LA NUOVA POLITICA ESTERA DELLA GERMANIA E LE CRISI NELL’EST EUROPA, di Massimo Morigi_ Testo del 5 febbraio 2014

Proseguono le spigolature di Massimo Morigi sul “Repubblicanesimo Geopolitico” con una breve introduzione dell’autore

«Non appena la terra fu compresa nella forma di un globo reale, non solo miticamente, ma quale dato di fatto scientificamente esperibile e quale spazio praticamente misurabile, si aprì subito un problema del tutto nuovo e sino ad allora inimmaginabile: quello di un ordinamento spaziale di diritto internazionale dell’intero globo terrestre. La nuova immagine globale dello spazio richiedeva un nuovo ordinamento globale dello spazio. Questa la situazione che emerse in seguito alla circumnavigazione della terra  e delle grandi scoperte dei secoli XVI e XVII. Contemporaneamente si iniziava con ciò l’epoca del moderno diritto internazionale europeo, che si sarebbe conclusa solo nel secolo XX. La scoperta del Nuovo Mondo provocò subito anche l’accendersi della lotta per la conquista delle terre e dei mari facenti parti di esso. La divisione e la ripartizione della terra divennero allora in misura crescente una faccenda riguardante tutti gli uomini e le potenze coesistenti sullo stesso pianeta. Vennero ora tracciate linee per dividere e ripartire la terra intera.»: Carl Schmitt, Il nomos della Terra nel diritto internazionale dello “Jus Publicum Europaeum”, Milano, Adelphi, 2006, p. 81.
Nel secondo  capitolo del Nomos della Terra, “La conquista territoriale di un nuovo mondo”, al suo primo paragrafo, “Le prime linee globali (Dalla “raya” attraverso la “amity line”, alla linea dell’emisfero occidentale)”,  Carl Schmitt inizia così a tracciare la logica storico-genetica della nascita delle amity lines. Da una parte la lotta delle grandi potenze cristiane per accaparrarsi la maggior quota possibile delle nuove terre conosciute attraverso le scoperte geografiche cinquecentesche. Dall’altra la necessità di arrivare fra queste potenze ad una sorta di entente cordiale per la spartizione di queste terre. La risultante fra queste due spinte contrastanti (lotta di rapina fra le potenze cristiane per strapparsi le nuove terre e necessità di addivenire ad un accordo di spartizione) fu la nascita delle cosiddette  amity lines, amity lines che nell’argomentare schmittiano rivestono una doppia natura, potevano cioè essere semplici accordi di spartizione territoriale, insomma accordi alla stregua del Trattato di Tordesillas fra Spagna e Portogallo, oppure l’amity line può avere un significato più metapolitico, può essere cioè il riconoscimento dell’alterità fra il mondo cristiano e le nuove terre e genti da conquistare e questa alterità aveva la conseguenza che contro questo mondo ogni forma di aggressività era consentita mentre nella lotta fra le potenze per la conquista dello stesso la guerra doveva seguire delle regole, insomma la guerra fra potenze doveva assumere la forma di iustum bellum e la potenza che si batteva contro un’altra assumeva  così  la natura di  iustus hostis, un nemico che per quanto avverso era riconosciuto nella sua dignità di cristiano e  contro il quale non era così consentito impiegare l’indiscriminata violenza che poteva e doveva essere esercitata contro il nemico dimorante nei territori al di là delle amity lines. Erano cosi state poste le basi per quel ‘Nomos della terra’ che verrà sconvolto dalle due guerre totali del Novecento scatenate per Schmitt per responsabilità delle due potenze talassocratiche Inghilterra e Stati uniti, potenze le quali proprio per la loro natura marina e liquida non potevano riconoscere né una divisione more geometrico del globo terrestre né giusti nemici o giuste guerre caratterizzanti l’ormai sorpassato nomos della terra  perché per Schmitt la mentalità marittima  può solo mettere in atto azioni di sregolata  pirateria ai danni del nemico (ciò che per Schmitt sono state la prima e seconda guerra mondiale ai danni della Germania da parte dell’Inghilterra  e degli Stati uniti) e ripudiare la guerre en forme del Nomos della terra implicante “giusti nemici” e non nemici da annientare nati con le due guerre totali novecentesche e quindi mettere al bando farisaicamente la guerra (e da questo farisaico ripudio della guerra en forme, la nascita del nemico dell’umanità, nel Novecento storicamente rappresentato dalla Germania che aveva perso le due guerre mondiali).  Da questa lunga premessa schmittiana, la grammatica elementare per comprendere gli elementi di continuità fra la situazione descritta nell’articolo “La nuova politica estera della Germania e le crisi nell’est Europa”, scritto nel febbraio del 2014, e l’odierna situazione dell’estate del 2017, dove a differenza che nel 2014 sembra che apparentemente le posizioni della Germania e degli Stati uniti stiano sempre più divaricandosi. Certamente, come magistralmente insegna Gianfranco La Grassa, il quadro internazionale è in via di una progressiva ed incalzante frantumazione e questo processo dal 2014 ad oggi non ha fatto altro che accentuarsi ma il punto è, e qui il pensiero di Schmitt, può veramente venirci in soccorso per comprendere la situazione, che non è affatto detto che la frantumazione all’interno del vecchio perimetro delle alleanze debba necessariamente portare ad una sorta di guerra totale all’interno fra i vecchi soci dello stesso. Insomma, all’interno del vecchio perimetro dell’alleanza occidentale è possibile e verosimile che si costituisca una sorta di amity line che, se apparentemente assume le movenze della guerra politica e/o militare (allo stato la seconda ipotesi è veramente molto remota), si tratta di una guerra en forme tipica del periodo della nascita e sviluppo delle amity lines. Ma purtroppo da questa ipotesi di evoluzione del quadro internazionale non deriva alcunché  di buono per il nostro paese, perché in questo quadro l’Italia rischia veramente di fare la fine di quel mondo extracristiano per il quale non valevano amity lines e guerre più o meno in forma. Questi  paesi fuori dal perimetro della cristianità e all’esterno delle amity lines dovevano subire guerre di depredazione delle risorse e guerre di sterminio e/o genocidiare. E se qualcuno pensa che magari il brave new world della democrazia potrà sì implicare gerarchie certamente dure ma ha definitivamente abbandonato queste pratiche barbare, noi da modesti geopolitici invitiamo a considerare quello che è accaduto negli ultimi anni dal punto di vista economico all’Italia con la distruzione della sua capacità produttiva a vantaggio del capitale straniero e dal punto di vista dello stravolgimento dell’assetto demografico-culturale, quello che si continua a perseguire favorendo sul nostro territorio il flusso e la permanenza di popolazioni allogene, flusso indiscriminato e permanenza culturalmente assimilabile solo in un demente delirio multiculturale alla united colors of Benetton o lucidamente desiderabile solo in un cosciente e criminale disegno di cancellazione dell’identità storico-culturale italiana tali da poter dire che in Italia si rischia di mettere in atto un novello tipo di genocidio, un genocidio che al contrario di quelli novecenteschi non contempla lo sterminio di una popolazione ma il suo annegamento e il suo azzeramento a dosi omeopatiche attraverso l’immane afflusso di nuove popolazioni allogene (quindi genocidio  per diluizione attuato sotto regime “democratico” e degli universalisti diritti umani anziché genocidio per sterminio  e con il mito della razza o dell’uomo nuovo tipico dei totalitarismi novecenteschi). Il tutto con la benedizione interessata delle potenze la cui vicendevole aggressività è regolata e delimitata  dalle nuove amity lines post guerra fredda e che fra  litigi ed accordi tipici della guerre en forme di un mondo sempre più multipolare, grandemente  prediligono  per compiere le loro incontrollate e violente  scorrerie assai poco en forme ma tipiche dell’ hobbessiano homo homini lupus la presenza di territori coloniali dove tutto è consentito ai danni di questi territori. E l’Italia fa purtroppo pienamente parte di questi nuovi tristi e sempre più depredati territori coloniali dell’era post caduta muro di Berlino e di un mondo sempre più frantumato e multipolare.

Massimo Morigi – 30 giugno 2017

Gli interventi sul “Corriere della Collera” di Antonio de Martini sulla crisi Ucraina – e sulla prossima crisi della Moldova che già si intravvede – ci offrono una doppia chiave di lettura in merito al delinearsi e disporsi delle forze che si contendono il dominio dello scenario internazionale.
In primo luogo, come peraltro rilevato da più osservatori, c’è da rilevare che la Germania sta definitivamente abbandonando il ruolo di gigante economico ma nano politico a favore di una politica che al posto della vecchia Ostpolitik, consunto ricordo di una Germania ancora divisa, intende piuttosto sposare l’ancor più vecchio – e carico di lugubri e tragici ricordi – Drang nach Osten che fu uno degli slogan non solo della criminale politica nazionalsocialista ma anche la linea guida della politica guglielmina riguardo l’Europa orientale, che già nei piani di guerra della Germania imperiale doveva essere completamente asservita (vedi il September Programme che fra le altre cose, tipo l’annessione del Belgio, contemplava ad est la creazione di stati satelliti completamente sottomessi alla Germania ed in funzione anti-russa).

