Italia e il Mediterraneo! Una lezione di realismo politico di Antonio de Martini

Grecia, Turchia, Maghreb, Francia, Balcani, Libano. Con l’avanzare del multipolarismo e degli attori attivi si accavallano gli eventi con cadenze sempre più frenetiche. La fedeltà remissiva ai sistemi di alleanza non offrono più il comodo rifugio per adagiarsi su decisioni altrui. Per l’Italia l’aggressione della Libia è stato il primo più evidente campanello di allarme; altri segnali erano già partiti con l’aggressione alla Serbia, più di venti anni fa. E’ tempo, per le nostre classi dirigenti, di definire le priorità di azione e l’area entro la quale tessere un sistema privilegiato di relazioni. Apparentemente qualcosa comincia a muoversi. E’ prossimo alla firma il trattato con la Francia; ci si è accorti della crisi e degli spazi aperti nel Maghreb andando a sondare il terreno in Algeria; abbiamo riscoperto l’Albania. Non è detto però che si tratti di una rivendicazione di autonomia sul terreno della diplomazia. Dal contenuto degli accordi e dei colloqui si coglierà il discrimine su una postura più autonoma o da semplici emissari. Le tentazioni di definitiva normalizzazione atlantica nei Balcani e le voci sul contenuto del trattato con la Francia lasciano presagire poco di buono; non ci resta che confidare nella incoerenza delle condotte effettive. Una lezione di realismo politico interessante e maliziosa offerta da Antonio de Martini. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Il caso Oto/WASS e “l’anomalia” italiana nell’industria della Difesa

Qui sotto un articolo tratto dal sito https://www.analisidifesa.it/  Il Governo Draghi deve seguire il solco del PNRR, una delle sue ragioni essenziali di esistenza. Di Draghi, della sua caratteristica di funzionario, piuttosto che di leader politico e capo del governo, abbiamo discettato frequentemente su questo sito. L’azione politica è però fatta di singoli eventi chiarificatori. Il trattato internazionale prossimo venturo con la Francia e il possibile accordo industriale OTO/WASS  di cui all’articolo in calce faranno più luce sulla missione e sull’investitura dell’attuale Presidente del Consiglio. Del primo, a pochi giorni dalla firma, non si conoscono termini e linee generali; sul secondo non mancano le riserve, tanto più che la cessione della tecnologia hardware legata all’artiglieria navale, pur secondaria in ordine di importanza rispetto all’elettronica e al software, ambito nel quale le aziende italiane primeggiano, comporta delle implicazioni sul settore siderurgico già traballante e sulla sicurezza nelle forniture in mancanza di strategie comuni, non confliggenti, tra i paesi implicati. Un problema per altro già sorto, anche se non evidenziato dalla stampa, nei rapporti di cooperazione militare e tecnologica tra Germania e Francia. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Il caso Oto/WASS e “l’anomalia” italiana nell’industria della Difesa

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E’ bufera sulla cessione da parte di Leonardo della ex Oto Melara, storico produttore di cannoni navali e mezzi blindati e corazzati, e la ex WASS, società di punta nella realizzazione di siluri, equipaggiamenti e droni subacquei, dopo che è stata ufficializzata un’offerta di acquisto da parte del consorzio franco-tedesco KNDS.

Il colosso europeo nel settore degli armamenti terrestri che unisce KMW e Nexter, ha presentato a Leonardo un’offerta che si inserisce nei negoziati che da qualche settimana si susseguono tra Leonardo e Fincantieri, evidenziando il bivio strategico e industriale davanti a cui si trova l’Italia.

La notizia dell’offerta franco-tedesca, da tempo a conoscenza degli addetti ai lavori, pone il Governo Draghi davanti a una scelta che avrà ripercussioni rilevanti sull’industria della Difesa nazionale e al tempo stesso definirà le reali linee guide dell’esecutivo in termini di sovranità nazionale e di tutela del ruolo dell’Italia in Europa.

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Legittima la volontà di Leonardo, azienda pubblica, di cedere le attività e gli stabilimenti ex Oto Melara di La Spezia e Brescia ed ex Whitehead Sistemi Subacquei (WASS) di Livorno, dal 2016 confluite nella Divisione Sistemi di Difesa di Leonardo.

Il gruppo di Piazza Montegrappa vorrebbe cedere le attività per rafforzarsi in Europa nel settore dell’elettronica puntando a incassare dalla vendita i 600 milioni necessari all’acquisto del 25 per cento delle azioni dell’azienda tedesca Hensoldt.

Fincantieri, azienda anch’essa a controllo pubblico e leader mondiale nella produzione di navi da crociera e militari (ma attiva anche in numerosi altri settori militari e civili), si è offerta di rilevare le attività che Leonardo intende cedere anche se per alcune settimane sono circolate voci di una difficile intesa tra le due società italiane proprio sul prezzo. Nei giorni scorsi sono circolate sui quotidiani indiscrezioni che valutano l’’offerta di KNDS addirittura tripla di quella di Fincantieri: ipotesi che fonti ben informate sentite da Analisi Difesa hanno smentito.

La differenza sembra confermata tra le due offerte ma sarebbe di circa 100 milioni o poco più per un affare dal valore compreso tra 500 e 650 milioni di euro.

La vera anomalia, tutta italiana, è che un’operazione di cessione di attività e stabilimenti che coinvolge due aziende di Stato operanti in un settore così delicato non venga gestita direttamente, preventivamente e senza troppi clamori fino alla conclusione dell’accordo dal governo che di fatto è l’azionista di maggioranza di entrambi i gruppi.

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Si presume che la volontà di Leonardo di dismettere alcuni rami di attività (anche DRS negli Stati Uniti) per rafforzarsi in altri sia nota e condivisa dall’esecutivo così come l’opportunità di potenziare Fincantieri che con Oto Melara e WASS si rafforzerebbe sensibilmente nel settore navale entrando in quello degli armamenti terrestri e munizionamento avanzato.

Inoltre dovremmo considerare quanto meno auspicabile la volontà del governo di mantenere la proprietà italiana e pubblica degli stabilimenti e delle capacità delle due aziende. Mantenere all’interno del perimetro industriale nazionale aziende leader come OTO e WASS significa infatti salvaguardare nel tempo capacità produttive, posti di lavoro e competitività sui mercati.

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Per queste ragioni il dibattito sull’offerta straniera e sul “chi offre di più” risulta anomalo e poteva tranquillamente venire evitato gestendo nei ministeri appropriati l’intera vicenda, garantendo gli interessi di entrambi i gruppi industriali nazionali e quindi dello Stato.

A meno che non si voglia politicamente cogliere la palla al balzo per avviare, sull’onda del dibattito sull’offerta straniera finanziariamente più ricca, la svendita dell’industria italiana ad alta tecnologia di valore strategico.

E’ infatti di tutta evidenza che cedere le ex Oto Melara e WASS ai franco-tedeschi significa consentire ai nostri rivali europei di acquisire il know-how e le eccellenze nazionali in settori strategici col rischio che entro qualche anno gli stabilimenti italiani vengano chiusi per concentrare la produzione in Francia e Germania.

Per qualche centinaio di milioni vale forse la pena cedere a stranieri l’azienda leader nel mondo nei cannoni navali soprattutto ora che è stato validato il rivoluzionario munizionamento intelligente a lungo raggio Vulcano per cannoni navali da 127 mm e terrestri da 155mm?

Ha forse un senso cedere ai nostri competitor un’azienda che con i suoi siluri hi-tech compete nel mondo proprio con aziende francesi e tedesche in questo mercato ad alto valore strategico?

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E’ vero che sul fronte dei mezzi corazzati Oto Melara non è più da tempo competitiva ma rivitalizzarla, come intende fare Fincantieri per inserirla all’interno di progetti di cooperazione europea come il carro armato franco-tedesco MGCS o il nuovo cingolato da combattimento è cosa ben diversa dal cederla alla concorrenza.

Nei grandi programmi europei l’Italia può entrare da protagonista, più ad alto profilo nel settore navale, certamente con meno pretese in quello terrestre, ma mentendo sovranità, impianti produttivi e maestranze qualificate.

Oppure, in alternativa, l’Italia può entrarci con la cessione di interi rami industriali determinando così la nascita dell’Europa della Difesa non su una base di cooperazione ma rafforzando l’egemonia franco-tedesca e favorendo l’assimilazione della nostra industria a quelle delle due maggiori potenze continentali.

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Probabile che dell’affare Oto Melara/WASS abbiano parlato ieri Draghi e Macron e non c’è dubbio che l’esecutivo italiano sia oggi chiamato a mostrare un preciso indirizzo in termini di tutela degli interessi strategici nazionali.

Specie in un contesto in cui ben poca chiarezza è stata fatta finora circa l’accordo strategico bilaterale in fase di definizione con la Francia il cui dossier è gestito dal Quirinale.

Il ritornello della cessione di sovranità necessaria nel nome dell’Europa risulta infatti oggi quanto meno fuori luogo: basti ricordare dopo anni di trattative Parigi si è rifiutata di cedere il controllo dei Chantiers de l’Atlantique (STX) all’italiana Fincantieri mentre non aveva avuto difficoltà a cederne per anni il controllo a un partner sudcoreano.

Per comprendere poi con quale spirito di amicizia, cooperazione e “fratellanza europea” i francesi considerino le aziende italiane e il loro peso sul mercato è sufficiente leggere cosa ha scritto recentemente il quotidiano economico La Tribune, vicino all’industria della difesa d’OItralpe, che lamenta l’aggressività e i successi commerciali di Fincantieri nel settore delle navi militari come un grosso ostacolo e un temibile rivale per la cantieristica francese.

Difficile immaginare oggi che Parigi e Berlino siano disposti a cedere a gruppi italiani il controllo di aziende hi-tech, del settore della Difesa o meno.

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Nell’intera operazione Oto/WASS inoltre, risulterebbe arduo giustificare come conveniente per gli interessi nazionali la cessione degli stabilimenti italiani a un consorzio straniero per consentire in cambio all’azienda italiana che li pone in vendita di acquisire un quarto delle azioni di un’industria elettronica tedesca.

Sulla necessità di fare chiarezza e di mantenere le ex Oto Melara e WASS “italiane e pubbliche” si sono espressi in questi ultimi giorni tutti i sindacati e quasi tutti i partiti: per prima la Lega seguita poi da Partito Democratico, Forza Italia, Italia Viva, Coraggio Italia e Fratelli d’Italia.

Sulla stessa linea il governatore della Liguria, Giovanni Toti, mentre nel governo sono emerse finora solo le voci dei due sottosegretari alla Difesa. Stefania Pucciarelli (Lega) ha affrontato per prima la questione, l’11 novembre, sottolineando la necessità che “dall’ipotesi di vendita non debba derivare la consegna della proprietà nelle mani di imprese straniere”.

Giorgio Mulè, parlando oggi a Sky Tg24, si è espresso a favore della vendita a Fincantieri per “dare quella spinta che eviti ad un’azienda nazionale e strategica di finire in mano franco-tedesche”.

Foto: Leonardo, Fincantieri e Il Secolo XIX

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Stati Uniti! Azzardi pericolosi di centri in stato confusionale, con Gianfranco Campa

Due leader in difficoltà ai due lati del Pacifico, ma uno di essi messo decisamente peggio. Un ceto politico che si dimena con sprezzo del ridicolo riuscendo a trasformare le proprie vittime designate in martiri al culmine della popolarità. Un tentativo di recupero dei consensi nella vecchia base elettorale con il rilancio di una politica estera della “working class” che pare una riproposizione in un contesto inidoneo della geopolitica degli anni ’90. Una classe dirigente tentata a contrabbandare qualche concessione nell’immediato con la rinuncia strategica in un contesto multipolare, specie quello indo-pacifico, nel quale sono numerosi e potenti gli attori in grado di condizionare le scelte. Una crisi interna che è prossima a rinunciare anche alle ultime certezze, come nella gestione della pandemia. Nel mezzo alcuni giochi inquietanti e pericolosi, difficilmente controllabili, in corso nei laboratori americani. Rischiamo un’altra Wuhan, questa volta a stelle e strisce? Buon ascolto_Giuseppe Germinario

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Unione Europea tra retorica e realtà_con il professor Augusto Sinagra

La retorica europeista non riesce più a coprire le mancanze e le incongruenze di una organizzazione comunitaria che vorrebbe atteggiarsi ed essere riconosciuta come istituzione statale quando, in realtà, è un apparato amministrativo figlio di trattati che regolano in qualche maniera le dinamiche geopolitiche tra gli stati nazionali europei e soprattutto tra questi e gli Stati Uniti. Quando le questioni regali, proprie delle prerogative sovrane degli stati emergono, immediatamente vengono alla luce le ambiguità e il peccato di origine della Unione Europea. Lo squilibrio tra chi intende mantenere le proprie prerogative e chi, tra questi l’Italia, riesce inopinatamente a rinunciarvi in nome di un lirismo sterile è destinato ad accrescersi ai danni di questi ultimi. La UE è uno strumento di depotenziamento del concerto europeo e a lungo andare una incubatrice di conflitti tanto più perniciosi quanto più rimossi. La rinuncia, anzi la constatazione dell’impossibilità di un qualsiasi ruolo assertivo nelle situazioni di crisi sempre più frequenti ed improvvise trova giustificazioni ormai al limite del patetico. L’imperdonabile ritardo scientifico e tecnologico manifestatosi con la crisi pandemica e la trasformazione digitale in corso viene rimosso con il rifugio consolatorio nella primigenia fasulla della determinazione regolatoria di quei mercati e di quelle emergenze. Al ritardo nelle tecnologie legate alla difesa dell’ambiente e alla diversificazione energetica si reagisce con fughe in avanti foriere di crisi e dissesti esattamente proporzionali alla negazione dei necessari tempi di transizione e di costruzione di una propria capacità industriale. Sarà drammaticamente tardi quando ci si accorgerà di essere vittime del proprio stesso bluff. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

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PER UNA AUTONOMIA NAZIONALE, a cura di Luigi Longo

PER UNA AUTONOMIA NAZIONALE BISOGNA ROMPERE LA SERVITÙ VOLONTARIA VERSO GLI STATI UNITI D’AMERICA

a cura di Luigi Longo

Propongo la lettura dello scritto Conflitti tra stati e autonomia nazionale. Perchè? di Gianfranco La Grassa apparso su www.conflittiestrategie.it il 12/11/2021.

Premetto che riprenderò il costruendo paradigma del conflitto strategico di Gianfranco La Grassa in un altro scritto complessivo e sistematico. Il conflitto strategico, visto in una logica multidisciplinare, rappresenta una lettura approfondita, originale ed altra della conoscenza, dell’interpretazione e della progettualità della coda della realtà. E’ chiaro che occorre avere acutezza nell’individuare il sapere che illumina e avvolge gli altri saperi assumendo a base dell’analisi i rapporti sociali reali e il loro sistematico insieme nazionale e mondiale, soprattutto in questo periodo di decisivo sviluppo della fase multicentrica che la cesura storica della guerra batteriologica da Covid-19 ha accelerato. Il conflitto strategico apre nuove strade teoriche e pratiche.

