BUROCRAZIA E INFALLIBILITÁ, di Teodoro Klitsche de la Grange

BUROCRAZIA E INFALLIBILITÁ

Ha suscitato stupore l’affermazione del direttore dell’Agenzia delle Entrate che in Italia ci sono 19 milioni di evasori fiscali. Ma non è stato notato – o notato poco – che non era tanto l’esternazione del dr. Ruffini ad essere discutibile ma- assai di più – il “ragionamento” di cui era il risultato.

Chi scrive è convinto che i 19 milioni di evasori di Ruffini siano una stima per difetto: in effetti ho l’impressione che il numero degli evasori sia poco inferiore all’intera popolazione maggiorenne italiana, cioè 45 milioni (almeno). Ciò per due motivi: il primo è che è l’appetito del fisco a creare l’evasione. Più è predatorio quello, più è diffusa questa, secondo la curva di Laffer, così sconosciuta nelle stanze del potere italiano. La seconda è la mediocre efficienza della pubblica amministrazione: per cui c’è da presumere che ai diciannove milioni di evasori sagacemente “tassati” dal fisco, ve ne siano altrettanti – o giù di li – che se la godono nella clandestinità. Anche perché il sistema principale per “recuperare l’evasione” collaudato da trent’anni è assai semplice: far pagare di più chi già paga. La seconda imposta per gettito, cioè l’IVA, compie quest’anno 50 anni: per “recuperare l’evasione” l’aliquota nello stesso periodo è stata quasi raddoppiata: dal 12% al 22%. Ad ogni aumento il solito coro di giubilo “paghiamone tutti, paghiamone meno” ma in effetti nella realtà sono sempre i soliti a pagare.

Ma ciò che rende debole e profondamente illiberale l’argomento di Ruffini è l’equivalenza tra pretese fiscali e fondatezza (anche giuridica) delle stesse. In altre parole si presuppone che 19 milioni siamo debitori perché gli impiegati dell’Agenzia fiscale hanno emesso dei titoli esecutivi a loro carico. Che è proprio il contrario di quanto da oltre due secoli i teorici dello Stato di diritto sostengono: tra i tanti basti citare il Federalista (come faccio spesso) in cui si sostiene che i controlli sul governo (cioè in termini moderni e “continentali”  sull’amministrazione pubblica) non sarebbero necessari se a governare fossero angeli, ossia moralmente irreprensibili e intellettualmente infallibili. Ma siccome non è così, scrivevano gli autori del “Federalista”, i controlli sono necessari. E l’intera costruzione dello Stato di diritto (e anche, meno coerentemente di altri “tipi” di Stato) si basa proprio su tale realistico giudizio sull’antropologia umana, e quindi burocratica.

La diffusione e l’istituzionalizzazione di limiti e controlli al potere, in primo luogo la giustizia nell’amministrazione, non è che la conseguenza di quello.

Credere il contrario non è soltanto manifestamente smentito dai fatti: è qualcosa che neppure gli ordinamenti più autoritari – forse (del tutto) neanche quelli totalitari – ammettono. Se il Papa è infallibile lo è solo quando parla ex-cathedra e in materie limitate. Ma l’infallibilità del Sommo Pontefice non emana verso uffici, impiegati, vescovi e parroci, mentre (pare che) quella fiscale si comunica per via gerarchica, dal Direttore agli impiegati di concetto (se non anche più in giù). Per cui il ragionamento di Ruffini, sulla cui fondatezza non insistiamo, è sicuramente il contrario di quanto sostenuto dai teorici (e pratici) del Rechtstaat.

Ma qualche conseguenza positiva la può avere: se è vero che gli evasori fiscali sono 19 milioni (come calcolato dal direttore) o molti di più, la conseguenza è che se vanno tutti a votare, e lo fanno coerentemente, i tempi del fisco predatorio sono agli sgoccioli: con una maggioranza così schiacciante un condono tombale (al minimo) è a portata di mano. Una riforma verso un fisco meno predatorio, probabile.

Ricordate, gente, ricordate.

Teodoro Klitsche de la Grange

Noterella di Roberto Buffagni

Ieri l’altro mattina, facendomi la barba, sentito Carlo Bonini, giornalista di “La Repubblica” alla Rassegna Stampa di Radio Tre. Nel dialogo con un ascoltatore, a proposito delle ostilità in Ucraina, Bonini esprime il seguente concetto: ci ha riflettuto a lungo, e secondo lui questo è un conflitto tra democrazia e autocrazie. Bravo Bonini, riflessione profonda. Dunque, visto che è andata così bene l’esportazione della democrazia in Iraq, Afghanistan, Siria, Libia etc., perché fermarsi alle mezze misure? Perché non esportarla anche in Russia e in Cina? Fiat democrazia, pereat mundus, perché no, bisogna pur finirla in qualche modo questa fola della vita umana sulla Terra, che rovina l’ambiente e turba le felci. Oddio: finché lo dice Bonini si può fare spallucce, purtroppo lo dicono anche il Ministro della Difesa, il Segretario di Stato e il Presidente degli Stati Uniti, un caravanserraglio al quale siamo ammanettati senza speranza di liberazione; e qui fare spallucce è meno facile.
Ma questa prima, elementare, considerazione non basta. Prendiamola sul serio sta cosa del conflitto democrazia/autocrazia, prendiamo per buone queste definizioni grossolane, per far prima; e poi non vale la pena usare il bisturi con questa spazzatura culturale, motosega e via.
Io in un paese autocratico non ho mai vissuto. Certamente ci sono vari inconvenienti, per esempio essere bruscamente svegliati alle quattro del mattino dalla polizia segreta. Non credo che piaccia neanche a chi ci vive, nelle “autocrazie”. Però per esempio in Russia la “democrazia” l’hanno provata, e per i russi la democrazia realmente esistente o esistita consisteva in questo: che arrivano dall’Occidente dei tipi incravattati anche al cesso, capaci di trasformare tutto il creato in soldi e di nient’altro, che si alleano con il peggio che c’era in Russia, criminali e notabili corrotti, gli portano via il frutto di settant’anni di lavoro e sacrifici immani del popolo russo, fanno precipitare l’aspettativa di vita al livello del Burkina Faso, li prendono in giro perché arretrati homines sovietici, e gli fanno la morale col sorrisino furbo. Poi, è vero, gli danno il permesso di dire e scrivere quel che gli pare (tranne quel che dà noia ai criminali e notabili corrotti al governo, che se innervositi ti fanno fuori) e aprono un botto di pizzerie e negozi di hamburger. Niente male come rapporto costi/benefici, forse qualche motivo per preferire l’autocrazia i russi ce l’hanno, senz’altro si ingannano ma possiamo capirli, facendo un piccolo sforzo.
Anche perché, su una scala di vari ordini di grandezza minore, è la stessa cosa che è capitata anche da noi in Italia dopo la cura “Mani Pulite”, contemporanea all’esportazione della democrazia in Russia e motivata dalla medesima congiuntura geopolitica (fine dell’URSS, fine di Yalta, gli USA si ubriacano di vittoria e credono di esserci solo loro al mondo).
Da noi gli stessi tipi incravattati anche al cesso, capaci di trasformare l’intero creato in soldi e di nient’altro, dei quali è esemplare idealtipico l’attuale Presidente del Consiglio, hanno fatto fuori con astuti trucchetti la vecchia classe dirigente corrotta, si sono cuccati le imprese di Stato regalandole ad amichetti riconoscenti, si sgranocchiano da trent’anni il welfare Stare, svendono i patrimonio industriale lasciando sul lastrico intere stirpi, ci prendono in giro perché arretrati cattolici e familisti amorali, ci fanno la morale col sorrisino furbo, e ci lasciano dire e scrivere quel che ci pare purché non tocchiamo qualche temino fastidioso tipo la guerra ucraina (le mafie che ti seppelliscono in una colata di cemento se gli dai noia ce le avevamo anche prima e continuiamo ad averle, con questa gente prosperano come non mai).
Ah, scordavo: essi però conferiscono ampi diritti in merito all’utilizzo del contenuto delle proprie mutande a chicchessia. Però! Niente male come rapporto costi/benefici. Noi però l’opzione autocrazia non ce l’abbiamo e quindi ci dobbiamo tenere la democrazia. Adesso poi che la esporteremo in tutto il mondo grandi potenze nucleari comprese non c’è dubbio alcuno che la democrazia si emenderà dei suoi difettucci e diventerà la democrazia ideale, idealtipica, con l’imperativo categorico kantiano nella Costituzione legale & materiale. Va bene così dai.

Kissinger, l’Ucraina e l’Ordine del Mondo, di OLIVIER CHANTRIAUX

Proseguiamo con il dibattito seguito all’intervento di Henry Kissinger al WEF, del quale abbiamo già offerto la traduzione. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Il 23 maggio, parlando in videoconferenza al World Economic Forum, Henry Kissinger ha fatto sentire una voce discordante [1] . Il messaggio principale di Kissinger non è che l’Ucraina dovrebbe accettare concessioni territoriali. Le sue osservazioni mirano a sottolineare l’urgenza della diplomazia in un clima di superiorità.

Contrariamente a molti media, così inclini a leggere le notizie internazionali in termini manichei, Kissinger ha ricordato la necessità, per risolvere i conflitti in atto, di considerare con occhio razionale la permanenza della storia e di sostituire la logica dell’escalation delle esigenze strutturali di diplomazia.

