più articolata e diffusa v. Hegel Sistem der sittlichkeit ora in “ Il dominio della politica” trad. it. di  N.Merker, Roma 1980 p. 174 ss.

[2] “Il monismo all’interno presuppone il pluralismo all’esterno. Il mondo politico – afferma Schmitt – è un pluriversum, non un universum, L’unità politica presuppone la reale possibilità  del nemico, e quindi almeno un’altra unità politica coesistente. Il mondo politico è perciò il coesistere e il competere di differenti e contrapposte unità politiche”.

Sviluppando poi il primo aspetto, Valitutti rileva “Il carattere mistico dell’unità politica nel pensiero di Schmitt è comprovato dall’assoluta negazione del suo carattere associativo”; non c’è alcuna società, ma solo comunità politica. Anche quando alla nascita un’unità politica ha carattere associativo (come nella federazione), diviene subito esclusiva e totalizzante.

 

[3] “La prima e più consistente ragione del tenace e veemente antiliberalismo di Schmitt è da ricercare e da ravvisare nel posto che occupa nel suo pensiero il concetto di unità politica. Quanto meno è in questo concetto che si annodano e si saldano tutti i motivi del suo antiliberalismo”

[4] Sostiene Valitutti che i suoi padri (secondo Schmitt) sono soprattutto Spencer e Constant “Per Schmitt il liberalismo è puro individualismo, in quanto avrebbe solo e sempre presente come principio e fine del suo processo logico l’individuo”. Il fatto che, secondo il giurista di Plettenberg il liberalismo si muove tra le polarità dell’etica e dell’economia “non gli fa sorgere il dubbio che un pensiero politico che affonda sia pure in parte le sue radici nel concetto del primato dell’etica non possa rimanere relegato nel mero individualismo”

[5] Il problema consiste che, nella sua dimensione/aspirazione ideale “il liberalismo concepisce la realtà come gara e lotta, gara che sul piano spirituale si svolge come discussione, cioè come lotta tra idee, e sul piano economico come concorrenza, lotta e concorrenza eterne che non debbano mai diventare sanguinose, cioè degenerare in ostilità”.

[6] Aggiunge che Schmitt “individua esattamente quello che è il maggiore sforzo logico in cui si travaglia quella concezione della realtà a cui si ricollega il liberalismo politico nel secolo XIX, cioè lo sforzo inteso a distinguere le varie forme dell’attività spirituale e della vita umana per fondarne e salvaguardarne l’autonomia e insieme la connessione

[7] Per cui Schmitt concepisce l’unità politica come “decisiva, sovrana e totale”.

Questa unità, che storicamente, nella modernità si costituisce in Stato, considera tutto, potenzialmente, come politico “il decidere se una faccenda o un genere di cose sia apolitico è una decisione specificatamente politica, Perciò non c’è nulla che per virtù propria sia distinto dalla politica. Anche il non politico è una qualificazione attribuibile dalla decisione politica”.

[8] Tuttavia a leggere Der hüter der Verfassung, trad it. di A. Caracciolo Il Custode della costituzione, Milano 1981 p. 115 ss, si ridimensiona tale giudizio di Valitutti. Scrive Schmitt quanto alla situazione costituzionale del XIX secolo e la diversa nella Repubblica di Weimar che in quella la sua struttura “fondamentale è stata riassunta dalla grande  dottrina tedesca dello Stato di questo periodo in una formula chiara ed utile: la distinzione fra Stato e società” onde “ Esso era abbastanza forte per confrontarsi autonomamente con le restanti forme sociali e quindi per determinare da sé il raggruppamento, cosicchè tutte le numerose differenze all’interno della società … erano relativizzate e non impedivano la comune considerazione in seno alla «società». Ma per altro verso esso si manteneva in una posizione di ampia neutralità e di non-intervento nei confronti della religione e dell’economia e “ripettava in notevole misura l’autonomia di questi ambiti di vita e di interessi; cioè, esso non era assoluto e non così forte nel senso che avrebbe reso privo di importanza tutto il non-statuale” mentre con Weimar “adesso lo Stato diventa l’ «auto-organizzazione della società». Perciò cade, come menzionato, la distinzione finora sempre presupposta di Stato e società” e così “la società che si organizza da sé in Stato passa dallo Stato neutrale del liberale secolo XIX ad uno Stato potenzialmente totale. La potente svolta può essere interpretata come parte di uno sviluppo dialettico, che si svolge in tre stadi: dallo Stato assoluto del XVII e XVIII secolo attraverso lo Stato neutrale del liberale secolo XIX allo Stato totale dell’identità di Stato e società”.