Massimo Morigi, Repubblicanesimo Geopolitico Copiaincolla II dal “Corriere della Collera” e dall’ “Italia e il Mondo”, in Internet Archive da Domenica 31 maggio 2017, pagina 8 di 11

Oggi, a differenza che nel September Programme e nel Drang nach Osten, questa spinta verso oriente non viene più effettuata dalla Germania manu militari ma in modo indiretto sobillando tumulti verso quelle aree dell’ex impero sovietico che si mostrano più credulone – ed anche più corrotte nelle loro classi dirigenti – riguardo alle “magnifiche sorti e progressive” assicurate dall’ingresso nell’Unione europea (alla quale non a caso è stato conferito il premio Nobel per la Pace …).
E con ancor maggior differenza che nel passato novecentesco, in quest’opera di tentata disgregazione dell’area di influenza russa in Europa, la Germania viene spalleggiata dagli Stati uniti, ai quali non sembra vero di aver trovato finalmente un attivo proconsole che nell’area del Vecchio continente la possa appoggiare nella sua “strategia del caos”, peraltro praticata in altre aree con alterne fortune.
La seconda considerazione riguarda, more solito, la totale disinformatzia di cui ha goduto l’evento in questione. Come al solito (vedi primavere arabe, vedi caso Siria) nessun mass media e nessun intellettuale – tranne le solite pochissime eccezioni – ha proferito una sillaba su quello che sta realmente accadendo in Ucraina, sulle forze che si stanno scontrando e sugli interessi che realmente sono sul tappeto. E a costo di ripeterci ancora, questo occultamento della verità se è da un lato è spiegabile con l’ “umano, troppo umano” di coloro che operano nei mezzi di informazione (mezzi di informazione che anche all’estero, contrariamente a quanto si crede, sono anch’essi quasi totalmente funzionali al rincretinimento delle masse), dall’altro richiama in campo la necessità di fuoruscita dagli idola fori ereditati dalla seconda guerra mondiale.
Il Repubblicanesimo Geopolitico è il tentativo di operare questa fuoruscita e in nome di un autentico e concreto praticato percorso di libertà vuole far sì che il disvelamento delle menzogne ideologiche che hanno prosperato all’ombra dei nobilissimi concetti della tradizione politica occidentale non porti il ripiombare – de facto – nelle vecchie forme di autoritarismo.
Un’impresa per la quale, come tutte le evidenze stanno a mostrarci, è veramente molto vocata – mutatis mutandis – l’Unione europea e prima di tutti il caposcalo di zona agli ordini degli Stati uniti, che risponde a nome di Repubblica Federale di Germania.
Massimo Morigi – 5 febbraio 2014

APOPTOSI DELLA DEMOCRAZIA, di Massimo Morigi

Ancora una spigolatura di Massimo Morigi risalente a gennaio 2014. I fatti sono ovviamente datati, il tema attuale_Giuseppe Germinario

 

APOPTOSI DELLA DEMOCRAZIA O APTOSI DEL MITO DEMOCRATICO?

di Massimo Morigi_ COMMENTO

 

Nell’articolo “Apoptosi della democrazia” inteso a suscitare indignazione per la vicenda dell’oro della Banca d’Italia si affermava che il  furto legalizzato di quest’oro da parte del sistema bancario nazionale profilava, de facto, una morte programmata della democrazia, l’apoptosi della democrazia appunto. Ora in sede di questo auto commento all’articolo non volendo tornare sui motivi del perché la mobilitazione contro il blocco politico- finanziario nazionale non abbia avuto alcun riscontro e volendo soffermarci invece sulle affermazioni teoriche contenute in “Apoptosi della democrazia”, ci sarebbe da dire che, per coloro che abbiano seguito i ragionamenti sul “Repubblicanesimo Geopolitico” gentilmente ospitati dall ‘ “Italia e il Mondo”, dal punto di vista del “Repubblicanesimo Geopolitico” stesso sarebbe più corretto parlare, anziché  di ‘Apoptosi della democrazia’, di ‘Apoptosi del mito della democrazia’. In effetti, chi avanzerebbe questa osservazione sarebbe completamente nel giusto e sia per ulteriormente consolidare questo corretto profilo pubblico del Repubblicanesimo Geopolitico presso la platea dei suoi osservatori sia per ancora approfondirlo dal punto teorico, vedremo come alla fine anche la vicenda dell’ oro della Banca d’Italia si possa ricollegare con le considerazioni politiche e filosofiche sulla nascita e sviluppo del modello “democratico”  occidentale e sul sostegno mitologico che questo ha da subito avuto bisogno che fanno da sfondo a tutti i ragionamenti del Repubblicanesimo Geopolitico. Il mito della rivoluzione, iniziato con la rivoluzione francese –  e che stancamente si trascina fino ai giorni nostri –  sta dentro e dà forma alla modernità politica occidentale ma come ogni mito cela una realtà sotto mentite spoglie così il mito della rivoluzione è il travestimento e quindi cela e rivela al tempo stesso ciò che è stato sempre dentro e ha dato forma alla modernità politica occidentale stessa: e cioè il conflitto strategico. Questa affermazione di per sé non sarebbe particolarmente qualificante per comprendere le caratteristiche peculiari della nostra modernità politica, come abbiamo infatti più volte affermato il conflitto strategico informa ed è la natura stessa, solo per rimanere al “politico” e non trascolorare in tutte le altre  manifestazioni della realtà, della società (per chiarire per l’ennesima volta il concetto: per noi tutta la realtà è, in ultima analisi, conflitto strategico, per noi nulla è escluso dal momento pantocratore del conflitto strategico, per il quale è persino superfluo rinviare a Gianfranco La Grassa e a questo proposito ci permettiamo di segnalare, fra gli altri,  la nostra “Teoria della Distruzione del Valore” e il di prossima pubblicazione “Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico) ma nella modernità politica occidentale, a differenza che nelle forme politiche più arcaiche, dopo la soluzione di continuità della rivoluzione francese che ha comportato l’uccisione di un re consacrato non in virtù di un giudizio divino (morte in battaglia, morte naturale od anche procurata ma una uccisione che poteva essere sempre mascherata come una sorta di decreto della divinità) ma di una deliberazione tutta palesemente e manifestamente politica, c’è stata l’impellente necessità di dare una sorta di travestimento simildivino all’orrenda vicenda dell’uccisione del monarca. Da questa necessità di nascondere la natura puramente conflittual-strategica della rivoluzione, ecco allora nascere per arrivare stancamente fino ai nostri giorni il mito della rivoluzione e con questo mito nascere anche la pretesa metafisica dell’esistenza  sempre simildivina  di diritti umani e politici la cui esistenza e doverosità di applicazione andrebbe al di là di qualsiasi contingenza storica e sistema politico (e da qui l’imperialismo diritto-umanistico e democraticistico che ha sostituito il cristiano dovere di convertire le genti pagane e che è la nuova sgangherata versione del “fardello dell’uomo bianco”). Ma se il mito della rivoluzione, con tutti i suoi annessi e connessi democraticistici e dirittoumanistici (o nella versione dei defunti paesi socialisti di dittatura del proletariato) è arrivato al capolinea (mito della rivoluzione al capolinea più per i  fatti storici post caduta del muro di Berlino che per vera ed approfondita conoscenza teorica, mito dei diritti umani e politici di natura simildivina al capolinea per ora solo a livello di analisi teorica, nella quale il Repubblicanesimo Geopolitico rivendica il suo ruolo di primo piano, mentre a livello di massa si continua a praticare, anche se in forme distratte e degradate, vedi il proliferare dei diritti, specialmente quelli di genere e legati alla diversità sessuale, il culto dei diritti umani), non deve arrivare assolutamente al capolinea quello che è l’autentico lascito per il futuro di questa tradizione, vale a dire la fortissima tensione culturale, politica, filosofica e psicologica generata dalla necessità di travestire con vesti divine (lo ripetiamo: mito della rivoluzione, con complementare mito della democrazia  e dei diritti umani e politici) un conflitto strategico portato agli estremi e che ha comportato l’uccisione non giustificata da nessun intervento  divino di tipo tradizionale di un re consacrato, la decapitazione di Luigi XVI di Borbone.  Abbandonando quindi la credenza nel  mito di una rivoluzione che  permette tramite i suoi idola fori dei diritti umani e democraticistici di perpetuare  le pratiche di potere dei  sempre eterni stessi oligarchici  agenti strategici, questa tensione di occultamento del factum horribile dell’uccisione ingiustificata del re consacrato ci conduce allora alla vera origine della nostra modernità politica, e cioè al prodursi di un conflitto strategico, la cosiddetta rivoluzione francese e poi le altre che la hanno seguita, che per poter essere accettabile ha dovuto creare, visto che aveva gettato nel cesto oltre la testa del re ghigliottinato anche ogni tradizionale trascendenza, delle sub trascendenze (mito della rivoluzione, mito della democrazia e dei diritti politici ed umani) che non avendo però la blindatura a prova di realtà dell’originale trascendenza hanno generato due secoli di continue crisi politiche (e di crisi del mito stesso). Compito  del Repubblicanesimo Geopolitico è quindi cogliere l’autentico nucleo rivoluzionario ed imperituro della tradizionale rivoluzionaria occidentale sotto il duplice aspetto che si è qui cercato di enucleare. Da un lato, rendendosi conto che non tutto per tutti può essere non diciamo pubblicamente svelato  (la straussiana “ermeneutica della reticenza” anche prima dell’esplosione della rivoluzione informatica della comunicazione ha sempre avuto una sapore più di nostalgia archeologica che di vera possibile e praticabile proposta politico-filosofica) ma accettato, non rifiutare ed anzi utilizzare la tensione generata da un mito rivoluzionario e oggi democratico sempre al di sotto delle sue aspettative presso la maggioranza di vasti  e trasversali strati della popolazione (siano questi sezioni della popolazione spiccatamente non intellettuali o ceto intellettuale vero e proprio non importa: la tendenza all’illusione e a non volere vedere il conflitto strategico è equamente suddiviso in tutte le classi ed i ceti). Dell’utilizzo di questa tensione generata dalla credenza nel mito e dalla delusione della continua sua  smentita da parte dei fatti (e in cui l’analisi teorica ancora clemente concede, esplicitamente o implicitamente, l’esistenza di un tempo, non il nostro, dove il mito era forse una realtà, in un atteggiamento simile a coloro che, criticando la chiesa cattolica odierna, si rifanno miticamente alla chiesa delle origini) è un chiaro esempio l’articolo che costituisce lo spunto di questo commento, “Apoptosi della democrazia”, dove prendendo lo spunto dalla vicenda dell’oro della Banca d’Italia, si afferma che in Italia si sta assistendo all’ “Apoptosi della democrazia”, cioè alla morte programmata della democrazia, mentre se si fosse stati teoricamente ancora più affilati si sarebbe dovuto dire che si sta assistendo all’ “Apoptosi del mito democratico”. Dall’altro lato il cogliere il nucleo veramente fondante della nostra modernità politica consiste proprio nel disvelare pubblicamente che questo nucleo è un conflitto strategico che ha per sempre bruciato (o per meglio rappresentarlo storicamente storicamente: ha tagliato la testa) la possibilità di un ritorno ad una qualsiasi trascendenza politica e in cui la natura  della sua radicale immanenza sta proprio nella dialettica di una filosofia della prassi che pratichi il suo gioco politico utilizzando le tensioni generate dal mito (tentativo di questo utilizzo ma non disvelando la natura del mito, l’articolo “Apoptosi della democrazia”) e anche denunciando la natura tutta mitologica del misto stesso (il presente commento). La conclusione che non conclude è che non è certo la prima volta che una arretrata situazione politica (nel caso specifico quella italiana, evidentemente) ha dato origine ad un profondo rinnovamento teorico e a promettenti (ancorché drammatici) sviluppi politici. Ogni riferimento a personaggi storici e a situazioni che per rispetto all’intelligenza dei lettori non vengono neppure nominati è puramente non casuale. 

