VIVA LA MORIA 2.0, di Teodoro Klitsche de la Grange

VIVA LA MORIA 2.0

Quando, quasi tre anni orsono, si iniziò a parlare del PNRR scrissi un articolo, dal titolo uguale, nel quale ricordavo quanto scriveva Manzoni «che nella Milano appestata i monatti – addetti al trasporto dei malati al lazzaretto e dei cadaveri al cimitero – brindavano allegramente ripetendo “Viva la moria!”, dato che l’epidemia garantiva agli stessi un lavoro continuo e remunerativo, e la connessa possibilità di rubare e di estorcere denaro a malati e parenti». E che quel gran parlare di novità, di ricostruzione, di generosità europea poteva diventare l’ouverture di una prossima grande abbuffata. Già Conte, allora Presidente del Consiglio diceva che le spese relative dovevano essere decise e distribuite. Che un tale programma fosse il miele per attrarre un nugolo di tax-consommers era chiaro; come lo era che gli stessi si sarebbero fatti in quattro per «come dicono in Spagna buscar un lugar en el presupuesto, ossia a trovare una nicchia nel bilancio ed essendo questo all’uopo abbondantemente fornito, hanno una ricerca facile». Cattiva prospettiva per il contribuente italiano, cui sarebbe comunque toccata la parte di Brighella “che fa le spese”.

Ad alleviare i dubbi del suddetto Brighella fu anche detto che l’inquinamento (la riduzione del quale era il principale obiettivo del PNRR) aveva aiutato la diffusione del virus. Tesi poco ripetuta, forse perché spericolata.

Da notizie di stampa emerge che tra le spese finanziate dal PNRR ci sarebbero piste ciclabili, campi di padel, strutture per l’assistenza anche ai migranti, ecc. ecc. Tutte cose magari (si spera), non tanto incidenti sulla spesa complessiva, ma le quali più che ad una (necessaria, anzi indispensabile) ripresa economica, sembrano rivolte a finanziare opere ed interventi del tutto marginali, e poco o nulla suscettibili di aumentare reddito, produttività, competitività degli italiani e dell’Italia. Cioè di tutte le belle parole con cui hanno condito anche le finalità del PNRR.

Per cui non appare errato procedere alla revisione enunciata dal governo. Sperando che, essendo fatta da un governo diverso, non ripeta le “gesta” dei precedenti.

Teodoro Klitsche de la Grange

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L’ultimo viaggio di Zelensky in Polonia è stato super significativo, di Andrew Korybko

L’ultimo viaggio di Zelensky in Polonia è stato super significativo

Andrew Korybko
2 ore fa

La visita di Zelensky è destinata a plasmare il corso della guerra per procura tra NATO e Russia nei prossimi tre mesi, prima del vertice del blocco all’inizio di luglio. Il ruolo di Varsavia nei prossimi eventi influenzerà fortemente l’operato di Kiev in questo momento cruciale del conflitto, da cui la tempistica con cui il leader ucraino ha deciso di incontrare la sua controparte. Per quanto Zelensky stia pianificando tutto con cura, tuttavia, potrebbe ancora fallire nel ribaltare le sorti della sua parte.

Simbolismo e sostanza

Il primo viaggio di Stato di Zelensky in Polonia dall’inizio dell’operazione speciale russa dello scorso anno si è svolto all’inizio della settimana, durante il quale è stato insignito della più alta onorificenza civile del Paese ospitante, l’Ordine dell’Aquila Bianca. La sua visita è avvenuta in un momento cruciale della guerra per procura tra la NATO e la Russia, il che aggiunge un elemento di intrigo alla visita, così come il suo simbolismo. Il presente articolo analizzerà quindi quanto sopra per comprendere meglio l’importanza dell’ultimo viaggio di Zelensky.

Le ultime dinamiche strategico-militari

Per cominciare, a metà febbraio il capo della NATO ha dichiarato che il suo blocco è in una cosiddetta “gara logistica”/”guerra di logoramento” con la Russia, che Mosca sta vincendo, come dimostra la sua continua resistenza militare e l’osservazione di Zelensky, alla fine del mese scorso, di essere a corto di munizioni. Il fondatore di Wagner Prigozhin ha anche recentemente rivendicato la vittoria nella battaglia di Artyomovsk/Bakhmut, dopo che il suo gruppo ha catturato il centro amministrativo della città, il che ha provocato un’inversione di rotta da parte del leader ucraino.

A fine febbraio aveva detto che le sue forze avrebbero potuto abbandonare l’area se le perdite fossero diventate irragionevoli, ma il mese scorso ha dichiarato alla CNN che la perdita di quella città avrebbe potuto portare la Russia a conquistare il resto del Donbass. Zelensky si è poi basato su questa previsione per avvertire, poco più di una settimana fa, che sarà sottoposto a pressioni in patria e all’estero per “scendere a compromessi” con Mosca se ciò accadrà, ma ora è tornato alla sua posizione precedente dopo aver preconizzato al pubblico un possibile ritiro.

Resta da vedere cosa succederà alla fine, ma non c’è dubbio che le dinamiche strategico-militari favoriscano la Russia. Questo non è un pio desiderio, ma si basa sui dettagli schiaccianti contenuti nel reportage del Washington Post della metà del mese scorso sulla scarsa efficienza delle forze di Kiev. Tenendo presente questo contesto più ampio, è chiaro che l’ultimo viaggio di Zelensky in Polonia è avvenuto davvero in un momento cruciale del conflitto.

La Confederazione polacco-ucraina di fatto

Per quanto riguarda il simbolismo, la Polonia è uno dei principali alleati dell’Ucraina, tanto che lo scorso maggio, durante la visita del Presidente Duda a Kiev, i due Paesi hanno dichiarato la loro reciproca intenzione di eliminare tutti i confini tra loro. Questo li ha portati a fondersi gradualmente in una confederazione de facto, che fa avanzare il progetto geopolitico della Polonia di ripristinare il suo commonwealth perduto per perseguire il suo grande obiettivo strategico di tornare a essere una Grande Potenza.

La riaffermazione da parte di Zelensky del reciproco intento di eliminare tutti i confini tra i due Paesi durante il suo ultimo viaggio in Polonia avvalora questa valutazione, così come la spinta di un lobbista neoconservatore a favore di questo progetto geopolitico in un recente articolo per l’influente rivista Foreign Policy. Nell’ottica di legittimare lo status dell’Ucraina come protettorato de facto del suo Paese, Duda ha dichiarato che Varsavia sta cercando di ottenere ulteriori garanzie di sicurezza per il suo vicino in vista del prossimo vertice NATO di quest’estate.

Problemi polacco-ucraini

Per quanto i due vogliano fondere gradualmente i loro Paesi in una confederazione di fatto, rimangono ancora alcuni ostacoli molto seri sulla loro strada. Per cominciare, c’è ovviamente la questione del finanziamento di questo progetto geopolitico, che la Polonia non può permettersi. In secondo luogo, i polacchi sono disgustati dalla glorificazione dell’Ucraina del collaboratore fascista e genocida di Hitler, Bandera. Più lo Stato polacco lo tollera, nonostante la sua occasionale retorica in difesa della verità storica, più i polacchi medi si arrabbiano.

