MITI GIURIDICI E REGOLARITÁ POLITICHE, di Teodoro Klitsche de la Grange

MITI GIURIDICI E REGOLARITÁ POLITICHE

  1. La mitologia giuridica secondo Santi Romano 2. Mito e miti giuridici 3. Concezioni di Mosca e Pareto 4. Distinzioni dei miti 5. Miti giuridici di un tempo ed attuali 6. Loro distinzione fondamentale 7. Miti giuridici e regolarità della politica
  2. Nei “Frammenti di un dizionario giuridico”, Santi Romano si poneva la questione della mitologia giuridica.

Rilevava che “Il mito è stato particolarmente, anzi quasi esclusivamente, definito e studiato in relazione alle credenze religiose, che certo ne offrono gli esempi più tipici e caratteristici. Esso però si riscontra anche in campi diversi e, fra gli altri, in modo molto interessante, in quello del diritto”; considerazione ovvia dato che il mito, soprattutto della specie “politico” ha svolto un ruolo assai rilevante nel pensiero (e nelle vicende) in particolare della prima metà del XX secolo. E scriveva che “C’è tutta una mitologia, che ben può dirsi giuridica, e da questo punto di vista sembra che possano utilmente valutarsi una serie di opinioni e di principii, che, di solito, sono presi in considerazione sotto altri aspetti”[1]. Subito dopo  notava che “il mito non è verità o realtà anzi è l’opposto e quindi la mitologia giuridica è da contrapporsi alla realtà giuridica, che in apposita voce di questo dizionario si è cercato di definire”[2]. E approfondendo la distinzione (definizione) del mito scriveva che “non tutte le concezioni, le opinioni, le credenze che si ritengono giuridiche, ma che tali effettivamente non sono, perché contrarie o estranee ad un ordinamento  giuridico, sono da classificarsi fra i miti”[3].

Sulla linea di note concezioni, il giurista siciliano sottolineava il senso mistico-fideistico del mito[4].

Il mito giuridico ha connotati distintivi rispetto al mito (come genere) “Il mito religioso è essenzialmente popolare; il mito giuridico può formarsi e limitarsi entro una cerchia più ristretta di persone, ma anch’esso non è opinione singolare o isolata” (quindi è sociale, non individuale)[5]. Peraltro “Non è nemmeno da escludere che artefici di miti possono essere dei giuristi, cioè coloro che pure dovrebbero essere in grado di giudicarli come tali e respingerli”[6]. Le fonti del mito sono diverse “e non sempre è facile discernere quando essa ha origine teorica, quando pratica, e quando, come spesso avviene, l’una assieme all’altra”. La mitologia giuridica fiorisce specialmente nelle situazioni rivoluzionarie “In questi periodi, nei quali si tenta di abbattere gli ordinamenti vigenti sostituendoli  con dei nuovi, ha naturalmente scarsa importanza la realtà giuridica, nel senso che si è definito, cioè il complesso dei principii, delle ideologie e delle concezioni che stanno a base del “ius conditum”, e invece vengono in prima linea le ideologie che combattono per informare di sè il “ius condendum” ”.

Le assemblee costituenti sono in gran parte formate da persone sprovviste di cultura giuridica e “costituiscono l’ambiente più adatto alle più varie mitologie giuridiche, così a quelle che hanno carattere del tutto popolare, come a quelle di origine più o meno dottrinaria. Queste ultime anzi hanno il più delle volte maggiore influenza delle prime”. Questo perchè mentre quelle popolari sono vaghe ed imprecise “quelle dottrinali invece hanno la rigidezza dei dommi, assumono una certa forma logica, e si rivelano perciò suscettibili di essere tratte a conseguenze ed a sviluppi, che ad esse conferiscono una maggiore parvenza di verità”[7].

Nel porsi poi per i miti giuridici il problema, già proposto per quelli religiosi, ovvero se siano perciò più spesso retaggio di popoli particolari, Santi Romano scrive “si potrebbe fondatamente ritenere, che, come ci sono indubbiamente dei popoli più inclini all’elaborazioni delle credenze religiose, anche di quelle che hanno carattere mitico, così è probabile che i miti giuridici trovino in alcune nazioni un terreno più propizio alla loro formazione”. Nazioni che sarebbero quelle dove sono più forti e continue le tendenze rivoluzionarie[8].

Con queste premesse, nell’indicare i miti giuridici (dell’epoca), il giurista ne enumera tre, tutti connessi al pensiero politico e alle rivoluzioni moderne: stato di natura, contratto sociale, volontà generale. Questi ultimi sono quelli che trovano più adepti tra filosofi e giuristi “la cui immaginazione dal campo delle teorie e delle ipotesi scientifiche si lascia trascinare, più o meno inconsapevolmente, in quello della mitologia”. A tale proposito si può “ rilevare, e non è senza importanza, che in esse affiora la tendenza propria dei miti e già da altri (Croce) notata, di immaginare enti che non esistono e di dar vita a cose inanimate o anche a semplici astrazioni”. E di dar loro vita con delle personificazioni “ ora del popolo, ora dello Stato, ora di certe istituzioni di quest’ultimo che avrebbero il compito di costituire o esprimere o rappresentare tale volontà” (generale).

Per cui tali miti finiscono col diventare realtà giuridiche; infatti possono considerarsi (come ad esempio le personificazioni) mitiche “quando non hanno fondamento e riscontro in effettivi caratteri delle istituzioni che costituiscono un ordinamento giuridico positivo. Viceversa, possono essere e sono vere realtà giuridiche se e quando determinano la struttura, gli atteggiamenti concreti, il funzionamento delle istituzioni”.

Il giurista, nel concludere il breve scritto, dichiarava che non intendeva “attribuire alla mitologia giuridica il carattere meramente negativo di un insieme di concezioni soltanto fantastiche e perciò stesso dannose e pericolose”; perché spesso “il mito scaturisce da bisogni pratici, di cui non si ha sempre chiara coscienza, da intuizioni nebulose che pure hanno elementi di verità, da istinti oscuri, ma profondi. E allora il mito, che non è realtà, ed è anzi l’opposto della realtà, può segnare il principio di un cammino che conduce alla realtà, non solo scoprendola, ma addirittura creandola” e a tali miti “il diritto deve molto e, fra gli esempi che sopra si sono addotti, alcuni confermano che non poche delle attuali realtà giuridiche non hanno che tale origine” ma ciò non toglie “che altri miti invece, (sono) rimasti “ombre vane fuor che nell’aspetto” e nelle forviate credenze di filosofi o di giuristi, possano determinare errori gravi e non innocue utopie”[9].

  1. Tale conclusione di Santi Romano presenta caratteri divergenti e altri comuni alle concezioni del mito e del mito politico in particolare. Senza voler fare un’analisi delle numerose tesi al riguardo, si possono sintetizzare (e accorpare) le varie concezioni del mito in categorie.

Fin da Platone – secondo una di queste – il mito è stato considerato una forma alle volte fuorviante, ma altre valida di conoscenza[10] in particolare per ciò che indica come giusto per la condotta umana[11]; da Vico era considerato una forma autonoma di elaborazione di pensiero e di regole di condotta, adatta a un determinato stadio (“giovanile”) della vita di un popolo[12]. Il mito quindi è verità, ma espressa poeticamente e fantasticamente.

Secondo un’altra concezione il mito è una rappresentazione degli assetti di potere e dei valori di un gruppo sociale. In questo senso il mito può essere ricondotto a una “derivazione” secondo la terminologia di Pareto, o a un elemento (fondamentale) della “formula politica” di Gaetano Mosca.

A queste va accostata la concezione di Sorel secondo il quale il mito è un’organizzazione di immagini capaci di evocare istintivamente “tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra impegnata dal socialismo contro la società moderna”.

Onde il mito è essenzialmente un moltiplicatore/suscitatore di volontà, fondato su intuizioni e rappresentazioni largamente condivise nel gruppo sociale e  idonee a supportare il consenso e indirizzare l’opinione e l’azione politica di massa[13].

Tali diverse concezioni del mito trovano una corrispondenza nel mito giuridico.

La prima è il rapporto idea (racconto) – verità. Vi sono miti che corrispondono a verità, e la esprimono in forma metaforica e intuitiva, ed altri che sono frutto di pura fantasia. Il criterio distintivo è peraltro verificabile in corpore viri, cioè in concreto, nella storia che, come sosteneva de Maistre, è la “politica applicata”.

Ad esempio uno dei miti più famosi è quello della fondazione di Roma. Nel racconto che ne fa Plutarco si desumono due regole dal comportamento di Romolo e Remo. A seguito del disaccordo sul luogo dove edificare la città, si decise di rimettere la decisione al “divino”. Dato che prevalse Romolo (forse con la frode) lo stesso cominciò a scavare il fossato all’interno del quale edificare le mura della città, mentre Remo lo derideva ed ostacolava. Ma quando attraversò con un salto il fossato Romolo (o uno dei suoi seguaci) lo uccise. Da tale racconto (a parte la frode di Romolo, anch’essa mezzo normale della politica) è possibile ricavare due regole di grande importanza per la saldezza e durata delle istituzioni (quelle politiche soprattutto): la prima è che il vertice dell’istituzione deve essere unico e  una la direzione politica (se esercitata da un organo monocratico o collegiale, rex aut senatus, è secondario); in caso contrario la decisione può non essere presa (anche se è di vitale importanza) e viene delegata al caso, comunque a un qualcosa che esula dalla responsabilità (umana). L’altra che il confine – in senso ampio – differenzia ciò che è interno o esterno alla comunità ed è essenziale per l’ordine e l’unità della stessa. A trascurare queste regole, o a confortare anche interpretativamente il contrario o ad indebolirle s’ “impara più presto la ruina che la preservazione sua”, come scriveva Machiavelli[14]; e ve ne sono tanti esempi nella storia che è superfluo ricordarli.

Santi Romano ha individuato poi il carattere distintivo tra miti frutto di pura fantasia e miti costitutivi-rappresentativi di realtà giuridiche.

Il criterio è “fattuale”: è mito giuridico quello che si istituzionalizza, diventa cioè realtà giuridica. Si poteva rispondere che tale criterio non è tale perché, specie nel XX secolo, ci sono stati miti che sono diventati istituzioni, pur rimanendo frutto di fantasia e di stravolgimento della realtà. Un esempio classico è stato il comunismo, che dall’alba al tramonto è durato quasi quanto il “secolo breve” (nel caso sovietico, il più longevo). Senonché una tale obiezione non coglie nel segno: per intendere appieno il concetto di diritto dei giuristi istituzionisti bisogna partire da due connotati fondamentali dell’istituzione (cioè del diritto) e/o dell’ordine sociale, ossia durata e movimento. Quest’ultimo al momento non interessa. Quanto alla prima scriveva Hauriou che  il primo dei vantaggi di un potere esercitato in nome di un’istituzione è la durata, perché il proprio “dell’istituzione è durare più a lungo degli uomini, e quindi di far durare il potere esercitato in proprio nome”[15].

Santi Romano in un’altra opera scrive “esistente e, per conseguenza, legittimo è solo quell’ordinamento cui non fa difetto non solo la vita attuale ma altresì la vitalità. Su quale base logica tale concetto riposi è appena necessario mostrare. La trasformazione del fatto in uno stato giuridico si fonda sulla sua necessità, sulla sua corrispondenza ai bisogni ed alle esigenze sociali. Il segno, esteriore se si vuole, ma sicuro che questa corrispondenza effettivamente esista, che non sia un’illusione o qualche cosa di artificialmente provocato, si rinviene nella sucettibilità del nuovo regime ad acquistare la stabilità, a perpetuarsi per un tempo indefinito” e aggiunge “Finché ciò non avviene, si potranno avere supremazie che s’impongano con la forza, ordinamenti che sembrano, a reggitori improvvisati o a masse esaltate, costituiti e che invece non lo sono e fors’anche non lo saranno mai, ma non nuovi Stati e nuovi Governi. Questi – e ciò è implicito nel loro stesso concetto – non possono essere passeggere creazioni che si formino o si disfacciano a capriccio degli uomini: essi sono il risultato di innumerevoli forze e di procedimenti che hanno radici secolari nella storia[16].

Per cui i miti che riescono ad istituzionalizzarsi nel senso della creazione di istituzioni o di organi istituiti dalle stesse, divengono realtà giuridica; quelli frutto di fantasia non compiono mai questo cammino[17].

L’altro elemento distintivo del mito suggerito da Santi Romano è connesso alla cognizione: quando il mito esprime  verità (come nel caso del mito della fondazione di Roma) e quando invece è una mera fantasia. In tal caso anche se poi i secondi hanno un certo successo (e con ciò torniamo al precedente fundamentum distinctionis) resta il fatto che sono comunque irreali e realizzano cose diverse da quelle volute. Non bisogna dimenticare che, come scrive Sorel “c’è eterogenesi tra fini realizzati e fini dati: la più piccola esperienza ci rivela questa legge, che Spencer ha trasferita nel mondo materiale per dedurne la sua teoria della moltiplicazione degli effetti”; quindi i miti che non si sono tradotti in realtà giuridica (se non in modo effimero, o comunque non giuridici nel senso sopra condiviso) hanno avuto  effetti diversi dalle intenzioni, ma spesso positivi. A cominciare dalla decisione della Convenzione della Francia rivoluzionaria di chiudere nell’arca il proprio “progetto costituzionale” cioè la Costituzione dell’anno I (24 giugno 1793), dopo averla votata perché renderla vigente avrebbe gravemente ostacolato la difesa della nazione.

E nessuno si è sognato di riaprire quell’arca, neanche in tempo di pace, perché i connotati essenziali di quella costituzione: assemblearismo, estrema  democraticità, debolezza del potere governativo, la rendevano di difficile applicazione (quindi fonte di disordine e gracilità) anche in tempo di pace. Quel che sortì fuori dal mito rivoluzionario (come espresso nella costituzione “sospesa”), fu assai diverso: una dittatura sovrana, che ebbe successo nella difesa del paese, grazie agli enormi poteri , alla mobilitazione delle masse e al terrore. Cosa che rientra in pieno nell’ “eterogenesi dei fini” del mito, affermata da Sorel.

E’ da notare che per miti del genere l’eterogenesi dei fini (o paradosso delle conseguenze) è la regola. Con la conseguenza che, di norma, quel che di giuridico costruiscono è ciò che è fattualmente possibile, spesso solo una (per lo più modesta) variazione di ciò che la storia, e la storia delle istituzioni già conosce[18]. Al mito marxiano della società comunista (senza Stato e senza politica), cioè un regime contrario alla natura umana (zoon politikon) e alle regolarità del “politico” (Miglio e Freund), corrisponde la realizzazione di una dittatura sovrana, che è una species moderna di un genere di reggimento politico diffuso nelle comunità umane: dal dispotismo orientale, alla tirannia fino alle versioni molto più soft come la dittatura romana, temporanea e controllata (da altri poteri). Dell’altra (la società comunista) non s’è vista neppure l’ombra, proprio perché irreale, ossia impossibile a tradursi in concreto.

  1. Nelle concezioni del mito c’è anche quella che li considera delle rappresentazioni utili, per lo più alla classe dirigente, che se ne appropria,e/ o li propone e li diffonde per guadagnare legittimità e consenso: nei casi d’eccezione per motivare le masse (da mobilitare, come in caso di guerra).

Nella forma più estrema servono cioè a rafforzare l’inimicizia, il sentimento ostile che è uno degli elementi fondamentali della lotta (armata). Non solo nella guerra, ma anche nelle rivoluzioni, dove il nemico è interno. La cosa “strana”  – ma logica – è che proprio le rivoluzioni, più ancora delle guerre, hanno un effetto “fondativo” delle istituzioni e dei regimi politici. In ispecie quelli moderni dove a un cambiamento (cambiamento) di classe dirigente corrisponde quasi sempre una nuova costituzione.

Nel pensiero degli elitisti questo è attentamente evidenziato: il rapporto tra potere – e organizzazione dello stesso – e giustificazioni del potere è affermato da Gaetano Mosca: “la classe politica non giustifica esclusivamente il suo potere col solo possesso di fatto, ma cerca di dare ad esso una base morale ed anche legale, facendolo scaturire come conseguenza necessaria di dottrine e credenze generalmente riconosciute ed accettate nella società che essa dirige” il quale trovava anche il termine per definirlo “Questa base giuridica e morale, sulla quale in ogni società poggia il potere della classe politica, è quella che in altro lavoro abbiamo chiamato e che d’ora in poi chiameremo formola politica” (il corsivo è nostro). Il che non significa che “le varie formole politiche siano volgari ciarlatanerie inventate appositamente per scroccare l’obbedienza delle masse… La verità è dunque che essere corrispondono ad un vero bisogno della natura sociale dell’uomo; e questo bisogno, così universalmente sentito, di governare e sentirsi governare sulla sola base della forza materiale ed intellettuale, ma anche su quella di un principio morale, ha indiscutibilmente la sua pratica e reale importanza”. Per cui è “necessario anche di vedere se, senza qualcuna di queste grandi superstizioni, una società si possa reggere; se una illusione generale non sia cioè una forza sociale, che serve potentemente a cementare la unità e la organizzazione politica di un popolo e di un’intera civiltà”[19]. E’ da notare l’insistenza con cui Mosca relaziona la “credenza” all’assetto istituzionale (giuridico).

Anche per Pareto le derivazioni sono connotate di guisa che i “miti” vi si possono ricondurre, in particolare per il riferimento all’autorità; sia quando si trovano in accordo con sentimenti e convinzioni per lo più condivise nel gruppo sociale. Proprio l’impostazione realistica e la prevalenza nel comportamento umano delle azioni non logiche, lo porta a considerare le derivazioni, e quindi i miti, spesso utili alla società. che contribuiscono a mantenere unita (e salda).

  1. Questo rapido – e forzatamente lacunoso – percorso sul mito “giuridico” (che è spesso un mito giuridico-politico), porta a distinguere i miti giuridici (o ad effetti giuridici) in diverse classi a secondo della verità e dell’utilità degli stessi.

Miti veri: raramente, se correttamente applicati, tornano controproducenti. Dannoso è, quasi sempre, non tenerne conto. Così quello che insegna il mito, prima ricordato, della fondazione di Roma. Il “dualismo di poteri” nella stessa comunità politica è sempre stato fonte di dissoluzione e dis-ordine; nei casi migliori di debolezza istituzionale e quindi di libertà politica (della comunità) ridotta. Preludio alla fine e, più spesso, alla divisione (itio in partes) di questa.

Così – al contrario – il mito della bontà dell’uomo, nelle varie specie in cui è stato formulato, ad esempio quella del “buon selvaggio”. Che di sicuro era selvaggio, ma altrettanto certamente era di un tipo per così dire inaccettabile e poco rassicurante di bontà, praticando spesso sacrifici umani e antropofagia. Pratiche finalizzate a placare le divinità o acquisire le virtù del…pasto, ma l’ingenuità di certe credenze primitive non è segno di superiorità morale.

Tuttavia presupporre l’uomo buono, in tutte le varie declinazioni che può assumere, è un “mito” distruttivo perché in una società dove gli uomini fossero buoni governi, giudici, poliziotti e così via, come scrive Schmitt, sarebbero inutili.

Mentre la contraria convinzione (di cui al racconto biblico del peccato originale) che l’uomo può scegliere tra male e bene, reale e verificabile in concreto, rende spiegabile e giustificabile l’istituzione del potere.

Miti non veri ma utili: ovvero il caso dell’ “eterogenesi dei fini” (o come la denominava Freund, paradosso delle conseguenze). E’ specie frequente e considerata spesso una risorsa sociale e non dannosa, se, come in tutte le attività pratiche, consegue risultati positivi: s’intende per la comunità e per l’istituzione che ne beneficia.

Ciò che la distingue è lo iato che separa aspirazioni e risultati: quelle destinate a non realizzarsi, mentre questi, spesso opposti, divengono azione politica e (anche) realtà istituzionale.

Miti né veri né utili (alla comunità e all’istituzione): ve ne sono tanti e sarebbe inutile elencarli. Le caratteristiche che più frequentemente presentano è d’essere utili a ristrette cerchie della popolazione – in genere la classe dirigente (e sue frazioni): compensano la scarsa utilità comunitaria con un’alta utilità “corporativa”. Quanto a tradursi in risultati, e divenire anche in modo paradossale realtà giuridica, occorre distinguere. Possono diventare realtà giuridiche, ma in modo controproducente e così dissolutorio della sintesi istituzionale e della comunità. Essendo il mito destinato a favorire interessi “di nicchia” per lo più si realizzano in norme ed istituti limitati e defilati, e data tale caratteristica sono relativamente  dannosi (almeno nel breve-medio termine). Sono spesso miti in “formato ridotto”, la maggior parte delle volte più propaganda che racconto o credenza mitica. Ma altri hanno avuto effetti epocali: ad esempio il mito del ritorno di Quetzalcoatl atteso dalle popolazioni messicane più o meno nel tempo dello sbarco di Cortés, che finì con l’essere scambiato con il Dio-eroe Tolteco; o il mito della “libertà” polacca (cioè essenzialmente quella della grande aristocrazia) che fu la causa prima dell’anarchia e della dissoluzione della Polonia del ‘700.