Massimo Morigi – 8 giugno 2016

 

Con il tentativo da parte del sistema bancario nazionale di derubare il popolo italiano dell’oro della banca d’Italia (e con le totalmente assenti reazioni da parte della politica e dei media a questa mostruosità, de facto genocidiaria contro gli italiani), le oligarchie politico-finanziarie del nostro paese hanno finalmente mostrato il loro vero volto, e cioè hanno palesato l’intenzione di instaurare un processo di morte programmata di quanto ancora rimane della democrazia italiana.

Possiamo così dire che la situazione italiana sta introducendo un’inedita variabile nei processi degenerativi delle democrazie già descritti in dottrina.
Se finora la scienza politica classificava fra i processi che pongono fine alla democrazie o violenti assalti contro l’ordine costituito o un lento scivolamento verso unità decisionali più efficienti e potenti di quelle nominate attraverso il principio della rappresentanza (in altre parole le tecnoburocrazie che prevalgono sui parlamenti e gli esecutivi, in un processo definito da Crouch postdemocrazia), oltre, come già detto, segno di un proposito di schiavizzazione e/o annientamento del popolo, il furto dell’oro della banca d’Italia non può che essere interpretato altrimenti – tralasciando ogni altra considerazione “catastrofica” per la storia del nostro paese ma limitando l’analisi su un piano meramente politologico – come la manifestazione di una volontà programmata all’uccisione della democrazia e, prendendo a prestito il concetto noto in biologia come apoptosi – che contempla un processo ove le cellule, anziché per malattia, per trauma o per senescenza possano morire in virtù di un loro specifico programma che pone termine alla loro esistenza –, come una sorta di inedita ‘apoptosi democratica’, una morte programmata della democrazia portata
Massimo Morigi, Repubblicanesimo Geopolitico Copiaincolla II dal “Corriere della Collera” e dall’ “Italia e il Mondo”, in Internet Archive da Domenica 31 maggio 2017, pagina 6 di 11

avanti per la prima volta nella storia della democrazia occidentale da parte di quelle stesse élite politiche e finanziarie che precedentemente svolgevano il ruolo di “Lord protettore” del sistema pluralistico.
A questo punto, veramente le “categorie del politico” ereditate dal Novecento si dissolvono come neve al sole e le reazioni a questo nuovo quadro devono tenere conto dell’elementare dato di fatto che l’ ‘apoptosi democratica’ non è nemmeno giustificabile come l’antidemocratico scivolamento verso un sistema maggiormente efficiente anche se non democratico (il processo postdemocratico) ma non significa altro che la riduzione in schiavitù del popolo. Che fare quindi?
In primo luogo essere consapevoli del processo e svincolarsi da qualsiasi forma di sottomissione anche mentale da un quadro politico-culturale sorto dopo la seconda guerra mondiale e che oggi non è altro che una cortina fumogena per impedire di prendere consapevolezza del definitivo (e voluto) decesso del vecchio canone politico liberaldemocratico.
In secondo luogo, sembrerà poco ma in realtà è moltissimo, contrastare democraticamente questo processo di ‘apoptosi democratica’ laddove esso si è manifestato in maniera così spudorata e violenta.
Si tratta, in altre parole, di essere presenti alla manifestazione di fine maggio in occasione della prossima assemblea della Banca d’Italia. Non è una manifestazione contro l’ennesimo scandalo politico italiano ma è il primo atto per dire che abbiamo capito che questo sistema ha esaurito il suo ciclo storico e che se si vuole non solo la sopravvivenza ma l’ampliamento della sfera delle libertà repubblicane (secondo il programma del Repubblicanesimo Geopolitico) un altro deve prendere il suo posto. E l’aurora di questo nuovo sistema repubblicano è anche cominciare a dire a chiare lettere che l’oro della banca d’Italia appartiene, come la sua cultura ed identità, al popolo italiano e che chi vuole mettergli le mani sopra deve essere trattato come i criminali processati a Norimberga, che per la loro folle volontà di potere e rapina distrussero popoli ed etnie. Come si propongono oggi di fare gli attuali ingegneri dell’ ‘apoptosi democratica’ e ladri dell’oro degli italiani.
Ma noi rinviamo al mittente queste intenzioni lottando, piuttosto, per l’apoptosi (“robustamente” assistita e sorretta dalla nostra consapevole iniziativa) di questa classe dirigente.
Nessuno escluso.
Massimo Morigi – 24 gennaio 2014

SERVE UNA NUOVA NORIMBERGA, di Massimo Morigi

Prosegue lo zibaldone, datato, di Massimo Morigi con testi e note che possono aiutare alla comprensione del suo “repubblicanesimo geopolitico”_ Germinario Giuseppe

Una chiosa allo scritto

A distanza di alcuni anni da “Serve una nuova Norirmberga” una considerazione spicca fra i vari ragionamenti che possono essere fatti e si tratta dell’elementare ammissione di un fallimento perché laddove si proponevano terribili azioni politico-giudiziarie, la nuova Norimberga appunto, e con tanto di mobilitazione popolare per impedire la rivalutazione truffaldina del patrimonio delle banche a danno dell’oro della Banca d’Italia, la proposta non ha prodotto ad oggi dal punto di vista politico alcunché di significativo, a meno che non si considerino politicamente significative le reazioni “bloggistiche” del sottoscritto e di pochi altri, ma queste, come viene naturale concludere visto il deprimente esito della vicenda “nuova Norimberga” e mobilitazione popolare davanti alla Banca d’Italia, alla fine sono più da classificare fra le invettive modello vox clamantis in deserto che fra le azioni di natura politica che, come il più elementare buon senso suggerisce, devono suscitare un minimo di seguito. Questo per quanta riguarda il fallimento politico di coloro che cercarono – e fra questi il sottoscritto – facendo leva su una indignazione popolare che mai ci fu sull’argomento di far nascere qualcosa di politicamente concreto che si lasciasse dietro alle spalle le solite truffaldine logomachie della politica che, indisturbate, sono proseguite fino ai giorni nostri. E anche se l’indignazione popolare generale verso la oscena commistione fra potere politico e potere finanziario non c’è mai stata, nel frattempo ci sono state diverse piccole indignazioni popolari dei truffati dal fallimento degli istituti di credito toscani e veneti e quindi cosa concludere su questo punto? Colpa di chi non ha saputo comunicare con i giusti mezzi e con la giusta energia il messaggio o colpa del popolo che protesta solo quando si sente direttamente toccato nei suoi interessi? Si tratta, è vero, di una domanda retorica ma la cui risposta, evitando la retorica, può fornirci anche degli schiarimenti dal punto di vista della teoria politica. In breve. Se la risposta retorica alla domanda retorica implicherebbe il dire che prima di giudicare un popolo non reattivo bisognerebbe giudicare noi stessi (insomma, si tratterebbe in questa risposta di rappresentare una sorta di paternalismo bonario e democratico dove l’autonominato intellettuale rifiuta “democraticamente” di dannare il popolo insensibile e fa questa “democratica” concessione proprio perché gli è consentito di autonominarsi guida, benché fallace e debole, delle masse), la risposta invece teoricamente più significativa abbandona il terreno dei ruoli che personalmente si rivestono (o, meglio, che si vorrebbero rivestire) per andare invece a comprendere perché azioni politiche che viste con un minimo di distacco e senso critico devono essere definite criminali non vengono percepite dalle popolazioni che vivono nelle cosiddette democrazie rappresentative come tali e comunque sono giudicate di una gravità inferiore rispetto ai crimini che vengono compiuti in tempo di guerra e dai regimi autoritari. E la risposta che dà il Repubblicanesimo Geopolitico è che la forma di governo democratica gode di una sorta di bonus ideologico che recita più o meno così: 1) In democrazia, cioè laddove è il popolo a comandare, il popolo, pur potendo fare errori sul breve periodo, non potrà mai prendere decisioni sbagliate se questa azione decisionale si proietta in tempi ragionevolmente lunghi e 2) L’intrinseca bontà delle forme di governo democratico è garantita dagli universalistici diritti politici e dell’uomo nati dalla rivoluzione francese che hanno presieduto storicamente alla nascita delle moderne democrazie e che oggi non consentono che all’interno di queste democrazie si verificano quei crimini e quei soprusi che erano prima della rivoluzione francese il marchio dell’ancien régime e nel XX secolo dei regimi autoritari e/o totalitari. Come più volte ripetuto, è chiaro che questo è un racconto che non sta più letteralmente in piedi e il Repubblicanesimo Geopolitico intende rappresentare la critica più spietata a questo obnubilamento politico e teorico. Nei prossimi interventi sul Repubblicanesimo Geopolitico che verranno ripresi dall’ “Italia e il Mondo” emergerà sempre, insomma, l’intreccio fra le illusioni ideologiche della democrazia e le concrete pratiche di potere dei grandi agenti strategici che attraverso queste illusioni ideologiche esercitano il loro potere. E il far emergere con i giusti nessi queste pratiche di potere con i loro strumentali fantasmi ideologici penso consenta, infine, anche di non rifiutare la retoricità della domanda iniziale ma di darle uno sbocco positivo che non si rifugi in una semplice algida teoria della dinamica del potere: non si tratta, allora, di autonominarsi intellettuali più o meno severi o più o meno accomodanti ma si tratta di innestare un processo politico-cognitivo – e quindi anche retorico, come Gramsci aveva ben capito quando nei Quaderni del carcere disegna la figura e il ruolo di mito del moderno Principe – che sulla conoscenza a livello di massa della natura conflittuale della politica e della società inneschi il rivoluzionamento e rovesciamento di quei rapporti di forza e di quei fantasmi ideologici che permettono di dire che quello che accade nei regimi cosiddetti democratici non è mai un crimine ed è, comunque, sempre meglio per forza di cose (per forza, cioè, diciamo noi, dell’illusione ideologica democraticistica) di tutto quello che nel bene e nel male è storicamente accaduto prima che sorgessero le democrazie. Ma nihil sub sole novum: un certo Clausewitz, un certo Hegel, un certo Marx, e, infine, un certo Antonio Gramsci. À suivre …
Massimo Morigi – 2 giugno 2017

