La “deoccidentalizzazione” al centro delle relazioni internazionali contemporanee
La “deoccidentalizzazione” al centro delle relazioni internazionali contemporanee
In un mondo in fase di ristrutturazione geopolitica, l’Occidente ha perso il suo posto come asse centrale delle relazioni internazionali. Tra l’ascesa dei BRICS+ e l’attuale frammentazione dell’economia mondiale, quale configurazione dell’ordine internazionale sembra prendere forma?
Il termine “de-occidentalizzazione” compare sempre più spesso nei dibattiti sulle relazioni internazionali. Il concetto descrive alcuni cambiamenti nel sistema internazionale che si sono verificati a partire dai primi anni 2000, in particolare l’aumento del potere economico e la relativa ma crescente autonomia geopolitica dei Paesi precedentemente dominati dalle potenze occidentali. Il concetto è in realtà polisemico e deve essere chiarito e collocato nel suo contesto storico e politico.
Un processo politico a lungo termine
La rivoluzione sovietica del 1917 può essere vista come la prima manifestazione della de-occidentalizzazione, in quanto dimostra la scelta di rompere con il modo di produzione capitalista e la sua espansione imperialista guidata dalle potenze occidentali. Ciò si riflette nella creazione dell’Internazionale Comunista nel marzo 1919 e nell’impegno costante – almeno fino al passaggio al “socialismo in un solo Paese” imposto da Stalin nel 1925 – a sostenere i popoli delle colonie nelle loro lotte emancipatorie, culminato nell’organizzazione del Congresso dei Popoli d’Oriente a Baku nel 1920.
Tuttavia, fu solo dopo la Seconda guerra mondiale che il processo di decolonizzazione prese davvero piede e iniziò un nuovo periodo di de-occidentalizzazione. In questo contesto, nell’aprile del 1955 si tenne la Conferenza di Bandoeng, che riunì ventinove Paesi asiatici, mediorientali e africani che rappresentavano più della metà dell’umanità ma meno del 10% della sua ricchezza. Tra i partecipanti vi erano Gamal Abdel Nasser per l’Egitto, Jawaharlal Nehru per l’India, Zhou Enlai per la Repubblica Popolare Cinese e Soekarno per l’Indonesia, paese ospitante della conferenza. I Paesi asiatici erano i più numerosi, perché era nel loro continente che il movimento di decolonizzazione era più potente all’indomani del 1945. La conferenza di Bandoeng rappresentò l’emergere del “Terzo Mondo”.- termine coniato dal demografo francese Alfred Sauvy nel 1952 – sulla scena internazionale e il tentativo delle borghesie nazionali dei Paesi interessati di costringere le potenze dominanti ad abbandonare il sistema coloniale e a riconoscere la loro ascesa al potere nel quadro di Stati indipendenti in grado di affermarsi politicamente, in particolare nell’ambito dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. A metà degli anni Cinquanta, le potenze imperialiste cercavano soluzioni che non mettessero in discussione l’intero ordine imposto alla fine della Seconda guerra mondiale nelle conferenze organizzate tra i Paesi vincitori, e quindi erano favorevoli a forme di compromesso con i popoli che cercavano di emanciparsi. Questo potente processo di decolonizzazione modificò in modo permanente la mappa geopolitica del mondo, che all’epoca era ancora fondamentalmente strutturata dal confronto bipolare tra Stati Uniti e Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). Per tutta la durata della Guerra Fredda, le potenze imperialiste e l’Unione Sovietica si sono combattute per procura in molti Paesi del Sud, ma ognuna di esse ha fatto in modo che nessuno di loro potesse turbare strutturalmente l’ordine stabilito a Yalta e Potsdam dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale.
L’affermazione degli Stati del Sud
A sua volta, la fine del duopolio USA-URSS, con la caduta del Muro di Berlino e l’implosione dell’URSS, ha rimescolato le carte in tavola. Il momento dell’iperpotenza americana, per usare il termine coniato da Hubert Védrine, è stato di breve durata, circa dieci anni in tutto, e ha portato a una nuova sequenza più favorevole ai Paesi del Sud.