Vengo, ora, allo scritto proposto. E’ una riflessione stimolante che inizia a fare chiarezza sulle seguenti questioni principali: 1) la distinzione tra lo stato (gli strumenti degli agenti strategici dominanti articolati sull’intero territorio nazionale, la robusta catena di fortezza e di casematte di Antonio Gramsci) e la nazione (il territorio della comunità con la sua storia, il suo rapporto sociale, la sua cultura, la sua lingua, il suo paesaggio, il suo costume, la sua natura, eccetera); 2) il conflitto tra gli agenti strategici delle varie nazioni europee non si gioca intorno ad una idea di sviluppo autonomo dell’Europa (qualunque sia la forma dello stare insieme che le diverse nazioni si vorranno dare) ma si consuma nella corsa di posizione privilegiata verso la servitù statunitense. Preciso che divido gli agenti strategici in: quelli che pensano le strategie, quelli che gestiscono le strategie e quelli che eseguono le strategie; 3) la necessità di rompere con la servitù volontaria verso gli USA (potenza dominante in declino che è per un mondo monocentrico a sua immagine e somiglianza) e la possibilità della costruzione di relazioni con l’Oriente (Russia e Cina, potenze in ascesa che sono per un mondo multicentrico); 4) l’autonomia nazionale per la costruzione di un modello di sviluppo che renda possibile stabilire nuove relazioni interne e mondiali a partire da una nuova idea di Europa (bisogna andare oltre il progetto statunitense dell’Unione Europea che è sempre più sostituito dalla nuova NATO come strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica); 5) le riflessioni critiche dell’esperienza rivoluzionaria del secolo scorso (soprattutto quella russa e quella cinese) e sul tipo di società che sono diventate oggi (a prescindere dall’eterogenesi dei fini che è un concetto a me poco simpatico) che nulla hanno a che fare né con il socialismo né tantomeno con il comunismo; 6) il conflitto per scalzare gli agenti strategici esecutori e servili (per esempio, Mario Draghi è un esecutore e per questo è un pericolo per gli interessi nazionali con le sue articolazioni sociali: la sua storia a partire dagli anni Novanta del secolo scorso è illuminante per le funzioni svolte) per costruire una vera autonomia nazionale in grado di guardare a Oriente per il consolidamento della fase multicentrica (nell’attesa della costruzione di una Europa in grado di essere un soggetto politico autonomo capace di costruire relazioni altre nel rispetto della diversità tra l’Occidente e l’Oriente?); 7) lo stabilizzarsi della fase multicentrica aprirebbe il conflitto all’interno delle singole potenze per la messa in discussione delle relazioni di potere e di dominio che dominano i rapporti sociali, storicamente determinati, a vantaggio di una esigua minoranza delle popolazioni.

Credo che si possa ragionevolmente affermare che la questione fondamentale si sposta nella Politica, intesa come azioni strategiche per l’acquisizione del potere e del dominio nel senso che il potere degli agenti strategici delle diverse sfere sociali (economica, politica, culturale, eccetera) si indirizza, nel conflitto, verso la costruzione di un blocco egemone per il dominio dell’intera società. Tale dominio non è mai definitivo ma temporalmente dinamico proprio a causa del continuo e ineliminabile conflitto per conquistare il potere e il dominio sociale (rimanendo nell’ambito dell’ordine simbolico maschile). E’ nel suddetto blocco egemone che si gioca l’egemonia degli agenti strategici espressione della potenza di fuoco rappresentata simbolicamente dal denaro accumulato con tutti i mezzi legali e illegali (Vincenzo Ruggiero). Le relazioni nelle diverse sfere sociali hanno un comune denominatore che è dato dal rapporto di potere che nelle diverse sfere (economica, politica, eccetera) si configura in maniera diversa tra chi ha gli strumenti (che variano da fase a fase della storia umana sessuata) per conquistare il potere (la minoranza) e chi non ha niente (la maggioranza).

Chi si deve far carico, nel breve-medio-lungo periodo, di queste questioni: una forza nuova, un nuovo principe sessuato o altro?

L’importante è non scordare la lezione attuale di Karl Marx quando afferma: << È né più né meno che un inganno sobillare il popolo senza offrirgli nessun fondamento solido e meditato per la sua azione. Risvegliare speranze fantastiche […] lungi dal favorire la salvezza di coloro che soffrono, porterebbe inevitabilmente alla loro rovina: rivolgersi ai lavoratori senza possedere idee rigorosamente scientifiche e teorie ben concrete (corsivo mio, LL) significa giocare in modo vuoto e incosciente con la propaganda, creando una situazione in cui da un lato un apostolo predica, dall’altro un gregge di somari lo sta a sentire a bocca aperta: apostoli assurdi e assurdi discepoli.

In un paese civilizzato non si può realizzare nulla senza teorie ben solide e concrete; e finora, infatti, nulla è stato realizzato se non fracasso ed esplosioni improvvise e dannose, se non iniziative che condurranno alla completa rovina la causa per la quale ci battiamo. L’ignoranza non ha mai giovato a nessuno! (Hans Magnus Enzensberger, a cura di, Colloqui con Marx e Engels, Einaudi, Torino, 1977, pag. 53).

CONFLITTI TRA STATI E AUTONOMIANAZIONALE. PERCHE’?

di Gianfranco La Grassa

1. Tratto normalmente Stato, paese o anche nazione quasi si trattasse di sinonimi. So che non è così, ma per quanto riguarda quanto devo dire in merito al problema dell’autonomia nazionale, credo si capisca comunque il discorso. Ammetto di non sapere mai con precisione che cosa debbo intendere con la parola Stato. Mi sembra che se ne parli sempre in modo metafisico o quasi; e in ogni caso come ci si riferisse ad un vero e proprio soggetto, di cui si possa disquisire quasi avesse volontà, desideri, intendimenti, finalità, ecc. propri, esattamente come quando si parla di un singolo individuo umano o di un determinato gruppo sociale, insieme di individui espletanti funzioni specifiche o che assuma decisioni in comune. Diciamo pure che per Stato si potrebbe intendere un grande raggruppamento di individui, in genere con ben preciso insediamento territoriale definito da confini, spesso (ma non sempre) unito da una sola lingua, che accetta un dato complesso di regole di comportamento fissate da leggi e il cui non rispetto viene sanzionato mediante un sistema di perseguimenti e di punizioni posto in atto da organi unanimemente accettati nel loro funzionamento a tali fini.

Preferirei tuttavia che si specificasse meglio il complesso, strutturato, di apparati che costituisce quello che chiamiamo Stato, sia nell’esercizio dei compiti relativi all’intero territorio posto sotto la sua potestà sia in quello decentrato nelle diverse parti in cui è suddiviso quest’ultimo. In particolare, darei la massima rilevanza a quegli apparati addetti all’esercizio della Politica, intesa quale insieme organico di mosse – che possiamo definire strategia – compiute per raggiungere determinate finalità all’interno di un dato paese così come all’esterno d’esso, nei confronti degli altri paesi. Un conto è quella che potremmo definire l’amministrazione di determinati affari riguardanti il coordinamento d’insieme di una data comunità territoriale (suddivisa in diversi gruppi sociali); un altro è il vero potere di esplicare la Politica diretta all’interno o all’esterno di quel paese. Il controllo degli apparati dotati di tale potere è il vero oggetto della lotta che si svolge tra diverse associazioni di individui (partiti o altri organismi di vario genere).

Di questi apparati (di potere) si dovrebbe soprattutto discettare per meglio definire i compiti che si pone chi intende perseguire l’autonomia del proprio paese. In questi ultimi anni si era diffusa una particolare concezione, che tuttavia mi sembra oggi un po’ in decadenza. Si sosteneva la fine della funzione degli Stati nazionali. Con ciò s’intendeva sostenere precisamente che quegli apparati di potere (interno ed esterno), di cui ho appena detto, non avevano più alcun reale compito in quanto ormai il potere in questione spetterebbe ad organismi sovranazionali, in particolare di carattere finanziario; vere massonerie che ormai comanderebbero in tutto il mondo o quasi. A tali organismi dovrebbero ribellarsi tutti i cittadini (le “moltitudini”), senza più distinzione di questo o quel paese (di tutto il mondo appunto). Tale tesi, che sembra voler essere una sorta di versione aggiornata e moderna dell’antico “internazionalismo proletario” (essa è in genere propagandata da vecchi arnesi della pseudo rivoluzione sessantottarda e sue propaggini ulteriori), mira di fatto a salvaguardare il potere di quei gruppi che, all’interno di ogni paese, controllano gli apparati statali in questione (sia rivolto all’interno che verso l’estero). I “vecchi arnesi” sono ormai parte integrante, e subordinata, dei gruppi dominanti.

In realtà, in ogni paese (o nazione, se si preferisce) vi sono gruppi dominanti dotati di potere (decisionale), che controllano gli apparati statali di cui stiamo parlando; questi sono costantemente in funzione, per nulla superati e riposti in un qualche museo. Il problema è diverso. Esistono complessi (e spesso ben mascherati) legami internazionali tra i vari gruppi decisionali nei diversi paesi. E tali legami assicurano a quelli attivi nei paesi preminenti – oggi sopra tutti stanno gli Stati Uniti – un particolare potere di “influsso” (chiamiamolo così) sui gruppi decisionali di paesi che si pongono in una determinata filiera di potere via via discendente; per cui abbiamo gruppi che potremmo definire subdominanti, subsubdominanti, ecc. fino a quelli via via sempre più subordinati. I gruppi di potere nei vari paesi, anche i più subordinati, hanno pur sempre capacità decisionali nell’ambito degli apparati statali appositamente addetti alla Politica, alla strategia, alle mosse da compiere per giungere a certe finalità interne ed esterne. Semplicemente, i loro poteri decisionali si subordinano a quelli dei gruppi dominanti di altri paesi, secondo una gerarchia che muta di fase storica in fase storica; e ha gradazioni differenti anche nell’ambito di ognuna di queste fasi.

Tanto per fare un “banale” esempio, i gruppi decisori italiani sono sempre stati subordinati a quelli statunitensi dalla fine della seconda guerra mondiale. E oggi siamo sempre in quella fase storica iniziata nel 1945, in cui sono stati creati vari organismi per sanzionare la supremazia Usa, fra cui la NATO e poi le varie organizzazioni intereuropee, fino a questa indecorosa UE. Tuttavia, il grado di subordinazione dei gruppi decisori italiani ha avuto un netto scatto in crescita con la fine della prima Repubblica, con la sporca operazione di falsa “giustizia” denominata “mani pulite” e tutto ciò che ne è seguito. E oggi appare in ulteriore continuo accrescimento.

Bene, una volta chiarito questo punto, e dichiarata pura mistificazione la tesi della fine degli Stati nazionali, passerò ad un altro ordine di considerazioni. In effetti, la nostra attuale attenzione ai problemi dell’autonomia nazionale potrebbe sembrare un semplice cambiamento di impostazione teorica. In quanto marxisti, eravamo interessati un tempo alla lotta di classe e al problema dell’abbattimento e trasformazione della società capitalistica; ci siamo oggi innamorati della geopolitica, dell’interazione tra Stati? Oppure siamo stati folgorati da una visione nazionalistica e quindi abbandoniamo ogni discorso di conflitto (in verticale) tra classi per abbracciare quello (in orizzontale) tra comunità nazionali? Non è affatto questa la nostra effettiva posizione.

2. Personalmente, continuo a ritenere importante, in linea di principio, la struttura dei rapporti sociali (rapporti tra diversi gruppi in cui è suddivisa la società). Proprio per questo, malgrado la mia critica non marginale al marxismo, continuo tuttavia ad avere grande attenzione per tale teoria della società. E, sempre in linea di principio, la ritengo più avanzata rispetto all’individualismo tipico delle teorie liberali. Tuttavia, in Marx è fondamentale, nella costituzione di società, la sfera produttiva. In una sua lettera a Kugelman (mi sembra del 1864) si afferma che anche i bambini sanno che, se non si producesse nulla per un breve periodo di tempo, ogni società verrebbe a dissolversi. E’ quindi logico che i rapporti sociali per questo pensatore decisivi sono quelli di produzione. E simili rapporti si annodano intorno al problema della proprietà (potere effettivo di disposizione) o meno dei mezzi produttivi. In base a quest’ultima, Marx distinse, nella società capitalistica, la classe borghese (i proprietari) e quella proletaria (o operaia) solo in possesso della propria capacità lavorativa da vendere in qualità di merce come ogni altro bene circolante nella società in questione. Da qui – corro perché ho scritto in proposito ormai centinaia di pagine – deriva l’ipotesi della dinamica capitalistica che avrebbe condotto infine ad una borghesia assenteista rispetto alla direzione dei processi produttivi, mentre in questa sfera sociale si sarebbe andato consolidando un corpo di produttori associati; dal massimo gradino dirigente fino all’ultimo di carattere esecutivo. Già nel grembo del capitalismo, quindi, si sarebbe formata la condizione base della nuova società socialista, primo gradino di quella comunista.

Nulla di tutto questo si è storicamente verificato; in nessuna delle società a capitalismo avanzato si è mai andato costituendo il “lavoratore collettivo cooperativo” (i produttori associati) così come previsto da Marx. E, soprattutto, le rivoluzioni più radicali si sono avute in società a prevalenza contadina e non operaia. Il cosiddetto socialismo del XX secolo – o quanto meno la “costruzione” (solo presunta purtroppo) dello stesso – si è rivelato essere una società estremamente verticistica, in cui la sfera produttiva era completamente sottomessa alla direzione di quella degli apparati del potere strettamente politico. Non intendo qui diffondermi su che cosa è stata questa particolare formazione sociale venuta a crearsi con le rivoluzioni guidate da partiti comunisti in paesi sostanzialmente precapitalistici. Mi sembra comunque evidente che non si è creata alcuna società socialista nel senso marxiano del termine. Lascio perdere i tentativi di diffondere l’idea (del resto tarda, ultimo sbiadito tentativo di difendere l’indifendibile) che si trattava di un “socialismo di mercato” (questa la definizione data della Cina odierna da alcuni “ritardati”).

Di fronte al fallimento storico di un movimento rivoluzionario guidato da una specifica teoria – del resto ormai molto modificata rispetto all’originale e ridotta a pura agitazione di tipo ideologico con presa sempre minore fino al suo azzeramento – ho proposto già da tempo l’abbandono del principio guida della proprietà o meno dei mezzi produttivi, andando invece nella direzione della Politica intesa appunto quale conflitto tra le strategie di più gruppi sociali in cerca di una supremazia nel controllo dei vari apparati funzionanti nelle diverse sfere sociali: produttiva, politica, ideologico-culturale. Credo che questo mutamento abbia effetti abbastanza positivi nella considerazione realistica delle lotte sociali sussistenti all’interno della società in cui viviamo; anche perché fa vedere come gli “attori” in conflitto non siano, prevalentemente, quelli attivi nella sfera produttiva, ma vi siano invece svariati rapporti, e spesso piuttosto stretti, tra agenti in opera nelle diverse sfere per la conquista di una supremazia sociale complessiva. Tuttavia, è ovvio che la teoria del conflitto tra strategie non consente alcuna divisione netta tra le classi in lotta, riducendole a due soltanto. E non pone in luce alcuna dinamica, intrinseca all’attuale formazione sociale di tipologia capitalistica, diretta alla sua trasformazione in altra nettamente differente che possa pensarsi quale fase di transizione ad una qualsiasi forma di socialismo o comunismo.

I gruppi sociali, insomma, non possono essere definiti classi nel senso in cui queste erano intese nel marxismo in base al criterio, rivelatosi piuttosto semplicistico, della proprietà o meno dei mezzi produttivi. Inoltre, tali gruppi non possono mai ridursi a due; a meno che il conflitto diventi tanto acuto da spingere vari gruppi ad allearsi tra loro in modo che, alla fine, si trovano a confrontarsi due schieramenti contrapposti, che non saranno mai comunque due classi in lotta, ma due coacervi di gruppi riunitisi per le concrete esigenze “di combattimento” in quella particolare fase storica e in quella determinata formazione sociale, in cui si è prodotto un contrasto così netto e ormai irrisolvibile con semplici mediazioni. Vi è di più. Si possono verificare – per contingenze non riconducibili all’intenzione consapevole di trasformare quella data formazione sociale in un’altra considerata superiore – dei cosiddetti “sollevamenti di masse”, causati dal malcontento e disagio sociale particolarmente acuti, in genere susseguenti all’incapacità ormai manifesta di coloro, che hanno in mano gli apparati del potere, di saperli gestire in modo minimamente appropriato ai bisogni complessivi di quella società. Questi sollevamenti non produrranno mai effetti stabili e di reale trasformazione, se nel loro ambito non agiscono dati nuclei dirigenti dei “malcontenti”, che possono allearsi, in genere solo temporaneamente, per dare risposta alla gravità della crisi provocata dalla suddetta incapacità dei vecchi nuclei al potere.