Il testo

Per spiegare la oscena realtà che si cela dietro il proposito di rivalutazione della quote della Banca d’Italia, che è stato bocciato dalla BCE, solo poche righe. Tramite questo provvedimento squinternato verrebbe rivalutato il capitale sociale di Bankitalia finora gestito fiduciariamente al 95% dalle banche italiane ex pubbliche (valore attualmente segnato nei bilanci al prezzo di 156.000 euro). Il decreto mira a tramutarlo da quota di partecipazione con valore simbolico a quota proprietaria (da segnarsi a patrimonio) rapportata al valore reale della Banca d’Italia, valore reale rappresentato dai diritti di signoraggio e dalle sue riserve auree raccolte da sei generazioni di Italiani. Questo significa, in pratica, che il popolo italiano (NOI) non sarebbe più il possessore delle riserve auree della Banca d’Italia ma lo diverrebbero gli istituti di credito che “partecipano” al suddetto “aumento” di capitale: detto in altre parole, si tratta di un furto ai danni del popolo italiano per sostenere con una semplice scrittura contabile la tradizionale sottocapitalizzazione delle banche italiane. Ma non siamo di fronte al solito esempio di malcostume della nostra vita pubblica. Questo tentativo di furto dell’oro della banca d’Italia non è l’ennesimo scandalo politico ma, molto più semplicemente, il più grande crimine contro il nostro paese e il nostro popolo compiuto da quando ha raggiunto la sua unità; un crimine che per la sua gravità suona come il preannuncio della dissoluzione di ogni parvenza di legittimità democratica per l’attuale sistema politico oligarchico ed instaura, de facto, uno stato di eccezione (o meglio, lo conferma, perché la decisione della Consulta in merito all’incostituzionalità dell’attuale legge elettorale già delegittimava tutto il sistema politico uscito dalle ultime elezioni) e richiama l’esigenza di istituire un tribunale speciale tipo Norimberga per giudicare questi disegni criminosi. In attesa Massimo Morigi, Repubblicanesimo Geopolitico Copiaincolla II dal “Corriere della Collera” e dall’ “Italia e il Mondo”, in Internet Archive da Domenica 31 maggio 2017, pagina 4 di 11 che la magistratura si muova con i suoi riconosciuti senso dello Stato e leggendaria tempestività e che il dibattito politico riesca a produrre una decisione in merito alle coppie di fatto (o che scelga, à la carte, quale sia il migliore sistema elettorale) rimaniamo attivi e fiduciosi nella reazione degli italiani. Fate circolare questa notizia e mandate la vostra adesione a [indirizzo e. mail cancellato per questa riedizione dell’articolo, ndr] per organizzare una manifestazione in occasione della prossima assemblea della Banca d’Italia che si terrà a fine maggio. Vogliono gli azionisti? Ebbene, ci saremo. Massimo Morigi – 4 gennaio 2014

*La prima parte di Repubblicanesimo Geopolitico Copiaincolla dal “Corriere della Collera” e dall’ “Italia e il Mondo” è leggibile e scaricabile agli URL Internet Archive https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoCopiaincollaDalCorriereDellaColleraE e https://ia801609.us.archive.org/19/items/RepubblicanesimoGeopoliticoCopiaincollaDalCorriereDellaColleraE/RepubblicanesimoGeopoliticoCopiaincollaDalCorriereDellaColleraEDallitaliaEIlMondo.pdf, per ResearchGate all’ URL https://www.researchgate.net/publication/315516889_REPUBBLICANESIMO_GEOPOLITICO_COPIAINCOLLA_DAL_CORRIERE_DELLA_COLLERA_E_DALL’ITALIA_E_IL_MONDO : DOI: 10.13140/RG.2.2.26753.66407 e per Academia.edu all’URL https://www.academia.edu/32001089/REPUBBLICANESIMO_GEOPOLITICO_COPIAINCOLLA_DAL_CORRIERE_DELLA_COLLERA_E_DALLITALIA_E_IL_MONDO. A pagina 11 Gepoliticus Child di Salvador Dalì.

LEBENSRAUM, NOOPOLITIK, ITALIA E CINA – Di Massimo Morigi

 

Proseguiamo con la pubblicazione di una serie di riflessioni datate, legate a contingenze politiche, di Massimo Morigi. Non si tratta, ovviamente, di una opera sistematica, ma di spunti tesi a suscitare discussione e ragionamento_ Giuseppe Germinario

A fronte della Cina che ha appena annunciato che verrà posta una restrizione sulla pena di morte ed una revisione sulla politica demografica, sono sempre più conclamati, in entrambe le sponde dell’Atlantico, i casi che dimostrano un apparente inevitabile declino delle democrazie rappresentative, una decadenza in cui l’avventurista politica turbobellicista statunitense (vedi caso Siria) fa benissimo il paio con l’avventurista politica economica europea attraverso la quale, il continente al quale è stato assegnato il premio Nobel per la pace, non si è peritato, per cervellotiche e criminali decisioni della sua ascarizzata tecnoburocrazia continentale, di ridurre letteralmente alla fame la parte sud del continente. Perché trattiamo nello stesso post due fatti che apparentemente non sembrano avere alcun legame fra loro? Molte semplicemente perché la Cina sta sempre più puntando, oltre che sugli aspetti materiali della geopolitica, anche sulla noopolitik, sta puntando cioè anche alla conquista di quel Lebensraum costituito dalle rappresentazioni culturali, ideali e/o ideologiche che fino a poco tempo fa era un elemento di grave handicap internazionale per un Celeste Impero governato dal partito unico comunista ma che ora, viste le male parate interne ed internazionali delle democrazie rappresentative occidentali, si presenta come uno spazio ormai del tutto abbandonato. È quindi di tutta evidenza che se il primo frutto della evoluzione postdemocratica delle democrazie rappresentative si presenta come un’affermazione delle burocrazie ed oligarchie irresponsabili, la seconda conseguenza sarà non solo l’immiserimento fino al decesso delle libertà politiche a livello interno ma anche, a livello geopolitico, la definitiva scomparsa di qualsiasi appeal del modello liberaldemocratico, apparentemente vincitore dopo la caduta del muro di Berlino, per i paesi emergenti. “L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni” si presenta quindi molto meno neutrale e spoliticizzata di come l’avrebbero voluta le élite postdemocratiche di entrambe le sponde dell’Atlantico. Noi in Italia, per cominciare a pensare in termini geopolitici e di

noopolitik, dovremmo cominciare di smettere di pensare che la salvezza possa venire puntando sulla vecchio quadro internazionale emerso dal secondo conflitto mondiale e condotti, in questo devastato scenario, da una classe dirigente che ha delegato la sovranità nazionale alle tecnoburocrazie europee. In mancanza di questa (rivoluzionaria) presa di coscienza, l’unica noopolitik che ci sarà consentita saranno gli spettacoli di varietà sui “mitici” anni Sessanta (dove tutto andava bene perché il quadro internazionale non ci poteva permettere che andassero male).

 

 

 

18 NOVEMBRE 2013

STATO DI ECCEZIONE, LIQUEFAZIONE GIURIDICA DELLA COSTITUZIONE ITALIANA ED ELEZIONI EUROPEE – Di Massimo Morigi

 

L’Italia è entrata tecnicamente in quello in termini giuspubblicistici viene definito ‘stato d’eccezione’. Questa è l’ineluttabile conseguenza della sentenza della Consulta in merito alla legge elettorale che ha portato alla elezione dell’attuale Parlamento e questo è il factum horribile che tutti gli osservatori hanno rimosso, arrivando costoro ad affermare che il Parlamento in seguito alla sentenza sarebbe politicamente delegittimato, giudizio corretto ma parziale perché si svolge unicamente lungo categorie moral-politiche avendo omesso di sottolineare il fatto – assolutamente più grave – che il Parlamento è pure giuridicamente decaduto. A parziale scusante della cecità dei commenti (suscitati ovviamente dall’intento di mantenere inalterati i vecchi privilegi oligarchici ma anche dal sincero terrore che tutto crolli e in questo novero si inserisce anche l’atteggiamento del Presidente della Repubblica che all’insegna del Tout va bien Madame la Marquise e sottolineando unicamente l’inderogabilità della riforma del sistema elettorale e così ignorando la terribile crisi sistemica intende mettere al riparo la stessa prima carica dello stato – eletta da un Parlamento originato da una procedura elettorale giudicata incostituzionale – dallo stato di eccezione generato dalla sentenza della consulta), bisogna tenere presente che il nostro sistema politico-istituzionale prima ancora che entrare nell’attuale conclamato ‘stato d’eccezione’ è da tempo che sperimenta prove tecniche di sospensione e/o aggiramento de facto della vigenza delle norme che (avrebbero dovuto) regolare la vita della repubblica parlamentare italiana. E, oltre alla continua decretazione d’urgenza che ha completamente esautorato il Parlamento e che ha conferito all’esecutivo una sorta di funzione dittatoriale, il primo e più grave esempio del continuo “autogolpe” che da tempo si infligge il nostro sistema politico-istituzionale è stato il conferimento di quote sempre maggiori di sovranità alle istituzioni politiche e agli organi tecnici dell’Unione europea, un processo che se in linea di principio consentito dalla Costituzione (Art. 11 Cost. : “L’Italia ripudia la guerra come strumento di

offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità [sottolineatura nostra] necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”), questo non poteva avvenire a detrimento dei diritti politico-sociali di cui godevano i cittadini italiani (come è successo durante la presente crisi economica dell’eurozona, dove le decisioni assunte sono state direttamente imposte dalle tecnoburocrazie europee cui nessun procedimento elettivo democratico aveva conferito questo ruolo e dove queste decisioni hanno direttamente leso i diritti politico-sociali degli italiani e quindi la possibilità di ampliare – in realtà la si è ridotta – la sfera di libertà del popolo, ampliamento che dovrebbe essere la vera “teleologia” di ogni sistema democratico degno di questo nome (esprimendoci nei termini del Repubblicanesimo Geopolitico questa “teleologia” viene definita anche come Republican Increased Common Domination ma questa inedita terminologia del già noto concetto di empowerment non deve nascondere l’elementare fatto che è sempre stato di tutta evidenza che un sistema democratico che abdica al fondamentale ‘principio di speranza’ di migliorare le condizioni spirituali e materiali del suo popolo non è più, de facto, un sistema democratico e che invertendo il processo di espansione degli spazi di libertà a favore di agenti sovranazionali che assumono quote sempre più crescenti di sovranità ma che non assumono l’onere di onorare lo scambio fra soggezione e libertà/protezione dello Stato originario, si genera per i popoli sottomessi a questo processo una situazione con profonde analogie con quella descritta da Hannah Arendt per gli apolidi nel suo saggio sul totalitarismo – cfr. Hannah Arendt, Le Origini del Totalitarismo, Torino, Edizioni di Comunità, 1999, pp. 410-418 -, i quali sono in possesso solo dei teorici diritti umani ma, concretamente, né di diritti politici né sociali, che possono essere garantiti solo da uno Stato che concretamente ha