Dall’inizio degli anni 2000 si sono verificati diversi fenomeni: il relativo declino dell’egemonia e del potere degli Stati Uniti nel mondo, sullo sfondo dell’impantanamento della prima potenza mondiale in Medio Oriente e in Afghanistan; la concomitante ascesa di potere della Cina e dell’Asia, verso cui si sta progressivamente spostando il baricentro geopolitico ed economico del mondo; la progressiva affermazione dei Paesi del Sud del mondo, nell’ambito della nuova fase di globalizzazione economica e finanziaria che si è verificata tra il 1990 e il 2010 (che ha interessato in particolare i Paesi produttori ed esportatori di risorse naturali e materie prime), sono tra le principali caratteristiche di questo periodo delle relazioni internazionali.
In questo contesto, tra il 2000 e il 2015 si è verificata una prima fase di diversificazione delle alleanze geopolitiche, in particolare tra i Paesi del Sud e intorno all’ascesa della Cina, di cui la creazione dei BRIC (Brasile, Russia, India, Cina, a cui nel 2010 si è aggiunto il Sudafrica per diventare BRICS) nel 2009 è il simbolo più evidente. Con la crisi finanziaria internazionale del 2007-2008, iniziata negli Stati Uniti, la “globalizzazione” è già entrata in una nuova fase, quella della sua crisi sistemica. Gli anni 2010 hanno visto una cattiva performance dell’economia internazionale, una riduzione sostenuta del commercio mondiale, un aumento esponenziale del debito pubblico e delle famiglie e un incremento delle disuguaglianze sociali e di tutte le forme di insicurezza su scala planetaria. Questa crisi globale è stata rafforzata dalla pandemia di Covid-19 e dalle sue molteplici conseguenze sanitarie, economiche, sociali e politiche, in un mondo in cui già prima del 24 febbraio 2022 (inizio dell’aggressione russa in Ucraina), più di un miliardo di persone viveva in zone di confronto militare, conflitto e guerra localizzata.
Tuttavia, la guerra in Ucraina è effettivamente una nuova tappa nella configurazione di un mondo ormai apolare, cioè, contrariamente a quanto una certa vulgata vorrebbe farci credere, senza un centro di potere esclusivo, ma anche senza l’esistenza di poli regionali realmente costituiti – una multipolarità – che si spartiscano il potere e da cui si tessano i nuovi equilibri globali. In questo mondo apolare, diverse potenze regionali o internazionali (Stati Uniti, Cina, India, Russia, Brasile, Turchia, Arabia Saudita, Iran, Paesi europei, ecc.) si confrontano o cooperano – le due cose non sono in contraddizione – a seconda delle questioni in gioco, e cercano di riunire o costruire intorno a loro partner, coalizioni e alleanze che possono essere temporanee o più durature. L’attuale corso delle relazioni internazionali amplifica tutte le tendenze in atto e ne fa nascere di nuove. Conferma l’esistenza di un sistema internazionale in crisi, in cui le relazioni tra gli Stati sono transazionali e si organizzano in modo sempre più fluttuante in funzione dei loro interessi immediati e dell’affermazione della loro sovranità, per lo più senza alcuna affinità o logica ideologica preventiva e sovradeterminante. Queste dinamiche si stanno svolgendo senza che nessuna potenza, a Nord o a Sud, possa realmente sfidare il sistema economico dominante. Si tratta piuttosto di lottare per mantenere o conquistare posizioni all’interno del sistema e del sistema politico e istituzionale internazionale. Ecco perché il termine “de-occidentalizzazione” è utile per descrivere questi nuovi rapporti di forza e il riassetto della gerarchia globale degli Stati e delle loro alleanze che è in corso. Ma questo concetto non ci dice nulla sulla natura dei progetti promossi dagli attori, né in che misura questi progetti, anche se guidati da Paesi del Sud, rappresentino una rottura con la logica del capitalismo globalizzato. In questo contesto, il nuovo corso delle relazioni internazionali sta aprendo una nuova sequenza di rivalità di potere esacerbate e l’ascesa di tentazioni imperiali locali e regionali, che a loro volta incoraggiano il rafforzamento di vecchie – e il dispiegamento di nuove – partnership di sicurezza e militari, nel contesto di un potenziale confronto tra Stati Uniti e Cina. Questi sviluppi incoraggiano anche la rimilitarizzazione del mondo, mentre nuovi tipi di minaccia si aggiungono a quelli già presenti, con gli effetti del cambiamento climatico in particolare che si fanno sentire in tutto il mondo.