  1. Santi Romano elenca, come scritto, tre miti giuridici moderni. Tutti caratterizzati dall’aver una certa suscettibilità a tradursi in realtà giuridica.

E, del pari, una intrinseca politicità, dato che assumono il connotato di discriminanti politiche, di bandiere sventolate contro altri gruppi umani. La loro capacità d’istituzionalizzarsi aumenta di conserva con il loro carattere di scriminante politica. Lo stato di natura è rivolto contro chi ritiene che ogni diritto sia costituito (e conculcabile) dallo Stato; ne deriva anche la liceità dei diritto di resistenza al potere che toglie ciò che l’uomo ha per “natura”. Il contratto sociale, come tutti i contratti, suggerisce l’idea di un accordo tra uguali, e come tutti i contratti è soggetto a risoluzione e a valutazione  dei contraenti. E’ oggettivamente opposto alla concezione della legittimità storica, del potere (e della diseguaglianza) “naturali”.

La volontà generale è polemicamente indirizzata contro il potere minoritario, cioè i regimi monarchici od oligarchici. Con il costituire la scriminante con altri gruppi umani, cioè col suscitare (una potenziale) inimicizia, determina anche solidarietà sociale ed identità comunitaria, che si traduce in istituzioni (più o meno) coerenti con il mito.

I tre miti giuridici elencati da Santi Romano sono tra i principali della modernità (anche se ne manca uno, assai considerato all’epoca in cui scriveva il giurista siciliano, cioè il marxismo-leninismo e, in generale, il socialismo utopistico); adesso gli stessi appaiono in deciso ribasso, offuscati da altri.

I quali hanno il carattere comune di essere non-politici, di mancare o contraddire qualche (importante) regolarità, presupposto, aspetto o conseguenza della politica  e del politico.

Il primo dei quali è il mito tecnocratico, cioè quello espresso nel modo più conseguenziale e deciso da Saint-Simon, ovvero della società in cui l’amministrazione delle cose sostituirà il governo degli uomini. In realtà nessuno l’ha visto realizzarsi, se non nel coro adulatorio di qualche governo sedicente tale[20] (e di corta durata). Ciò perché la natura (e l’inconveniente) del potere è tale che  oscilla tra i due abissi dell’oppressione e dell’anarchia, come sosteneva de Maistre. Un governo forte è tentato di opprimere: ma se debole è impotente a tutelare. Per cui il pensatore controrivoluzionario sosteneva che la società umana è in mezzo a questi abissi[21] (cioè non basta che un governo sia tecnocratico perché non abbia necessità di comandare). Nella realtà certi governi (tecnici) finiscono per risolvere  a modo loro tale alternativa: sono insieme deboli nel proteggere, ma forti nell’opprimere (finiscono col realizzare l’inverso della situazione ottimale).

Un altro è il relativismo giuridico-politico. Il quale confonde verità e certezza, scienza e diritto, conoscenza e volontà. Per cui si applica alla realtà sociale una (rispettabilissima) dottrina gnoseologica che afferma la relatività della conoscenza: che è giocoforza diventi relatività di norme, comportamenti, valori e istituzioni in materia pratica (morale e giuridica). Senonché un’istituzione politica è tale se ha, come scriveva de Bonald, un “punto” in cui è assoluta; ciò che le è essenziale, è l’autorità e non la verità, perché funzione dell’autorità è dare certezze, non verità, come sosteneva Vico “certum ab auctoritate, verum a ratione[22]; anche le bizzarrie più evidenti, in ragione dell’esigenza di certezza, diventano comandi intangibili e coercibili se enunciate nel giudicato; e si potrebbe continuare a lungo.

Ma è evidente che il relativismo è inidoneo a spiegare Stati e diritto; è in contrasto con l’evidenza. E si salva solo perché autocontraddittorio. Ad esempio se si afferma “La democrazia è relativistica, non assolutistica. Essa, come istituzione d’insieme e come potere che da essa promana, non ha fedi o valori assoluti da difendere, a eccezione di quelli sui quali essa stessa si basa: nei confronti dei principi democratici, la pratica democratica non può essere relativistica[23] si afferma della democrazia che, almeno in certi casi, può non essere relativistica. Con ciò l’assoluto, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. D’altra parte anche un regime democratico (in quel senso) ha dei nemici: quelli che non pensano che la democrazia debba essere relativista: ad esempio gran parte dei fondamentalisti islamici, che condividono assai poco la democrazia e ancor meno il relativismo. Se poi si aggiunge che “la democrazia deve cioè credere in se stessa e non lasciar correre sulle questioni di principio, quelle che riguardano il rispetto dell’uguale dignità di tutti gli esseri umani e dei diritti che ne conseguono e il rispetto dell’uguale partecipazione alla vita politica e delle procedure relative”[24] (il corsivo è nostro), si comprende perché, per insegnare tale dottrina ai tedeschi e ai giapponesi, le democrazie anglosassoni praticarono bombardamenti terroristici, giungendo fino ad impiegare la bomba atomica.

Quindi un regime relativista impiega la forza come gli altri, ha nemici come gli altri e fa guerra come gli altri.

Il relativismo conseguente e non autocontraddittorio, cui si può applicare quanto scriveva oltre un secolo fa Maurice Hauriou dello spirito critico, è così un potente fattore di dissoluzione delle istituzioni[25] e quindi per spiegarle e costruirle è un “mito” e più precisamente di quelli che non possono realizzarsi (se non al minimo) e a realizzarli coerentemente e totalmente distruggono ciò che dovrebbero consolidare (e aiutare a comprendere).

Un altro mito, anch’esso frutto di diffusissime aspirazioni concrete unite a concezioni dotte è quello della “pace attraverso il diritto”, cioè attraverso i Tribunali (internazionali) sostenuto da Kelsen nella prima metà dello scorso secolo. Il cui modello lo ha fornito l’art. 227 del Trattato di Versailles, che prevedeva per Guglielmo II “uno speciale tribunale sarà costituito per provare l’accusa, assicurando a lui le guarentigie essenziali al diritto di difesa. Esso sarà composto da cinque giudici, uno designato da ciascuna delle seguenti Potenze: gli Stati Uniti d’America, la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia e il Giappone”[26] (cioè i vincitori).

Santità e moralità offese sono un requisito essenziale di ogni processo del genere; peraltro servono a far trascurare il fatto che l’accusa è mossa dai vincitori, che gli accusatori nominano i giudici per processare il vinto e che non esisteva (nel caso) neanche un crimine giuridicamente qualificato come tale (nullum crimen sine lege). Tutte circostanze che nulla hanno a che fare con le garanzie della giustizia come normalmente intesa e praticata nelle democrazie liberali e molto, invece, con le conseguenze politiche della guerra. I “cloni” successivi hanno cercato di ridurre o eliminare alcune delle illegittimità ricordate (in particolare le Corti non sono composte solo da giudici designati dai  vincitori, di solito pre-costituite e non designate ad hoc) senza però poter ovviare al difetto essenziale. Ovvero quello che appare dal citato saggio di Kelsen, che si prende in esame tra i tanti di una letteratura copiosa, sia per l’autorevolezza del giurista, sia per il momento in cui lo scrisse: e cioè che per eliminare la guerra, per far funzionare concretamente una Corte internazionale come un Tribunale di diritto “interno” occorre o l’accordo delle parti (ma allora a che serve la Corte?) o una forza capace di costringere ad eseguire le decisioni. Ma se manca l’uno o l’altro ogni tentativo di ridurre o eliminare i conflitti, facendo “tintinnare le manette” è una favola, edificante quanto inutile. Il giovane Hegel considerava illusoria e incongrua ogni “unità” non realizzata attraverso un potere comune[27]

E che pone un problema, a voler seguire la tesi di Kant per cui connotato del diritto è la coazione. Se è vero che nella specie, in astratto la coazione è possibile (e in questo senso, è diritto), occorre tuttavia considerare se possa costituire diritto, o almeno diritto efficace, una normativa la cui possibilità concreta di coazione sia rara ed episodica.

O se il tutto non  si traduca in un autodafé mediatico chiassoso ma (diversamente dal modello originale) di sostanziale innocuità. Il problema del rapporto tra validità ed efficacia delle norme se lo poneva anche Kelsen “perché non si può negare che tanto un ordinamento giuridico come totalità quanto una singola norma giuridica perdono la loro validità quando cessano di essere efficaci”[28].

  1. La differenza tra i miti ricordati dal giurista siciliano e quelli sopra descritti è uno dei segni del cambiamento del common sense se non della generalità dei cittadini, almeno di parte della classe dirigente.

Invero i primi tre miti denotano il sentire comune di una percezione della comunità in crescita, l’alba di una nuova epoca, e la costruzione delle istituzioni (in maggior misura) influenzate da quei miti. In effetti tutti e tre sono miti costruttivi: lo stato di natura, almeno nella formulazione che ne da Hobbes (ma non solo), significa bellum omnium contra omnes, e l’opportunità di uscirne per costruire un ordine che garantisca pace e sicurezza. Anche l’altra faccia, quella evidenziata da Santi Romano, dell’ “anteriorità” dei diritti fondamentali è costruttiva perché sollecita la costituzione di un ordine che tenga conto di quei diritti innati.

Anche il contratto sociale ha un esito costruttivo: è all’origine del costituzionalismo moderno, della costituzione come atto consapevole e deciso dalla rappresentanza nazionale: non è solo il grimaldello per scardinare l’Ancien régime, è la base per ri-fondare l’istituzione-Stato.

Lo stesso ruolo riveste la volontà generale, che finisce, come scrive Santi Romano, con avere un ruolo decisivo nelle personificazioni dello stesso.

E, si può aggiungere, anche nella costruzione del principio democratico di legittimità e ancor più dell’importanza della discussione, comunque rapportato alla volontà e alla decisione a maggioranza (considerata almeno la più vicina alla volontà generale)[29].

Di converso i tre miti sopra enumerati, in gran voga dalla metà del secolo passato hanno tutti un effetto dissolutivo: non nei confronti di un regime “ancien”, ma delle stesse istituzioni politiche in genere.

Quanto al mito tecnocratico, si fonda sull’illusione che gli uomini possono non essere governati, ossia che non sia necessario il rapporto di comando/obbedienza: peraltro pone l’accento sulla capacità tecnica dei governanti (che, a dirla tutta, non guasta) ma è comunque subordinata al consenso politico, al rapporto governati-governanti[30].

Per cui a ragione Croce, in un passo assai citato rilevava che “Quale sorta di politica farebbe codesta accolta di onesti uomini tecnici, per fortuna non ci è dato sperimentare, perché non mai la storia ha attuato quell’idea e nessuna voglia mostra di attuarla”[31].

Il mito relativista – chiaramente ed esplicitamente autocontraddittorio, presenta due mende fondamentali (d’altra parte, anch’esse, esternate dai sostenitori): che ogni regime politico ha dei valori (delle forme, dei precetti) non negoziabili, per cui nessuna forma politica può essere (conseguentemente) relativista.

E che, come sopra cennato, perché esista una comunità (una sintesi) politica occorre l’autorità: carattere della quale è dare certezza – cioè comandi eseguiti – e non verità[32].

Per cui una democrazia conseguentemente relativista ha la stessa probabilità di realizzarsi concretamente del governo tecnico e vale per la stessa il giudizio sopra citato di Croce, di non essere mai stata attuata dalla storia e che questa non manifesta intenzione di attuarla.

Quanto alla pace attraverso i Tribunali (meglio non scomodare il diritto più del necessario), anche qui è invertito il rapporto tra volontà e sentenza, tra decisione politica e decisione giudiziaria nonché tra jus dicere e coazione.

Fu de Maistre ad esprimere il principio che “dove non c’è sentenza vi è scontro”[33] ma senza pretendere che bastasse un qualsiasi organo giudiziario, ancorché composto da galantuomini benintenzionati, magari come il Tribunale Russel in voga ai tempi della guerra fredda, per far cessare l’ostilità e soprattutto la sua conseguenza – la guerra – che, come sosteneva Proudhon è connotato esclusivo e distintivo della specie umana. Per far la guerra infatti basta la volontà, cioè l’intenzione ostile[34]; così come per eseguire la sentenza occorre forza: accanto al volere occorre il potere di realizzare il volere.

Ma se la guerra è un fatto di volontà il mezzo reale per evitarla è di trovare un accordo e non di processare il nemico vinto, né tantomeno quello di minacciare il patibolo a qualcuno che, con la decisione di aggredire o resistere all’aggressione, mette a rischio la propria vita e quella degli altri, amici e nemici. Che poi alla fine del conflitto che costituisce (e sostituisce) una decisione su un nuovo ordine, lo si “doppi” con un processo è una cerimonia solenne quanto inutile essendo la decisione già avvenuta[35].

La possibilità che questi miti si realizzino è esclusa, che possa da ciò realizzarsi qualcosa di assai diverso con l’ausilio del “paradosso delle conseguenze” (Freund) non è invece da escludere. Ad esempio il mito dei Tribunali internazionali può contribuire a costituire nuove e più estese unità politiche a scapito della sovranità delle comunità che entrano a farne parte. Hauriou sosteneva che il diritto (e la giurisdizione) comune ha carattere “internazionale” perché volto a dirimere i conflitti tra i diversi gruppi umani in via di raggiungere l’unità politica (Dike); e ne contrapponeva i caratteri al diritto disciplinare volto a decidere i conflitti tra appartenenti allo stesso gruppo sociale (Thémis).

Così la giustizia e le Corti internazionali potranno persino costituire l’avanguardia di uno Stato federale e forse mondiale, che provveda sia a decidere i conflitti che ad applicare il diritto e le decisioni prese.

  1. Il carattere dissolutorio dei miti giuridici contemporanei può comunque costituire la rappresentazione del processo di decadenza dello Stato moderno, così come i miti considerati da Santi Romano lo erano della “seconda fase” dello Stato, cioè quella liberal-democratica (o post-rivoluzionaria), quando ancora lo Stato era in espansione. La tecnocrazia ha poco a che fare con la democrazia; il relativismo con i diritti dell’uomo e del cittadino e soprattutto con la volontà della nazione “ch’è tutto ciò che deve essere per il solo fatto di esistere” (Sieyès): l’indipendenza, la sovranità della nazione e il carattere “chiuso” dello Stato con i tribunali internazionali. In questo senso tali miti sono in un certo senso “rappresentativi” di un processo di crisi dello Stato, che come altre forme politiche è peculiare di un certo periodo storico. Come lo Stato moderno ha sostituito quello feudale, come la polis ha fuso i gruppi tribali (o gentilizi) , così anche lo Stato e l’ordine westfaliano giungerà al termine; e tale convinzione è diffusa.

Dove però i miti dimostrano il loro carattere irrealistico è nell’applicare alle “regolarità della politica e del politico” la critica (e la sorte) dell’istituzione-Stato. Ma mentre questa forma politica appartiene alla storia (e ne è modellata), le regolarità della politica pertengono alla natura umana, e c’è altrettanta possibilità di cambiare quelle che di fermare il sole.

L’idea di sostituire il governo con l’amministrazione e così farne a meno è contraria ad uno dei presupposti del politico (Freund): quello del comando/obbedienza. Una tecnocrazia non sostituisce il governo: governo ed amministrazione si sommano. Anzi se vi sono state comunità umane (per millenni) prive di un’amministrazione burocratica, tanto meno in senso moderno, cioè selezionata (e dotata) di sapere specializzato (ossia tecnico), non se ne ricorda alcuna priva di “governo degli uomini”.

Lo stesso capita per il relativismo, anche se la sua autocontraddittorietà lo rende possibile, in quanto non sia relativista, ossia riconosca un assoluto nell’istituzione e nell’ordine comunitario. Infatti anche un regime relativista, come sopra scritto, ha dei nemici (e così il presupposto dell’amico-nemico), e una “tavola di valori” da imporre anche ai componenti della comunità che preferiscono valori diversi (cioè, non è relativista).

Il politeismo dei valori poi, anche se spesso non escludente, è sempre gerarchico: i valori non sono uguali ma ordinati secondo il più e il meno (e così tollerati)[36].

Quanto ai Tribunali internazionali, se è stato affermato (v. sopra) da Hauriou (tra gli altri) che un embrione di diritto comune nasce dalla giustizia “internazionale” (Dike); cioè tra gruppi sociali (classi, gentes, tribù), destinati (talvolta) a fondersi in una sintesi politica, d’altro canto è stato, sempre dal giurista francese, notato che accanto a questa c’è sempre un’altra giustizia (Thémis) interna al gruppo sociale, caratterizzata della supremazia del gruppo (del capo) sui sudditi e quindi dall’essere essenzialmente disciplinare e di dar luogo a un diritto conseguente (droit disciplinaire).

Talvolta nella storia l’esistenza di istituzioni di giustizia “internazionale” è stata l’avanguardia della costituzione dell’unità politica; altre volte no, come nel caso del Reichskammergericht, coetaneo alla decadenza del Sacro Romano impero e finito con lo stesso[37].

La conseguenza è che un rapporto tra istituzioni di giustizia “internazionale” e costituzione di sintesi politiche nuove vi può essere, ma non ha carattere necessario né       cogente, ma accidentale e tali miti lo possono favorire ma non costituire né delinearne compiutamente la forma.

Per questo occorrono i monopoli della decisione politica e della violenza legittima, cioè un potere unificante, come scriveva  il giovane Hegel poco prima della caduta del Sacro Romano Impero.

Tutti questi miti hanno pertanto carattere decostruttivo né quanto potranno (indirettamente e spesso paradossalmente) costruire è prevedibile. E’ prevedibile di converso che non potranno né incidere sulle regolarità della politica né costruire istituzioni conformi alle aspirazioni espresse e suscitate.

D’altra parte se, come scrive S. Agostino Dio spesso si serve del male e dei malvagi per fare il bene[38], non è vietato sperare che, con il soccorso divino, l’errore possa generare se non la verità, almeno qualcosa di utile.

T.K.

 

[1] Notava anche che “Nella filosofia della storia si usa questa parola per significare quelle formule che muovono ogni tanto le coscienze delle masse, le quali non hanno coscienza  individuale: Liberté egalité fraternité, La legge è uguale per tutti, Re per grazia di Dio, Dittatura del proletariato, ecc.. Senonchè, non solo in questo senso traslato e improprio,ma anche in senso corrispondente a quello in cui la parola è adoperata in dottrina, il concetto di mito può esattamente riferirsi, se non a tutte le formule accennate, ad altre che hanno più o meno immediata attinenza al diritto” op. cit. p. 126.

[2] A tale proposito chiarisce “ gioverà ricordare e precisare che la verità o realtà giuridica è quella che è stata accolta o addirittura creata da un determinato diritto positivo, anche se diversa dalla realtà che, in contrapposizione a quella puramente giuridica, si dice effettiva, o di fatto, o materiale, e, quindi, anche se esiste solo nella concezione di un ordinamento giuridico, purchè esso sia vigente ed operante” op. cit. p.127 (il corsivo è nostro).

[3] “Perchè ciò sia possibile, è necessario che esse abbiano quel carattere o quella forma fantastica o semifantastica, non certo facile a definirsi con precisione, che concordemente  si afferma essenziale perchè si abbia la figura del mito. Il mito è una non verità, un errore, una “inopia”, ma è anche immaginazione, una immaginazione “favolosa” ” op. loc. cit.

[4] “Il mito ha altresì un senso mistico, è una credenza che ha carattere di fede e quindi assume sempre un certo tono religioso, anche quando non riguarda la religione propriamente detta: il che, del resto, è in connessione con gli altri suoi caratteri che si sono accennati” op. cit. p. 128.

[5] E prosegue “Di solito, è credenza accolta da un numero molto variabile, ma sempre notevole, di individui che partecipano in  un modo o in un altro alla vita pubblica…..E può anche darsi che il mito rimanga circoscritto fra puri studiosi, particolarmente fra i seguaci di qualche sistema filosofico. Politica e filosofia sono campi particolarmente  favorevoli alla formazione e all’affermazione dei miti che interessano il diritto”.

[6] Con le conseguenze che vi sono teorie giuridiche che sono diventati miti. Un po come gli idola theatri di Bacone.