In ogni caso, sia se si producono, abbastanza raramente, situazioni così estreme sia se ci si trova in una situazione di più “normale” e non sconvolgente conflitto tra strategie per ottenere la supremazia (in base ad esigenze di lungo periodo o invece per risolvere problemi di portata momentanea e d’ambito ristretto), non si è in presenza del semplificato scontro tra dominanti e dominati di cui troppo spesso si blatera. In un certo senso esiste un confronto, più o meno serrato, tra gruppi sociali con maggiori o minori (in certi casi magari nulle) prerogative decisionali. Tuttavia, nel reale conflitto, sempre condotto in base alla Politica (cioè secondo varie linee strategiche), si enucleano alcune élites dirigenti, che tendono a rappresentare più gruppi sociali. E anche quando si tratti di gruppi formati principalmente da “non decisori”, le loro dirigenze partecipano comunque, con maggiore o minore forza, alle decisioni sociali di maggiore portata. Esempio tipico ne è la lotta sindacale. I nuclei dirigenti di quei gruppi situati alla base della piramide sociale (i cosiddetti ceti lavoratori) non sono certo privi di qualsiasi potere decisionale in merito a questioni interessanti l’intera collettività di quel dato paese.

3. Giungiamo adesso al problema centrale che ci interessa. E che ci interessa – almeno per quanto mi riguarda e riguarda, credo, anche coloro che con me hanno dato vita a “Conflitti e Strategie” – proprio in quanto abbiamo dovuto prendere atto del fallimento delle finalità poste al movimento delle cosiddette “masse popolari” da una data concezione dello sviluppo sociale, quella concezione che è appunto il marxismo. Si è dovuto prendere atto che non c’è stata finora alcuna effettiva possibilità di evoluzione dell’attuale società verso strutture di rapporti da definire oltre-capitalistiche. Quello che abbiamo sempre chiamato capitalismo (e così continuiamo a denominarlo) si è andato indubbiamente trasformando profondamente rispetto al suo punto di partenza; o anche semplicemente considerando l’ultimo secolo. Tuttavia, alcuni suoi moduli non si sono modificati; non si è certo giunti al rivolgimento della sua configurazione piramidale caratterizzata dalle concentrazioni imprenditoriali e dal correlato assetto degli apparati politici, fortemente verticistico anche nei paesi dove si ciancia sempre di “democrazia parlamentare” e si esaltano le periodiche “chiamate al voto”, che si fanno passare per espressione genuina della “volontà popolare” in grado di governare gli affari del paese, sempre invece nella sostanza affidati a contrapposizioni tra date élites.

Intendiamoci bene. Nessuno di noi svaluta quelle lotte sociali che mirino a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle più vaste “masse” situate nei gradini medi e bassi della piramide sociale. E dobbiamo ammettere che oggi, anzi, quelle lotte stentano perfino a mantenere vecchie “conquiste” in tema di benessere. Di conseguenza, un rilancio di queste lotte sarebbe senz’altro visto da tutti noi con estremo favore. Tuttavia, dobbiamo rilevare alcuni semplici fatti. Simili lotte diventano sempre più difficili, sono viepiù spezzettate e condotte spesso in modo da lasciare largo spazio a quella divisione tra strati sociali medio-bassi che favorisce i vertici della società (il ben noto “dividere per imperare”). E’ però un caso che ciò avvenga? E soprattutto nella presente fase storica (che dura da due-tre decenni)? Non posso dilungarmi nella considerazione delle condizioni storiche che avevano consentito un qualche elevamento della posizione degli strati sociali in questione. Noto solo che l’attuale peggioramento di tale posizione dimostra a iosa come non si fosse compiuto alcun decisivo passo in direzione dell’indebolimento di quella società denominata capitalismo.

Si è dovuto constatare un fatto ancora più rilevante per le nostre convinzioni ideologiche (e anche teoriche). Sia l’iniziale successo (relativo) di certe lotte sociali, sia la loro crescente irrilevanza attuale, sono fondamentalmente dipesi dalla predominanza di fatto che sempre hanno mantenuto gli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale in poi. Credevamo che il mondo bipolare fosse un contrasto tra capitalismo e socialismo. Siamo stati messi in crisi dalla rottura tra Urss e Cina, ma non abbiamo interpretato correttamente (e non sappiamo farlo ancora adesso) che cosa in realtà fosse accaduto. Abbiamo preso il successo di certe lotte anticoloniali (vedi Vietnam) come si trattasse di un allargamento del campo “socialista”; un allargamento durato l’espace d’un matin, con conflitto tra Vietnam e Cina e poi il progressivo spostarsi di quel paese verso l’orbita statunitense (sia pure dopo il crollo dell’Urss, che comunque non è stato un caso “sfortunato”). Oggi dobbiamo prendere atto – in una considerazione di più lungo periodo; ed è su questo che la storia deve essere “misurata” nei suoi effettivi andamenti – che gli Stati Uniti sono stati sempre il perno più solido dell’andamento degli affari mondiali.

In definitiva, è ora di ammettere infine che non esiste più da molto tempo (ammesso che sia mai esistita nei termini pensati dai marxisti) la lotta di classe su cui tante speranze erano un tempo riposte. Non esiste soprattutto un antagonismo tra due grandi blocchi sociali alternativi, foriero di trasformazioni anticapitalistiche. Nei paesi a capitalismo sviluppato – che ha conosciuto varie trasformazioni da giudicarsi interne a quel certo “modulo” sociale – si sono verificati contrasti, anche assai forti a volte, che sono sempre stati di tipo redistributivo; soprattutto di reddito, in parte anche di potere. E’ tuttavia mancato proprio l’effetto che alcuni attribuivano a tale conflitto, la trasformazione in senso anticapitalistico. Chiunque ancora ne parli – ormai alcuni rimasugli di dementi – va proprio ignorato. Ripeto che questo tipo di lotte va appoggiato proprio per quello che può al massimo conseguire: la difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei ceti medio-bassi, oggi in deciso peggioramento. E sempre con la precisa consapevolezza che simili conflitti sono diretti da determinati gruppi dirigenti politici e sindacali, i maggiori beneficiari degli eventuali risultati positivi dello scontro, oggi piuttosto rari.

Cosa invece si nota nettamente nell’attuale fase storica? I conflitti più acuti e più significativi sono quelli tra Stati. Di conseguenza, diventa in un certo senso scopo preminente seguire gli eventi di quella che è la politica internazionale, l’interrelazione tra i diversi Stati, lo stabilirsi di determinati rapporti di forza tra essi, il loro eventuale modificarsi i cui effetti ricadono immediatamente anche sull’andamento dei sistemi economici. Tuttavia, abbiamo già ricordato come gli Stati siano un insieme organico di svariati apparati, di cui alcuni sono quelli adibiti all’effettivo uso del potere (mentre altri hanno un carattere più propriamente amministrativo, diciamo così). E’ allora rilevante la comprensione dei contrasti in atto tra quei gruppi d’élite che si battono per il controllo e l’uso di tali apparati. Poiché questo “battersi” è appunto la Politica, è un intreccio tra differenti strategie svolte per conquistare la supremazia, i gruppi d’élite (se tali sono effettivamente) debbono essere strettamente correlati con dati nuclei in cui si elaborano le strategie. E poiché le mosse della Politica mirano al successo nell’ambito di uno scontro tra le varie élites, la segretezza è d’obbligo; e ogni venir meno della stessa o è una di queste mosse o è lo sgretolamento della “copertura” (lo sbucciarsi della “corteccia”) dovuto ad un acuirsi del combattimento tra due o più “attori”.

Del resto ho già ricordato un fatto ben noto a chiunque segua minimamente le vicende politiche. Non esistono élites dirigenti dei gruppi sociali nei diversi paesi, che non siano variamente interrelate tra loro in senso economico, politico, culturale. E certamente nel nostro paese, e più generalmente in tutti i paesi europei, in misura maggiore o minore queste élites sono strettamente collegate con quelle statunitensi, ponendosi nei loro confronti in una situazione di maggiore o minore subordinazione. In questo senso, gli Stati Uniti sono ancor oggi il centro di un ampio sistema mondiale di paesi; in particolare, hanno la guida, per quanto a volte appena mascherata, dell’intera UE che, come già detto, è in definitiva un’organizzazione parallela a quella della NATO. E’ impossibile seguire le vicende politiche interne di un qualsiasi paese europeo senza tener conto dei rapporti di subordinazione rispetto al paese predominante. Questo è particolarmente valido per l’Italia, paese la cui subordinazione è di alto livello e va crescendo. E continuerà a crescere per quanto diremo subito appresso.

4. Con quanto appena sostenuto, sia pure succintamente, abbiamo svelato il “segreto” della nostra pretesa preferenza – soltanto temporanea e secondo me obbligata dai “fatti” – per la politica internazionale e per il tema dell’indipendenza o autonomia di singoli paesi; ma non certo per spirito nazionalistico, ci mancherebbe altro! Abbiamo semplicemente preso atto della fine della ormai “mitica” lotta di classe; e constatiamo che attualmente sono in ribasso perfino le lotte sindacali per la semplice “redistribuzione”, pur anche soltanto nel tentativo di evitare l’arretramento delle cosiddette “conquiste sociali” di alcuni decenni fa. Dopo circa mezzo secolo di mondo bipolare e con i pericoli, spesso esagerati e montati a bella posta, relativi alla “guerra fredda”, si è avuto il “crollo” del campo sedicente socialista ed è sembrato che ci si avviasse verso una sorta di monocentrismo Usa. La sensazione è durata poco e ormai, malgrado sia ancora predominante quel paese, pare assai probabile che ci si avvii intanto verso un multipolarismo per quanto ancora imperfetto. Il caos nel mondo va accentuandosi come sempre avviene in epoche del genere; più volte ho fatto il paragone con la fine del secolo XIX.

In una situazione simile, è del tutto evidente un crescente impegno degli Stati Uniti per accentuare la presa sull’Europa e scongiurare quanto indubbiamente sembra serpeggiare al suo interno con il rafforzarsi di movimenti detti “euroscettici”; per quanto essi sembrino ancora abbastanza deboli e del tutto confusionari. Il “Trattato transatlantico” (TTIP) dal punto di vista economico (che ha sempre riflessi politici), gli sconvolgimenti, più o meno ben riusciti, suscitati nel Nord Africa e in Medioriente, la crisi ucraina (dopo il primo approccio in Georgia), l’impulso dato alle organizzazioni islamiche “estremiste” poi ovviamente combattute (con forti ambiguità e senza ancora una conclusiva decisione), le situazioni estremamente confuse e di sostanziale stallo (pur assai sanguinoso) in Libia e Siria, così come altre egualmente poco chiare (in Egitto come in Turchia o Iran, ecc.),sono operazioni che avranno certo motivazioni legate ai rapporti di forza nelle aree interessate; e tuttavia non vi è dubbio che il principale obiettivo degli Stati Uniti è, in ultima analisi, il mantenimento della presa in Europa e l’isolamento massimo possibile della Russia.

Se veniamo al nostro paese, credo che esso sia abbastanza importante per le suddette finalità perseguite dagli Stati Uniti. La posizione geografica dell’Italia è in tutta evidenza significativa per le operazioni nelle aree investite, non sempre direttamente, dagli Usa (con l’Amministrazione Obama ci si è largamente serviti di “sicari”). Tuttavia, con l’operazione “giudiziaria” che mise fine alla prima Repubblica (solo dopo il crollo del campo “socialista”) si è reso del tutto manifesta la funzione che a noi spetta nelle intenzioni americane di tenere strettamente agganciata l’Europa. Dobbiamo essere decisamente affermativi in proposito. L’Europa è l’area in cui ancora si giocheranno i destini del probabile prossimo scontro policentrico per conquistare una nuova centralità preminente (uno scontro non temporalmente vicino, meglio essere espliciti in proposito). E l’Italia è paese fondamentale per il controllo europeo. Ci sono forti tendenze – a mio avviso tutte ben finanziate da chi di dovere – a sostenere l’ormai irreversibile decadenza europea e la crescente dipendenza italiana. Sia chiaro che l’ultimo premier (il ben noto sedicente tecnico sempre in linea da dove soffia il vento) è in realtà un commissario di poteri stranieri e soprattutto americani.

Mai si era visto in quest’area e in questo paese un degrado sociale (e culturale) come quello odierno. Tutto questo avviene però proprio perché l’Europa (e, al suo interno, l’Italia) sono aree di importanza decisiva per gli Usa nel loro tentativo di restare preminenti; anzi di arrivare un giorno a porsi in una situazione di sostanziale monocentrismo, magari attraverso un futuro regolamento generale di conti. In questa fase, la pressione Usa sul nostro paese è massima, anche se non viene solitamente rilevata perché ovviamente non si esprime con le vecchie modalità. Di conseguenza, nella presente fase storica di non breve momento, chiunque straparli di lotta anticapitalistica, inganna scientemente quelle minoranze che cominciano a rendersi conto della situazione di degrado e sfascio sociale (e anche istituzionale), in cui ci hanno condotto le forze politiche padrone  dell’andamento degli “affari” nel nostro paese.

Non ci sono per nulla prospettive di superamento del capitalismo in Italia (e in Europa); e nemmeno si saprebbe in che direzione si dovrebbe andare in una simile fantasiosa prospettiva. Ripeto che nessuno (di noi) si oppone a che i ceti medio-bassi difendano le proprie condizioni di vita aggredite dal potere esistente. Questo però non significa avere la forza (e le idee) in grado di abbattere il capitalismo (e di quale si sta parlando, del resto, se non a vanvera?). E non c’è nessuna difesa possibile se restiamo un paese governato da élites che si pongono nella relazione di subordinazione rispetto a quelle del paese predominante. E’ di una evidenza palmare che il primo passo da compiere è (diciamo sarebbe) togliere il governo ai servi del potere statunitense. E vorrei essere preciso. Quando parlo in questo contesto di governo non mi riferisco soltanto a quelle forze politiche che hanno in mano la direzione dell’Italia. Tutte quelle oggi in campo sono invischiate in quel gioco elettorale che fa dimenticare ogni problema di reale potere, con il mero scopo di conquistare favori nell’“opinione pubblica” onde migliorare la propria posizione all’interno dell’attuale struttura politica, comunque sempre subordinata alla predominanza degli Stati Uniti.

Ecco allora spiegato perché è indispensabile battersi oggi per un minimo di autonomia nazionale (lo ripeto: senza ideologie nazionalistiche!). E per porsi in quest’ottica, è necessario dedicare i nostri sforzi soprattutto all’analisi degli intrecci internazionali tra i vari paesi; nelle loro filiere di predominanti, subdominanti, subsubdominanti….ecc. fino alle ultime propaggini della subordinazione, laddove siamo tutto sommato situati noi italiani. E mi sembra lampante che passi in avanti di questa autonomia sarebbero favoriti dall’affermarsi crescente della tendenza al multipolarismo. Quindi ci si deve battere per il rafforzamento delle relazioni – non solo economiche, bensì proprio politiche e di collegamento tecnico-scientifico e di “Informazione” e magari anche militari – con i paesi che hanno maggiori prospettive “oggettive” di ergersi quali antagonisti degli Stati Uniti; e fra questi, a mio avviso, il principale è la Russia (senza per questo trascurare la Cina). Nessuna particolare simpatia per questo paese e nessuna particolare antipatia per gli Stati Uniti. Semplicemente, è necessario battersi per l’accentuarsi del multipolarismo e, dunque, per la nostra autonomia. Multipolarismo e indipendenza sono in relazione biunivoca. E sono il primo compito per la fase attuale.