Ucraina e Gaza rivelano nuovi equilibri di potere
È in questo quadro generale che il conflitto ucraino e poi la guerra a Gaza fanno luce sulla nuova lettura delle relazioni internazionali. È sorprendente osservare che le sanzioni contro la Russia imposte dalle potenze occidentali sono scarsamente applicate dai Paesi del Sud. Non è meno decisivo sottolineare l’empatia dimostrata dai Paesi del Sud verso la causa palestinese, che vedono come simbolo dell’autodeterminazione dei popoli di fronte al dominio coloniale, ma anche, in questo contesto, dell’indignazione selettiva e dei doppi standard praticati dalle potenze occidentali. Queste osservazioni confermano le forme di relazione che oggi tendono a strutturare il campo delle relazioni internazionali. D’ora in poi, i valori che le potenze occidentali continuano più o meno confusamente a considerare universali – la democrazia liberale, il ” principio dello Stato di diritto “, i diritti umani, la libertà individuale, l’iniziativa privata e l’economia di mercato – non sono più in grado di imporsi né militarmente né in termini di interessi propri.I Paesi occidentali sono stati i primi, dalla fine della Guerra Fredda (Afghanistan, Iraq, Libia, Sudan, ecc.), a usarli impropriamente per i propri fini, a calpestarli o a cercare di imporli con la forza delle armi.). Si tratta di un fenomeno importante.
Al di là della loro diversità e della diversità dei loro interessi, le potenze del Sud si stanno affermando sulla scena mondiale e stanno scuotendo i vecchi equilibri. I già citati BRICS, ora noti come BRICS + dal momento che il1° gennaio 2024 si sono allargati agli Emirati Arabi Uniti (EAU), all’Arabia Saudita, alla Repubblica Islamica dell’Iran, all’Egitto e all’Etiopia, sono un fattore chiave nell’equilibrio di potere internazionale. Entro il 2022, essi rappresenteranno il 46% della popolazione mondiale, mentre i Paesi del G7 ne rappresenteranno meno del 10%. In termini economici, rappresenteranno il 35,6% del PIL mondiale calcolato a parità di potere d’acquisto nel 2022 (poco più del 30% per il G7) e rispettivamente il 37,6% e il 28,2% nel 2027. I BRICS+ rappresentano anche il 54% della produzione mondiale di petrolio. Si tratta quindi di un processo essenziale che sta trasformando il volto del mondo.
Assistiamo alla messa in discussione della gerarchia di un ordine internazionale ancora dominato dalle potenze occidentali e al crescente rifiuto da parte di molti Stati del Sud di allinearsi sistematicamente agli interessi e alle posizioni di queste ultime in molti ambiti (economia, commercio, negoziati multilaterali, crisi geopolitiche). In alcuni Paesi stanno emergendo nuovi approcci alla politica estera e alle alleanze geopolitiche, come il concetto di “multiallineamento” in India o, per i Paesi dell’America Latina, la nozione di “non allineamento attivo”. Possiamo anche notare che gli Stati che sfidano l’egemonia occidentale, come l’Arabia Saudita, il Brasile e la Turchia, si stanno affermando sulla scena internazionale. Tutti questi sviluppi globali dovrebbero incoraggiare i leader dell’Unione Europea a ripensare le proprie relazioni con il resto del mondo – gli Stati Uniti e i Paesi del Sud – e a ridefinire i propri interessi, in un mondo in cui la sua influenza geopolitica sembra diminuire a ogni nuova crisi dell’ordine internazionale.
