IL CONTRATTO DI GOVERNO, di Giuseppe Germinario

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IL GUARDIANO DELLA (AUGURABILMENTE DEFUNTA) COSTITUZIONE REALE, di Massimo Morigi

 

In due settimane il cerchio di fuoco tracciato dal Presidente della Repubblica, iniziato con il suo discorso alla Badia di Fiesole si chiude al momento con l’incarico di governo. Al centro le fiere impegnate al grande salto: il duo Salvini-Di Maio con il contratto di governo appena firmato, il PD in piena fibrillazione, il riabilitato Berlusconi.

IL DOMATORE

Il domatore Mattarella ha iniziato a sollevare la barriera utilizzando la strumentazione che conosce da tempo, appresa tale e quale dai suoi padri. L’ha esibita come un automa a Fiesole, con una retorica senza pathos. http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Video&key=2751&vKey=2475&fVideo=7

  • Ha rievocato le gesta intrepide e gli ideali dei padri fondatori della Unione Europea, omettendo la loro condizione di grave sudditanza politica rispetto al vincitore di campo dell’ultimo conflitto mondiale.
  • Ha rintuzzato le critiche sulla natura oligarchica, burocratica, autoritaria dei centri di potere comunitari sottolineando che le decisioni erano prese democraticamente dai capi di governi europei in concerto tra loro. Ha smontato così almeno parzialmente le ragioni e il bersaglio di una critica ricorrente, prestando però il fianco a due argomenti ancora più dirimenti e ostici da contestare, specie per bocca di un uomo di legge. Intanto le decisioni comunitarie, in quanto frutto di trattative tra capi di governo, non possono avere natura democratica ma sono il frutto di decisioni diplomatiche. Democratica può essere tutt’al più l’elezione dei vari capi di governo. È il riconoscimento implicito che la UE è un consesso frutto di trattati tra stati nazionali piuttosto che una istituzione sovrana. È una affermazione che sposta quindi l’attenzione sull’aspetto cruciale e dolente, ma regolarmente eluso, delle vicende comunitarie viste da un punto di vista nazionale: l’esistenza di una classe dirigente nazionale nella quasi totalità progressivamente senza ambizione di autonomia decisionale, senza capacità operativa e con una smaccata propensione alla sudditanza esterofila.
  • Prosegue ostinatamente nel rappresentare l’attuale processo comunitario come ineludibile nelle forme e nei tempi secondo l’impostazione funzionalista di Monnet. Con questo rimuove le diverse opzioni e punti di vista nelle relazioni tra stati europei presenti sin dall’immediato dopoguerra e che hanno attraversato il processo di costruzione comunitario; soprattutto, di fronte alle crepe sempre più evidenti nella costruzione, rischia di lasciare il paese ancora una volta spiazzato e in balia di scelte altrui

Mattarella merita per altro un filo di comprensione umana. L’arena era stata predisposta per un duetto Renzi-Berlusconi con eventuali altre comparse. La seconda opzione, scaturita dall’esito elettorale imprevisto nelle dimensioni, prevedeva di assecondare le pulsioni europeiste più conformiste presenti nel M5S con un accordo con il PD. Un tentativo reso vano dalla presa ferrea di Renzi su un partito smarrito e dalla sua convinzione di poter sgominare rapidamente i pentastellati stando alla finestra e giocando sulle leve di cui dispone e dalle quali è mosso. Non gli resta che tentare di porre un argine, forzando le proprie stesse prerogative e provare ad incanalarlo sulla retta via sia pure a costo di qualche pesante concessione redistributiva. Della perla rilasciata riguardante il varo di un “Governo Neutrale” non serve dilungarsi. Da pensionato Mattarella dovrà spiegare il nesso profondo tra il concetto di neutralità e quello di politico; una impresa particolarmente ardua anche per il più fervido sostenitore del governo mondiale e dell’ecumenismo. È l’espressione di una classe dirigente dimessa, smarrita e senza argomenti in grado di raccogliere un blocco sociale coeso e un popolo.

LE FIERE AL CENTRO DELL’ARENA

A giudicare dalle enunciazioni di principio del “contratto di governo” sottoscritto da Salvini e Di Maio, Mattarella sembra riuscire nella terza opzione. https://www.quotidiano.net/polopoly_fs/1.3919629.1526651257!/menu/standard/file/contratto_governo.pdf Le modifiche apportate in corso d’opera nelle tre edizioni del documento lasciano intuire l’enormità delle pressioni subite dalla coppia di governo. Il giuramento di fedeltà alla NATO, la rivendicazione del rispetto integrale del Trattato di Maastricht e di Lisbona sarebbero lì a certificare la ortodossa professione di fede dei neofiti, la pesantezza e la compromissione delle cambiali firmate da Di Maio nel suo giro preelettorale in Europa e negli Stati Uniti in cerca di investiture e la spavalda remissività di Salvini.

I più navigati, però, sanno che tanto più vige l’ostentazione pubblica delle virtù quanto più occorre indagare sui vizi privati dei paladini.

E in effetti i termini sui quali si dovranno condurre le future trattative in ambito comunitario, annunciate nel documento, se portati avanti con coerenza e determinazione, lasciano presagire una lacerazione piuttosto che una solida ricomposizione della costruzione europea. La riduzione dei surplus commerciali, il riconoscimento del carattere sociale del legame europeo, lo sfondamento dei tetti di spesa, le garanzie comunitarie su crediti e debiti sono tutti cunei in grado di scardinare l’attuale costruzione alemanno-statunitense del continente.

Gli elementi che evidenziano i limiti del documento e quindi delle forze politiche che lo esprimono si annidano prosaicamente in altre parti del testo. Sono limiti che rivelano l’impostazione culturale e strategica dei due gruppi dirigenti, soprattutto quello del M5S, molto più difficile da correggere.

Li si scova tra vari punti particolari del documento:

  • Nell’auspicio dello sviluppo delle politiche regionali europee senza la mediazione, il controllo e l’indirizzo degli stati nazionali. Politiche che, perseguite con coerenza, hanno condotto scientemente all’indebolimento di alcuni stati nazionali, meno di quelli dell’Europa Orientale, dove il decentramento amministrativo è più che altro nominale, soprattutto di Spagna e in particolar modo di Italia, le vere prede designate nel gioco europeo
  • Nella richiesta generica di investimenti pubblici europei le cui modalità e regole di utilizzo sono attualmente in realtà propedeutiche alle politiche di squilibrio e di dipendenza piuttosto che di sviluppo autoctono
  • Nella affermazione di una fantomatica identità europea tale da legittimare l’efficacia unitaria delle istituzioni rappresentative europee eventualmente da potenziare a scapito degli organi non elettivi. Una impostazione che rischia di celare sotto il mantello europeista una diversa modalità del confronto fra nazioni traslato nelle sedi rappresentative piuttosto che negli apparati.

Ma anche in alcune sue impostazioni di fondo, quindi:

  • Nell’enfasi retorica, pressoché univoca, attribuita alle magnifiche sorti e progressive dell’economia circolare e delle tecnologie verdi e alle capacità di sviluppo della piccola impresa. Non è un caso che il ruolo della grande impresa e della grande industria sia del tutto disconosciuto e quello dell’introduzione e soprattutto del controllo delle nuove tecnologie omesso. È l’indizio che si tratta di un gruppo dirigente attento alla complementarietà e alla diffusione di un sistema economico-sociale, sensibile quindi più al consenso elettoralistico, piuttosto che alla creazione di sistema di potenza indispensabile e necessario a sostenere il confronto geopolitico e garantire la coesione e il progresso sociale. Le righe riservate all’ILVA e alle grandi opere pubbliche sono forse la spia più inquietante di questa debolezza. La chiusura dello stabilimento di Taranto rappresenterebbe un colpo mortale all’industria di base necessaria alla riconversione industriale del paese e alla fornitura dei mezzi necessari all’esercizio della propria sovranità. Senza dimenticare che come la chiusura di Bagnoli ha consentito il potenziamento del comando della VI flotta americana a Napoli, la chiusura dell’ILVA a Taranto consentirà il potenziamento del porto militare e della logistica NATO e americana in tutta la Puglia. Una scelta economica, quindi, dalle profonde implicazioni geopolitiche http://italiaeilmondo.com/2018/05/22/taranto-da-polo-siderurgico-a-polo-strategico-della-nato-di-luigi-longo/  .
  • Nella frettolosità con la quale viene liquidato il tema della riorganizzazione istituzionale e burocratica dello Stato. Le indicazioni più concrete di risolvono nella normativa sui referendum, nella istituzione del ministero del turismo e soprattutto nella devoluzione controllata di competenze alle regioni, su loro richiesta. Proposte che se non sostenute da un chiara ed efficace definizione delle competenze dello Stato Centrale sia nei confronti delle amministrazioni locali che dell’Unione Europea rischiano di alimentare la frammentazione e la sovrapposizione di competenze. Una condizione di per sé precaria e fluttuante, ma estremamente pericoloso nel caso in cui, come ultima risorsa, il vecchio establishment nazionale e soprattutto internazionale decida di utilizzare la carta della frammentazione politica del paese. Il revival dei fasti borbonici del re Nasone periodicamente in auge nel Regno delle Due Sicilie, il controllo territoriale delle varie mafie e il basso rango dei centri di potere regionali potrebbero trovare un terreno favorevole di coltura nell’enfasi della democrazia dal basso e di prossimità, nel regionalismo e nella retorica “dell’Italia dei Popoli”, cavalli di battaglia delle due formazioni politiche contraenti