In piena coerenza con quanto espresso nell’articolo da lui pubblicato nel 2014 durante la prima crisi ucraina, in cui sottolineava che l’Ucraina, “ponte” tra est e ovest, non doveva necessariamente scegliere tra l’una o l’altra di queste strategie strategiche polarità, Kissinger ha auspicato l’apertura di negoziati che permettano ai protagonisti di affermare i propri interessi e che la Russia riconquisti, a lungo termine, un posto o un ruolo in Europa. Ha inoltre incoraggiato i due maggiori attori della vita internazionale, Stati Uniti e Cina, a tornare sulla strada di un dialogo strutturato, disegnato con la costante preoccupazione di garantire l’equilibrio di un mondo ormai plurale.

Sottolineando la necessità di un ritorno alla storia e l’urgenza della diplomazia in un mondo afflitto da molteplici tensioni, Kissinger ha dato ancora una volta prova della costanza del suo pensiero, ha espresso le esigenze e la portata della sua lettura delle relazioni internazionali, irriducibili alle mode come nonché ad ogni facile appropriazione e che possiamo qualificare, per riassumere la formula, come realismo storico. Mostrandosi animato, all’alba del suo 99° compleanno, da un’irresistibile libertà intellettuale, ha, nel dialogo così instaurato con Klaus Schwab e con Graham Allison, criticando l’opinione più attuale, ha ricordato l’interesse universale a favorire, nella condotta delle relazioni internazionali e per garantire la pace globale, frutto di una razionalità concreta, forte del lungo tempo della storia.

Realismo storico

Agli occhi di Kissinger, innanzitutto, sembra innegabile che il popolo ucraino stia attualmente dimostrando eroismo. Ma l’ardore dispiegato nei combattimenti, da qualunque parte provenga, non basta certo a risolvere la crisi. Indica quindi che per quanto riguarda la storia e la geografia, che fanno della Russia un garante degli equilibri europei e dell’Ucraina una marcia, si dovrà trovare un compromesso diplomatico che permetta di ristabilire la pace. Facendo riferimento all’articolo da lui pubblicato nel 2014, Kissinger ritiene che “l’obiettivo ultimo” da privilegiare in vista della stabilità, anche se il contesto attuale è diverso, dovrebbe essere quello di erigere l’Ucraina in “una specie di Stato neutrale.Deplora, infatti, che invece questo Paese sia diventato o sia tornato, se si ricorda la sua storia, in prima linea tra raggruppamenti di Paesi in Europa.

Questa soluzione negoziata non va quindi ricercata, secondo lui, in una forma di escalation incontrollata, che avrebbe l’effetto di rigettare la Russia in seno alla Cina. Un simile sviluppo non mancherebbe ovviamente di apparire controintuitivo, in quanto si impadronirebbe del meccanismo del pendolo triangolare, che in precedenza aveva consentito agli Stati Uniti di controbilanciare le ambizioni di una di queste due potenze giocando un rapporto costruito con l’altra.

L’obiettivo così proposto da Kissinger, il negoziato ritorno allo status quo attraverso il riconoscimento di un’Ucraina neutrale, non va necessariamente contrapposto all’analisi che era stata quella di Zbigniew Brzeziński in The Grand Chessboard. Riprendendo, a sostegno della sua tesi, le categorie forgiate da Halford Mackinder, per il quale l’egemonia mondiale dipendeva dal predominio esercitato sul cuore della terra che è l’Eurasia, Brzeziński vedeva nello stato ucraino un importante “perno geopolitico”, la cui indipendenza poteva contenere le ambizioni imperiali russe. Conserviamo dalla sua analisi la famosa frase: “Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero eurasiatico. »

La conseguenza che Brzeziński ne trae è che l’indipendenza dell’Ucraina dovrebbe essere garantita affinché la Polonia non diventi a sua volta un perno geopolitico sul confine orientale dell’Europa unita.

In effetti, la prospettiva aperta da Kissinger, che certamente segue un metodo di analisi diverso da quello di Brzeziński e non condivide la visione del mondo di quest’ultimo, non include alcuna messa in discussione dell’indipendenza dell’Ucraina: fa semplicemente della diplomazia la chiave per ristabilire un equilibrio. E se Brzeziński metteva in guardia gli Stati Uniti e l’Europa dagli appetiti russi, per evitare che un’ipotetica annessione dell’Ucraina avesse la conseguenza di trasformare a sua volta la Polonia in un “perno geopolitico”, Kissinger comprende che, al contrario, l’integrazione dell’Ucraina nelle alleanze occidentali sarebbe portare, del resto, a una situazione equivalente, in cui, concretamente, Russia e Occidente si troverebbero a diretto contatto. La paura di vedere presto la Russia,

Si può presumere che il presidente Biden, da sempre particolarmente preoccupato per l’Ucraina, veda nel conflitto armato di cui quest’ultima è teatro un’occasione imperdibile per indebolire la Russia. È per una tale ragione geopolitica che gli Stati Uniti ei loro alleati stanno consegnando un grande volume di armi all’Ucraina. L’Occidente sotto l’egemonia americana intende quindi porre fine alle ambizioni strategiche della Russia, sottoponendola alla prova di un duro logoramento.

Dai priorità alla diplomazia

Per Kissinger, l’attrito decisivo di una grande potenza in una regione instabile, a rischio di scatenare una guerra generalizzata e catastrofica, non può costituire di per sé un obiettivo. Lungi dal sopravvalutare la geografia di Mackinder, il realismo storico kissingeriano mira all’equilibrio e favorisce la conservazione dell’ordine mondiale. Pesa la posta: un’Ucraina dello status quo ante , indipendente ma neutrale, gli sembra preferibile a un’Ucraina totalmente integrata nei gruppi occidentali, che si ritroverebbero quindi vicina di una Russia umiliata in preda al risentimento.

Allontanandosi dalla tradizione di ostilità viscerale nei confronti della Russia condivisa da molti suoi connazionali, Henry Kissinger ha mostrato la sua preferenza per la razionalità dei diplomatici e ha ritenuto necessario che i protagonisti del conflitto ucraino si impegnassero in seri negoziati entro “due mesi”.

Di fronte a questo ritorno allo stato di guerra, Kissinger ha sostenuto la diplomazia, l’unico modo per ristabilire l’equilibrio. Perché Henry Kissinger attribuisce tanta importanza al concetto di equilibrio? Perché l’equilibrio si applicava alle relazioni internazionali, come ha insistito nella sua tesi sulla composizione diplomatica della situazione in Europa dopo la caduta di Napoleone, è sinonimo di pace globale in un mondo sempre più instabile, caratterizzato dal moltiplicarsi degli attori e sotto la minaccia nucleare. L’equilibrio non passa, però, per un’alienazione degli interessi di ciascuna potenza. L’interesse nazionale resta il concetto normativo che spiega il comportamento degli enti sovrani sulla scena mondiale, ma deve essere conciliato concretamente, attraverso la diplomazia, con le ambizioni concorrenti di altri poteri.

Così il concetto di interesse nazionale rimane significativamente diverso dalla volontà di potenza, la quale, decorrelata dalla realtà plurale del mondo, può tragicamente obbedire a una motivazione molto astratta. Come sottolinea Jeremi Suri nella sua analisi della diplomazia kissingeriana, l’interesse nazionale è al centro di una vera ed essenziale “strategia del limite “.

Distinto dalla pura volontà di potenza, l’interesse nazionale, come un diamante da lucidare, deve essere rigorosamente delimitato e adattato rispetto alle forze reali a nostra disposizione e alla configurazione di potere in cui l’azione pianificata deve inserirsi. Per sua definizione molto concreta, l’interesse nazionale si distingue necessariamente dalle rivendicazioni ideologiche, il cui oggetto è per natura illimitato e che spesso sono agitate per manipolare le masse.

In hollow quindi, la scommessa kissingeriana, che in questo caso si oppone all’overbidding dei media, porta a considerare che Vladimir Putin, la cui politica è violenta e condannabile, non sarebbe per niente animato da una pura volontà di potenza. giocherebbe ancora il gioco dell’interesse nazionale. Considerato indipendentemente dalla propaganda che sta attualmente diffondendo, lo scopo geopolitico del potere russo, così come formulato almeno dal conflitto georgiano dell’agosto 2008, consentirebbe comunque di attribuirle una presunzione di razionalità, anche se questa razionalità è contraria, è vero, a quello di altri poteri. In una parola, le pretese russe sarebbero limitate ed è proprio questa limitazione che permette a Kissinger di considerare la possibilità di una soluzione diplomatica a breve o medio termine.

Riferimento alla storia

Il riferimento alla storia, così tipico della cliopolitica kissingeriana 2] , che pone il consigliere di Richard Nixon in linea con l’ Historismus di Leopold von Ranke , sembra avvalorare questa analisi, in virtù della quale si deve considerare che la Russia fa parte dell’Europa, dove essa deve svolgere un ruolo speciale, anche se l’attuale conflitto sembra tracciare i contorni di un’altra geopolitica.

Questo ruolo storico consisterebbe nel consentire l’equilibrio europeo, nell’esserne catalizzatore, come accadde alla fine dell’epopea napoleonica e negli anni successivi, poi alla Germania prima del 1939, infine, nell’ultima fase della guerra mondiale II. La chiave di lettura della crisi attuale ci verrebbe così data dalla storia.