Partendo da questa osservazione, la terza sfida a questo progetto geopolitico è l’aumento del sentimento anti-establishment in Polonia, che potrebbe portare il partito della Confederazione a conquistare un numero di voti tale da costringere il partito al governo a formare una coalizione di governo con loro. Questo risultato potrebbe mettere in crisi questi piani, ritardandone indefinitamente l’attuazione, soprattutto se la Confederazione trovasse un modo per bloccare i finanziamenti necessari e/o le garanzie di sicurezza.

Le prospettive di un intervento militare polacco

Prima delle prossime elezioni, tuttavia, possono ancora accadere molte cose, tra cui un intervento militare polacco in Ucraina. L’ambasciatore polacco in Francia ha tuonato alla fine del mese scorso che “se l’Ucraina non difende la sua indipendenza, non avremo altra scelta che entrare nel conflitto. I nostri valori fondamentali, che sono la pietra angolare della nostra civiltà, la nostra cultura saranno in grave pericolo, quindi non abbiamo scelta”. Anche se l’ambasciata ha detto che le sue parole erano decontestualizzate, l’intento era chiaro.

La Russia ha messo in guardia da tempo su questo scenario, che potrebbe rappresentare un’escalation senza precedenti nella guerra per procura della NATO contro di essa, in quanto la Polonia è un membro ufficiale del blocco, i cui Paesi hanno obblighi di difesa reciproca. Un intervento polacco potrebbe quindi servire da filo conduttore per l’alleanza anti-russa per formalizzare il suo ruolo in questo conflitto, soprattutto nel caso in cui la Polonia annunci la sua “unificazione” con l’Ucraina e la porti sotto il suo ombrello.

Sebbene questa sequenza di eventi rimanga speculativa, è comunque fondata su una base fattuale come è stato spiegato finora in questo pezzo, soprattutto considerando le svantaggiose dinamiche strategico-militari che hanno gettato una nuvola sull’ultimo viaggio di Zelensky in Polonia. Tornando a queste, e tenendo conto delle parole dell’ambasciatore polacco in Francia e dei leader dei due Paesi che hanno ribadito la volontà di eliminare ogni confine tra loro, gli osservatori non dovrebbero scartare la possibilità che ciò avvenga.

Variabili dello scenario

In effetti, potrebbe verificarsi prima delle prossime elezioni autunnali, nel caso in cui la conquista di Artyomovsk da parte della Russia la portasse ad attraversare il resto del Donbass, come previsto da Zelensky, il che potrebbe spingere la Polonia a intervenire secondo le condizioni stabilite dal suo ambasciatore in Francia. Le uniche variabili che potrebbero credibilmente controbilanciare questo scenario sono la Russia che continua a fare solo progressi frammentari sul terreno o Kiev che accetta un cessate il fuoco con Mosca prima di riprendere i colloqui di pace.

Le possibilità della prima ipotesi potrebbero essere rafforzate da un afflusso di armi moderne occidentali in Ucraina, mentre quelle della seconda potrebbero essere ridotte dalla Polonia che promette tutto il sostegno necessario a Kiev per non sentirsi costretta dalle circostanze a negoziare con la Russia. È qui che probabilmente risiede lo scopo dell’ultimo viaggio di Zelensky in Polonia, ovvero esplorare esattamente ciò che Varsavia potrebbe fornire in questo senso, per valutare meglio se valga la pena di prenderlo seriamente in considerazione in questo momento cruciale del conflitto.

Rivalutare la richiesta di Duda alla NATO

In un’intervista rilasciata a Le Figaro all’inizio di febbraio, Duda ha lasciato intendere di temere che la Francia possa cercare di mediare un cessate il fuoco, il cui scenario potrebbe essere favorito dal viaggio in corso di Macron in Cina, il cui piano di pace in 12 punti è stato elogiato dal Presidente Putin durante la visita del suo omologo a Mosca il mese scorso. Le dinamiche politiche di questo conflitto sono quindi altrettanto svantaggiose, dal punto di vista comune di Kiev e Varsavia, di quelle strategico-militari, poiché entrambe puntano a un imminente cessate il fuoco.

Questa osservazione aggiunge un ulteriore contesto alla richiesta di Duda che la NATO dia all’Ucraina maggiori garanzie di sicurezza. La sua dichiarazione può ora essere interpretata sia come un’allusione a un prossimo intervento militare polacco (indipendentemente dal fatto che questo sia preceduto dalla formalizzazione della loro confederazione), sia come un suggerimento che tali garanzie potrebbero essere presto estese per rassicurare Kiev del sostegno duraturo del blocco nel caso in cui fosse costretta dalle circostanze ad accettare un cessate il fuoco con la Russia (indipendentemente da chi potrebbe mediarlo).

L’imminente controffensiva ucraina

Il desiderio di Duda che ciò avvenga nei prossimi tre mesi, prima del vertice NATO di inizio luglio, pone una scadenza concreta alla sua richiesta, che coincide con la prevista controffensiva di Kiev. A questo proposito, il precedente rapporto del Washington Post ha mitigato le aspettative sul suo successo, così come l’ultima valutazione dell’ex comandante delle forze terrestri polacche. Waldemar Skrzypczak ha dichiarato ai principali media polacchi che l’Ucraina “non è pronta” per questo e che “ora è il momento dei politici”.

Ai cinici che potrebbero affermare che questo ufficiale in pensione non dispone di informazioni accurate sulle dinamiche strategico-militari del conflitto, va ricordato ciò che il capo di Stato Maggiore in carica delle Forze Armate polacche, il generale Rajmund Andrzejczak, ha dichiarato ai media finanziati pubblicamente a fine gennaio. Ha avvertito che il tempo sta per scadere per Kiev, ha confermato che la potenza militare della Russia rimane ancora formidabile e ha espresso la seria preoccupazione che l’Ucraina possa alla fine essere sconfitta.

Nonostante questa terribile analisi del più alto funzionario militare polacco, che è indiscutibilmente in grado di ricevere le informazioni classificate più aggiornate sulla guerra per procura tra NATO e Russia in Ucraina, Kiev probabilmente tenterà comunque la sua prevista controffensiva. Questo influenzerà a sua volta se la Polonia formalizzerà la loro confederazione de facto e/o interverrà militarmente a suo sostegno, quali garanzie di sicurezza la NATO potrebbe dare a Kiev e se si raggiungerà un cessate il fuoco prima del vertice estivo del blocco.

