LA DIS-INTEGRAZIONE DELLE STELLE, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA DIS-INTEGRAZIONE DELLE STELLE

Le ultime vicende del Movimento 5 stelle, ridotto, da quel che risulta, a meno di un quarto dei suffragi conseguiti nel 2018 e afflitto da una continua emorragia di parlamentari (ormai rimasti a circa la metà degli eletti alle ultime politiche) in tutte le forme (dimissioni, scissioni, allontanamenti, ecc.), induce a fare qualche considerazione, che non ha l’ambizione di essere esauriente, ma piuttosto di evidenziarne (qualche) concausa. Questo partendo da alcune regolarità e costanti della politica. A cominciare da Machiavelli, il quale, nel Principe, scrive delle difficoltà dei principi “nuovi”, che più per fortuna che per virtù hanno ottenuto il potere “non sanno e non possano tenere quel grado: non sanno, perché, se non è uomo di grande ingegno e virtù, non è ragionevole che, sendo sempre vissuto in privata fortuna, sappi comandare; non possano, perché non hanno forze che gli possino essere amiche e fedeli”. E che i governanti 5 Stelle fossero degli inesperti era vanto degli stessi ed occasione d’ironia dei loro (tanti) avversari. Parimenti è vero che nella loro ascesa al potere vi sia stata più fortuna che virtù, perché insistere sulla crisi che attanagliava e attanaglia l’Italia, governata da una classe dirigente decadente, è facile: si attacca chi è poco difendibile.

La lunga serie di “no” esibiti dal movimento prima del 2018 era corroborato dalla contraria opinione e pratica delle élite, le quali né autorevoli né legittime proprio per tali loro qualità asseveravano a contrario i “no”, spesso contraddittori o ingiustificati, dei grillini. Ma tale vantaggio è venuto meno – più che altro si è ridotto – una volta andati al governo: la necessità di scelte ha costretto a ridimensionare radicalmente il dissenso, e quindi il consenso che ne conseguiva.

Ma in particolare occorre valutare il giudizio di Machiavelli sulla “forze amiche e fedeli” che (non) sostengono il principe nuovo (e “fortunato”). Il genio di Machiavelli individua così i limiti dei politici – e governanti – improvvisati, spinti su dalle circostanze, più che da una reale capacità e applicazione, nell’ “inesperienza” e nella mancanza di “seguito” da intendersi nel senso weberiano del rapporto tra capo e “fedeli” (“forze amiche e fedeli”)”.

E tra le forze amiche e fedeli occorre distinguere due categorie: gli aiutanti, cioè i collaboratori del vertice politico, e gli elettori. All’uopo può servire quanto sosteneva, per gli Stati, ma applicabile (in larga parte) a tutti i gruppi politici, un acuto giurista come Rudolf Smend. Questi sosteneva “l’integrazione è un processo di vita fondamentale per ogni formazione sociale nel senso più lato. Questa, in prima analisi, consiste nella produzione o formazione di unità o totalità a partire dagli elementi singoli, cosicché l’unità ottenuta è qualcosa di più della somma delle parti unificate”, ogni gruppo politico realizza necessariamente attraverso l’unione delle volontà dei componenti, l’integrazione; la quale, secondo Smend, può distinguersi in materiale, funzionale o personale; e in genere è, in proporzione diversa tra loro, tutte e tre le cose insieme. Se si riscontra la rilevanza e l’esistenza delle suddette forme d’integrazione nel M5S, se ne avverte la carenza.

L’integrazione personale è quella suscitata dalla forte considerazione della personalità del capo. Ma a concedere che il capo fosse uno (è dubbio) è chiaro che il M5S ne ha cambiati diversi, da Casaleggio a Di Maio, da Crimi (??) a Conte. Fermo sullo sfondo Grillo.

Al contrario di Forza Italia, fondata sul forte (un tempo) richiamo aggregante di Berlusconi e della sua storia di successo, nessuno dei “capi” 5S ha costituito un forte elemento di integrazione personale.