I COMPRIMARI NELL’ARENA

Il PD e Forza Italia sono i due responsabili del naufragio delle aspettative di continuità degli indirizzi politici. Lo spettacolo offerto dall’Assemblea Nazionale del PD di sabato 19 vale da solo a spiegare lo stato di fibrillazione. Un consesso composto da un migliaio di rappresentanti, tenuto da circa settecento partecipanti, con un ordine del giorno modificato al momento, un esodo a metà svolgimento di oltre la metà dei partecipanti ed una conferma a termine del neosegretario Martina con una maggioranza assoluta di duecentottanta persone. Una sinistra, in sostanza, fautrice di un fantomatico nuovo centrosinistra, indisponibile almeno per il momento ad un governo di salvezza nazionale, detentrice di un controllo approssimativo delle redini del partito, la quale fronteggia un Renzi sornione, detentore delle redini parlamentari e del consenso maggioritario di una formazione del tutto trasformata in questi ultimi quattro anni, pronto a riesumare una politica di collaborazione e fagogitazione di parte dei prossimi resti di Forza Italia.

Quanto a Berlusconi, la sua riesumazione e riabilitazione, appare la mossa disperata di una élite ormai incapace di offrire strategie e alternative valide, neppure di breve termine come in Francia. L’estromissione dei francesi da Tim-Telecom e il contestuale sodalizio sottoscritto con Mediaset e la sua produzione mediatica, rappresentano il parziale obolo necessario a rinvigorire l’azione dell’ex cavaliere. Un simulacro che però per il bene del paese dovrebbe ormai essere al più presto accantonato.

IL CONTESTO e LE CONDIZIONI

La sola analisi del documento del “contratto” può indurre però a conclusioni fuorvianti. Alla pubblicità e solennità del testo corrispondono regolarmente strategie e tattiche condotte nella maniera più riservata in un contesto che porta a modificare se non addirittura a stravolgere i programmi e le aspirazioni.

La creazione delle condizioni interne certificheranno la capacità e la serietà delle aspirazioni delle nuove élites in via di formazione.

Il ripristino del controllo della gestione del risparmio nazionale, riportare in casa propria il controllo del debito pubblico, l’istituzione di un sistema finanziario e bancario in grado di garantire lo sviluppo e la ricostruzione industriale, l’interruzione dei processi di integrazione militare e politica ed il ripristino delle condizioni di fedeltà all’interesse nazionale dell’azione delle leve di potere politico e burocratico saranno la cartina di tornasole della serietà delle intenzioni e delle capacità operative.

Altrettanta importanza avranno le condizioni esterne. Il processo di costruzione europea attuale vive una condizione di stallo che prelude ad una crisi sempre più conclamata. La formazione di più sfere di influenza per il momento tutte sotto controllo americano e la frammentazione politica ormai predominante anche nei principali paesi europei non fa che accentuare questo processo e ne è parte integrante.

Il bilateralismo imposto dall’avvento di Trump alla Casa Bianca sta registrando i primi significativi successi con la Cina, la Corea e potrebbe incoraggiare a spingere ulteriormente the Donald a perseguire tali modalità anche in Europa. A quel punto lo scotto da pagare per la Germania, in cambio della permanenza del proprio ruolo in Europa, potrebbe essere particolarmente pesante e compromettere la coesione sociale interna e la solidità del suo cerchio di alleanze più solido ed esclusivo in Europa Centro-Orientale. Tutte condizioni che potrebbero agevolare l’azione della nuova coppia in auge soprattutto in presenza di vecchie élites europee attardate a considerare l’avvento di Trump ancora un semplice incidente. Qualche contatto è stato avviato, ma non si conoscono ancora gli esiti.

Molto diranno le personalità selezionate per costituire il nuovo governo, la loro storia e soprattutto la forza e la determinazione dei loro propositi.

Su questo, il gruppo in formazione, almeno quella parte più sensibile ad un recupero delle prerogative dello stato nazionale, più che essere consapevole delle necessità ed implicazioni appare destinato a scoprire al momento le necessità e a sbattere duramente con la realtà. In tal modo il tempo per trarne lezioni sufficienti è risicato; come in ogni conflitto dall’esito apparentemente improbabile.

Si vedrà già dai prossimi giorni. In quel documento l’impegno insolito ad una condotta controllata del confronto politico tra le due formazioni prelude evidentemente ad altri obbiettivi di più lunga scadenza. Quel che appare certo è che assisteremo ad uno sconvolgimento del quadro politico e a un chiarimento delle varie opzioni. Tutti varchi necessari alla costruzione di un movimento politico più attrezzato alle necessità. L’onda ha iniziato a formarsi. Si vedrà l’energia che riuscirà ad accumulare e la forza con la quale andrà a frangersi

Circa identità e universalismo: dialoghi repubblicani, di Alessandro Visalli

Prosegue il dibattito tra identità e universalismo con tutte le sue implicazioni riguardanti le scelte politiche strategiche di questi ultimi decenni. Un confronto che ha coinvolto in particolare, oltre all’autore dello scritto in calce e indirettamente il professor de la Grange, Roberto Buffagni e Massimo Morigi. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Circa identità e universalismo: dialoghi repubblicani.

https://tempofertile.blogspot.it/2018/03/circa-identita-e-universalismo-dialoghi.html

Su Italiaeilmondo, un dialogo con Roberto Buffagni, prima, e dopo con Massimo Morigi si sta sviluppando sulla linea del confronto tra tradizioni culturali e punti di vista diversi ma capaci di reciproco riconoscimento. La cosa era partita da un commento ai fatti di Macerata di Roberto Buffagni che avevo riletto nella mia tradizione come “scontro di secolarizzazioni”, dal quale è nata un’altra linea di dibattito interessante sulle pagine di Sinistrainrete (l’ultima puntata è questa); questo dibattito incrocia quello sulle “due Europe”, anche esso avviato da Buffagni, cui replicai con “lo scontro tra due europe” e quindi le repliche dello stesso Buffagni (qui e qui).

Ciò che è in questione nell’intreccio dei tre dialoghi è la questione della forma di universalismo verso la quale manifestare lealtà, entro il sistema di tensioni non risolte della nostra cultura e valutando le forze in campo, e la sua concrezione geopolitica nel progetto europeo e mondiale, da una parte, e nella risposta alla crescita (per ragioni interne che riassumo nello schema delle “due economie politiche”) della mobilità della ‘forza lavoro’, dall’altra. Si tratta di questioni dirimenti per il posizionamento politico contemporaneo.

Sulla linea dello “scontro di secolarizzazioni”, dunque sul registro dell’immigrazione, Massimo Morigi replica in “Considerazioni al margine” attraverso una densa lettura della tradizione politica italiana imperniata sul momento risorgimentale e nella fattispecie la figura di Mazzini. Commentando questo pezzo avevo quindi scritto “Identità e universalismo”, nel quale venivano richiamati pochi momenti della grande questione tra autenticità e autonomia che struttura il pensiero politico europeo dei moderni nella sua formazione (attraverso snodi come Rousseau, Kant, Herder ed Hegel, per dire), e viene ripresa ed attualizzata nel dibattito sul multiculturalismo negli anni novanta e in quello sul comunitarismo. Nella chiusa, in quelli che necessariamente anche per il mezzo possono essere solo pochi appunti volanti, avevo scritto che oggi l’unica teoria della giustizia possibile, dunque, è quella che è in qualche modo progettata (rischiosamente) a partire dalle caratteristiche che lo sviluppo storico concreto ha depositato nell’oggi, per come queste si sono date, cioè, dal sedimento dei conflitti e dei successi o fallimenti nell’ottenere riconoscimento da parte delle diverse soggettività.

Probabilmente anche l’unica possibile pratica politica.

Massimo Morigi risponde con un pezzo che riprende questi temi dal punto di vista del “repubblicanesimo geopolitico” e sceglie di manifestare “l’estrema e multilaterale debolezza” del mio argomento giudicato centrale: l’interpretazione di Charles Taylor della tensione tra autenticità e autonomia nella nostra cultura. E soprattutto la tesi del nostro che vi sia una discontinuità tra la lettura dell’autenticità come progetto, sia pure costantemente sfidato da eteronomia (in quanto è autentico in effetti chi non sottopone a riflessione l’essere in cui si trova collocato), dei moderni e quella delle generazioni precedenti. In altre parole, che l’identità sia da leggere in modo diverso per un moderno e per un uomo colto premoderno. Con le parole di Morigi:

Il passo di Visalli testè citato sembra quindi suggerire, assieme a tutto il tono del suo intervento, che il problema dell’identità dei popoli, e di riflesso degli individui che questi popoli compongono, ha inizio in epoca moderna, legato prevalentemente ai fenomeni di secolarizzazione e di progressiva riduzione della dimensione del sacro.