[7]  E prosegue “mentre in sostanza questo  loro carattere accentua e aggrava gli errori che stanno a base di esse. I miti, per così dire, ingenui sono di conseguenza più innocui dei miti, per così dire, sapienti, che meglio nascondono la contraddizione fra ciò che effettivamente sono, cioè errori, e ciò che vorrebbero essere, cioè verità” op. cit. p.129.

[8] Perchè “I popoli fondatori che rimangono fedeli alle loro tradizioni e ai loro ordinamenti politici,  che non si lasciano facilmente lusingare dai miraggi di radicali trasformazioni, sono, come è naturale, quelli che hanno più netta e precisa la percezione della realtà giuridica e non amano immaginare quegli “universali fantastici”, in cui i miti si risolvono” op. cit. p. 130.

[9] Op. cit., p. 134 (il corsivo è nostro).

[10] Gorg. 527 a.

[11] Gorg. 527 a  “Queste cose che ti sto raccontando forse ti sembrano le favole di una vecchietta, e non te ne importa niente. Avresti perfettamente ragione a disprezzarle, se fossimo capaci di trovarne altre, migliori e più vere”.

[12] “Che le favole nel loro nascere furono narrazioni vere e severe (onde la favola, fu diffinita vera narratio) le quali nacquero dapprima perloppiù sconce, e perciò poi si resero improprie, quindi alterate, seguentemente inverosimili, appresso oscure, di là scandalose, e dalla fine incredibili; che sono sette fonti della difficoltà delle favole” (Scienza nuova, II).

[13] v. G. Sorel, Réflexions sur la violence, trad. it. di A. Sarno, Bari 1970, p. 181. Peraltro Sorel sostiene che i miti “racchiudano le tendenze più spiccate di un popolo, d’un partito, d’una classe; che, con la tenacia propria degl’istinti, si presentino allo spirito, in tutte le circostanze della vita; che, infine, diano un aspetto di piena realtà alle speranze di prossima azione, su cui si fonda la riforma della volontà” (ibidem, p. 180). Onde “importa, dunque, molto poco sapere ciò che i miti contengano di particolari, destinati ad apparire realmente sul piano della storia futura: essi non sono almanacchi strologici. Può anche accadere che niente di ciò che contengono si realizzi – come fu della catastrofe attesa dai primi cristiani” ciò perché “I miti debbono essere presi quali mezzi per operare sul presente: ogni discussione sul modo di applicarli materialmente al corso della realtà, è priva di significato. Soltanto l’insieme del mito è ciò che importa; le singole parti non hanno importanza, se non per la luce che proiettano sui germi di vita, racchiusi in quella costruzione”.

[14] Principe, XV.

[15] v. Précis de droit consitutionnel, Paris 1929, p. 19 (il corsivo è nostro); ma vi ritorna più volte op. cit., p. 72, 76, 93 e così via.

[16] L’instaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale e sua legittimazione ora in Scritti minori, Milano 1950, p. 155 (il corsivo è nostro).

[17] A proposito del comunismo è interessante notare come Hauriou nel Précis citato (edizione del 1929, cioè più di dieci anni dopo la rivoluzione d’ottobre) scriva: “La Russia sovietica non avrà che un governo di fatto fin quando non avrà ristabilito l’essenziale dell’ordine sociale civile. D’altronde, il governo sovietico si considera da se come semplice potere di fatto, e, per consolazione, decreta l’identificazione di fatto e diritto… Di più questo governo di fatto resterà abusivo e tirannico… anche se questo governo è stato riconosciuto de facto e anche de jure da potenze straniere, in diritto internazionale il riconoscimento di un governo non ha lo stesso significato e la stessa portata che nel diritto pubblico interno”. Questo riporta il discorso – che sarebbe lungo approfondire- sulla legittimità del potere e sul rapporto di questa con il diritto (op. cit.).

[18] Scriveva Oswald Spengler a proposito di quello che, con termine desunto dalla mineralogia chiamava “pseudomorfosi”, e che applicava i rapporti tra forme espressive e sostanza spirituale “Si supponga uno strato di calcare che contenga cristalli di un dato minerale. Si producono crepacci e fessure; l’acqua s’infiltra e a poco a poco, passando, scioglie e porta via i cristalli, di modo che nel conglomerato non restano più che le cavità da essi occupati. Sopravvengono fenomeni vulcanici che fendono la montagna; colate di materiale incandescente penetrano negli spacchi, si solidificano e danno luogo a altri cristalli. Ma esse non possono farlo in una forma propria: sono invece costrette a riempire le cavità preesistenti, e così nascono forme falsate, nascono cristalli nei quali la struttura interna contradice la conformazione esterna, un dato minerale apparendo ora sotto la specie esteriori di un altro. È ciò che i mineralogi chiamano pseudomorfosi” (Der undergang des abeslandes, trad. it. Di J. Evola, Milano, p. 951).

Ne caso ovviamente non si tratta di rapporti tra forme e concezioni del mondo, e tra culture diverse, ma di miti mobilitanti e realizzazioni istituzionali. Tuttavia la forza mobilitante del mito qui s’incanala e prende la forma non conforme alle aspirazioni, ma a quello della concretizzazione possibile.

 

[19] Elementi di Scienza politica, Torino 1923, pp. 73 ss. (il corsivo è nostro)

[20] Ciò, a seguire quanto sostenuto dal coro dei mass-media.

[21] v. Du Pape, trad. it. di A. Pasquali, Milano 1995, p. 161.

[22] Nello specificare in che consiste la razionalità (degli atti) dell’autorità Vico scrive “Requiras igitur ab auctoritate rationem civilem, hoc est communem utilitatem, quam legibus omnibus aliquam subesse necesse est … Quae ratio civilis cum dictet publicam utilitatem, hoc ipso pars rationis naturalis est. Non tota autem ratio est, quia, ut utile dictet omnibus acquum, aliquando aliquibus iniqua est” v. De uno universi juris principio et fine uno caput LXXXIII.

[23] V. G. Zagrebelski, Imparare la democrazia (il corsivo è nostro). Sul piano del metodo il richiamo all’eccezione conferma l’affermazione di Schmitt che “l’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola; la regola stessa vive solo dell’eccezione” (v. Politische theologie, trad. it. di P. Schiera ne le Categorie del politico, Bologna 1972, p. 41) .

[24] V. G. Zagrebelski, op. loc. cit.

[25] “Le organizzazioni della società positiva sono tutte disorganizzate dal denaro; la virtù dei fattori di coesione (tissus) è distrutta dallo spirito critico” e “L’azione dissolvente dello spirito critico è simile a quella del denaro solo che essa viene esercitata sui fattori di coesione. Alla fine del Medio Evo lo spirito critico  ha affievolito l’influenza della religione privandola in parte della sua virtù istituente” (trad. di Federica Klitsche de la Grange). M. Hauriou La science sociale traditionelle, Paris 1896, ora rist. in Ecrits sociologiques, Paris 2008 p. 239.

[26] V. H. Kelsen, La pace attraverso il diritto, trad. it. di L. Ciaurro, Torino 1990, p. 119.

[27] Il quale scriveva nella Deutchlands Verfassung “Una moltitudine di uomini si può chiamare uno Stato soltanto se è unita per la comune difesa della sua proprietà in generale … L’allestimento di questa effettiva difesa è la potenza dello Stato; esso deve da un lato essere sufficiente a difendere lo Stato contro i nemici interni ed esterni, dall’altro a mantenere se stesso contro l’impeto universale dei singoli ….. L’unità della potenza statale per lo scopo comune della difesa è l’essenziale di uno Stato. Tutti gli altri scopi ed effetti della riunione possono esistere in un modo sommamente vario e privo di unità”, mentre “Riguardo alle leggi propriamente civili e alla amministrazione della giustizia, né l’uguaglianza delle leggi e della procedura giuridica potrebbero rendere l’Europa uno Stato (tanto poco quanto l’uguaglianza dei pesi, delle misure e della moneta), né la loro diversità impedisce l’unità di uno Stato” v. trad. it. di A. Plebe in Scritti politici, Bari 1961 pp. 44-45 e p. 32-33.

 

[28] E aggiungeva che “La soluzione del problema, prospettata dalla dottrina pura del diritto è la seguente: come la norma (contenete un dover essere: Sollnorm), considera come senso dell’at concreto per mezzo del quale è statuita, non coincide con questo stesso atto, così la validità normativa (Soll-Geltung) di una norma giuridica non coincide con la sua efficacia concreta (Seins-Wirksamkeit), Reine Rechtslehre trad. it. di Mario Losano, Torino (ed. 1975), p. 241; ma la soluzione del giurista austriaco, pur elegante, lascia perplessi: se il diritto appartiene all’attività pratica dell’uomo, un diritto che sia fatto valere poco o niente non ha alcuna funzione, se non quella, per l’appunto, mitica (nel terzo dei sensi esplicitati prima).

[29] Si sintetizza così un terreno assai frequentato, perché approfondirlo non è necessario per il tema trattato.

[30] È esemplare quanto capitato al sen. Monti che, ritenuto all’inizio il “salvatore d’Italia” a giudizio della maggior parte dei mass-media, dopo un modesto risultato della coalizione che lo sosteneva nelle politiche del 2013, è precipitato alle elezioni europee allo 0,7% di “Scelta civica”, movimento ispirato dallo stesso. Una percentuale che ne rivela il gradimento popolare irrilevante.

[31] B. Croce, Etica e politica, Bari 1931, p. 165.

[32] Anzi, si può sicuramente affermare che un regime politico che non pretenda di detenere, (insegnare, ordinare, pretendere) la verità è sicuramente più accettabile del contrario. Ma pone una serie di problemi affrontati da millenni dal pensiero filosofico e teologico: dal quid est veritas di Ponzio Pilato, all’affermazione di Giustiniano di detenere il diritto di prescrivere ai sudditi i “veri dei dogmata” alla lotta di Guglielmo di Ockem contro la teocrazia papale alla rivendicazione di Lutero che non si può comandare alla coscienza; dalle pagine di Spinoza alla distinzione tra potere spirituale e temporale della de ecclesiastica potestate declaratio (e dell’obbedienza dovuta) attribuita a Bossuet. E che Vico aveva espresso sinteticamente e precisamente in quel titolo sopra ricordato. Ma una trattazione del genere esula dai limiti del presente scritto.

[33] Du Pape, trad. it. Milano 1994, p. 155; il presupposto e la sostanza di ciò era già affermato da Machiavelli Principe, cap. XVIII

[34] Dei tre componenti del “triedro della guerra” di Clausewitz, ricordiamo solo il primo perché il secondo è più “tecnico”, il terzo, assai importante e spesso decisivo, non sempre ricorre nelle guerre reali, onde è necessario suscitarlo con un’accorta propaganda: dal preteso uso dei gas agli stupri di massa, spesso non corrispondenti a verità né limitata ad una parte in causa.

[35] C’è poi – oltre a quelli ricordati – un mito giuridico a effetti ancor più generali. E’ quello stigmatizzato, tra gli altri, come scriveva Gustave Le Bon per la Francia del suo Tempo (ma lo stesso vale per tante altre ragioni e per il periodo storico attuale): “Ci s’imbatte in Francia in una  massa di gente che si dichiara libera da qualsiasi fede religiosa, che non crede più agli dèi, che disprezza le superstizioni … Eppure in questo Paese di liberi pensatori sarebbe difficile trovare cittadini che manifestino il più lieve dubbio riguardo all’infallibile potenza delle costituzioni e delle leggi. Siamo tutti fermamente convinti che i testi legislativi possono modificare a piacere le condizioni sociali di un popolo. Con le leggi ogni riforma è possibile. Non dipende che da esse arricchire il povero alle spese del ricco, pareggiare le condizioni di tutti e assicurare la felicità universale” v. La Psychologie politique, trad. it. di A. Popa, Roma s.d., p. 53.

È  un mito “moderno” per eccellenza, già sottolineato da Joseph De Maistre che osservava “L’uomo, poiché agisce, crede di agire da solo; e poiché ha la coscienza della sua libertà, dimentica la sua dipendenza. . Nell’ordine fisico intende  ragione, e sebbene possa, per esempio, piantare una ghianda, innaffiarla, ecc., è capace tuttavia di convenire che non è lui a fare le querce … ma nell’ordine sociale, in cui è presente e operante, si mette a credere di essere realmente l’autore diretto di tutto ciò che si fa per suo mezzo: in un certo senso, è la cazzuola che si crede architetto … Il secolo diciottesimo, che di nulla si rese conto, non dubitò di nulla: è la regola; e non credo che esso abbia prodotto un solo giovincello di qualche talento che, uscendo di collegio, non abbia fatto tre cose: una neopedia, una costituzione e un mondo” (v. “Essai sur le princpipe génerateur des constitutions politiques…”, trad. it. di Roberto De Mattei, Milano 1975, pp. 41 e 39)

Dalla fiducia nella volontà umana si passa a quella dell’onnipotenza, almeno in relazione alle “regolarità”, presupposti e costanti politiche e sociali

 

[36] V. Carl Schmitt, Die tyrannie der Werte, trad. it.di Forstohff – Falconi Roma 1997 pp.35 ss.; Max Scheler Politik und moral, trad. it. Di L. Allodi; Brescia 2011 pp. 125 ss..; Max Weber ne Il Metodo della scienza storico sociale, trad. it. di P.Rossi, Milano 1980, p. 332.

[37] Il che va ricondotto alla tesi di Hauriou che all’autorità statale è connaturale il potere di coazione (e così alla  funzione pubblica). Se jus dicere e potere di applicare il decisum del giudizio non appartengono alla stessa – com’è naturale per la giustizia “internazionale” – il grado di effettiva applicazione del diritto tende a ridursi e con esso l’efficacia. Lo stesso succede laddove ricorrono situazioni di grave crisi (guerra civile, dualismo dei poteri).

[38] De civitate dei, lib.XI, 17.

RIFLESSIONI INTORNO A “IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE” DI PIERLUIGI FAGAN_ di Massimo Morigi

CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE O CULLA DEL NUOVO MONDO? RIFLESSIONI INTORNO A “IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE” DI PIERLUIGI FAGAN

DI MASSIMO MORIGI

Come del resto per palesemente manifestata intenzione comunicativa dell’autore, l’assai denso e stimolante contributo di Pierluigi Fagan per “L’Italia e il mondo”,  Il conflitto permanente come culla del nuovo mondo multipolare (URL di riferimento: http://italiaeilmondo.com/2018/04/05/il-conflitto-permanente-come-culla-del-nuovo-mondo-multipolare-di-pier-luigi-fagan/, WebCite: http://www.webcitation.org/6ySWLdQbR;https://pierluigifagan.wordpress.com/, WebCite: http://www.webcitation.org/6ySWkATvg) contiene due distinti livelli di analisi. Il primo, mostrato immediatamente in apertura del contributo, riguarda il problema di come e se si possa parlare di conoscenza scientifica nelle scienze politiche e sociali (Fagan, per la verità, non usa questa impostazione terminologica ed epistemologica ma ci mette in guardia contro le “false analogie”che, come sappiamo, sono state la grande trappola di tutte quelle impostazioni – in primis quella della scuola positivista, ma di questa ingenuità “analogica” non solo il positivismo si è macchiato, come ben illustra riguardo il moderno realismo classico l’articolo di Fagan –,  che volevano rendere le scienze storiche e sociali una scienza di tipo meccanicistico-naturalistico). Il secondo, che attraversa ed innerva tutto il contributo, è volto a dare un volto ed una fisiologia al nuovo mondo multipolare che stiamo vivendo dopo la caduta del muro di Berlino. Ma Fagan non vuole limitarsi a fornirci (in tutto il suo intervento: in maniera egregia) questa rappresentazione ma lo scopo finale del contributo, in gran parte riuscito (poi con qualche distinguo che avanzeremo), è intrecciare il livello di critica epistemologica contro una metodologia interpretativa facilona ed analogica del ragionamento sulla storia e la società basata  sulle false analogie con la presa d’atto del  mutamento in senso multipolare dello scenario internazionale, in un percorso argomentativo dove questo mondo multipolare, proprio per la sua novità, è da un lato la pietra tombale dell’ingenuità di tipo analogico e, dall’altro. ci deve introdurre alla consapevolezza di una visione dove il conflitto attraversa tutti i livelli dell’umano operare. Forse il passaggio dove meglio viene esplicitata questa tensione all’unione del livello della costruzione di una nuova teoresi storica e sociale con la sua (brillante) presa d’atto della multipolarità dell’attuale (e futuro) scenario internazionale è il seguente: «Quello nel quale siamo già immersi è un sistema multipolare sbilanciato con conflitto permanente. Potremmo dar nome a questa interpretazione come nuovo “realismo complesso”, un realismo che reinterpreta le costanti storiche all’attualità del mondo di oggi profondamente diverso da quello di ieri. “Conflitto” prende qui un nuovo significato che include varie forme di confronto armato ma non è riducibile solo a quello, prende il posto della guerra tradizionale dilatando però il fronte ed il tempo della tenzone. Oggi le potenze si muovono in uno scenario multidimensionale.» Il realismo che quindi dovrebbe essere all’altezza dell’interpretazione del nuovo mondo multipolare viene definito come un «nuovo “realismo complesso”» , un nuovo realismo complesso che, come il lettore potrà verificare dalla lettura del contributo, partendo dai due caposcuola del realismo politico Hans Morgenthau e Kenneth Waltz, intende su questi due autori compiere una sorta di hegeliana Aufhebung che faccia giustizia soprattutto delle false analogie che, come ben ci mostra Fagan, hanno sempre afflitto anche un’impostazione interpretativa della politica, il realismo, che, proprio per onorare il suo termine, dovrebbe stare religiosamente attaccata alla realtà effettuale e rifuggire dalle facili ed ingenue analogie tanto giustamente deprecate da Fagan (e tanto inutili, sottolinea assai opportunamente sempre per Fagan, a comprendere il nuovo mondo multipolare che non ha nessuna analogia col vecchio mondo bipolare dove esercitarono la loro dottrina Morgenthau e Waltz). Ma questo superamento/conservazione del moderno realismo politico classico (quello, per intenderci dei sunnominati Waltz e Morgenthau e di tutti coloro che hanno operato sulla loro scia nel secondo dopoguerra: per lo scrivente discorso molto diverso per il realismo à la Tucidide e, soprattutto,  à la Machiavelli, assolutamente  costoro più dialettici e teleologici dei due autori realisti che hanno segnato gli ultimi settant’anni di studi) questa Aufhebung alla luce di un nuovo realismo complesso, trova una completa definizione in Il conflitto permanente come culla del nuovo mondo multipolare? Su questo punto è lecito avanzare qualche perplessità e questo non per mancanza di acutezza critica e nell’analisi delle fallacie interpretative del moderno  realismo classico o della nuova situazione che si è prodotta nel mondo con la polverizzazione dei centri di potere ma perché nell’attuale scienza politica (e quindi questa critica non è solo per Fagan ma è anche per lo scrivente) deve essere ancora compiuto dal punto di vista della teoresi politica quel percorso di completo distacco dal meccanicismo positivistico (e quindi, di riflesso, anche dalle false analogie tanto deprecate da Fagan). Ma, del resto, è proprio Fagan ad indicarci che è proprio questo il punto che deve essere superato quando scrive che «Gli stati non sono gli atomi della fisica realista, sono entità intenzionali ed autocoscienti ». Qui Fagan con “fisica realista”si riferisce specificamente alla dinamica dei rapporti internazionali come meccanicisticamente e violentemente inquadrati dal realismo alla Morghenthau o alla Waltz ma ci sia consentito di fare un (benevolo) processo alle intenzioni a Fagan dicendo che il nostro ha (giustamente) indicato un Écrasez linfâme! nel meccanicismo pseudonaturalistico di stampo galileano e poi positivistico e neopositivistico che ormai da cinque secoli sta ammorbando le scienze storiche e sociali. A questo punto nel rilevare il non ancora soddisfacente percorso teorico del nuovo realismo politico proposto da Fagan, si potrebbe evidenziare con la matita rossa il non avere affrontato il problema del costruttivista Alexander Wendt, cioè se sia condivisibile o meno l’impostazione che l’anarchia del sistema internazionale sia un dato di natura prettamente culturale e per niente “meccanica”(problema affrontato dal Alexander Wendt in Id., Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics in “International Organization”, Vol. 46, No. 2. (Spring, 1992), pp. 391-425, articolo consultabile all’URL https://people.ucsc.edu/~rlipsch/migrated/Pol272/Wendt.Anarch.pdf e che noi per la sua importanza abbiamo anche caricato  su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf e https://ia601506.us.archive.org/7/items/AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf/AlexanderWendt.AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf), oppure, per risalire alle origini della geopolitica (geopolitica e realismo politico moderno, come si sa, hanno stretti vincoli di parentela, e senza voler forzare troppo la mano, si potrebbe dire che il moderno realismo politico è, per molti versi, la traduzione anglosassone del secondo dopoguerra  della geopolitica di area tedesca – cfr. Patricia Chiantera-Stutte, Il pensiero geopolitico. Spazio, potere e imperialismo fra Otto e Novecento, Roma, Carocci Editore, 2014; e nonostante questa strettissima filiazione con il moderno realismo politico di area anglosassone, geopolitica condannata alla damnatio memoriae per i suoi reali, e presunti,  legami col nazismo – Haushofer maestro di Rudolf Hess, Hess  a sua volta sinistro Virgilio di geopolitica di Hitler incarcerato nella prigione di Landsberg am Lech dopo il fallito putch di Monaco e che durante questa dorata carcerazione, potendo anche approfondire la sua superficiale conoscenza della geopolitica, scrisse il Mein Kampf – e per l’essere stata  considerata la Germania del  Novecento – e quindi in extenso tutta la sua cultura politico-strategica, fra cui in prima fila la geopolitica –  la protagonista e colpevole per l’annientamento a livello globale dell’importanza del Vecchio continente), il non avere Fagan citato  Kjellén e la sua concezione dello Stato come forma di vita (Rudolf Kjellén, Staten som lifsform, Gebers, 1916): il punto vero è che sia Wendt che Kjellén, pur andando nella giusta direzione di un modello teorico antimeccanicisitico, né riescono, in fondo, a proporne uno alternativo né escono, di conseguenza, dalle false analogie tanto giustamente deprecate da Fagan.