Attraverso le sue osservazioni, Henry Kissinger colloca il conflitto armato in corso, molto localizzato, nel contesto di una più ampia evoluzione geopolitica che si manifesterebbe e la cui posta in gioco sarebbe la configurazione dell’equilibrio mondiale. Osserva che la tentazione occidentale di intensificarsi, negando la diplomazia, avrebbe il probabile effetto di indurre la Russia ad allontanarsi definitivamente dall’Europa e ad avvicinarsi alla Cina, principale concorrente degli Stati Uniti. Per Kissinger, lasciare che la Russia si appoggi alla Cina e si allontani dall’Europa, in un contesto di forte conflitto, non sembra un risultato auspicabile. Un tale sviluppo non mancherebbe di mettere l’uno contro l’altro due campi, polarizzati rispettivamente da Washington e Pechino, e di minare l’ordine mondiale,

Il rapporto tra gli Stati Uniti da un lato e la Cina dall’altro rimane infatti strutturante per l’ordine mondiale. Dà la matrice dell’equilibrio internazionale. Come fa notare Henry Kissinger, la questione centrale del rapporto sino-americano nella fase a cui è giunta è l’instaurazione di una struttura di cooperazione in grado di garantire la stabilità del mondo. La questione taiwanese sorge certamente; e Kissinger ricorda che questo è un vecchio problema, che sarà sempre preso in considerazione. Allo stesso tempo, afferma che questo problema non dovrebbe cancellare la necessità di un modus vivenditra le due potenze rivali, che hanno la reciproca capacità di distruggersi a vicenda, né l’emergere di una nuova strutturazione del concerto internazionale, che faccia spazio a potenze in divenire, come India e Brasile, e da cui dipende, in definitiva, la stabilità dell’ordine mondiale.

Le questioni sollevate dalle attuali tensioni internazionali possono essere risolte, secondo Henry Kissinger, solo attraverso i canali diplomatici.

I negoziati tra le parti presenti permetterebbero probabilmente il ritorno a una forma di stabilità nell’Europa orientale, di cui la neutralità di un’Ucraina ancora indipendente potrebbe essere la condizione principale. Così l’analisi dell’ex Segretario di Stato americano si unisce a quella del pensatore realista John Mearsheimer [10] , il quale, in occasione della crisi ucraina del 2014, aveva evidenziato l’interesse, sia per l’Alleanza Atlantica che solo per la Russia, a rimanere territorialmente separati da uno spaccato di stati neutrali.

Il messaggio principale di Kissinger non è quindi, nonostante le interpretazioni più rapide che sono state date alle sue osservazioni, che l’Ucraina dovrebbe acconsentire a concessioni territoriali. Sul punto, si può sottolineare che l’Ucraina ha acconsentito già prima dell’offensiva russa. Le sue osservazioni mirano a sottolineare l’urgenza della diplomazia in un clima di superiorità, di fronte a un mondo attraversato da tensioni, e la necessità di collegare ogni soluzione diplomatica con la più ampia definizione di un nuovo equilibrio globale tra le principali potenze, dialogo la cui strutturazione dovrebbe prevenire qualsiasi pericolosa escalation.

Con innegabile costanza, Henry Kissinger riformula la preoccupazione espressa, nel 2015, in un libro dal titolo esplicito [11] e invita i suoi ascoltatori, per il successo della pace, a non rinunciare a consolidare L’Ordre du monde .

https://www.revueconflits.com/kissinger-lukraine-et-lordre-du-monde/

 

Perché gli intellettuali russi stanno rafforzando il sostegno alla guerra in Ucraina, Scritto da Anatol Lieven

Inorridite dall’invasione, le élite centriste come Dmitri Trenin sentono comunque che gli Stati Uniti stanno usando il conflitto per distruggere il loro paese.

Un articolo di Dmitri Trenin, intitolato “Come la Russia deve reinventarsi per sconfiggere la ‘guerra ibrida’ dell’Occidente: l’esistenza stessa della Russia è minacciata”, potrebbe essere uno dei più rilevanti pubblicati in Russia negli ultimi tempi, in parte per quello che dice, e in parte per chi lo dice.

Il dottor Trenin, direttore del Carnegie Moscow Center fino alla sua chiusura da parte del governo russo ad aprile, è stato per molti anni una delle più importanti voci pragmatiche russe a sostegno della cooperazione con l’Occidente e dell’“occidentalizzazione” della Russia. Fu una delle poche figure russe a conservare ancora alcune delle speranze di Gorbaciov per una “casa comune europea”. (Devo dire che conosco il dottor Trenin da quando ero giornalista britannico a Mosca negli anni ’90, e sono stato suo collega al Carnegie Endowment for International Peace tra il 2000 e il 2004).

Il significato dell’articolo di Trenin sta nelle prove che fornisce di un consolidamento delle élite intellettuali russe a sostegno dello sforzo bellico in Ucraina. Non è in molti casi per il desiderio di conquistare l’Ucraina (molte delle figure che hanno aderito a questo nuovo consenso erano fortemente contrarie all’invasione e detestavano Putin), ma per una sensazione sempre più forte che gli Stati Uniti stiano cercando di usare la guerra in Ucraina per paralizzare o addirittura distruggere lo stato russo, e che ora è dovere di ogni cittadino russo patriottico sostenere il governo russo.

Trenin scrive:

“[Gli] Stati Uniti e i loro alleati hanno fissato obiettivi molto più radicali rispetto alle strategie di contenimento e deterrenza relativamente conservatrici utilizzate nei confronti dell’Unione Sovietica. Stanno infatti cercando di escludere la Russia dalla politica mondiale come fattore indipendente e di distruggere completamente l’economia russa. Il successo di questa strategia consentirebbe all’Occidente guidato dagli Stati Uniti di risolvere finalmente la “questione Russia” e creare prospettive favorevoli per la vittoria nel confronto con la Cina. Un simile atteggiamento da parte dell’avversario non lascia spazio ad alcun dialogo serio, poiché non c’è praticamente alcuna prospettiva di un compromesso, in primis tra Stati Uniti e Russia, basato su un equilibrio di interessi. La nuova dinamica delle relazioni russo-occidentali comporta una drammatica rottura di tutti i legami e una maggiore pressione occidentale sulla Russia (lo stato, la società, l’economia,

Così continua:

“È la stessa Russia che dovrebbe essere al centro della strategia di politica estera di Mosca in questo periodo di confronto con l’Occidente e riavvicinamento con gli Stati non occidentali. Il Paese dovrà essere sempre più da solo…” Ristabilire” la Federazione Russa su basi politicamente più sostenibili, economicamente efficienti, socialmente giuste e moralmente solide diventa urgentemente necessario. Dobbiamo capire che la sconfitta strategica che l’Occidente, guidato dagli Stati Uniti, sta preparando alla Russia non porterà la pace e un successivo ripristino delle relazioni. È altamente probabile che il teatro della “guerra ibrida” si sposterà semplicemente dall’Ucraina più a est, ai confini della Russia, e la sua esistenza nella sua forma attuale sarà contestata… Nel campo della politica estera, l’obiettivo più urgente è chiaramente quello di rafforzare l’indipendenza della Russia come civiltà… Per raggiungere questo obiettivo nelle condizioni attuali – che sono più complesse e difficili di quelle recenti – è necessaria un’efficace strategia integrata – politica generale, militari, economici, tecnologici, informativi e così via. Il compito immediato e più importante di questa strategia è raggiungere il successo strategico in Ucraina entro i parametri che sono stati fissati e spiegati al pubblico”.

Questo è un appello alle riforme, comprese le misure anticorruzione; ma esplicitamente parte di una strategia di rafforzamento della Russia e della società russa al fine di resistere all’Occidente e raggiungere obiettivi strategici limitati della Russia in Ucraina. Particolarmente sorprendente è l’appello di Trenin al rafforzamento della Russia come “civiltà” separata, un’idea che non avrebbe mai sostenuto negli anni precedenti.

Sarebbe facile respingere il cambiamento di Trenin (ora membro del Consiglio per la politica estera e di difesa della Russia) semplicemente come una questione di piegarsi alle pressioni del regime. Ciò significherebbe tuttavia ignorare che egli rappresenta solo, in una forma più brusca e radicale, un cambiamento nell’intellighenzia centrista russa che si è andata consolidando gradualmente per molti anni.

Per un certo periodo, dalla caduta dell’Unione Sovietica alla metà degli anni ’90, l’atteggiamento della maggior parte dell’intellighenzia russa nei confronti dell’Occidente è stato di cieca adulazione, e il cambiamento da questo ha attraversato tutta una serie di fasi. Il cambiamento è iniziato con la decisione di espandere la NATO, generalmente vista in Russia come un tradimento. La paura dell’espansione della NATO è cresciuta con l’attacco della NATO alla Serbia durante la guerra del Kosovo. L’invasione americana dell’Iraq nel 2003 è stata ampiamente vista come una prova che gli Stati Uniti desideravano imporre regole ad altri che non avevano intenzione di mantenere.

Un punto di svolta chiave è arrivato con l’offerta di una futura adesione alla NATO all’Ucraina e alla Georgia nel 2008, seguita dall’attacco georgiano alle posizioni russe nell’Ossezia meridionale e dalla falsa rappresentazione da parte dell’Occidente di questo come un attacco russo alla Georgia. Il sostegno occidentale alla rivoluzione ucraina del 2014, generalmente vista in Russia come un colpo di stato nazionalista contro un presidente eletto, ha infine condannato il vero riavvicinamento tra gli intellettuali centristi russi e le loro controparti occidentali.

