Giuramento di Rex Tillerson

Ieri sera alla Casa Bianca, ha giurato di fronte al Presidente Trump e al Vice Presidente Pence Rex Tillerson, il nuovo Segretario di Stato Americano. Tutto questo dopo un lungo ostruzionismo dei Democratici al Senato che ha ritardato per più di una settimana l’entrata di Tillerson nelle stanze del potere. Inizia in salita il lavoro di Tillerson visto che si ritrova con molti dei vertici amministrativi del Dipartimento dimissionari. Molte le posizioni lasciate vacanti da colmare, inoltre dovrà  districarsi di fronte ad un inasprimento della situazione in Ucraina e un l’ultimatum all’Iran.

IL TEATRO DELL’OLOCAUSTO, di Max Bonelli

Cronaca di una serata culturale, dove il genocidio degli ebrei viene usato come strumento per produrre consenso per una pseudo sinistra liberista e mondialista.

 

Mi trovavo a trascorrere un paio di giorni presso il luogo di origine della mia famiglia. Un tipico paese dell’appennino laziale, per sua fortuna non toccato dalle tristi vicende dei continui terremoti. Una parente, dopo una piacevole chiacchierata, m’invita a seguirla ad un evento culturale locale tenuto da un politico del luogo esponente della sinistra mondialista  e docente in un  liceo, conosciuto per ricorrenti iniziative culturali su temi di attualità. Il tutto sponsorizzato dalla municipalità  che pur avendo un colore politico teoricamente opposto acconsente alla sponsorizzazione di questi eventi in nome di una apartiticità della cultura.

La serata è la seconda di un ciclo di due che ha per tema l’Olocausto, con relatore un giovane professore universitario di filosofia che solo casualmente ha il cognome coincidente con quello di un ministro della repubblica di uno dei primi governi Berlusconi.

Il giovane intellettuale presenta il suo libro sul genocidio ebraico e ne illustra i suoi punti salienti, partendo dall’assioma  che il genocidio degli ebrei perpetrato dal nazismo sia fenomeno unico nel corso della storia per dei motivi che il bravo professore partenopeo si dimentica simpaticamente di dimostrare.

Gli spettatori della riunione pur essendo in media di cultura superiore non riescono onestamente ad afferrare perché il 27 gennaio, in tutto il mondo dobbiamo ricordare il genocidio degli ebrei e non quello degli zingari che morirono nello stesso modo e negli stessi luoghi. In silenzio non assertivo afferrano il concetto che questa ricorrenza è unica per la coniugazione di un movimento politico che dopo la presa al potere di Hitler nel 1933 pianifica a tavolino la pulizia etnica dell’area geografica a predominanza culturale tedesca. Dopo di che è un continuo di immagini verbali e mediatiche di atti di violenza bestiale e testimonianze toccanti che non possono che scuotere la coscienza umana dell’ascoltatore.

Ma la mia coscienza critica è in rivolta. Come si può affermare impunemente l’unicità di questo genocidio rispetto agli altri genocidi che la storia con ricorrenza cadenzata ci vomita addosso?

Cosa differenzia sul piano della componente razziale, l’olocausto ebraico rispetto al genocidio degli indiani di America perpetrato dai coloni americani i quali affermavano con franchezza tutta anglosassone che: “l’unico indiano buono era quello morto”? Cosa differenzia in metodicità la distribuzione delle coperte infettate di vaiolo, rispetto ai tentativi sperimentali teutonici di genocidio tramite le camere a gas?

Dove si distingue l’efferatezza del genocidio degli ebrei polacchi e russi da quello messo in pratica dalle milizie turche e curde nei confronti degli armeni?

Pecca di capacità tecnologica il monito di genocidio dato al Giappone ormai inerme con le due bombe di Hiroshima e Nagasaki rispetto ai forni crematori dei campi di concentramento?

Mi sovviene il sospetto che l’unicità dell’olocausto è che per un caso raro nella storia dei genocidi, il colpevole ha perso la guerra e viene processato dal vincitore.

 

Sono certo che il giovane professore il quale per sicuro merito ha occupato una prestigiosa cattedra con il corrispondente buon stipendio saprà illuminare il mio innato spirito critico. D’altronde come potrà mancare una sessione interattiva di domande e robuste risposte in una serata culturale patrocinata da locali esponenti di partiti con salde tradizioni democratiche?

Ma i miei interrogativi rimarranno tali e irrisolti da un frettoloso “Tutti a casa” prontamente lanciato dal rampante esponente politico globalista dal look da moderno sessantottino. La perplessità nella platea è visibile negli occhi delle persone e questa può generare inopportune domande; d’altronde lo scopo d’informazione è raggiunto, l’impegno culturale è compiuto, la ricaduta politica per futuri impegni elettorali conseguita, l’amicizia con il giovane professore universitario consolidata e con essa la rete di sue conoscenze ed influenze.

La mia rabbia cresce per questo teatrino umano che uccide per la seconda volta quegli uomini, donne, bambini vittime di una pazzia razziale collettiva che ebbe luogo nei campi di concentramento. Il loro sacrificio viene usato per il fine di una grande lobby finanziaria che deve nascondere un altro genocidio che si potrebbe fermare oggi, quello dei palestinesi rinchiusi nella striscia di Gaza. Il grande ghetto palestinese con i bambini denutriti che crescono in un esasperante vita se non quando deturpati ed uccisi dalle pallottole israeliane. La memoria degli ebrei di Treblinka, Auschwitz usata come velo per oscurare gli odierni genocidi, dimostrazione giornaliera che non esistono popoli eletti e razze superiori, bensì un animale a due gambe capace di qualsiasi ferocia chiamato uomo.

Ma i peggiori sono loro; quelli che si pensano giusti, portatori di verità che in realtà usano per i loro fini, piccoli uomini senza etica.

L’etica suggerirebbe: stabiliamo il giorno della memoria per tutti i genocidi, grandi e piccoli che sono avvenuti, tutti paritetici nella dimostrazione della pazzia umana.

 

 

Max Bonelli

 

Autore del libro

Antimaidan

(le ragioni del genocidio del popolo dell’Est Ucraina)

Esperto di Scandinavia ed Ucraina

LA NUOVA AMERICA O LA DEMOCRAZIA IN AZIONE, di Antonio De Martini

Riprendo da facebook: https://www.facebook.com/antonio.demartini.589/posts/1074074962738294

Mi pare che parli da solo

LA NUOVA AMERICA O LA DEMOCRAZIA IN AZIONE, di Antonio De Martini

Per scaramanzia, non farò notare che Trump sta mantenendo le sue promesse elettorali, perché dopo la delusione di Hollande, che mantenne le prime tre e poi scivolò nel nulla ( cosa che l’amico Ceccarelli mi rimprovera costantemente) non vorrei addentrarmi in un nuovo ginepraio.

Però, dopo anni di comportamento schizofrenico della politica statunitense, non posso onestamente fingere che non sia accaduto nulla e che tutto riprenda as usual.

Se andate sul sito dell’ambasciata USA a Roma, vedrete che il proconsole Philips è stato salutato il 18 gennaio e sostituito da una “chargé d’affaires” proveniente dalla carriera diplomatica. Segno che la disposizione del neo presidente è stata obbedita alla lettera.

Se date un’occhiata alle nomine del nuovo governo, noterete come un cospicuo numero di membri del Congresso e governatori di Stati siano diventati membri dell’esecutivo federale, segno di un nuovo rapporto interattivo tra Congresso e governo.

Tra i diretti collaboratori del presidente ci sono cinque generali in evidente contrasto con la precedente amministrazione.

È un segnale di inversione del rapporto tra Pentagono e Dipartimento di Stato che viene ridimensionato dopo la sequela disastrosa di scemenze che hanno danneggiato seriamente l’immagine dell’America nel mondo.

I funzionari apicali del Dipartimento di stato, non si sono soltanto dimessi, ma hanno chiesto il pensionamento. Segno che giudicano essi stessi il movimento come irreversibile.

Il primo incontro internazionale è stato con la premier inglese. Segnale questo, potrei sbagliarmi, della ripresa di una vecchia idea di strategia continentale che vedrà anche maggiore attenzione alla Spagna e al bastione dei Pirenei, invece di schieramenti ai confini russi. La NATO odierna ha le settimane contate.

L’incontro con i capi della industria automobilistica, allineati come scolaretti davanti alle telecamere, ha mostrato plasticamente il ritorno del giusto rapporto tra politica e mondo degli affari.

L’azzittirsi del cicaleccio europeo sulla multipolarità e la ricerca per analizzare la nuova situazione ci dà un momento di pausa.

Cominciamo a vedere che gli unici momenti di diplomazia multipolare sono stati l’accordo con l’Iran sul nucleare e l’accordo di Parigi sul clima. Due invenzioni propagandistiche prive di contenuti reali.

Il finanziamento USA dell’ONU, dove Obama sperava di annidarsi, sarà ridotto del 40% e viste le promesse finora mantenute, non c’è ragione di dubitarne.

La diplomazia bilaterale tornerà a prevalere e chi ha più filo da tessere lo dimostrerà. Europa e Italia dovranno cambiare classe dirigente e adeguarsi.

Stiamo assistendo alla celebrazione della democrazia. Il popolo ha votato e adesso il cambiamento, giusto o sbagliato che sia, SI VERIFICA PER DAVVERO.

È giunto finalmente il momento per dar vita a un nuovo movimento politico in Europa e in Italia senza ostacoli esteri.

Obama disse che il cambiamento era possibile, ma in realtà era un gattopardo infido rivelatosi incapace perfino di chiudere un carcere illegale.

Trump, senza tante chiacchiere, sta cambiando l’America e, con essa, il mondo. Possiamo approfittarne anche noi.

Adesso è il momento di organizzarci.
Per i servi sciocchi nostrani, una prece.