In particolare, in Wendt, seppur particolarmente sentita la necessità di uscire dal modello meccanicistico di stampo galileiano, e allo scopo Wendt arriva a ricorrere alla meccanica quantistica da lui ritenuto alternativo alla fisica meccanicistica galileano-newtoniana (cfr. Alexander Wendt, Quantum mind and social science: unifying physical and social ontology, Cambridge, Cambridge University Press, 2015; questa impostazione “quantistica”, denunciando a giudizio del Repubblicanesimo Geopolitico, una notevole e del tutto giustificata “nostalgia” verso un ritorno di una dialettica di stampo hegeliano) non ci si decide mai, alla fine, di prendere il coraggio a due mani arrivando ad affermare, come invece in Fagan, che gli Stati  “sono entità intenzionali ed autocoscienti” ma il suo costruttivismo è orientato ad affermare che l’intenzionalità ed autocoscienza degli Stati sono, in ultima analisi, un espediente euristico per giudicare la dinamica interna ed esterna di  questi Stati e non un giudizio in merito alla loro intima natura (così facendo, è ovvio, Wendt evita false analogie di tipo organicistico ma, altrettanto ovvio, compie un debole compromesso verso quel meccanicismo che egli vorrebbe demolire in direzione di un organicismo che dovrebbe sì lasciarsi alle spalle ogni falsa analogia ma che per essere veramente epistemologicamente innovativo e produttivo dal punto di vista di un rinnovato realismo dovrebbe andare, come però non riesce alla fine ad accadere in Wendt, alla riscoperta di un organicismo antimeccanicistico lungo la direttiva teleologica – e, aggiungiamo noi, intimamente dialettica e, quindi, in ultima analisi, hegeliano-idealistica –  Aristotele-Machiavelli).

Kjellén, al contrario, col suo Stato come organismo vivente, compie sì un grande e coraggioso passo ma in lui è fortissima la presenza della falsa analogia di una visione certamente organica ma visione organica che è quasi totalmente in preda di un organicismo di stampo positivistico e meccanicistico (e, vista l’epoca, senza alcuna possibilità di fuoruscita dalla stesso attraverso la fisica “alternativa” della meccanica quantistica, in primis dei suoi principii, da un certo punto di vista alquanto dialettici,  della superposition quantistica, della complementarietà e, last but not the least per la sua immensa portata teleologica, dell’observer effect).

In conclusione, il problema è uscire dalle false analogie nel giudicare gli eventi storici e sociali, false analogie che possono originare semplicemente dal paragonare l’attuale mondo multipolare con l’appena tramontato mondo pre caduta muro di Berlino, ma, ancor più grave, false analogie che ci giungono dal vedere il mondo delle relazioni umane dominato da schemi meccanicistici e in cui, in questo caso, la corretta  via d’uscita è dotare, come ha fatto Fagan, gli Stati e le formazioni sociali umane (ma, aggiungiamo noi, anche non umane) di una loro capacità organica (ma qui con il rischio che questa loro natura organica sia immiserita e snaturata, a sua volta, da una sorta di meccanicismo deterministico, o ancor peggio – e qui lo diciamo di sfuggita, ma rischio che deve essere sottolineato –  che la natura organica e  quindi teleologica e quindi dialettica di questi aggregati – ineludibile natura teleologica e dialettica degli aggregati organici sociali, storici, culturali o biologici che siano, in assenza della quale questi non potrebbero relazionarsi con l’ambiente e, quindi, in ultima istanza, esistere: rimandiamo ancora una volta a Richard Lewins, Richard Lewontin, The Dialectical Biologist, Harvard University Press, 1985 – venga confusa con una sorta di spiritistico  ed irrazionalistico élan vital di bergsoniana memoria).

E allora? Ci permettiamo di indicare (non di dimostrare, per carità, le dimostrazioni le lasciamo ai geometri neopositivisti) la risoluzione sciogliendo la domanda retorica del titolo di queste riflessioni al contributo di Fargan in senso positivo e quindi affermando che il conflitto non è solo la culla del nuovo mondo multipolare ma è, soprattutto, la culla del mondo tout court. Ed affermando, inoltre, che perché questa “culla del mondo” possa essere il luogo di un conflitto umanamente profondo e produttivo, non è possibile prescindere da un’autentica e sentita filosofia della prassi che non si limiti ad analizzare il conflitto ma che questo conflitto costituisca e riconosca come categoria gnoseologica ed epistemologica interiormente vissuta e progressivamente ed attivamente proiettata verso una realtà esterna che, proprio in ragione di questa comune natura conflittuale, sia dinamicamente e dialetticamente legata all’agente che ne ha compresa la comune radice creativo-dialettico-strategico-conflittuale.

La proposta è, quindi, aggiornata sul piano empirico dalla consapevolezza di uno scenario politico multipolare   (e magari integrata sul piano delle scienze naturali dagli interessanti apporti euristici dati anche dalla meccanica quantistica ma non solo, vedi teoria del caos – antesegnano della quale Carl von Clausewitz ed il suo Vom Kriege ed epigenetica – vedi i lavori di Eva Jablonka, in particolare Eva Jablonka, Marion J. Lamb, Evolution in Four Dimensions: Genetic, Epigenetic, Behavioral, and Symbolic Variation in the History of Life, Bradford Books/The MIT Press. 2005 –, temi da noi già sfiorati in Dialecticvs Nvncivs e altrove, e che troveranno una più profonda trattazione in Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico) ma su un piano teorico più alto, animata dalla consapevolezza della natura costitutiva del conflitto nella morfogenesi del mondo naturale ed umano lungo la direttiva di una filosofia della prassi che vede in Giovanni Gentile, Antonio Gramsci dei Quaderni del Carcere e nel György Lukács di Storia e coscienza di classe i suoi più recenti terminali ma che ha avuto inizio con la phronesis aristotelica per continuare con Machiavelli e poi con Hegel, quella stessa, in fondo, del “realismo complesso” indicata da Fagan. Ovviamente non pretendendo, proprio per la natura complessa di questo realismo, che egli possa concordare su ogni singolo punto qui esposto ma sperando, sempre per la natura complessa e quindi dialettica di questo realismo, che questo dibattito, ponendo la parola fine ad ogni ingenua, passiva e meccanicistica analogia, possa essere l’inizio di  nuove profonde ed attive linee di azione.

Massimo Morigi – 14 aprile 2018

 

 

LA SIRIA PUNTO DI SVOLTA DELLA FASE MULTICENTRICA, di Luigi Longo

LA SIRIA PUNTO DI SVOLTA DELLA FASE MULTICENTRICA

 

di Luigi Longo

 

 

  1. La fase multicentrica sta avendo delle impennate per il dinamismo degli USA. Un dinamismo criminale, spregiudicato, delinquenziale e fuorilegge basato sulla forza militare che assume un peso specifico nelle relazioni interne ed esterne alla potenza mondiale USA nelle fasi multicentrica e policentrica.

Le suddette fasi mondiali tolgono il velo della ipocrisia e della falsa coscienza necessaria sulla democrazia e sulla libertà praticate in Occidente e portate a modello a livello mondiale [si pensi, per esempio, a quella democrazia esportata e difesa in tutto il mondo attraverso il bombardamento etico (è il titolo di un bel libro di Costanzo Preve), statunitense, con mandato divino (sic)] che ora si rivelano essere principi decisamente astratti, che poco hanno a che fare con la realtà nella quale gli agenti strategici dominanti, vettori del conflitto strategico tra le potenze mondiali, hanno bisogno di decisioni, con una filiera del comando accorciata all’essenziale duro e sbrigativo, attraverso le articolazioni istituzionali presenti sul peculiare e storico territorio nazionale che chiamiamo Stato. Il diritto, inteso come forma di organizzazione dei rapporti sociali e territoriali subisce così processi di ri-modulazione, ri-pensamento e re-invenzione. Lo stato di eccezione schmittiano diventa una eccezione regolare storicamente data che si ripresenta necessariamente nelle fasi multicentrica e policentrica del conflitto mondiale. E’ una costante storica che deve portarci a ri-considerare le relazioni e i rapporti sociali reali nelle diverse fasi della storia mondiale che definiamo monocentrica (la presenza di una potenza mondiale che funge da centro di coordinamento), multicentrica (la presenza di più potenze che fungono da coordinamento di diversi centri egemonici che si contengono l’egemonia mondiale), policentrica (il conflitto mondiale tra centri consolidati per il dominio mondiale).

 

 

  1. Gli USA sono una potenza egemone in declino che non riesce a trovare una sintesi intorno ad un gruppo strategico dominante (per i conflitti interni tra gli agenti strategici delle diverse sfere sociali) capace di frenare il proprio declino e rilanciare una nuova sfida per l’egemonia mondiale (alla Russia e alla Cina con le loro aree di influenza sempre più larghe e penetranti il territorio mondiale) che si basi su una nuova idea di società, di sviluppo, di rapporto sociale; va ricordato che non è nella storia statunitense la cultura multicentrica del mondo e la capacità di confronto tra nazioni e tra Occidente e Oriente.

La guerra in Siria, al contrario delle altre guerre nel Medio Oriente (Iraq), nei Balcani (ex Jugoslavia) e nel Nord Africa (Libia), può rappresentare il punto di svolta verso il consolidamento del polo di aggregazione intorno alla Russia e alla Cina [che già collaborano nella sfera economica (risorse energetiche, via della seta, trattati di area, accordi commerciali, eccetera)] capace di approntare una strategia tutta orientale che lancia un confronto tra nazioni eguali con una visione multicentrica del mondo e un nuovo rapporto tra Oriente e Occidente [senza dimenticare né l’influenza della sedimentazione storica del rapporto tra Russia ed Europa a partire dalla metà del XV secolo con lo zar Ivan III (1440-1505), né l’attrito storico tra Russia e Cina]. Non si tratta di un confronto basato sulla forza militare ma sul dialogo e sul confronto tra storie, culture, popoli diversi. Tale confronto non esclude affatto le questioni fondamentali quali i rapporti sociali basati sul potere e sul dominio che riguardano sia le logiche interne che esterne delle nazioni e delle relazioni con le nazioni divenute potenze mondiali [si pensi, per esempio, a quanta influenza ha l’egemonia USA nel decidere lo sviluppo e la politica delle nazioni europee e dell’Unione Europea (che è bene ricordarlo non è l’Europa della nazioni, ma un luogo istituzionale sovranazionale nato da un progetto pensato, finanziato e guidato dagli Stati Uniti e gestito da sub-agenti dominanti)].

Gli USA devono bloccare con la forza militare la possibilità di formazione del polo Russia-Cina perché sanno che l’avverarsi di tale polo, unito alla loro incapacità di fermare il proprio declino egemonico e alla convinzione che l’unica strada percorribile sia quella della guerra (è attraverso la guerra che hanno sempre affermato l’autorità globale), non sarebbe altro che l’inizio della transizione egemonica con una diversa riorganizzazione sistemica. Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, due importanti protagonisti delle strategie di dominio statunitensi, hanno sempre combattuto e temuto la formazione di un polo sia euroasiatico (Europa-Russia) sia asiatico (Russia-Cina) perché vedevano in esso una seria minaccia alla egemonia mondiale statunitense.

La guerra USA, al contrario di quello che pensava Niccolò Macchiavelli (ne Il Principe) che la intendeva come portatrice di benessere, è solo distruzione di popoli, di territori e di nazioni per contenere la Russia e distruggere sul nascere il polo di formazione asiatico intorno a Russia e Cina.

Il declino egemonico mondiale degli USA sta nella perdita della capacità di un modello sociale di benessere interno ed esterno; gli Stati Uniti basano la loro resistenza egemonica solo sulla forza militare aggressiva e distruttrice senza creazione, senza consenso e senza confronto.

 

 

  1. L’Europa resta il teatro passivo del conflitto tra le potenze mondiali che si andrà sviluppando nelle surriportate fasi della storia mondiale. I sub agenti strategici, che dominano i luoghi istituzionali dell’Unione Europea, da tempo stanno accompagnando le diverse strategie USA di contenimento della Russia e di contrasto alla formazione del polo asiatico. Si pensi al ruolo dell’UE e delle singole nazioni europee all’interno della NATO, alla trasformazione della NATO da strumento di difesa contro la minaccia sovietica a strumento di attacco fuori area (la Nato Responce Force), alla militarizzazione tramite Nato del territorio europeo, alle infrastrutture civili da supporto a quelle militari della Nato, alla nascita della PeSCO (Permanent Structured Cooperation, Cooperazione Strutturata Permanente) del campo della difesa UE, agli interventi del Pentagono (Dipartimento della Difesa degli USA) sulle strutture militari presenti sul territorio europeo, all’americanizzazione del territorio europeo, eccetera; temi dei quali ho già trattato in precedenti scritti.

Il processo di americanizzazione europeo ha condizionato fortemente lo sviluppo e l’autonomia delle singole nazioni; ha ridotto l’Europa ad una espressione geografica a servizio delle strategie statunitensi nelle diverse aree mondiali. Tutte le succitate guerre degli USA [di invasione e di violenza alla sovranità nazionale tramite ONU o tramite NATO o tramite coalizione internazionale o tramite attacco diretto con alleati), a partire dalla implosione dell’URSS (1991)] hanno visto la partecipazione di diverse nazioni europee che si sono ritagliate spazi nella sfera economica (gestione di risorse energetiche, allargamento di aree di influenza e di mercato per le imprese, eccetera), ma sotto stretta sorveglianza delle diverse strategie politiche della potenza imperiale statunitense sempre per contrastare le nascenti potenze mondiali (Russia e Cina) capaci di sfidare l’egemonia statunitense [ esempi recenti la guerra di Libia (iniziata nel 2011) e la guerra in Siria (iniziata nel 2011)].

La stessa storia si ripete oggi, in maniera diversa, con il recente attacco USA alla Siria, dopo sette anni di tentativi di smembramento di una nazione sovrana, con morti e sofferenze inenarrabili della popolazione, insieme agli alleati ufficiali europei (Francia e Regno Unito) interessati alla sfera economica, per contrastare l’egemonia dell’area della Russia e il consolidamento di una potenza regionale come l’Iran che minerebbe il ruolo di Israele come potenza regionale vassallo USA nella politica in Medio Oriente (senza dimenticare la questione storica, politica e territoriale della Turchia), area nevralgica del conflitto strategico mondiale. Il pretesto dell’uso di armi chimiche non regge: perché Bashar al-Assad avrebbe dovuto usare le armi chimiche sulla popolazione di Douma, nell’ambito di un’offensiva globale nei confronti della regione Ghouta orientale, quando ormai i ribelli erano pronti alla resa?

E’ emblematico che nessuna nazione europea abbia protestato duramente contro il criminale attacco degli USA e dei suoi alleati; anzi, è stato sostenuto dal Segretario della Nato Jens Stoltenberg e appoggiato dalla UE, dalla Germania (Angela Merkel: risposta “necessaria e appropriata” agli attacchi chimici), Giappone, Canada e Israele. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha bocciato una bozza di risoluzione proposta dalla Russia che “condannava l’aggressione contro la Siria da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati, in violazione delle leggi internazionali e della Carta delle Nazioni Unite”.

 

 

  1. L’Italia è una drammatica espressione geografica a servizio degli USA che considerano il territorio italiano fondamentale per le loro strategie nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente, oltre ad ospitare basi Nato-USA di grande rilievo e importanza.

L’Italia, a partire dalla sua Unità sotto il coordinamento inglese fino alla direzione statunitense, dalla seconda guerra mondiale in poi, può essere un laboratorio storico e politico per capire come l’egemonia inglese prima e quella degli Stati Uniti dopo, hanno piegato lo sviluppo del nostro Paese alle loro strategie di dominio, sia con la forza ( uccisioni di agenti strategici che pensavano alla sovranità e allo sviluppo del Paese), sia con il consenso (selezione di sub agenti strategici pronti a sacrificarsi per il bene del Paese alla servitù inglese e statunitense).

Qual è la reazione dell’Italia alla criminale aggressione degli Stati Uniti e dei suoi alleati alla nazione sovrana della Siria fatta in questi giorni? E’ emblematica della stupidità della nostra classe dirigente ben selezionata per il bene del nostro Paese.

L’account Twitter ItaMilRadar, che monitora il traffico aereo militare sui cieli italiani e sul Mediterraneo, ha riferito che due aerei militari della US Navy sono decollati dalla base Sigonella. Il primo, per pattugliare l’area al largo del porto siriano di Latakia nei cui pressi si trova la base militare russa, il secondo per svolgere attività di pattugliamento verso Est. Un Boeing E-3 della Nato ha invece svolto attività di pattugliamento nei pressi del confine tra Turchia e Siria. Ovviamente è un pattugliamento di carattere ordinario! ( www.lasicilia.it, 11/4/2018).

Il 10 aprile scorso l’Agenzia Al Sura ha segnalato che una cisterna volante italiana KC-767 è entrata in Giordania dallo spazio aereo dell’Arabia Saudita.

Le basi Nato-Usa in Italia sono in piena allerta e pronte per gli interventi in Siria. Inoltre, l’ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, Pasquale Preziosa, ci ha ricordato che la base Nato di Sigonella in Sicilia, dove sono ubicati i droni strategici RQ-4 Global Hawk, è importante sia geograficamente sia strategicamente per l’attacco USA in Siria (intervista di Paolo S. Orrù pubblicata su www.tiscali.it, 14/4/2018).

Bene. Cosa fanno i nostri leader politici? Silenzio: il silenzio della paura. L’unica dichiarazione ambigua e strumentale è stata quella di Matteo Salvini che ha criticato l’attacco USA e ha precisato comunque l’importanza di stare dentro l’alleanza atlantica e che il problema è Donald Trump, come se la qualità di un Presidente facesse venir meno la criminalità imperiale statunitense.

E i nostri parlamentari? I più intelligenti hanno chiesto al Governo di conferire in Aula per conoscere i fatti ed informare il Parlamento delle iniziative prese nelle sedi competenti per una inchiesta internazionale indipendente per far luce su quanto accaduto.

 

 

  1. 5. Questo ruolo di servitù volontaria ha impedito all’Europa di essere un soggetto politico espressione di una Sintesi delle Nazioni con una propria autonomia e con un proprio ruolo da giocare nello scambio sociale, economico, culturale e politico tra Occidente e Oriente: Perché? Quali le ragioni storiche e politiche? Quali le strategie per cambiare sguardo e guardare a Oriente per un mondo multicentrico che allontani sempre più la fase policentrica?

Occorrono nuovi agenti strategici in un mondo in forte movimento per il trapasso di epoca così come sosteneva Niccolò Macchiavelli, nella Mandragola la più bella commedia italiana scritta tra il 1513 e i primi mesi del 1514, :<< […] L’espressività di Nicia, il suo sputare motti popolari a raffica diventano emblematici di un attaccamento ottuso a una fiorentinità senza prospettive, in un’epoca in cui […] la crisi politica e morale che stringe Firenze e l’Italia richiederebbe uomini nuovi, lungimiranti, tutt’altro che intenti a tenere lo sguardo fisso all’ombra del proprio campanile >>.