L’obiezione è che, se pure di nazione e della relativa identità si cominciò a parlare con un tono diverso anche a seguito della sfida napoleonica e in ambiente tedesco prima con Herder e poi con i “Discorsi alla nazione tedesca” di Fichte, in evidente polemica con l’universalismo illuminista (che con Napoleone era imperialismo, se visto dall’alto lato delle baionette), l’identità nazionale agonistica preesiste, e di molto. Gli esempi di Morigi sono i greci contro i persiani, gli ebrei, i romani, e quindi dell’idea di Italia che emerge nel medioevo (sia pure tra pochi intellettuali, tra i quali cita Dante e Baldassar Castiglione, o, ovviamente, Machiavelli).

D’altra parte l’interlocutore finisce per concordare con la conclusione:

Scrive Visalli in conclusione del suo pregevole commento al mio articolo: «L’unica teoria della giustizia possibile, dunque, è quella che è in qualche modo progettata (rischiosamente) a partire dalle caratteristiche che lo sviluppo storico concreto ha depositato nell’oggi, per come queste si sono date, cioè, dal sedimento dei conflitti e dei successi o fallimenti nell’ottenere riconoscimento da parte delle diverse soggettività. Probabilmente anche l’unica possibile pratica politica.» Per quanto da indegno erede del  crociano storicismo assoluto io sia del tutto hegelianamente diffidente verso ogni teoria, anche se sotto forma di ‘teoria della giustizia’, calata sulla “realtà effettuale”, non ho alcuna difficoltà a riconoscermi nello spirito di questa affermazione, il cui nucleo è il sacro rispetto che si deve avere di quell’ “astuzia della ragione” che consiste nel secolare deposito storico di aspirazioni e tradizioni apparentemente contraddittorie ma che proprio nella loro contraddittorietà – ed anche mutua violenza e volontà nel passato e, purtroppo, anche odierna, di sopprimersi – formano oggi, del tutto analogamente a come avviene per gli altri popoli, la nostra identità come individui e come popolo.

Tenendo per buono questo finale accordo, probabilmente conviene però spendere qualche parola sul contesto nel quale viene individuata la discontinuità tra moderni e classici che ha colpito Morigi. Sostiene infatti questi che sia “assolutamente da respingere come storicamente inesatta l’idea che i popoli per sviluppare ed avvertire una propria identità, …, abbiano dovuto aspettare il XVIII secolo”, e specificamente “di una identità avvertita come agonistica rispetto alle altre”.

Ora, ci sono molti modi di reagire a questa osservazione:

  •   – da una parte ‘l’agonismo’ tra le organizzazioni più o meno statuali e le nazioni è ovviamente un fatto della storia. Ma entrambi i termini sono anacronistici, se utilizzati prima della modernità nella quale si forma lo Stato-nazione, in riferimento alle entità politiche e società preesistenti.
  • Dall’altra la specie umana è sempre stata formata da individui, ma non sempre questi hanno concepito se stessi e i gruppi nei quali erano immersi nello stesso modo. Il legame sociale è sempre mutato e ancora muta portando con sé l’insieme delle istituzioni, dei valori e delle norme sociali, quindi anche le identità rese possibili da queste. Anche parlare di ‘popolo’, al singolare, prima della modernità contemporanea, con la potenza dei suoi mezzi di comunicazione, per dirne una, rischia di proiettare esperienze contemporanee sul passato in modo indebito.

Quel che possiamo provare a nominare come ‘i popoli’ (che poi a grandi linee sono solo le loro élite e le clientele ad esse connesse in vario modo, e quindi facenti parte del ‘modo di produzione’ tributario ad esse) hanno sempre sviluppato una loro specificità, e quindi ciò che oggi chiamiamo una loro ‘identità’, ma quanto ad avvertirla il passo non è sempre automatico. Parlare dei ‘greci’ (una realtà molto più fratturata di quanto ci piaccia sapere, e la cui tradizione ci viene trasmessa da pochissime fonti, quasi tutte ateniesi, relative a poco più di un secolo e praticamente tutte di parte aristocratica, a partire dalla linea principale dei filosofi e dei drammaturghi) come di un ‘popolo’ opposto ai ‘barbari’ (prendendo per buona la retorica imperiale ateniese e poi macedone) richiede una certa distanza, avvicinandosi l’immagine si frammenta. Egualmente per i ‘romani’, il non-stato più multiforme, politicamente, giuridicamente, etnicamente e culturalmente, dell’antichità.

Diciamo che bisognerebbe entrare molto dettagliatamente nel merito, ed interrogare le fonti con occhio ed orecchio attento alle differenze, che spesso baluginano nei dettagli, più che alle presunte somiglianze (che possono facilmente essere proiezioni).

Ma anche l’osservazione di Charles Taylor va ascoltata nel suo proprio contesto, ovvero entro l’ambiente di discorso al quale il filosofo e storico canadese reagisce. Intanto dalla disciplina principale nella quale interviene: filosofia morale. All’ambiente culturale: Oxford prima USA, dopo. Quindi al periodo: anni settanta per gli studi hegeliani, ottanta per la teoria del linguaggio e dell’azione, l’epistemologia, e poi teoria dell’identità moderna al finire degli anni ottanta, e storia delle idee negli anni a cavallo del millennio. I suoi libri più famosi sono “Hegel”, 1975, “Radici dell’Io”, del 1989, e “L’età secolare”, del 2009.

Si tratta di un autore che avvia la sua riflessione sulla scorta di quell’evento epocale che fu la pubblicazione di “Una teoria della giustizia” di John Rawls del 1971. La ripresa della più antica tradizione contrattualista, in aperta polemica con l’allora egemone teoria morale utilitarista, nel libro epocale di Rawls determina infatti negli anni seguenti una completa ridefinizione del campo. La teoria politica liberale ne viene del tutto riscritta; quella linea genealogica che aveva Hobbes e Locke come padri, poi Kant e J.S. Mill, è riaggiornata da Rawls tenendo fermi i suoi caposaldi: concezione naturalistica dei diritti, libertà individuale come non interferenza, autonomia in senso personale e non collettivo, eguaglianza di principio, democrazia. Ma viene creata anche una coerente cornice intellettuale per far posto a quelle modifiche che il novecento aveva imposto a partire dal new deal: le libertà positive e la redistribuzione, quindi per fare spazio alla ‘questione della giustizia’. Il liberalismo di Rawls fa infatti perno sulla questione dell’eguaglianza, la determina come problema, mentre il liberalismo utilitarista classico si limitava a porre la questione della ‘libertà’ (negativa). Le questioni che diventano rilevanti sono a questo punto soprattutto due: la neutralità o meno dello Stato rispetto a diverse visioni del bene; la natura dei beni che vanno redistribuiti. Del primo problema la discussione si sviluppa con Dworkin, Ackerman, Nagel, Scanlon, ma anche Nozick. Del secondo si discute con i proceduralisti, ad esempio con Ackerman e Habermas (ne avevamo parlato qui).

Ma su questo terreno nasce anche una diversa controversia che esce dal campo liberale, e in alcune versioni attacca direttamente l’impostazione neo-kantiana di Rawls facendo uso di argomenti neo-hegeliani. È un attacco dall’esterno (mentre il primo era dall’interno), ed impegna gli anni tra ottanta e novanta. Si tratta della ripresa di motivi classici, della teoria della virtù, o comunque non liberali, da parte di una nuova famiglia di critici che sono stati etichettati come ‘comunitari’. Gli autori più rilevanti sono Alasdair MacIntyre, di cui leggeremo “Dopo la virtù”, del 1981; Michael Walzer, di cui leggeremo “Sfere di giustizia”, del 1983; Michael Sandel, “Il liberalismo e i limiti della giustizia”, 1982. La tesi a grandissime linee è che non si può presumere, se si pone la questione della giustizia, che lo stato si mantenga neutrale tra opposte concezioni del bene, o della vita buona, perché queste costituiscono gli individui che sono sempre situati ed incarnati in esse.

Charles Taylor è un esponente di seconda generazione di questa reazione all’astratto proceduralismo liberale. Ciò che scrive sulle radici dell’io e la storia delle idee che lo hanno costituito nella modernità va quindi necessariamente inquadrato in questa polemica.