Donald Trump e la rivolta dei cani al sole (commento di Massimo Morigi all’articolo di Gianfranco Campa “T-Rex il Mastino di Trump”)

Donald Trump e la rivolta dei cani al sole (commento di Massimo Morigi all’articolo di Gianfranco Campa “T-Rex il Mastino di Trump”)

Scrive Francis Fukuyama nel più famoso passaggio della Fine della Storia e l’Ultimo Uomo: «The end of history would mean the end of wars and bloody revolutions. Agreeing on ends, men would have no large causes for which to fight. They would satisfy their needs through economic activity, but they would no longer have to risk their lives in battle. They would, in other words, become animals again, as they were before the bloody battle that began history. A dog is content to sleep in the sun all day provided he is fed, because he is not dissatisfied with what he is. He does not worry that other dogs are doing better than him, or that his career as a dog has stagnated, or that dogs are being oppressed in a distant part of the world. If man reaches a society in which he has succeeded in abolishing injustice, his life will come to resemble that of the dog. Human life, then, involves a curious paradox: it seems to require injustice, for the struggle against injustice is what calls forth what is highest in man.» (Fukuyama 1992: 311). Nell’articolo di Gianfranco Campa “T-Rex il Mastino di Trump” l’analista, soffermandosi su un importante aspetto della nuova amministrazione Trump, la nomina a Segretario di Stato di Rex Tillerson, va oltre la rappresentazione dei dati biografici e del probabile modus operandi del neonominato segretario di stato ma fornisce anche importanti spunti sia su quella che possiamo definire la stimmung della nuova amministrazione Trump sia sul vero motivo per cui questa nuova amministrazione entra nel pieno dei poteri dovendo affrontare all’interno un vero e proprio clima di guerra civile (e al livello internazione una palese e feroce ostilità il cui unico obiettivo è di allearsi con i facitori della guerra civile interna americana al fine di rovesciare la nuova amministrazione). Quali sono le caratteristiche di Rex Tillerson? Rex Tillerson non è un politico nel senso peggiorativo della parola, Rex Tillerson non è cioè un politico uso a vellicare il popolo in nome di principi universalistici ma nonostante ciò (cioè nonostante la pesante e negativa semantica che si trascina il termine in questione) è un politico perché sa da grande responsabile e dirigente della massima multinazionale petrolifera statunitense che un accordo e/o una decisione non è mai frutto né di un puro calcolo tecnico né del rigido attenersi ad astratti parametri tecnici (in politica i principi universalistici dei diritti dell’uomo o simili, in economia le mitologiche leggi dell’economia, come vorrebbe il liberalismo) ma del sapiente bilanciamento di tutti questi fattori (illusioni politiche universalistiche comprese) al fine di comporre una linea politica e/o di azione/conflitto strategico coerente, razionale e, in ultima istanza, intimamente pacifici perché presuppone non un interlocutore demonizzato ma una controparte in possesso dei medesimi orientamenti e strumenti di analisi realistici. Ora essendo queste caratteristiche/modus operandi di Tillerson profondamente rappresentativi dell’amministrazione Trump, si spiega così da un lato il feroce clima di guerra civile scatenato all’interno degli Stati uniti da quegli agenti strategici, prima dell’amministrazione Trump totalmente prevalenti, che sotto il ridicolo vestito dei diritti universalistici liberal-liberisti avevano dichiarato guerra a tutti coloro che al di fuori degli Stati uniti si opponevano alla truffa democraticistica e al totalitarismo della globalizzazione mercatistica sia il fatto che in questa guerra civile le truppe d’assalto siano costituite dal tipo umano-politico che Fukuyama (non si capisce bene se con disprezzo e fatalismo o vedendoli come un fenomeno in sé positivo) definisce cane al sole, dove con cane “content to sleep in the sun” Fukuyama delinea l’idealtipo dell’uomo democratico, un incrocio fra indolenza fisica, pigrizia intellettuale e finte alte idealità che gli dovrebbero essere garantite dai politici democratici (a tutto disposti nelle loro concessioni demagogiche) e a livello di costruzione sistemica dello stato, dagli universalistici diritti politici formalmente garantiti dalle carte costituzionali liberal-liberiste. Ora Trump (e tutta la sua amministrazione) sono il più esplicito proclama che le cose non stanno per niente così, sono la dimostrazione che è iniziata una “vera rivoluzione” dove al posto dei fantasmagorici diritti universalistici e della loro ultima miserrima traduzione politically correct del diritto alle varie diversità più o meno di genere si cerca di costruire e di mettere in azione l’unico vero diritto che veramente conta (e che, in ultima istanza, è il motore del lagrassiano conflitto strategico), e cioè il diritto ad avere la possibilità di essere protagonisti ed efficaci all’interno del conflitto strategico stesso (detto in altri termini: quello che veramente conta è il diritto/dovere, se non si vuole essere scippati del proprio futuro, a non essere presi per i fondelli dai turiferari dei diritti umani e politici universalistici). E da qui la rivolta di piazza dei poveri pasdaran mossi dai grandi agenti strategici del vecchio sistema di potere, la rivolta, cioè dei cani al sole, povere anime eterodirette e che nel loro irrazionale terrore verso la nuova amministrazione Trump non sono che il sintomo di un più razionale terrore da parte del vecchio sistema di potere che non risparmierà alcun mezzo lecito od illecito per fermare questa rivoluzione (aizzare i cani al sole è solo uno stadio di una guerra che potrà essere combattuta anche con ben altri mezzi…). E, molto più modestamente per quanto riguarda le vicende di un paese periferico come l’Italia, anche da acuti osservatori come Gianfranco Campa, il compito di tenerci accuratamente e scientificamente informati su questa importantissima – e lo ripetiamo, autenticamente rivoluzionaria – vicenda americana nella speranza chi i nostrani “cani al sole” scoprano che i conti non tornano (il riferimento al movimento stellare è puramente non casuale) e che in un giorno fausto per noi e per loro riescano veramente a vedere (e quindi a realizzare) la loro vera natura di Zoon Politikon (animale notoriamente che non si scalda pigramente al sole ma trova conforto in una comunità politica che gli garantisca dialetticamente, cioè realmente e conflittualmente, tutti quei diritti e possibilità che le retoriche universalistiche proclamano truffaldinamente solo sotto forma di mito).

I BUOI OLTRE LA STALLA, di Giuseppe Germinario

Nell’attuale compagine governativa pare finalmente emergere il paladino di un protezionismo mirato, il fautore della “messa in sicurezza del paese”: Carlo Calenda. Il ministro aveva evidenziato al pubblico le proprie doti di chiarezza e determinazione (https://www.youtube.com/watch?v=MW0ERHOqqr4 ) già nel suo primo intervento da ministro del Governo Renzi all’assemblea di Confindustria. L’intervista al Corriere della Sera del 1° gennaio (  http://www.corriere.it/economia/17_gennaio_01/calenda-una-rete-protezione-difendere-interessi-nazionali-2ecfb74e-d05c-11e6-a287-5b1c5604d8ca.shtml  ) sembra infine tracciare chiaramente il nuovo orientamento  delle forze dette progressiste, della possibile grande coalizione che si va profilando con le prossime elezioni o quantomeno del perpetuarsi dell’attuale gioco politico nelle mutate condizioni del contesto interno e internazionale. Più che i punti salienti dell’intervista, facilmente desumibili dal testo, mi paiono significative piuttosto quelle espressioni che delimitano l’orizzonte culturale e politico, quindi la sostanziale inadeguatezza della attuale classe dirigente, della quale Calenda mi pare uno dei migliori esponenti, ad affrontare le sfide in atto. L’Italia anello debole dell’Europa “rischia di esserlo se si interrompe il percorso che ha iniziato a portarci fuori dalla crisi, e mettere in sicurezza il Paese, dopo la sconfitta sulle riforme istituzionali, richiede un cambiamento di strategia“; “entriamo in una stagione dove il nazionalismo economico si rafforzerà in tutto il mondo. Non dobbiamo abbracciarlo, ma neanche essere impreparati ad affrontarlo”; “questo non vuol dire limitare gli spazi di mercato, ma essere in grado di reagire quando viene distorto o manipolato, anche con regole scritte ad hoc, per indebolire il nostro tessuto economico”; “dovremmo da subito lavorare al progetto di una nuova Europa con i Paesi fondatori, ma oggi la priorità è vincere i populismi”; i settori prioritari sono “L’industria, dando supporto solo a chi investe in innovazione e internazionalizzazione con strumenti automatici che eliminino l’intermediazione politica e burocratica, come abbiamo fatto con il piano Industria 4.0. Analogo lavoro va fatto nei settori del turismo, della cultura, dove moltissimo è già stato realizzato, e delle scienze della vita”; “Nessuna forza politica, da sola, potrà portare il fardello delle scelte che si renderanno necessarie. La stessa legge elettorale va disegnata tenendo presente questo scenario, che “chiamerà” probabilmente una grande coalizione.”; “Questo esecutivo assolverà al suo compito se sarà il ponte tra la stagione importantissima di rottura del governo Renzi e quella di messa in sicurezza del Paese che dovrà portare avanti il prossimo esecutivo, mi auguro sempre con Renzi alla guida”.

Alla luce di queste dichiarazioni l’intenzione di “fare sistema” e l’obbiettivo di “ricostruire una rete fatta di grandi aziende, pubbliche e private, e di istituzioni finanziarie capaci di muoversi all’occorrenza in modo coordinato, tra di loro e insieme al governo” appaiono rispettivamente meno realistica e poco coerente.

Appaiono più che altro un ripiego legato al soprassalto di nazionalismo economico e all’ondata di populismo; esauritosi il primo e sconfitto il secondo non resterebbe che riprendere coerentemente le politiche comunitarie di creazione di un mercato unico nel rispetto delle regole stesse di mercato.

Da dirigente e manager, più spesso da politico e da ministro, abbiamo ascoltato Calenda difendere il liberismo dal suo peggior nemico: il dogmatismo liberista. Critica giustamente, anche se tardivamente, l’assunzione pedissequa di un modello economico astratto, associato negli ultimi venti anni alla retorica magnifica e progressiva della globalizzazione, ma ritiene l’intervento politico di regolamentazione e l’intervento pubblico diretto nelle scelte gestionali e di investimento un evento straordinario, un espediente o uno strumento temporaneo teso a ripristinare il mercato. Di fatto quel dogma che cerca di cacciare dalla porta rientra surrettiziamente dalla finestra. Un dogma che impedisce di vedere il mercato come una combinazione infinita e variabile di dirigismo e di libertà di iniziativa, di protezioni e di spontaneità, di regolamentazione della circolazione e delle caratteristiche dei prodotti e delle merci, di tutela della proprietà e del patrimonio la cui particolare peculiarità dipende da determinati rapporti di forza politici/economici che delimitano la formazione di una o più aree di influenza. Paradossalmente la “libertà” e la “spontaneità” di scelta e circolazione individuale si liberano con la vittoria egemonica di centri strategici, di un paese e di una formazione sociale in grado di stabilire un perimetro di influenza, le regole di funzionamento e le necessarie trasgressioni, il grado e gli ambiti di liberismo e dirigismo.

In base a questa dinamica fondamentale i paladini del dogma liberista e della globalizzazione, sia gli oltranzisti che i pragmatici, solitamente diventano i sostenitori della politica di potenza nei paesi egemoni e della sudditanza nella periferia della sfera di influenza.