Tuttavia, le speranze russe in una qualche forma di compromesso limitato con l’America o con l’Europa sono rimaste per molti anni. Realisti fino in fondo, membri dell’establishment russo, trovarono difficile capire perché l’America, di fronte a problemi intrattabili in Medio Oriente e all’ascesa di una potente Cina, non cercasse di ridurre le tensioni con la Russia, molto meno pericolosa. Allo stesso modo, erano sconcertati da quello che hanno visto come un fallimento europeo nel capire che con la Russia come amica, non avrebbero affrontato alcuna minaccia militare nel loro stesso continente.

Tre sviluppi in particolare mantennero vive queste speranze. In primo luogo, l’intermediazione francese e tedesca dell’accordo di pace “Minsk II” sul Donbas nel 2015 ha permesso ai russi di credere nella possibilità di un accordo con Parigi e Berlino sull’Ucraina, anche se questa speranza è svanita poiché francesi e tedeschi non hanno fatto nulla per convincere l’Ucraina ad attuare effettivamente l’accordo. Poi l’elezione di Donald Trump nel 2016 ha fatto sperare in un’America più amichevole, in una divisione tra Europa e America, o in entrambe. E infine, l’assegnazione delle priorità alla Cina come minaccia da parte dell’amministrazione Biden ha riacceso le speranze di una ridotta ostilità degli Stati Uniti nei confronti della Russia.

Le speranze russe di cooperazione con Francia e Germania potrebbero rinascere se questi governi cercano una pace di compromesso in Ucraina, con o senza gli Stati Uniti. In mancanza di ciò, tuttavia, l’articolo di Trenin indica che non solo la cerchia ristretta di Putin, ma gran parte dell’establishment russo più ampio, si avvicinerà alla guerra in Ucraina con uno spirito di cupa determinazione, almeno fino a quando non ci sarà la possibilità di un accordo di pace che soddisfi i fondamentali condizioni russe.

Ora, la determinazione di un analista politico di Mosca, ovviamente, è una cosa diversa e meno impegnativa della determinazione richiesta a un soldato russo che combatte l’Ucraina. Tuttavia, è potenzialmente un importante contrappunto alla speranza in molte capitali occidentali per un crollo precoce della volontà collettiva russa di combattere, o un colpo di stato d’élite contro Putin.

Sembra esserci una crescente convinzione nelle élite russe – inclusi molti che sono rimasti inorriditi dall’invasione stessa – che gli interessi vitali, e forse anche la sopravvivenza, dello stato russo siano ora in gioco in Ucraina. A differenza delle masse russe, queste figure ben informate non hanno subito il lavaggio del cervello dalla propaganda di Putin. La maggior parte di loro vede abbastanza chiaramente lo spaventoso pasticcio in cui la Russia è finita in Ucraina e le terribili sofferenze inflitte ai comuni ucraini. Ma l’unico modo in cui sembrano vederne fuori è attraverso qualcosa che può almeno essere presentato come una vittoria.

https://responsiblestatecraft.org/2022/06/06/why-russian-intellectuals-are-hardening-support-for-war-in-ukraine/

Le spedizioni di aiuti delle Nazioni Unite vengono sfruttate per rifornire segretamente il TPLF, di Andrew Korybko

E’ iniziata la campagna d’Africa. Sarà uno dei teatri nei quali si estenderà il confronto tra Stati Uniti e potenze emergenti in un contesto nel quale gli stati africani hanno acquisito una maggiore consapevolezza della propria autonomia e costruito una capacità identitaria tale da essere soggetti attivi delle dinamiche geopolitiche locali. Le sanzioni e la progressiva e autolesionistica chiusura nei confronti della Russia costringeranno buona parte dei paesi europei a volgere l’attenzione nel peggiore dei modi verso il continente africano. Le probabilità che diventino uno strumento della contesa americana nei confronti di Russia e Cina, senza il rischio di uno scontro diretto ai confini europei sono sempre più alte anche in aree nelle quali l’Italia avrebbe ancora carte residue da giocare in proprio. Buona lettura, Giuseppe Germinario
Questo triplice smacco – la crisi alimentare fabbricata artificialmente, la campagna di guerra dell’informazione dell’Economist per provocare la guerra con il Sudan e ora le Nazioni Unite sfruttate come copertura per rifornire il TPLF – suggeriscono tutti fortemente che la Guerra Ibrida del Terrore in Etiopia che in precedenza si era acquietata dal suo apice lo scorso autunno, si sta intensificando ancora una volta.

Il vice primo ministro etiope Demeke Mekonen ha avvertito durante il fine settimana che le spedizioni di aiuti dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) vengono sfruttate per rifornire segretamente il TPLF. Ha affermato che “dovrebbe essere prestata particolare attenzione per evitare che le apparecchiature vengano trasferite al TPLF. Ho notato che ci sono sforzi per trasportare più carburante di quanto consentito e alcune attrezzature vietate che possono essere utilizzate per realizzare gli obiettivi del gruppo terroristico. Dovrebbero essere potenziati gli sforzi della commissione doganale e di altre entità per garantire il controllo e la sorveglianza delle apparecchiature vietate”.

Questo sviluppo è una chiara provocazione da parte di attori malintenzionati che operano sotto la copertura delle Nazioni Unite per portare avanti la loro agenda ostile contro l’Etiopia. Non è la prima volta che questo organismo globale viene sfruttato a tal fine, ma quest’ultimo caso dimostra che non hanno rinunciato ai loro vecchi trucchi. È politicamente conveniente operare in questo modo dal momento che possono tentare di capovolgere tutto ogni volta che l’Etiopia li chiama fuori descrivendo male il loro paese ospitante come “contro la comunità internazionale”.

In realtà, tuttavia, gli unici stati canaglia sono quelli che hanno armato l’ONU in modo così illegale. Tuttavia, poiché sono attori dominanti nella comunità internazionale, credono di poter farla franca, indenni tranne che per il danno autoinflitto che ciò causa alla loro reputazione. Questa ultima provocazione è molto più pericolosa di quelle precedenti, poiché si svolge nel contesto della transizione sistemica globale verso la multipolarità che sta accelerando senza precedenti dall’inizio dell’operazione militare speciale in corso della Russia in Ucraina.

Le sanzioni anti-russe dell’Occidente guidate dagli Stati Uniti che sono state promulgate in risposta hanno prodotto artificialmente una crisi alimentare globale che dovrebbe colpire in modo sproporzionato i paesi africani, molti dei quali, inclusa l’Etiopia, hanno respinto le pressioni americane per votare contro la Russia alle Nazioni Unite mentre nessuno di loro l’hanno sanzionato. Queste carestie forzate sono essenzialmente un’arma da guerra ibrida che viene brandita contro di loro come punizione per la loro neutralità di principio nei confronti del conflitto ucraino, che l’egemone statunitense in declino considera assolutamente inaccettabile.

L’Etiopia, che è stata storicamente la culla dei movimenti antimperialisti dell’Africa, è particolarmente antipatica agli Stati Uniti poiché la sua neutralità di principio nei confronti della Nuova Guerra Fredda americana con la Cina è stata la ragione per cui Washington l’ha vittimizzata attraverso la Guerra ibrida al terrorismo guidata dal TPLF che iniziò nel novembre 2020. Proprio la scorsa settimana, l’ambasciata etiope a Londra ha denunciato The Economist per aver costruito notizie false in quello che probabilmente era un tentativo di provocare una guerra con il Sudan, e ora è evidente che ci sono stati anche sforzi per sfruttare le spedizioni di aiuti delle Nazioni Unite al fine di rifornire il TPLF.

Questo triplice smacco – la crisi alimentare fabbricata artificialmente, la campagna di guerra dell’informazione dell’Economist per provocare la guerra con il Sudan e ora le Nazioni Unite sfruttate come copertura per rifornire il TPLF – suggeriscono tutti fortemente che la Guerra Ibrida del Terrore in Etiopia che in precedenza aveva calmato dal suo apice lo scorso autunno si sta intensificando ancora una volta. L’ultima di queste tre provocazioni suggerisce che gli stati canaglia vogliono riavviare la fase calda di quel conflitto proprio nel momento in cui l’Africa sta affrontando una carestia e, guarda caso, nello stesso momento in cui The Economist vuole una guerra etiope-sudanese.

La convergenza di queste tre minacce rende ciascuna di esse molto più pericolosa che se venissero affrontate separatamente. L’obiettivo deliberato dell’Etiopia non ha solo lo scopo di far avanzare l’agenda preesistente di quegli stati canaglia contro di essa, ma anche di punire simbolicamente tutta l’Africa per la sua neutralità di principio nei confronti del conflitto ucraino poiché Addis ospita il quartier generale dell’Unione Africana. L’America è anche infuriata per il fatto che i paesi del continente siano ancora interessati all’acquisto di grano russo nonostante la falsa notizia che sia stato rubato dall’Ucraina, ecco perché questi sforzi dannosi si stanno intensificando negli ultimi tempi.