Riflessioni conclusive

Questo approfondimento porta a concludere che l’ultimo viaggio di Zelensky in Polonia è stato super significativo, in quanto destinato a plasmare il corso della guerra per procura tra NATO e Russia nei prossimi tre mesi. Il ruolo di Varsavia nei prossimi eventi influenzerà fortemente l’operato di Kiev in questo momento cruciale del conflitto, da cui il tempismo con cui il leader ucraino ha deciso di incontrare la sua controparte. Per quanto Zelensky stia pianificando tutto con cura, tuttavia, potrebbe ancora fallire nel ribaltare le sorti della sua parte.

https://korybko.substack.com/p/zelenskys-latest-trip-to-poland-was

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LA DOTTRINA MORAWIECKI: IL PIANO DELLA DESTRA RADICALE POLACCA PER RIORGANIZZARE L’EUROPA, di Valentin Behr

Un discorso fondamentale, quello sostenuto nella “lectio magistralis” del premier polacco Morawiecki all’università tedesca di Heidelberg, il 20 marzo scorso. Da leggere con grande attenzione. Un vero e proprio manifesto del particolare nazionalismo conservatore, riemerso e sempre più radicato purtroppo nel mondo slavo dell’Europa Orientale, ma che ha le punte di espressione più radicale in Polonia e totalitarie e sempre più apertamente nazisteggianti in Ucraina. Un testo che lascia una impronta chiara ed inquietante della direzione che stanno prendendo progressivamente le dinamiche geopolitiche europee, soprattutto grazie all’imprimatur statunitense dato alla costruzione dell’Unione Europea e della NATO a partire dagli anni ’80 ed in particolare dalla caduta del “muro di Berlino” e dall’implosione del blocco sovietico; ma che potrebbe proseguire, come un seme avvelenato, per inerzia, anche dopo un eventuale, se pur al momento improbabile, dissolvimento o rarefazione dell’egemonia statunitense sul suolo europeo. L’intero manifesto, intriso di forzature e manipolazione ottusa delle vicende europee del novecento, è pervaso da un intento polemico apparentemente inconciliabile nei confronti della tecnocrazia della UE in nome della democrazia, resa possibile e garantita dagli stati nazionali europei, e della resistenza all’imperialismo oppressivo ed aggressivo russo. In realtà un atteggiamento antitetico polare alla visione “tecnocratica”, imprescindibile uno dall’altro, in un rapporto simbiotico indispensabile a celare e rimuovere il fondamento comune che giustifica e consente l’esistenza e la crescita di entrambe: il viatico e l’influenza diretta statunitense nelle vicende europee degli ultimi decenni.

Nelle more, una ipoteca definitiva a quel movimento federalista europeo, già sconfitto negli anni ’50 dalla componente funzionalista, il quale, benché anch’esso lautamente foraggiato anche da sponde americane, propugna il sostegno e la trasformazione della Unione Europea in una entità politica autonoma e indipendente.

La giurisdizione europea, il vincolo atlantico, i fondi strutturali, la regolazione del mercato unico sono stati le costanti sommerse che hanno sostenuto la ragione di esistenza della Unione; la guerra in Ucraina, la gestione della pandemia, l’invenzione del catastrofismo ambientale su base antropica la cartina di tornasole rivelatrice. Il manifesto potrebbe essere la pietra tombale di una Unione sempre più ridotta ad un simulacro ornamentale dai disegni statunitensi e dalla litigiosità europea.

Il documento, infatti, fonda le sue posizioni partendo da due assunti: il vicinato, nel corso dei secoli spesso proficuo e solidale, con il mondo tedesco da una parte e dall’altra con la terribile oppressione russa, in realtà sovietica, subita dall’altro versante, nel dopoguerra e incombente, a partire dagli anni ‘90, grazie al ricorrente imperialismo espansionista russo. Le contraddizioni con il primo sarebbero risolvibili facilmente con la soddisfazione dell’ennesima richiesta di risarcimento danni per i crimini compiuti nella seconda guerra mondiale in nome di una amicizia cementata dalle strette relazioni economiche e dalla avversione contro il comune nemico r(o)usso.

Il buon Morawiecki, infatti, glissa elegantemente su quegli antefatti storici scomodi e poco edificanti di una classe dirigente nel 800 tanto prona verso il dominio prussiano e asburgico, quanto romanticamente e inconcludentemente ostile verso la ottusa dominazione zarista e, nel primo dopoguerra, ad indipendenza ottenuta, così impegnata ad aggredire le repubbliche sovietiche e ad emulare, sia pure in competizione, e con il sovrappiù della millanteria propria di quella dirigenza impersonata per un buon periodo dal maresciallo Pilsudski e ancor peggio dalla pletora di formazioni politiche, le nefandezze del regime nazista, fuori e soprattutto dentro il paese; come pure sorvola sul fatto che l’influenza e il dominio sovietico in Europa Orientale non fu solo il frutto della sconfitta militare del nazismo, ma anche di aspettative di emancipazione, interne a quei paesi e, per la verità, rapidamente naufragate dopo timidi tentativi riformatori. Tentativi che conobbero, in chiave “socialdemocratica”, un ultimo sussulto anche dopo la caduta del muro di Berlino, con il timido sostegno della Germania e della Deutschbank, sino a tramontare definitivamente per ragioni interne a quei paesi e, soprattutto, con la pesante e adulante normalizzazione imposta dalla dirigenza statunitense sia in Europa Occidentale che in quella Orientale. È ormai notoria la particolare attenzione, in termini di finanziamenti ed investimenti economici oltre che militari, riservata dalla leadership statunitense, ben corroborata dal sostegno complementare di Unione Europea e Germania, alla nascente classe dirigente polacca e dei paesi baltici. È ormai altrettanto notorio che nei piani militari statunitensi è previsto un pesante intervento diretto solo in caso di crisi destabilizzanti in Italia e Polonia. Da qui il repentino e contestuale allargamento ad est della Unione Europea e della NATO sino all’interno delle vecchie frontiere della Unione Sovietica, comprensivo di installazioni militari offensive a ridosso della frontiera russa e non ostante le pesanti riserve espresse in alcuni importanti dossier depositati negli archivi della UE. Non a caso Morawiecki rivendica, con l’avvento del suo partito, il PIS, nel 2015, la svolta più coerentemente filo-NATO e russofoba affermatasi in Polonia e con essa la coerente adozione di una politica economica ordoliberista, fatta di estrema apertura al mercato e alle aziende estere, di controllo della propria moneta e di scarso welfare.

Come già precisato, l’intero documento poggia su due assunti fondamentali, sostanzialmente corretti, ma giustificati in maniera del tutto fuorviante.

  • Il valore preminente e legittimante degli stati nazionali europei è il primo. In effetti, a dispetto delle teorie che vedevano nella globalizzazione una dinamica di svuotamento e addirittura di estinzione degli stati nazionali, questi ultimi hanno confermato e riaffermato il loro ruolo preminente nelle dinamiche politiche e geopolitiche a prescindere dai regimi particolari che li reggono. Quanto al loro carattere democratico, Morawiecki dovrebbe spiegare la differenza positiva sostanziale tra tanti regimi democratici europei, con le loro limitazioni e forme di controllo e manipolazione crescenti, se non addirittura di aperta discriminazione sociale e delle minoranze etniche rispetto a quello russo.