5. C’è poco da aggiungere, io credo. Ritengo auspicabile – nella fase storica che viviamo e che non sarà di breve momento – una politica tesa all’autonomia dei paesi europei rispetto a quello ancora oggi preminente, pur se a mio avviso procediamo, in modo certo non lineare e continuo, verso una situazione multipolare. Qualcuno potrebbe obiettare che sarebbe bene allora battersi per una profonda revisione dell’attuale organizzazione dell’Europa Unita in modo da ottenere l’effetto voluto. Credo che ci si avvierebbe lungo una strada fallimentare. La UE non mi sembra affatto riformabile per come è nata e si è andata configurando sulla base dell’accettazione di una chiara subordinazione – sia pure con accenti diversi nei vari paesi – agli Stati Uniti. Mi sembra anche non molto chiara l’agitazione di alcuni movimenti per l’uscita del proprio paese dalla UE e dall’euro.

Il problema centrale è la lunga subordinazione che, soprattutto i più sviluppati paesi europei (quelli “occidentali”), hanno dovuto subire rispetto agli Usa. Bisogna invertire questo processo – economico, politico, culturale – di dipendenza. Per far questo, nei vari paesi europei devono crescere movimenti consapevoli della difficoltà e complessità di tale compito, che comporterà infine la necessità di abbattere con energia i governi del servilismo. E’ un processo che va sviluppato all’interno dei vari paesi; e che, se avrà successo, lo avrà in modi e tempi specifici per ognuno d’essi. Ogni movimento dovrà rispettare le caratteristiche del proprio paese, delle proprie popolazioni (e, in questo senso, tornerà utile anche l’analisi delle differenti strutture dei rapporti sociali).

I movimenti di autonomia devono senza dubbio ricercare il reciproco collegamento nel contesto europeo, ma senza mai dimenticare le differenze del proprio paese rispetto agli altri; pena il diffondersi di una nuova “mistica” europeista che ha già prodotto in passato i guasti che vediamo oggi sotto i nostri occhi. E’ stata proprio la propaganda di questa idea di una generica Europa unita a consentire il prevalere nella nostra area di élites dirigenti che – oggi finalmente è venuto in chiara luce – si sono piegate, spesso con pingui finanziamenti, agli intendimenti e voleri degli Stati Uniti. Alcuni si saranno anche “venduti”, ma altri hanno superficialmente creduto che, come si erano fatti gli Stati Uniti d’America, si potessero fare quelli d’Europa, i cui paesi hanno ben più complessa e “antica” storia. E sono sempre stati in costante antagonismo d’interessi; per molto tempo perfino bellico, oggi con altre modalità. Pur sempre politiche, lo si tenga presente. Chi insiste sui problemi del dominio della finanza e altre superficialità consimili, è al servizio – consapevole o meno – degli interessi dei gruppi subdominanti europei legati ai dominanti statunitensi.

Ulteriore problema. Malgrado molti paesi europei siano economicamente piuttosto avanzati, è altrettanto evidente la loro debolezza politica e – perché voler essere pacifisti ad oltranza – bellica. Ogni movimento che si batta per l’autonomia del proprio paese – lo ripeto ossessivamente, autonomia soprattutto in direzione degli Usa – dovrà non soltanto cercare i collegamenti con i propri simili europei, bensì sviluppare precise politiche verso est; in particolare nei confronti della Russia. Inutile nascondersi che simili politiche potrebbero un giorno provocare il passaggio dalla tendenza multipolare all’affermarsi di un reale policentrismo conflittuale, con tutti i rischi che ben conosciamo dal XX secolo. Se si teme questo, è inutile mettersi sulla strada dell’autonomia; si resti subordinati come lo si è adesso.

E veniamo così all’ultimo punto. Ci sono molti sciocchi che credono ad un’Italia di benessere diffuso sulla base del turismo, sfruttando i suoi mari blu, i cieli azzurri, le cosiddette bellezze paesaggistiche (come se altrove mancassero), i suoi cibi (che nemmeno gli italiani più giovani sanno ormai apprezzare); e altre litanie del genere. Se l’Italia rimane a questo livello, resterà pure tranquillamente subordinata; e avvizziranno progressivamente in essa tutti quei settori che consentono il maggiore sviluppo di un qualsiasi paese nell’epoca moderna (a meno che non si tratti di quei paeselli, magari isole, che sono piccole oasi per i “ricchi del mondo”). E mancando l’autonomia e il tipo di sviluppo ad essa connesso, inutile anche pensare a chissà quali possibilità di lotta sociale per difendere le proprie condizioni di vita, soprattutto da parte dei già più volte ricordati ceti medio-bassi.

Lasciamo perdere per favore la lotta anticapitalistica; abbiamo una concezione arretratissima di capitalismo, ancora primonovecentesca se va bene. Non abbiamo assolutamente l’idea di quel che dovrebbe essere una società non più capitalistica (a parte le ubbie anti-grande finanza diffuse oggi). Ho però sostenuto che è approvabile la resistenza dei ceti meno abbienti di fronte ad un chiaro peggioramento delle prospettive nei nostri paesi detti avanzati. E’ bene mettersi in testa che in un periodo di multipolarismo in accentuazione, si amplifica il “caos” nelle relazioni internazionali; e non solo politicamente, ma pure economicamente. In poche parole, quella che chiamiamo crescita (aumento del Pil) non conoscerà andamenti travolgenti per molto tempo. Molti finalmente cominciano ad arrivare a simili conclusioni. Tuttavia, la debole (o nulla) crescita non impedisce uno sviluppo, cioè un miglioramento di certe strutture sociali e

l’arresto del progressivo smantellamento delle “conquiste” ottenute già da tempo.

Tuttavia, non vi sarà nulla di tutto questo se si cede sul punto dell’autonomia propria, dello sviluppo di settori innovativi che la subordinazione invece sacrificherà sempre più. Cari “amici delle lotte sociali”, volete che possano essere ancora condotte almeno in un certo grado? Ebbene, battetevi per l’autonomia del paese rispetto all’attuale piatta subordinazione agli Stati Uniti. Battetevi per una diversa politica internazionale. Invece di fissarvi sul superamento del capitalismo (che si supera da solo in sempre nuove forme che vi lasciano poi a mani, e testa, vuote), concentratevi sull’attuale evoluzione dei rapporti di forza tra Stati (paesi), in modo da giocare nel suo ambito con opportune politiche di “nuove alleanze” al fine di non veder peggiorare gravemente le condizioni del vostro paese e, dunque, dei ceti sociali in esso meno favoriti.

E con questo fervorino finale, veramente Amen.

http://www.conflittiestrategie.it/conflitti-tra-stati-e-autonomia-nazionale-perche

Fertilizzanti e insicurezza alimentare, di Allison Fedirka

In calce un interessante articolo tratto da Geopolitical Future sul problema della sicurezza alimentare negli Stati Uniti. Sicurezza intesa ormai non solo in rapporto all’ambiente fisico del territorio, ma anche al contesto geopolitico sempre più dinamico e conflittuale che rende sempre più problematica la gestione politico-economica di catene di produzione e consumo troppo indipendenti dal controllo politico. Un tema che rientra a pieno titolo nell’ambito delle tematiche cosiddette “sovraniste”, esorcizzate a parole, ma che ultimamente cominciano a fare capolino anche in istituzioni, come l’Unione Europea che si presentano costitutivamente in antitesi alle prerogative sovrane di uno stato nazionale. Si presentano, ma di fatto non lo sono almeno per quegli stati nazionali che riescono a controllarne e muovere le leve ai danni degli altri. La sicurezza alimentare, come pure quella energetica, è ulteriormente e pesantemente condizionata anche dalla tematica ambientale, specie quando quest’ultima assume una postura teologica e dogmatica tale da ignorare tempi e modi delle fasi di transizione e da rimuovere dal dibattito le possibili alternative. Il tutto dietro il comodo scudo del catastrofismo antropomorfico. Le conseguenze di tale approccio cominciano a manifestarsi, nella crisi degli approvvigionamenti, nell’effetto dei divieti immediati, in assenza di alternative, di uso di prodotti inquinanti in agricoltura sia in termini di crollo di produzioni strategiche, sia paradossalmente in termini di alterazione degli equilibri ecologici, come avvenuto nella fattispecie in Francia. Un controcanto rispetto al problema, altrettanto drammatico, della progressiva sterilizzazione dei suoli sfruttati troppo intensivamente presente ormai in numerosi territori; segno che le soluzioni, il più delle volte, (ri)propongono nuovi problemi a volte più gravi e su scala maggiore. Non è solo il dogmatismo a indirizzare queste dinamiche, ma anche gioco di interessi prosaici e dinamiche geopolitiche in corso; giochi di potere e predominio quindi, sottesi ai contenziosi regolamentari e agli anatemi moralistici; quando addirittura maschera per nascondere beffardamente la mancanza di interventi dell’uomo sul territorio e sulla natura. Una rappresentazione olistica che dovrebbe permettere una lettura più attenta e disincantata di eventi mediatici come quelli recenti del COP26. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Fertilizzanti e insicurezza alimentare

Gli americani stanno facendo i conti con l’aumento dei prezzi del cibo.

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La prossima settimana è il Ringraziamento, una festa statunitense che celebra e viene celebrata con il cibo. Quest’anno, tuttavia, gli americani stanno facendo i conti con l’aumento dei prezzi dei generi alimentari. Le notizie abbondano di storie di lunghe file alle banche alimentari, carenza di pollame e prodotti lattiero-caseari più costosi del previsto. Anche i costi energetici elevati e le interruzioni dei trasporti sono abbastanza ben documentati. Meno attenzione è stata data all’aumento del prezzo dei fertilizzanti, un input fondamentale per l’approvvigionamento alimentare che minaccia di mantenere alti i prezzi del cibo fino al 2022.

I prezzi elevati dei fertilizzanti (per non parlare delle potenziali carenze) sono preoccupanti per alcuni motivi. Per uno, il fertilizzante è onnipresente; metà delle colture alimentari del mondo sono coltivate con fertilizzanti minerali. Dall’altro, la fornitura è estremamente sensibile al fattore tempo. Le colture generalmente beneficiano maggiormente dei trattamenti fertilizzanti nelle prime fasi della stagione di semina e nel loro periodo di crescita iniziale. L’applicazione ritardata o mancata durante il ciclo si tradurrà quasi sicuramente in rendimenti inferiori, il che restringe l’offerta alimentare e fa salire i prezzi. Anche la durata è un fattore. Per molti cereali e semi oleosi, il tempo dalla stagione della semina al raccolto può durare dai quattro ai sei mesi, dopodiché il terreno ha bisogno di tempo per riprendersi o per essere preparato per il prossimo ciclo di colture. Tutto sommato, possono volerci mesi per avere un’altra opportunità di ricostituire le colture alimentari.

Prezzi fertilizzanti Illinois 2014 - 2021
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L’impatto dei prezzi dei fertilizzanti sui prezzi degli alimenti dipende da alcune variabili. Innanzitutto, la quantità di fertilizzante necessaria dipende dal raccolto. Alcuni cereali come il mais costano di più per acro per fertilizzare rispetto al grano o ai semi oleosi come i semi di soia. Il secondo è il tipo di fertilizzante utilizzato. I fertilizzanti possono essere suddivisi in tre categorie generali in base alle esigenze di macronutrienti di una pianta: azoto, fosfato e potassio. Il fertilizzante globale utilizzato durante la stagione 2020-21 ha totalizzato 198,2 tonnellate; l’azoto rappresentava circa il 55 percento, mentre il fosfato e il potassio rappresentavano rispettivamente il 25 percento e il 20 percento. Di questi, l’azoto è il più critico. Il suo prezzo tende ad essere più volatile a causa del suo legame diretto con i prezzi del gas naturale ed è un costo quasi inevitabile per gli agricoltori. Un nuovo lotto di fertilizzante azotato deve essere applicato all’inizio di ogni stagione del raccolto poiché non indugia nel terreno. I prezzi di fosfato e potassio, tuttavia, si muovono indipendentemente da altre materie prime come il gas naturale. Gli agricoltori hanno anche una maggiore flessibilità nell’utilizzo di questi due tipi di fertilizzanti, poiché porzioni inutilizzate di questi macronutrienti possono rimanere nel terreno di stagione in stagione.

I mercati dei fertilizzanti sono entrati quest’anno in una posizione ristretta che è diventata solo più stretta. Nel 2019, l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura ha pubblicato un rapporto che descrive in dettaglio le prospettive della domanda e dell’offerta di fertilizzanti fino al 2022. Secondo le sue stime, l’offerta globale totale sarebbe leggermente superiore alla domanda e si verificherebbero carenze in determinate regioni. Queste stime, tuttavia, non tengono conto di “fattori imprevedibili” come problemi logistici o una pandemia. Una conseguenza immediata nel 2020, il primo anno della pandemia di COVID-19, è stata la riduzione delle scorte di fertilizzanti e delle condutture. Le fabbriche produttrici di fertilizzanti hanno chiuso per contenere il virus e poi hanno faticato a riprendere la piena capacità a causa di altre carenze e sfide logistiche. Gli agricoltori, sostenuti dalle misure governative di emergenza, hanno continuato a produrre e, quindi, a chiedere fertilizzanti.

Prospettive regionali sui fertilizzanti | 2022
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Quest’anno, gli effetti a cascata dei problemi della catena di approvvigionamento e la ripresa della domanda hanno esercitato una pressione al rialzo sui prezzi dei fertilizzanti. Le guerre commerciali, i porti congestionati, i prodotti chimici non disponibili e gli alti costi di trasporto hanno reso i fertilizzanti più difficili da produrre e consegnare. Nel frattempo, altri fattori hanno ridotto la produzione di fertilizzanti. La produzione di fertilizzanti azotati nel delta del Mississippi, ad esempio, è stata temporaneamente interrotta a causa di un uragano. La produzione cinese è stata interrotta nel 2021 a causa di interruzioni elettriche negli stabilimenti. Quando l’economia cinese ha iniziato a rimettersi in marcia, ha causato un picco nel suo consumo di energia che, di concerto con altre cose, ha portato a prezzi più alti del gas naturale. I conseguenti costi operativi furono così alti che alcuni stabilimenti di fertilizzanti europei chiusero temporaneamente.

Anche l’intervento del governo ha avuto un ruolo. La Russia (il secondo esportatore di fertilizzanti azotati e il terzo esportatore di fertilizzante potassico) e la Cina (principale esportatore mondiale di fertilizzanti azotati e fosfatici) hanno annunciato misure per vietare o limitare le esportazioni di fertilizzanti fino a giugno 2022, ben oltre la semina primaverile stagione. Si prevede inoltre che le sanzioni dell’UE alla Bielorussia, il secondo esportatore di potassio, ridurranno l’offerta. La ridotta disponibilità sul mercato di esportazione farà salire il prezzo di tutti i fertilizzanti, indipendentemente dalla fonte, mentre le aziende e i paesi fanno offerte l’uno contro l’altro per ciò che rimane sul mercato.