[9] “Se Schmitt avesse salvaguardata la coppia di vero e falso avrebbe dovuto ammettere la distinzione tra la teoria e pratica e proprio questa distinzione gli avrebbe creato non superabili difficoltà nella teorizzazione della totalità politica. Egli è potuto giungere al suo mostruoso concetto della totalità politica sul presupposto della negazione dell’attività teoretica come attività distinta e autonoma dello spirito umano”.

[10] V. trad. it. dr. A. Caracciolo La dottrina della Costituzione, Giuffrè Editore, Milano 1984.

[11] Op. ult. cit., p. 265 (il corsivo è mio).

[12] Nel criticare l’opinione che Stati costituzionali siano solo quelli rappresentativi (cioè a “regime libero”) scrive “Ogni Stato è per definizione, come si vedrà meglio in seguito, un ordinamento giuridico, e non si può immaginare, quindi, in nessuna sua forma fuori del diritto… Uno Stato «non costituito» in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del suo corpo” Principi di diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 3.

[13] Op. ult. cit., p. 16.

[14] Op. ult. cit., p. 17 e prosegue “Anche qui sarebbe più esatto dire che lo Stato è una costituzione; è una monarchia, un’aristocrazia, una democrazia, una repubblica dei Soviet, e non ha soltanto una costituzione monarchica, ecc. La costituzione è qui la «forma delle forme», forma formarum”.

[15] Op. ult. cit., p. 58 e poche pagine dopo scrive “Nello sviluppo storico della costituzione moderna si è affermato un particolare concetto ideale con tale successo che dal XVIII sec. Sono indicate come costituzioni solo quelle costituzioni che corrispondono alle richieste della libertà borghese e contengono determinate garanzie di questa libertà” p. 60, per cui la Costituzione è un “sistema di garanzia della libertà borghese” onde come “costituzioni liberali, che meritino il nome di «costituzione», sono considerate solo quelle costituzioni che contengono alcune garanzie della libertà borghese” (p. 61).

[16] Op. ult. cit., p. 64 e aggiunge “Le costituzioni degli attuali Stati borghesi sono perciò composte sempre di due elementi: da un lato i principi dello Stato di diritto posti a difesa della libertà borghese contro lo Stato, dall’altro l’elemento politico, dal quale si deve dedurre la vera forma di Stato (monarchia, aristocrazia, democrazia o «status mixtus»). Nel collegamento di questi due elementi si trova la caratteristica delle odierne costituzioni dello Stato borghese di diritto”.

[17] È da considerare nei rapporti tra democrazia e liberalismo il giudizio di M. Alessio che “Schmitt insomma distingue troppo rigidamente democrazia e liberalismo, senza pensare che quest’ultimo può attecchire solo su di un terreno già preparato politicamente. Il liberalismo contemporaneo è una derivazione della democrazia moderna, ed è dunque su di essa che bisognerebbe puntare dapprima l’attenzione”. Democrazia e liberalismo (lo status mixtus) sono uniti nella modernità in concreto da un ethos comune, v. Carl Schmitt Democrazia e liberalismo, Milano 2001, p. 8 (introduzione di M. Alessio).

[18] La costituzione in senso proprio, scrive Schmitt “cioè le decisioni politiche fondamentali sulla forma di esistenza di un popolo, ovviamente non può essere temporaneamente abrogata, ma – proprio nell’interesse del mantenimento di queste decisioni… possono esserlo la normative legislative costituzionali generali emanate per la sua attuazione. In particolare, ci sono le normative tipiche dello Stato di diritto poste a protezione della libertà borghese, che sono soggette ad una sospensione temporanea…Nei turbamenti della sicurezza e dell’ordine pubblico, in tempi di pericolo come una guerra e durante una rivolta, sono sospese le limitazioni legislative costituzionali. Op. cit., p. 154.

[19] Op. loc. cit..