Per il nostro l’identità in senso moderno si caratterizza dall’avere contemporaneamente tre caratteristiche: la percezione dell’interiorità, l’affermazione della vita come comune ed in comune, l’idea della moralità come naturale. Nello spazio morale si determina quindi un ‘io’ quando riusciamo a comprendere che cosa sia per noi di importanza cruciale e quindi in un certo senso quando sappiamo ‘dove’ siamo. Quando diventa possibile assumere una posizione e trovarsi in un orizzonte nel quale possiamo stabilire, di volta in volta, e caso per caso, che cosa è da tenersi per buono, quindi cosa dobbiamo fare o avversare. In altre parole noi siamo in quanto ci stanno a cuore delle questioni e non altre, in quanto siamo dotati di autointerpretazioni che non sono completamente esplicite, e in quanto siamo immersi in relazioni. Nessuno può essere descritto senza fare riferimento a quelli che lo circondano (T., “Radici dell’io”, p. 52). Dunque l’io esiste solo all’interno di ‘reti di interlocuzione’, e non nell’astratto e disincarnato vuoto immaginato dai ‘diritti civili’ liberali. E non esiste staticamente, ma solo narrativamente, sapendo non solo ‘dove siamo’ ma anche ‘dove andiamo’ e ‘da dove’.

Anche Taylor, in effetti, sviluppa una critica allo scientismo di cui è imbevuto il liberalismo naturalista (e le scienze economiche) e valorizza la strategia di Aristotele (come MacIntyre), tendente a definire come ‘vita buona’ quella che “combina nel più alto grado possibile tutti i beni cui aspiriamo” (idem, p.93).

Ecco che la ‘meglior forma’ evocata da Morigi trova una possibile cornice: la ragion pratica evocata ha a che fare con il racconto biografico, con la possibilità, esercitando una forma narrativa di ragione, di mostrare che una data soluzione tiene insieme meglio ciò che ci è caro, risolve meglio le contraddizioni presenti, dissolve confusioni ricorrenti.

Nel capitolo dodicesimo del suo libro sulle radici dell’io Taylor compie una digressione sulla spiegazione storica che direttamente chiarisce il dubbio che Morigi avanza. Il percorso ricostruttivo nel quale indulge (parlando di Cartesio, Locke, Montaigne e via dicendo) non è né una spiegazione ‘idealista’ né una spiegazione storica strictu sensu. Non cerca di dimostrare causazioni diacroniche, come propone ad esempio il marxismo, ma cerca solo di enucleare quali caratteristiche siano state capaci di far affermare la nuova idea di identità (p.256). La relazione tra le idee-forza (ovvero capaci di motivazione e di emergere come parte della autointerpretazione narrativa) e i meccanismi di causazione, è dunque riconosciuta come complessa e passante per pratiche sociali concrete, per l’applicazione di ciò che si può o non può fare. L’ambizione non è di risolverla.

Il seguito vede un ampio racconto che passa per la razionalizzazione del cristianesimo, esemplificata e condensata da Locke e poi le teorie dei sentimenti morali della scuola scozzese, Shaftesbury, Hutcherson, dalla quale emerge la categoria ‘dell’economico’ come ordine provvidenziale (gioverebbe anche ricordare Genovesi) che si autoregola. Quindi per gli orizzonti frantumati della perdita di dio (cui dedica il ben più ponderoso “L’età secolare”) e l’illuminismo radicale nel quale si afferma una idea di ragione autoresponsabile, strettamente connessa con la nuova ragione scientifica (Newton) e con l’affermazione dell’utilitarismo (p.410). Per il ‘controilluminismo’ di Rousseau e la nozione di ‘autonomia’ messa a fuoco da Kant fissa l’ideale di essere razionali, ma anche per la svolta espressivistica di Herder (p. 459) e l’idea di avere in effetti delle profondità interiori.

Da Darwin muove quindi la definitiva affermazione di un ordine senza ordinatore che mette a sistema la visione morale dello scientismo, affermando la secolarizzazione, che si può riassumere nell’enunciato “non si deve credere ciò di cui non si hanno prove sufficienti”. Un concetto di drammatica importanza, nel definire ciò che può essere e ciò che invece deve recedere, che si fonda su due idee-forza per Taylor: la libertà come razionale autoespressione e l’eroismo dell’incredulità. Da qui emerge una sorta di esigenza morale rovesciata: quella di non credere.

Il passo successivo è l’espressionismo postromantico di Schiller, Baudelaire, Schopenauer e Kierkegaard, ma anche Dostoevskij e Nietzsche. E la ricerca di una via di uscita dal mondo meccanico in Husserl, Heidegger, Adorno.

Il punto per Taylor, nel contesto non di una ricerca storica ma di una rimemorazione delle radici dell’io (anche se la relazione causale è incerta e la stessa composizione multiforme) è che “una società di persone tese [solo] all’autorealizzazione e le cui affiliazioni vengono considerate sempre più come revocabili non può sostenere quell’identificazione forte con la comunità politica che la libertà pubblica richiede” (p.617).

Insomma, il punto è precisamente quello evocato nel post “Ripensare i fondamenti: ‘libertà’”: l’idea di libertà come egoismo non limitato, spesso connessa internamente con lo scientismo, è strutturalmente e geneticamente connessa con l’inibizione dell’azione collettiva e milita contro quella che Taylor chiama la “libertà pubblica”. La “libertà privata” atomistica impedisce l’affermazione della “libertà pubblica”, l’autorealizzazione individualista con la lealtà collettiva.

La questione è dunque politica.

Identità e universalismo: un dialogo, di Alessandro Visalli

Identità e universalismo: un dialogo.

tratto da https://tempofertile.blogspot.it/2018/02/identita-e-universalismo-un-dialogo.html

Un commento ad un mio breve articolo, che a sua volta faceva seguito ad uno scambio su un altro. Nel frattempo il fatto che originariamente si commenta si allontana. E nella replica di Massimo Morigi, in effetti, si allontana di molto.

A grandi linee il commento ai tragici fatti di Macerata di Roberto Buffagni tendeva ad individuare l’emergere di un fondo belluino non civilizzato nell’incontro/scontro troppo poco mediato, nella generale perdita di autorità delle istituzioni repubblicane e financo religiose, tra persone sradicate e culture diverse. Cioè l’avvio di quel che più teme: la perdita di coesione e l’avvio di una guerra generale: “homo hominis lupus”.

La mia prima reazione, insieme di commenti su Facebook montati in un solo pezzo che meriterebbe più coesione, collegava tale ipotesi e l’attacco di Buffagni al multiculturalismo alla anomia della società contemporanea, nella quale l’erosione dei valori fa sponda con la perdita delle risorse (riecheggiando in qualche modo la profezia di Pasolini). E risaliva da questa al dominio della tecnica che riduce l’uomo alle sue metriche, facendone macchina del valore e disincantando il mondo: secolarizzandolo, dunque. In questo ordine del discorso fa problema lo scientismo, sublimato nell’economia contemporanea, che postula una separazione radicale tra corpo e mente, confinando in quest’ultima tutto il senso. La tesi è dunque che quando diversi gradi di secolarizzazione giungono in contatto, senza sufficienti mediazioni, anziché la “moltitudine” indifferenziata e libera può darsi l’emergere del terroso. Insieme del corpo, e dei ‘mondi incantati’ (Taylor).

Seguì una sistemazione più meditata nel post “Lo scontro delle secolarizzazioni”, riportato anche in “Sinistra in rete” (qui) e su “Italia e il mondo” (qui). Il tessuto di violenza emerso dalla vicenda era messo in relazione con la perdita di senso determinata dalla secolarizzazione che il capitalismo, ovvero la forza della tecnica e delle metriche di valore deumanizzanti, impone in tutto il mondo e per esso nei paesi in corso di ‘monetizzazione’ (ovvero in cui la logica del denaro sta penetrando con crescente intensità) e in quelli storicamente tali, come l’Italia. Il problema non è nostro e non deriva solo dal confronto/scontro, ma nella ripresa su “Sinistra in rete” ci sono state interessanti reazioni, da una posizione classicamente marxista (soprattutto una) che hanno fatto venire in superficie altri temi. In questo diverso ordine del discorso, sotto l’impulso a considerare non già la dimensione sacrale e culturale, ma quella strutturale economica, ho provato quindi a individuare i nessi tra le “economie politiche” intrecciate della “emigrazione” (ovvero quella che estrae, sradicando, gli esseri umani trasformandoli in risorse e contenitori di lavoro) e dell’ “immigrazione” (ovvero quella che attira, generando differenziali di valorizzazione e utilizzando i nuovi contenitori di lavoro per abbassare le pretese dei vecchi, ovvero, con le parole di Barone del proletariato autoctono facendo uso di quello immigrato). Nessi la cui effettiva capacità di potenza è differenziata, altamente, tra filiere produttive, segmenti della catena del valore e aree geografiche. Questo processo lavora nel tenere in movimento quella macchina deflazionaria che chiamiamo economia contemporanea globalizzata, fondata sulla concentrazione del valore in alto per via di competizione. Ne è anzi uno dei meccanismi essenziali. Un meccanismo, sia chiaro, del tutto razionale, profondamente innestato nella logica della razionalizzazione occidentale messa in movimento cinquecento anni fa dalla rivoluzione scientifica. Ovvero dallo snodo del quale parlava la prima divagazione. Entro la logica scientifica, che riduce la natura a numero (come logicamente propose Galileo e ancora meglio Newton), con mossa profondamente metafisica, il modo di produzione capitalista (sviluppato in termini coevi), o se preferiamo la riduzione del valore a numero-denaro, è invincibile perché razionale. E lo è perché competizione e calcolo economico dicono la verità dei rapporti, la verità della loro funzione nel sistema totale che incorpora ogni possibile società. Divenuta inevitabile la competizione per la creazione di valore misurabile, divengono anche inevitabili i rapporti sociali che questa determina. I rapporti sociali, cioè la gerarchia sociale.