Questo è certamente vero negli Stati Uniti, che non si affidano a Russia e Cina per i propri fertilizzanti, ma sono uno dei principali produttori e consumatori di ammoniaca al mondo. Le scoperte di gas naturale negli Stati Uniti hanno reso conveniente per le aziende aggiornare gli impianti di ammoniaca esistenti e costruire nuovi impianti di azoto. Ciò ha ridotto la dipendenza netta delle importazioni del paese dall’azoto-ammoniaca come percentuale del consumo apparente dal 27% nel 2016 a solo il 10% nel 2020, secondo i calcoli effettuati dall’US Geological Survey. Gli Stati Uniti hanno una percentuale di dipendenza netta dalle importazioni simile con la roccia fosfatica. Cinque società negli Stati Uniti hanno estratto minerale di roccia fosfatica in 10 località diverse e lavorato circa 24 milioni di tonnellate di prodotto commerciabile. Quasi tutto questo è stato utilizzato per produrre acidi fosforici necessari per i fertilizzanti, integratori per mangimi e pesticidi. Tuttavia, gli Stati Uniti importano circa il 90 percento delle loro forniture di potassio e potassio, la maggior parte delle quali proviene dal Canada.

Gli agricoltori statunitensi, quindi, hanno poche buone opzioni in vista della stagione della semina primaverile. Non avere abbastanza fertilizzanti, o semplicemente non essere in grado di permettersi ciò di cui hanno bisogno, li costringerà a determinare quanta area coltivare e quali colture piantare. Con il fertilizzante azotato, gli agricoltori possono utilizzare meno fertilizzante sulla stessa superficie o ridurre la superficie delle colture piantate e mantenere la quantità di fertilizzante a livelli più pieni. Entrambe le opzioni porterebbero a rese inferiori, anche se la qualità del raccolto sarebbe probabilmente migliore nel secondo scenario . Chi ha livelli residui di potassio e fosfato nel proprio terreno può ridurre o rinunciare agli acquisti per una sola stagione.

Aspettative sui prezzi di input dell'azienda agricola
(clicca per ingrandire)

Eppure il momento di decidere si avvicina rapidamente. I rivenditori di fertilizzanti hanno già avvertito gli agricoltori di testare il loro terreno in anticipo e pianificare acquisti anticipati di fertilizzanti poiché i prezzi sono così volatili. Mentre le vendite hanno iniziato ad accelerare, non è chiaro quanti agricoltori abbiano iniziato ad acquistare ora. Il senso prevalente tra gli esperti del settore è che gli agricoltori aumenteranno i loro acquisti di fronte a forniture più limitate, continui ritardi logistici e pura necessità. Ciò aumenta il rischio di guerre di offerte e accaparramento tra gli acquirenti, il che non fa che aumentare ulteriormente i prezzi.

Gli agricoltori statunitensi sembrano pessimisti. Il sentimento dei produttori agricoli ha iniziato a diminuire negli ultimi mesi. Il sentimento per le condizioni future è ora quasi quanto lo era nel picco di chiusura economica della pandemia del 2020. Gli agricoltori hanno espresso preoccupazione per i costi elevati dei fattori di produzione, ovvero i prezzi dei fertilizzanti, che indeboliscono i loro margini operativi. Hanno anche indicato che non si aspettano molto sollievo nei prezzi dei fattori di produzione nell’anno a venire.

Sentimento degli agricoltori 2015 - 2021
(clicca per ingrandire)

Oltre ai costi dei fertilizzanti, gli agricoltori statunitensi hanno anche identificato ulteriori fattori interni che danneggeranno la produzione. La carenza di manodopera, ad esempio, persiste in tutti i punti della filiera alimentare. In particolare, gli agricoltori hanno espresso preoccupazione per la carenza di esaminatori alimentari federali il cui sigillo di approvazione è necessario per le importazioni, le esportazioni e le vendite in fabbrica. Esistono ancora colli di bottiglia nei porti (la carenza di chiatte sul fiume Mississippi è la più preoccupante). C’è anche preoccupazione per la diminuzione della disponibilità di pesticidi come il glifosato e la carenza di attrezzature agricole. Le nuove attrezzature agricole hanno un inventario molto basso, ma più preoccupante è la crescente scarsità di pezzi di ricambio che hanno ritardato di mesi le riparazioni delle macchine. Il guasto meccanico durante il periodo del raccolto è catastrofico per un agricoltore,

Come tutti i governi, Washington è sensibile all’insicurezza alimentare, ma è vincolata a come può prevenirla. Non può risolvere unilateralmente i problemi della catena di approvvigionamento globale dall’oggi al domani, e non può sistemare magicamente i programmi delle colture, che non si allineano con i programmi del governo. Le soluzioni necessarie per affrontare i problemi dell’agricoltura vanno oltre quanto necessario per mitigare l’impatto sui raccolti della prossima stagione.

Gli Stati Uniti hanno adottato una strategia a doppio binario per affrontare le cause alla base dell’aumento dei prezzi dei generi alimentari. La prima traccia affronta i problemi generali che interessano l’intera economia degli Stati Uniti – cose come ritardi nei porti, carenza di manodopera, ecc. La seconda traccia mira a soddisfare le esigenze specifiche dell’agricoltura a breve termine, principalmente attraverso finanziamenti e finanziamenti per gli agricoltori, anche mentre continua a pompare denaro in altre aree dell’industria agricola. A giugno, l’USDA ha annunciato 4 miliardi di dollari di investimenti previsti per rafforzare il sistema alimentare. Di questo, 1 miliardo di dollari è stato stanziato per sostenere ed espandere le reti di assistenza alimentare di emergenza. L’ultimo disegno di legge sulle infrastrutture fornisce anche una riduzione diretta del debito agli agricoltori economicamente in difficoltà, sebbene si concentri maggiormente su investimenti a lungo termine per rivitalizzare le comunità rurali. Questa strategia significa che gran parte dei costi dei fattori di produzione continueranno a essere trasferiti agli agricoltori, il che si tradurrà in prezzi alimentari più elevati per i consumatori. Il finanziamento del governo servirà a prevenire il fallimento degli agricoltori e fornirà assistenza a coloro che vengono sopravvalutati. È una soluzione a breve termine con costi politici potenzialmente elevati.

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COPERNICANESIMI, di Pierluigi Fagan

COPERNICANESIMI. La cultura delle immagini di mondo ha una sua credenza fondativa. La credenza è quella che, data una struttura di pensiero gerarchica che da uno o più assunti di vertice produce discorso complesso a cascata secondo l’operatore logico “se … allora”, “se” si mette in discussione il punto iniziale, “allora” cambia l’intera struttura di pensiero. Classicamente, si è presa l’ipotesi di Copernico del porre la Terra in periferia ed il Sole al centro, al contrario di quanto faceva l’ideologia dominante cristiana di derivazione tolemaica, per chiamare questo processo “rivoluzione copernicana”.
Kant dichiara di esser stato soggetto ad una rivoluzione copernicana quando venne svegliato dal “sonno dogmatico” grazie alla lettura di Hume. Marx sarà ancor più copernicano nel voler rimettere la dialettica a testa in su dopo che Hegel l’aveva messa a testa in giù. Darwin fece altrettanto con l’idea che le specie nascevano, cambiavano e sparivano in un ciclo di esistenza adattiva e quindi non erano fisse, immobili, create perfette ex ante dal Perfetto Assoluto. Freud fece qualcosa di simile con la pretesa razionalista, in parte anche Nietzsche, come riconobbe Paul Ricoeur nel confezionare la definizione di “scuola del sospetto” (Marx-Freud-Nietzsche). Einstein infine fece qualcosa di simile con Newton o meglio con la pretesa epistemologica che la gravità newtoniana fosse l’unica dimensione valida per comprendere il funzionamento macro dell’Universo. Per non parlare della distruzione paradigmatica della meccanica quantistica rispetto alle nostre pretese di uniformare il mondo macro al micro.
Insomma, da dopo Copernico, si nota quello che solo negli anni ’60 per merito di un epistemologo americano (Thomas Khun) verrà razionalizzato come un sistema di pensiero che discende da un paradigma, messo in dubbio la pretesa ordinativa del paradigma, si muove tutto il sistema di pensiero fino a trovare un nuovo paradigma che sembra più adatto al cumulo delle conoscenze sviluppate.
Si noti il fattore tempo. Un paradigma è sempre figlio di un’epoca storica. Passando il tempo si accumulano evidenze a favore ma anche molte non a favore di quel paradigma, da cui l’idea di metterlo in discussione per cercarne un altro che faccia i conti con tutto ciò che si sapeva al tempo in cui è stato formulato, ma anche con tutto ciò che s’è scoperto dopo.
Sottoponiamo allora a verifica il paradigma del materialismo storico. Classicamente il paradigma, che era a sua volta un copernicanesimo anti-hegeliano, invertiva i rapporti tra struttura materiale produttiva e sociale con la sovrastruttura ideologica sovrastante. Così funzionava l’ordine delle cose e quindi così doveva funzionare l’anti-ordine delle cose. Fare “politica” per trasformare lo stato delle cose in atto, ordinava di cambiare le strutture. In effetti poiché lo ordinava in base ad una analisi e prognosi, cioè a seguito di una costruzione di pensiero, aveva in sé una contraddizione in quanto esso stesso negava il suo presupposto. C’era una idea prima dell’azione. In effetti, già prima nella sequenza storica del suo pensiero, Marx non aveva affatto escluso il ruolo delle idee, aveva solo raccomandato di tenerle in contatto col mondo reale delle cose, di pensare mentre si agisce, creando quello che noi oggi possiamo chiamare un “circolo ricorsivo” tra pensiero-azione-nuovo pensiero-nuova azione etc.
Dopo un secolo e mezzo di progresso conoscitivo operato da molte discipline, oggi si è per lo più convinti che, coscienti e non sempre del tutto coscienti, gli esseri umani agiscono in base a ciò che pensano. L’uomo è l’animale con il più sfolgorante successo adattativo della storia recente del vivente, proprio perché pur non dotato di alcuna specialità fenotipica, pensa prima di agire. Financo pensa che è meglio non agire, talvolta, cosa che lo ha -in parte- emancipato da certi meccanismi istintuali non sempre adatti a tutte le circostanze. Il complesso sistema che sovraintende alla funzionalità mentale, noi qui lo chiamiamo “immagine di mondo”, logiche, memorie, informazioni, teorie, conoscenze, giudizi, attraverso i quali pensiamo prima di agire. Ci teniamo talmente tanto (in effetti lo potremmo dire la nostra “identità”) che spesso che ce freghiamo se i risultati delle nostre azioni sono in contraddizione con il sistema di verità dell’attività pensante, facciamo prima a dar la colpa al mondo, piuttosto che alla nostra immagine.
A questo punto potremmo fare una contro-storia culturale del dominio dell’uomo sull’uomo, evidenziando quanto problematica sia l’idea che tale dominio si sia creato nelle condizioni materiali e solo dopo sia stato “giustificato” da quelle ideali. Fino a giungere all’Origine di questa asimmetria che secondo alcuni (tra cui chi scrive) data all’inizio delle società complesse, cinquemila anni fa. Origine che alla sua origine, si è affermata al contrario, prima distruggendo l’immagine di mondo condivisa naturalmente nei piccoli gruppi umani, per poi sviluppare un doppio processo ideale e materiale che ha portato progressivamente alla forma gerarchica della società. Ma non abbiamo spazio e tempo per poter esser più precisi a riguardo.
Saltiamo allora direttamente ad oggi. Come forse saprete, c’è una “discorso delle idee” che si dipana con grande coerenza ed intensità dalla fine della Seconda guerra mondiale, soprattutto in ambito statunitense. E’ un discorso complesso fatto di psicologia diretta allo sviluppo prima del comportamentismo e poi del cognitivismo, che poi si interseca con la rivoluzione informatica, lo sviluppo dei mass-media, che poi arriva ad Internet che nasce da una rete militare, che poi si sviluppa progressivamente nella cultura digitale, nel più ampio movimento della informazione, della cultura e dell’intrattenimento in direzione di certi precisi canoni conformi all’ordinatore economico mediato dal marketing. Fino ad arrivare ai primi del nuovo millennio, ad una nuova strategia lanciata dal governo americano detta NBIC, appunto la convergenza e sinergia tra le ricerche su nanotecnologie-biotecnologie-informazione-sviluppi della “cognitive science” che porterà al Internet of Things, al Metaverso, alla Realtà aumentata e molto altro per altro da tempo anticipato dalla letteratura fantascientifica distopica.
Ci si domanda quindi: quanto della battaglia politica condotta dalle élite oggi si basa su strutture piuttosto che sovrastrutture? Quanto materiale e sociale condizionamento sono esercitati, quanto controllo biopolitico, ma a questo punto quanto controllo psicopolitico come intuito da Byung-chul Han? Siamo sicuri che il dominio dell’uomo sull’uomo è operato dal piano materiale e solo dopo si confezionano ideologie? E come spieghiamo allora la vasta e storica servitù volontaria dei Molti se non con l’introiezione che è giusto sia così e non altrimenti possibile ancorché desiderabile? Se l’uomo è l’animale che pensa prima di agire, il controllo dell’uomo sull’uomo non parte dal controllo di questa facoltà di pensiero per poi raccogliere i frutti nel dominio materiale? Cosa hanno fatto le religioni per milioni di anni?
Sino a giungere alla nostra domanda finale: non è che convinti ancora che la battaglia politica debba partire dalle forme materiali, ci siamo persi l’opportunità di agire invece sul piano mentale? Perché invece di fondare partiti materiali, non proviamo a fondare un partito mentale? Che faccia conflitto organizzato mentale? Avremo dei vantaggi a fare un nostro copernicanesimo che riconosca la necessità di agire in forme organizzate il conflitto sociale e politico sul piano mentale? Non è che ci serve un partito culturale, un movimento culturale organizzato prima di quello sociale e politico?
O crediamo che basti la nostra confusa e scoordinata, vociante ed inconcludente “guerriglia critica” per combattere le potenti forze messe in campo dall’ ordinatore dominante e relativa élite con codazzo funzionariale sempre più dedita a capire e controllare come riannodare i fili dei nostri dendriti disciplinando i flussi elettrici e chimici che da neurone vanno a neurone?
E’ forse questa la risposta che non troviamo per la versione attuale dell’eterna domanda politica: che fare?
NB_Tratto da facebook

Imposta globale o imposta statunitense?_di Victor Fouquet

“Una svolta storica! Così è stata presentata la firma da parte di 130 dei 139 membri del quadro inclusivo dell’Ocse, il 1° luglio a Venezia, dell’accordo sull’applicazione dal 2023 di un’aliquota minima alle imprese del 15% nel mondo.

Per la stragrande maggioranza dei commentatori, questo testo, costringendo le multinazionali a versare con i loro profitti il ​​loro equo contributo alle finanze pubbliche, rappresenterebbe un grande passo avanti verso una maggiore “giustizia fiscale” internazionale, oltre a simboleggiare la vittoria di multilateralismo sugli “egoismi nazionali”. Tale analisi è doppiamente sbagliata. Da un lato ignora i fenomeni di equità spaziale e di incidenza fiscale, la cui conoscenza è tuttavia indispensabile se si vuole valutare correttamente la giustizia – interstatale e interindividuale – di una riforma tributaria di questo tipo. D’altro canto, ignora il reale equilibrio internazionale di forze alla base dell’accordo del 1 luglio, che è meno cooperativo di quanto si vorrebbe dire.