  • Il carattere tecnocratico del governo, per meglio dire della amministrazione della UE, non è una caratteristica meramente intrinseca di quella struttura, quanto, assieme a quella lobbistica curiosamente glissata dal polacco, derivata soprattutto dal potere effettivo detenuto dal Consiglio Europeo dei capi di governo e dalla influenza diretta e stringente sulla Commissione Europea e sui leader di governo degli stati europei delle leadership statunitensi sull’onda dei vari trattati sottoscritti a partire dagli anni ‘50.

Il carattere fondante di uno stato consiste in realtà nel grado di capacità di esercitare autonomamente la propria sovranità all’interno e all’esterno dei propri confini.

Proprio quella qualità che manca in misura considerevole nelle strutture della UE, negli Stati Europei e in particolare in quelli guidati da centri decisori accecati da un nazionalismo straccione e sciovinista, impossibilitato ad agire senza la longa manus della nazione egemone.

Morawiecki ambisce a diventare il leader; è il rappresentante di punta di questo schieramento e del paese che rappresenta; non per forza propria, ma perché meglio inserito geopoliticamente e politicamente nell’onda russofoba sollevata dalle leadership statunitensi degli ultimi trentacinque anni. Con questo cerca di rompere il possibile asse tra Germania e Russia, con gli occhi del passato potenzialmente deleterio per la Polonia e senza dubbio in linea con i propositi dell’attuale dirigenza statunitense.

L’enfasi attribuita alle radici elleno-romane-cristiane, glissando volutamente su quelle dell’illuminismo della fase emergente e su quelle del particolare romanticismo che tanto ha pesato sul suo paese; l’insistenza sugli impulsi imperiali pluridecennali di una Russia in realtà impegnata in una difesa strenua della propria esistenza, a partire dallo scempio compiuto negli anni ‘90; l’asserita concordia storica con il mondo occidentale, da sancire con l’espiazione del peccato di tradimento degli accordi di Yalta, sono tutti funzionali alla creazione e al mantenimento del blocco occidentale del quale Morawiecki vorrebbe assumere la codirezione nell’agone europeo.

Morawiecki su questo si è guadagnato un altro merito. Quello di aver esplicitato la tendenza, già da tempo in atto, alla formazione in Europa di quattro sfere di influenza, delle quali una, quella mediterranea, del tutto amorfa, l’altra, quella orientale con la funzione di trascinare il resto del continente nella crescente ostilità bellicista verso la Russia e, in tempi più lunghi e modalità differenti, verso la Cina. Il modo più semplice e suicida di lasciare alla attuale leadership statunitense il compito di definire strategie ed avversari e agli europei quello di sostenere sul terreno l’onere dello scontro ai confini della Russia e indirettamente con essa nell’area mediterranea e subsahariana.

Il programma di pesante riarmo dell’esercito polacco assume questa volontà, piuttosto che essere uno strumento di deterrenza per conquistare un ruolo di mediazione e di ponte tra Europa e Russia.

Con esso, il leader polacco ha reso evidente che la Unione Europea è solo una particolare intelaiatura, un campo di azione nel quale si esercitano le attività, le rivalità e gli interessi degli stati nazionali, compresi quelli fondamentali e preponderanti degli Stati Uniti. Non un consesso in grado di garantire l’emancipazione e l’autonomia di un continente uscito prostrato e sconfitto da una guerra di ottanta anni fa.

Vive del dualismo irrisolvibile tra un federatore economico, la Germania e un federatore politico, gli Stati Uniti, del tutto disinteressato ed impossibilitato a compiere l’unificazione politica del continente o il suo assorbimento nella propria unità politica, già, per altro, di per sé problematica. Le conseguenze di questa incompatibilità cominciano ad affiorare velocemente e drammaticamente: sarà il federatore economico a capitolare e ad essere dissanguato; sarà il continente a cadere in una situazione di vassallaggio sempre più remissivo e di caos e avventurismo crescente con il progressivo eventuale allentamento delle redini. Un simulacro amministrativo sempre più appendice dell’entità politica che conta, la NATO, nemmeno più utile ad annichilire i sussulti di autonomia che sorgono ancora qui e là.

Il suo proclama pone anche un’altra questione fondamentale. Il sovranismo è un concetto politico-sociologico necessario ad affermare e confermare l’esistenza delle prerogative degli stati nazionali rispetto alla globalizzazione, alle dinamiche geopolitiche e sociopolitiche.

È una assunzione necessaria, ma del tutto insufficiente.

A seguire e collegate ad esse sono fondamentali le politiche concrete di esercizio di tale sovranità sia all’interno che all’esterno dei confini.

Su questo le politiche straccione nazionaliste e scioviniste prospettate da Morawiecki rappresentano l’antitesi ai propositi di pace nelle relazioni esterne e di giusta coesione sociale all’interno. La Polonia, purtroppo, nella sua storia, è caduta spesso tragicamente vittima delle illusioni e delle millanterie della sua classe dirigente. Non le è evidentemente bastato. Adesso sta provando a trascinare un intero continente in questo precipizio nella connivenza e nella cecità generale.

Tra i conniventi, più o meno consapevoli, per affinità ideologica e per inerzia politica, si può inserire tranquillamente e giocosamente Giorgia Meloni.

La dirigenza polacca ritiene di strumentalizzare a questi fini la stessa potenza egemone; rimarrà ancora una volta vittima delle proprie trame. È il destino delle mosche cocchiere. Buona lettura, Giuseppe Germinario

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LA DOTTRINA MORAWIECKI: IL PIANO DELLA DESTRA RADICALE POLACCA PER RIORGANIZZARE L’EUROPA
A pochi mesi dalle elezioni e a più di un anno dall’invasione dell’Ucraina, il PiS polacco ha una nuova dottrina europea. Traduciamo e commentiamo per la prima volta in francese il “discorso della Sorbona” di Mateusz Morawiecki pronunciato martedì scorso a Heidelberg. Un programma politico da studiare molto attentamente.

AUTORE VALENTIN BEHR

Questa settimana, il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha tenuto un importante discorso all’Università di Heidelberg che non è stato letto abbastanza. Sulla scia dei discorsi sul futuro dell’Unione pronunciati dal presidente francese Emmanuel Macron (alla Sorbona nel settembre 2017) e dal cancelliere tedesco Olaf Scholz (all’Università di Praga nell’agosto 2022). Si tratta di un discorso importante perché, a pochi mesi dalle elezioni polacche, offre il punto di vista di un leader dell’Europa centrale, il cui Paese ha visto rafforzato il proprio ruolo politico all’interno dell’Unione dopo la guerra in Ucraina, qui descritta come una “svolta storica”. Morawiecki espone una visione delle sfide che l’Unione deve affrontare e dei modi per affrontarle, in netto e radicale contrasto con quelle proposte dai suoi omologhi francese e tedesco.