 

La crisi siriana e l’Italia, di Roberto Buffagni

La crisi siriana e l’Italia

 

Mentre scrivo è in corso la riunione del Consiglio di Sicurezza ONU sulla crisi siriana. Registro le due dichiarazioni molto dure e direttamente antirusse di Stati Uniti e Francia, la dichiarazione interlocutoria della Cina che invita a una soluzione politica e non militare della crisi, e la dichiarazione più cauta del Regno Unito che non dà per scontata la responsabilità siriana nell’uso dei gas: il governo May è debole, i laburisti protestano, i conservatori non sono saldamente uniti, e il Ministro della Difesa russo proprio oggi ha ufficialmente accusato il governo britannico di aver appoggiato chi ha inscenato “il falso attacco provocatorio con i gas”.

In Italia non si registrano prese di posizione serie sulla crisi siriana. Si è costretti a prendere atto, con dispiacere e vergogna, di un allineamento totale del PD alle posizioni USA più oltranziste, quando persino all’interno dell’Amministrazione americana e tra gli alti gradi delle FFAA USA ci sono serie perplessità e posizioni nettamente contrarie a un attacco non dimostrativo contro Siria e Russia. Unico a invitare alla calma e a non invischiarsi in una situazione pericolosa, Matteo Salvini: nel paese dei ciechi l’orbo è re, ma non basta.

Che cosa rischiano l’Italia e il mondo intero? In sintesi, quanto segue. In caso di un attacco USA non dimostrativo contro la Siria e il suo alleato russo, l’enorme superiorità di mezzi di cui dispongono gli USA nel teatro mediterraneo può soverchiare le difese siriane e russe. Una prima fitta ondata di missili viene abbattuta dal sistema difensivo russo-siriano che però esaurisce lo stock missilistico, che non è possibile rifornire in tempo utile per le difficoltà logistiche imposte dalla distanza tra Russia e Siria. Una seconda ondata passa e causa gravi danni, colpendo personale siriano e russo. I russi sono costretti a rispondere dal Mar Caspio e dal Mar Nero, forse anche dal suolo russo. Gli USA rispondono, lo scontro si internazionalizza. Se un missile USA colpisce il suolo russo, la Russia colpirà il suolo americano. Sebbene lo scenario sinora tratteggiato non preveda l’uso di armi nucleari, nessuno può escludere che l’escalation vi conduca. E naturalmente, a ogni passo dell’escalation diventa sempre più difficile la de-escalation, sempre maggiori le probabilità di una perdita di controllo da parte di uno o entrambi i contendenti.

Per la sua posizione geografica, in caso di attacco USA non dimostrativo l’Italia sarà in prima linea, perché gli USA vorranno usare le loro basi situate su territorio italiano. Chi dice “siamo nella NATO e dunque dobbiamo appoggiare l’intervento americano contro la Siria” mente spudoratamente. La NATO non, ripeto NON c’entra niente con l’intervento USA contro la Siria. Un’azione aggressiva NATO esige l’accordo unanime, ripeto unanime, dei membri dell’alleanza. Né alcun membro NATO è stato aggredito dalla Siria o dalla Russia. Se dalle basi USA (USA, non NATO) presenti sul territorio italiano partissero truppe o voli diretti ad aggredire la Siria, questo avverrebbe con la piena corresponsabilità del governo italiano e della nazione. Nelle basi USA su territorio italiano, infatti, ci sono due comandanti, uno americano uno italiano. Il comandante americano è tenuto a comunicare in anticipo al comandante italiano tutte le operazioni, e il comandante italiano può autorizzarle oppure no, ripeto OPPURE NO. In caso di attacco USA contro la Siria che parta da basi USA su territorio italiano, il comandante italiano della base USA è tenuto a comunicare ai superiori gerarchici il piano operativo a lui sottoposto dal comandante americano, e i superiori gerarchici a informarne il governo e il Presidente della Repubblica, comandante in capo delle FFAA, perché un atto di guerra contro la Siria e la Russia intrapreso da base USA su territorio italiano configura un identico atto di guerra dell’Italia contro Siria e Russia. Per intenderci: se la Russia rispondesse a un attacco USA partito dall’Italia attaccando obiettivi militari su territorio italiano, sarebbe giustificata dal diritto di guerra. Invitiamo caldamente tutte le forze politiche che abbiano a cuore la sicurezza e l’onore nazionale a fare pressione sul governo e sul Presidente della Repubblica, comandante in capo delle FFAA, perché con apposita comunicazione scritta ribadiscano a tutti comandanti italiani di basi militari USA che è loro diritto e dovere esigere dal comandante americano il controllo preventivo del piano di operazioni, e comunicare prontamente per via gerarchica al governo eventuali piani di operazioni USA contro Siria e Russia che partano dal suolo italiano. Se questa possibilità si verifica, viste le gravi ripercussioni possibili e anzi probabili, il governo è politicamente e moralmente tenuto a darne notizia al Parlamento, e a sottoporre a un voto delle Camere l’autorizzazione italiana di qualsivoglia operazione americana contro Siria e Russia in partenza dal territorio nazionale. Vogliamo sperare che i rappresentanti del popolo italiano si mostrerebbero all’altezza del loro ufficio, negando l’autorizzazione e così tutelando sicurezza e onore dell’Italia. Chi non lo facesse si assumerebbe una gravissima responsabilità storica e morale.

 

L’ULTIMO UOMO-L’ULTIMA BATTAGLIA, di Gianfranco Campa

L’ULTIMO UOMO-L’ULTIMA BATTAGLIA

 

E così un’altra presidenza scivola via nella fogna della storia americana. Storia composta da guerre di annientamento, indipendenza, fratricide, mondiali, regionali. Come quelli che lo avevano preceduto, Trump ha completato la sua mutazione da presidente antisistema a parte integrante del sistema guerrafondaio, imperialista dei neocon e neoliberali. Non per giustificare Trump, ma d’altronde avere una pistola puntata costantemente alla testa, non è la condizione ideale.  All’ultimo presidente che ha cercato di opporsi al complesso industriale militare americano  hanno fatto esplodere il cervello a Dallas in Texas, in un pomeriggio di tanti anni fa…

Come prevedibile, dopo l’attacco alla Siria, gli esperti americani di politica estera si sono uniti nell’elogiare Trump. Per l’élite americana quello che fino a dieci minuti prima era un mentecatto arancione è ora diventato un brillante genio. Gli apprezzamenti verso Trump di questa gentaglia sono ingannevoli, finti; dureranno il tempo di una estate come fra i ghiacci del Polo Nord. Niente salverà Trump dal destino che gli è stato tracciato da questi esseri beceri; l’oblio politico e personale, soprattutto nel momento in cui riprenderanno completamente in mano il potere nelle stanze di Washington. Trump non sopravviverà mai alla controffensiva dell’establishment, una volta che l’establishement stesso avrà domato la rivolta in atto nelle stanze del potere americano. Lo odiano visceralmente solo per aver messo in pericolo la loro egemonia in questi ultimi due anni e costretto molti di loro ad esporsi più del dovuto. Quelli che gli potranno salvare il culo saranno quegli stessi a cui Trump oggi ha sputato in faccia, tradendoli  con la decisione di attaccare la Siria.

Dobbiamo comunque ringraziare soprattutto il movimento anti-trump, quello composto dai democratici liberali che ci hanno martellato la testa ed altro per due anni con la storia di Trump pupazzo di Putin. Trump ha prima provato a difendersi, poi ha infine ceduto vistosi circondato ormai da tutte le posizioni. La costante opera di logoramento ai fianchi, costante quanto dolorosa ha finito per erodere la volontà di resistenza di Donald Trump. Attaccando la Siria probabilmente Trump innescherà una serie di conflagrazioni che potrebbero determinare degli eventi capaci di trascinarci sull’orlo della apocalisse. Nel frattempo per chi crede che gli americani limiteranno gli attacchi alla Siria solo dal cielo, avverto che si sbaglia di grosso: ci sono più di 2000 soldati americani già presenti in Siria ed è proprio di queste ora la notizia che un contingente di 3600 marines sta arrivando in Siria attraverso la Giordania.

Questa notizia arriva direttamente dalla bocca del Pentagono:

https://www.marinecorpstimes.com/news/your-marine-corps/2018/04/13/thousands-of-us-troops-and-marines-arrive-in-jordan/?utm_source=Facebook&utm_medium=Socialflow

L’attacco alla Siria vede anche per la prima volta l’uso in combattimento dei missili JASSMs lanciati dai B-1B; questi sono i missili con cui Trump minacciava i Russi nel suo delirante tweet di 3 giorni fa.

Sotto una foto dei missili in questione.

 

In quest’ottica ora si capisce il perché delle lettere di allerta mandate a migliaia di riservisti americani l’anno scorso. All’epoca si credeva possibile un conflitto nella penisola coreana; in realtà potrebbe essere stata pianificata da tempo una guerra su scala mondiale da attuare nei prossimi mesi e anni.

Nelle ore che hanno preceduto l’attacco di Trump alla Siria si è sentito di tutto e il contrario di tutto. Alla fine ha prevalso il partito della guerra e Trump (Bolton) con la May e Macron ( Israele, Arabia Saudita nell’ombra) sono diventati  i principali  responsabili di questo intervento militare in Siria  L’attacco arriva poco prima che il OPCW (https://www.opcw.org/)  avesse avuto la possibilità di procedere con la sua inchiesta, ormai pronta a partire. Ma la pazienza non è la virtù dei criminali poiché è necessario agire in fretta per cancellare le tracce dei loro crimini e delle loro falsità.

C’è molta costernazione e molta delusione tra quelli che hanno sostenuto Trump contro tutto e tutti. La base anti-interventista, anti-globalista, che ha sostenuto, direi anzi creato il fenomeno Trump e permesso a Trump di arrivare alla presidenza ha perso la sua battaglia finale per il controllo della presidenza americana, anche se la guerra contro l’establishment era ormai compromessa sin dall’anno scorso, dopo l’uscita di scena cioè del compianto Michael Flynn seguito dopo alcuni mesi da Stephen Bannon. Su molti dei siti, canali radio, personaggi anti-establishment, da Infowars a Breitbart, da Michael Savage a Roger Stone, da Pat Buchanan a Wikileaks, da Tucker Carlson a Laura Ingraham elevano un coro di rabbia espresso in commenti e video. Personalmente ho passato le ultime ore a comunicare con le persone che insieme a me hanno reso possibile l’ascesa di Trump e con le quali ho condiviso appassionatamente le battaglie politiche che hanno coinvolto molti di questi ultimi 10 anni della mia vita. Tanti sacrifici, impegni, viaggi, programmi, riunioni a scapito personale, a volte anche a costo di compromettere l’incolumità personale per ritrovarsi qui punto e a capo.

La guerra, lo scontro politico fra una parte della società americana e l’establishment politico elitario al potere continua; è una guerra che trascende l’esistenza, le trasformazioni politiche e umorali di Donald Trump.

Vi lascio con i twitter di Trump pubblicati qui sotto. Scritti da lui stesso nell’ormai lontano 2013, giusto per non dimenticare chi fosse Trump prima di questa mutazione compiutasi in una notte Siriana sotto le bombe umanitarie trumpiane:

Cosa otterremo bombardando la Siria oltre a più debito e un possibile conflitto a lungo termine? Obama ha bisogno dell’approvazione del Congresso.

…Rimani fuori dalla Siria (Obama), non abbiamo la leadership per vincere guerre o strategie.”

“La debolezza e l’indecisione del presidente Obama ci hanno forse risparmiare un attacco orribile e molto costoso in Siria!”

“Se gli Stati Uniti attaccano la Siria e colpiscono bersagli sbagliati, uccidendo civili, ci sarà un inferno in tutto il mondo da pagare. Stai (Obama) lontano e curati degli Stati Uniti”

“L’unico motivo per cui il presidente Obama vuole attaccare la Siria è quello di salvare la faccia sulla sua stupida dichiarazione della RED LINE. NON attaccare la Siria, curati degli U.S.A.”

“Quello che sto dicendo è stare fuori dalla Siria.”

“Dovremmo smettere di far chiacchiere, stare fuori dalla Siria e da altri paesi che ci odiano, ricostruire il nostro paese e renderlo forte e grande di nuovo, USA!”

 

GLI USA NEL LABIRINTO MEDIO-ORIENTALE, di Fabio Falchi

GLI USA NEL LABIRINTO MEDIO-ORIENTALE

In questi giorni sembra tornato di attualità il paragone tra la Clinton e Trump. Ma è una questione che si pone in termini sbagliati se non si distingue tra Trump in quanto avversario della Clinton e Trump in quanto presidente degli Usa.

Il primo Trump era un “estraneo” per il deep State, ossia per l’élite Usa che guida la globalizzazione e che da tempo ha separato il proprio interesse da quello della società americana nel suo complesso. Trump si è fatto invece portavoce di quest’ultima e per questa ragione ha sconfitto la Clinton.

Come presidente degli Usa però Trump non può “ignorare” che le basi della potenza degli Usa dipendono ormai dal ruolo di gendarme mondiale dell’America, che deve tutelare in primo luogo gli interessi dei gruppi dominanti occidentali.

Con l’elezione di Trump alla Casa Bianca è venuta alla luce questa contraddizione, che non è senza relazione con il declino degli Usa come centro egemonico, a causa della nascita di altri centri di potenza i cui interessi sono differenti e in alcuni casi perfino opposti rispetto a quelli dei gruppi dominanti occidentali, a loro volta in lotta tra di loro per conquistare nuove posizioni di potere o semplicemente perché perseguono fini diversi.

Il programma di Trump quindi era chiaro: difendere gli interessi della classe media Usa, ridefinire i rapporti con i gruppi dominanti occidentali e cercare un compromesso con la Russia di modo da lasciare tempo e spazio agli Usa necessari per ristrutturare il quadro dell’economia mondiale su basi nuove e più favorevoli alla società americana nel suo complesso.

Ma imperialismo Usa e multipolarismo non sono affatto facili da conciliare, tanto più che rinunciare al primo significherebbe per gli Usa, che dipendono orami pressoché totalmente dal Warfare State, andare incontro ad un declino di potenza incontrollabile e inaccettabile.

Si tratta ovviamente di un problema che va ben oltre la persona di Trump, che peraltro si è rivelato anche sotto questo profilo tutt’altro che deciso e capace tanto che il deep State è riuscito a mettere nel governo Usa due falchi come Pompeo e Bolton – certo avvantaggiato dallo stesso Trump che, del resto, ha sempre appoggiato la politica di Israele e dei sauditi contro l’Iran, non diversamente dai falchi neocon.

Questo groviglio di contraddizioni è reso ancor più ingarbugliato dalla mancanza di una strategia Usa chiara e definita, il che ha portato gli Usa a perdere l’iniziativa in una zona chiave come il Medio Oriente, in cui l’America adesso non solo rischia di perdere un alleato prezioso come la Turchia ma, per non essere declassata ad attore geopolitico di secondo piano, rischia, per così dire, di “andare a rimorchio” dalla politica israeliana e saudita. Insomma gli Usa si sono cacciati in un vicolo cieco.

Quel che davvero conta allora non è se Trump sia o no un falco o se sia più o meno capace (certo non è un’aquila….), ma come i vertici degli Usa intendono confrontarsi con la questione del multipolarismo. Una questione che fino adesso di fatto gli Usa non hanno affrontato, perché in sostanza non sono affatto disposti né sono pronti a confrontarsi su un piano di parità con altri attori geopolitici, in primis la Russia.

SULLA VIA DI DAMASCO O IL REVIVAL DEI DE FILIPPO?, di Antonio de Martini

Pubblichiamo una breve ed efficace puntualizzazione di Antonio de Martini sulla situazione in Siria. Nel frattempo:

  • in Italia l’aspetto che colpisce del nostro ceto politico è il silenzio. Probabilmente si aspetta qualche iniziativa un po’ più energica dei nostri alleati, in particolare Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, nei confronti dell’Italia prima di accodarsi nell’ennesima impresa contraria all’interesse del paese. Sino ad ora solo Salvini, tra i leader, ha osato mettere in dubbio la veridicità delle versioni ufficiali riguardanti il caso Skripal e l’attacco chimico a Goutha e contestato l’eventuale azione di rappresaglia. Alcuni esponenti di Forza Italia, a loro volta, hanno dato man forte. Per il resto, il M5S si è limitato ad una interrogazione parlamentare equidistante tra i contendenti in Siria. Un atteggiamento di neutralità che in realtà conferma il progressivo scivolamento verso l’atlantismo più remissivo. Tutt’attorno un assordante silenzio corroborato da complicità e connivenza
  • alla Casa Bianca, nello staff del Presidente, il confronto è aperto e duro. Al NSC (National Security Council), il Consiglio di Sicurezza che assiste il Presidente nelle sue decisioni, ci sono due posizioni contrapposte. Gli oltranzisti Bolton e Dunford cercano di organizzare la cordata dei sostenitori di un intervento massiccio. Mattis e Pompeo, due nomi pesanti, sono contrari adducendo ragioni geopolitiche e di incertezza riguardo l’esito militare. Kelly è in posizione di attesa. L’altra metà del gruppo attende lumi prima di prendere posizione. La decisione spetta comunque a Trump. La sua famiglia, in particolare il primogenito, questa volta sembra propendere per il non intervento. Lo zoccolo duro dell’elettorato di Trump è apertamente contrario all’intervento. Con il senno di poi si comprendono meglio le ragioni dell’estromissione di Flynn, lo scorso anno. La vittoria della fazione sarà sancita dal dosaggio di un intervento ormai inevitabile. La dinamica è stata spinta troppo in avanti.
  • in Europa Macron ha assunto il ruolo della mosca cocchiera. Probabile che sull’onda dell’entusiasmo inneschi l’attacco e rimanga alla fine solo a sostenere l’onere e la responsabilità politica dell’atto proditorio. La Germania si tira fuori dall’intervento, ma manda una nave militare, probabilmente attrezzata alle intercettazioni, nel teatro di guerra. Esattamente come nell’intervento in Libia. La Gran Bretagna agisce tra le quinte, organizza e sostiene gli “elmetti bianchi” responsabili della campagna di disinformazione e di provocazione in Siria, ma non si espone platealmente. Theresa May, già in bilico, su un’avventura del genere rischia grosso, anche personalmente.
  • Curioso che il presunto attacco chimico a Damasco sia stato immediatamente preceduto da un pellegrinaggio del Delfino saudita nelle capitali europee. La prospettiva di un accordo tra Russia, Turcia e Iran sui destini della Siria balenata nella recente conferenza stampa e il successivo annuncio di Trump della partenza delle truppe americane dal teatro siriano, prontamente contraddetto dagli eventi successivi, deve aver sconvolto le menti e le aspettative di Netanyau in Israele e soprattutto dei principi sauditi. Lo scontro tra diverse impostazioni di politica estera continua ad attraversare gli schieramenti specie del mondo occidentale. La Cina intanto cosa farà? Dal suo posizionamento dipenderanno tante cose _Giuseppe Germinario

SULLA VIA DI DAMASCO O IL REVIVAL DEI DE FILIPPO?

Se telefonate a Damasco a un amico, questo vi dirà che in città è un via vai di Russi e mezzi contraerei.

Al largo della base navale siro-russa di Tartous incrociano – e si incrociano – navi e aerei di numerose nazionalità, inclusi i tedeschi.

Il mondo dei media è attraversato da fremiti di guerra e fiumi di soldi per dimostrare che il pericolo di guerra è concreto.

Gli iraniani sono i principali destinatari di queste sceneggiate napoletane ( ” tenetemi che l’ammazzo”) alla De Filippo.

Trump – questo nuovo Peppino col toupet – sceneggia su Twitter ignaro che queste tecniche intimidatorie siano state inventate dall’impero persiano tremila anni fa a beneficio dei greci.

Il vero pericolo di guerra è costituito dalla inesperienza e inadeguatezza intellettuale e morale della squadra dirigente USA che volteggia attorno a un bullo che crede di giocare allo sceriffo.

Qualche solerte satellite potrebbe sparare un colpo per compiacerlo. Vanno bloccati gli “automatismi da alleanza” .

Questo crescendo di sceneggiate, nato per rafforzare Israele, punto irrinunciabile della strategia occidentale, in realtà lo fragilizzerà, al punto da metterne in forse l’esistenza stessa.

Sei ex capi del Mossad fecero, qualche anno fa, una pubblica dichiarazione che serviva una soluzione politica al problema palestinese e che non esisteva una soluzione militare.

Si spinsero fino a farsi intervistare nel film israeliano ” The Gatekeepers” avvertendo che una guerra contro l’intero Medio Oriente non poteva comunque essere vinta.