Giusto, la tassa minima globale? Per le piccole nazioni sovrane scarsamente dotate di fattori di produzione, l’assenza di un tax floor e la fissazione gratuita di aliquote appaiono normalmente i mezzi per attrarre loro il capitale finanziario e umano necessario al loro sviluppo ea quello della loro popolazione. Questo è ciò che i nove recalcitranti avidi di tasse hanno capito e rivendicano, più o meno direttamente: Irlanda, Ungheria, Estonia., Kenya, Nigeria, Barbados, Saint Vincent e Grenadine, Perù e Sri Lanka. Pertanto, l’attuazione di un’aliquota minima globale dell’imposta sulle società riflette più la volontà dei grandi Stati (“il più freddo dei mostri freddi”) di preservare il loro vantaggio competitivo e il loro guadagno fiscale, che riflette una genuina preoccupazione per la giustizia in la direzione dei piccoli paesi con spazi di mercato più deboli. La legge delle ripercussioni fiscali ci insegna anche che i contribuenti designati come imposti dalla normativa sono raramente coloro che contribuiranno, di fatto, al finanziamento della spesa pubblica. I più forti economicamente con ripercussioni sui più deboli, vi sono tutte le ragioni per pensare che l’eccedenza attesa di entrate fiscali (150 miliardi di dollari l’anno a livello mondiale;

Le menti più acute avranno capito qui che la tassazione, come ogni questione politica, ha prima di tutto una dimensione geopolitica. La prova migliore: Janet Yellen, Segretario del Tesoro degli Stati Uniti, ha convinto gli europei che volevano continuare a tassare unilateralmente i Gafam americani a rinunciare obbedientemente al loro diritto alla tassazione. La richiesta di giustizia fiscale è diventata improvvisamente più tranquilla da parte di Washington quando si è trattato di proteggere le ammiraglie industriali americane. L’ingenuità di molti osservatori francesi e più in generale europei, che elogiano Biden dopo aver maledetto Trump, confonde ancora una volta. Lo scambio è sicuramente più cortese con Joe, e il potere di ritorsione meno evidente che con Donald. Ma lo scopo rimane lo stesso: America First!Non è nemmeno un caso che la riforma dell’imposta globale sulle società, dopo aver naufragato per molti anni, sembri sul punto di completarsi proprio mentre gli Stati Uniti decidono di aumentare la propria aliquota. L’amministrazione statunitense si assicura così entrate fiscali aggiuntive limitando significativamente i rischi di delocalizzazione e di clamore per le proprie multinazionali. Vincere su tutti i fronti!

https://www.revueconflits.com/impot-mondial-ou-impot-americain/

Sapelli: la crisi energetica è un colossale fallimento manageriale e del green “forzato” dalla Ue

Si contempla il traguardo, ma non la strada da percorrere_Giuseppe Germinario

Sapelli: la crisi energetica è un colossale fallimento manageriale e del green “forzato” dalla Ue. Se ne esce rallentando la corsa alla transizione forzata e inverando l’economia circolare

di Marco de’ Francesco ♦︎ Intervista allo storico ed economista sull’enorme aumento dei prezzi dell’energia, che danneggerà seriamente molte industrie (automotive, plastica, chimica, acciaio…). «Il diesel, alla fine dei conti, era assai più verde dell’elettrico. Ma non c’è dubbio che una certa narrazione sia prevalente»

«La crisi energetica? Un colossale fallimento manageriale da parte degli strateghi e dei responsabili degli acquisti delle società energetiche europee». I primi hanno smesso di investire nelle ricerche minerarie, i secondi non hanno capito che il just in time, con l’interruzione delle filiere in corso di pandemia non funzionava più, e che bisognava far scorte di idrocarburi. E ora il Vecchio Continente è in guai seri, perché il prezzo del Brent viaggia a quota 80 dollari, e il gas naturale è passato in un anno da 2,5 dollari al metro cubo a circa 6 dollari, e anche il carbone ha rialzato la testa, da 50 a circa 220 dollari a tonnellata. E i livelli di stoccaggio sono paurosamente bassi. Ci aspettano momenti terribili, con possibili gravi ripercussioni sull’automotive, il vero motore dell’industria continentale, «che si sta smantellando da sola». Lo pensa Giulio Sapelli, economista, storico e accademico torinese (ma con cattedra a Milano), uno dei pochi ad avere sempre un punto di vista originale sulle vicende industriali ed economiche in Italia.

C’è di più. Secondo Sapelli, la dabbenaggine non c’entra. Non si tratta, cioè di errori di valutazione dovuti al fato o all’incompetenza. Il fatto è che i manager sanno bene che la Borsa premia il green. La Finanza sovvenziona l’ideologia verde con denari a palate: secondo Morningstar, sui 139,2 miliardi di dollari che nel secondo trimestre di quest’anno sono affluiti sulle società che producono energia rinnovabile o che investono nella transizione energetica, l’81%, e cioè 112,4 miliardi, provengono dal Vecchio Continente. Il mondo green valeva a giugno 2.243 miliardi di dollari, più del Pil dell’Italia; di questi soldi, l’82% era in mano all’Europa. È oggettivamente difficile, per qualsiasi manager, non tenere conto di queste dinamiche. D’altra parte, le scelte green degli amministratori, dice Sapelli, sono “ricompensate” dalle società di appartenenza con laute concessioni di stock option.

Tutto ciò si fa perché Strasburgo ha posto in essere un proprio piano sulle politiche energetiche (ma anche climatiche e dei trasporti), il Green Deal, che si fonda largamente sul ricorso alle fonti rinnovabili e sulla compressione di quelle fossili. Ma secondo l’economista non è chiaro se sia stata l’Unione Europea a condizionare la finanza, o il contrario, visto che la seconda «ha un piede nell’Unione Europea». Come se ne esce? Da una parte l’Unione Europea dovrebbe per lo meno rallentare la corsa alla transizione forzata, dall’altra il governo Draghi dovrebbe «inverare l’economia circolare», che riduce la produzione di emissioni senza annientare l’industria. Secondo me questa è una strada credibile, e realizzabile. È già in parte operativa: si tratterebbe soltanto di estendere il sistema. Tutto questo secondo Sapelli, che abbiamo intervistato.

 

D: Con il Covid la domanda di energia era calata, e pure i prezzi. Si era detto che era un calo strutturale e non casuale. Oggi questi discorsi sembrano destituiti di qualsiasi fondamento: abbiamo ancora bisogno di petrolio e gas?

Giulio Sapelli, economista e accademico

R: Sì, non c’era nulla di strutturale nella riduzione dei prezzi durante il Covid-19. Il calo era momentaneo, ed era legato al blocco delle attività produttive, al alla disarticolazione delle filiere e alla difficoltà degli approvvigionamenti. Molto si era fermato, e quindi c’era meno bisogno di energia. Poi, quanto sta accadendo da qualche mese, è invece frutto di un insieme di fattori. Anzitutto l’aumento è legato ad una transizione green troppo rapida, guidata dall’alto, e cioè dalle politiche europee sull’energia e sui trasporti, che sono frutto della tecnocrazia di Strasburgo, sempre più lontana dalla realtà dell’industria. Inoltre stanno pesando anche le condizioni climatiche, l’inverno freddo e l’estate calda, e soprattutto il default manageriale delle imprese energetiche del Vecchio Continente.

 

D: Quale default manageriale?

R: Ciò che si osserva è anche un colossale fallimento manageriale: i responsabili degli acquisti delle società energetiche europee avrebbero dovuto capire che centinaia di navi alla rada (cariche di idrocarburi) avrebbero creato colli di bottiglia. Avrebbero dovuto comprendere che il just in time che aveva regolato il loro mondo negli ultimi anni non avrebbe più funzionato e che bisognava fare scorte. Invece, gli esperti che si occupavano di strategia avrebbero dovuto continuare a fare investimenti nel fossile, nella ricerca mineraria. Non c’è niente da fare: senza queste attività si resta a secco. Comunque sia, ora ci troviamo senza riserve.

La missione 2 del Pnrr: la transizione ecologica

D: In effetti nel 2014 si investivano 800 miliardi nella mineraria, quest’anno di stima sui 250 miliardi. E i livelli di stoccaggio sono tra i più bassi mai registrati. Ma come mai i manager delle aziende energetiche non hanno interpretato correttamente la situazione?

R: Diversi fattori hanno inciso sul comportamento dei manager. La Borsa premia il green, che le stock option vengono assegnate a chi fa operazioni verdi: si assiste ad una discrasia sempre più profonda tra la finanza e la realtà. E le scelte dei manager sembrano guidate dalla logica dei bonus.

Gas naturale. L’incremento dei prezzi delle materie prime non è di certo una novità, ma piuttosto un fenomeno che ciclicamente coinvolge l’economia mondiale. Ma questa volta, alle dinamiche fisiologiche si sono sommate quelle straordinarie dettate dalla pandemia, su tutte le politiche di stimolo messe in campo dai governi

D: Non è che l’Europa, con il Green Deal, ha fatto il passo più lungo della gamba?

R: Ha imposto dall’alto una politica sull’energia e sui trasporti largamente fondata sulle rinnovabili, caratterizzate da una produzione intermittente e insostenibile dal punto di vista industriale. Bisogna tornare alla raffinazione del petrolio. È essenziale in termini energetici; e con i suoi derivati non si fa soltanto la plastica, il cui prezzo è peraltro raddoppiato in un anno, ma anche i prodotti farmaceutici, che sono basati sull’urea. Vorrei sapere come avremmo fatto a sviluppare i vaccini, altrimenti. L’aspetto grottesco del momento attuale è che, dopo tutta questa guerra ai combustibili fossili, alcuni Paesi paladini di questa ideologia (come il Regno Unito) stanno riattivando le centrali a carbone – che è senz’altro la fonte più inquinante.

Brent petrolio. Dopo un calo dei prezzi di materie prime come rame, petrolio e acciaio a cavallo di Ferragosto, ora si assiste a una nuova inversione di tendenza. Anche gli analisti si trovano in difficoltà: è difficile stabilire se si tratti di una normalizzazione della curva o di una nuova ondata di incrementi.

D: Quali settori industriali rischiano di più? E quanto rischiano?

Linea di produzione nella fabbrica Fca di Torino

R: La crisi energetica sta colpendo duramente le industrie ad alto consumo di elettricità, e quindi la siderurgia, la chimica, la ceramica, le cartiere. Ma non trascurerei l’automotive, che è centrale per il sistema Paese. Al di là dei componentisti, molti settori dipendono dalla domanda dei carmaker: si pensi alle materie prime: plastica, vetro, metallo, compositi. Ora, l’automotive è di nuovo sotto scacco, perché, dopo i guai e l’indebitamento per la transizione all’elettrico, si trova a fronteggiare sia la crisi energetica che quella dell’aumento dei costi e della difficoltà di reperire componenti essenziali, come i micro-chip, che dei raw material. Come si è arrivati a tutto questo? Si torna al discorso di prima: la colpa è dei tecnocrati di Bruxelles e Strasburgo, che subiscono le pressioni delle lobby ambientaliste, che a loro volta hanno un piede nella finanza. Quello che sta accadendo è strano e forse non è mai successo: l’industria europea si sta smantellando da sola.

 

D: L’Opec e la Russia non sembrano avere alcun interesse ad aumentare l’offerta. Anzi, pare che Gazprom abbia diminuito le forniture.

R: L’Opec e la Russia fanno i loro interessi. Per quale motivo dovrebbero agire per diminuire i prezzi, dopo un periodo, quello della pandemia, in cui questi sono diminuiti? Fa parte della dialettica fra gli Stati. L’Opec in particolare è sempre stata molto attenta a gestire la dinamica dei costi del petrolio. Questo si sapeva già. La colpa è dell’Europa, che si è cacciata nei guai da sola, e che ora non sa esattamente cosa fare.

Dopo un calo dei prezzi di materie prime come rame, petrolio e acciaio a cavallo di Ferragosto, ora si assiste a una nuova inversione di tendenza. Anche gli analisti si trovano in difficoltà: è difficile stabilire se si tratti di una normalizzazione della curva o di una nuova ondata di incrementi

D: Come si esce da questa situazione?

Maire Tecnimont Impianto di trattamento Oil & Gas Tempa Rossa

R: Ritornando alla ragione, e quindi abbandonando le sirene e i cantori della transizione forzata. Certo, bisogna agire anzitutto in Europa, per porre i tecnocrati di fronte alla realtà: non è mai stato inventato un sistema per contrastare l’emissione di Co2. Il green sposta il problema altrove, ma si vive sotto lo stesso cielo, nella stessa atmosfera. Se movimento e tratto in Cina centinaia di tonnellate di terra per ottenere un centimetro cubo di materiali da inserire in una batteria o nel fotovoltaico, qual è il vantaggio? Il diesel, alla fine dei conti, era assai più verde dell’elettrico. Ma non c’è dubbio che una certa narrazione sia prevalente. Poi c’è il governo. Se fossi Draghi, cercherei di inverare l’economia circolare, che riduce la produzione di emissioni senza annientare l’industria. Secondo me questa è una strada credibile, e realizzabile. È già in parte operativa: si tratterebbe soltanto di estendere il sistema. Quanto a Confindustria, non so neanche cosa dire. All’interno, non è difficile scorgere una lotta di potere, dove la politica ha un peso importante. D’altra parte, gran parte del finanziamento all’associazione dipende dalle imprese pubbliche. Questo influisce molto sulle dinamiche di Viale dell’Astronomia.

https://www.industriaitaliana.it/sapelli-crisi-energia-economia-circolare-industria-gas-petrolio/

Che cosa penso delle tesi di Rutelli su Pnrr e rinnovabili. Parla Sapelli

Draghi Sapelli

Lo storico ed economista, Giulio Sapelli, commenta in una conversazione con Start Magazine le tesi di Francesco Rutelli che a Draghi sulla transizione energetica ha consigliato di…

“Draghi ha ottenuto la fiducia sulla promessa di una “rivoluzione verde”, ma l’attuale agenda è inadeguata. Se ci faremo trovare impreparati, il Paese perderà anche competitività: compreremo dalla Cina le batterie e dalla Germania gli elettrolizzatori”. Non usa mezzi termini l’ex ministro dell’Ambiente Francesco Rutelli, ora presidente della fondazione Centro per un futuro sostenibile e presidente di Anica, associazione delle industrie cinematografiche, audiovisive e multimediali, in una intervista a Repubblica chiede che il dossier sul clima passi a Draghi.

Per Giulio Sapelli, economista, però il Pnrr più che essere fuori strada sul clima lo è sulla politica industriale. “Gli obiettivi climatici al 2030 non dovrebbero esistere”, dice Sapelli, sentito da Start Magazine.

Andiamo per gradi.

RUTELLI: SUL CLIMA SIAMO FUORI STRADA

Partiamo dalle tesi di Francesco Rutelli.

“Sul clima siamo completamente fuori strada”, afferma l’ex Ssndaco di Roma, che negli ultimi anni è uscito dalla scena politica in una intervista a Repubblica. “L’agenda politica italiana è totalmente inadeguata ad affrontare l’emergenza. Ma una soluzione c’è e si chiama lavoro”.

SPROPORZIONE TRA IMPEGNI E FATTI

“C’è una colossale sproporzione tra quello che ci siamo impegnati a fare e quello che stiamo realizzando davvero. La comunità internazionale, quindi anche l’Europa e l’Italia, è concorde nel dimezzare le emissioni di CO2 entro il 2030 e azzerarle entro il 2050”, ha aggiunto Rutelli.

IL DOSSIER PASSI A DRAGHI, DICE RUTELLI

Per il presidente di Anica, a prendere in mano il dossier dovrebbe essere direttamente il Premier: “Draghi ha ottenuto la fiducia sulla promessa di una “rivoluzione verde”, ma l’attuale agenda è totalmente inadeguata. Non basta cambiare nome a un ministero e affidarlo a un persona competente come Cingolani, di cui mi fido e che stimo, ma che è l’ottavo ministro del governo in termini gerarchici. Se ne deve far carico il premier in prima persona”, aggiunge Rutelli.