Sua Magnificenza, professor Eitel,

Primo Ministro Kretschmann,

Signore e Signori,

Cari studenti

Grazie per avermi invitato a Heidelberg. È un grande onore per me parlare qui in una delle più antiche università del continente. È un luogo che ha formato decine di generazioni di straordinari europei. Molti grandi tedeschi, naturalmente, ma anche molti polacchi. Uno di loro è stato addirittura rettore.

Heidelberg è una città bellissima, costruita e mantenuta per generazioni. Eppure questa meravigliosa città, che per molti versi è un microcosmo dell’Europa, è stata testimone di molto male, violenza, guerra e atrocità.

Oggi stanno tristemente tornando nel nostro continente.

L’Europa è a una svolta storica. Ancora più grave della caduta del comunismo. Per la maggior parte, questi cambiamenti sono stati pacifici. Oggi, quando il mondo intero è minacciato da una guerra di aggressione russa, ci ricordiamo del periodo di 70 o 80 anni fa.

Oggi voglio parlarvi di quattro questioni fondamentali per il futuro dell’Europa. Dividerò quindi il mio discorso in quattro parti.

In ognuna di queste parti affronterò quella che considero una questione fondamentale, ovvero il ruolo degli Stati nazionali.

Inizierò con un primo tema generale: 1. Cosa ci insegna oggi la storia dell’Europa.

Poi passerò a: 2. L’importanza della lotta dell’Ucraina contro la Russia e le conclusioni che possiamo trarre dalla guerra in Ucraina per l’Europa.

In seguito, affronterò una terza questione: 3. quali sono i valori europei e cosa li minaccia oggi; infine, 4. discuteremo di come l’Europa possa assumere il ruolo di leader mondiale.

Cosa ci insegna la storia dell’Europa.
Se ci chiediamo cosa può insegnarci la storia dell’Europa, vorrei iniziare parlando delle relazioni tra Polonia e Germania.

Siamo vicini da oltre undici secoli. Abbiamo vissuto, lavorato, affrontato e risolto i nostri problemi, non solo fianco a fianco, ma spesso insieme. Abbiamo fondato le nostre prime università nello stesso periodo: a Cracovia nel 1364, a Heidelberg nel 1386. Nel corso dei secoli, ci sono stati molti polacchi di origine tedesca o tedeschi di origine polacca e slava.

Origine slava.

Oggi, polacchi e tedeschi lavorano a stretto contatto dal punto di vista economico, il che crea interdipendenza.

Siamo il quinto partner commerciale della Germania, dopo Cina, Stati Uniti, Paesi Bassi e Francia. Presto saliremo al quarto posto, superando la Francia. Poi arriveremo addirittura al terzo posto.

Molti non lo sanno, ma la Russia è al 16° posto e la Polonia, insieme agli altri Paesi di Visegrad, è oggi un partner molto più importante della Cina e degli Stati Uniti. Vale la pena sottolineare l’importanza che Germania e Polonia rivestono l’una per l’altra. Sebbene abbiamo opinioni diverse su alcune questioni, condividiamo anche molti problemi comuni che devono essere superati insieme.

Morawiecki inizia ricordando l’importanza cruciale della Polonia, e più in generale dei Paesi dell’Europa centrale, come partner economico della Germania, in un contesto in cui è soprattutto la dipendenza di questo Paese (e di altri in Europa) dal gas russo ad essere stata molto commentata dall’inizio della guerra in Ucraina.

Si tratta di relativizzare il carattere presumibilmente periferico – e quindi trascurabile, nel gioco geopolitico e negli scambi economici – dell’Europa centrale rispetto all’Europa occidentale. Sull’importanza degli scambi economici (ineguali) tra i Paesi di Visegrad e i loro vicini europei, si può fare riferimento a Thomas Piketty, “2018, the year of Europe” (16 gennaio 2018).

La Polonia sta lottando ancora oggi con la crudele eredità della Seconda guerra mondiale. Dopo di essa, abbiamo perso la nostra indipendenza, la nostra libertà e più di 5 milioni di cittadini. Le città polacche erano in rovina e oltre mille villaggi furono brutalmente pacificati. Mentre la Germania occidentale ha potuto svilupparsi liberamente, la Polonia ha perso 50 anni del suo futuro a causa della Seconda guerra mondiale.

Non voglio soffermarmi troppo su questo punto nel mio discorso, ma non posso nemmeno evitarlo.

La Polonia non ha mai ricevuto dalla Germania un risarcimento per i crimini della Seconda guerra mondiale, per la distruzione e il furto dei tesori della cultura nazionale.

Dopo tutto, la piena riconciliazione tra l’autore di un crimine e la sua vittima è possibile solo quando c’è un risarcimento. In questo momento cruciale della storia europea, abbiamo bisogno di questa riconciliazione più che mai, perché le sfide che dobbiamo affrontare sono serie.

La storia dell’Europa, con la sua ferita più grande – la Seconda guerra mondiale – ha gettato il mio Paese, come molti altri, dietro la cortina di ferro per quasi mezzo secolo.

Io e i miei coetanei siamo cresciuti, siamo andati a scuola, abbiamo lavorato e studiato all’ombra dei crimini comunisti.

Milioni di giovani europei che vivevano dietro la cortina di ferro sapevano che da una parte c’era la libertà e dall’altra il colonialismo russo; la sovranità per alcuni, la dominazione imperiale per altri.

Da un lato, l’agognata Europa libera. Dall’altra, un totalitarismo barbaro; una vita sotto il tallone della Russia sovietica. Se qualcuno ci avesse detto che saremmo vissuti per vedere la fine del comunismo, non ci avremmo creduto, così come la maggior parte degli esperti occidentali sulla Russia sovietica.

Eppure è successo! Solidarność, la guerra in Afghanistan, Papa Giovanni Paolo II e la ferma posizione degli Stati Uniti nell’era Reagan hanno portato alla caduta del comunismo criminale.

Era arrivato il tempo della democrazia.

Oggi vorrei sottolineare il ruolo della sovranità dello Stato nazionale nel mantenere la libertà delle nazioni. La lotta delle nazioni schiavizzate dell’Europa centrale fu, in sostanza, una lotta per la sovranità nazionale.

Questo tema ha unito tutti i patrioti al di là dello spettro politico, perché eravamo convinti che i nostri diritti e le nostre libertà potessero essere salvaguardati solo nel contesto di Stati sovrani riconquistati.

Con questo richiamo storico, Morawiecki segue la “politica storica” sostenuta dal PiS, che consiste nel difendere la “visione polacca” della storia per rivendicare la grandezza morale in opposizione ai suoi vicini, soprattutto la Germania. Ciò si è recentemente riflesso nelle richieste del governo polacco alla controparte tedesca di riparazioni di guerra per le immense perdite umane e materiali causate dal Terzo Reich alla Polonia durante la Seconda guerra mondiale. Su questa spinosa questione, che il governo tedesco ha liquidato come giuridicamente chiusa, si veda Mateusz Piątkowski, “The legal questions behind Poland’s claim for war reparations from Germany” (Note dalla Polonia, 9 settembre 2022).