Ancora una volta, l’Etiopia viene punita come vittima innocente delle Nuove Guerre Fredde degli Stati Uniti con la Cina e ora la Russia per inviare una dichiarazione al resto dell’Africa che non dovrebbe osare continuare a praticare una politica estera indipendente nei confronti di quei due. Tuttavia, queste tattiche delinquenziali hanno già fallito una volta, quindi c’è un precedente per aspettarsi che falliscano di nuovo, ma è comunque importante accrescere la massima consapevolezza nel mondo del modus operandi dietro queste ultime provocazioni interconnesse, in particolare quella più recente relativa allo sfruttamento delle Nazioni Unite come copertura per il rifornimento del TPLF.

Costruire un insediamento duraturo per l’Ucraina, di Gilbert Doctorow Nicolai N. Petro

Sono lieto di annunciare la pubblicazione oggi su The National Interest, Washington, DC di un piano di pace preparato insieme al mio amico Nicolai Petro, professore di scienze politiche all’Università del Rhode Island.

Una soluzione duratura deve riconoscere che questo conflitto non si concluderà con il ritiro delle truppe russe.

L’attuale strategia occidentale in Ucraina non è favorevole alla pace perché non affronta alcuni aspetti essenziali dell’attuale conflitto. Non si occupa dei diritti dei russofoni in Ucraina e non affronta il fallimento trentennale nell’istituire un sistema di sicurezza paneuropeo che includa la Russia. Entrambi sono questioni di primaria importanza per la Russia . La relazione tra loro potrebbe non essere ovvia per molti in Occidente, ma per la Russia illustrano una mentalità di promozione degli interessi e dei valori occidentali a spese della Russia.

È proprio a causa di questa mentalità che l’Occidente è stato colto alla sprovvista quando la Russia ha improvvisamente preso l’iniziativa di affermare i propri interessi con mezzi militari. Ciò ha lasciato l’Occidente in imbarazzo, con poche opzioni appetibili. I suoi mezzi di coercizione preferiti – le sanzioni economiche – sono destinati a diventare sempre meno efficaci nel tempo, proprio come lo sono stati in altri paesi , che hanno sempre trovato validi sostituti per ridurre la dipendenza dall’Occidente. L’importanza della Russia nel fornire al mondo beni essenziali, come petrolio, gas, cereali e fertilizzanti, le conferisce ancora più peso economico.

Allo stesso tempo, l’isolamento politico che l’Occidente ha cercato di imporre, mentre ha un certo fascino per le pubbliche relazioni, limita ulteriormente la capacità dell’Occidente di convincere la Russia a cooperare su altre questioni di vitale importanza e costringe la Russia a nuove alleanze che essere invariabilmente anti-occidentale. Henry Kissinger ha recentemente affermato che istituzionalizzare tale animosità sarebbe storicamente senza precedenti e dovrebbe essere evitato a tutti i costi.

Nel frattempo, nonostante la retorica di Kiev, la guerra non ha avvicinato l’Ucraina alla risoluzione dei propri conflitti interni. L’aumento del fervore patriottico ucraino è abbastanza reale, ma spesso riflette le stesse disparità regionali che hanno diviso l’Ucraina dalla sua indipendenza. Non importa come finirà il conflitto militare, quindi, è probabile che riemergano vecchi risentimenti , con i russofoni ancora una volta accusati della loro presunta lealtà divisa. Come ha affermato di recente il famoso giornalista ucraino Mikhail Dubinyanski , “ci è voluto solo un momento perché le linee del fronte si stabilizzassero, perché il tradizionale odio interno riemergesse”.

Una soluzione duratura deve riconoscere che questo conflitto non si concluderà con il ritiro delle truppe russe. Un accordo, quindi, deve affrontare contemporaneamente tre aspetti vitali del conflitto, altrimenti non durerà. In primo luogo, la competizione tra Russia e Occidente per l’Ucraina, che chiaramente non finirà dopo la fine dei combattimenti. In secondo luogo, il conflitto tra le élite russe e ucraine sulle rispettive differenze nazionali e culturali , che si intensificherà solo dopo la guerra. Terzo, il conflitto tra la metà occidentale e quella orientale dell’Ucraina, che l’attuale entusiasmo patriottico ha temporaneamente mascherato.

La nostra proposta non cerca di porre fine a questi conflitti, che sono endemici, ma piuttosto di spostare la concorrenza dall’arena militare, con i suoi concomitanti pericoli di escalation, alle arene del benessere economico e del soft power. In sostanza, questo è il tipo di competizione che l’Occidente ha intrapreso con l’Unione Sovietica durante il periodo d’oro della distensione, dopo aver deciso che la coesistenza era preferibile alla distruzione reciprocamente assicurata.

In cambio della cessazione delle ostilità e del ritiro delle sue forze, la Russia sarebbe obbligata a non annettere le regioni che occupa attualmente e ad accettare di indire lì un referendum sullo status sotto la supervisione internazionale, tra dieci o vent’anni da oggi. L’Ucraina, da parte sua, accetterebbe la sua temporanea perdita di controllo su Novorossiya (le regioni di Donbass, Lugansk, Zaporozhye, Kherson e Nikolayev), a condizione che il loro status sarà in definitiva determinato dall’esito del referendum.

Inoltre, la NATO si sarebbe formalmente impegnata a non considerare l’Ucraina per l’adesione. In ossequio all’Ucraina, tuttavia, non ci sarebbe alcuna promessa formale di neutralità ucraina. Ciò consentirebbe all’Ucraina di ricevere un’ampia varietà di assistenza e addestramento militare difensivo da altri paesi, a corto di basi straniere permanenti e sistemi d’arma in grado di colpire il territorio russo. Le preoccupazioni per la sicurezza dell’Ucraina sarebbero ulteriormente attenuate da un impegno formale della Russia a non obiettare all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea (UE), aprendo le porte all’assistenza pluriennale con investimenti e riforme che l’Ucraina avrà un disperato bisogno di riprendersi.

La sicurezza russa, nel frattempo, sarebbe rafforzata dal riconoscimento internazionale della Novorossiya (potrebbero essere applicati alcuni dei meccanismi utilizzati per disinnescare la disputa sul Territorio Libero di Trieste e Saarland ). Una zona smilitarizzata su entrambi i lati del confine russo-ucraino potrebbe essere creata e la sicurezza ulteriormente rafforzata dall’impegno di diversi stati chiave a garantire i confini sia dell’Ucraina che della Novorossiya.

Edulcoranti per l’Ucraina

Uno stato ucraino in grado di portare avanti l’ agenda nazionalista post-2014. Per ottenere garanzie di sicurezza occidentali, la Russia dovrà rinunciare al suo obiettivo di denazificare completamente l’Ucraina.

La ferma prospettiva di un’adesione all’UE nel prossimo futuro. La Russia può trarre un po’ di conforto, tuttavia, dal fatto che il regime che verrà costruito in Ucraina sarà poi il mal di testa dell’Europa ( come alcuni stanno cominciando a capire ).

Aiuti pluriennali e assistenza armamenti difensivi per l’Ucraina.

La possibilità che le regioni ora perse possano eventualmente ricongiungersi all’Ucraina se Kiev fornisce loro motivi allettanti per farlo. Ciò, ovviamente, dipenderà dalle politiche che Kiev adotterà nei confronti di quelle regioni, ma le autorità ucraine avranno la maggior parte dei due decenni e una significativa assistenza occidentale per sostenere la loro tesi.

Edulcoranti per la Russia

La perdita del territorio ucraino: la Crimea in modo permanente, Novorossiya forse solo temporaneamente.

Nessuna adesione alla NATO per l’Ucraina .

Le sanzioni occidentali sono state revocate a Russia, Bielorussia e Novorossiya. Si può ragionevolmente presumere che le regioni all’interno di Novorossiya saranno più naturalmente attratte dalla Russia. L’UE non dovrebbe quindi ripetere l’errore commesso nel 2013 di costringere gli ucraini a scegliere tra l’integrazione economica europea ed eurasiatica. Questa volta, si dovrebbe fare di tutto per creare una zona di libero scambio che incoraggi queste regioni a diventare un ponte vitale che collega entrambe.

Infine, c’è la possibilità che Novorossiya alla fine scelga di unirsi alla Russia, se dovesse rivelarsi più attraente e di successo dell’Ucraina. Senza dubbio, l’Occidente farà tutto ciò che è in suo potere nei prossimi dieci o vent’anni per assicurarsi che non sia così.

L’Occidente dovrebbe accogliere con favore un simile spostamento del fulcro della concorrenza poiché considera il successo economico e il soft power come aree di forza tradizionale. Anche la Russia dovrebbe accoglierlo con favore, poiché sostiene che in fondo russi e ucraini condividono un legame culturale e spirituale che va molto più profondo dell’economia. Questa sarebbe un’occasione per provare o smentire questa argomentazione. Anche i nazionalisti ucraini dovrebbero accoglierlo con favore poiché darebbe loro due decenni in cui costruire un’ampia base di sostegno all’interno dell’Ucraina per la loro opinione che russi e ucraini non hanno nulla in comune e per propagare questo punto di vista attraverso legami culturali ed esportazioni in Novorossiya. Inoltre, potranno farlo in una popolazione ucraina molto più omogenea, con la benedizione e il sostegno finanziario dell’Occidente.

Infine, c’è il non trascurabile vantaggio in termini di sicurezza che l’Europa e il mondo trarrebbero dalla creazione di un quadro in cui la Russia e l’Occidente possono competere in modi che sarebbero potenzialmente reciprocamente vantaggiosi, piuttosto che sicuramente reciprocamente distruttivi.