Netanyahu asseconda la spinta bellicista perché vuole distrarre dalle accuse di ruberie sulle forniture militari.

Erdogan e Putin per rafforzare i rispettivi consensi popolari e impedire alle opposizioni di casa di distinguersi fino a che esiste una crisi internazionale che richiede coesione.

Trump perché teme l’isolamento politico e militare degli USA che si verificherà non appena la tensione internazionale diminuirà.

È la Batracomiomachia di Omero buonanima.

PARASSITARIO O PREDATORIO?, di Teodoro Klitsche de la Grange

PARASSITARIO O PREDATORIO?

  1. Come è noto gli studiosi (italiani) di Scienza delle finanze sono soliti distinguere gli assetti di potere (sotto il profilo economico-finanziario) coercitivi in: tutoriali, quando le scelte dei governanti sono orientate alla salvaguardia dell’interesse di tutti; parassitari (i più sono sottomessi e sfruttati al fine di trovare durevole vantaggio a favore di ceti ed interessi preferiti dalla élite dirigente); predatori (dove prevale l’interesse delle classi dominanti ad aumentare il proprio utile “a breve periodo”). Gli assetti suddetti non sono definiti in maniera univoca, né i criteri sono i medesimi per tutti gli studiosi che se ne sono occupati[1].

La distinzione, vicina (e in parte lo comprende) – al giudizio di Max Weber per la quale l’uomo politico vive, in qualche misura, anche di politica (e non solo per la politica), non è spesso agevolmente applicabile al concreto perché in diversa misura ogni organizzazione, anche la più tutoriale ed efficiente – ha dei costi (compresi quelli del vertice direttivo), come li hanno le altre. Onde spesso la distinzione si fonda su elementi quantitativi più che qualitativi.

Per cui la “soglia” tra l’uno e l’altro assetto è determinata (per lo più) dal quantum idoneo a distinguerli; ma non è solo questione – anche se è l’aspetto più importante – di percentuale di ricchezza prelevata (o estorta) ai governati, ma anche – ad esempio – dell’uso della forza, del provvedimento in luogo del contratto e così via.

  1. A quasi nove anni dall’inizio della crisi economica e delle vicende, in particolare italiane, che ne sono conseguite, è da chiedersi quanto le trasformazioni intervenute nell’assetto dei rapporti economici tra classe dirigente e cittadini siano riconducibili (nel risultato) ad una delle tre specie identificate.

All’uopo è meglio ricordare – tra i tanti dati disponibili (più o meno affidabili) che: quanto al PIL questo, tra il 2000 e il 2016 è cresciuto meno di un punto percentuale (dato ISTAT settembre 2017); invece l’aumento della pressione fiscale rispetto al PIL è stato il secondo più alto d’Europa, ossia +3,2%, più del doppio della zona euro (+ 1,5%) e più del triplo della Ue a 28 paesi (1%)[2]; nel periodo 2008-2017 l’aumento è stato dell’1,3%[3].

Peraltro i dati vanno compresi (e l’effetto spesso è peggiore): ad esempio l’IVA è aumentata (durante il periodo della crisi) di due punti percentuali (dal 20% al 22%). Il gettito in termini reali è lievemente calato, ma solo perché la crisi ha ristretto la base imponibile per cui, onde ottenere un gettito più o meno pari, il governo è stato costretto ad aumentare del 2% l’aliquota (dal 20 al 22%). E così si potrebbe andare avanti citando fonti ufficiali (credibili fino ad un certo punto) e non ufficiali (meno credibili?).

Da questi (e altri) dati possono farsi due considerazioni generali. La prima è che la crisi economica ha decurtato il reddito di tutti i cittadini; la seconda, che, invece, non ha inciso (o molto meno) sulle élite dirigenti e su coloro che vivono del bilancio pubblico: il costante aumento del prelievo fiscale – malgrado la contrazione della base imponibile – lo prova. Il reddito calante (per i governati) si è sommato al prelievo crescente.

Qualcuno potrebbe sostenere, a seguire Gaetano Mosca, che la ragione di ciò è “la naturale tendenza, che hanno coloro che stanno a capo della gerarchia sociale ad abusare dei loro poteri”. Ovviamente a beneficio proprio e dei propri protetti/seguaci (e protettori). Ma è da chiedersi, fino a quando? L’equilibrio tra costi e benefici delle organizzazioni delle comunità non è mai pari: l’importante, per mantenerlo, è che non sia troppo distante dalla parità.

Quando nell’impero romano si ruppe – Settimio Severo lo predicò sul letto di morte – quell’equilibrio (progressivamente peggiorando), avvenne che i sudditi dell’impero scappavano dalle zone ancora amministrate dai funzionari imperiali verso quelle occupate dai barbari, le cui pretese erano assai più “miti” di quelle degli esattori romani[4].

Anche nell’Italia contemporanea abbiamo almeno due “classi” di cittadini italiani che scappano (in massa, come i romani): coloro che cercano (e trovano) lavoro all’estero (nel 2016 oltre centomila) prevalentemente giovani; e i pensionati che si trasferiscono in paesi (anche europei come il Portogallo) dove la vita è meno costosa e il fisco meno rapace (per i quali, a leggere i giornali, il fisco sta studiando come tosarli meglio).

  1. Ciò stante cerchiamo di dare una risposta all’interrogativo iniziale: a quale dei tre assetti corrisponde la situazione concreta dell’Italia?

Quello sicuramente da escludere è che si tratti di un assetto tutorio (il preferibile per i governati). La classe dirigente – e i suoi manutengoli mediatici – si affannano a sostenere che tra costi e benefici c’è equilibrio, anzi che i secondi (per i governati) fanno aggio sui primi, ma, a prescindere che un simile giudizio suscita generalmente un misto di rabbia e ilarità, resta il fatto che al calare dei secondi (v. pensioni, sanità, ecc. ecc.) corrisponde l’aumento dei primi (imposte, corrispettivi vari, svendite del debito pubblico). Per cui è insostenibile nei (e dai) fatti.

Meno agevole è ricondurre il tutto a uno degli altri due assetti.

Il cui discrimine è, secondo alcuni, la prospettiva di durata (lunga in quello parassitario, perciò meno oppressivo), e breve nel predatorio (consistente in vantaggi immediati a favore esclusivo dei governanti); secondo altri la regolamentazione/difesa giuridica, presente nel parassitario e assente o del tutto inconsistente nel predatorio (il cui caso-limite è il saccheggio di una città espugnata dal nemico), che richiama in certo modo la visione/concezione hobbesiana del bellum omnium cantra omnes. Altri criteri possono essere l’aumento e la prevalenza di strumenti d’amministrazione negoziali o autoritativi (contratto o provvedimento); paritari o non paritari e così via.

  1. Come cennato i criteri distintivi dell’assetto predatorio da quello parassitario sono prevalentemente ritenuti due: la prospettiva a “breve periodo” e l’assenza di difesa giuridica. Il “tipo ideale” di assetto predatorio è, come prima scritto, quello di una città o un territorio occupato e saccheggiato da un esercito nemico. Il quale non si aspetta né che il saccheggio continui indefinitamente ma neppure che vi sia alcuna pretesa giuridica che possa farsi valere contro il diritto del vincitore/occupatore a disporre senza limiti dei beni e delle vite dei vinti (che comprendeva nell’antichità sia lo jus vitae et necis, sia quello sulle persone, riducibili in schiavitù).

Ma questo è un tipo ideale, cui le situazioni concrete si possono accostare e (parzialmente) essere ricomprese, senza esservi incluse totalmente. Né l’un criterio né l’altro coincidono con i connotati peculiari dell’assetto parassitario in cui gli sfruttatori (per interesse proprio) non hanno alcun intento che lo sfruttamento s’esaurisca in breve durata. Come scriveva Pareto, il loro interesse è spennare l’oca senza troppo farla gridare. Se l’oca muore o perde tutte le penne diventa inutile: lo sfruttamento si esaurisce per carenza di sfruttabile. La stessa difesa giuridica è compatibile con l’assetto parassitario, non foss’altro perché consente una utilizzazione regolata, quindi (entro certi limiti) prevedibile e calcolabile, anche da parte degli sfruttati (che ne siano consapevoli o meno). Pertanto possono distinguere l’assetto parassitario dal predatorio.

Il dominio, di converso, di una banda di briganti non si distingue da quello di un potere legittimo soltanto perché non è ispirato alla giustizia, come scriveva S. Agostino, ma, ancor più, perché non è finalizzato alla durata (e alle condizioni e limiti che la permettono).

Non costituisce invece criterio distintivo il monopolio (o almeno l’impiego) della violenza (più o meno) “legittima” perché questo connota ogni tipo di Stato (Weber) e relativo assetto, compreso il preferibile assetto “tutorio”, in quanto ogni sintesi politica presuppone comunque la (possibilità di) trasgressione e quindi la necessità di reprimerla. Anche se, nell’assetto predatorio l’uso della violenza è sistematico, ciò che lo rende qualitativamente diverso è l’assenza di limiti giuridici (nel tipo ideale) e (almeno) la loro minimizzazione (nelle situazioni concrete). Piuttosto ciò che appare un’antinomia è che l’assetto predatorio (a parte il caso-limite dell’occupatio militare, soprattutto quando esercitata con mezzi barbarici), proprio perché riferito ad un assetto statale, si svolge in un contesto istituzionale (come gli altri due). Il quale, come scriveva Hauriou è per sua natura ispirato alla durata, essendo questo carattere (e funzione) peculiare dell’istituzione.

Ma, anche in un’istituzione politica la sospensione del diritto è ricorrente e prevista dall’ordinamento. Il Gouvernement de fait del giurista francese, il Massnamezustand di Schmitt[5], lo justitium romano[6] sono tutte situazioni concrete in cui la sospensione del diritto può consentire l’assetto predatorio e ancor più, l’esercizio di pratiche predatorie.

  1. Sotto il profilo quantitativo ciò che connota l’assetto predatorio rispetto al parassitario è il risultato complessivo. Anche qui nel secondo l’esigenza di durata dello sfruttamento ne presuppone una certa tollerabilità. E nessun fatto la rende tollerabile quanto il successo, in particolare sotto il profilo economico. Lo sfruttamento in un assetto parassitario può essere notevole, nel senso che le risorse della comunità destinate al sostentamento della classe dirigente, del di essa aiutantato[7] e delle clientele preferite costituiscano una percentuale rilevante e perfino maggioritaria di quelle prelevate, ma comunque essere tollerato se la comunità è in crescita economica. Ma non lo è se questa non c’è, o si riduce di guisa da far arretrare, in un mondo dove altri Stati crescono in misura superiore, le chances di vita e d’esistenza comunitaria e individuale. Proprio questo è quello che è accaduto all’Italia della c.d. “seconda Repubblica”. Se è vero che la c.d. “prima Repubblica” aveva, in particolare dagli anni ’60 in poi, accentuato il “modello distributivo” della ricchezza, rispetto al “modello produttivo” prevalente dal primo dopoguerra fino all’inizio degli anni ’60, ciò avveniva in un contesto in cui vi era sempre accrescimento della ricchezza, in misura – per lo più – superiore (nella peggiore delle ipotesi pari) a quello degli Stati più simili per caratteri politici, economici e culturali (e geografici).

Se invece andiamo a vedere le statistiche del PIL a partire da metà degli anni ’90 ad oggi l’andamento è il contrario. Limitando l’esame ad alcuni grandi Stati europei occidentali (i più simili, secondo il criterio appena ricordato) il risultato è il seguente (periodo 1995-2014)

Incremento PIL

Svezia 41,7%

Francia 20,7%

Germania 28,7%

Spagna 23,9%

Grecia 13,5%

Portogallo 19,1%

Italia 1,9%[8]

Anche altri dati concordano al medesimo (sconfortante) andamento: la pressione fiscale nel 1990 era pari al 38,2% del reddito nazionale, nel 2014 al 44,2%. In tutti gli anni dal 1992 al 2014 (e dopo) si è mantenuta al di sopra del 40%.

Tanto per fare un confronto con la prima Repubblica, nel 1980 la pressione fiscale era pari al 31,8% del reddito nazionale. In tutti gli anni fino al 1991 è stata inferiore al 40%, mediamente si aggirava intorno al 30% o poco più. Quindi tra “prima” e “seconda” repubblica l’aumento medio della pressione fiscale è cresciuto di circa il 40% (dal 30-32% al 42-44%). Negli anni ’51-63 (il boom economico) il PIL italiano crebbe da circa 14.000 miliardi di lire a 31.261 con incremento annuale medio del 5,9% (quello della Francia era il 4,4%); i consumi italiani quasi raddoppiati; gli investimenti triplicati[9]. È penoso confrontarli con i dati corrispondenti della seconda repubblica.

Anche se la “prima repubblica” è stata liquidata come se fosse stata l’agostiniano governo di una banda di briganti (latrocinium), bisogna prendere atto che ha prodotto molti più benefici e molti meno danni della seconda.

Risultati così deludenti, protratti per un lungo lasso di tempo (oltre vent’anni) possono costituire criterio di distinzione tra assetto predatorio e parassitario. In effetti mentre in quest’ultimo l’aumento dello sfruttamento si accompagna ad un aumento della ricchezza a disposizione dei governati, nel primo si riduce: prendendo come base i dati citati per l’Italia ad un aumento del reddito nazionale di 1,9% in vent’anni corrisponde un incremento della pressione fiscale di circa 6 punti percentuali[10].

Dato che l’aumento della ricchezza è stato dell’1,9% e la pressione fiscale del 6%, ne consegue che la ricchezza dei governati è diminuita di circa 4 punti di PIL. Se poi si considera che l’aumento medio dei paesi simili è stato di circa il 25%, si ha dimensione di un arretramento relativo (rispetto al resto dell’Europa e ancor più del mondo) assai peggiore con un pesante effetto sia sulle aspettative dei cittadini che sulle pretese della comunità nazionale, come confermato da vicende non solo nazionali, né esclusivamente economiche.

Nella realtà attuale è dubbio se in cuor loro, i governanti non si interroghino sulla durata di un sistema che ha tenuto l’Italia in recessione (o stasi) economica, ferma per un periodo ventennale, ma con un carico fiscale crescente.

A continuare così la fine – nel lungo periodo – è sicura. Per cui a seguire tale criterio saremmo transitati (da vent’anni) dal “parassitario” al “predatorio”.

  1. Ma del pari anche la difesa giuridica, sulla carta garantita dalla Costituzione e dalla legislazione meno recente si è ridotta e va riducendosi ancora di più. Certo una difesa giuridica c’è, ma sempre più difficile, inefficace e costosa. Norme sostanziali e processuali sono state emanate per attenuarla; quelle a favore dei governati sono disapplicate o poco applicate da una burocrazia che, come scriveva Marx, tende a confondere l’interesse pubblico col proprio interesse di casta; le prestazioni dello Stato (i pagamenti ai creditori soprattutto) sono sottoposti a intralci, sospensioni, rinvii ex lege di ogni tipo, mentre quelli degli apparati pubblici se non facilitati, almeno sono esonerati dai vincoli imposti ai privati[11].
  2. Alla configurazione dell’assetto predatorio hanno concorso e concorrono altre circostanze. In primo luogo l’estensione dei poteri pubblici. È inutile ripetere tutte le argomentazioni portate in tal senso, perché è evidente l’aumento dei compiti, del personale e delle funzioni pubbliche nel c.d. Welfare State. Ciò sposta il limite tra pubblico e privato (a favore del primo e a detrimento del secondo). Come scriveva Gaetano Mosca, l’efficacia della difesa giuridica dei governati è legata a condizioni fattuali – prima che normative – tra le quali la diffusione della ricchezza e soprattutto la non concentrazione della “direzione della produzione economica, la distribuzione di essa ed il potere politico” nelle stesse persone[12]

Anche se la concentrazione di potere economico e politico ha come caso estremo il comunismo del XX secolo (e i precedenti storici, anche se non così conseguenziali, nelle “società idrauliche” studiate da Wittfogel), uno Stato che preleva il 50% del reddito nazionale ha un potere e una capacità di clientelizzazione della società superiore a un altro che ne preleva il 20%. Ancor più se, con mezzi diretti o indiretti cerca di rendere più difficoltoso e al limite inutile l’esercizio di pretese giuridiche contro gli apparati pubblici, riducendo gli ambiti di libertà, già quantitativamente ridimensionati dall’incremento dei compiti pubblici.

Il secondo elemento qualitativo che aumenta il potere pubblico è che questo è indissolubilmente legato all’esercizio di potestà coercitive. Ad adottare la terminologia di Miglio, se si estende l’ambito dell’obbligazione politica, in pari misura si contrae quella dell’obbligazione-contratto. Malgrado la diffusione in Italia di “contrattualizzazioni” di funzioni e servizi pubblici, con l’adozione di strumenti privatistici in settori della pubblica amministrazione, resta il fatto che la decisione su cosa debba essere pubblico e, soprattutto, su come approvvigionare le risorse per compiti “contrattualizzati” (a tacer d’altro) sono decisioni pubbliche, imposte autoritativamente e così riconducibili al rapporto di comando/obbedienza (presupposto del politico). Per ridurre un’obbligazione politica ad obbligazione-contratto occorre rimetterne costituzione, modificazione, estinzione alla volontà paritaria dei “contraenti”; quando le funzioni contrattualizzate, “privatizzate” (e così via) saranno finanziate con collette, (o con rendite patrimoniali pubbliche) e non con le tasse, solo allora non vi sarà più obbligazione politica (e relativamente a queste).

Il che a ben vedere, è estremamente difficile, in uno Stato moderno in cui comunque l’aumento di compiti e funzioni rispetto alle meno voraci sintesi politiche del medioevo è enorme, anche senza arrivare allo Stato “totale” del XX secolo.

  1. Piuttosto, al fine di ridurre l’appropriazione politica – e con ciò la possibilità di predazione – occorre riflettere su un dato ovvio.

Quasi tutti i manuali di diritto pubblico iniziano indicando come criterio distintivo di quello dal diritto privato, la posizione di non eguaglianza tra le parti, diversamente dal diritto privato dove sono in posizione di parità.

Un acuto giurista come Hauriou riconduceva i due diritti (e le due giustizie che ne derivano, almeno nel diritto continentale) a due aspetti dell’esistenza e della natura umana: il primo, al diritto dell’istituzione, ovvero alla regolarità per cui l’uomo è zoon politikon e “appartiene” ad un gruppo politico e sociale (droit disciplinaire)[13].

Tale diritto e la relativa giustizia (Themis) è connotato dall’ineguaglianza tra i soggetti governanti e governati. L’altro, fondato sulla naturale socievolezza umana, è basato sull’eguaglianza tra soggetti e genera una giustizia paritaria (dike)[14].

A conferma del carattere decisivo dell’eguaglianza o meno, se si va ad analizzare le modificazioni normative (alcune prima citate in nota 10) che portano alla “provvedimentalizzazione” ed alla “gerarchizzazione” dell’ordinamento, queste sono tutte volte ad accentuare il carattere non egualitario delle parti nelle obbligazioni relative.

La non-eguaglianza (tra parti pubbliche e private) nel diritto pubblico non si limita al carattere principale del costituire precetti validi in base a decisioni unilaterali – mentre nel diritto comune sono di norma, contrattate e bilaterali – ma, perfino in rapporti teoricamente egualitari, nell’assicurare privilegi o deroghe a favore della parte pubblica e a detrimento di quelle private. Il caso più diffuso e ricorrente sono le sanzioni tributarie: il contribuente che ritarda od omette il pagamento delle imposte è soggetto a sanzioni, sovrattasse, indennità di mora: l’ufficio che non rimborsa o ritarda il rimborso d’imposte indebitamente o erroneamente percette, no (al massimo rischia – ma è azione giudiziaria difficile) di pagare dei danni. Danni che, a differenza delle sanzioni tributarie, il cui presupposto è il mancato o ritardato adempimento, vanno provati (non basta cioè aver commesso il fatto illecito, occorre dimostrare che abbia depauperato il patrimonio del creditore). In altri settori leggi, come la c.d. Legge-Pinto (con le modificazioni apportatevi nel 2012) sanzionano il cittadino che abbia proposto un’azione giudiziaria infondata contro lo Stato: ma nessuna norma sanziona specificamente gli uffici statali se perdono la relativa vertenza. Altre leggi prescrivono sanzioni spropositate: ad esempio nelle imposte di bollo e registro la sanzione va fino al triplo dell’imposta di registro e fino al decuplo per quella di bollo (v. D.P.R. 634/72 e 642/72). Ma se succede il contrario i pubblici poteri possono contare sulla sollecitudine amorevole del legislatore: se questi commettono illeciti, l’esborso dell’erario non è pari al danno provocato, ma ad una frazione del medesimo[15].