Morawiecki presenta inoltre, secondo le interpretazioni apprezzate dal suo schieramento politico, ossia la destra nazionalista e anticomunista, l’esperienza comunista in Polonia come una semplice occupazione sovietica, di fronte alla quale la società polacca si sarebbe sollevata nel suo complesso per poi liberarsi grazie alle mobilitazioni (Solidarność, Giovanni Paolo II) e al sostegno americano (Reagan). Questa visione semplicistica di una storia più complessa affonda le sue radici anche in una storia personale: il padre di Mateusz, Kornel Morawiecki (1941-2019), è stato una figura importante dell’opposizione anticomunista, fondando in particolare l’organizzazione clandestina “Solidarność Walcząca” (“Solidarietà Combattente”) a Breslavia nel 1982, durante lo stato di guerra, dopo che il sindacato Solidarność era stato messo al bando e i suoi leader arrestati.

È in virtù di questa eredità storica, quella di una nazione che ha lottato per tutta la sua storia per l’indipendenza, in particolare contro il totalitarismo nazista e sovietico nel XX secolo, che Morawiecki presenta lo Stato-nazione non solo come caro ai polacchi, ma anche come il principale garante della democrazia di fronte alle tentazioni imperialiste, un argomento che poi sviluppa in relazione all’Unione Europea.

Sulla politica storica in Polonia, rimandiamo a Valentin Behr, “Genèse et usages d’une politique publique de l’histoire. La ‘politique historique’ en Pologne”, Revue d’études comparatives Est-Ouest, vol. 46, n. 3, 2015, nonché al dossier coordinato da Frédéric Zalewski, “La ‘politique historique’ en Pologne. La mémoire au service de l’identité nationale”, Revue d’études comparatives Est-Ouest, vol. 1, n. 1, 2020.

E avevamo ragione. Questo è stato particolarmente evidente nei periodi di crisi sociale ed economica. Anche durante la recente crisi del COVID-19, abbiamo visto che Stati nazionali efficaci sono essenziali per proteggere la salute dei cittadini.

In precedenza, durante la crisi del debito, abbiamo assistito a un chiaro conflitto tra i Paesi dell’Europa meridionale, Grecia, Italia e Spagna, e le istituzioni sovranazionali che prendevano decisioni economiche per loro conto senza un mandato democratico.

In entrambi i casi, abbiamo riscontrato i limiti della governance sovranazionale in Europa.

In Europa, niente potrà garantire la libertà delle nazioni, la loro cultura, la loro sicurezza sociale, economica, politica e militare meglio degli Stati nazionali. Altri sistemi sono illusori o utopici.

Possono essere rafforzati da organizzazioni intergovernative e anche parzialmente sovranazionali, come l’Unione Europea, ma gli Stati nazionali europei non possono essere sostituiti.

Menzionando la crisi del debito sovrano e la crisi di Covid-19 nella sua professione di fede in un’Europa delle nazioni, Mateusz Morawiecki sembra dimenticare di sfuggita gli ingenti fondi di recupero istituiti a livello europeo per far fronte alle conseguenze economiche della pandemia. Il versamento di questi fondi alla Polonia è stato oggetto di un braccio di ferro con la Commissione europea, che ha cercato di usarli come leva per indurre il governo polacco a fare marcia indietro su alcune riforme del sistema giudiziario, accusate di minare lo Stato di diritto. Più fondamentalmente, la sua denuncia di “istituzioni sovranazionali” che operano “senza un mandato democratico” solleva l’annosa e ricorrente questione del rispetto da parte degli Stati membri dei trattati che hanno firmato e ratificato – in particolare con un referendum quando la Polonia ha aderito all’Unione Europea nel 2004. Questo tema è al centro del resto del discorso, quando si parla di valori europei e del futuro dell’Unione.

L’Europa è nata molto prima della Repubblica americana, la cui unità è stata forgiata anche attraverso la guerra civile. Ecco perché è fuorviante fare riferimento a questa analogia storica.

Qualsiasi sistema politico che non rispetti la sovranità altrui, la democrazia o la volontà fondamentale della nazione, prima o poi porta all’utopia o alla tirannia.

È stata l’Europa cristiana a dare vita a una civiltà più rispettosa della dignità umana di qualsiasi altra. Questa civiltà merita di essere protetta. Soprattutto di fronte a civiltà dal cuore duro e sempre più forti, per le quali i valori democratici e liberali non hanno alcuna importanza. Vogliamo costruire un’Europa forte per affrontare le sfide globali del XXI secolo.

Sono le dimensioni dell’Unione europea a renderla una forza significativa nel mondo, non il suo sistema decisionale sempre più incomprensibile. Abbiamo bisogno di un’Europa forte grazie ai suoi Stati nazionali, non di un’Europa costruita sulle loro rovine. Un’Europa del genere non sarà mai forte, perché il potere politico, economico e culturale dell’Europa deriva dall’energia vitale fornita dagli Stati nazionali.

Le alternative sono o un’utopia tecnocratica, che alcuni a Bruxelles sembrano prospettare, o un neo-imperialismo, già screditato dalla storia moderna.

La lotta delle nazioni europee per la libertà non si è conclusa nel 1989. Il nostro confine orientale ne è la migliore testimonianza.

2. Vorrei ora soffermarmi su una questione di vitale importanza per l’Europa: l’Ucraina.

Discuterò l’importanza della lotta dell’Ucraina dal punto di vista dei nostri comuni valori europei. Inoltre, esporrò le conclusioni che dovremmo trarre.

Per cosa combattono davvero gli ucraini oggi? Per cosa sono disposti a rischiare la vita? Perché non si sono arresi immediatamente al secondo esercito più potente del mondo?

La lotta ucraina per il diritto all’autodeterminazione nazionale è un’altra eroica manifestazione di difesa dello Stato nazionale e della libertà. Ma per avere la volontà di combattere, bisogna credere davvero in ciò per cui si combatte.

Oggi gli ucraini non combattono solo per la propria libertà. Dal 24 febbraio 2022, combattono quotidianamente anche per la libertà di tutta l’Europa. Ed è anche il nostro futuro che dipende dall’esito di questa guerra. La sconfitta dell’Ucraina sarebbe la sconfitta dell’Occidente. Anzi, dell’intero mondo libero. Una sconfitta più grande di quella del Vietnam. Dopo una tale sconfitta, la Russia tornerebbe a colpire impunemente e il mondo come lo conosciamo cambierebbe radicalmente. Seguirebbe una lunga serie di pericolose incursioni nell’ignoto. La sconfitta del mondo libero probabilmente incoraggerebbe Putin, proprio come l’acquiescenza degli anni Trenta incoraggiò Hitler.