storicamente contrattato col popolo questi spazi di libertà). Partendo quindi dalla constatazione dell’ autogolpe che si è inflitto il sistema politico-istituzionale italiano, giungo alle conclusioni e alla risposte. L’attuale ‘stato di eccezione’ italiano ha caratteri terribilmente drammatici non solo in ragione del mancato suo riconoscimento da parte delle oligarchie politico-finanziarie (vecchia pratica che – come si è sottolineato – è la cupa nota di fondo della nostra vita pubblica ) ma anche in ragione del fatto che nella nostra repubblica parlamentare se la legittimità giuridica dell’elezione del Parlamento viene colpita a morte, vengono colpiti a morte anche il Governo e la Presidenza della Repubblica che dal Parlamento sono stati messi in carica. Insomma lo ‘stato di eccezione’ italiano non trova alcun sovrano che possa assumersi né l’onere di decretarlo formalmente né di prendere provvedimenti per poterne uscire (ricordo ancora da una precedente nota che “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione” , Carl Schmitt, Teologia Politica, in Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio, e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 33). E allora? E allora non essendoci un vero sovrano che possa prendersi carico dello ‘stato di eccezione’ ma solo, come è accaduto in passato, una serie di sovrani abusivi, tutto è possibile, in quanto la situazione non può nemmeno definirsi come uno stato di rottura della Costituzione ma, bensì, di vera e propria liquefazione costituzionale perché, parlando in linea di diritto, gli attuali strumenti da essa indicati per agire – anche se con una terminologia e costruzione dell’articolo non adeguate ed incomplete per descrivere e fronteggiare lo stato di eccezione (Art. 78 Cost.: “Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”) – per effetto della sentenza della Consulta sono anch’essi entrati in uno stato di caducazione giuridica. Nelle pagine del “Corriere della Collera” citate a premessa della presente nota, sono apparsi interessantissimi post con varie ed intelligenti soluzioni per uscire dall’attuale crisi e anch’io ho voluto dare il mio contributo suggerendo che nel

brevissimo periodo le elezioni europee potrebbero essere una ottima occasione per tentare di diffondere ad una vasta platea le idee comuni presenti in questo blog. Tutto ancora valido ma con un “piccolo” corollario. L’attuale crisi del parlamentarismo italiano ha raggiunto con l’attuale ‘stato di eccezione’, caratterizzato dalla liquefazione costituzionale, il suo momento più drammatico e con sbocchi, vista la debolezza evidenziata in Costituzione di un sovrano che possa farsi carico della soluzione (fra l’altro storicamente minato da quella tara per la quale Giuseppe Maranini coniò il termine di partitocrazia) e visto che questo stesso sovrano (il Parlamento in prima battuta e poi il Governo, ex Art. 78 Cost.), per gli effetti a cascata della sentenza della Consulta, è stato messo fuori gioco, assolutamente imprevedibili. Sono pertanto necessarie delle forze che possano costituire il momento generatore – pena la morte definitiva della democrazia italiana e il trionfo delle oligarchie politico-finanziare – del ‘nuovo sovrano’ che difenda la libertà e la democrazia. Bene quindi quanto da noi detto e proposto. Ma con la consapevolezza aggiuntiva – mi rendo conto che non è cosa da poco – che gli odierni tempi straordinari pongono le premesse per altrettanto straordinarie future azioni politico-culturali a difesa dell’attuale (sempre più declinante) legalità democratica e contro il sempre più impetuoso imbarbarimento oligarchico.

8 dicembre 2013

SOVRANO È CHI DECIDE SULLO STATO DI ECCEZIONE – di Massimo Morigi (scritto il 2 dicembre 2013)

SOVRANO È CHI DECIDE SULLO STATO DI ECCEZIONE – di Massimo Morigi
“Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione.” (Carl Schmitt, Teologia politica, in Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio, e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 33). Tutta la costruzione giuridica dell’UE invece di concentrarsi su questo elementare dato di fondo rilevato dal giuspubblicista di Plettenberg, ha preferito muoversi lungo la linea Kelsen di rimozione del problema della sovranità. Si è così ottenuto che il popolo, che è il titolare della sovranità democratica, ha di fatto perso sempre più potere (gli sono state sottratte quote sempre più crescenti di ‘Dominio Repubblicano Diffusivo’ per esprimerci nei termini del Repubblicanesimo Geopolitico), essendo che questo potere era basato su una base giuridica sempre più svuotata (la sovranità, appunto) mentre il potere stesso ha subito una sorta di translatio loci dal popolo alla burocrazia e alla finanza (nazionali e/o transnazionali che siano), la cui azione non è giustificata da una forma defunta di sovranità (quella democratica) ma in base a puri criteri di efficacia. E così, nonostante la sua rimozione dalla dottrina giuspubblicista prevalente, la sovranità si è ricostituita avendo nuovi titolari: la burocrazia e la finanza. Come si è visto nella ultima crisi finanziaria dove a decidere in Europa sullo stato di eccezione (cioè sui provvedimenti da prendere per farvi fronte) non è stata la politica ma questi luoghi in cui era migrata la sovranità. Rispondendo quindi a Stefanini in merito a quale sia l’interesse italiano oggi, si può dire che l’interesse italiano – anche se con maggiore urgenza che nelle altre nazioni europee dove la politica non ha raggiunto l’indecenza del nostro paese – è “ritraslare” il potere e la sovranità verso il popolo. Fra pochi mesi avranno luogo le elezioni per il parlamento europeo. Pur con il dovuto disgusto verso la retorica e la disinformazione “democratica” (di fatto totalmente autoritaria) che da sempre accompagna la costruzione di questa Europa e i suoi appuntamenti elettorali, non sarebbe il caso di pensare di approfittare di questa occasione per uscire dal campo della pura analisi per cominciare ad avventurarci nella prassi? E in Italia non potrebbero essere
protagonisti di questo tentativo coloro che non da ieri ma ancor quando si pensava che questo sistema fosse in grado di dispensare libertà e benessere hanno sempre sostenuto che il potere del nostro paese è meno che altrove in mano al popolo ma di coloro che pretendono di agire in loro nome e loro conto sequestrandone di fatto la sovranità?

2 DICEMBRE 2013

WALTER BENJAMIN, IPERDECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È LA REGOLA*, DI MASSIMO MORIGI – Prosegue il dibattito

Prosegue il dibattito su

WALTER BENJAMIN, IPERDECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È LA REGOLA*, DI MASSIMO MORIGI

Massimo Morigi

« Il cortesissimo ( ed acuto) Fabio Falchi mi cita dove affermo che “lo strumento che permette di unificare nella teoria e nella prassi questi due campi apparentemente distinti è il conflitto dialettico-strategico” e quindi conclude che “Quindi natura e cultura non sono realtà identiche , dato che devono essere unificate (sono cioè realtà distinte non irrelate/separate). L’unificazione è appunto un processo storico (inevitabile a mio avviso). ” Purtroppo questa conclusione, ovviamente solo per quanto riguarda l’interpretazione del mio pensiero, è errata. Quando io parlo di “strumento”, l’affermazione deve essere interpretata dialetticamente, vale a dire che lo strumento interpretativo del conflitto strategico è la chiave che ci permette di interpretare la realtà ma è, al tempo stesso, la struttura della realtà stessa. E che questa debba essere l ‘ “interpretazione autentica” (m viene un po’ da ridere ad impiegare questo linguaggio da leguleo ma Fabio Falchi, la cui indulgenza ed ironia immagino sia pari alla sua giustissima acribia, spero sappia sorriderne) lo si deduce bene dalle parole finali al mio commento alla sua benevola recensione: “In altre parole per il Repubblicanesimo Geopolitico la suddivisione fra natura e storia o fra natura e cultura è totalmente artificiosa e lo strumento che permette di unificare nella teoria e nella prassi questi due campi apparentemente distinti è il conflitto dialettico-strategico. ” Unificare nella teoria e nella prassi significa che come processo astrattamente logico esistono la teoria e la prassi ma che la vera conoscenza e la vera azione si verificano quando riusciamo a superare questa ipostatizzazione logica; vera conoscenza e vera azione esistono, insomma, quando impieghiamo nella teoria come nella prassi il metodo dialettico. E la divisione fra natura e cultura è, a modestissimo giudizio dello scrivente, non altro che il frutto della predetta ipostatizzazione. Vi è, inoltre, un punto fra le intelligenti osservazioni di Fabio Falchi che dovrebbe essere molto approfondito ed è quando si afferma che “anche le formiche si fanno la guerra ma non fanno rivoluzioni o colpi di Stato”. Sinceramente sui colpi di stato della formiche non ho molto da dire ma fra gli animali che hanno raggiunto un maggior livello di evoluzione rivoluzioni e colpi di stato esistono eccome, e esistono pure linguaggi diversi, quindi diverse tradizioni culturali, fra gruppi di animali della stessa specie ma cresciuti in luoghi diversi. Non faccio esempi perché facilmente reperibili e sottolineo questo punto solo per mettere in dubbio le troppo salde certezze fra l’ontologica suddivisione fra natura e cultura e non tanto per controbattere alle pur legittime osservazioni di Falchi in merito all’uomo come animale politico e non, mi si passi il termine, “bellico” (natura bellica dell’uomo, sia detto per inciso, che io non sostengo, io sostengo che l’uomo è un animale “strategico”, e sono sicuro che Falchi, pur probabilmente non condividendola, colga pienamente questa sottile differenza). Infine, chiedo scusa se è parso che io abbia voluto accusare Falchi, siccome sviluppa una linea di pensiero in alcuni punti non conforme alla mia, di avere un atteggiamento da “tabula rasa” rispetto alla tradizione marxiana e marxista. E chiedo scusa non tanto perché tale atteggiamento sia, a mio giudizio, del tutto assente dal suo argomentare ma per il semplice motivo che anch’io mi ci posso ritrovare (tanto per essere chiari: quando, come il sottoscritto, si afferma che la la visione della classe operaia come classe intermodale in grado di originare una palingenesi del sistema capitalistico non è altro una immanentizzazione della soteriologia cristiana, direi che la compagnia di demolizione o gli sgombera cantine stanno bussando alle porte). Il punto è dove sgomberare e demolire e mi auguro che su questo si continui per molto ancora a (dialetticamente) dibattere. Massimo Morigi – 19 marzo 2017 »