Quindi se non del tutto predatorio, l’attuale situazione vi s’incammina ed è a buon tratto.

Quali rimedi? Ve ne sono tanti. Ma due vogliamo ricordarne. Il primo del tutto economicistico, che indicava Maffeo Pantaleoni “Quando si dimostra che l’impiego della forza nella spogliazione predatoria o parassitaria può essere così costoso da rendere più utile il contratto … che rimarrà della superiorità di forze, quando il suo esercizio sarà sottoposto alla condizione di comportare un tale costo da rendere ogni altro sistema più remunerativo? Il costo, che è connesso con l’esercizio di mezzi violenti di aggressione o di dominazione, va, evidentemente, messo tra i mezzi di difesa del gruppo più debole, e può renderlo altrettanto forte quanto il gruppo che sarebbe più potente, nell’ipotesi in cui l’impiego della sua forza costasse meno, o nulla”.

Similmente ragionava Puviani (all’inverso, per il rapporto tributario) parlando di spinta e controspinta contributiva a seconda che la soddisfazione data dal pagamento dell’imposta fosse superiore o meno al vantaggio atteso dal contribuente[16].

In modo analogo occorre che la spinta appropriativa dei poteri pubblici venga compensata da una controspinta ottenuta con sistemi sia giuridici che politici. L’altro è ridurre l’ambito delle disuguaglianze nel diritto, facendo operare, per quanto possibile, le parti su un piede di parità. Incrementare così l’ambito del droit commun (dike) a spese del droit disciplinaire (thémis). Il che non significa “contrattualizzare”, costituire “agenzie” e altri espedienti con cui si cerca spesso solo di mettere in maschera la non parità tra soggetti pubblici e privati.

Ad essere più precisi le distinzioni tra diritto pubblico e privato sono varie, come sa qualsiasi studente di giurisprudenza, e spesso complementari. Quella relativa alla non parità delle parti è tra le più frequentate: va da Hegel ai siti presenti su internet. Spesso è definitita (dal lato attivo) potestà d’impero (Balladore Palieri, Ranelletti), attributo necessario dello Stato[17].

Il che significa di far costare di più l’esercizio del potere (impositivo, in particolare) eliminandone o riducendone i privilegi. E rammentando che il costo per i governanti non è solo economico: mandarli a casa e sostituirli con un’altra classe dirigente, significa sottrargli le pecore che mungono.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

[1] Le definizioni e criteri indicati nel testo li sintetizzano, scontando una “percentuale” d’approssimazione. S’indicano comunque alcuni degli autori che se ne sono occupati: M. Pantaleoni Tentativo di analisi del concetto di forte e debole in economia, Firenze 1904; C. Cosciani Istituzioni di Scienza delle Finanze, 1953, p. I, cap. I; F. Forte Manuale di scienza delle finanze, Milano 2007, p. 32 ss., in internet v. G. Dallera La scuola italiana di scienza delle finanze; P. Vagliasindi Questioni generali di finanza pubblica.

[2] Fonte Adnkronos “rapporto Taxation Trends in the European Union 21017 della Commissione europea”.

[3] Fonte Sole 24 Ore.

[4] V. Salviano di Marsiglia De Gubernatione Dei, V, 5, 22. V. anche gli storici citati da S. Mazzarino ne La fine del mondo antico, Milano 1988, da Orosio a Prisco.

[5] E ancor più la “Dittatura sovrana”, v. Carl Schmitt Die Diktatur trad. it. di A. Caracciolo p. 165 ss, Roma 2006.

[6] V. Giorgio Agamben Stato d’eccezione, Torino, 2003.

[7] Si impiega il termine usato da Miglio per definire l’apparato di collaborazione all’esercizio del comando del vertice politico v. G. Miglio Lezioni di politica, Vol. II, Bologna 2011, pp. 362 ss.

[8] Fonte: Termometro politico

[9] Fonte Treccani: Il miracolo economico italiano di A. Villa.

[10] Occorre precisare che per gli anni ’92-’94 il considerevole aumento della pressione fiscale è stato dovuto, in larga parte, alle misure del governo Amato, di “transizione” tra repubbliche, per cui a voler attribuire alla fase precedente l’aumento relativo, la pressione fiscale è aumentata di soli 2 punti. Ma una simile interpretazione, a parte il dubbio, toglie poco al giudizio complessivo.

[11] Ricordiamo alcuni degli interventi legislativi e delle prassi benevole verso gli apparati pubblici e proprio per questo lesive della parità tra cittadini e apparati pubblici, ricordando che sono solo una parte di quanto disposto nello stesso senso. Con l’art. 11 della legge 19 marzo 1993, n. 68 concernente “disposizioni urgenti in materia di finanza derivata e di contabilità pubblica”, si integrava l’art. 24 della L. 720/84 del comma 4 bis. In particolare si precisava che non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento presso soggetti diversi dal Tesoriere dell’Ente. Con una norma siffatta il sistema per non pagare il creditore è semplice: basta far andare in “rosso” il conto presso il Tesoriere e dirottare su altre disponibilità le liquidità dell’Ente. La limitazione del soggetto “terzo pignorato”, ha, di fatto, come conseguenza di rendere impignorabili le somme liquide e disponibili. Ma i trucchi non finiscono qui. L’art. 1 del D.L. 8/1/93 n. 9, convertito con L. 18/3/93 n. 67, dispone: “le somme dovute a qualsiasi titolo dalle unità sanitarie locali e dagli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico non sono sottoposte ad esecuzione forzata  nei limiti degli importi corrispondenti agli stipendi e alle competenze comunque spettanti al personale dipendente o convenzionato, nonché nella misura dei fondi a destinazione vincolata essenziali ai fini dell’irrogazione dei servizi sanitari”; ma anche tale norma pareva non bastare. Con l’art. 113 del D.L. 25/2/95 n. 77, si disponeva nuovamente: “1) Non sono ammesse procedure di esecuzione e di espropriazione forzata nei confronti degli enti locali di cui all’art. 1, comma 2, presso soggetti diversi dai rispettivi tesorieri. Gli atti esecutivi eventualmente intrapresi non determinano vincoli sui beni oggetto della procedura espropriativa …” Ciò che accomuna tutti questi espedienti, che hanno contribuito ad “abbattere i flussi di cassa”, è di aver agito sui diritti (processuali) dei creditori e sui poteri (processuali) del Giudice vanificando con limitazioni varie i diritti (sostanziali) delle parti. La Corte costituzionale con sprazzi di tutela ha annullato ogni tanto norme come quelle citate (v. sent. 29/6/95 n. 285; Corte Cost., 26-03-2010 n. 123; Corte cost., 29-06-1995, n. 285;); ma altri precetti simili alle disposizioni annullate sono state emanate prontamente. Il tutto era (ed è) aggravato da atti amministrativi (anche a contenuto normativo) quindi emanati dal complesso governo/amministrazione (come il D.M. 1/9/98 n. 352, annullato dal Consiglio di Stato), che limitano ulteriormente i diritti di categorie di creditori. Oltretutto negli ultimi dieci anni è invalsa la prassi che, nelle liti tra Pubbliche amministrazioni e parti private, se soccombono le prime, molto raramente si vedono accollate le spese di giudizio, dovute per legge (possono essere motivatamente ed eccezionalmente compensate, ma nei fatti, lo sono quasi sempre, sicchè l’eccezione è divenuta regola); mentre se a soccombere sono i cittadini quasi sempre sono condannati al pagamento delle stesse. Inoltre in una situazione in cui il principale debitore è lo Stato italiano (il debito pubblico è pari ad oltre il 130% del prodotto interno lordo) non solo s’intralcia con leggi ad hoc il pagamento dei debiti ma si agevola lo Stato debitore fissando (con decreto ministeriale) tassi d’interesse praticamente inesistenti (attualmente è lo 0,10%), incentivando così il mantenimento dell’ (abnorme) debito pubblico a costo (praticamente) zero relativamente a certe classi di creditori (cui è imposto il tasso), ma praticando tassi più vantaggiosi per altre classi che prestano a condizioni di mercato (soprattutto banche, fondi d’investimento, assicurazioni). Combinando saggi d’interesse inesistenti con la moltiplicazione d’intralci alla realizzazione dei crediti (e con l’abituale lentezza della giustizia italiana) dei crediti si ha una moratoria (a tempo indeterminato) dei debiti pubblici verso alcune classi di creditori (quasi tutte). Il tutto presuppone l’esercizio del potere coercitivo: al creditore sgradito che non si vuole soddisfare si applicano disposizioni di legge, regolamentari, atti amministrativi, circolari. A quello  favorito si paga subito e con interessi di mercato.

È ricorrente poi il divieto di compensazione tra crediti e debiti della P.P.A.A. verso i privati. Qualche anno orsono un Presidente del consiglio si proclamava sdegnato verso le proposte di estendere la compensazione tra debiti e crediti verso lo Stato.

Tanto sdegno, invece che verso qualche uomo o partito politico, avrebbe dovuto essere indirizzato verso Giustiniano, il quale con una propria costituzione del 531 d.C., l’aveva resa di portata generale “compensatio ex omnibus actionibus ipso jure fieri sancimus …” (C, IIII,31,14) per cui (al più tardi) da quasi quindici secoli è diritto comune.

Un principio elementare, ispirato a razionalità e giustizia, fondato sulla parità delle parti ed assai ostico a sopportare da un apparato pubblico che si mantiene grazie ai denari dei governati.

Dato lo squilibrio tra creditori e debitore realizzato normalmente (per lo più) con eccezione, deroghe al diritto e il vantaggio che procura alla classe dirigente questa non ha alcun interesse a contenere il debito pubblico, perché mentre con i creditori sfavoriti ci si muove con poteri pubblicistici, cioè non paritari (comandi) con gli altri, preferiti, si negozia nell’ambito del diritto privato (contratti).

[12] V. Elementi di Scienza politica, lib. I°, cap. V, Torino 1923, p.131

[13] Si noti che Hauriou dall’ appartenenza ad un’istituzione notava che esiste anche un droit statutaire, concernente posizioni, facoltà e pretese degli appartenenti al gruppo.

[14] Come scriveva il giurista francese il primo era diritto interno all’istituzione (infraistituzionale), il secondo era tra gruppi sociali (e relative istituzioni) quindi intergroupale, V. Précis de droit constitutionnel, Paris 1929 pp. 88 e 98

[15] Ad esempio l’art. 3 L. 662/93 dispone che nel caso di occupazioni illegittime di terreni, l’importo del risarcimento è aumentato del 10% (del valore del bene sottratto). Il quale, essendo l’indennizzo pari al 50% del valore, significa che anche a commettere l’illecito i poteri pubblici ci guadagnano, pagando sempre una frazione anche se lievemente maggiorata, del valore del bene incentivo a violare la legge col minimo rischio. Ovviamente – secondo i principi generali – il cittadino per tutelare i propri diritti deve agire in giudizio, sobbarcandosi le spese dell’avvocato e quelle imposte dallo Stato (enormemente aumentate dalla fine del secolo scorso) e, ancor più, attendendo i tempi lunghissimi della giustizia italiana, mentre i pubblici uffici, fabbricano in ufficio i provvedimenti d’accertamento delle violazioni e di innovazione delle sanzioni senza l’incomodo di dover cambiare scrivania. Provvedimenti peraltro esecutori anche se impugnati nel (breve) termine previsto della legislazione, mentre gli “analoghi” chiesti dai privati lo sono solo se il Giudice li dichiari tali. Tutto è orientato a rapidità e prontezza, se i poteri pubblici sono parte attiva; a complessità e lentezza, nelle situazioni inverse.

[16] V. L’illusione finanziaria, Milano, rist. 1976, pp. 7-8.

[17] Si riportano alcuni passi di Balladore Palieri sul punto “ quando si parla della potestà d’impero come di uno degli elementi essenziali dello Stato, si intende dire che l’ordinamento giuridico, affinchè gli spetti la qualifica di statale, deve prevedere e porre delle autorità che esercitino un imperium. Se non possiede anche questo carattere, oltre a quelli innanzi ricordati, l’ordinamento in questione, qualunque altra cosa sia, non è un ordinamento statale … L’ordinamento giuridico cioè deve istituire un apposito apparato onde realizzare le finalità per le quali è stato creato, e questo apparato deve essere provvisto di autorità, di impero sui consociati. È questa una conseguenza della stessa struttura dell’ordinamento” V. Dottrina dello Stato, Padova 1958, p. 250-251

 

LA TARDA ORA DELLA REPUBBLICA DEGLI STATI UNITI d’AMERICA, di Gianfranco Campa

L’ORA TARDA-L’ULTIMA DELLA REPUBBLICA

Non voglio apparire eccessivamente pessimista. Quelle che stiamo vivendo però sono ore e giorni infidi e drammatici: Alle 20:00 di oggi, 9 Aprile 2018, ora della costa del pacifico, le notizie che arrivano dagli Stati Uniti sono preoccupanti. Probabilmente nel momento in cui questo articolo sarà messo sul sito sapremo già se il Pentagono ha attaccato la Siria oppure no. Fonti militari suggeriscono che un’operazione in larga scala contro Assad è entrata ormai nella fase finale. Si aspetta solo l’ok del Presidente Americano. Speriamo nel buon senso di Donald Trump.

La trappola dello stato ombra orchestrata contro Donald Trump è ormai pianificata e operativa.

I dirigenti politici, sia essi Repubblicani o Democratici, tutte le agenzie di intelligence, tutte le agenzie di stampa, tutte le organizzazioni di Think Tanks si levano all’unisono nel grido di guerra contro la Siria e il demonio Assad. Il presunto attacco chimico perpetrato dal Presidente Siriano arriva ad una settimana esatta dall’annuncio di Trump di voler ritirare il suo esercito dalla Siria, ritenendo il pericolo ISIS ormai neutralizzato. Il nuovo attacco chimico arriva ad un anno esatto dall’ultimo presunto attacco di Assad che portò Trump a lanciare i missili Tomahawk contro la Siria. La guerra delle fogne di Washington, dello stato ombra, contro Trump ha improvvisamente acquisito un rinnovato senso di urgenza e drammaticità. La settimana scorsa, tutti i sondaggi delle maggiori agenzie attribuivano per la prima volta a Trump oltre il 50% di approvazione contro il 48% di Obama nel periodo equivalente. In altre parole, il 45% di approvazione per un presidente comporta la certezza matematica di essere rieletto in un secondo mandato. Questo ha scatenato lo stato ombra.

Non sono nato ieri. La trappola piazzata sull’impervio sentiero di Trump è per me decifrabile e chiara; un attacco chimico in Siria forzerà la sua mano mettendolo in rotta di collisione con la Russia. Se Trump dovesse intervenire militarmente, perderebbe il sostegno dello zoccolo più duro del suo elettorato; lo accuseranno di essere diventato un neocon. Se non dovesse intervenire sarà considerato debole e incapace dal resto del popolo. Gli Americani, come del resto tutti i popoli occidentali, hanno la memoria corta e gli orrori della guerra in Iraq sono solo un pallido ricordo. Bolton già sbava dall’eccitazione di ritrovarsi a sussurrare all’orecchio di Donald: “missili-missili, attacca-attacca, guerra-guerra..”. Se Trump dovesse attaccare senza approvazione del Senato sarà certamente impeachment per the Donald. Se non dovesse farlo, diventerebbe un incompetente e quindi meritorio sempre di impeachment.

Il caso Skripal è stato solo il preambolo: E’ notizia fresca di oggi che il procuratore speciale Robert Muller e il deputato procuratore generale Rod Rosenstein, hanno autorizzato l’FBI a fare irruzione nell’ufficio di uno degli avvocati del presidente, Michael Cohen, a New York, con un mandato di perquisizione firmato da un giudice per impossessarsi di tutta la documentazione sui rapporti tra il Presidente e il suo avvocato; la perquisizione e il sequestro dei documenti sono avvenuti poche ore prima di scrivere questo articolo e a tre giorni dallo strano incendio in uno degli appartamenti della Trump Tower. La motivazione non risalirebbe al Russiagate, bensì alla violazione delle regole elettorali. Nel momento in cui Cohen ha versato soldi alla porno attrice Stormy Daniels per assicurarsi il silenzio mediatico, Trump avrebbe infranto la legge sui finanziamenti delle campagne elettorali. Poco importa se le vicende fra Trump e Daniels risalgono al 2007; poco conta se questo presunto contratto, accordo, firmato da Daniels risale al 2015, cioè prima ancora che Trump annunciasse il lancio della sua campagna presidenziale. Il nostro cacciatore fasullo Muller è passato inopinatamente dalle indagini sul Russiagate alle quelle sul Pornogate. Inoltre ciò che Muller e l’FBI hanno fatto oggi con l’irruzione nell’ufficio dell’avvocato di Trump è stato rimuovere il diritto di tutti i cittadini americani di consultare privatamente un avvocato. D’ora in poi tutto ciò che racconti al tuo avvocato non è più considerato privato. La sacrosanta privacy del rapporto avvocato-cliente, tutelata dalla costituzione americana e stata calpestata dal nostro eroico cacciatore fasullo Robert Muller. 

Complimenti davvero allo stato ombra! Non c’è che dire, la fantasia non manca loro senza alcun dubbio. Dovesse Donald Trump decidere di licenziare Mueller la sua Presidenza potrà considerarsi finita; non dovesse farlo la sua Presidenza può considerarsi finita lo stesso.

A Trump sono rimaste solo pochissime carte da giocarsi.

Potessi, gli consiglierei due mosse importanti che potrebbero ribaltare la situazione a suo favore. Preferisco per istinto di sopravvivenza tenerle per me. Speriamo che qualcun altro abbia la possibilità di suggerire a Trump le giuste mosse. Ci spero, ma ne dubito…

Nel frattempo ormai si è capito che Trump è letteralmente circondato su tutti i fronti e non ha le capacità gestionali nè tattiche di resistere alla pressione dello stato ombra.

Saremo noi a pagarne il prezzo con una nuova guerra che si sta affacciando all’orizzonte.

Come diceva Grima Vermilinguo, nel signore degli Anelli: : “Tarda è l’ora in cui questo stregone decide di apparire” Anche se, in questo caso, sono molti gli Stregoni che sono apparsi nell’ora tarda di questa morente repubblica americana.

IL BUON LAVORO, IL BUON SINDACATO_ di Giuseppe Germinario

Il 30 e 31 gennaio scorso la CGIL ha organizzato una conferenza di programma, il “BUON LAVORO”, sul tema delle implicazioni dei processi di digitalizzazione ed informatizzazione sull’organizzazione del lavoro delle imprese, sul mercato del lavoro, sulla contrattazione e sull’organizzazione sociale delle comunità.

Una iniziativa quanto mai necessaria nel mondo sindacale ma dal carattere ancora drammaticamente estemporaneo. Arriva, infatti, a circa trenta anni dall’avvio dei primi significativi processi di riorganizzazione delle attività produttive e di impresa, nonché della vita e dei sistemi di controllo delle varie formazioni sociali.

Un ritardo che si è manifestato in tutta la sua gravità nella qualità della relazione del Segretario Generale, Susanna Camusso e nella gran parte degli interventi, in una iniziativa per altro ancora unica nel mondo sindacale.

http://www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2018/01/20180129relazione-conferenza-programma.pdf

http://www.radioarticolo1.it/jackets/cerca.cfm?str=Buon+lavoro&contenuto=audio

La natura del potere sindacale, decisamente più contrattuale e di condizionamento che decisionale, giustifica solo in parte tale riflesso; contano soprattutto l’impostazione culturale e le chiavi interpretative di una classe dirigente sindacale impegnata a conciliare in qualche maniera gli stereotipi dell’attuale sinistra con il retaggio sempre più vago e oscuro di una visione di classe.

Nella fattispecie la relazione e le conclusioni di Susanna Camusso, nelle approssimazioni, incongruenze e alcune volte addirittura salti logici ivi contenuti, rappresentano il portato evidente di questo limite e dell’incapacità di offrire ai ceti popolari la possibilità di una difesa efficace delle proprie condizioni e un ruolo attivo in un eventuale progetto di sviluppo e di recupero di autorevolezza del paese.

È il momento, quindi, di addentrarsi nei contenuti di essa.

Il contrasto alle diseguaglianze è il filo conduttore dell’iniziativa e di tutto l’impegno sindacale.

Una ambizione caratterizzante il progressismo democratico e di sinistra cui appartiene a pieno titolo il sindacato confederale.

Quando però dalla enunciazione e dagli slogan taumaturgici si passa all’analisi e agli obbiettivi politici iniziano a sorgere i problemi e le incongruenze.

SULLE DISUGUAGLIANZE RISPETTO A CHI

Intanto diseguaglianze rispetto a chi e tra chi?