Le guerre in Ucraina e a Gaza confermano quindi l’esistenza di un processo in corso noto come “de-occidentalizzazione” del mondo – in altre parole, la graduale erosione dei valori, del potere e dell’influenza proclamati dei Paesi occidentali.
Il ricorso del Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia contro lo Stato di Israele, accusato di “atti di genocidio contro il popolo palestinese a Gaza”, per chiedere misure cautelari, è un’illustrazione di questo punto di svolta nel mondo e del desiderio degli Stati del Sud di avere un’influenza sugli sviluppi internazionali. Tuttavia, l’espressione “Sud globale” non ci sembra appropriata, date le numerose rivalità e controversie tra questi Stati. All’interno dei BRICS+, ad esempio, India e Cina o Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti non hanno né gli stessi programmi né gli stessi obiettivi. Inoltre, questo concetto può essere utilizzato per sostenere interpretazioni ideologiche contraddittorie. Per alcuni, si riferisce a un gruppo di Paesi non allineati o contrari alla dominazione occidentale, le cui azioni, con la loro sola esistenza, avrebbero un impatto positivo sul cambiamento globale. Per altri, segnala la minaccia rappresentata dall’emergere di una coalizione di risentimento dominata dalla Cina – e, in misura minore, dalla Russia – contro queste potenze occidentali. Ecco perché la sua rilevanza deve essere messa in prospettiva. Infatti, con i suoi contorni approssimativi, la nozione di “Sud globale” oscura la complessità e la natura trasversale delle relazioni contraddittorie e ambivalenti tra Paesi del Nord e del Sud. Tende a ridurre il campo delle relazioni internazionali a una demarcazione Nord/Sud che non regge all’analisi della volatilità della situazione internazionale e della fluttuazione/diluizione di blocchi e/o alleanze stabili.
In un simile contesto, nulla sarebbe più pericoloso che cedere alle sirene del “campismo”. Questo termine ha una storia e si riferisce al periodo della Guerra Fredda. In origine si riferiva a coloro che, soprattutto tra le forze legate ai partiti comunisti dell’epoca, si allineavano con l’URSS quando quest’ultima sosteneva di sostenere le lotte antimperialiste nell’ambito della sua rivalità con gli Stati Uniti. Oggi, significa allinearsi con questo o quel Paese con il pretesto che è soggetto a pressioni – sanzioni, embarghi, leggi extraterritoriali – da parte dell’imperialismo statunitense. Come spiega giustamente Gilbert Achcar, si è passati da una logica di “il nemico del mio amico (l’URSS) è mio nemico” a una di “il nemico del mio nemico (gli Stati Uniti) è mio amico”. Questo non è certo un modo soddisfacente di affrontare le complessità di un mondo apolare. La controparte di questa posizione è il campismo inverso dettato dalle potenze occidentali. L’idea è quella di stabilire una percezione secondo la quale il futuro del mondo si giocherebbe in una lotta tra “democrazie” e “autocrazie”, l’asse strutturante delle relazioni internazionali tradotto in un confronto tra Paesi “liberali” e “illiberali”. Questa scorciatoia ideologica ci impone di scegliere da che parte stare secondo una griglia di lettura semplicistica, moraleggiante, strumentalizzata e artificiosa, che non sembra affatto efficace.
A titolo di conclusione temporanea
Come tutti i processi, quello della de-occidentalizzazione del mondo è un concetto dialettico con una prospettiva a lungo termine. Per i suoi sostenitori, ci invita ad aggiornare e rivisitare i contorni del rapporto tra ” Occidente e resto “. Per questo è più che mai necessario riflettere e discutere su questo concetto e sulle realtà che copre, per coglierne i punti di appoggio, ma anche le contraddizioni e i limiti. Così facendo, potremo comprendere meglio come si stanno evolvendo le relazioni e gli equilibri di potere tra i Paesi occidentali e quelli del Sud in un mondo in cui, se da un lato questi ultimi sono impegnati in una lotta senza precedenti per l’influenza, dall’altro nessuno di loro sembra proporre alternative all’attuale ordine internazionale in crisi e al suo modo di produzione economica dominante.