A RISCHIO COMPETITIVITA’ PAESE

Per l’ex sindaco di Roma, in gioco c’è il futuro imprenditoriale del Paese. Bisognerebbe, spiega Rutelli, riscrivere “totalmente l’agenda politica del Paese”, mettendo “al centro la lotta all’emergenza climatica. Se ci faremo trovare impreparati, il Paese perderà anche competitività: compreremo dalla Cina le batterie e dalla Germania gli elettrolizzatori (i dispositivi che estraggono idrogeno dall’acqua, ndr)”.

OBIETTIVO: CREARE LAVORO

Ma come convincere la popolazione che la strada verso il green sia quella giusta?

“L’unica chiave per convincere le persone a sposare la transizione ecologica – spiega Rutelli – è il lavoro. Vanno coinvolti tutti gli attori pubblici perché gli investimenti green siano finalizzati alla creazione di nuova occupazione. Chi perderà il lavoro per il passaggio dai fossili alle rinnovabili dovrà poter contare su una struttura di formazione permanente che lo prepari alle nuove professioni. E ai ragazzi va prospettata una filiera di formazione e occupazione compatibile con la transizione verde. È il solo argomento convincente nel breve termine per avere il consenso delle persone”.

SAPELLI: LA TRANSIZIONE E’ SOCIALE E A LUNGO TERMINE

Ma davvero, come dice l’ex ministro dell’Ambiente, nella lotta al cambiamento climatico siamo fuori strada? “L’affermazione di Francesco Rutelli è apolitica. Il problema sollevato è giusto, ma non possiamo trovare soluzioni solo superficiali. Bisogna capire cosa e come si interpreta la lotta al cambiamento climatico”, afferma Giulio Sapelli, storico ed economista, a Start Magazine.

“Per controbilanciare, realmente, la devastazione fatta negli anni passati del clima, della natura e della Terra, è necessaria una transizione di lungo termine. Guardiamo al passato e al tempo che è stato necessario per passare dal feudalesimo al capitalismo”.

CON MODELLO CAPITALISTA LA TRANSIZIONE ENERGETICA E’ LONTANA

E proprio il capitalismo, per Sapelli, è un impedimento alla lotta al cambiamento climatico. “Sarà difficile risolvere il problema climatico all’interno del nostro sistema capitalista, serve prima una transizione sociale ed economica. La necessità di presentare i conti economici ogni tre mesi dirotterà le politiche aziendali alla creazione di plus valore”.

OBIETTIVI 2030? MODELLO SBAGLIATO

Anche la modalità dell’imposizione degli obiettivi, per Sapelli, è fallibile. “Il problema non è essere in linea o meno con gli obiettivi al 2030, come sostiene Rutelli, il problema è l’imposizione di quelli obiettivi. Questa politica risponde ad un modello sovietico, già fallito”, spiega l’economista: “Con il Pnrr abbiamo resuscitato il modello URSS”.

SAPELLI SU RUTELLI

E allora qual è la strada che il governo Draghi dovrebbe perseguire? “Quella che dovremmo seguire tutti: puntare al risparmio energetico, nel senso di non accendere luci non necessarie, per esempio, e a nuovi modelli di estrazione delle risorse naturali. Mi spiego: l’acqua dovrebbe essere amministrata dalla comunità, come bene comune di cui prendere consapevolezza. Un altro esempio? La pesca: il fermo pesca non dovrebbe essere imposto dall’alto, ma deciso da una cooperativa di pescatori. É la società che si deve anche fare carico dell’economia”.

PNRR: NON RISPECCHIA STRUTTURA INDUSTRIALE

E quindi il Pnrr, così come impostato, potrebbe avere effetti controproducenti per la struttura imprenditoriale italiana? “Sì”, secondo Sapelli, ma non per gli stessi motivi di Rutelli. Secondo l’economista, infatti, “il Piano non è modulato sulla struttura industriale italiana, che è composta principalmente da piccole e medie imprese. Noi siamo una potenza grazie a queste: se guardiamo alla siderurgia, oltre all’Ilva, noi siamo leader grazie alle imprese medie e piccole di settore”.

UN PNRR TROPPO BUROCRATICO

Ma Sapelli che cosa rimprovera a questo Pnrr? “E’ troppo burocratico e centralizzato. Il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza è un elenco di spese, una teoria. Sembra essere l’ultimo tentativo sovietico. I neoliberisti vogliono fare i liberisti con lo Stato. Il Pnrr manca di una visione industriale per il nostro Paese, è frutto delle idee dei 10.000 burocrati di Bruxelles”.

IL FOSSILE TORNERA’ DI MODA

Ma burocrati ed ideologie momentanee a parte, per Sapelli i fossili non passeranno mai di moda. “Del fossile ce ne sarà sempre bisogno. Ci accorgeremo presto che con le rinnovabili produrremo più anidride carbonica di quanto immaginiamo. L’idrogeno, invece, richiede l’utilizzo di materiali cancerogeni. Il litio non riusciamo a smaltirlo. Quanto prima torneremo alle fossili e al gas, soprattutto”, secondo lo storico ed economista.

“Rutelli è mosso da pensieri positivi, ma bisogna conoscere bene la materia. Io ho anche letto il libro “Tutte le strade portano a Roma”, è molto bello, ma consiglio a Rutelli di leggere quanto è accaduto in Texas, dove sono stati senza luce per il crollo del sistema elettrico, che si regge sulle sole rinnovabili. Ci sono già elementi che valorizzano la mia tesi”.

https://www.startmag.it/energia/che-cosa-penso-delle-tesi-di-rutelli-su-pnrr-e-rinnovabili-parla-sapelli/

Una “battaglia di civiltà”, a cura di Giuseppe Germinario

Siamo oltre! Siamo alle estreme conseguenze…o coerenze? Dieci anni fa ce l’hanno raccontata diversamente, stando all’articolo e ai resoconti delle testimoni dirette citate. Già allora le questioni poste sulla base delle versioni offerteci, quello del “fine vitae” erano estremamente delicate. Si parlava quantomeno di eutanasia come scelta soggettiva o rispetto ad una persona totalmente passiva ed incosciente senza via di uscita dalle sofferenze e lasciata a languire. Allora ci hanno offerto la soluzione alla vita, oggi in corso di pandemia ci offrono a loro modo la vita. A ben guardare due facce della stessa medaglia. Ormai qui siamo oltre…Giuseppe Germinario

Segue l’articolo de “l’avvenire” e alcune considerazioni di Roberto Buffagni già apparse nel 2009

Dieci anni dopo. Eluana, la verità non muore


Lucia Bellaspiga venerdì 8 febbraio 2019
Cosa sappiamo oggi, ancora, di quella vicenda conclusa così tragicamente? Ecco gli appunti di chi fu testimone delle ultime settimane e delle ore convulse e strazianti tra Lecco e Udine

Eluana Englaro

Eluana Englaro

Costava fatica entrare nella stanza di Eluana e trovarsi faccia a faccia con lei per la prima volta. Costava fatica perché mesi di dichiarazioni e articoli a senso unico preparavano al peggio: Eluana «morta 17 anni fa», si scriveva, Eluana inguardabile, Eluana violata da tubi e macchinari, Eluana “attaccata” a una spina, Eluana costretta a sofferenze… Per questo si aveva paura, e ci sembrò strano il sorriso incoraggiante di suor Rosangela il giorno in cui, dieci anni fa, con il permesso del padre Beppino ci introdusse in quella stanza della clinica «Beato Talamoni» di Lecco e ci indicò un letto: «Ecco la nostra Eluana».

Nessun macchinario, niente tubi, nemmeno sinistri bip bip né numeri scanditi sui monitor: solo una normale stanzetta in penombra, il vetro un poco sollevato nonostante l’autunno inoltrato per far entrare aria pulita, un letto uguale ai nostri, due peluche appesi alla testata, un comodino con pacchi di lettere «Alla signorina Eluana», e di lato la poltrona di suor Rosangela, la Misericordina che le viveva accanto da 15 anni. Un lenzuolo candido copriva una ragazza distesa su un fianco, il destro, così la vedemmo di spalle. O meglio, di spalle vedemmo una testa di capelli lucidi e neri, tagliati corti… Mezzo giro intorno al letto, ed eravamo una di fronte all’altra, ecco Eluana.

Tutta Italia da mesi parlava di lei, ma che cosa si sapeva? Gli italiani la “conoscevano” dalle tante foto scattate a vent’anni, sulla neve o mentre scherzava dietro la tenda della doccia, capelli lunghi e sorriso radioso. Poi quei giorni felici erano stati bruscamente interrotti da un fatale incidente d’auto che nella notte tra il 17 e il 18 gennaio 1992 l’aveva condotta in fin di vita: cinque giorni di coma profondo, la battaglia dei medici per rianimarla e la tracheotomia, ma anche una condizione dalla quale non si era più svegliata, entrando in quello che all’epoca si chiamava solo stato “vegetativo”. Un totale mistero allora e un mistero ancora oggi, anche se negli ultimi anni la neuroscienza ha fatto passi da gigante dimostrando che nel 40% dei casi le diagnosi di “stato vegetativo” erano errate e dentro quei cervelli apparentemente spenti può vivere una coscienza, che lancia segnali, che percepisce il mondo esterno, che a volte persino “comunica”.

«Per me Eluana è morta il 18 gennaio 1992, da quel giorno non l’abbiamo più percepita e non esiste più come persona», ci spiegava Englaro, scegliendo di restare in corridoio ad aspettare la fine della visita. Gli articoli dei quotidiani descrivevano agli italiani una Eluana, ormai 37enne, scarnificata e costretta a vivere in una condizione di estrema sofferenza (tra gennaio e febbraio 2009 assistemmo a un crescendo disumanizzante, tra chi la diceva «completamente calva» e chi con «la faccia rinsecchita come il resto del corpo», il viso piagato «da quelle lacerazioni che ai vecchi vengono sul sedere o sulla schiena», «ridotta a meno di 40 chili». Concludeva la danza macabra Roberto Saviano, che mai l’aveva vista: «Le orecchie divenute callose e la bava che cola…”).

E le foto a corredo degli articoli mostravano sempre macchinari, tubi, monitor. Per questo rimanemmo stupiti scoprendo che Eluana era una disabile, non una malata terminale, soprattutto che respirava autonomamente e viveva di vita propria. Le suore curavano anche la sua femminilità, idratando ogni giorno con creme la sua pelle intatta, di porcellana, che traspariva da una corta camicia da notte. A volte se il tempo lo permetteva veniva seduta su una sedia a rotelle e portata in giardino. E come tutti noi, la sera si addormentava, la mattina apriva gli occhi e si svegliava. In buona fede, eravamo convinti che bastasse spegnere una macchina per far morire Eluana, ma l’unica spina nella stanza era quella della radio che a volte suor Rosangela sintonizzava sulla musica. Che spina si voleva staccare? Con quale tecnica si poteva pensare di ucciderla?

Occorre fare un passo indietro, all’11 ottobre 2008. Mentre fuori infuriavano la battaglia ideologica e quella legale per la sua eutanasia, Eluana fu a un passo dal morire naturalmente, a causa di una forte emorragia dovuta a un ciclo mestruale anomalo. Il suo medico curante, Carlo Alberto Defanti, amico di Englaro, a noi giornalisti spiegò che l’evento non era legato al suo stato, che sarebbe potuto capitare a ogni donna, ma che Eluana non ce l’avrebbe fatta perché nessuno le avrebbe praticato le trasfusioni garantite a qualsiasi altra paziente. Invece a sera ci annunciò l’inimmaginabile: l’emorragia si era improvvisamente fermata, Eluana migliorava di ora in ora e lottava per vivere. Com’era possibile?, chiedevano i giornalisti assiepati da ore. «Eluana è una donna forte e sana – spiegava lo stesso Defanti –, curata in modo eccezionale dalle suore Misericordine, in tanti anni non ha mai preso un antibiotico».

Brutto dirlo, ma tutti si sperava che Eluana morisse così, naturalmente, mettendo fine al tragico teatro che si svolgeva sulla sua vita. Pochi sanno che il copione era consapevolmente studiato molti anni prima, addirittura 14, quando il gruppetto di persone che lavorano per condurre l’Italia a legalizzare l’eutanasia venne a sapere di quella ragazza, allora giovanissima e da poco ricoverata. La vicenda di Eluana, se ben gestita, sarebbe stata utilissima.

Leggiamo direttamente le parole di uno di loro, il bioeticista dell’università di Torino, Maurizio Mori: «Più che di per sé», visto che «di persone ne muoiono tante anche in situazioni ben peggiori, il caso di Eluana è importante per il suo significato simbolico», scrisse in un libro. Proprio «come Porta Pia è importante non tanto come azione militare quanto come atto simbolico che ha posto fine al potere temporale dei papi», sospendere cibo e acqua a Eluana e riuscire a farla morire per sentenza, in modo “legale”, avrebbe significato «abbattere una concezione dell’umanità e cambiare l’idea di vita e di morte ricevuta dalla tradizione millenaria per affermarne una nuova». Ovvero per segnare «la fine del vitalismo ippocratico e gettare le basi di un controllo della vita da parte delle persone»…

Di Englaro, incontrato tre lustri prima della morte di Eluana, Defanti riferì a Mori che era la persona giusta per la loro battaglia ideologica: «Di solide convinzioni», sarebbe stato in grado di «portare avanti un caso come quello di Nancy Cruzan o di Tony Bland» (celebri battaglie legali per l’eutanasia, la prima negli Usa nel 1990, la seconda nel Regno Unito nel 1993, ndr): «Valuteremo se ci sono le condizioni per procedere… Ma sono persone serie, che vanno seguite». Quattordici anni dopo, a cose fatte, lo stesso Mori scriverà soddisfatto: «Oggi è dissolta la sacralità della vita».

Torniamo a dieci anni fa.

Andammo a trovarla di nuovo a poche ore dal Natale 2008, senza sapere che sarebbe stata l’ultima visita, sempre con Beppino Englaro che ce lo consentiva. Quel giorno successe un fatto che impressionò profondamente noi, ma normale per suor Rosangela (abituata alle reazioni di Eluana) e ancor più per i neuroscienziati (nelle persone in stato di minima coscienza sono eventi consueti): con una battuta di spirito chi era nella stanza scoppiò a ridere, e quel suono così strano, non sentito forse per anni, accese sul viso della giovane donna un sorriso aperto, evidente, scioccante. Eluana in qualche modo c’era, reagiva, ansimava di spavento se sentiva discutere della sua prossima morte.

Le promettemmo che saremmo tornati per San Valentino, ma il padre intervenne deciso: «Non ci sarà più». Lo incontrammo di nuovo la notte tra il 2 e il 3 febbraio 2009 davanti alla clinica di Lecco, lo sguardo fisso mentre, seduto al volante, si muoveva dietro all’ambulanza che portava via sua figlia, tra vento e nevischio, per condurla a Udine, a morire.

Si concludeva la sua lunga battaglia legale, e per la prima volta nella storia della Repubblica italiana si sarebbe tolta la vita a una persona disabile, non malata terminale, che respirava autonomamente, nutrita e dissetata attraverso un sondino naso-gastrico, come sempre si fa per praticità e sicurezza con questi pazienti, anche quando sono in grado di deglutire. All’una di notte le sole finestre illuminate nella clinica Talamoni di Lecco erano quelle della sua stanza, tra le righe delle tapparelle il via vai angosciato delle suore che invano avevano pregato «lasciatela a noi, non abbiamo mai chiesto nulla per accudirla», e che ora chiudevano in una borsa le poche cose da portare via quando si va a morire.