Camusso riprende pigramente le analisi modaiole di Piketty; l’1%, detentori, per di più bianchi, della ricchezza equivalente posseduta da 3,7 miliardi di persone restanti, quindi, rispetto al resto della popolazione. Un 1% costituito soprattutto da esponenti della finanza e delle banche.

Questa prima affermazione si presta a numerose obiezioni di varia rilevanza.

Sul colore della pelle, visto l’emergere di nuove potenze economiche, soprattutto in Asia e di relativi nuovi patron.

Il dato del 1% è un giochino statistico, dal vago sapore demagogico, realistico nel solo caso in cui tale immane ricchezza dovesse rimanere immobilizzata e tesaurizzata; una condizione legata a specifici cicli economici e fasi geopolitiche. Di regola rappresenta un sistema di drenaggio e riallocazione di risorse in settori e spazi geografici seguendo dinamiche economiche legate a strategie geopolitiche; un sistema, quindi, comunque di redistribuzione e di reinvestimento. Rappresentato come una cupola dominante gli affari e le peripezie del globo terreste, in grado di svuotare e sterilizzare l’azione politica, verrebbe da chiedersi come possa una organizzazione, delimitata territorialmente e circoscritta alla difesa degli interessi del lavoro dipendente, contrastare efficacemente e realisticamente questa divaricazione.

L’implicazione delle più gravi ed evidenti di tale escamotage nell’analisi politica e socioeconomica è infatti l’appiattimento del restante 99% di popolazione in un confuso calderone dagli ingredienti indistinti che impedisce di vedere le articolazioni sociali e le diversità di interessi e rappresentazione dei vari gruppi sociali.

Un’altra grave implicazione riguarda l’incapacità di analizzare e spiegare la conflittualità politica, presente in tutti gli ambiti compreso quello economico, sempre più accesa tra centri di potere in aperta competizione e del tutto incompatibile con una visione totalitaria e verticale dell’azione politica. In questa dinamica i centri economico-finanziari sono solo parte dei vari centri decisionali in competizione e conflitto ai quali partecipano a pieno titolo élites operanti in altri ambiti, dal militare all’accademico, alla sicurezza interna, all’amministrativo; compresi quindi quelli presenti nelle varie istituzioni pubbliche e statali.

La conseguenza di tale impostazione è la formulazione di orientamenti ed obbiettivi politici quantomeno velleitari o mal posti.

DISUGUAGLIANZE TRA CHI

La prospettiva di diseguaglianza interna al blocco del 99% si rivela se possibile ancora più inadeguata. La constatazione ricorrente è quella di una condizione sempre più generalizzata di precariato e di peggioramento dei livelli di sfruttamento e di condizione economica.  Più che di diseguaglianza si tratterebbe quindi di appiattimento generalizzato al ribasso delle condizioni di vita e di lavoro.

Le vie di fuga consentite da queste chiavi di interpretazione sono alla fine scontate.

Si parte dalla aspirazione di un Governo Mondiale che dovrebbe controbilanciare lo strapotere di questa grande cupola, per consolarsi via via con la costituzione degli Stati Uniti d’Europa e ridursi infine ad una generica azione di controllo dei Governi attraverso soprattutto la tassazione; il tutto corroborato e sostenuto dall’azione di un presunto movimento sindacale e di opposizione internazionale.

Sarebbe sin troppo facile sfrucugliare sulle possibilità reali di direzione unitaria di tale movimento, laddove dovesse prender piede e sul fallimento di tali aspirazioni nei momenti più drammatici di conflitto di questi ultimi due secoli. Non è però l’aspetto centrale della questione.

Le ultime vicende legate alla manipolazione di dati dei colossi della comunicazione e alla crisi economica finanziaria degli ultimi dieci anni hanno rivelato la rivalità accesa di questi centri, l’aperta innervazione di essi con gli apparati e i centri di alcuni stati in via di rafforzamento e di altri in via di indebolimento, la loro stessa dipendenza dalle scelte e dal controllo di questi apparati.

Non si tratta quindi di un generico recupero del controllo pubblico, quanto di quello delle prerogative di quegli stati che volenti o nolenti vi hanno rinunciato attraverso la realizzazione di strategie particolarmente complesse ed articolate.

Susanna Camusso invece non trova di meglio che lamentarsi del cosmopolitismo e della libertà di circolazione a senso unico auspicati e perseguiti da questa cupola; applicati quindi ai capitali ma non alla manodopera e alle popolazioni, soggette queste ultime sempre più alle limitazioni dei muri e di vari tipi di barriere. Da qui la conferma di una veemente condanna delle politiche protezioniste, per altro comunque esistenti in varie forme selettive, foriere di guerre e disastri. Una accorata difesa di libertà, costituita nella prosaica realtà da pratiche selettive che hanno garantito il predominio pluridecennale della formazione americana, ma anche l’emergere di nuove potenze sempre più in grado di sostenere la competizione politico-economica. Un vero e proprio accecamento ideologico che impedisce di vedere la natura del conflitto tra centri globalisti e centri strategici più disposti ad accettare una condizione multipolare; di individuare di conseguenza l’interesse che hanno anche gran parte degli strati più popolari e subalterni a veder frenati e strettamente controllati i processi di migrazione e i flussi economici.

Quel che appare una visione universalistica in grado di interpretare adeguatamente la realtà globale e gli interessi della varia umanità, si rivela in realtà una proiezione di una condizione e di un processo riguardante un mondo occidentale in declino o comunque costretto a circoscrivere la propria azione.

La crisi, il diradamento e il depauperamento dei ceti medi, ad esempio, contrariamente alla rappresentazione catastrofica offerta dal Segretario Generale, è un processo che riguarda soprattutto le formazioni occidentali in declino, in netto contrasto con il loro sviluppo nelle formazioni emerse ed emergenti quali la Cina, l’India, la Russia, l’Indonesia ed altre. La competizione e il declino, a volte relativo a volte assoluto delle formazioni occidentali, rende poco sostenibile il sistema di funzioni, di redistribuzione di rendite e redditi che ha contribuito a rimpolpare e garantire lo status di ampi settori di ceti intermedi.

Un processo reso ingovernabile e ulteriormente destabilizzante da due altri fattori a loro volta globali, i quali hanno un influsso diverso su formazioni in via di sviluppo e formazioni sulla via del declino; su formazioni con una folta presenza di ceti medi numerosi ed articolati e formazioni con ceti da creare partendo da una base iniziale più ristretta e meno articolata e diffusa:

  • da processi di mondializzazione delle filiere produttive e dei servizi con la conseguente migrazione di interi comparti produttivi, più o meno evoluti;
  • da processi potenti di robotizzazione e digitalizzazione i quali stanno trasformando radicalmente, più che azzerando, il livello e le gerarchie di competenze professionali nonché la definizione di funzioni e ruoli necessari alla formazione e alla stratificazione dei ceti intermedi sotto mutate spoglie

Per una associazione la quale costitutivamente fonda la propria ragione d’essere sul rapporto più o meno conflittuale tra capitale e lavoro dipendente è molto facile scivolare e proiettare le proprie dinamiche politiche e rivendicative in una visione universalistica di fatto subordinata, grazie all’impostazione dualistica dei rapporti di potere tra capitalisti (ormai finanziari) e salariati (masse diseredate), alle strategie globaliste tipiche invece di centri strategici che ambiscono all’egemonia unipolare. A meno che l’organizzazione non disponga di una classe e di un gruppo dirigente talmente saldo politicamente da essere in grado di ricondurre le dinamiche ed i conflitti di classe, le rivendicazioni settoriali all’interno delle dinamiche geopolitiche che si stanno consolidando.

LE IMPLICAZIONI POLITICHE

Questo gruppo dirigente non appare assolutamente in grado di elaborare una analisi e condurre un’operazione politica di tale portata; di conseguenza non appare in grado di opporre una difesa efficace ed unitaria degli interessi popolari.

Sembra, al contrario, rimuovere dal proprio bagaglio personale quel patrimonio culturale duramente acquisito sino ai primissimi anni ’70 ed utilizzato con buona efficacia per una brevissima stagione, sino a quando, cioè, non prevalsero definitivamente e tardivamente le pulsioni egualitariste più esasperate tipiche dell’operaio-massa e, in forma ancora più avulsa, di ampi settori del pubblico impiego.

L’enfasi con la quale la CGIL, più in generale l’insieme del mondo sindacale, pone l’accento sulle diseguaglianze è il segno della gravità della frammentazione e polverizzazione del mondo del lavoro dipendente e collaterale, ma anche dei gravi limiti dell’attuale azione sindacale.

La precarizzazione della condizione economica e dei diritti dei salariati, degli autonomi e di buona parte dei ceti professionali è la conseguenza pressoché diretta del drastico ridimensionamento dell’apparato produttivo e di servizi del paese, frutto a sua volta di una intrinseca debolezza politica della classe dirigente del paese. Il confronto tra le forze sociali, tra esse il confronto sindacale, si fonda quindi su basi e su margini più ristretti; la forza contrattuale degli strati più fragili e deboli risulta pregiudicata. L’esigenza inderogabile di ammodernamento e riorganizzazione produttiva delle attività superstiti e la perdita di controllo nazionale di gran parte delle imprese più rilevanti hanno per altro sconvolto le basi del sistema di contrattazione e dei rituali sindacali consolidati sino a fine secolo.

Non a caso l’azione più importante su cui è impegnato questo sindacato riguarda la rielaborazione del sistema dei contratti collettivi e individuali di lavoro e il varo di una carta dei diritti. Una azione alla quale, però, manca ormai una sponda politica ed istituzionale, una volta garantita dai partiti operai e popolari, in grado di sostenerla; tanto più necessaria, quanto più e polverizzato il quadro sociale operativo del sindacato.

Si tratta, però, di una operazione di stampo prettamente legalitario, di fatto elitaria che prescinde dal contesto economico e dai rapporti ormai consolidati. Lo sviluppo esponenziale dell’economia informale, una tara storica del paese Italia, è tutta lì a rivelarne la debolezza e la parzialità. Una fragilità rispetto alla quale le modalità di contrasto delle diseguaglianze prospettate da questo gruppo dirigente appaiono distorsive e fuorvianti.

L’aspetto centrale del problema è invece l’appiattimento retributivo ed anche normativo riservato a tante categorie più professionalizzate e specializzate.

Senza porre al centro questo aspetto, difficilmente il sindacato potrà contare sull’apporto delle forze più competenti, più forti e più tenaci del mondo del lavoro; rischia, piuttosto, di essere soggetto al meglio alle vampate e alle fibrillazioni senza respiro dei settori più degradati e meno capaci di sostenere confronti prolungati.

Le cause di questa condizione sono molteplici:

  • la mancata coltivazione ed incentivazione di un ceto imprenditoriale e manageriale nazionale interessato e capace di investimenti strategici, di sviluppo di grandi imprese;
  • la distruzione e l’annichilimento progressivo di quella parte di classe dirigente della nazione in grado di sostenere una collocazione internazionale del paese sufficiente ad offrire spazi e condizioni a questo sviluppo;
  • la destrutturazione piuttosto che la riorganizzazione di gran parte degli apparati e delle strutture necessari a garantire queste politiche;
  • una condizione delle strutture produttive che richiede qualificazioni complesse ma fuori mercato;
  • un serbatoio di manodopera inoccupata del tutto sproporzionato

Da qui lo spreco di competenze e di qualificazioni che sta portando ad un degrado progressivo degli stessi centri di formazione dal costo ormai sempre più insostenibile e meno giustificabile dagli sbocchi.

I primissimi anni ’70 furono i momenti di maggiore forza e lucidità del movimento sindacale. Fu la breve fase nella quale il sindacato godeva dell’apporto militante dei settori più professionalizzati del mondo del lavoro dipendente. In quegli anni maturò la politica del cosiddetto “nuovo modello di sviluppo”, velleitaria e spesso fumosa, ma indicativa delle ambizioni unitarie e generali del movimento. Contestualmente si elaborò la classificazione del personale in un inquadramento unico che tentava da una parte di far corrispondere il salario al livello professionale e di competenza dei dipendenti, siano essi operai, che impiegati, che tecnici, che quadri; dall’altra di riordinare i sistemi di incentivazione individuali. Una epopea che si concluse rapidamente nell’inerzia delle posizioni egualitariste più radicali portate avanti dai settori meno qualificati e/o più istituzionalmente garantiti da un sistema di regolamentazione pubblica proprio degli apparati burocratici ed amministrativi sino all’apoteosi velleitaria del salario considerato “variabile indipendente”. Posizioni via via prevalenti negli ambienti sindacali.

A cosa si sia ridotta progressivamente la cittadella sindacale e la composizione di gran parte dei cortei è sotto gli occhi di chi vuol vedere.

LE OMISSIONI ED I RITARDI

La relazione di Susanna Camusso e la stessa azione sindacale sono lontani da un cambiamento di impostazioni altrimenti indifferibile.

  • Nella relazione non c’è traccia della necessità di tutelare e sviluppare un complesso di grandi imprese, a controllo e di espressione nazionale in grado di garantire adeguate piattaforme industriali nei settori sperimentali e strategici, in grado di competere ma anche di partecipare con pari dignità al sistema di compartecipazioni e di fusioni internazionali.
  • Non c’è traccia del ruolo preminente cui sono chiamati gli stati nazionali nello scacchiere geopolitico e nei sistemi di alleanza che si vanno prefigurando non ostante la vulgata sovranazionale ancora predominante in questi ambienti. Sistemi propedeutici al varo di politiche industriali e alla formazione di grandi complessi di imprese paragonabili a quelle americane, cinesi e in alcuni ambiti russe;
  • lo stesso ruolo pubblico si limita, nella rivendicazione, ad una politica di massicci investimenti e di riordino normativo e organizzativo tesi a favorire le condizioni e le opportunità di mercato. Una politica velleitaria nelle dimensioni, perché inquadrata nei vincoli comunitari; essa non farebbe che assecondare per altro i processi “naturali” di mercato i cui indirizzi sono decisi altrove; di fatto in altri centri politici decisionali estranei al paese ma ben presenti in altre formazioni e apparati statali.

SINDACATO E INDUSTRIA 4.0

Risulta gravemente inficiato, di conseguenza lo stesso approccio alla problematica dell’industria 4.0 tentato nel convegno.

Non sorprende nemmeno il sostegno acritico ed entusiasta al provvedimento “Industria 4.0” varato dal Ministro Calenda nel 2016 concesso dalle tre confederazioni nel 2017.  http://www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2017/03/Doc-Unitario-CGIL-CISL-UIL-del-13-marzo-2017-INDUSTRIA-4_0-1.pdf

In proposito si veda quanto espresso a suo tempo da questo blog. http://italiaeilmondo.com/?s=i+buoi+oltre

Nella relazione vi sono solo un paio di accenni critici in proposito, quasi del tutto irrilevanti.

Si sottolinea il carattere fuorviante del titolo che induce a focalizzare l’attenzione ai soli processi industriali di digitalizzazione e robotizzazione. In una successiva intervista Susanna Camusso, bontà sua, tende a sottolineare ulteriormente che i processi riguardano ampiamente anche il settore dei servizi e le amministrazioni pubbliche.  Questo a distanza di quasi trent’anni dai primi processi avviati, già con ritardo, nel settore bancario. http://www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2017/06/Idea_Diffusa01-2018-1.pdf

Si indulge sulla constatazione dell’insufficienza degli investimenti, in particolare pubblici, nel settore della ricerca e sulla necessità, sulla carenza, espressa in modo generico, di una concertazione tra le parti nella messa in opera e valorizzazione degli stessi.

Glissa del tutto sull’articolazione e sugli aspetti dei quattro ambiti, pur enunciati abbastanza chiaramente nel provvedimento governativo e posizionati gerarchicamente, entro i quali agiscono i processi di intelligenza artificiale (IA), di digitalizzazione e robotizzazione.

Critica blandamente il punto di vista legato esclusivamente ai processi di automazione degli impianti, ma solo per addentrarsi a grandi linee con un grande balzo spericolato sulla problematica dell’introduzione di queste tecnologie nei beni di consumo e di servizio. Nella fattispecie sulle implicazioni positive legate alle possibili estensioni della gamma e della qualità di servizi e beni alla persona, in particolare quelli connessi allo stato sociale; su quelle negative legate al controllo e alla sicurezza dei dati personali.

Su questo aspetto, nessuna attenzione all’enorme e cruciale problema di sicurezza e di dipendenza legato ai processi di raccolta, filtraggio e trasmissione dei dati rilevati dai prodotti e dai processi industriali connessi in rete. Processi in mano quasi integralmente a compagnie americane.

Un problema che sembra preoccupare seriamente cinesi e russi, tant’è che vi stanno investendo copiosamente; non sembra gran che tormentare i sonni degli europei, tanto meno degli italiani. Nel suo piccolo la Camusso offre il suo contributo al torpore. Si guarda bene dallo spingere il Governo e gli imprenditori italiani a cercare e promuovere sinergie e collaborazioni analoghe, specie in ambito franco-tedesco, per varare analoghe strutture di servizio. Tutto l’afflato si riduce ad una accorata esortazione ad un controllo democratico, per iniziativa di governi ed istituti sovranazionali, della corretta gestione dei dati.

Ci si sarebbe aspettato una particolare attenzione, connaturata alla missione del sindacato, sulle implicazioni dei processi di digitalizzazione, robotizzazione e IA sulla organizzazione del lavoro e sui vari livelli di qualificazione e professionalità richiesti. Un aspetto cruciale fondativo della contrattazione nazionale ed aziendale. Anche in questo caso, la premura con la quale la relazione sottolinea il fatto che ci si trova di fronte a processi di lungo periodo e reiterati pare più un alibi per giustificare i ritardi di comprensione e di azione che un appello ad attrezzarsi ad una sorta di contrattazione permanente e con cognizione di causa in un quadro di politica industriale.

Non una parola, anche in questo caso, sulle pecurialità dell’industria italiana, nella quasi totalità fatta ormai di aziende di medie e piccole dimensioni le quali impediscono di acquisire all’interno gran parte delle nuove competenze richieste, obbligandole ad affidarsi a figure esterne. Da qui il fenomeno abnorme di professionisti esterni, spesso mal pagati e vessati, perché non organizzati in ordini professionali riconosciuti, dallo Stato. Nemmeno una parola sui processi di progressiva assimilazione delle competenze professionali in programmi modulari propedeutici ad un ulteriore processo di dequalificazione e precarizzazione del personale richiesto. Anche su questo i margini di azione sarebbero ancora ampi per compensare il calo di livello di specializzazione richiesti con un allargamento della qualificazione riguardante la conoscenza più ampia possibile di cicli operativi. Anche questa una ricerca e un impegno tanto in voga in quegli anni, grazie all’impegno politico e sindacale di tecnici e professionisti, ma caduta pressoché in disuso ai giorni nostri sino a confondere i concetti stessi di specializzazione e qualificazione, invertendone addirittura l’importanza.

Non è un caso che la relazione, non ostante le intenzioni dichiarate, finisce regolarmente per soffermarsi sugli episodi di precarietà, come quelli dei call center, importanti per la loro diffusione ed estensione, ma marginali rispetto a quello che sta accadendo nei gangli vitali dell’industria e dei servizi.

Con questi limiti la classe dirigente sindacale non ha alcuna possibilità di inserirsi validamente in un progetto di rinascita nazionale, condannando ampi strati popolari alla marginalità politica, sociale ed economica.

Lo stesso muro che legittimamente cerca di erigere contro la diffusione di regimi assistenziali slegati dalla condizione lavorativa, siano essi il reddito di cittadinanza o le pensioni sempre più sganciate dai versamenti contributivi o quant’altro, grazie a queste mancanze rischia di sgretolarsi di fronte agli attacchi concentrici e all’attrattiva facile e temporanea offerte da partiti movimentisti come il M5S, da gran commis dello stato, come Tito Boeri e dalle rozze politiche aziendali di gestione del personale.

Di converso la maggiore preoccupazione sembra concentrarsi su una reciproca legittimazione delle parti sociali, quindi in primo luogo con la Confindustria, tesa alla mera sopravvivenza conservativa e autoreferenziale.

Cosa sia attualmente la Confindustria, già dal passato poco glorioso, meriterebbe un capitolo a parte. Pare evidente la sua intenzione di perseguire una politica di adeguamento alle possibilità di sfruttare gli interstizi di mercati determinati da altri. Per ambire a qualcosa di più e di più dinamico occorrerebbe una classe dirigente e un ceto politico di ben altre ambizioni e capacità. La storia dell’IRI, dell’Olivetti, della Montedison sono lì a dimostrare il carattere prevalentemente retrivo e conservatore di questa organizzazione.

 

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