Può sembrare una diatriba puramente accademica; spesso assume le vesti di una discussione riguardante la mera correttezza o i meri errori, l’irrazionalità di scelte ed indirizzi. In realtà è un paradigma la cui ostinata adozione comporta delle profonde implicazioni, tutte negative, in termini di adeguata analisi politica e di perseguimento di strategie e di obbiettivi altrettanto adeguati all’attuale lunga congiuntura che stiamo attraversando; una adeguatezza che si deve misurare rispetto al livello di autorevolezza, di forza, di benessere e coesione che una classe dirigente degna di questo nome intende realisticamente raggiungere per sé e per il proprio paese.

Il nazionalismo economico appare quindi un incidente e un accidente della storia da rimuovere al più presto per riprendere il cammino verso la costruzione di una comunità globale quando in realtà pervade le vicende politiche e il conflitto economico sin dalla prima formazione degli stati nazionali sia nella forma a prevalenza liberista propugnata dalle formazioni dominanti, sia a quella a prevalenza protezionistica delle formazioni in ascesa o in posizione difensiva nell’agone internazionale. Nella fattispecie dell’Unione Europea il nazionalismo economico appare solo oggi agli occhi dei liberisti dogmatici, ma solo perché è finalmente caduta la maschera della retorica europeista basata sulla distruzione degli stati nazionali che celava sotto mentite spoglie il dominio politico dello stato nazionale americano frutto di una schiacciante vittoria militare e il conflitto e la regolazione continua di esso tra gli stati nazionali componenti l’Unione. Una retorica nefasta che ha illuso e neutralizzato le ambizioni delle formazioni più fragili; che ha bloccato sul nascere, con la retorica della costruzione del mercato comune dei consumatori propedeutica alla unione politica, l’opzione di De Gaulle, negli anni ’60, di una concomitante costruzione europea fondata sugli stati nazionali, sulla creazione concordata di grandi aziende, frutto di accordi, compartecipazioni, integrazioni paragonabili a quelle americane, sulla fondazione di una politica estera autonoma. Una retorica che interpreta come contingente ciò che in realtà sarà strutturale e pervicace ancora per lungo tempo.

Se il nazionalismo economico va contenuto e neutralizzato, l’avversario da battere in questo frangente è il populismo o sedicente tale. Anche in questo caso si assiste ad una sorta di dissociazione dell’azione politica strategica dall’attuale contingenza quasi che la lotta al populismo debba comportare una sospensione del programma di integrazione europea.

Il “reddito d’inclusione” come gli altri singoli e parziali provvedimenti redistributivi assumono la caratteristica di un rozzo strattagemma dal sapore assistenziale teso a fronteggiare la deriva politica.

Gli investimenti, per altro radi, sono proposti come semplice volano per rilanciare la domanda. L’aspetto strategico di questi ultimi e la loro possibilità di realizzazione ottimale sono sicuramente inficiati dal tramonto del progetto di riorganizzazione istituzionale ed amministrativo legato all’esito referendario. È la stessa loro natura, però, legata quasi esclusivamente all’ammodernamento delle infrastrutture che potrà certamente migliorare l’efficienza del sistema ma che non determinerà di per sé una direzione di sviluppo che interrompa l’attuale processo di declassamento.

Si arriva quindi al cuore degli argomenti e degli indirizzi posti da Calenda.

Ricostruire una rete” solo per contrastare “distorsioni e manipolazioni del mercato” significa di per sé precludersi una gamma di interventi “assertivi” più volte utilizzati in passato nei momenti di costruzione e di crisi dell’economia del paese.

TRE QUESITI AL NOSTRO MINISTRO

Il proclama, però, glissa clamorosamente su tre importanti questioni alla mancata o erronea risposta delle quali corrisponde esattamente la velleità del progetto.

  1. Quali strumenti si intende utilizzare per trattenere in Italia il risparmio e le riserve che con l’attuale struttura finanziaria continuano a migrare massicciamente all’estero e a rientrare parzialmente, in mano però a gestori estranei al controllo nazionale? Il collocamento azionario di Poste Italiane, la sua sempre più marcata scissione dalla Cassa Depositi e Prestiti (CDP), l’ingresso di fondi esteri nella stessa CDP, il fallimento della costituzione di una banca per il Mezzogiorno, il fantasma di una banca di credito alle piccole e medie imprese, l’utilizzo della CDP per indebolire la forza ed il controllo delle grandi aziende strategiche residue piuttosto che il loro rafforzamento, l’attività di raccolta delle banche ormai largamente legata al collocamento di titoli di terzi e al ruolo di collettori sono scelte in netto contrasto con il proclama.
  2. Come si intende esercitare il necessario controllo e condizionamento sulle scelte di quelle aziende strategiche e leader nei vari settori che dovrebbero partecipare alla rete? L’indifferenza se non la compiaciuta e reiterata connivenza che Calenda, così come Renzi, Monti e la quasi totalità della classe dirigente degli ultimi trenta anni hanno ostentato nella inesorabile cessione all’estero della proprietà e controllo non solo delle aziende strategiche del settore finanziario, energetico, delle infrastrutture e dell’alta tecnologia ma ultimamente anche delle aziende leader di numerosi distretti industriali e della rete commerciale e logistica mi sembra faccia a pugni con il sussulto di sovranismo verbale ed estemporaneo del nostro ministro. In alcuni casi queste cessioni hanno determinato uno sviluppo dell’attività produttiva, nella grande maggioranza di casi un rapido ridimensionamento ed impoverimento; comunque un incremento di spese di risorse pregiate, comprese le attività di ricerca, utilizzate come incentivi e destinate ad essere valorizzate altrove e una subordinazione a strategie decise altrove. Le vicende della FIAT, della TELECOM, dell’industria degli elettrodomestici tra le tante parlano da sole.
  3. Come si intende costruire quella necessaria rete di agenzie funzionali ai grandi progetti di intervento infrastrutturale e di investimento diretto un tempo presenti, pur tra innumerevoli carenze, e smantellata sciaguratamente a partire dalla metà degli anni ’80 in concomitanza con il processo di regionalizzazione delle competenze?

Nell’intervista non troviamo né le giuste domande e questo va a scapito dei professionisti dell’informazione, né tantomeno le risposte adeguate e convincenti.

IL CAVALLO DI BATTAGLIA. L’INDUSTRIA 4.0

Il limite dell’orizzonte interpretativo di Calenda si svela proprio nel progetto fondativo della sua azione: il programma di sviluppo dell’industria 4.0.

L’enfasi e le aspettative sono del tutto giustificate.

L’implementazione dell’industria 4.0 è iniziata ormai da parecchi anni prima negli USA poi in alcuni paesi dell’Europa Centrale.

È un processo che si realizzerà ancora attraverso lunghi anni; che segnerà in maniera diversa i vari settori produttivi; che cambierà i modelli di organizzazione aziendale; che porterà ad una maggiore integrazione delle attività sia nella verticale che nell’orizzontale delle relazioni gestionali; che sconvolgerà una delle basi sulle quali si forma la stratificazione sociale, in particolare la formazione degli strati intermedi professionali e di quelli con competenze elementari.

È un modello operativo concepito per le grandi imprese e le grandi unità amministrative e gestionali.

Manca sino ad ora una definizione rigorosa di industria 4.0; riguarda comunque un processo di digitalizzazione ed informatizzazione che preveda la costruzione di reti informatiche e telematiche, l’acquisizione ed elaborazione dati e la conseguente trasmissione digitale di comandi operativi e adattivi nelle varie fasi comprese quelle produttive (internet delle cose) secondo processi modulari predeterminati ed introiettati nei software applicativi.

Il controllo e l’elaborazione nei primi due ambiti sono appannaggio pressoché esclusivo dell’impresa americana e senza una integrazione e concentrazione dell’industria e della ricerca europea, tutt’altro che promossa dalle istituzioni comunitarie e dai suoi governi nazionali costitutivi, difficilmente potrà essere scalfita seriamente. Rimangono gli ultimi due ambiti; in questi il nostro paese soffre di ulteriori handicap legati alla dimensione ridotta delle aziende, alla perdita di controllo dei distretti industriali, alla merceologia dei prodotti legati soprattutto alla componentistica specie meccanica piuttosto che al prodotto finito, a settori tradizionali di produzione piuttosto che innovativi.

Un contesto quindi che rende se non impossibile più problematica e costosa l’implementazione dei processi, che tende a concentrarla nei settori dedicati all’esportazione.

Una condizione che richiederebbe un intervento politico ancora più assertivo (un termine ormai ricorrente nel linguaggio di Calenda) rispetto ad altri paesi nella ricerca, nella creazione di piattaforme industriali adeguate, nel coordinamento del processo di integrazione, nella trasmissione delle competenze informali  nelle piccole aziende, nel sostegno delle necessarie figure professionali che in altri contesti sono le stesse grandi aziende a creare e tutelare.

Su quest’ultimo aspetto, ad esempio, il Governo Renzi pur avendo ancora una volta centrato il problema, lo ha ridotto ad una mera tutela assistenziale e normativa di alcune categorie professionali autonome esterne agli attuali ordini.

Affermare al contrario il carattere indifferenziato del processo di informatizzazione, l’irrilevanza quindi di settori strategici; supportare genericamente l’industria attraverso “sistemi automatici” e neutri di incentivazione nei processi di innovazione ed internazionalizzazione; celare dietro l’importanza dei settori complementari nel garantire la coesione della formazione sociale la necessità dello sviluppo dei settori strategici comporta di conseguenza assecondare la tendenza “spontanea” al declassamento dell’economia italiana, alla concentrazione degli investimenti, nel migliore dei casi, nel mero ammodernamento tecnologico degli impianti produttivi digitalizzati secondo standard stabiliti dalle aziende leader e da quelle in grado di progettare e collocare i prodotti finiti, alla drammatica concentrazione degli investimenti in un numero limitato di aziende. Tale scelta, altrettanto unilaterale di quella delle elargizioni ad personam può contribuire nel migliore dei casi all’ammodernamento dell’apparato produttivo residuo, almeno di quelle aziende che dispongono dei capitali necessari ad anticipare l’investimento. I quattro competence center al contrario sono pressoché irrilevanti nel qualificare almeno alcuni dei settori di punta, come del resto ben evidenziato dall’economista Mariana Mazzucato.

IL RITORNO ALL’OVILE

Il Ministro sembra quindi assecondare la tendenza storica dell’industria italiana a coprire i settori e le tecnologie mature e complementari e a scoraggiare sul nascere quei sussulti di leadership che in alcuni frangenti sono emersi ma che sono stati prontamente soffocati con la complicità dei settori più retrivi dell’imprenditoria. Il declino dell’Olivetti, dell’industria nucleare, della chimica fine sono lì a testimoniare la ricorrenza di questi sussulti ma anche la mancanza di autorità e maturità politica necessarie a stabilizzarli. Calenda sembra voler in realtà stroncare sul nascere la loro possibilità di emersione. La sua ritrosia ad abbandonare gli stereotipi del dogmatismo liberista lo porta ad esaltare le ambizioni di un progetto velleitario che comporterà la dilapidazione e la dispersione delle poche risorse nei vari meandri dei settori economici e nelle mani di centri strategici concorrenti ed avversari; diventa patetica se confrontata con la capacità organizzativa americana, avviata già dagli anni ’90 ad integrare strettamente il ruolo pubblico e privato nel settore dell’innovazione attraverso numerose agenzie, con la guasconeria francese che da oltre sei anni ha creato addirittura il Ministero della Guerra Economica, con il carattere tetragono dell’organizzazione industriale tedesca già in corsa da oltre dieci anni su questi processi.