Morawiecki descrive la lotta ucraina contro gli invasori russi come una lotta civile e politica, con implicazioni che vanno oltre questo conflitto: Gli ucraini stanno combattendo “per la nostra libertà e per la vostra”, per citare uno slogan polacco (“za wolność naszą i waszą”) formulato nel XIX secolo durante le insurrezioni antitsariste, poi ripreso dai combattenti polacchi durante la Seconda guerra mondiale, e che dal 24 febbraio 2022 è tornato di attualità, in particolare nei discorsi ufficiali polacchi e ucraini.

Al di là del simbolismo, si riferisce anche a un immaginario collettivo diffuso nelle società dell’Europa centrale e orientale che temono di essere sacrificate dagli alleati occidentali alla Russia: è il mito di Yalta come “tradimento degli alleati”, da cui le molteplici associazioni nel discorso di Mateusz Morawiecki tra Putin, Hitler e Stalin.

Anche Putin, come Hitler all’epoca, gode di un enorme sostegno pubblico. Non è esagerato dire che siamo di fronte alla minaccia di una terza guerra mondiale. Per evitare questo esito, dobbiamo smettere di alimentare la bestia.

La storia si sta svolgendo sotto i nostri occhi.

Quando i nostri figli leggeranno i libri di scuola, si chiederanno se abbiamo fatto abbastanza per garantire loro un futuro di pace. Abbiamo pensato a loro e al bene a lungo termine dei nostri Paesi o solo alla comodità a breve termine e a rimandare le decisioni difficili a dopo?

Abbiamo imparato dagli errori del passato o continueremo a ripeterli?

Ecco alcune osservazioni su questo punto:

2.1 Perché l’Ucraina è un punto di svolta nella storia europea?

Fino al 24 febbraio avevo sentito dire che Putin non avrebbe attaccato l’Ucraina.

Molti politici europei hanno preferito credergli, sperando che fosse possibile continuare il “Wandel durch Handel” con la Russia a spese dell’Europa centrale.

In questo contesto, torniamo alla domanda: perché gli ucraini combattono? Se fossero interessati solo ai beni materiali e non fossero uniti dal senso di comunità, si sarebbero arresi molto tempo fa.

È su questo che Putin contava. Pensava che gli ucraini avrebbero scelto la pace piuttosto che la libertà. Ma si sbagliava. Qual è stato l’errore del Cremlino? Putin non è un pazzo, come molti di coloro che hanno fatto affari con lui negli ultimi 20 anni vorrebbero far credere. Putin è stato accecato dalla sua visione del mondo. Non ha capito che gli ucraini erano una nazione.

E ora che finalmente hanno il loro Stato nazionale – anche se è tutt’altro che perfetto – sono disposti a sacrificare le loro vite per esso.

La propaganda russa sostiene che non esiste una nazione ucraina separata. Conosciamo tutti il detto: “se i fatti non corrispondono alla teoria, cambia i fatti”. Ecco perché la Russia sta cercando di spiegare agli ucraini, con la forza, che non hanno diritto a un’identità nazionale.

Eppure, sono i nipoti dei soldati che oggi rischiano la vita per un’Ucraina libera che un giorno diranno con orgoglio a scuola: “Mio nonno ha combattuto vicino a Kherson!”, “E i miei hanno respinto l’assalto a Kiev!”, o “Mio nonno è morto a Mariupol”.

E i soldati di oggi, questi futuri nonni, sanno che stanno combattendo anche perché i loro nipoti possano vivere in un Paese libero. Ricordiamo: Una nazione è una comunità di vivi, morti e non nati.

Oggi l’Europa è testimone di crimini commessi in nome di un’ideologia antinazionale. Questo è ciò che motiva Putin: la volontà di eliminare tutte le differenze, di distruggere tutte le identità nazionali e di fonderle nel grande impero russo.

La propaganda russa non ha mai smesso di accusare falsamente gli ucraini di fascismo.

Questo è esattamente ciò che disse Stalin: “Chiamate i vostri avversari fascisti o antisemiti”. È sufficiente ripetere questi epiteti abbastanza spesso.

Bisogna dirlo chiaramente: un fascista è qualcuno che vuole distruggere altre nazioni. È qualcuno che viola i diritti umani e calpesta la dignità umana. Il fascista oggi è Vladimir Putin e tutti i complici dell’aggressione russa. Come europei, abbiamo il dovere di opporci al fascismo russo. Questa è l’identità europea.

Ora…

2.2 Quali lezioni possiamo trarre dalla guerra in Ucraina?

Gli ucraini di oggi ci ricordano cosa dovrebbe essere l’Europa. Ogni europeo ha diritto alla libertà e alla sicurezza individuale. Ogni nazione ha il diritto di prendere decisioni fondamentali sul futuro del proprio territorio.

La democrazia può essere attuata a livello comunale, regionale o nazionale, ovunque vi siano legami basati su un’identità comune. Pertanto, una votazione in cui 140 milioni di russi votassero “a favore” dell’incorporazione dell’Ucraina alla Russia e 40 milioni di ucraini votassero “contro” non sarebbe democratica, no?

Quali altre lezioni si possono trarre da oltre un anno di guerra in Ucraina? Una cosa mi è chiara: la politica di “fare accordi” con la Russia è fallita.

Chi per decenni ha voluto un’alleanza strategica con la Russia e ha reso i Paesi europei dipendenti da essa per l’energia, ha commesso un terribile errore. Coloro che hanno messo in guardia dall’imperialismo russo e hanno ripetutamente affermato che non ci si poteva fidare della Russia avevano ragione.

Coloro che per molti anni hanno finanziato i preparativi bellici della Russia, disarmato l’Europa e imposto ai più deboli una partnership con la Russia, sono corresponsabili politicamente della guerra in Ucraina e degli attuali problemi economici ed energetici di centinaia di milioni di europei.

Putin si è comportato come uno spacciatore che dà la prima dose gratis, sapendo che il tossicodipendente tornerà più tardi e accetterà qualsiasi prezzo. Putin è astuto, ma non è brillante. Se l’Europa ha ceduto a lui così facilmente, è soprattutto a causa della sua debolezza.

Questa debolezza è il perseguimento di interessi particolari a spese di altri Paesi.

Se le singole nazioni dell’Unione Europea cercano di dominare le altre, l’Europa rischia di ricadere negli stessi errori del passato. E tutte le decisioni prese per fermare l’aggressore russo possono essere nuovamente ribaltate. Questo accadrà se alcuni dei Paesi più grandi decideranno che per le loro élite è più redditizio fare affari con il Cremlino, anche a costo del sangue. Oggi è il sangue ucraino. Domani potrebbe essere sangue lituano, finlandese, ceco, polacco, ma anche tedesco o francese… Dobbiamo evitare che questo accada”.

Morawiecki sviluppa qui il nucleo della sua argomentazione sul conflitto in Ucraina, presentando il punto di vista di un leader dell’Europa centrale per il quale la guerra riflette e deriva dalla cecità dei principali leader europei nei confronti della Russia di Putin.