Si obietterà che un simile accordo premia l’aggressione russa. In un mondo imperfetto, tuttavia, la moralità di punire la Russia (senza, badate bene, assicurarne il ritiro) deve essere soppesata rispetto alla moralità di permettere ulteriori sofferenze in Ucraina, soprattutto quando l’alternativa non solo ferma lo spargimento di sangue, ma offre anche un meccanismo per cui , in condizioni più favorevoli, l’Ucraina potrebbe potenzialmente riconquistare i suoi territori. Il tempo, tuttavia, è essenziale. Più lunghi sono i negoziati di accordo ritardati, più territorio è probabile che l’Ucraina perderà a favore di Novorossiya.

Un’altra probabile obiezione sarà senza dubbio che non ci si può mai fidare che i funzionari russi mantengano la parola data. Coloro che la pensano in questo modo hanno un’obiezione già pronta a qualsiasi forma di negoziato, e non solo con la Russia. L’unica cosa che vorremmo sottolineare è che ponendo lo status referendum ben lontano nel futuro, i mezzi per la sua attuazione non saranno negoziati da coloro che hanno scatenato questa guerra, ma da una leadership russa post-Putin. Il tipo di relazione che avremo con quei futuri leader russi è ancora nelle mani dell’Occidente da determinare.

Gilbert Doctorow ha completato un dottorato di ricerca. nella storia russa alla Columbia, seguita da una carriera di 25 anni nel mondo degli affari internazionali incentrata sull’URSS/Russia. Le sue Memorie di un russo in due volumi , pubblicate nel 2021-22, sono state ristampate in traduzione a San Pietroburgo.

Nicolai N. Petro è Professore di Scienze Politiche all’Università di Rhode Island (USA). Durante il crollo dell’Unione Sovietica ha servito come assistente speciale per la politica presso l’Ufficio per gli affari dell’Unione Sovietica presso il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. È stato Fulbright Scholar statunitense in Ucraina nel 2013-2014 ed è l’autore del prossimo libro, The Tragedy of Ukraine .

https://nationalinterest.org/feature/building-lasting-settlement-ukraine-202920

Il sindacalismo compassionevole, di Giuseppe Germinario

Il testo prende spunto da un incontro pubblico del Partito Democratico tenutosi il 7 giugno a Rovereto dal titolo “il lavoro che cambia”. È appunto prevalentemente un’occasione per introdurre un tema, visti il carattere locale dell’iniziativa, ma anche, come appena accennato nel convegno, la relativa originalità, per alcuni aspetti in controtendenza con le linee generali, delle politiche industriali propugnate ed adottate convintamente per altro per iniziativa di una parte specifica, la più dinamica, di quel gruppo dirigente piddino; con un atteggiamento, al contrario, però significativamente passivo della influente componente sindacale, rivelatasi avulsa dal contesto. Un retaggio, quest’ultimo, endemico nel sindacalismo trentino, ma che ha pervaso progressivamente la matrice culturale del sindacalismo nazionale e della sinistra comunista e progressista.

La vulgata prevalente nel dibattito di questi decenni, compresi gli ultimi epigoni attuali, sulle politiche economiche e sul ruolo del sindacato, vedeva nell’avvento e nel protagonismo politico dell’operaio-massa la condizione e il veicolo di maggiore potenza e forza del sindacato, nonché della sua brillante capacità di elaborazione politica manifestatasi in tutto il suo splendore tra gli anni ‘60 e ‘70. Quella enorme pressione, dalle caratteristiche radicali, contribuì a determinare sicuramente in termini positivi alcune dinamiche della vita sindacale:

  • il ruolo dialettico e biunivoco che si instaurò tra i diversi livelli di contrattazione, da quella aziendale, a quella articolata, di categoria ed infine interconfederale. Superando in questo il carattere antitetico di questi livelli così come interpretato nel dibattito sindacale negli anni ‘50 e personificato dal duro confronto tra CGIL e CISL in quella fase.

  • L’estensione del concetto di rappresentanza da quello dell’iscritto alla totalità delle categorie dei dipendenti, pur tra le mille ambiguità legate ad un rapporto mai del tutto definito e compiuto tra le rappresentanze di base aziendali e il vertice sindacale espressione delle tre sigle confederali.

Paradossalmente ne segnò la fase crepuscolare e l’avvio di un lento e malinconico declino, via via sempre più evidente e incontestabile.

La vera spina dorsale che consentì quel poderoso sviluppo e soprattutto, per una breve fase, il momento di maggiore capacità di elaborazione del movimento erano invece altre figure rimaste sempre più nell’ombra della narrazione: l’operaio e più in generale le figure professionalizzate da una parte, i quadri e tecnici dall’altra, pur se per un breve periodo.

Fu quello il momento durante il quale il gruppo dirigente sindacale unitario e parallelamente la dirigenza del PCI da una parte, ma anche il prevalente senso comune interno a quei movimenti dall’altra, tentarono di realizzare concretamente la pretesa di rappresentanza dell’intero movimento operaio e con esso la pretesa di egemonia culturale e programmatica sull’intera società.

Un tentativo e un’ambizione dalle gambe corte, esauritisi entrambi rapidamente in pochi anni nel loro velleitarismo, pur con significativi successi sulla condizione lavorativa e nell’ambito delle prestazioni sociali.

Quella ambizione poggiava infatti su un assunto teorico errato ed insufficiente a collocare correttamente le figure sociali coinvolte nello scontro politico: individuava nella lotta di classe tra sfruttati e sfruttatori il motore della storia e nel conflitto tra i rentier, gli azionisti e la finanza parassitari da una parte e i produttori dall’altra, i soggetti portatori del conflitto e dell’esercizio del potere.

Un assunto che offriva una versione riduttiva della potente dinamica del conflitto, già di per sé economicista, offerta da Marx nel Capitale. Esso impediva di individuare la funzione strategica e positiva di queste figure nel ruolo e nella gestione delle imprese, viste come luogo di perseguimento di strategie, piuttosto che luoghi di mera estrazione di profitto. Il veicolo di sviluppo dinamico del modo di produzione capitalistico. Attribuendo loro la funzione di controllo e dominio di ultima istanza delle dinamiche politiche di esercizio del potere, impediva in realtà di individuare la loro appartenenza a vario titolo e peso decisionale nei centri decisori politici in conflitto e cooperazione tra di essi nonché la capacità egemonica propositiva di questi nelle formazioni sociali. Un assunto che d’altro canto produceva una etica del lavoro e un legame forte ed compiaciuto con l’impresa che comunque creava le condizioni per un rapporto conflittuale, ma inscindibile, con la controparte.

Pur con questi peccati di origine, esplose quindi la stagione del “nuovo modello di sviluppo”, delle “riforme di struttura” risoltasi in generale in una giostra parolaia sul modello economico, ma con alcune serie proposte di riorganizzazione, come il “piano intermodale dei trasporti” di Libertini e con alcune conquiste sostanziali dello stato sociale, come la riforma delle pensioni e del sistema sanitario, pur con il retaggio di disastrose pratiche clientelari e corporative delle quali stiamo pagando il prezzo pesante ancora oggi.

All’interno delle fabbriche e nelle unità produttive quel nocciolo duro impose tematiche inedite sia in assoluto che nei contenuti proposti e oggetto di contrattazione. L’organizzazione del lavoro, la salute, la perequazione salariale con l’assorbimento in busta paga delle voci ad personam e l’inquadramento unico rappresentarono nella fase matura il tentativo di superamento delle mere condizioni di “fatica” e di sperequazione individuale dei trattamenti per giungere a modalità di controllo dell’organizzazione del lavoro, di ricomposizione delle mansioni. Fu un fiorire di letteratura sull’argomento che ebbe in Braverman il capostipite di un gruppo di intellettuali in grado di fornire chiavi di interpretazione ed analisi a supporto dell’impegno sindacale. L’inquadramento unico, nei decenni successivi, fu incriminato per la sua funzione di appiattimento dei livelli salariali e di inquadramento professionale. Era invece, nella impostazione originaria, un serio tentativo di far corrispondere le qualifiche alle reali competenze professionali. Di intrecciare, adottando il criterio della complessità delle competenze, l’inquadramento impiegatizio con quello operaio e di regolare a questo una adeguata differenziazione salariale e mobilità professionale. Fu il radicalismo egualitario affermatosi inizialmente nelle catene di montaggio e preso a modello in altri ambiti, insieme ad altri fattori esogeni, a sovvertire quelle impostazioni e a creare le condizioni paradossali di una aspirazione all’eguaglianza che riaprì la strada alle fratture interne al movimento operaio, al riavvicinamento di parte di esso, quella più qualificata o con responsabilità, alle vecchie sirene e ad un impoverimento evidente del sindacato e del suo gruppo dirigente. Se nell’ambito operaio il conflitto si risolse praticamente negli anni ‘80, la dinamica egualitaria proseguì per almeno un ventennio nell’ambito del pubblico impiego. Le istanze di contrattualizzazione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego, culminate con la legge quadro del pubblico impiego, intendeva a ragione metter fine alla regolazione delle retribuzioni e del rapporto di lavoro per via di leggi e leggine. Intendeva trasformare la funzione del sindacato del pubblico impiego stesso, sino ad allora impegnato nella cura di interessi e problemi individuali e nel rincorrere la benevolenza dei politici disposti a promuovere leggi e leggine ad hoc. Ad una formalizzazione comunque necessaria di un rapporto di lavoro contrattuale corrispose una politica sindacale sensibile alla difesa di settori specifici del pubblico impiego meglio rappresentati nelle varie sigle, piuttosto che una regolazione del rapporto corrispondente all’organizzazione del lavoro in corso o ipotizzata. Da qui nacquero veri e propri obbrobri come il primo contratto privatistico dei postelegrafonici che prevedeva l’inquadramento del 80% del personale in un’unica categoria, cui si cominciò a porre rimedio flebilmente solo dopo il 2000.