[20] R. Von Jhering Der Zweck im Recht trad it. Di M. G. Losano, Torino 1972 p. 184 ss.. È interessante ricordare per sommi capi, la concezione di Jhering “Il diritto non è quanto di più elevato vi sia al mondo, non è fine a se stesso, ma è soltanto un mezzo diretto ad un fine, ed il suo fine ultimo è l’esistenza della società. Se si riscontra che, nella situazione giuridica attuale, la società non è in grado di esistere, se il diritto non è in grado di venirle in aiuto, interviene la forza a compiere ciò che è necessario: nella vita dei popoli e degli stati prende così forma lo stato di emergenza. Nello stato di emergenza, il diritto vien meno tanto nella vita dell’individuo quanto anche nella vita dei popoli e degli stati” e poiché “al di sopra del diritto è la vita; e se ls asituazione concreta è quella da noi ipotizzata – cioè una situazione di emergenza politica riducibile all’alternativa; o il diritto o la vita – non vi possono essere dubbi sulla decisione da prendere: la forza sacrificherà il diritto per salvare la vita” e prosegue “ Abbiamo così individuato il punto in cui il diritto sfocia nella politica e nella storia: qui il giudizio del politico, dell’uomo di stato e dello storico deve sostituirsi a quello del giurista, che giudica soltanto alla stregua del diritto positivo” … “Se non ci si fanno scrupoli nell’usare il termie “diritto” in questo senso, potremmo qui parlare di un diritto eccezionale della storia, che in linea di principio rende praticamente possibile l’esistenza del diritto e, sporadicamente, il raffiorare della forza della sua missione e funzione storica originaria, cioè come fondatrice dell’ordinamento e creatrice del diritto” op. cit. p. 185 ss.

[21] G. Agamben, Stato d’eccezione Torino 2003, p. 14; e l’affermazione è ripetuta “Lo stato di eccezione si presenta anzi in questa prospettiva come una soglia di indeterminazione fra democrazia e assolutismo” idem p. 11.

SCHEDA DEL LIBRO OGGETTO DI CRITICA

SCHEDA de “LA POLITICA COME DESTINO”

Originariamente pubblicato nella rivista “Nuovi studi politici” nel 1976 e quindi in un volume contenente anche uno scritto di Karl Lowith nel 1978, La politica come destino di Salvatore Valitutti torna oggi nuovamente nelle librerie italiane per i tipi della Liberilibri.

Valitutti, pur da liberale e con atteggiamento critico, accanto alle ragioni di dissenso riuscì ad intuire l’incisività e la validità di alcune intuizioni di Carl Schmitt.

Pubblichiamo pertanto per la gentile concessione della Società Liberilibri e dell’autore, il saggio introduttivo di Teodoro Klitsche de la Grange al libro di Salvatore Valitutti.

Dalla mia palla di cristallo: governo Lega-5* eccetera, che accadrà?, di Roberto Buffagni

altri articoli sull’argomento:

IL GUARDIANO DELLA (AUGURABILMENTE DEFUNTA) COSTITUZIONE REALE, di Massimo Morigi

http://italiaeilmondo.com/2018/05/21/il-contratto-di-governo-di-giuseppe-germinario/

Dalla mia palla di cristallo: governo Lega-5* eccetera, che accadrà?

 

Nessun piano operativo può spingersi, conservando un minimo di certezza, oltre il primo scontro con il grosso delle forze nemiche. E’ solo il profano che, mentre una campagna si sviluppa, crede di vedere la sistematica realizzazione del piano originale fino alla sua conclusione predeterminata.”

von Moltke il Vecchio, Trattato per lo Stato Maggiore Generale tedesco sulla guerra franco-prussiana del 1870/1

 

Consultata la mia Palla di Cristallo, debitamente Vi informo dei suoi responsi: tutti espressi in forma molto sintetica, perché i collegamenti con il Regno Sovratemporale costano un occhio della testa, e nel caso Ve lo foste scordati, qua si lavora gratis et amore Dei (et Italiae).

Anzitutto, ecco i responsi riguardanti il Passato, spesso non meno enigmatico del Futuro.