Ho accennato all’inizio di inadeguatezza di questa classe dirigente, ma il termine è sin troppo giustificativo ed assolutorio. Si tratta, piuttosto, di una incapacità che trova alimento, forza e giustificazione in quei centri e settori che non trovano di meglio che trarre potere e profitto da quei settori ed interstizi sempre più ristretti concessi dai centri e dalle formazioni dominanti. Il predominio americano ed il bipolarismo imperante sino agli anni ’80 ha consentito una certa benevolenza del predominante ed una rarefazione dei competitori. Il multipolarismo incipiente può aprire teoricamente nuove opportunità e nuove libertà; rischia al contrario di attirare un maggior numero di predatori sulle prede magari ancora pasciute ma disarmate rispetto al livello di conflitto raggiunto.

Calenda anche su questo sembra avere le idee chiare. Nell’intervento citato all’inizio prende atto della fine della visione idealistica del processo di globalizzazione. Invita quindi gli imprenditori ad essere selettivi ed oculati nel cogliere le opportunità; suggerisce loro di voltare gli occhi verso gli Stati Uniti, glissa elegantemente sugli ingenti danni subiti per la sciagurata subordinazione nel sostegno alle sanzioni contro la Russia, all’intervento in Libia, alla destabilizzazione della Siria e all’ostracismo all’Iran, tutti principali partner economici del nostro paese ovviamente nel rispetto di quelle regole diplomatiche e di mercato che hanno consentito alla inglese BP di sostituire l’ENI nella partecipazione allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi, alle aziende meccaniche tedesche la Breda-Ansaldo italiana nella ristrutturazione delle ferrovie regionali, all’americana FCA la FIAT nella produzione di automobili.

Viva Farinetti, abbasso Mattei. Viva il mercato, abbasso il paese. Tanta nobiltà d’animo comporta sacrifici ma va certamente ricompensata. Ci stanno pensando i nuovi benefattori d’oltre alpe, offrendo presidenze, consulenze e titoli onorifici. Montezemolo, il mentore di Calenda e Tronchetti-Provera ne sono fulgido esempio tra tanti.

Desta meraviglia quindi l’improvvida esaltazione della conversione del Ministro da parte di uno studioso accorto come Giulio Sapelli (  http://www.ilfoglio.it/politica/2017/01/04/news/calenda-economia-premier-subito-113597/ ). Spero che si ravveda prima che Calenda rischi davvero di diventare Premier

 

T-REX IL MASTINO DI TRUMP, di Gianfranco Campa

T-REX IL MASTINO DI TRUMP

Il sole sorge sull’amministrazione Trump, un sole per il momento pallido ma con cumuli di pesanti nuvole all’orizzonte. Forze eternamente potenti cercano di influenzare, sia dall’interno che dall’esterno, la composizione e le decisioni della nuova amministrazione, mentre tutto intorno i centri di potere usano le intelligence deviate per mandare messaggi minacciosi a Trump cercando di far deragliare la presa della Bastiglia. Da fuori si percepiscono solo minimamente i giochi che si stanno svolgendo nel panorama della politica americana. Sin dalle primarie la guerra è divampata e la vittoria inaspettata di Trump ha solo intensificato questo scontro a tutto campo in cui un gruppo tradizionale molto potente, l’establishment al comando, sta facendo terra bruciata intorno a Trump usando metodi più o meno convenzionali. E` in quest’ottica che va visto l’inasprimento e il deterioramento dei rapporti con la Russia di Putin. La Russia come strumento per screditare Trump, sbandierando le presunte collusioni tra i due e portando la tensione di questa nuova guerra fredda a un livello che non si vedeva dai tempi dei missili sovietici a Cuba. Tenendo conto di questa situazione, le nomine di Trump nel suo gabinetto di governo assumono una importanza determinante. Queste nomine sono ora completate, manca solo qualche portaborse di poco conto.

Tra tutte la più importante è senza dubbio quella del Segretario di Stato.
Il Segretario di Stato, anche se sulla carta risulta una figura minore rispetto al vice presidente, in realtà è l’incarico secondo solo allo stesso Presidente. I tentacoli e il potere geopolitico degli Stati Uniti elevano lo status del Segretario all’equivalente di un vero e proprio primo ministro. A dimostrazione di questo il mondo si ricorderà più dell’impatto avuto da Hillary Clinton nei quattro anni di Segretario di Stato che di Joe Biden come vice-presidente per otto. Se qualcuno non è convinto basta chiedere a Gheddafi; se fosse ancora vivo potrebbe spiegarne la differenza…

La scelta di Trump è caduta su Rex Tillerson; non un politico, ma un uomo di business, ex-amministratore delegato della ExxonMobil (ha lasciato la sua posizione dopo la nomina). Il primo Segretario di Stato che non proviene dalla politica, ma dal mondo degli affari dai tempi di George Schultz. Da molti Schultz è considerato uno dei migliori Segretari di Stato degli ultimi decenni. Per chi se lo ricorda ancora, Schultz servì sotto l’amministrazione Reagan dal 1982 al 1989. Schultz fu il vero artefice di quella distensione tra USA e URSS che portò alla caduta del muro di Berlino. So che non tutti reputano la dissoluzione dell’Unione Sovietica come una cosa positiva, ma questa è un altra storia…
Torniamo a Tillerson . Quando fu nominato da Trump come possibile Segretario di Stato, il New York Times e il Washington Post suonarono immediatamente il campanello di allarme, mettendo in discussione i rapporti “amichevoli” tra Tillerson e Putin. Da allora si sono susseguite manovre e contromanovre per delegittimare sia Tillerson che Trump usando lo spauracchio della Russia. Dopo la sua nomina anche gli attacchi alla Russia di Putin si sono moltiplicati, con il fine di manipolare la decisione di nominare Tillerson e spingere Trump a ritirarla. Il terrore per l’establishement, fautore di questa nuova guerra fredda, riguarda la possibilità che il neo Segretario riesca a ricreare lo stesso rapporto di successo con la Russia avuto durante il suo regno alla ExxonMobil. Naturalmente ci sono differenze fondamentali fra allacciare una alleanza strettamente commerciale e una che abbia implicazioni geopolitiche.
Chi è realmente Tillerson? Per chi lo conosce bene, Tillerson è descritto come una persona molto pacata, senza picchi emotivi, di temperamento mite, ma allo stesso tempo una persona che incute timore e rispetto. Tillerson proietta una presenza forte ma spogliata di qualsiasi spirito di cattiveria e ostilità.
Tillerson, un uomo che si è fatto da solo. La sua carriera è legata quasi esclusivamente alla ExxonMobil dove cominciò a lavorare come giovane laureato nel lontano 1975, per seguire tutta la trafila e diventarne Amministratore Delegato nel 2006.
La ExxonMobil è la prima compagnia petrolifera al mondo, con uffici e rapporti commerciali con più di sessanta nazioni. Questo apparato implica una struttura simile a quella del governo americano; la ExxonMobil ha infatti il proprio servizio di intelligence e di sicurezza, oltre ad avere rappresentanti dell’azienda sparsi per i paesi del mondo a fare da “ambasciatori” a beneficio della azienda stessa. Le capacità “diplomatiche” di Tillerson, anche se non vengono da un estrazione puramente politica, non si discutono; non sarà quindi sull’esperienza di Tillerson che vengono e verranno condotti gli attacchi, bensì come detto prima, sui suoi rapporti con la Russia.
Negli anni ’90, dopo la fine dell’Unione Sovietica, Tillerson è stato uno degli artefici della privatizzazione dei pozzi petroliferi Russi. Tra il 1998 e il 2004 Tillerson ha manovrato per garantire alla propria azienda una posizione privilegiata con i Russi al punto tale che quando si è verificata la parziale restatalizzazione dell’industria petrolifera russa, Tillerson è riuscito a mantenere inalterata la posizione acquisita dalla ExxonMobil nel contesto dell’industria petrolifera Russa. Un rapporto quindi che e` andato avanti fino al 2014 quando le sanzioni imposte da Obama hanno posto il freno alle attività russe di ExxonMobil.
L’alter ego principale di Tillerson in Russia è Igor Sechin. I due sono amici intimi, strettamente legati da anni di rapporti commerciali. Sechin, amministratore delegato della Rosneft, un uomo difficile da gestire al punto tale di essere soprannominato Darth Vader, ha sempre espresso ammirazione per Tillerson con cui condividono ottimi rapporti, inclusa la passione per le moto. Le sanzioni alla Russia hanno colpito non solo l’aspetto finanziario della ExxonMobil ma anche i rapporti umani creati nell’arco degli anni. In questo contesto è chiaro che l’arruolamento di Tillerson da parte di Trump, rappresenta, nonostante le critiche, un tentativo di sbloccare i rapporti con la Russia e ricreare una nuova distensione. Il fatto che le critiche e le accuse a Trump non sono state sufficienti a farlo desistere dal nominare Tillerson ci offre la speranza che il sistema fin ad ora adottato nei giochi politici internazionali nei confronti della Russia sia in crisi e che Trump possa scardinarlo una volta per tutte. Naturalmente è una battaglia immane e i pericoli molteplici. Potenti forze sono opposte al piano di Trump e le possibilità di un deragliamento sono concrete. Molto dipenderà dalla capacità di aggirare queste forze. Una distensione delle relazioni tra USA e Russia è auspicabile per la sicurezza mondiale.
C`è un altro aspetto importante nella nomina di Tillerson che va tenuto in considerazione: Tillerson ha il carattere e la personalità giuste per raggiungere un altro obbiettivo importante; il repulisti del Dipartimento di Stato, da troppo tempo estremamente politicizzato, sotto il controllo di forze a volte estranee agli interessi del governo stesso e spesso piattaforma privilegiata di agenti e operazioni deviate, mirate a minare il terreno ogni volta che si intravede un timido tentativo di far ordine nella strategia geopolitica del caos tanto cara agli ultimi quattro presidenti americani. Basta vedere come elementi all’interno del Dipartimento di Stato hanno deragliato il tentativo di raggiungere un accordo tra John Kerry e Sergey Lavrov sulla Siria e prima di allora sulla Libia. Naturalmente la statura caratteriale tra Kerry e Tillerson è abissale; Kerry manca della personalità sufficiente a gestire e imporsi nelle stanze del Dipartimento.
La mancanza di curriculum politico tradizionale avvantaggia Tillerson; il compito però resta arduo e pericoloso. Il Dipartimento di Stato è diventato una complessa macchina burocratica, vittima di un sistema disfunzionale che vede il Dipartimento stesso usato come veicolo di vari interessi sia governativi che privati. Soprattutto, il dipartimento è diventato, non ufficialmente, base operativa occulta dei servizi di Intelligence americani dispiegati per il globo. Per comprendere la dimensione della gravità del problema basta fare riferimento allo scandalo delle email segretate di Clinton.
Cosi T-Rex diventa il mastino di Trump, quello incaricato di sostenere una guerra su due fronti; da un lato la ricomposizione degli obbiettivi geopolitici degli Stati Uniti, dall’altro la presa d’assalto al covo delle vipere le quali da come si sono viste agitarsi, sono piene di veleno e pronte a colpire ogni volta che si presenterà l’occasione. Potrebbe non bastare un T-Rex ad addomesticarle.

LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE; una chiosa di Massimo Morigi

L’articolo di Giuseppe Germinario “La Taumaturgia dell’Investimento Sociale” potrebbe essere riassunto con una semplice domanda controfattuale: “se i giovani italiani fossero meno schizzinosi e se la pressione degli immigrati per i posti di lavoro meno qualificati fosse meno forte e quindi se attraverso l’occupazione da parte degli indigeni dello stivale di queste nicchie residuali si fosse riusciti a raggiungere più o meno soddisfacenti livelli di occupazione, si potrebbe dire che la situazione economico-sociale del nostro paese avrebbe raggiunto una condizione, diciamo, tranquillizzante?” La risposta è ovviamente no e questo no ha due aspetti. Il primo è che un paese che basa la sua economia su attività residuali è destinato inevitabilmente ad un brutale, e sottolineo brutale, declino dovuto a rapporti di forza sempre più sfavorevoli nello scenario internazionale. Il secondo deriva dall’elementare dato di fatto che un paese con falangi di lavoratori sempre più debilitati (non solo economicamente ma anche dal punto di vista del conflitto strategico, quindi dal punto di vista del conflitto economico-politico contro i grandi decisori strategici) è destinato ad una sorta di implosione sociale, la quale a sua volta viene esponenzialmente moltiplicata (e che in una sorta di micidiale feedback esponenzialmente moltiplica) il già lesionato ruolo del paese nell’arena internazionale. In realtà, il vero problema è – come ci indica Germinario e come assolutamente non riesce a comprendere Ricolfi – non tanto se si abbia più o meno diritto a, come direbbe Paperino, un posto di lavoro adeguato alle proprie capacità, il problema è quello della dislocazione e ricollocazione del potere decisionale-strategico a seguito di precise e dissennate scelte formativo-scolastiche che apparentemente erano il massimo della democrazia ma che, in realtà hanno oscenamente favorito la verticalizzazione del potere . Ricolfi, è vero, è nel giusto quando coglie la dissennatezza di queste scelte ma ahimè egli è completamente sordo verso l’aspetto polemologico di tutta la questione e quindi egli risolve il tutto dando dei “choosy” (orribile modo di esprimersi che indica il disgustoso livello di colonizzazione che ha raggiunto la nostra “intellighenzia”) a chi rifiuta posti di lavoro meno qualificati, risolvendo, quindi, la questione in un sciocco e sterile moralismo. Tuttavia non sono nemmeno nel giusto, e qui tocchiamo veramente il nocciolo della questione che non è tanto politica ma di fondazione delle “categorie del politico”, coloro che rifiutando lavori depotenzianti la propria capacità di incidere nel conflitto strategico politico-economico lo fanno in nome di una vecchia e castrante (castrante per i poveri cristi che con questa mentalità leggono le cose del mondo) mitologia dei diritti. Un rifiuto della propria condizione che ha come presupposto la puerile credenza nella possibilità di un paese dei balocchi il cui diritto a fruirne viene negato dai “cattivi” alla Ricolfi o da un indicibile uomo nero, il vero crumiro del terzo millenio, disposto a tutto pur di sopravvivere, soprattutto disposto ad infischiarsene delle regole e delle convenzioni dello stato sociale con tutta la sua panoplia di diritti dei lavoratori inscritti nel regno dei cieli (mentre in realtà questi diritti non erano altro che la formulazione poetico-politico-simbolica di precisi rapporti di forza). In realtà, il problema non è che i giovani (e in extenso, tutti gli italiani e, volendo allargare l’orizzonte, tutte le classi operaie ed impiegatizie delle cosiddette democrazie industriali) siano choosy: il problema è che lo sono troppo poco e si sono abituati a trangugiare come verità rivelate quelle che sono solo favole di fate e racconti mitologici, una mitologia i cui capisaldi sono che la cosiddetta democrazia sia una sorta di festa di gala garantita all’infinito da un sempre progressivo incedere della storia e che, in ultima analisi, si abbia un diritto supremo: il diritto ad avere dei diritti. Per sbugiardare quindi tutte le “ricolferie” (e di conseguenza per dare un reale impulso energetico e a una nazione bistrattata a livello internazionale e alla sua popolazione che non sa più veramente a che santo votarsi, o, ancor peggio, ha dimenticato sia il nome di quei santi che potrebbero veramente aiutarla e ha anche dimenticato le fondamentali preghiere) si ritorni quindi ai fondamentali: un certo Machiavelli, un certo Mazzini, un certo Marx, un certo Gramsci. Non quindi facili formulette, non certo, quindi, progetti irenicamente liberal-liberisti non contraddittori ma al cui interno nascondono paurose voragini ma alla consapevolezza che il conflitto è il vero nerbo della società (e ovviamente il ritorno alla consapevolezza che se conflitto deve essere, a questo conflitto bisogna prepararsi: e qui torniamo all’unico aspetto che condividiamo del ragionamento di Ricolfi sui diplomifici e laurefici nazionali). À suivre …

Massimo Morigi – 5 gennaio 2017

IL GROVIGLIO DEI CETI MEDI, di Giuseppe Germinario

IL GROVIGLIO DEI CETI MEDI, tratto dal sito www.conflittiestrategie.it
19.06.2011 conflittiestrategie 0 Comments
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Questo blog ha evidenziato, sin dalla sua nascita, la natura del conflitto tra gruppi dominanti in corso nel nostro paese ed il carattere assolutamente opaco assunto da questo negli ultimi venti anni seguiti alla caduta del sistema sovietico.

La progressiva prevalenza della componente antinazionale più retriva, sia pure contrastata con qualche efficacia per alcuni brevi periodi, non è dipesa certamente dalla forza della componente economica di questi gruppi strategici. Se le vestigia superstiti della industria strategica, a fronte di una relativa ricostituita solidità economica susseguente alle scellerate privatizzazioni di fine secolo, hanno sofferto, nella definizione di una strategia minimamente coerente, delle oscillazioni e dei pesanti condizionamenti politici strategici, anche nella loro veste economica e finanziaria, interni ed esterni alle strutture, quelle della relativamente grande industria privata complementare hanno rivelato la sua pressoché inesistente autonomia, sia economica che finanziaria, ben più accentuata rispetto ad analoghe componenti di altri grandi paesi europei. Vicende come la Telecom, la Pirelli, il Nuovo Pignone, la Montedison, la Fiat; il destino in gran parte segnato dell’industria agroalimentare di grandi dimensioni; la propensione ben incentivata a riconvertire l’utilizzo degli scarsi capitali verso lo sfruttamento parassitario delle concessioni, l’utilizzo di figure imprenditoriali, Montezemolo e Della Valle tra i tanti, come semplici coperture dell’ingresso, senza alcuna garanzia di pariteticità delle condizioni operative negli altri paesi europei, di grandi società straniere anche nelle grandi infrastrutture delle comunicazioni hanno rivelato l’estrema debolezza di queste figure ed il loro asservimento supino alle componenti bancarie-finanziarie e di gruppi americani e franco-anglo-tedeschi. Una totale assenza di autonomia, sia pure nella loro subalternità strutturale, che impedisce la costruzione di una parvenza di blocco sociale che sia qualcosa di più di una sommatoria di interessi corporativi giustapposti. Niente di paragonabile alla forza e alla ricchezza espressa dai cotonieri americani che ha permesso loro di ritardare, per quasi un secolo, l’avvento della potenza statunitense. La loro debolezza e frammentazione è compensata, però, dalla presenza capillare, nei gangli vitali dello stato, di componenti che hanno saputo conciliare, in maniera articolata ed autonoma tra di loro, la difesa oltranzista delle proprie prerogative con il rafforzamento dei legami con i vari apparati della potenza dominante e di quelle di secondo rango, in questo facilitati dalla pervasività del sistema ormai pluridecennale di alleanze internazionali. Di fronte alla tenacia di questi legami, le componenti strategiche più autonome avrebbero dovuto compensare la debolezza di uno scenario internazionale ancora privo di potenze alternative di rango paragonabile a quello degli USA con la costruzione di una solida alleanza riformatrice e nazionale con i ceti produttivi medio-bassi, ormai da decenni pervasi da aspirazioni di rinnovamento tanto forti quanto incapaci, da soli, di costruire una reale piattaforma politica e, sulla base di questo, operare per una radicale rifondazione degli apparati statali, almeno di quelli più importanti . Sono state queste reciproche debolezze a produrre il “monstrum” politico di questi ultimi venti anni, fatto di coalizioni ibride nella loro composizione politica e sociale delle quali una, la sinistra, sempre più appiattita nel ruolo ancillare, l’altra percorsa da un dibattito carsico paralizzante; entrambe attraversate da fibrillazioni superficiali tanto frenetiche, quanto stucchevoli e artefatte.