Avevano sempre taciuto, le suore, ostinate anche con noi giornalisti, fedeli al mandato del silenzio dato da Englaro, che 15 anni prima le aveva supplicate di tenerla loro, perché era lì che nel 1970 era nata. Ma dopo la partenza di Eluana per Udine, la madre generale, suor Annalisa Nava, finalmente parlò: «Eluana ha capito tutto. Era agitata, le ho detto di stare calma, che l’avrebbero portata in un’altra clinica più bella e più comoda. Ho letto sui giornali che è morta 17 anni fa: no, Eluana è viva, anche esteticamente ha un aspetto florido, sano. Mi piacerebbe che chi scrive certi articoli potesse vederla da vicino per stabilire chi ha ragione. Dire a una persona “tu per me sei morto” significa radiarlo dalla sfera umana… È la frase che ci fa tornare indietro in umanità, regredire a tempi molto bui».

A dare l’ultima descrizione impressionante era stato proprio Amato De Monte, il capo dell’équipe costituitasi per applicare il protocollo della sua morte, anestesista nella clinica udinese che aveva accettato di praticare l’eutanasia a Eluana dopo che tutte le altre si erano sfilate una per una. «Accarezzatela spesso, osservate il suo respiro, ascoltate il battito del suo cuore», si erano raccomandate le suore e i medici della “Talamoni” consegnandogli Eluana, «saranno i tre elementi che vi porteranno ad amarla».

Così non è stato. Eluana alla “Quiete” di Udine fu ricoverata, naturalmente, non con una prescrizione eutanasica ma con un’autorizzazione della Asl che parlava di «recupero funzionale e promozione sociale dell’assistita». Insomma, ufficialmente per essere curata. Ma alla “Quiete” Eluana è tra mani estranee, non ci sono più quelle di suor Rosangela sempre pronte a fare la cosa giusta. Così si agita, tossisce fino a strozzarsi, rischia persino di morire, cerca aria, solleva le spalle ma non ci riesce. La salvano.

Poi il protocollo ha inizio, insieme alla sedazione per attutire le sofferenze. Medici e infermieri tengono un diario aggiornato ogni mezz’ora, registrano i peggioramenti, i gemiti, i tentativi di dare sollievo alla pelle che si spacca quando il sondino non porta più l’acqua ed Eluana si secca come una mela al sole. Il rantolo si fa continuo, i reni si bloccano, gli spasmi si fanno frequenti, la “combustione” delle cellule neuronali del cervello dovuta all’assenza di sudorazione innalza la febbre a 42. Così la troverà il medico legale al momento dell’autopsia, con i segni delle sue stesse unghie nei palmi delle mani strette in quei giorni. E nella stessa autopsia finalmente la verità: morta per arresto cardiaco causato dalla sete, dopo quattro giorni senza cibo e acqua pesava ben 53 chili, il fisico era sano e florido, nessuna traccia di piaghe da decubito… «Quando è uscita da qui era bella», avevano giurato le suore, ma contro di loro si era mossa la grande macchina mediatica e ancora oggi la gran parte degli italiani è convinta che Eluana vegetasse attaccata a una macchina. E che sia morta di morte naturale perché fu staccata una spina dal muro.

https://www.avvenire.it/attualita/pagine/eluana-dieci-anni-dopo?fbclid=IwAR0zkrhCNWZS9XK_RhyDiUlajE_Noa8VnSo0mR74TFuESpod9X6-7N-aOGo

Scritto nel 2009

La storia di Eluana

di Roberto Buffagni

Dei centosettemila articoli, saggi, speciali tivù su Eluana mi sono ben guardato dal leggerne o guardarne anche uno solo. Mi è stato impossibile, purtroppo, ignorare beatamente tutta la storia, perché bene o male qualche giornale, anche solo al bar, lo sfoglio; e qualche telegiornale va a finire che lo guardo, specie la mattina tra le cinque e le sei, mentre faccio colazione da solo in attesa di svegliare il resto della famiglia.

La prima che chiamo, perché è quella che ci mette più tempo a risalire dagli abissi oceanici del suo sonno di bambina, è mia figlia primogenita N. N. ha tredici anni, e naturalmente le voglio molto bene. Gliene ho sempre voluto, certo; ma adesso, in questi mesi e anni in cui mi si trasforma in donna sotto gli occhi, a una velocità da cartone animato, il bene che le voglio si complica e si screzia di una sorpresa, di una incredulità, di un’allegria e di un’apprensione nuove. E poi, è tanto teneramente buffa, così in bilico fra un mondo e l’altro…

Insomma, non ho potuto evitarla, questa storia di Eluana. Non ho potuto evitare di vedere le fotografie di questa ragazzina di poco più grande della mia, con le sue pose commoventi da ex bambina che fa la grande, la spregiudicata, la bizzarra, l’anima della festa; con quei bei capelli neri che avrà curato come un cucciolo e quella pelle delicatamente bianca, lucente di vitalità; e quegli occhi miti di brava e vispa ragazza, quel naso un po’ stonato che coraggiosamente si rifiutava di nascondere alla macchina fotografica. Mi è toccato di vedere anche le foto e i filmati di suo padre, con quei suoi dignitosi e pratici maglioncini a V temperati dall’impermeabile d’un bianco un po’ romantico, e la faccia da cittadino scomodo che nel timore d’ esser trattato come un poveraccio dai notabili dei media, si atteggia a un asciutto, risentito decoro democratico.

Visto quanto sopra, mi sono detto: addio, Eluana e Beppino. Scusate, ma io passo la mano; e fino ad ora ho mantenuto la parola. Ma si vede che la volontà non è il mio forte, perché continuano a girarmi per la mente, quei due nomi goffi che nessuno mai darebbe ai protagonisti di una fiction.

Anche Beppino avrà avuto l’abitudine di svegliare Eluana, la mattina? Quando si sveglia una figlia, di solito ci si china sul suo letto e sul suo viso, e la si guarda un poco, prima di chiamare il suo nome. E quando lei si sveglia, se quel mattino si è svegliata bene, sul viso notturno di bimba, morbido di sogni infantili, si schiude il sole di un sorriso di donna: un sorriso da bella donna felice di vedere te, proprio te, che ti sfreccia fino in fondo alla memoria, fino agli intimi strati geologici dove giace il fossile della tua prima (ridicola, sciagurata, lancinante, spudorata, sbalorditiva) gioventù.

Che effetto gli avrà fatto, a Beppino, chinarsi sul letto di una Eluana che invecchia e imbruttisce in un sonno senza notte e senza giorno, e se la chiami non si sveglia più? E dopo due anni, dieci anni, venti anni, gli sarà mai passato per la mente il pensiero atroce, subito stornato con rimorso e con orrore, “meglio che non si svegli più”?

A me, credo proprio che il suddetto pensiero atroce sarebbe venuto (mi è venuto adesso, scrivendo, dunque). Avrei piantato il casino che ha piantato Beppino con la sua “battaglia”, come la chiamano i media?

Conoscendomi, credo proprio di no. E lascio perdere tutta la tiritera che sono cattolico praticante, contrario all’eutanasia, al neocapitalismo liberista, all’individualismo proprietario, alla selezione genetica; lascio perdere queste ed altre Cose Forti e Ragioni Cogenti più o meno importanti e grosse, che nei minuti in cui avessi dovuto arrivare al mio unico e personale dunque avrebbero contato, per il sottoscritto, zero e meno di zero.

Forse, mi sarei rassegnato, perché tendo a essere fatalista, e quando arriva un vero dolore, mi suscita sempre una forte impressione di dejà vu. Ma se non mi fossi rassegnato – può darsi benissimo: un colpo del genere non si sa cosa ti smuove, dentro – non credo proprio che avrei organizzato una campagna d’opinione. A mia figlia ci avrei pensato io, e avrei fatto da me.

martedì, febbraio 03, 2009

Bruciano Eluana come bruciarono Giordano Bruno. Con il permesso dei giudici

di Carlo Gambescia

Probabilmente siamo alla fine. Da questa notte Eluana Englaro è ricoverata nella clinica “La Quiete” di Udine, dove, come riporta il Vaticano della laicità, Repubblica, i medici dovranno “attuare il protocollo del distacco dell’alimentazione forzata, che tiene in vita la donna in coma vegetativo da 17 anni”(http://www.repubblica.it/2009/02/dirette/sezioni/cronaca/eluana/eluana/index.html). Si brucia la vita di Eluana facendosi forti di una sentenza della magistratura.

Due osservazioni.

Punto primo. Questa non è una vicenda tra privati. Forse lo era all’inizio. Il suicidio ha una sua “rispettabilità” quando viene liberamente messo in atto dalla persona stessa, quando, come dire, una persona decida di passare dai propositi ai fatti: direttamente e personalmente. Si può non condividire una scelta del genere, per ragioni religiose e/o morali, ma non si può non rispettarla.

Nel caso di Eluana a tutt’oggi non si è raggiunta alcuna chiarezza intorno alla volontà “privata” della giovane di mettere fine alla propria vita. Certo il padre ha sempre dichiarato che una volta Eluana, eccetera… Ma si tratta delle classiche affermazioni cui possono credere solo coloro che già condividono una certa causa … Sono affermazioni che racchiudono ( e difendono) ragioni più sociologiche che giuridiche.

Inoltre il conseguente iter giudiziario pubblico, intrapreso dai familiari di Eluana, e fortemente sostenuto da numerosi gruppi di pressione mediatici, ha definitivamente trasformato il fatto privato in sociale. Di conseguenza è inesatto e ridicolo parlare di questione privata. Basta dare un’occhiata ai giornali di oggi.

Se il padre di Eluana – e stiamo per dire un cosa terribile, di cui ci vergogniamo – avesse a suo tempo “provveduto” da solo, l’intera vicenda avrebbe assunto, anzi mantenuto, altro rilievo e significato. Privato. Pur trattandosi sempre di un omicidio…

Punto secondo. La trasformazione del fatto privato in pubblico e il tragico esito che si va profilando, segnano un punto di non ritorno. Da oggi in poi ci sarà sempre un precedente, quello di Eluana: per mano di “giudici-sacerdoti”, interpreti e officianti della Santa Inquisizione Laicista e Individualista, si potrà uccidere. Altre donne innocenti, nella condizione di Eluana, potranno essere mandate al rogo.

Fatte le debite proporzioni, il sacrificio di Eluana sul rogo dell’intolleranza laicista e individualista, sta al sacrificio di Giordano Bruno suo rogo dell’intolleranza religiosa e olista .

Eluana Englaro e Giordano Bruno sono vittime innocenti di uno stesso meccanismo inquisitorio, dove alle torture fisiche si sono sostituite le torture mediatiche. Fermo restando il fatto che nel periodo di “vita” residuo, tra la sospensione dell’alimentazione e la morte, il corpo di Eluana soffrirà.

Che tragedia.

di Roberto Buffagni (5 febbraio, dopo che Gambescia mi ha chiesto di intervenire).

Sottoscrivo in pieno l’intervento di Carlo Gambescia dalla prima riga alla penultima, perché nell’ultima c’è scritto: “Che tragedia”.

No, caro Carlo. Non solo qui non ci sono tragedie, ma tutta questa vicenda nasce proprio da una perseverante volontà di scongiurare, rimuovere, revocare la tragedia.

La tragedia è il genere drammatico che rappresenta uomini soli di fronte alle contraddizioni insolubili della vita; uomini alle prese con “i problemi che nessuno può risolvere per noi”. Di fronte alla sfida che gli getta il destino, questi uomini se la possono cavare meglio o peggio, ma a nessuno di loro salta in mente di demandare la questione agli uffici competenti: per il semplice fatto che uffici competenti non ne esistono.

Non ne esistevano sotto il cielo della Grecia classica, e continuano a non esisterne oggi. Ci sei tu, c’è la terra, c’è il cielo, c’è la vita, c’è la morte, e stop. Quello che succede dopo lo stop, si chiama, dopo l’invenzione drammaturgica del genio greco situabile intorno al quinto secolo avanti Cristo, “tragedia”.

Le condizioni della tragedia ci sarebbero tutte, nel caso di Eluana.

C’è una ragazza innocente e sventurata che in seguito a un incidente, da diciassette anni vive (per quel che ne possiamo sapere) come una pianta, in un incantesimo senza coscienza e senza dolore. C’è suo padre che non sopporta più di vederla così. C’è la sua decisione di ucciderla nel sonno, e c’è la giustificazione che adduce: che uccidendola esaudirebbe un desiderio espresso in passato dalla sua futura vittima. (La ragione dell’omicidio essendo palesemente insufficiente a giustificarlo sia eticamente sia psicologicamente – Eluana non è Ifigenia, e Beppino non deve comandare la spedizione contro Troia – è probabile che il trageda classico impernierebbe l’intreccio intorno a questo enigma, svelandone gradualmente le radici in una maledizione che ha colpito la stirpe in seguito alla violazione di un interdetto sacro).

Questa è la situazione così come appare sotto lo sguardo della chiarezza tragica, che come il sole evangelico risplende, senza fare preferenze e classifiche, sui giusti e sugli ingiusti.

Se Eluana e Beppino fossero protagonisti di questa vicenda tragica, di fronte a loro ci mancherebbe il fiato, e le chiacchiere si incenerirebbero sulla nostra lingua. La loro vicenda non sarebbe “privata”, ma “intima”, e pertanto nessuno vorrebbe o potrebbe renderla “pubblica”, perché come tutto ciò che è propriamente intimo essa sarebbe già, di pieno diritto, “comune”. (Diceva Baudelaire: “avviso ai non comunisti: tutto è comune, anche Dio”). E se Beppino davvero alzasse la mano contro sua figlia, uccidendola nel sonno sotto i nostri occhi, forse incanutiremmo di colpo e ci copriremmo il viso per non incrociare il suo sguardo, ma non faremmo dei pettegolezzi.

Le cose, però, non stanno così. Le cose stanno che Beppino non ha nessuna voglia di rimanere solo con la terra, il cielo, la figlia dormiente, la vita, la morte, e la sua decisione di uccidere. (Naturalmente lo capiamo benissimo: nessuno ne ha voglia, perché la tragedia vissuta è miseria e sventura). Per non restare solo – per non accorgersi di essere solo – Beppino chiede aiuto alle istanze più potenti che conosce. Invoca Beppino: “Stato, Legge, Scienza, Opinione, prendetemi per mano!”

Ci devono pensare loro, a uccidere sua figlia. Devono farlo con la massima correttezza, senza chiamare la cosa col suo nome, senza versare sangue, senza sporcare in terra, senza grida, senza sussulti: nel sonno, per fame e sete, come un’Antigone sotto sedazione.

A uccidere non dev’essere il dolore o la follia di un uomo, ma la norma legale. Uccidere una innocente che dorme deve essere un atto normale; e visto che sinora non lo è mai stato, l’uccisione di Eluana deve diventare un atto normativo, un modello per tutte le normali uccisioni a venire.

Così Beppino, e tutti i Beppini che verranno (e sono, e saranno legione) non si sentiranno più soli al cospetto della terra, del cielo, della vita e della morte. A tenergli compagnia, a distrarli nel corso del nostro comune, lungo viaggio verso la morte, ci saranno tanti uffici competenti, tante procedure collaudate, tanti linguaggi tecnici, e tante chiacchiere, soprattutto tante chiacchiere.

Bé, cari Beppini, buona chiacchierata. Io mi sforzo, tendo l’orecchio, ma non riesco a sentirvi. Si vede che con l’età divento sordo. Il silenzio, però, ad esempio il silenzio di Eluana, lo sento benissimo. Direbbe tante cose, quel silenzio: ma voi chiacchierate, chiacchierate, chiacchierate, e con questo rumore di fondo, che volete mai sentire? Niente, sentite. Niente.

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