  1. Il contenuto del “contratto di governo”, formulazione infelicissima che la mia Palla di Cristallo, una parruccona cruscante, depreca, ha importanza strategica molto vicina allo zero, v. la citazione in exergo del Feldmaresciallo conte von Moltke il Vecchio.
  2. Il contenuto strategico del piano sta invece tutto nell’alleanza politica Lega-5*, una manovra di grande audacia che può dare risultati proporzionali ai suoi rischi, entrambi molto grandi.
  • Il problema che si poneva allo Stato Maggiore dell’unica forza politica italiana coerentemente antiUE (la nuova Lega) all’indomani delle elezioni era infatti il seguente: come sfruttare al meglio il perentorio successo elettorale, che le garantiva sì l’egemonia nel centrodestra, ma non l’automatica designazione a formare un governo (insufficienza di seggi vinti dalla coalizione)?
  1. La soluzione del problema era complicata da un’incognita: l’incerta lealtà di Silvio Berlusconi, che prigioniero delle sue sconfitte politiche e dei suoi vizi personali – anzitutto la viltà – accarezzava da tempo il piano B di un’alleanza neomacroniana insieme a Renzi.
  2. La soluzione più semplice e prudente sarebbe stata la seguente: lasciare che si formasse un governo tecnico che traghettasse la nazione sino alle elezioni politiche ed europee del 2019, fargli una vivace opposizione, consolidarsi, e lucrare un allargamento dei consensi l’anno venturo. Questa scelta, però, da un canto dava tempo all’incerto alleato di preparare la sua defezione, e dall’altro “There is a tide in the affairs of men, / Which, taken at the flood, leads on to fortune; / Omitted, all the voyage of their life/ Is bound in shallows and in miseries[1].
  3. Lo Stato Maggiore della Lega ha dunque scelto l’audace manovra “alleanza con i 5*”, contando sui seguenti fattori favorevoli: a) l’ambiguità costitutiva e la carente strutturazione del Movimento 5* ne hanno fatto, secondo le intenzioni dei suoi promotori occulti, il principale fattore di paralisi del sistema politico italiano, e il principale collettore incapacitante del dissenso rispetto alla UE. Ma lo straordinario successo elettorale, e la collocazione sociale dei suoi votanti, il “popolo degli abissi” secondo l’icastica definizione che Giulio Sapelli mutua da Il tallone di ferro di Jack London, gli imponevano di scegliere pro o contro la UE, perché il posizionamento rispetto alla UE, essendo la linea principale del conflitto politico attuale, è ineludibile per qualsiasi forza acceda al governo della nazione. Il M5* ha lungamente oscillato, ma l’indisponibilità del PD renziano a un’alleanza ha deciso per esso. Il M5* doveva, o rinunciare al governo e scontare una grave delusione e progressiva perdita di fiducia del suo elettorato, o cercare l’unica forza politica disponibile a correre il grave rischio di allearsi con un socio politicamente indecifrabile ed elettoralmente molto più forte b) La Lega dunque ha corso il rischio. Elementi a suo favore: la maggiore strutturazione del partito, la maggiore esperienza del suo personale, e soprattutto la coerenza della sua strategia politica, che chiaramente designava il proprio avversario nella UE e nei suoi rappresentanti italiani (anzitutto il PD). In termini militari, la Lega ha scommesso sulla superiorità di una compagine meno numerosa ma di miglior qualità che conduce una guerra di manovra (colpire i centri di comando e controllo con rapide manovre) contro un avversario più numeroso e più scadente che sa condurre soltanto una guerra d’attrito (logorare gli avversari prendendo più voti, fino all’utopico 51%)
  • L’audace manovra ha avuto, sinora, un grande successo. Le reazioni negative degli alleati del centrodestra dimostrano a posteriori quanto incerta e pericolosa fosse l’alleanza, e dunque quanto poco prudente fosse, in realtà, la manovra “prudenziale” descritta al punto V. Sono stati loro a prendersi la responsabilità di rompere l’alleanza, così perdendo il “moral high ground” , la “superiorità morale”; e se appena il governo Lega – 5* riuscirà a tenersi in vita senza commettere errori strategici gravi, all’interno di Forza Italia e Fratelli d’Italia il dissenso già presente rispetto alla linea di opposizione al governo si allargherà e alzerà la voce, costringendo anche queste forze politiche a scegliere dove collocarsi rispetto alla linea del conflitto principale, eventualmente spaccandosi.
  • Perché l’evento più importante, che la mia Palla di Cristallo non esita a definire “storico”, segnato dalla nascita di questo governo, è proprio l’emersione in luce della linea di conflitto politico principale, sinora sommersa nella nebbia, che verte sulla UE. Questo evento di capitale importanza ridisegnerà, in tempi molto più brevi del previsto (da me), tutte le posizioni culturali, politiche e partitiche, italiane e non solo italiane.