Né è migliore l’impressione che si può ricavare dall’integrazione funzionale, la quale consiste nelle attività e procedure di partecipazione alla decisione – e alla direzione – politica: elezioni, referendum, congressi, manifestazioni, assemblee “Nella vita di ogni struttura le procedure di decisione e discussione sono – come scriveva Smend – prevalentemente indirizzate alla formazione della volontà comune: così il gruppo realizza la propria unità come unità di volontà, indirizzata a scopi comuni… la partecipazione, anche meramente consultiva, al processo decisionale permette sia di sondare gli umori della base sia, soprattutto, di coinvolgerla nella decisione e nell’azione”. Nei partiti “tradizionali” con prevalente organizzazione territoriale (per lo più a carattere democratico) sono l’elezione dei dirigenti e la discussione nei vari organi a rivestire il ruolo maggiore.

Nel movimento si è parlato spesso di piattaforma digitale, d’iscritti, , ma a parte la non chiarezza del tutto, è sicuro che:

  1. a) le procedure suddette sono da millenni di competenza di assemblee: dall’Agorà ateniese ai Soviet della rivoluzione d’ottobre, a decidere era un insieme di partecipanti riunito collettivamente, e non un singolo davanti ad un computer.
  2. b) Per quanto ci riguarda c’è l’interrogativo: può produrre – e quanta – integrazione nel gruppo un iscritto che a casa sua decida se Caio deve fare il Ministro e Sempronio l’assessore? Probabilmente se il giudizio è rispettato qualche effetto integrativo lo può avere, ma assai modesto rispetto alla decisione in praesentia. In secondo luogo diverse sentenze hanno giudicato non democratiche o poco democratiche norme e pratiche interne del M5S. Non è il caso di insistervi, ma occorre prenderne atto.

Infine l’integrazione materiale, intesa come fede comune in determinate idee e valori, in una visione condivisa del mondo. Ma il cartello di “no” del M5S serviva bene ad identificare il nemico ma assai male a fidelizzare l’amico. Oltretutto una volta al governo è stato costretto a compiere scelte destinate a scontentare parte dei “no”. Ancor più se a partire dal governo Conte bis, il M5S si alleava col PD, maggiore espressione dell’establishment destinatario dei “no”.

Se è vero quanto scriveva Smend, che l’unità politica è un processo, un divenire dinamico (Schmitt) realizzata in un’unione di volontà, non c’è da stupirsi che l’unione di volontà non vi sia né tra vertice e base né all’interno del vertice. Con la conseguenza di scissioni, dimissioni, ecc. Dei vecchi partiti ideologici della Prima Repubblica si è detto tutto il male possibile (e anche di più) ma fenomeni di decomposizione erano eccezionali e limitati per lo più a reali differenze ideali e politiche, come quelle tra seconda e terza internazionale.

Ma se il “collante” delle idee è tenue o inesistente, l’unione di volontà non si realizza o se si realizza lo è in modo debole e transitorio. Non era solo la disciplina a generare il partito “classico”, fino all’ “Ordine dei Portaspada” di Stalin, ma ancor di più la comunanza di ideali (ed obiettivi).

Attorno a quel che resta del M5S si aggirano i (soliti) megafoni delle élite. Con la logica che li contraddistingue qualcuno proclama la crisi del populismo basandosi sull’equazione Populista=M5S ergo crisi dei M5S=crisi dei populisti. Dimenticando che, a parte quel che succede all’estero, dal 2018 (al più tardi) l’elettorato anti establishment italiano è largamente e costantemente superiore al 50% dei suffragi espressi e che la crisi del M5S non ha giovato ai partiti di regime (PD in primis) ma ha solo trasferito gran parte dell’elettorato anti-élite ad altri due partiti anti-establishment come la Lega e FdI.

Onde il calo del M5S non è dovuto al tramonto del populismo, ma, in larga parte, al dissolversi dell’ “unione di volontà” tra vertice e base elettorale e l’evaporazione a tous azimouts dell’(irrisolta e tenue) identità del movimento.

Teodoro Klitsche de la Grange