Un indirizzo consolidato che più che contrastare sembra subire ed assecondare le dinamiche salariali imposte dalle aziende, frutto allo stesso tempo di una cultura imprenditoriale prevalente sopravvissuta agli anni ‘50, di un degrado costante della struttura economica e della posizione delle imprese italiane nelle catene di valore e nelle filiere e di una arretratezza tecnologica crescente solo in parte compensata, in ambiti per altro circoscritti, certamente non nell’ambito strategico della rilevazione e della manipolazione dei dati.

Tutte dinamiche che stanno producendo la sottoretribuzione delle prestazioni qualificate, l’esodo ormai ultradecennale della manodopera più qualificata, compresa quella extracomunitaria, dall’Italia, la diffusione del lavoro nero, precario e sottopagato.

Negli ultimi mesi il tema dei bassi salari sembra aver suscitato nuovo interesse sino a rendere possibili interventi legislativi.

Ancora una volta, però, viene impostato solo nei termini di una rivalutazione del minimo salariale in analogia a quanto operato con le pensioni; ancora una volta, quindi, si rischia di approfondire la dinamica di appiattimento dei salari a dispetto dei peana in nome della formazione permanente, del merito e di tutta la retorica annessa che ha angustiato periodicamente la platea.

Siamo alla nemesi. Quella che era una istanza della componente più radicale e sterile del movimento sindacale è diventato il principio guida di quel conservatorismo compassionevole, coniato negli ambienti neocon e democratici americani, ma dalle solide radici ormai anche nel movimento progressista e sindacale italiano ed europeo.

Una dirigenza all’altezza dei tempi, consapevole della situazione e intenzionata a recuperare il meglio della tradizione e dell’anima confederale del sindacato dovrebbe fare almeno qualche sforzo e recuperare l’attitudine ad inserire le proprie politiche sindacali in un contesto più ampio e dare risposte realistiche ad almeno alcune domande di fondo:

  • piuttosto che indugiare sul dilemma fine/proseguimento della globalizzazione con una opzione prevalente, come per altro emerso pallidamente anche nella riunione di Rovereto, sul proseguimento dovrebbe riflettere piuttosto sulle modifiche del processo di globalizzazione in un contesto multipolare; sul fatto che si vorrebbe che le dinamiche geopolitiche siano governate tutt’al più da due potenze egemoni, gli Stati Uniti in posizione dominante e la Cina, in grado di delimitare le proprie sfere di influenza, i terreni di scontro e le modalità di relazione tra di esse, compreso l’ambito economico. Gli unici due attori, quindi, titolati a trattare seriamente. Il ruolo della Unione Europea e dei singoli stati europei diventa, a meno di un sussulto, quello che è ormai sempre più evidente: di puro e semplice gregario destinato a subire i contraccolpi più duri e destabilizzanti. La postura del Governo Draghi deve essere necessariamente quella di assecondare le pulsioni della componente più oltranzista dell’amministrazione americana o deve essere quella di agire, almeno con Francia e Germania, sulle contraddizioni lì presenti per puntare ad un compromesso accettabile per i due contendenti del conflitto ucraino e tentare di ripristinare i rapporti con la Russia?

  • l’Unione Europea soffre semplicemente di una carenza di integrazione, di una carenza di risorse disponibili da investire oppure è uno strumento costruito per inibire le capacità industriali locali, favorire il drenaggio finanziario ed alimentare quella polarizzazione e quegli squilibri che il lirismo europeista tende invece a rivendicare come fine? A differenza che negli altri paesi, compresi gli Stati Uniti, in Italia manca un dibattito ed una analisi seria sul modello di mercato e concorrenza posto in questi decenni, sulla funzione dei fondi strutturali, sull’assenza di governo dei processi di creazione di realtà imprenditoriali di dimensioni e capacità adeguate. La gestione europea della crisi pandemica si è risolta nell’affidamento ad un paio di multinazionali americane la fornitura di vaccini, inibendo ulteriormente di fatto la ricerca europea; la campagna di conversione ecologica, condotta in maniera dogmatica, rischia di creare dissesti irrecuperabili e dipendenza tecnologica cronica. È un problema di accelerazione e di effettiva realizzazione o piuttosto di revisione strategica radicale di questi programmi? Quanto al PNRR sarà opportuno parlarne quando inizieranno ad emergere i reali limiti e condizionamenti, visto il tabù imperante imposto dalla retorica vigente

  • è ancora ritenuto così irrilevante il presidio italiano almeno delle aziende strategiche ed importanti, almeno di quello che è rimasto, oppure l’unica preoccupazione deve rimanere quella di bloccare l’influenza cinese?

  • Cosa significa regolare i flussi immigratori?

Il fatto che si voglia concentrare l’impegno sindacale su due aspetti ormai drammatici e diffusi come il rapporto di lavoro precario e clandestino e la tutela dei salari più bassi, sui deboli, come si usa oggi con il linguaggio compassionale, potrebbe sembrare la scelta obbligata.

Certamente lodevole nelle intenzioni, ma sterile nei fatti. Senza il coinvolgimento e il protagonismo di soggetti forti difficilmente un movimento realmente radicale e riformatore riesce ad essere determinante.

Trattandosi di ambienti esposti e polverizzati, il miglioramento consolidato delle loro posizioni deve necessariamente passare per il sostegno politico e per l’azione normativa e fattuale dei partiti e dei governi e per la capacità di pressione ed interlocuzione autorevole della dirigenza sindacale con essi.

Non pare che l’insieme della dirigenza sindacale brilli di autonomia di giudizio e di analisi politica.

Una condizione del tutto inverosimile oggi tale da far scivolare il movimento sindacale in una condizione di puro e semplice collateralismo non solo con gli ambienti confindustriali, ma ancor più con quelli governativi, come reso evidente dal recente congresso della CISL; in alternativa in un impegno testimoniale buono tutt’al più ad introdurre qualche variazione normativa del tutto illusoria e insufficiente a risolvere problemi ormai incancreniti praticamente dall’unità d’Italia senza una politica che risponda ai tre quesiti posti.

La dirigenza sindacale deve quindi risolvere il problema del rapporto con queste figure forti, sia quelle presenti nel lavoro dipendente, sia quelle professionali autonome. Tra queste ultime vi è un intero mondo, peculiare dell’Italia per ragioni legate alla polverizzazione delle aziende, altamente professionalizzato, legato direttamente al mondo produttivo, non organizzato rigidamente in ordini professionali da esplorare piuttosto che da esorcizzare e stigmatizzare con l’eterna tiritera dell’evasione fiscale. Un mondo cui offrire sostegno politico per iniziative di forniture di servizi agevolati e pratiche consortili tali da rafforzare la loro posizione contrattuale.

Cinquanta anni fa élites sindacali ed élites dei partiti si contendevano questa ambizione; oggi nessuna delle due appare in grado quantomeno di cogliere l’opportunità.

È il tempo infinito delle attese.

“Ce lo deve dire l’Europa”; ce lo deve suggerire qualcuno da Washington. Ma dubito che ne abbiano l’interesse. Intanto nell’oblio, il paese va alla deriva sotto un podestà straniero con il plauso di tutti.

Ucraina, il conflitto_7a puntata_Con Max Bonelli

Siamo alla 7a puntata. Il divario di forze tra i due contendenti tende ad allargarsi drammaticamente, non ostante il sostegno del mondo occidentale. L’avanzata dell’esercito russo e delle milizie locali prosegue lentamente, ma inesorabilmente e il regime ucraino rischia ogni giorno di più di cadere vittima della propria propaganda e delle proprie menzogne. Un altro dato, da noi continuamente sottolineato, inizia ad emergere chiaramente: il carattere di guerra civile di questo scontro e con esso le atrocità e le mistificazioni che solitamente accompagnano questo tipo di conflitto. Da qui alla individuazione delle responsabilità pesanti del regime ucraino, il passo sarà breve e con essa il ruolo assunto dagli Stati Uniti quanto meno in questo ultimo decennio. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v17zv1p-ucraina-il-conflitto-7a-puntata-con-max-bonelli.html

 

SERVILITÁ, di Teodoro Klitsche de la Grange

SERVILITÁ

Da quanto si legge sulla stampa il Ministero degli esteri russo avrebbe tacciato il comportamento italiano nella guerra russo-ucraina “servile e miope” e che dimostrerebbe “anche l’a-moralità” di alcuni rappresentanti delle autorità pubbliche e dei media italiani. In risposta – si legge in un comunicato – la Farnesina “ha respinto con fermezza le accuse di amoralità di alcuni rappresentanti delle istituzioni e dei media italiani, espresse in recenti dichiarazioni del Ministero degli Esteri russo…” Ad aver attirato quasi universalmente l’attenzione è stata quell’ “amoralità”; a mio avviso avrebbe dovuto esserlo quel “servile”. E spiego il perché.