  1. La Lega, insomma, punta a egemonizzare politicamente l’alleato 5* sfruttando il suo punto debole: l’assenza di una chiara designazione del nemico, e dunque l’ impoliticità. Punto debole politico e strategico che è anche, si noti bene, il suo punto forte elettorale, perché gli ha consentito di raccogliere consensi provenienti da culture e posizioni politiche anche opposte e affatto incompatibili. La pura e semplice alleanza con la Lega, che designando come proprio nemico principale la UE ha invece una chiara strategia politica, costringe di fatto il M5* a schierarsi, e a schierarsi sulla strategia dell’alleato minore: certo, a patto che la Lega mantenga ferma la bussola strategica. Il riposizionamento strategico che il M5* è costretto a fare provocherà certo molte reazioni al suo interno: pressioni, dissensi, eventuali spaccature, abbandono di una parte dell’elettorato; sommovimenti tutti vantaggiosi per l’alleato minore, che così aumenterà il proprio peso relativo nell’alleanza e vedrà aprirsi nuove possibilità di radicamento nel Meridione, bacino elettorale principale del M5* e terreno che per la Lega è indispensabile conquistare, per trasformarsi in forza politica autenticamente nazionale.
  2. E veniamo al Futuro (prossimo). La mia Palla di Cristallo afferma che il governo Lega-5* si insedierà, perché i “paletti” che il Presidente della Repubblica vorrebbe mettergli sono paletti di gomma. Molto semplicemente, Mattarella non ha spazio di manovra. Il piano B neomacroniano di un’alleanza Renzi-Berlusconi è molto acerbo, i suoi leader sono sconfitti, logorati, nel caso di Berlusconi affatto impresentabili all’elettorato. Una sua probabile riedizione con nuovi leader richiede un tempo di maturazione che Mattarella non ha. Un “governo neutro”, secondo l’impagabile formulazione mattarelliana, che ripetesse i nefasti montiani, passerebbe una palla gol elettorale alla Lega e ai 5* (ammesso che trovasse una maggioranza in parlamento). Un rifiuto ostinato da parte del Presidente della Repubblica di nominare i ministri meno graditi perché meno ubbidienti alla UE, in primo luogo il prof. Savona, provocherebbe una crisi istituzionale di prima grandezza e consegnerebbe un’altra, macroscopica palla gol elettorale a Lega e 5* (l’odierna dichiarazione dell’indisponibilità di Giorgetti a sostituire Savona al Ministero dell’Economia suffraga il responso della mia Palla di Cristallo).
  3. Dunque il governo si insedierà. Come andrà, in Futuro? La mia Palla di Cristallo mi e ci ricorda che anche visto dal Regno Sovratemporale, il Tempo è fluido e gravido di possibilità: solo l’Onniscienza divina scioglie il mistero dell’intreccio tra libertà umana e predestinazione. Essa dunque si limita a indicarci alcune linee di tendenza, e a rivolgerci alcune raccomandazioni.
  • Linea di tendenza principale: l’opposizione delle forze proUE al nuovo governo italiano, per quanto unanime e accanita, non potrà essere risolutiva e travolgente, perché uno scontro campale decisivo tra il governo italiano e la UE rappresenta un rischio esistenziale per entrambi. L’opposizione proUE punterà invece a usurare il governo, a sfruttare i suoi errori, e alla costruzione di un nuovo schieramento politico proUE.
  • Raccomandazione al nuovo governo della mia Palla di Cristallo: evitare lo scontro campale decisivo. Non è ancora giunta l’ora di una Valmy. Non cercare grandi vittorie ma piuttosto scongiurare grandi sconfitte. Anzitutto, perché la nuova alleanza e l’alleato minoritario che la guida non hanno ancora avuto il battesimo del fuoco, cioè del conflitto diretto, nazionale e internazionale, con il proprio nemico principale: e in una guerra, niente può sostituire l’esperienza personale del conflitto. Poi, stabilire rapporti con i settori dell’amministrazione statale senza i quali nessun governo può veder eseguite le proprie direttive (amministrazione, FFOO e in particolare l’Arma dei Carabinieri, servizi di informazione). Infine, prendere iniziative simboliche e dare esempi, per far capire con chiarezza a tutti gli italiani quel che è già manifesto sul piano politico, vale a dire dov’è la linea del conflitto principale, e dove si situano i campi contrapposti. In conclusione: sapere che in questa fase, non perdere è già vincere. Il resto si vedrà, perché:
  • Nessun piano operativo può spingersi, conservando un minimo di certezza, oltre il primo scontro con il grosso delle forze nemiche. E’ solo il profano che, mentre una campagna si sviluppa, crede di vedere la sistematica realizzazione del piano originale fino alla sua conclusione predeterminata.”

Terminato il 24 maggio 2018, ore 13

 

 

 

 

[1]C’è una marea nelle faccende degli uomini che, colta al suo apice, conduce alla fortuna; una volta persa, tutto il viaggio della vita è destinato a miserie e avversità.” Julius Caesar, Atto IV, Scena III

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