 

Fabio Falchi

Io condivido in buona misura quanto sostiene Morigi nella sua ultima risposta, ma occorre fare due brevi precisazioni per capirsi meglio.
1) Il mio esempio riguardo alle formiche non deve essere frainteso. Con questo esempio ho solo voluto segnalare che le formiche sono sì animali sociali che si fanno le guerre tra di loro ma non per questo sono animali politici. Vale adire che il conflitto che davvero conta per comprendere il Politico (a mio giudizio s’intende) è la stasis, la lotta intestina , la guerra civile, piuttosto che la guerra in generale. Non è cioè qui in gioco tanto la differenza tra l’uomo e gli altri animali (ché pure l’uomo è animale, sia pure razionale, simbolico, economico, politico etc.) , ma la questione del rapporto (già evidenziato da Heidegger contro Schmitt) di quello tra l’Essere-insieme e l’Essere-contro che si verifica con la dicotomia amico vs nemico. Quindi anche per me l’uomo è animale politico ma non necessariamente un animale “bellico”. Riguardo infine agli animali più evoluti, risulta anche a me che vi possono essere (ad esempio tra i macachi) dei conflitti che portano ad un rivolgimento sociale e ad un mutamento della gerarchia all’interno del gruppo (non sono un esperto, ma non credo  che si possa parlare di rivoluzioni o di colpi di Stato, anche perché manca lo Stato; comunque sia, anche in questo caso mi pare che il Politico sia più connesso alla stasis che al polemos, che è appunto quello che mi premeva evidenziare).
2) Io non penso ad una natura da una parte e alla cultura da un’altra con il Politico in mezzo , ma fin dall’inizio come dure realtà uni-ficate ma in perpetuo divenire (un processo dialettico quindi, se si preferisce). Pertanto, è forse la nozione di natura che è diversa nel mio discorso, dato che non rimanda alla biologia bensì alla natura intesa “grosso modo” come la intende Aristotele. La natura umana, per lo Stagirita, è una (vi è identità di specie, cioè di “forma sostanziale”) ma si esprime e articola in modi diversi e perfino incompatibili tra di loro.  In base a questa prospettiva allora si può affermare che noi non siamo differenti dai Greci o dagli aborigeni australiani per natura ma per cultura. Nondimeno, non vi è una natura umana disincarnata (un universale astratto) ma sempre, per così dire, avvolta nelle differenze ( ossia è una realtà “particolare” in senso culturale, storico,  politico nonché sotto il profilo individuale/personale). In definitiva, in quest’ottica, il concreto modo di articolarsi della natura umana  non è “dato” (non si sviluppa in base ad una “legge di natura”) nel senso che è un processo  storico e politico (in quanto la natura comunitaria dell’uomo è “aperta”, si può cioè es-primere in modi diversi).
Chiaramente, anche se la mia posizione non coincide con quella difesa da Morigi, sono il primo a riconoscere l’importanza della sua riflessione sul repubblicanesimo geopolitico.

 

UNA ULTERIORE PRECISAZIONE DI FABIO FALCHI A WALTER BENJAMIN, IPERDECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È LA REGOLA*, DI MASSIMO MORIGI

Due brevi precisazioni.
1) Non sarò certo io a contestare che è essenziale “com-prendere” quello che ci ha preceduto soprattutto nell’ambito del pensiero. Del resto, chi ha letto qualche mio scritto sa che per me decisivo è “com-prendere” non solo il pensiero dei Greci ma, in generale, il linguaggio (e il mondo) del mito (e del simbolo). Quindi nessuna “tabula rasa”. Ci mancherebbe! D’altronde, Marx è certo un Autore importante. La mia osservazione mirava solo ad evidenziare la prospettiva, per così dire, politico-intellettuale di Morigi (certo diversa  dalla mia) anche se mi sembra che, come del resto lo stesso GLG, anche Morigi tenda a portarsi, muovendo da Marx, “oltre” Marx (benché non “contro” Marx).
2) Io non sono affatto dualista, bensì non dualista (che non è sinonimo di monista). Natura e cultura non credo siano opposti irrelati, ma non sono  realtà “identiche” ( per capirsi: si deve mangiare per vivere, ma non necessariamente si deve mangiare l’aragosta per vivere). I rapporti di potere variano comunque nella storia, sia nella stessa epoca e perfino nella stessa “regione” (in Grecia erano diversi da quelli che vi erano in Persia, ma a Sparta non vi erano quelli che vi erano ad Atene), sia nel tempo (quelli della Francia rivoluzionaria non erano certo identici a quelli della Francia sotto Luigi XV e quelli in Unione Sovietica non erano quelli della Russia degli zar o di Putin etc.). Variano insomma pure gli ordinamenti politici e le classi dominanti (quella capitalistica – se si accetta la ricostruzione storica di Braudel – salì al potere non prima del XV-XVI sec.:  Milano, Firenze, Venezia, Genova; poi l’alleanza dei banchieri genovesi con la Spagna seguita dalla breve egemonia olandese, poi da quella inglese; infine a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale quella americana, attualmente in crisi). Ma è ovvio che Morigi non dubiti che vi siano queste (e altre) “differenze”. Il punto allora qual è? Morigi afferma: “lo strumento che permette di unificare nella teoria e nella prassi questi due campi apparentemente distinti è il conflitto dialettico-strategico”. Quindi natura e cultura non sono realtà identiche , dato che devono essere unificate (sono cioè realtà distinte non irrelate/separate). L’unificazione è appunto un processo storico (inevitabile a mio avviso). Faccio un esempio.
Il Politico è un “destino” dell’uomo, che è sì per “natura” un animale comunitario ( di questo ne sono convinto) ma anche colui il cui agire non è determinato dalla “natura” (a differenza, come i Greci ben sapevano, del moto degli astri e dell’agire degli stessi animali). Peraltro, ritengo che non sia la guerra (polemos) all’origine del Politico, ma da un lato la nostra “natura” comunitaria (con il linguaggio di Heidegger, il Mitsein cioè l’essere insieme e essere nel mondo insieme) e dall’altro il fatto che il nostro agire può portare ( e di fatto lo porta sempre!) lo scompiglio nella stessa “polis” (anche le formiche si fanno la guerra ma non fanno rivoluzioni o colpi di Stato!). Dunque, è il  Politico che unifica (e “deve” unificare) natura e cultura facendo valere misure , ordini e proporzioni che non si trovano in “natura” ma devono essere “generati” (e si generano appunto attraverso la dialettica individuo/comunità, le lotte sociali, un orizzonte di senso condiviso etc.) ma tenendo conto di quella forma umana e comunitaria dell’esperienza  senza la quale il conflitto degenera in lotta intestina o in guerra civile (anche la questione della guerra/polemos mi pare connessa quindi con questo “intreccio” tra natura e cultura).
Certo, so bene che la questione è molto più complessa e che molte altre riflessioni e considerazioni sarebbero necessarie. Qui mi premeva solo fare qualche precisazione per evitare equivoci, anche perché seguo con interesse la riflessione di Morigi, che comunque ringrazio, anche per la cortese risposta al mio primo commento.
Di seguito il commento precedente di Massimo Morigi: “Innannzitutto, ringrazio Fabio Falchi per la valutazione complessivamente positiva di WALTER BENJAMIN, IPERDECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È LA REGOLA, poi veniamo a due velocissime puntualizzazioni. Fabio Falchi osserva che la prospettiva di WALTER BENJAMIN, IPERDECISiONISMO etc “pare ancora marxista” e ciò, mi sembra di capire, non viene valutato con altrettanta indulgenza. Ora senza voler discettare in questo luogo quali e quanti siano i miei debiti col pensatore di Treviri, una cosa tengo a sottolineare e questo non vale solo per Marx. Il problema riguarda il rapporto che si vuole tenere con la tradizione filosofica e, per farla breve, il malvezzo psicologico della stragrande maggioranza dei pensatori passati e presenti può essere riassunto con la sindrome della “tabula rasa”, vale a dire che tutto quello che mi ha preceduto non ha alcun valore e sono con me si è iniziato a scrivere le tavole della legge. Questo non è il mio approccio e quindi, operando il sottoscritto con questo stato d’animo (e, spero) modus agendi, mi trovo completamente a mio agio anche con una prospettiva marxiana (non marxista e non devo certo spiegare a Fabio Falchi e agli altri 24 lettori la non sottile differenza). Seconda puntualizzazione. Falchi afferma che ” i rapporti di potere non sono “dati” ma “generati” , ossia non sono naturali ma storici (appunto politici!)”. Oltre a tutta la tradizione filofosica occidentale di stampo, diciamo, immanentistico, la pensava così anche Marx ma, in tutta la mia modestia, è proprio quanto io contrasto nell’ambito della dottrina politico-filofosofica del Repubblicanesimo Geopolitico. In altre parole per il Repubblicanesimo Geopolitico la suddivisione fra natura e storia o fra natura e cultura è totalmente artificiosa e lo strumento che permette di unificare nella teoria e nella prassi questi due campi apparentemente distinti è il conflitto dialettico-strategico. Ho già affrontato la problematica del conflitto dialettico-strategico nel DIALECTICVS NNCIVS e l’argomento verrà ripreso con GLOSSE AL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO, di prossima pubblicazione. Nel frattempo, anche nonostante queste mie non brillanti precisazioni, spero ancora di godere dell’ attenzione dell’intelligente Fabio Falchi e degli altri indulgenti 24 lettori. Massimo Morigi – 5 marzo 2017”

Repubblicanesimo Geopolitico. 3a parte Alcune Delucidazioni Preliminari Di Massimo Morigi