In un altro dialogo con gli stessi interlocutori, quello mosso dall’articolo “Due appelli, due europe”, di Buffagni, risposi con “Lo scontro tra le diverse Europe” nel quale concordavo che l’economico va “risecolarizzato” (essendo una forma surrogatoria di tipo religioso) questa volta nel senso di reincoprorarlo, come dice Amin, in un “iceberg di rapporti sociali di cui la politica costituisce la parte emersa” (OM, p,102). La bella immagine dell’economista egiziano presuppone di fuoriuscire sia dallo scientismo sia dall’economicismo, riportando sulla terra, con i piedi ben piantati, la hybris della riduzione del mondo a numero e delle cose tutte a valore scambiabile (uomo incluso). Questa mossa richiede e non inibisce la costituzione di sistemi di nessi, condivisi, popolari, democratici e dotati di confini. Ovvero nazionali. Come avevo scritto: ciò che bisogna separare è il nesso interno tra una certa visione lineare della storia come progresso verso un qualche telos, l’identificazione della meccanica (quando non anche del telos stesso) con un presunto svolgersi infallibile di leggi dell’economia ‘pura’ (una visione autorizzata da una lettura banalizzante di alcuni passi dello stesso Marx, ma molto più di Engels e di alcuni suoi epigoni), e il precipitare finale di tutto ciò a servizio di un progetto di potenza nascosto in bella vista nella retorica Wilsoniana di tanto in tanto riemergente. La retorica wilsoniana, di cui si è fatto grande uso nel progetto europeo, che conduce a deboli strutture di nesso, vuote e disincarnate, che non offrono ostacolo alla traduzione di tutto in cosa scambiabile e il suo accumulo, sotto forma di valore-numero, nelle munite cassaforti dei sacerdoti della globalizzazione e nei loro templi.

A distrarre da questo semplice effetto la retorica della creazione di una comunità universale, che naturalmente non è nessuna delle due cose, in quanto impossibile (mentre nasconde la verità del dominio imperiale di alcuni nessi funzionali) non è universale e in quanto programmaticamente uniforme non è comunità. Al massimo ci sono pseudo-comunità (rette dal comune interesse) di élite sradicate ed interconnesse con i poteri sradicanti.

A questo intervento Roberto Bufagni replicò in due parti. La prima dispiegava una sorta di glossario esplicativo che articola il tema della guerra civile di religione che secondo la sua opinione sobbolle sotto il fragile velo di ghiaccio dell’universalismo. Nella seconda parte riprende il noto argomento di Michels sulla inevitabilità della formazione di ineguaglianze derivanti dalla divisione del lavoro, facendone discendere la conseguenza (per la quale vengono in mente normalmente esempi rivoluzionari) degli effetti controfinalistici del tentativo di eliminarla.

Sono, questi, tutti temi difficili e vengono inquadrati da diverse tradizioni teoriche e politiche. I due dialoghi alla fine si intrecciano tra di loro, disseminando talmente tante questioni che una trattazione appena decente richiederebbe forse diversi libri; ma guardare con occhi diversi può essere un esercizio capace di mostrare meglio a sé il proprio stesso sguardo.

Ora Massimo Morigi ne esprime uno particolarmente lontano dalla mia sensibilità, ma forse per questo particolarmente utile. È questa una fase nella quale la profonda crisi di trasformazione consiglia la massima apertura. In “Considerazioni a margine”, che commenta il mio testo “Lo scontro delle secolarizzazioni”, Morigi svolge una complessa obiezione all’eccesso di economicismo, e quindi di scientismo, che intravede nel mio testo. In parte questo è dovuto al contesto, si trattava infatti di una replica ad un commento sul pezzo pubblicato in “Sinistra in rete” nel quale la crisi veniva ricondotta agli effetti della secolarizzazione dovuta all’evoluzione sincrona della rivoluzione scientifica ed alla formazione del mondo capitalista. Ovvero di una replica ad un’accusa simmetrica: di far troppo conto sulla cultura.

A questo su un primo livello bisogna replicare che ‘struttura’ e ‘soprastruttura’, anche nella migliore tradizione marxiana, sono entrambi necessari, e sono sostanzialmente nostre partizioni a scopo di rappresentazione di un insieme continuo di fenomeni e rimandi.

Morigi, però, conduce la sua critica attraverso una densa lettura della figura di Mazzini, letta dalla chiave interpretativa dell’attualismo gentiliano (dunque potremmo dire, da destra) e l’interpretazione di Delio Cantimori, come antilluminista (lui che era allievo di Buonarroti). Più precisamente, riporto: “le pur generose esortazioni (ed anche in parte penetranti analisi) di Alessandro Visalli, il cui difetto di fondo è l’essere impregnate di quello spirito universalistico di matrice illuministica che Mazzini – e sulla sua scia il Repubblicanesimo Geopolitico –  sempre e con tutte le sue energie avversò, e questo non perché fosse un reazionario ma perché aveva capito benissimo che se si vuole essere veramente universali la prima cosa che necessita è possedere una visione strategica il cui centro focale è la creazione di una propria distinta ed unica identità, lasciando agli ideologi la discussione in merito all’universalità di questo o quell’altro sacro principio”. Non ci sono dubbi che quel che chiama “il repubblicanesimo geopolitico”, cioè la scuola realista, avversa lo spirito universalistico di matrice illuminista, sospettato di astrazione e di doppia morale, ma non mi resta chiaro l’esatto senso del “vero universalismo”.

Inoltre, pur non avendo adeguata dimestichezza con Giuseppe Mazzini (che dovrei approfondire molto di più) nei testi che ho letto (“Pensieri sulla democrazia”, del 1846; “Dei doveri dell’uomo”, 1859; ed il meno impegnativo “A Francesco Crispi”, del 1864) trovo più articolazione, e certamente molto più illuminismo. Certo Mazzini non è, e non è mai stato, un astratto teorico, è uomo d’azione nel quale pensiero e prassi si fondono, completandosi. È anche un uomo che sceglie di combattere, che esercita violenza, che uccide (non personalmente). Averlo scelto come exempla per opporre alla mia bozza di posizione un “non basta”, rivolto all’esercizio di un surplus di determinazione, con la scandalizzata sottolineatura del mio “sono pochi centinaia di casi”, riferiti agli omicidi rituali scoperti in Africa centrale (su una popolazione di duecento milioni di persone), è una trasposizione, mi perdoni l’autore, forzata.

Gioverà ricordare che gli austriaci avevano invaso la penisola a più riprese, nel 1820 quando sedano nel sangue le rivolte a Napoli, in Sicilia ed in Piemonte, o come nel 1830 o nel 1848, nell’ambito del cosiddetto “concerto” delle nazioni (Austria, Prussia, Francia, Inghilterra). Paragonare, dunque le concretissime truppe austriache a flussi di disperati, sia pure disomogeamente distribuiti, mi pare davvero una forzatura. E non comprendo bene l’invito: prendere le armi anche contro costoro? E magari con i carabinieri che volessero difenderli?

Non credo che il mio gentile interlocutore intenda davvero questo. Neppure per “dare una speranza a questo paese”.

Il Mazzini di Morigi, quello che ha: “una chiara visione strategica di pretto stampo mazziniano che partendo dai problemi sociali e culturali del nostro popolo sappia (ri)costruire e rafforzare una identità nazionale che permetta al nostro paese di rimandare al mittente tutte le spinte disgregative (di cui l’immigrazione è una di questa) che ci giungono da questa disgraziata modernità di un mondo sempre più multipolare”, era un energico rivoluzionario che operava (dal 1830 al 1861) in un quadro in cui la ‘nazione’ era solo un’astrazione illuminista, importata dalla Francia di Napoleone, e coltivata da ristrette élite, del tutto indifferente al popolo. Mentre dal 1861 al 1872 è un rivoluzionario clandestino che cerca di combattere la monarchia sabauda. La Nazione di Mazzini, in quel quadro così profondamente diverso, è però un costrutto mistico, l’agente della provvidenza, parte del piano divino di emancipazione dell’umanità. Certo, il nostro è antiliberale (sarà Cavour a impersonare il liberalesimo), e svolge una critica dei “diritti” che è sicuramente ancora attuale ed interessante. Certo costantemente inneggia alla Patria, come idea che sorge su un territorio (DU, p.75). Ma la lettura di Delio Cantimori non è senza problemi, se è pure vero che si può leggere la storia solo con il più alto senso del presente e quindi aggiungendo qualche filo, ma non è difficile ritrovare diverse letture (es. Mack Smith, “Il risorgimento italiano”, pp. 51 e seg, oppure si veda la bibliografia ragionata in calce al testo di Roland Sarti “Giuseppe Mazzini”, pp. 307 e seg.).