Siamo, tuttavia, all’epilogo della farsa con qualche barlume chiarificatore, valido non solo per i pochi illuminati e raziocinanti, ma anche con il rischio concreto che settori significativi di questi ceti, per reazione, finiscano volontariamente nelle fauci dei loro carnefici divoratori. L’eventuale conferma del trend delle elezioni amministrative e dei referendum lascerebbe presagire ben poco altro di buono se non la nudità penosa dell’attuale re Silvio.
L’incantesimo si è rotto, con il rischio di produrne un altro, più breve, ma da incubo.
Sui riferimenti e referenti internazionali delle parti in causa il blog si è espresso con dovizia di analisi.
Nell’agone nazionale l’oggetto della contesa, quello che determinerà il successo definitivo, almeno nei prossimi anni, di uno dei contendenti, sarà certamente il ceto medio.
Ma, affidarsi allo strumento concettuale, alla categoria di “ceto medio” per dirimere la questione e individuare strategie politiche, è come assumere il nodo gordiano come intreccio idealtipico da adottare per imparare a districare, appunto, i nodi.
In una visione dualistica dei rapporti sociali la quale assume direttamente la teoria della formazione e realizzazione di plusvalore come criterio di analisi di una formazione sociale e come strumento di formulazione di una battaglia politica e di composizione del relativo blocco sociale, il concetto di ceto medio si risolve regolarmente, da un secolo a questa parte, in una categoria ripostiglio dove nel peggiore dei casi sono incasellate figure residuali più o meno ricondotte, a torto o a ragione, a modi di produzione precedenti sopravvissuti, se non proprio parassitarie; nel migliore, anche figure innovatrici delle quali non si riesce a comprendere, però, del tutto la natura.
E’ il dilemma su cui si è impantanato, tra i tanti, per oltre venti anni, il PCI e che, alla fine, con l’ultimo suo autorevole gruppo dirigente, quello berlingueriano, ha risolto sbrigativamente e capziosamente con il “compromesso storico”.
Ma già parlare di ceto per individuare un segmento tanto informe quanto esteso in un sistema teorico fondato sulle classi e sul rapporto sociale di produzione evidenzia un salto logico che rende impossibile
ogni analisi scientifica e ogni strategia politica coerente e conseguente. Da una parte frammenta, in diversi blocchi sociali antitetici, figure sociali che, in determinate formazioni e in determinati contesti politici, dovrebbero invece convivere e contrapporsi, uniti, ad altri blocchi sociali; dall’altra le aggrega forzosamente impedendo l’individuazione delle differenze di ruolo e di interessi e creando di fatto situazioni di conflitto sterile e controproducente.
Sulla schizofrenia di una divisione fondata, secondo le convenienze, a volte sul binomio classe operaia, padroni, a volte su quello dipendente, datori di lavoro, entrambe con il terzo incomodo degli autonomi-proprietari, ha poggiato l’incapacità di vedere ad esempio, anche tra i dipendenti, ampi settori di ceti intermedi e tra gli autonomi, importanti segmenti pauperizzati e dequalificati o, ancora, ceti intermedi qualificati professionalmente, importanti dal punto di vista della funzione, senza, però, un riconoscimento economico corrispondente.
Altrettanto mistificatoria e controproducente, da questo punto di vista, è la visione sociologica prevalente di ceto medio legato al concetto di status sociale, alla percezione di sé della figura, alla capacità di reddito e alla modalità di consumo, esplicitamente tesa alla riproposizione e affermazione del sistema democratico occidentale. Vero è che, nella sua attuale componente critica più seria e impegnata politicamente, la sociologia intravede i pericoli “autoritari” insiti in questa fase di transizione; cerca di risolverli, però, con una politica di “costruzione del ceto medio” fatto di tutela dei redditi, formazione professionale e politiche liberali generalizzate che prescindono da strategie concrete di potenza e di investimenti correlati.
Sulla prima si sono fondate le battaglie, tanto radicali quanto suicide, condotte dalla metà degli anni settanta, degli appiattimenti salariali, degli inquadramenti avulsi dalle capacità professionali, degli inquadramenti nel pubblico impiego legati, a seconda dei casi, più che altro all’anzianità e alla discrezionalità più o meno complice e connivente; per non parlare delle battaglie ultradecennali, moralistiche e legalitarie, sull’evasione fiscale che hanno avuto la capacità quasi miracolosa di accomunare da una parte i ceti intermedi autonomi e borghesi parassitari e “generativi”, secondo la definizione recente di Bagnasco, e dall’altra i dipendenti a prescindere dalla loro collocazione produttiva, con reciproche scomuniche e reciproci anatemi tesi, comunque, a giustificare la sempiterna contrapposizione tra destra e sinistra ormai fuori dallo spazio e fuori dal tempo; per non dimenticare, a proposito di parassitismo, l’uso criminale e indecente di strumenti come la cassa integrazione straordinaria abbinata all’immobilismo nella riconversione industriale.
Contrapposizioni, in realtà connivenze più o meno consapevoli che hanno creato le premesse, con la degenerazione delle aziende strategiche in carrozzoni chiamati “industria pubblica” e, con il gonfiamento parassitario della spesa pubblica, per la svendita del patrimonio industriale e l’inamovibilità di abnormi quantità di ceti parassitari.
Con questo siamo praticamente arrivati ad oggi.
Riguardo alla seconda visione, quella sociologica, essa appare in evidente difficoltà per tre motivi:
non riesce a spiegare come mai i ceti intermedi si stiano sviluppando in maniera abbastanza pacifica in paesi come la Cina, la Russia, nel Sud-Est Asiatico e via dicendo, tutt’altro che legati al modello occidentale;
non riesce a spiegare il carattere antinazionale ed individualistico, piuttosto che democratico, della quasi totalità delle rivoluzioni colorate e della loro aperta strumentalizzazione e asservimento alle strategie geopolitiche del paese dominante;
non riesce a comprendere l’inutilità e l’insostenibilità di una politica della domanda, specie di spesa pubblica; dell’incompatibilità di una politica di generale liberalizzazione, anche nei settori strategici, con quella di mantenimento e rafforzamento della sovranità; la necessità, invece, di investimento nei settori strategici che funga da risorsa per la strategia politica e da traino per le economie nazionali.
In realtà, la sopravvivenza di un concetto così generico e generalizzante permette la riesumazione, contro ogni evidenza, di teorie come la proletarizzazione e pauperizzazione sino alla semplificazione progressiva in due classi delle formazioni sociali o come quelle sociologiche tese a nascondere la realtà delle strategie politiche in conflitto e della conseguente sussunzione delle risorse a queste.
I più pragmatici, al contrario, mantengono questo concetto, acquisendone, secondo convenienza e propensione, singoli aspetti parziali senza la capacità di cogliere una visione di assieme del problema e, fomentando anch’essi, di fatto, contrapposizioni sterili o aggregazioni controproducenti, ma con qualche fondamento maggiore nella realtà.
Questo blog, invece, sta cercando nuove vie, con un protagonista in grado di tracciare il solco e far intravedere la direzione e i comprimari di allargarlo e diramarlo verso altre varianti.
In attesa di nuovi termini, legati a definizioni rigorose frutto di una teoria più adeguata delle formazioni sociali la quale individui un ulteriore livello di analisi, forse meno astratto, ma comunque più complesso di quello dei rapporti sociali di produzione, si potrebbe adottare il termine di ceti o strati intermedi avendo come criteri di classificazione il potere decisionale nell’interpretazione e attuazione delle politiche decise dai gruppi strategici dominanti, il livello di competenza professionale tecnica e procedurale, aspetti considerati singolarmente e in combinazione.
Un criterio, quindi, legato al ruolo operativo nella formazione sociale, piuttosto che al reddito, allo status e ai rapporti giuridici più o meno riconosciuti. Questo permetterebbe di inserire con una certa precisione le figure chiave presenti negli apparati burocratici, di servizio pubblici e privati, nonché nelle attività produttive ed economiche di grosse dimensioni nei livelli medio alti, in quelle medio-piccole anche nelle componenti imprenditoriali.
In seconda istanza permetterebbe la classificazione di altre figure importanti magari dal punto di vista sociologico, secondarie, rispetto alle nostre finalità di ricerca; potrebbero essere i commercianti, gli artigiani, i proprietari di una certa importanza, essenziali da un punto di vista numerico, meno da quello della valenza strategica.
Un altro concetto da recuperare, con un significato più ampio di quello attribuito dalla sociologia, è quello di costruzione dei ceti medi; concetto che permette di aprire la strada al progetto politico da costruire, nella fattispecie il nostro, e alle figure che dovrebbero sostenerlo o avversarlo.
Prima di approfondire il concetto di costruzione degli strati intermedi vorrei, però, sottolineare alcuni aspetti essenziali:
non è vero che gli strati intermedi si stiano depauperando nella loro gran parte;
è vero, piuttosto, che stanno aumentando i fattori di rischio e precarietà iniziale legati ai processi di formazione e inserimento, soprattutto nelle attività professionali autonome. Piuttosto che impoverire, questo aspetto crea delle barriere alla mobilità sociale verso l’alto e favorisce i processi di corporativizzazione; più banalmente, una famiglia facoltosa, piuttosto che povera, può sopportare più facilmente i tempi di ingresso ritardati, rispetto a qualche decennio fa, dei propri figli nell’attività professionale a pieno regime; come pure l’ingresso in analoghe figure, come dipendenti, è molto più selettivo sulla base del sostegno familiare.
I ceti intermedi, in realtà, sono quelli che stanno subendo e promuovendo i radicali processi di ristrutturazione, riorganizzazione e ricomposizione delle competenze necessarie; tende a ridursi la necessità di competenza tecnica legata ai procedimenti (“idiotismo di mestiere”), aumenta la richiesta di competenza legata alla conoscenza del servizio o del prodotto, alla loro collocazione.
Il termine “costruzione dei ceti medi” sottende l’estrema importanza delle scelte politiche di fondo (strategiche) nel determinarne ruolo, quantità e composizione.
Una prima interpretazione letterale e ironica del termine, quella più semplicistica eppure ancora drammaticamente attuale nel contesto italiano, porta alla consapevole elefantiasi di interi settori amministrativi dei vari apparati statali, sia di quelli coercitivi che di quelli di servizio, ma anche di alcuni settori operativi di servizio pubblico e parapubblico (scuola, servizi sociali, le stesse forze di sicurezza). Tale ipertrofia, oltre ai costi ormai insopportabili, genera logiche di riproduzione di meccanismi che distorcono pesantemente le modalità e le logiche di erogazione del servizio tese soprattutto al mantenimento e alla crescita della struttura con forzature evidenti delle necessità e distorsioni della “mission”. La scuola, la cultura, l’intrattenimento ed il consumo culturale, i servizi di assistenza sociale, in buona parte la sanità sono settori che soffrono pesantemente di queste logiche. Non riguarda solo i dipendenti diretti, ma gran parte del cosiddetto terzo settore e delle attività private collaterali dove è collocato, comunque, una componente significativa di figure qualificate.
Si tratta, con ogni evidenza, di uno vero e proprio patto sociale scellerato, maturato negli anni ’70 e sviluppatosi ad oggi che, per poter essere in qualche modo mantenuto, porterà, ormai in tempi rapidi, al declino definitivo del paese. È una dinamica che non ha colpito solo gli apparati statali, ma anche alcune delle più grosse aziende come la FIAT sino agli anni ’90, con la prolificazione di quadri e capetti, le Poste degli anni ’90, con la prolificazione impressionante di quadri. È un segno, per quanto deleterio, di come la gestione di gruppi comporti scelte politiche anche nei territori apparentemente asettici delle imprese, nominalmente vincolate al criterio e alla fredda razionalità del “minimax”. La stessa inefficienza statale, la farraginosità e complessità di norme e proc
edure in quasi ogni campo della pubblica amministrazione (dal fisco, alla giustizia, alle concessioni e autorizzazioni) genera la ipertrofia di un ceto tanto preparato professionalmente quanto ridondante in condizioni di gestione più ordinarie.
Non si tratta, purtroppo, soltanto del solito ceto medio semicolto il quale, con modalità più appariscenti, conduce in prima linea la battaglia codina e conservatrice in questo paese, verso cui sempre più spesso, a ragione, si indirizzano gli strali del nostro blog; ma di una base ben più ampia, predominante in ampie zone del paese e radicata in tutti gli schieramenti politici, con qualche lacuna, forse, nella Lega.
Ovviamente e fortunatamente la composizione degli strati non si riduce a questo; vi sono altri milioni di persone inserite in maniera dinamica nei processi, soprattutto personale tecnico, professionale e dirigenziale, inserite in processi più virtuosi.
Resta la necessità di un radicale trasferimento di risorse verso gli investimenti, specie strategici e, quindi, una riorganizzazione e ridimensionamento di ampi settori.
Paesi come gli Stati Uniti, la Cina, in parte la Russia e molto meno l’India, in Europa parzialmente la Germania hanno dimostrato che il perseguimento di una politica di autonomia se non proprio di potenza, come per gli Stati Uniti, la concentrazione di risorse nei settori strategici hanno generato nuovi significativi strati intermedi professionalizzati e di gestione, quegli stessi che l’Italia continua da decenni a ripudiare.
È possibile gestire questa imponente riorganizzazione, rendere possibili i necessari e dolorosi compromessi transitori e soprattutto circoscrivere la resistenza reazionaria solo offrendo una prospettiva di rinascita, autonomia e indipendenza nazionale. È una prospettiva rischiosa in un contesto internazionale così fluido come l’attuale, ma certamente più promettente e dignitosa di un accomodamento servile ai capricci dei dominanti, ormai affamati di ogni briciola. Senza di ciò il paese è destinato a logorarsi e soccombere in una guerra intestina per la pura e in gran parte velleitaria difesa delle prerogative corporative di singoli gruppi, disposti a offrirsi mercenari pur di sopravvivere a scapito dei rivali e degli stessi strati popolari.
I cervelli che guidano la conservazione hanno ben presente la situazione e la necessità di coinvolgere, nei loro disegni, ampi strati intermedi produttivi. La recente relazione della Marcegaglia, presentata nell’ultima assemblea di Condindustria, pur nella sua sconclusionatezza, in diversi punti veramente impressionante, in particolare sulle politiche europee, nella sua polemica indirizzata alla Fiat, in realtà diretta anche al resto della grande industria, compresa quella strategica, contrapposta ai peana sulle virtù della piccola e media impresa impegnata sul mercato e disposta a riprendere il filo concertativo, rappresenta una cartina di tornasole.
Dal punto di vista sociale la realtà è molto più fluida di quello che appare.
Basterebbe osservare i processi di ricomposizione sindacale delle associazioni di artigiani, commercianti e piccoli imprenditori in antitesi alle politiche confindustriali ed affrancatesi parzialmente dalle tutele di partito, i tentativi di questi stessi gruppi sociali di qualificare la loro presenza operativa e politica nei centri urbani con le loro proposte di qualificazione dei centri storici.
La condizione di abbandono politico, culminata nel crollo dell’illusione ultradecennale berlusconiana, potrebbe spingere settori significativi di questi strati a rifugiarsi nell’ovile dove ci sono i lupi a fungere da pastori. Qualche segno inquietante lo si è visto nel trionfo di Pisapia e De Magistris, nonché nell’esito plebiscitario dei referendum. Resta qualche accenno fiducioso e sibillino in vari blog sulla possibilità di emersione di nuove figure politiche.
Un progetto politico e una prospettiva durevoli non si costruiscono, però, con improvvisi escamotages, ma con patti espliciti e solidi con settori dello stato e della grande impresa strategica, aperti alla discussione politica e capaci di influenzare anche gli strati più popolari.
Su questo la sinistra non ha alcuna chance di successo, ottenebrata com’è dal suo cosmopolitismo ideologico e dalla sua diffidenza congenita verso i movimenti di rinascita nazionale che rimettano in discussione le attuali condizioni dell’Italia nel contesto europeo e filoatlantico; tuttalpiù può condurre una esasperata politica dei diritti civili riservata a élites ristrette e una gestione contingente del malcontento comunque difficile da conciliare con l’accettazione delle attuali compatibilità europee e dell’ulteriore cessione di sovranità; questo in un momento in cui una parte degli stessi globalisti dominanti comincia a chiedersi quale ruolo riattribuire, bontà loro, agli stati, non certo quelli dominanti, i quali un peso determinante lo avranno sempre, ma anche quelli di rango inferiore.
La permanenza della vecchia guardia e il sorgere di una nuova ancora peggiore, format
asi alla scuola del FMI, della Comunità Europea e consimili, non lascia presagire cambiamenti positivi; del resto, si sa, che in periferia si tarda regolarmente a comprendere le novità, specie se in preda alla sindrome esterofila; un po’ come i futuristi italiani degli anni ’30 che in Italia vagheggiavano e tracciavano le meraviglie della modernità, salvo scoprire, nei loro viaggi a New York, che lì il futuro era già da tempo realtà.
Quelli, almeno, erano pervasi da spirito nazionale.
Allego il link di tre articoli precedenti con riferimenti allo stesso tema.