Se però l’analisi del potere di Hannah Arendt risulta essere assolutamente realistica (il potere non è il male ma è la benzina della società), la filosofa politica ebrea tedesca naturalizzata statunitense non fu altrettanto puntuale nell’analizzare le problematiche del potere relative alla moderne democrazie rappresentative, in quanto il suo punto di riferimento della polis greca se assolutamente illuminante per quanto riguarda l’analisi fenomenologica del potere, non è assolutamente proponibile come modello per le moderne società industriali (e la Arendt ne era assolutamente consapevole) e la sua mitizzazione della rivoluzione americana – con l’idea di una riproposizione come futuro soggetto politico, mutatis mutantis, delle piccole comunità americane di origine che erano state alla base della voglia di libertà e laboratorio politico della rivoluzione e delle prime forme di democrazia del nuovo continente –, se ancora fondamentale per capire le dinamiche dominio-potere-libertà risulta ancora una volta improponibile come reale modello alternativo alla democrazia rappresentativa. Arrivo quindi rapidamente alla conclusione intorno alla domanda di cosa sia il Repubblicanesimo Geopolitico. Il Repubblicanesimo Geopolitico intende riempire questa lacuna nella consapevolezza molto elementare ma fondamentale che la partita della libertà non si gioca né in astratti enunciati (libertà come non interferenza di matrice liberale o libertà come non dominio del (neo)repubblicanesimo) ma nei concreti rapporti di forza (e quindi nei concreti spazi di libertà) che si sviluppano all’interno della società. Con questa enfasi sui rapporti di forza fra le classi, sembrerebbe però essere dalle parti di una riedizione del
marxismo vecchia maniera. Errore e per due semplici motivi. Primo perché nel Repubblicanesimo Geopolitico l’accento è messo sul potere come energia generatrice di libertà mentre il marximo classico vuole una società dove i rapporti di forza siano estinti (fine della storia, estinzione dello stato). Secondo perché se per il marximo l’agente generatore di una società più libera è il proletariato, per il Repubblicanesimo Geopolitico l’agente per una maggiore libertà sono proprio quelle forze ed energie (quindi anche il proletariato ma pure le forze che vi si contrappongono) che scontrandosi originano una dialettica del potere che è alla base per un concreto e non astratto ampliamento della sfera della libertà (sottolineo che questa della conflittualità come origine della libertà e/o della forza di una comunità politica non è certo molto originale discendendo direttamente da Machiavelli e dalla sua spiegazione della forza militare degli antichi romani, la quale, secondo il Segretario fiorentino, discendeva direttamente dalla lotta fra patrizi e plebei che trovava una sua valvola di sfogo nella espansione territoriale di Roma). E queste forze ed energie per il Repubblicanesimo Geopolitico possono trovare la loro piena espressione solo a condizione che il quadro geopolitico in cui questa comunità vive la sua esperienza storica sia favorevole a che questa comunità possa irrobustire la sua identità e, di conseguenza, progettare e lottare per sempre maggiori spazi di libertà. Dove Mazzini parlava di una missione dell’Italia una volta che fosse stata riunificata geograficamente e spiritualmente, sarebbe assai singolare non vedere in queste parole la consapevolezza che una nazione non può vivere – e quindi essere libera – senza che abbia un’idea della sua collocazione fra le altre comunità politiche del mondo, senza che possa disporre di un suo Lebensraum, non solo geografico e materiale ma anche culturale e spirituale (quello di Lebensraum, cioè spazio vitale, è un concetto che venne coniato da Friedrich Ratzel e sviluppato dalla geopolitica tedesca e per questo ha subito una sorta di damnatio memoriae. Ora il fatto che il nazismo abbia sviluppato una sua
versione criminale del Lebensraum non significa che questo concetto non sia fondamentale per la geopolitica e quindi per il Repubblicanesimo Geopolitico, tanto che il Repubblicanesimo Geopolitico potrebbe anche essere chiamato Lebensraum repubblicanesimo se non fosse per il fatto che il concetto di Lebensraum è ancor oggi appaiato all’imperialismo guglielmino e al male assoluto del nazismo e – per ironia della storia, se pur rifiutato dalle accademie politologiche e filosofico-politiche del secondo dopoguerra – impiegato come strumento di analisi fondamentale per dirigere l’azione geopolitica delle potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale. Il Repubblicanesimo Geopolitico, invece, intende impiegarlo per i suoi scopi di libertà). Quando Mazzini criticava Marx questo non avveniva per una sorta di cecità nei confronti delle condizioni della classe operaia ma avveniva nella consapevolezza che la dinamica dello scontro delle classi sociali – e quindi della libertà – non poteva essere compressa nelle formulette che si riassumevano nella credenza parareligiosa della classe operaia come “classe intermodale” e quindi come unico agente per la trasformazione rivoluzionaria della società. Mazzini fu sempre accusato di misticismo. In realtà non era affatto un mistico ma, piuttosto, un dialettico che era consapevole che la partita della libertà poteva essere vinta solo con una generale crescita culturale (e quindi politica) di tutta la società. Quando Mazzini preconizzava l’edificazione per la sua nuova Italia di “scuole, scuole, scuole”, non designava per sé il ruolo di futuro ministro della pubblica istruzione ma era semplicemente consapevole che la libertà italiana doveva passare attraverso l’innalzamento culturale del popolo. Oggi questa dimensione culturale è entrata a pieno vigore nel lessico della geopolitica e si chiama noopolitik, quella noopolitik che presa molto sul serio dal Celeste Impero, rischia di qui a pochi anni, assieme ai suoi fattori di eccellenza economica, di rendere la Cina la prima superpotenza a dispetto degli standard terribilmente mediocri, almeno se comparati a quelli delle cosiddette
democrazie rappresentative occidentali, nel campo dei diritti politici. Ora, senza voler ripercorrere tutti quegli autori e personaggi storici in cui il momento geopolitico fu fondamentale (Garibaldi fu un geopolitico “pratico”, il nazionalismo italiano ebbe una sua versione di destra tipicamente autoritaria mentre la matrice democratica del nazionalismo è impensabile senza considerare il Maestro di Genova, l’interventismo democratico era mazzinianamente animato da una profonda, anche se rudimentale, consapevolezza repubblicana e geopolitica che la libertà del nuovo Stato – e quindi dei suoi cittadini – non era al sicuro senza la demolizione degli Imperi centrali, l’impresa fiumana ben lungi dall’essere stata uno stolto rigurgito del peggior nazionalismo come da certa stereotipata storiografia, diede voce – ed azione – alla consapevolezza geopolitica di matrice mazziniana diffusa fra gli strati più umili della popolazione – ma non per questo non certo politicamente meno avvertiti –, che l’astratto wilsonismo era un attentato non solo contro la potenza di una nazione, l’Italia, che aveva vinto la guerra ma anche contro la sua libertà nel consesso delle nazioni e, quindi, al suo interno, anche contro il suo sviluppo in una società sempre più libera. E quanto fossero avanzate le concezioni politiche e sociali dei “fiumani” guidati da D’Annunzio, volentieri si rimanda alla misconosciuta Carta del Carnaro), la tragedia dell’Italia attuale è che la sconfitta nel secondo conflitto mondiale, assieme alla giusta ridicolizzazione del fascismo, trascinò nel disastro anche quel Repubblicanesimo Geopolitico che era stato una delle componenti fondamenti del suo Risorgimento e della sua riunificazione e che aveva ben compreso che la libertà non poteva essere scissa dalla sua componente spaziale-geografica (2). Rimane da rispondere al quesito posto da Roberto Stefanini sulla rappresentazione della situazione che si fa il Repubblicanesimo Geopolitico. Se per rappresentazione della situazione s’intende il quadro delle relazioni internazionali, il Repubblicanesimo Geopolitico sente una profonda affinità, e prende robusti spunti oltre che dai già
citati padri della geopolitica, dalla dottrina delle relazioni internazionali che oggigiorno va sotto il nome di costruttivismo e che ha per caposcuola Alexander Wendt. Famoso il titolo del saggio di Alexander Wendt Anarchy is What States make of it, e cioè che l’anarchia del sistema internazionale non è una meccanica legge di natura ma dipende dalle scelte, a loro volta influenzate dalla storia e dalla cultura, che le singole nazioni compiono di volta in volta. Il costruttivismo, insomma, sottolinea l’importanza dei cosiddetti dati “sovrastrutturali” e volitivi nel determinare la dinamica del sistema internazionale. Da questo punto di vista, il Repubblicanesimo Geopolitico è completamente d’accordo col costruttivismo ma con una piccola rivendicazione, non per sé stesso – ci mancherebbe – ma per chi prima ancora del costruttivismo e con feroce volontà attuativa pensò in questi termini: il solito Giuseppe Mazzini. Se per rappresentazione della situazione si intende, invece, il giudizio sullo stato di salute della democrazia in Italia e nelle altre cosiddette democrazie rappresentative, il giudizio è già stato espresso in altri interventi sul “Corriere della Collera” ma, in estrema sintesi, si riassume nella conclusione che quello che i media – ed anche un pensiero politico asservito a necessità che con la ricerca della verità e dell’espansione della libertà hanno poco a che spartire – oggi chiamano democrazia non è altro che un regime ove le oligarchie finanziarie sostengono e foraggiano un teatrino dove ancora si consente di scegliere attraverso formalmente libere elezioni la rappresentanza politica ma in cui questa rappresentanza politica è totalmente irresponsabile rispetto al suo elettorato ed è spogliata, de facto, di qualsiasi potere decisionale (questo teatrino del potere e della falsa libertà politica è comune a tutte le cosiddette democrazie rappresentative occidentali. Proseguendo con l’immagine, possiamo dire che, allo stato attuale, la democrazia è una recita fatta dai politici su un palco gentilmente fornito dalle oligarchie finanziarie. In Italia poi, per non farci mancare niente, gli attori sono pure degli scadenti
guitti). Questo giudizio, peraltro, non è proprio un’esclusività del Repubblicanesimo Geopolitico ma è condiviso anche dalla parte meno corrotta dell’attuale mainstream della scienza politica (Colin Crouch, Robert Dahl tanto per citare qualche autore). Al contrario però di coloro che vedono la postdemocrazia e/o la poliarchia come un destino inevitabile per le democrazie rappresentative occidentali, il Repubblicanesimo Geopolitico non si rassegna all’avvizzimento della democrazia per il semplice motivo che se gli uomini per pigrizia possono essere sordi sulla loro libertà, la storia è un’ottima sveglia e che, se inascoltata, può portare a traumatici e tragici risvegli. È la storia del nostro paese che è tutto un susseguirsi di momenti alti e di altri di tragica miseria. È persino inutile dire in quale momento il Repubblicanesimo Geopolitico ambisca a collocarsi. Sembrerebbe, è vero, una missione impossibile, per non dire connotata da un’assoluta ed insopportabile hubris. Se il Repubblicanesimo Geopolitico fosse una semplice nuova elaborazione di scuola sui temi (neo)repubblicani ciò sarebbe assolutamente vero. Ma ovviamente la pretesa – o meglio la speranza – del Repubblicanesimo Geopolitico non è di essere la solita accademica variazione sul tema (neo)repubblicano ma modestamente, anche se con molto orgoglio, è di non essere altro che l’ennesima espressione di quel moto profondo che nasce dal cuore della nostra storia e civiltà e che si riassume nella ricerca di una sempre maggiore espansione della libertà. Ora e sempre.
Ravenna-Coimbra, 26 novembre 2013