Ora, in un autore immenso come il nostro Mazzini, una delle figure dominanti del secolo, si possono ritrovare certamente molte cose, e molte anche reciprocamente incoerenti dal nostro punto di vista. Tanto più in uno scrittore prolifico ma non sistematico, più d’occasione, del tutto disinteressato a creare un corpus teorico. Forse poche figure come quella di Mazzini, nella vastità dei suoi interessi e complessità delle sue posizioni, si è prestata quindi a divenire di volta in volta il nume tutelare, o il bersaglio, delle battaglie del presente.

Ma l’interpretazione condotta, solida o meno, precipita nella seguente frase: “se si vuole essere veramente universali la prima cosa che necessita è possedere una visione strategica il cui centro focale è la creazione di una propria distinta ed unica identità”, sia o no attribuibile alla visione del grande genovese.

 
Foto di Gabriele Pasutto

Come ho già scritto all’autore, mi appare un tema di complessa costituzione. Certamente il Mazzini riteneva che l’Italia unita avrebbe portato al fine all’Europa Unita e federale (per la quale fondò la “Giovine Europa”, in questo in linea con il suo maestro Buonarroti) e riteneva questo essere il disegno di Dio e produttore della pace. Per fare un solo esempio, in “Fede e avvenire”, 1835, Mazzini scrive “noi crediamo nell’UMANITA’, ente collettivo, e continuo, nel quale si compedia l’intera serie ascendente delle creazioni organiche e di manifesta più che altrove il pensiero di Dio sulla terra, siccome unico interprete della legge” (maiuscolo nel testo, Utet, Scritti politici, p.474).

Ma al di là del grande rivoluzionario l’idea che se si vuole amare l’umanità, costituendola e riconducendola contemporaneamente ad un solo principio (sia esso religioso o secolare), bisogna nello stesso gesto tripartito costituire se stessi come distinti è interessante e altamente problematica al contempo. Mazzini la risolveva nell’idea che Dio volesse l’unità, per cui prima quella dell’Italia, separata da secoli in staterelli subalterni ed umiliati, attraversata a turno da eserciti di invasione, soggetta agli egoistici (uno dei termini più ricorrenti nella damnatio del nostro) interessi di capi e capetti, insieme a quella di Polonia e Germania, e poi quella dell’Europa tutta come “associazione di tutte le patrie”. Certo il nostro avvia questa idea negli anni trenta (“Giovine Europa”), la riprende brevemente in Inghilterra nei primi quaranta (“Lega internazionale dei popoli”) e un’ultima volta dopo il 1848 (“Comitato centrale democratico europeo” nel contesto della Repubblica romana del 1849, per poi concentrarsi nei successivi venticinque anni sul problema dell’unità d’Italia e sulla lotta per la repubblica. La risolveva comunque nell’idea che progresso e libertà passassero necessariamente per l’uguaglianza e quindi la fratellanza e l’associazione tra eguali, uomini e popoli. Che quindi si potesse senz’altro dire “che ogni uomo e ogni popolo ha la sua missione speciale, il cui compimento determina l’individualità di quell’uomo o di quel popolo e aiuta a un tempo il compimento della missione generale dell’Umanità” (Patto di Fratellanza, Berna, 1834).

Leggiamo la chiusa del manifesto della “Giovine Europa”:

«Convinti finalmente:

«Che l’associazione degli uomini e dei popoli deve congiungere la certezza del libero esercizio della missione individuale alla certezza della direzione verso lo sviluppo della missione generale;

«Forti dei nostri diritti d’uomini e di cittadini, forti della nostra coscienza e del mandato che Dio e l’Umanità affidano a tutti coloro i quali vogliono consecrare braccio, intelletto, esistenza alla santa causa del progresso dei popoli;

«Dopo d’esserci costituiti in associazioni Nazionali libere e indipendenti, nuclei primitivi della Giovine Polonia, della Giovine Germania e della Giovine Italia;

«Uniti in accordo comune pel bene di tutti, il 15 aprile dell’anno 1834 abbiamo, mallevadori, per quanto riguarda l’opera nostra, dell’avvenire, determinato ciò che segue:

  1.           La Giovine Germania, la Giovine Polonia e la Giovine Italia, associazioni repubblicane tendenti allo stesso fine umanitario e dirette da una stessa fede di libertà, d’uguaglianza e di progresso, si collegano fraternamente, ora e sempre, per tutto ciò che riguarda il fine generale.
  2.            Una dichiarazione dei princìpi che costituiscono la legge morale universale applicata alle società umane, sarà stesa e firmata dai tre Comitati Nazionali. Essa definirà la credenza, il fine e la direzione generale delle tre Associazioni. Nessuna potrà staccarsene nei suoi lavori senza violazione colpevole dell’Atto di Fratellanza e senza soggiacere a tutte le conseguenze di quella violazione.

III.          Per tutto ciò che non è compreso nella dichiarazione dei princìpi ed esce dalla sfera degli interessi generali, ciascuna delle tre Associazioni è libera e indipendente.

  1.            L’alleanza difensiva e offensiva, espressione della solidarietà dei popoli, è stabilita fra le tre Associazioni. Tutte lavorano concordemente alla loro emancipazione. Ciascuna d’esse avrà diritto al soccorso dell’altre per ogni solenne e importante manifestazione, che avrà luogo in seno ad esse.
  2.            La riunione dei Comitati Nazionali o dei loro delegati costituirà il comitato della Giovine Europa.
  3.            È fratellanza tra gli individui che compongono le tre Associazioni. Ciascun d’essi compirà verso gli altri i doveri che ne derivano.

VII.          Un simbolo comune a tutti i membri delle tre Associazioni sarà determinato dal Comitato della Giovine Europa. Un motto comune indicherà le pubblicazioni delle Associazioni.

VIII.           Ogni popolo che vorrà esser partecipe dei diritti e doveri stabiliti da questa alleanza, aderirà formalmente all’Atto di Fratellanza, per mezzo dei proprî rappresentanti.

Berna, 15 aprile 1834. »

La “Giovine Europa”, insomma, ha l’obiettivo di “costituire l’umanità”, cosa che passa per la convinzione che (punto 17) “ogni Popolo ha una missione speciale che coopera al compimento della missione generale dell’Umanità. Quella missione costituisce la sua Nazionalità. La Nazionalità è sacra”, e (19) “L’Umanità non sarà veramente costituita se non quando tutti i Popoli che la compongono, avendo conquistato il libero esercizio della loro sovranità, saranno associati in una federazione repubblicana per dirigersi, sotto l’impero d’una dichiarazione di princìpi e d’un patto comune, allo stesso fine: scoperta e applicazione della Legge morale universale”.

L’universalismo di Mazzini è quindi classicamente (fin nell’evocazione della “grande catena dell’essere”, all’inizio dei brani che ho riportato) espressione di una religione di salvezza dell’individuo in qualche modo trasposta sul piano secolare. Il deismo mazziniano non ammette salvezza al di fuori dell’adesione al suo sistema dottrinario (su questo piano contesta al socialismo ed al liberalismo un eccesso di egoismo).

Ora, in calce all’articolo, quando ho richiesto a Morigi approfondimento su questo punto il cortese interlocutore ha individuato una questione di grande complessità: la relazione tra libertà ed autenticità. È davvero libero chi si conforma ai costumi che trova, “assorbendo gli idòla tribus della società”? O forse lo è chi parte dalle proprie personali qualità e volizioni, uniche ed irripetibili, che sole possono arricchire anche l’umanità?

Questa questione si pone con Herder, nel contesto storico della Germania divisa e soggetta, e nel secolo del romanticismo si estende.

 
Monet, “Il bar alle Folies Bergère”

Monet, ne “Il bar alle Folies Bergère”, del 1882, dipinge un luogo rumoroso, impregnato di odori e di licenza, sregolato. In esso una donna sta al centro, ferma, con espressione enigmatica, triste e pensosa, frontale e circondata da solidi oggetti. Lo specchio alle sue spalle restituisce una folla, luci e vasti ambienti, ma anche, a destra, se stessa di spalle e il suo interlocutore, quasi fuori del campo. I due si guardano ma non possono essere lì, la prospettiva lo vieterebbe. Monet ha rischiato di apparire incapace per proporci una riflessione sullo sradicamento tra l’apparente solidità e semplicità frontale delle cose e il loro doppio, slittato e sfocato. La Francia della seconda metà dell’ottocento è investita dall’onda lunga della rivoluzione industriale e della sua razionalizzazione, fenomeni imponenti di emigrazione urbana, spostamenti di popolazioni, modifiche profonde dello stile di vita, che determinano una potente tendenza a idealizzare l’autenticità e la nazione. L’onore è nell’autenticità, nell’essere connessi ad un territorio ed una cultura che consente una immediata intesa, un riconoscersi.