L’Araba Fenice del ceto medio (di Giuseppe G.)

L’Italia e l’euro plus ultra (di Giuseppe G.)

Assemblea programmatica PD: poco rumore per quasi nulla…per ora (di Giuseppe G.)

LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE, di Giuseppe Germinario

Riprendo un interessante articolo di Luca Ricolfi apparso su il sole 24 ore del 25 settembre scorso dal titolo “Quando a crescere è il lavoro degli immigrati”, le cui conclusioni hanno provocato a suo tempo in me, devo confessarlo, una certa ripulsa ( http://www.pdmeda.it/pd/2016/09/26/quando-a-crescere-e-il-lavoro-degli-immigrati/ ).
Il testo parte dalla considerazione che il divario tra la pesante situazione occupazionale e la percezione di essa ancora più catastrofica derivi dal dato che la perdita in otto anni di quasi due milioni di posti di lavoro di italiani, i cosiddetti facitori di opinione pubblica è in parte mascherata dall’incremento di ottocentomila occupati tra gli immigrati, estranei alla costruzione mediatica. Il sociologo adduce tre ragioni di queste tendenze divaricanti. La prima è fisiologica, legata alla quota crescente di immigrati stanziati in Italia. Le altre due meritano la citazione integrale:”La seconda ragione è che, durante la crisi, la domanda di lavoro è crollata nelle posizioni ad alta qualificazione (tipicamente ricercate dagli italiani) ed è aumentata sensibilmente in quelle a bassa e bassissima qualificazione (tipicamente accettate dagli stranieri). La terza ragione è più generale, e probabilmente più difficile da riconoscere. Anche se molti si lamentano della situazione e della mancanza di prospettive, la realtà è che la maggior parte degli italiani hanno raggiunto un livello di benessere sufficiente a renderli alquanto “choosy” (copyright Elsa Fornero) nella ricerca di un lavoro. In tanti non cercano semplicemente un lavoro, bensì un lavoro adeguato all’opinione che essi si sono fatti di sé stessi, opinione che scuola e università si incaricano di certificare. L’esatto contrario degli stranieri, che sono disposti ad accettare un lavoro anche al di sotto, molto al di sotto, delle qualificazioni acquisite e certificate.” Da qui il giudizio: “Si può deplorare quanto si vuole questa situazione, e immaginare che quelli degli italiani siano diritti negati, e la condizione degli stranieri sia di puro e bieco sfruttamento (come in effetti talora è: vedi le tante Rosarno, vedi la piaga del lavoro nero). E tuttavia c’è anche un altro modo di raccontare le cose. Gli stranieri immigrati in Italia sono esattamente come noi, solo che vivono in un altro tempo, un tempo che noi abbiamo vissuto negli anni ’50 e ’60, quando il nostro livello di istruzione era più basso e non c’erano genitori e nonni disposti a mantenerci finché trovavamo un lavoro coerente con le nostre aspirazioni. Quanto a noi italiani, è certamente vero che i posti sono pochi, troppo pochi (ce ne mancano circa 6 milioni per diventare un paese appena normale, con un tasso di occupazione in media Ocse), ma purtroppo è anche vero che paghiamo lo scotto di aver liceizzato tutto –scuola e università – senza valutarne le conseguenze. In un paese che, colpevolmente, ha scarso bisogno di laureati e continua ad avere bisogno di innumerevoli competenze tecniche e professionali intermedie, aver svuotato di ogni vero saper fare la maggior parte dei diplomi di scuola secondaria superiore non è stata una grande trovata”; quindi la conclusione:” Forse, l’avanzata occupazionale degli immigrati, con la loro umiltà e determinazione, è anche un silenzioso segnale rivolto a noi, un invito a riflettere sullo scarto fra quel che siamo e quello cui crediamo di avere diritto”.
Si direbbe una salutare immersione nella realtà; dopata però a mio parere da dosi eccessive di senso comune dalle scarse prospettive.
• La crisi ha determinato quindi un crollo nelle posizioni ad alta qualificazione. In realtà il crollo riguarda alcuni paesi, tra questi l’Italia, mentre altri vivono un declino, una riorganizzazione o addirittura una espansione. La crisi, la situazione di rottura, quindi, agisce e produce condizioni e tendenze diverse. Non è la crisi di per sé, ma la condizione di un paese in questa situazione di rottura e transizione e la capacità e l’ambizione della sua classe dirigente a determinare il realismo delle aspettative individuali.