NOTE
(1) In questa risposta [sul “Corriere della Collera”] sul Repubblicanesimo Geopolitico ho originariamente omesso qualsiasi citazione dei vari Nozik, Friedrich von Hayek, Dworkin
e Rothbard come autori di riferimento in merito al canone liberale. La ragione è molto semplice. Tutti questi autori, chi più da “sinistra” chi più da “destra”, ci restituiscono un’immagine talmente caricaturale del liberalismo – e talmente priva di qualsiasi riferimento alla nozione di “conflitto strategico” (concetto coniato da Gianfranco La Grassa nell’ambito del suo fondamentale rinnovamento del marxismo e dell’interpretazione del filosofo di Treviri ma il cui campo semantico rimanda direttamente a Machiavelli) – che da parte di un pensiero, come il Repubblicanesimo Geopolitico, che intende seriamente e radicalmente superare il pensiero liberale è consigliabile, almeno in sede divulgativa come può essere quella di un blog, piuttosto che lasciarsi andare a facili, scontate – seppur giustificate – ironie, lasciar perdere ed ignorarli del tutto. Insomma, i lettori dei blog politici (o, meglio, tutti coloro che vogliono costruirsi una vera cultura politica e comprendere quindi anche la grandezza, seppur da superare, del liberalismo) se vogliono “perdere” tempo, affrontino Tucidide, Machiavelli, Hobbes, Adam Smith, Ricardo, Carl von Clausewitz, Hegel, Marx, Mazzini, Mosca, Pareto, Benjamin Constant, Alexis de Tocqueville, Carl Schmitt, Sorel, Lenin, Antonio Gramsci, Hannah Arendt, Friedrich List, Schumpeter, John Maynard Keynes, per finire con i padri della geopolitica Alfred Thayer Mahan, Halford John Mackinder e Friedrich Ratzel piuttosto che i moderni pedestri, feticistici ed irrealistici propagandisti nominati sopra di un liberalismo visto come una sorta di sistema eterno, immutabile e al di sopra della storia (e di un individuo come una sorta di onnipotente Robinson sociale), servi sciocchi di quegli agenti strategici, che coperti dalle enunciazioni ideologiche (un tempo socialiste e liberali oggi solo liberali) ad usum della manipolazione del consenso hanno inteso le varie organizzazioni socioeconomiche in cui venivano ad operare (socialiste e liberaldemocratiche e oggi solo liberaldemocratiche) come il campo di battaglia sul quale scontrarsi per ottenere la supremazia. Agenti strategici che,
insomma, da veri propri leviatani hobbessiani hanno fatto sempre un sol boccone, strumentalizzandoli e trattandoli come carne da cannone, dei vari Robison sociali del liberalismo e dei vari Stakanov del socialismo reale. È inutile aggiungere che il Repubblicanesimo Geopolitico sia dal punta di vista conoscitivo che da quello politico è unicamente inteso a far uscire dal loro “stato di minorità” questi illusi Robinson liberali e i tuttora persistenti – e perdenti – cultori del fu Stakanov del defunto socialismo reale.
(2) Fondamentale per comprendere sul piano teorico questa dialettica spazio/libertà, Democratic Ideals and Reality. A Study in the Politics of Reconstruction, London, 1919 di Halford Mackinder, il fondatore accanto a Thayer Mahan della geopolitica, e al quale si deve la comprensione che la democrazia è nata e si sviluppata grazie all’insularità della Gran Bretagna e che quindi il wilsonismo – oggi si direbbe l’esportazione della democrazia – era un assoluto non senso,

Repubblicanesimo Geopolitico. 2a parte Alcune Delucidazioni Preliminari Di Massimo Morigi

Repubblicanesimo Geopolitico. 2a parte  Alcune Delucidazioni Preliminari Di Massimo Morigi

Rispondo molto volentieri, ringraziandolo per l’interesse mostrato, alle assai opportune domande di Roberto Stefanini sul Repubblicanesimo Geopolitico e ringrazio pure “Il Corriere della Collera” per dare spazio ed ospitalità alle seguenti opinioni ed analisi, ovviamente ascrivibili unicamente allo scrivente e non interpretabili come una sorta di sua linea editoriale ma che si ha fiducia che, almeno nello spirito, possano essere condivise dal blog e dai suoi cortesi ed attenti lettori. Senza scendere troppo nel dettaglio sugli autori e le fonti, attualmente, in contrapposizione ad una visione liberale della democrazia, che intravvede la libertà come non interferenza (e cioè che si sarebbe tanto più liberi quanto più la legge positiva non vieta di fare questo o quello), si contrappone, fra le altre, una corrente di pensiero che viene definita repubblicana o neorepubblicana (fra le altre, perché il repubblicanesimo o neorepubblicanesimo, nell’ambito delle dottrine che ambiscono a sostituire il liberalismo come ideologia guida, non è l’unica possibilità messa in campo dalla filosofia politica: abbiamo, per esempio, il pensiero comunitario (1) – cfr. Michael Sandel, Alasdair MacIntyre –, che indica come soluzione al deficit democratico un maggiore legame dell’individuo con la sua comunità di riferimento e che, da alcuni, per la sua critica alla versione liberaldemocratica della democrazia, viene avvicinato al repubblicanesimo, per non parlare dei vari marxismi più o meno neo che siano). Ora il (neo)repubblicanesimo, in contrapposizione ad una interpretazione liberale della libertà intesa come non interferenza, avanza un’idea della libertà intesa come non dominio (cfr., in particolare, Philip Pettit e Quentin Skinner), e cioè si è veramente liberi non solo quando la legge positiva interferisce il meno possibile con le scelte dell’individuo ma anche – e soprattutto – quando il contesto politico ed economico della società non consente che fra individuo ed individuo s’instaurino relazioni di dominio. L’esempio classico per illustrare la situazione di dominio è il rapporto servo/padrone di Hegel, dove il servo è sì legalmente libero di prendere decisioni in contrasto col suo padrone ma dove questo comportamento è, de facto, reso impossibile dalla disparità di forze fra questi due attori (per Hegel il rapporto servo/padrone aveva poi una sua evoluzione sempre più indispensabile al padrone, alla fine “padroneggiava” il padrone stesso; il (neo)repubblicanesimo meno dialettico e più “politically correct” vorrebbe, non si sa bene come, l’abolizione, ex abrupto – e bypassando del tutto la dinamica sociale delle scontro fra classi e della nascita da questa dialettica di nuove ed inedite classi – di questo rapporto). Quindi fra servo e padrone si instaura un rapporto di dominio e, giustamente secondo il (neo)repubblicanesimo, questo rapporto è una metafora di quanto avviene oggi nelle nostre moderne società rette politicamente da varie forme di democrazia rappresentativa. Per il (neo)repubblicanesimo è necessario, allora, per la costruzione di una società più democratica, affiancare alla non interferenza di matrice liberale anche una visione della libertà intesa come non dominio, una situazione quindi dove il comportamento del servo non sia condizionato dal maggior potere del padrone. Da ciò emerge un (neo)repubblicanesimo totalmente condivisibile a livello di etica pubblica ma, però, totalmente embrionale e a livello di elaborazione teorica e a livello di proposte di politiche pubbliche. Veniamo prima alle politiche pubbliche avanzate dal (neo)repubblicanesimo. Per quanto riguarda questo aspetto del (neo)repubblicanesimo, ci troviamo di fronte alla assoluta fumosità dei suggerimenti, fumosità il cui autentico “crampo del pensiero” è rappresentato dal fatto che l’analisi dei problemi politico-istituzionali delle società liberaldemocratiche non è mai affiancata ad una analisi delle classi socio-economiche che in queste società operano, dimodoché il (neo)repubblicanesimo stenta moltissimo ad individuare i reali rapporti di forza e/o di potere che operano all’interno di queste società, una dimenticanza di non piccolo momento per una dottrina che vorrebbe instaurare rapporti di non dominio all’interno delle democrazie rappresentative. Se questo è un problema del (neo)repubblicanesimo per quanta riguarda le politiche pubbliche (un problema che, comunque, potrebbe apparentemente essere risolto nella prassi con versioni più a “sinistra” e più redistributive della dottrina), è a livello teorico che troviamo il grande problema del (neo)repubblicanesimo, grande problema che sta proprio nella visione della libertà come non dominio, una visione, cioè, dove il potere (dominio) è visto come una cosa in sé cattiva e da contrastare il più possibile, una specie di pulsione da reprimere e da cacciare il più possibile nell’inconscio della vita politica, mentre il problema del potere non è tanto quello di rimuoverlo o di esorcizzarlo come una specie di peccato originale (una società ispirata al principio del non dominio altro non è che la realizzazione di questa rimozione) ma bensì un suo incremento e sempre maggiore condivisione di quote crescenti dello stesso fra tutti i membri della società. Se quindi la bandiera del (neo)repubblicanesimo è il non dominio, il Repubblicanesimo Geopolitico esprimendosi in termini simmetricamente contrari parla di dominio diffuso e/o diffusivo come condizione indispensabile per lo sviluppo della libertà. Per esprimersi ancora con maggior sintesi e ad uso di un facile promemoria: l’obiettivo del Repubblicanesimo Geopolitico è il Dominio Repubblicano Diffusivo, in inglese Republican Diffusive Domination (RDD se si preferisce l’impiego dell’acronimo o la Republican Increased Common Domination, RICD, Aumentato dominio comune repubblicano, usando un’altra locuzione semanticamente equivalente ed il suo rispettivo acronimo). Questa analisi sul potere come cosa in sé tutt’altro che malvagia, non proviene da autori autoritari, antidemocratici e/o fascisti ma discende direttamente dal pensiero di Hannah Arendt, per la quale, appunto, il potere non andava esorcizzato ma era lo strumento principale attraverso il quale sia la comunità politica che il singolo individuo potevano tendere alla realizzazione di una Vita Activa, quella Vita Activa la cui entelechia era la realizzazione di una immortale gloria terrena attraverso l’incremento della libertà/potere di ogni singolo individuo che, proprio in virtù di questa sua sempre più espansiva ed accresciuta capacità esistenziale, avrebbe potuto aspirare per sé e per la sua comunità ad obiettivi di tale esemplarità e bellezza da risultare immortali (tali da “vincere di mille secoli il silenzio”, cfr. in La guerra del Peloponneso di Tucidide il discorso funebre di Pericle agli Ateniesi).

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