Ma non è necessario rivolgersi all’ottocento per ritrovare questo concetto. Michael Walzer, in “Che cosa significa essere americani”, letto qui, discute dell’incontro e scontro tra diritti individuali e collettivi in difesa di un universalismo temperato piuttosto diverso da quello mazziniano. Lo sfondo è il dibattito internazionale sul multiculturalismo che segue alle guerre jugoslave e agli eventi della fine del secolo e inizio del successivo. Si confrontano fondamentalmente quattro posizioni:

–        gli autori liberali tradizionalisti, che difendono la soluzione scaturita a loro dire dalle guerre di religione dall’attacco del tribalismo (ovvero delle posizioni comunitarie), questa linea è inconsapevolmente tenuta da uno degli interlocutori del primo post che abbiamo commentato, ma dimentica che dalle guerre di religione (che sono cosa assai più complessa) sono passati gli anni dell’industrializzazione e della presa del capitalismo, ovvero dell’estensione dell’anomia. La soluzione liberale, si dice, in quanto scaturita dalle guerre di religione, fornisce protezione ad ogni individuo dal rischio dell’oppressione delle maggioranze, ma lo fa in quanto cittadino. Ma è il cittadino che nelle condizioni contemporanee rischia di ridursi a contenitore di lavoro astratto e mero consumatore.

–        Poi ci sono posizioni intermedie che individuano un problema ma in ultima analisi tengono il punto liberale, Habermas è uno dei più complessi.

–        Quindi autori come Will Klymicka e Joseph Raz che riconoscono che i diritti liberali non offrono adeguata protezione e pur attuando un “eguale trattamento” (anzi proprio perché lo fanno), non garantiscono un “trattamento tra eguali” (ovvero di trattare l’eguale in modo adatto alle proprie caratteristiche) secondo una distinzione che Ronald Dworkin recupera dalla tradizione greca. Axel Honneth, con la sua ripresa di Hegel, lavora in questa direzione entro la tradizione francofortese (uno dei tentativi più interessanti di far leva sull’autenticità per superare le tendenze massificanti della modernità).

–        E ci sono le posizioni relativiste.

Nel contesto di questo dibattito Charles Taylor ricorda che la questione dell’identità per come noi la capiamo è figlia della modernità, ovvero della secolarizzazione. Infatti è il crollo delle gerarchie sociali fondate sull’onore (e quindi l’adesione al ruolo) che fa emergere l’idea di pari dignità e quella di avere una voce morale individuale. Qui si segue Rousseau fino a Herder, che mette a fuoco l’idea che ognuno ha un suo modo di essere uomo, una sua “misura”. Bisogna dunque essere principalmente fedeli a se stessi; a questo ideale è ancorata la ragione di essere della propria vita. Si tratta di un potente ideale morale, che implica anche il fatto che il modello al quale conformare la propria vita è rintracciabile solo in se stessi, non in un modello esterno. “Essere fedele a me stesso significa essere fedele alla mia originalità, cioè a una cosa che solo io posso articolare e scoprire; e articolandola definisco me stesso, realizzo una potenzialità che è mia in senso proprio” (Taylor, p.16). Questo concetto di autenticità si applica per Herder sia alla persona sia ai popoli. Al Volk che dovrebbe essere fedele alla propria cultura.

Questo modo di essere unico non può essere derivato socialmente ma deve generarsi interiormente. Ma, qui Honneth, questo effetto può ricavarsi solo nelle relazioni con gli altri, nasce cioè solo riconoscendosi vicendevolmente (come, appunto, eguali sotto il profilo della dignità). Universalismo è qui sia egualizzazione dei diritti e dei titoli, sia identità e quindi differenza.

Si può dire che ciò che fa questione è a cosa si debba eguale rispetto: a ciò che abbiamo in comune (l’Umanità, più o meno con la maiuscola) o alle particolarità? Quando si resta all’impegno procedurale a trattarci l’un l’altro in modo equo ed eguale indipendentemente dall’idea che ognuno (anche collettivamente) ha dei suoi scopi specifici nella vita (ovvero dei suoi scopi “sostantivi”) si resta nel classico alveo della soluzione liberale. Un simile idea, che risale a Kant, ha per Taylor delle assunzioni filosofiche molto profonde, la prima delle quali è di valorizzare l’autonomia come fondamento della dignità umana. Per questo una società deve restare neutrale rispetto alla possibilità di ciascuno di considerare per conto proprio questa o quella concezione particolare della propria vita.

In una simile società, in altre parole, non c’è spazio per una nozione pubblica del bene. Per una società che ha fini collettivi.

Ma è possibile anche una società (come il Quebec francofono, difeso dal filosofo canadese) che si organizza intorno ad una definizione della vita buona senza per questo sminuire necessariamente chi non la condivide. Basta distinguere tra diritti fondamentali, riconosciuti a tutti, e altre salvaguardie, privilegi ed immunità, sottomesse a ragioni di interesse pubblico.

L’accusa che viene mossa in queste discussioni all’astratto formalismo del linguaggio dei diritti è, con Hegel (di cui anche Taylor è illustre interprete), di astrazione dalla situazione concreta, ovvero di lesione della razionalità sociale già incarnata come “spirito oggettivo” nella grammatica normativa esistente attraverso sistemi d’azione istituzionalizzati. Il fatto che questa lesione sia inconsapevole, e lo sia l’effetto di anomia che ne consegue, non lo rende meno grave. Il disconoscimento dei fattori costitutivi, istituenti il nostro rapporto originario con gli altri (senza i quali neppure l’identità si può formare), è una lesione perché non ne possiamo, neppure volendo, disporre a nostro piacimento. Come spesso scrive anche Sandel (altro grandissimo filosofo contemporaneo) il soggetto che si pensa come auto-legislatore rimane in qualche modo sospeso in aria, non situato. Lungi dall’essere legislatore è agito da forze sistemiche esterne, da quello che prima chiamavo la dinamica della monetizzazione.

L’unica teoria della giustizia possibile, dunque, è quella che è in qualche modo progettata (rischiosamente) a partire dalle caratteristiche che lo sviluppo storico concreto ha depositato nell’oggi, per come queste si sono date, cioè, dal sedimento dei conflitti e dei successi o fallimenti nell’ottenere riconoscimento da parte delle diverse soggettività.

Probabilmente anche l’unica possibile pratica politica.

DALLE PRIMAVERE AGLI INVERNI DI SOROS. SARANNO CALDI, MOLTO CALDI di Giuseppe Germinario

UN TORRIDO INVERNO

Questo insolito tepore ottobrino, così siccitoso, lascia presagire un torrido ed infuocato inverno.

Dal punto di vista meteorologico potrebbe essere una previsione troppo azzardata; previsioni del tempo attendibili riescono a coprire un arco di tempo ancora troppo breve, di pochi giorni.

È la temperatura politica del pianeta, in particolare negli Stati Uniti e in Europa, che pare surriscaldarsi sino a sfiorare pericolosamente il punto critico di formazione di tempeste distruttive e roghi devastanti.

Provo a collegare, più o meno avventurosamente, quattro episodi apparentemente avulsi tra essi.

  1. Il discorso di Trump all’ONU_ Il 19 Settembre scorso Trump ha pronunciato il suo primo e per ora unico discorso all’ONU. Sul sito ne abbiamo già parlato con dovizia http://italiaeilmondo.com/2017/09/24/httpssoundcloud-comuser-159708855podcast-episode-13/

http://italiaeilmondo.com/2017/09/27/massimo-morigi-a-proposito-del-podcast-episode-13_-lo-smarrimento-dei-vincitori-di-gianfranco-campa/  ; allo stato attuale, potremmo arricchire e corroborare le nostre valutazioni con una ulteriore supposizione. Quel discorso così apparentemente contraddittorio e paradossale potrebbe essere in realtà un tentativo particolarmente sofisticato e pericoloso di mettere a nudo le debolezze, l’inconcludenza e l’avventurismo delle strategie di quello staff militare dal quale è ormai circondato e che sta cercando di erigere una vera e propria barriera in grado di filtrare rigorosamente i contatti del presidente americano. Sembra voler dire: “volete lo scontro con la Russia e la Cina, l’Iran e la Corea del Nord? Ve lo offro su un piatto d’argento e vediamo se avete la reale intenzione e capacità di portarlo avanti, con quali rischi e a che prezzo!”