Avviciniamoci dunque al cuore del problema posto da Ricolfi, la schizzinosità (choosy) degli italiani nella ricerca del lavoro. Pur con tutte le tare e le precauzioni da adottare su di un argomento così esposto alla demagogia e al pressapochismo, è indubbio che le dinamiche di sviluppo ed emancipazione del paese degli ultimi trenta/quaranta anni abbiano ingenerato altrettante notevoli aspettative ed aspirazioni individuali, specie in alcune zone e categorie sociali del paese.
Altrettanto vero che tali aspettative siano state alimentate da una concezione della scuola e della università che riduceva spesso e volentieri l’istruzione e la specializzazione ad un sinonimo orientato più verso la prima che la seconda, fermo restando l’indubbio progresso sociale rappresentato da un elevato livello di istruzione.
Le stesse specializzazioni si sono orientate prevalentemente tra l’altro verso ambiti diversi da quelli tecnico-scientifici.
Una combinazione micidiale di orientamenti individuali che hanno distorto pesantemente il mercato del lavoro, spesso sostituito alla professione e alla competenza professionale l’aspirazione all’impiego e concesso prestigio e status a determinati ambiti rivelatisi alla fine pletorici e parassitari.
Da qui l’invito dell’autore a “riflettere sullo scarto fra quel che siamo e quello cui crediamo di avere diritto”.
Si tratta però di un invito che nel migliore dei casi si risolve in un moralismo sterile e inconcludente, giacché una tendenza e un orientamento diffuso se non generalizzato non può essere il mero frutto della sommatoria di scelte individuali. Nel peggiore e purtroppo sempre più corrispondente al clima politico e culturale del paese, non fa che assecondare quel tentativo di salvaguardia della posizione dei ceti intermedi più fortunati nella difesa e preservazione delle proprie prerogative di ceto e di casta le quali stanno bloccando completamente le possibilità di mobilità sociale verso l’alto e soffocando le possibilità di trasformazione e riorganizzazione positiva del paese.
Quegli orientamenti e quelle scelte individuali sono la conseguenza diretta di caratteristiche strutturali del paese e dei suoi ordinamenti che le classi dirigenti succedutesi hanno alimentato e promosso piuttosto che scoraggiato.
A titolo di esempio, l’inflazione di avvocati e commercialisti e il corrispondente alimento di aspettative trova corrispondenza esatta nelle caratteristiche del sistema fiscale e tributario e in quelle del sistema giudiziario e giuridico; una saturazione aggravata dallo scarso peso della grande industria e dal conseguente scarse possibilità di accesso in altri settori di queste professionalità.
L’ambizione all’impiego è solo in parte il riflesso della necessaria natura burocratica delle amministrazioni pubbliche; è soprattutto la conseguenza della particolare e concreta organizzazione burocratica dello Stato Italiano, del suo particolare ordinamento gerarchico, dell’effettivo livello di responsabilità esercitato nelle funzioni, delle procedure di selezione e nomina dei quadri dirigenziali, della sovrapposizione di competenze.
Non siamo giunti però ancora al cuore del problema.
L’errore secondo Ricolfi è “aver liceizzato tutto –scuola e università” “In un paese che, colpevolmente, ha scarso bisogno di laureati e continua ad avere bisogno di innumerevoli competenze tecniche e professionali intermedie”.
Intanto lo stesso autore sembra smentirsi in un altro articolo (http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-10-16/il-problema-e-difficolta-non-latino-112506.shtml?uuid=ADC45JdB&fromSearch) perché il problema maggiore della scuola italiana sembra essere, secondo me a ragione, la svalutazione della difficoltà nello studio.
Uno studio della Fondazione Edison del 2012, con il direttore Marco Fortis non ancora pervaso dall’ottimismo oltranzistico legato alla sua partecipazione al Governo Renzi, quantificava la necessità insoddisfatta di personale qualificato nel Nord-Italia in poco più di centomila unità. Una cifra attualmente, secondo me sovrastimata, visto che in questi ultimi due anni la crisi sta decimando ormai anche aziende sane dal punto di vista organizzativo e tecnologico. Una cifra comunque certamente importante, della quale tener conto negli indirizzi scolastici, ma sicuramente poco significativa rispetto ai “sei milioni di posti mancanti” necessari a raggiungere un tasso di occupazione paragonabile a quello dei paesi del Nord-Europa.
Del resto, l’esodo che sta colpendo da alcuni anni il paese non riguarda più soltanto i laureati, specie quelli in materie tecnico-scientifiche, ma anche i diplomati, buona parte dei quali trovano collocazione nei settori produttivi-manufatturieri dei paesi ospitanti.
Alla luce di queste ultime due considerazioni l’affermazione finale dell’autore assume un tono particolarmente inquietante se non funereo.
Rappresenta soprattutto il de profundis ad un altro caposaldo delle politiche di sviluppo e di progresso tipiche del sodalizio progressista di questi ultimi decenni: l’investimento sociale.

LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE

Negli ultimi anni l’espressione “INVESTIMENTO SOCIALE” ha assunto il valore taumaturgico di uno slogan. Piuttosto che la spesa sociale ex-post mirante a tappare le falle con criteri assistenziali, piuttosto che la tesi liberista di alleggerimento o soppressione del welfare, ritenuto un mero costo, mirante a ripristinare le condizioni di equilibrio tra domanda e offerta di lavoro, “le politiche sociali andrebbero viste come un investimento che la società mette in campo per garantirsi un miglior ritorno economico e sociale nel futuro” (dal libro di Ranci, Ascoli, Sgrata “Investire nel sociale”); nella fattispecie “la strategia dell’investimento sociale lega, invece, la problematica della disoccupazione innanzitutto alla carenza di adeguate qualificazioni e competenze necessarie per trovare lavoro oggi e in futuro… orientata a privilegiare politiche sociali volte alla crescita del cosiddetto capitale umano” (idem). Politiche, si concede tra i più avveduti, “accompagnate da interventi strutturali”, lungi però questi ultimi da essere definiti nel corso di questi decenni.
Il Governo di Renzi, sostenuto dal suo mentore Gutgeld, è stato il più convinto sostenitore di questo indirizzo. Nell’ambito ad esempio della formazione scolastica, l’autonomia degli istituti scolastici, il ruolo dei finanziatori privati, i progetti di alternanza scuola-lavoro, la riforma dell’apprendistato rientrano coerentemente in questi indirizzi; indirizzi che, a prescindere dal merito e tenuto conto dei necessari tempi di attuazione, immediatamente hanno dovuto scontrarsi con la realtà della struttura produttiva e di servizi del paese.
Così, pochi mesi dopo il varo della legge sono stati aboliti gli obblighi formativi esterni all’azienda degli apprendisti; i casi di alternanza scuola-lavoro sono ancora limitati; l’attenzione del mondo imprenditoriale verso la scuola, in particolare gli istituti tecnici e professionali è “ancora” abbastanza residuale; permane l’enorme problema del ruolo delle scuole tecniche e professionali nelle vaste zone del paese economicamente depresse.
Sono politiche, come pure quelle del job act, mutuate da altri paesi; nel migliore dei casi ignorano il contesto produttivo ed imprenditoriale, nel peggiore ne assecondano le tendenze praticamente ormai irreversibili ad un declassamento “spontaneo” delle strutture produttive nel contesto internazionale.
Si tratta di un contesto profondamente mutato rispetto agli scenari di appena trenta anni fa.
• La grande azienda è praticamente scomparsa e soprattutto è pressoché scomparso il loro controllo strategico. Ne consegue la crescente estraneità degli interessi del paese dalle scelte strategiche delle imprese, dalle pianificazioni di marketing e dalle politiche di innovazioni di prodotto con buona pace della beota euforia per le acquisizioni estere espressa dai vari Renzi e Fassino
• Le stesse aziende capofila delle filiere produttive composte da medie e piccole aziende sono sfuggite anch’esse in gran parte al controllo dell’imprenditoria locale
• La stessa gestione delle reti e della logistica integrata, quest’ultima in via di formazione con anni di ritardo, deve subire profondi condizionamenti esterni e risolvere in diversi casi enormi problemi legati alla frammentazione dell’apparato produttivo
• L’innovazione tecnologica e la miglioria di prodotto, già deficitaria, è in buona parte legata all’iniziativa occasionale interna alle piccole aziende difficilmente trasmissibile nei software indispensabili alla digitalizzazione dei processi
Sono una parte importante dei fattori che subordinano la ricerca e soprattutto il riconoscimento professionale ad altri fattori del tutto estranei.
Arretratezza tecnologica e dei criteri di gestione, struttura proprietaria delle aziende, fuga delle posizioni strategiche, politiche sindacali, specie nelle grandi aziende di servizio, le quali assecondano gli interessi delle grosse concentrazioni di dipendenti piuttosto che la collocazione professionale; tutti aspetti che contribuiscono ad accentuare i processi di precarizzazione già presenti nel mondo del lavoro a livello globale con l’aggravante del disconoscimento massivo delle competenze professionali. Il plus proviene dalla confermata beotitudine di gran parte della nostra classe dirigente, tra questi il nostro “bomba” (Renzi) prontissimo a esaltare il bassissimo livello retributivo dei nostri ingegneri e tecnici e ad avallare ad esempio con le ipotesi di appiattimento delle prestazioni previdenziali a prescindere dalle erogazioni contributive e di reddito di cittadinanza tale disconoscimento.
Si tratta di una classe dirigente che non fa che assecondare le peggiori tendenze prevalenti nel paese e nel mondo imprenditoriale tese a trasformare nel migliore dei casi il nostro apparato produttivo in un opificio e in un cultore di nicchie esposti alla peggiore concorrenza, subordinati alle strategie altrui con scarsissime possibilità, grazie alla cessione degli asset strategici, di partecipare con un qualche ruolo decisionale ai processi di concentrazione ed integrazione. Non si tratta, quindi, di scelte economiche neutre, ma di politiche economiche legate al tipo di collocazione e di autonomia decisionale che una classe dirigente intende subire o scegliere.
Una politica di investimento sociale può essere il giusto corollario di una politica generale minimamente ambiziosa e autonoma; slegata da obbiettivi di recupero delle prerogative di un paese o addirittura complementare e propedeutica a questa politica di subordinazione non fa che alimentare sprechi di risorse, formazione di ceti magari pure colti quanto parassitari, corporativi e istupiditi, formazione di quadri e risorse disponibili per altri paesi e di strutture amministrative autoreferenziali. Una politica storicamente attenta alla redistribuzione ma altrettanto apparentemente indifferente alla modalità e alle finalità di produzione delle risorse. In questo si può racchiudere probabilmente la parabola efficientista di Matteo Renzi.
Le politiche degli ultimi due governi, per ultimo il programma di implementazione di industria 4.0, non fanno altro che sancire irreversibilmente tale tendenza e rendere particolarmente duro e problematico un programma di recupero. Stride il silenzio che circonda un programma così importante. Ne parlerò, appena possibile, in un articolo dedicato.
Per concludere, la chiosa finale dell’articolo di Ricolfi più che una presa d’atto realistica per ripartire, mi pare sia la sanzione complice di una cattiva condizione del paese. Il contributo dell’immigrazione mi pare che si risolva anch’esso in questo. Tanto più che la segnalazione di questi sviluppi occupazionali positivi, nascondono un altro esodo del tutto ignorato; quello di una manodopera immigrata, qualificatasi professionalmente nel corso di questi ultimi lustri nel nostro paese e fuggita all’estero attirata da migliori condizioni.

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