Non so se al Ministero degli esteri russo conoscono il discorso di V.E. Orlando alla Costituente, perorante il rifiuto della ratifica del trattato di pace tra Italia e vincitori della seconda guerra mondiale. Probabilmente lo conoscono, perché tra i vincitori c’era anche l’U.R.S.S.; e Orlando – Presidente della vittoria – era un personaggio da non passare inosservato. Quel discorso terminava con una profezia: “Questi sono voti di cui si risponde dinanzi alle generazioni future: si risponde nei secoli di queste abiezioni fatte per cupidigia di servilità”.

Sempre nello stesso discorso, ben conoscendo i difetti nazionali, Orlando sosteneva che malgrado grandi personaggi francesi avessero collaborato con i nazisti, come i fascisti repubblichini, la differenza era che noi dovevamo essere rieducati alla libertà e alla democrazia, i francesi no, perché la “vera superiorità della Francia su di noi può riconoscersi nella fierezza dei suoi rappresentanti” (peccato che Letta non l’abbia assimilata). E quanto alla nostra esterofilia (coniugata ad un “complesso di colpa”): “nei rapporti con l’estero noi ci dobbiamo sempre precipitare; noi sentiamo sempre l’urgente bisogno di dar prova al mondo che siamo dei ragazzi traviati”. Anche questo difetto ricorrente è inestinguibile: vi contribuisce un fondo di (parziale) verità. Le classi dirigenti nostrane non sono all’altezza di quelle estere, dedicandosi con eccessivo zelo al proprio particulare piuttosto che all’interesse generale quasi fossero dei privati. E hanno quindi la convenienza ad addebitare al popolo italiano un difetto che grava maggiormente sulle élite.

Il fatto che il governo russo stigmatizzi il servilismo italiano è un’ulteriore conferma della differenza della profondità di vista tra statisti, come Orlando, e non: i primi vedono a lungo termine, i secondi solo a breve (o brevissimo). A più di settant’anni dalla sconfitta non riusciamo a scuotercene di dosso le conseguenze. Perfino la Germania con le enormi responsabilità di Hitler, è riuscita (e riesce) a non appiattirsi sugli U.S.A. Quando Busch jr iniziò la seconda guerra irachena (finita come sappiamo) i tedeschi (e i francesi) gli risposero di accomodarsi da solo. L’Italia si mise sull’attenti e fornì le proprie truppe (e il loro sangue – Nassiria): gli ascari della NATO. Inoltre quando i governanti esternano e praticano la dipendenza dall’estero (i “compiti a casa”) se la cavano senza danni; laddove hanno un soprassalto d’indipendenza (v. Craxi e Andreotti a Sigonella) finiscono in esilio o sotto processo, comunque senza potere perché giudicati poco sottomessi a quelli “forti” (spesso tali solo per la debolezza loro). Attitudine sottomessa confermata anche nella guerra russo-ucraina e oggetto della (facile) ironia di Mosca, come della profondità della previsione di Orlando.

Ma quand’è che un comportamento diventa “servile”, ossia qual è per così dire il “criterio della servilità” (almeno il principale)?

E qua bisogna andare ad un concetto – e ad una conseguente distinzione – che pur risalente (almeno) a S. Tommaso “La legge è un ordinamento di ragione volto al bene comune, promulgata da chi abbia la cura della comunità”, preferiamo riportare da Jean Bodin. Questi ritiene che “Per Stato si intende il governo giusto che si esercita con potere sovrano su diverse famiglie e su tutto ciò che esse hanno in comune”, governo che dev’essere ordinato al bene comune; concetto che, evolvendosi nella secolarizzazione dei secoli successivi, ha cambiato nome (ma meno i connotati) diventando l’interesse generale, s’intende dei cittadini.

Notare che Bodin insiste (ripetutamente sul fatto che il sovrano “non deve essere in alcun modo soggetto al comando altrui, e deve poter dare la legge ai sudditi…Il principe o il duca, infatti… non è sovrano se a sua volta la riceve da un superiore o da un uguale (…); ancor meno poi si può dire sovrano se non ha il potere altro che in qualità di vicario, luogotenente o reggente…”.

Ciò stante il dovere del governante è di fare l’interesse generale: se fa quello di altri, compreso il proprio, a scapito di quello generale, non solo fa male, ma distorce la condizione perché possa esercitare il potere di fare l’interesse di tutti: la propria indipendenza; che è il carattere principale della sovranità.

E infatti l’Italia, come gran parte del pianeta, è a sovranità limitata. Che significa servilità assicurata.

Teodoro Klitsche de la Grange

DONBASS GAME-OVER, MA TRATTATIVE ANCORA FERME, di Marco Giuliani

DONBASS GAME-OVER, MA TRATTATIVE ANCORA FERME

Quarto mese di guerra: i russi avanzano. Ciò nonostante, Russia, Nato e Ue non trattano

Caduta Mariupol, si può dire che Mosca controlli oramai quasi tutto il Donbass; evidentemente, però, per lo stop alle armi, ci vorrà tempo. O quanto meno, le parti, a cominciare dalla Nato del falco Stoltemberg (e di chi fa le veci di Zelensky), non trattano ancora la beneaugurata tregua. Perché gli alleati atlantici sembrano essere il primo soggetto giuridico a voler procrastinare (sulla pelle degli ucraini) il raggiungimento di una pace duratura? Esaminiamo alcuni dati.

Innanzitutto, per stessa ammissione di Kiev, le cose si stanno mettendo molto male. La resa dei neonazisti dell’Azov ha accelerato un processo che di giorno in giorno è apparso lento, ma irreversibile; lo ha riconosciuto alcuni giorni fa proprio Zelensky, il quale, stavolta si, sembrava aver preso atto realisticamente che occorresse giungere a dei colloqui seri, e magari non eterodiretti, come sono stati e continuano a essere per gran parte. Suddetta “apertura” si è purtroppo infranta contro quello che è sembrato a tutti gli effetti un veto incrociato Nato-UE, tanto che il premier ucraino, a distanza di poche ore, ha di nuovo parlato di “futura vittoria” smentendo sé stesso e affermando principi non percorribili, ancorché vecchi di tre mesi. Detto e ribadito, anche per bocca di personaggi non certo noti per essere dei filo-putiniani – vedi Bloomberg e Parmelin, ministro dell’Economia elvetico – che le sanzioni non stanno avendo l’effetto che Washington e Bruxelles desideravano, ora succede che aumenta il traffico indiscriminato di armi verso Kiev senza una tracciabilità e senza uno straccio di riscontro che le stesse armi approdino presso l’esercito gialloblù (o di quello che ne è rimasto). È per questo che di fronte alla mattanza di soldati e civili, Zelensky, intestardendosi su una presunta liberazione dei territori russofoni a Sud, appare sempre più una pedina mossa dal giogo anglo-americano.

Con la guerra non si scherza. In una condizione del genere, è opportuno ripensare alla scarsa sensibilizzazione mostrata in passato dalla comunità europea rispetto al problema delle minoranze in territorio ucraino, alle quali, nella migliore delle ipotesi, sono stati tolti una serie di diritti fondamentali e nella peggiore sono state bombardate. Non va dimenticato inoltre nel referendum del 1991, dissolta l’URSS, il 20% degli ucraini, corrispondente a circa 8 milioni di elettori, si pronunciò a favore dell’inglobamento amministrativo nella nuova Russia guidata da Boris Eltsin. In un contesto simile, come non tener conto delle comunità ucrainofone filorusse che dal 2014 sono vessate perché culturalmente diverse? Allo stesso modo, tutti coloro che da più di trent’anni hanno la cittadinanza russa (circa un milione di persone) non possono continuare a essere oggetto di discriminazione. Ne va che Unione Europea e comunità occidentale si sono spesso voltate dall’altra parte.

Detto che Mosca martella ormai sistematicamente Kharkiv e Donetsk e sta puntando su Sloviansk (dove il cerchio si chiuderà), cosa impedisce ancora l’allestimento di un tavolo per trovare accordi ed evitare altre migliaia di vittime? Cosa c’è dietro il rifiuto dei belligeranti e dei cobelligeranti? I miliardi che muove l’industria militare, oppure un forte interesse perché la Russia venga fiaccata in modo tale da ottenere un nuovo ordine geopolitico ed economico mondiale? Un ritorno alla vocazione imperialista post-sovietica? Ogni ipotesi o congettura sono possibili, come è possibile che tutto cambi perché nulla cambi. Ma, repetita iuvant: come può un capo di Stato accettare di sacrificare la sua popolazione e trasformarla in cavia per difendere le libertà europee o il principio di democrazia in senso astratto? Premesso che il governo ucraino di liberal-democratico ha sempre avuto ben poco, è proprio quest’ultima considerazione, giusta o sbagliata, che suscita fortissimi dubbi. Fermo restando che agli occhi dell’opinione pubblica internazionale – eccetto forse Di Maio – Kiev non appare più credibile, è il caso che la comunità internazionale cominci a riflettere se sia il caso di riconoscere le repubbliche russofone meridionali, almeno come entità autonome. Solo così si aprirà uno spiraglio.

 

MG

 

 

 

BIBLIOGRAFIA & SITOGRAFIA

Blick, quotidiano svizzero, intervista a Guy Parmelin del 05/06/2022 –

Il sole 24 ore del 22/02/2022 –

Limes, mappa geografica politica dell’Ucraina (compreso il fronte di guerra) –

notiziegeopolitiche.net

Televideo Rai del 04 e 05/06/2022, pp. 150 e 180 –

 

1 189 190 191 192 193 383