Il recente viaggio degli esponenti del ramo prevalente dei Saud, dei regnanti quindi dell’Arabia Saudita, in Russia può essere d’altro canto letto non solo come un sussulto di autonomia di quella classe dirigente di fronte allo stallo della politica di destabilizzazione in Medio Oriente e al recupero di autorevolezza della Russia di Putin; ma anche come una sorta di diplomazia parallela e per interposta persona che le forze fautrici dell’avvento di Trump alla Presidenza Americana continuano a portare avanti. Le aperture ben più esplicite dei generali egiziani alla Russia da una parte e i contatti di Bannon, il mentore ufficialmente disconosciuto e reietto, in realtà ancora costantemente e discretamente consultato dal Presidente, con la dirigenza cinese sembrano confermare l’esistenza di questi doppi canali di comunicazioni e di relazioni.

  1. Lo scandalo a sfondo sessuale del produttore cinematografico americano Weinstein e le rivelazioni di wikileaks sul traffico di uranio con la Russia alimentato da personaggi politici di spicco del Partito Democratico americano hanno una cosa essenziale in comune. Entrambi colpiscono al cuore gli esponenti più importanti e decisivi della coorte che ha sostenuto e determinato in questi decenni l’ascesa e il consolidamento dell’affermazione del sodalizio tra neoconservatori e democratici americani. Più che i danni materiali e i vizi privati sbandierati sui media, risalta l’irrimediabile deterioramento di immagine e di credibilità del costrutto ideologico e mediatico sul quale si sono fondati trenta anni di politica estera e di gestione interna di quel paese.

Gli uni assestano un colpo tremendo all’ipocrisia disgustosa del politicamente corretto tanto fervido ed accorato nell’ostentare le pubbliche virtù e la coerenza del rispetto della dignità umana, quanto certosino nel coltivare nel privato della persona e nei canali riservati delle relazioni politiche i soprusi, le sopraffazioni, le meschinerie, i mercimoni più interessati.

Gli altri rivelano le relazioni e gli interessi inconfessabili di una classe dirigente così apertamente ostile alla formazione di un mondo multipolare, la quale ha individuato nella Russia di Putin il nemico acerrimo della pacificazione unipolare e globalistica, salvo intrattenere con settori di essa gli affari e i commerci più loschi. Le vittime sacrificali predestinate appaiono il produttore Weinstein e il politico Podesta, ma il capro espiatorio finale appare ben più emblematico.

  1. L’Open Society di Soros si è vista rimpolpare in breve tempo il proprio salvadanaio di ben 18.000.000.000 (diciotto miliardi) di dollari.gentiloni-soros Una cifra stratosferica in grado di impressionare manipolatori persino particolarmente adusi e avvezzi al denaro come Soros, in grado di muovere eserciti, bande armate, contestatori, manifestanti e Pussy Riot di mezzo mondo. Sino ad ora il nostro paladino delle libertà e del soccorso umanitario ha utilizzato un doppio metro di comportamento al centro e alla periferia dell’Impero, nonché nei confronti dei riottosi più ostinati esterni ad esso. Apertamente violento e destabilizzatore ai margini; più cauto e pervasivo, più suadente man mano che le trame riguardavano la geografia prossima al centro dei poteri. Qualcosa, evidentemente, comincia a cambiare in questa strategia in maniera assolutamente radicale. Come non bastasse saltano nuovamente alla ribalta organizzazioni, quasi sempre legate al filantropo e beneficiarie dei più disparati finanziamenti pubblici e privati, spesso concessi dagli stessi rappresentanti delle vittime delle loro azioni; tutte dedite, con solerzia e qualche dose inevitabile massiccia di stupidità ed ottusità, alla compilazione di liste di prescrizione foriere di una prossima caccia all’untore. Tra queste brilla ultimamente, secondo RT, https://www.rt.com/news/407347-rt-guests-list-ngo/ , l’associazione http://www.europeanvalues.net/ ,con questo documento http://www.europeanvalues.net/wp-content/uploads/2017/09/Overview-of-RTs-Editorial-Strategy-and-Evidence-of-Impact.pdf e secondo questo interessante documento fondativo, corredato da un elenco dei finanziatori sorprendente, ma non troppo http://www.europeanvalues.net/wp-content/uploads/2013/02/VZ2015_ENG_FIN.pdf L’analogia con la caccia alle streghe del Maccarthismo degli anni ’50 è inquietante. A ruoli invertiti, è probabile che le squadracce che vediamo infiltrate nelle manifestazioni di strada antisistema, prointegrazione e via dicendo, diventino lo strumento di giustizia sommaria e di fomentazione provocatoria di questi filantropi.
  2. L’investimento mortale a Charlottesville, in Virginia, di due mesi fa,riviera24-luca-botti-strage-los-angeles-390786 la drammatica strage del cecchino (dei cecchini?) a Las Vegas di due settimane fa, ancora coperta da una fitta e misteriosa coltre di nebbia da cui emergono i sussurri più inquietanti; il tentativo di secessione in Catalogna e lo stesso referendum nel quadrilatero lombardo-veneto annunciano alcune variazioni essenziali sul tema della strategia del caos perpetrata in questi ultimi anni. Le modalità di svolgimento di questi eventi apparentemente sconnessi lasciano sospettare, rispettivamente, a volte una vera e propria provocazione, altre volte una istigazione, altre ancora una manipolazione e per finire una capacità di cogliere opportunità. Non si tratta, quindi, semplicemente, di un complotto ordito a tavolino sin nei particolari; troppo semplicistico! Quanto, piuttosto, di sfruttamento di opportunità create e utilizzate in un contesto di crescente instabilità e di emersione di nuove forze antagoniste, spesso confuse e contraddittorie. Un terreno, tra l’altro, sul quale diventa particolarmente difficile ed insidioso l’intervento politico di forze sovraniste, specie quelle più sensibili alla suggestione della democrazia dal basso e della superiorità dei progetti autonomistici e localistici.

La “strategia del caos” che sino ad ora ha interessato i paesi riottosi al predominio unipolare, in particolare la Russia, ha investito le zone di confine e di contesa ai margini dell’impero, come il Nord-Africa, il Medio Oriente, in parte il Sud-Est Asiatico, l’estremità dell’Europa Orientale pare investire sempre più da vicino i luoghi e la geografia centrale dei centri di potere e delle formazioni sociali connesse attorno secondo gli stessi propositi degli attori-mestatori.

È il segno che lo scontro politico sta investendo direttamente questi centri di potere, piuttosto che essere condotto da essi per interposte persone; li sta costringendo ad un confronto diretto sempre più aspro e risolutivo.

Richiederà il sacrificio di alcuni illustri capri espiatori, alcuni dei quali particolarmente in auge nell’immediato passato.

Nel Partito Repubblicano neoconservatore abbiamo visto cadere qualche testa illustre, ma ancora senza particolare crudeltà.

Nel Partito Democratico americano, la ricomposizione che si sta tentando con buone probabilità di successo tra la componente pragmatica vicina ad Obama e la componente social-radicale prossima a Sanders, il candidato sconfitto da Hillary Clinton alle primarie, in parte lui stesso nominalmente esterno al partito, ma generosamente ricompensato con una buona presa e radicata presenza all’interno di esso, richiederà probabilmente il sacrificio ben più sanguinoso di una intera dinastia politica: quella dei Clinton. Sanguinosa riguardo al futuro delle carriere politiche, ma anche a quello degli averi e della sicurezza economica del sodalizio.

La figura che più si potrebbe attagliare a quella di Hillary Clinton, potrebbe essere metaforicamente proprio quella di Maria Antonietta, vittima predestinata della Rivoluzione Francese.

La signora Rodham Hillary C. si presenta come il capro espiatorio perfetto sul capo riverso della quale costruire le fortune di una nuova classe dirigente ansiosa di liquidare al più presto l’attuale mina vagante dello scenario politico americano: Donald Trump. Una classe dirigente ancora in grado di controllare la quasi totalità delle leve di potere e di controllo e di legarsi ai settori tecnologicamente più vivaci, ma sino ad ora incapace di dare un respiro strategico alla propria iniziativa che riesca a garantire una sufficiente coesione della formazione sociale americana e a coinvolgere in una nuova versione del sogno, buona parte del resto del mondo. Il cumularsi di errori grossolani e di una gretta difesa degli interessi di costoro e la boria legata ad un inguaribile senso di superiorità rischiano di far precipitare quel paese in una crisi analoga a quella che ha prodotto la guerra di secessione di metà ‘800, ma dagli effetti ancora più distruttivi piuttosto che creativi in un contesto di potenza declinante. Non solo, ma di lasciare i propri orfani e sodali disseminati nel mondo, soli ed esposti ad affrontare con scarso sostegno le intemperie e a cercare col tempo nuovi ripari, più per se stessi che per il gregge da accudire, come ogni buon Gattopardo o Generale Badoglio che si comandi.

 La forza e la possibile sopravvivenza delle componenti che hanno espresso Trump risiede proprio nella debolezza strategica dei suoi avversari, piuttosto che nella solidità dei propri mezzi.

Su questo “Italia e il Mondo” cercherà di concentrare la propria attenzione e le proprie scarse energie sin dai prossimi articoli con lo scopo di individuare le opportunità e gli spazi di formazione di una nuova classe dirigente così necessaria a questo nostro “pauvre pays”.

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