La politica precedentemente denunciata del Wandel durch Handel (o “commercio morbido”), che si basa sullo scambio economico per provocare un cambiamento politico nei regimi autoritari, ha i suoi limiti in questo caso. Se la dipendenza di diverse economie europee dal gas russo riguarda anche la Polonia e i Paesi dell’Europa centrale, i gasdotti del Mar Baltico che collegano la Germania direttamente alla Russia (NordStream) hanno dato l’impressione che gli Stati dell’Europa centrale e orientale siano stati sacrificati agli interessi economici tedeschi. Ciò convalida tragicamente gli avvertimenti di lunga data di diversi leader politici della regione, compresi quelli del PiS.

Oggi, 3. Queste lezioni dovrebbero indurci a porre la domanda fondamentale: quali sono i valori europei e cosa li minaccia? Mi concentrerò ora su questa terza “grande domanda”.

In termini di prosperità materiale, viviamo nei tempi migliori. Ma questa prosperità ha ucciso il nostro spirito? Ci interessa ancora ciò per cui viviamo? Saremmo pronti a difendere le nostre case, i nostri cari, la nostra nazione, se venissero attaccati?

Questa tensione tra il regno dello spirito e quello della materia non è nuova. Dopotutto, ci troviamo nell’università in cui Hegel era professore. In letteratura, pochi hanno affrontato questo problema come il grande Thomas Mann, “la coscienza della Germania” all’epoca dei crimini nazisti tedeschi. Gli eroi di Mann aspirano a un significato più alto della vita, non solo all’accumulo di beni e al loro consumo.

Negli ultimi decenni, molti europei sono arrivati a credere che il consumo, cosparso di affermazioni superficiali sui “valori europei”, sia la fase finale della storia. Noi ci opponiamo a questo approccio. Colpire gli altri con la frusta dei “valori europei” senza concordare sulla loro definizione o capire quali cambiamenti devono essere apportati dagli Stati europei è autodistruttivo, nel senso di Thomas Mann.

In passato, il simbolo dell’Europa era l’antica agorà. Un luogo in cui ogni cittadino poteva esprimersi su un piano di parità. Oggi l’agorà europea è troppo spesso sostituita dagli uffici delle istituzioni di Bruxelles, dove le decisioni vengono prese a porte chiuse.

Come disse una volta un politico europeo a proposito del meccanismo delle istituzioni europee: “Decretiamo qualcosa… Se non ci sono proteste perché la maggior parte delle persone non capisce cosa è stato attuato, continuiamo passo dopo passo – fino al punto di non ritorno”.

La strada per trasformare l’UE in un’autocrazia burocratica è breve.

Oltre alle nuove circostanze geopolitiche, si sta decidendo anche il destino dell’Unione europea. Sarà una comunità democratica o una macchina burocratica e una struttura centralizzata?

La politica è sempre una questione di scelte. Ma questa scelta deve essere fatta alle urne, non nell’intimità degli uffici dei burocrati. Vogliamo davvero un’élite cosmopolita paneuropea con un potere immenso ma senza mandato elettorale?

Il discorso si orienta verso il dibattito sui “valori europei”, che è valso alle cosiddette democrazie “illiberali” di Polonia e Ungheria una procedura di infrazione contro lo Stato di diritto, avviata ai sensi dell’articolo 7 del Trattato sull’Unione europea (TUE). Mateusz Morawiecki denuncia questa procedura, criticando al contempo un’élite “cosmopolita” e burocratica, in un filone simile a quello di altri discorsi euroscettici. La sua argomentazione riecheggia quella del filosofo Ryszard Legutko, europarlamentare del PiS, il cui libro The Demon in Democracy. Totalitarian Temptations in Free Societies (Encounter Books, 2016; tradotto in francese come Le diable dans la démocratie. Totalitarian Temptations in the Heart of Free Societies, Éditions de l’Artilleur, 2021) è stato ampiamente diffuso nelle reti conservatrici internazionali, in Europa e negli Stati Uniti.

Metto in guardia tutti coloro che vogliono creare un superstato governato da una ristretta élite. Se ignoriamo le differenze culturali, il risultato sarà l’indebolimento dell’Europa e una serie di rivolte, forse anche una nuova Primavera delle Nazioni come quella del 1848.

All’epoca, i tedeschi fecero un notevole sforzo per costruire uno Stato unito e moderno. Dovettero aspettare vent’anni per ottenere risultati politici, ma furono vittoriosi. Oggi ci troviamo di fronte a un dilemma simile. Se i leader europei, come gli aristocratici di Metternich dell’epoca, preferiscono il potere elitario e l’imposizione dei loro valori dall’alto, alla fine incontreranno resistenza. Può arrivare prima o poi, ma è inevitabile.

Vale la pena tornare alla domanda di fondo: quali sono i valori europei?

E soprattutto: cos’è l’Europa? La sua storia non è iniziata qualche decennio fa. L’Europa ha più di due millenni. L’Europa si nutre dell’eredità degli antichi greci, dei romani e del cristianesimo. Queste sono le nostre radici, da cui cresciamo e da cui non possiamo staccarci.

Morawiecki promuove una visione dell’Europa come civiltà, una base culturale comune con una storia secolare. Ciò fa eco a una critica della storia ufficiale europea diffusa in Europa centrale, che viene criticata per aver presentato una storia che sopravvaluta l’eredità dell’Illuminismo e stigmatizza le nazioni, a scapito dell’eredità dell’antichità greco-romana e del cristianesimo. Cfr. Piattaforma della Memoria e della Coscienza Europea, “La Casa della Storia Europea. Relazione sull’esposizione permanente”, 30 ottobre 2017.

Una visione simile dell’Europa come identità e patrimonio culturale si ritrova nella destra conservatrice. Pur non essendo una novità, si tratta di una concezione dell’Europa su cui il governo polacco cerca di basare la sua visione di un’Europa delle nazioni, in contrapposizione a un’Europa federale. Si possono citare le riflessioni dello storico belga David Engels, professore all’Instytut Zachodni di Poznan, tra cui il suo “Preambolo di una Costituzione per una Confederazione di Nazioni Europee”, nonché il libro da lui diretto: Renovatio Europae. Plaidoyer pour un renouveau hespérialiste de l’Europe, Éditions du Cerf, 2019.

Non c’è Europa senza cattedrali gotiche o edifici universitari. L’Europa ha sempre volato sulle ali della fede e della ragione. E il modello di istruzione universitaria creato in Europa si è diffuso in tutto il mondo.

Questo è accaduto perché l’università europea era uno spazio di discussione e di confronto tra idee opposte, l’ambiente più favorevole alla scoperta della verità.

In Europa non dovrebbe esserci spazio per la censura o l’indottrinamento ideologico. Lo abbiamo già sperimentato in passato, quando le autorità comuniste ci dicevano cosa pensare. Lo hanno sperimentato anche i tedeschi ai tempi di Hitler, quando i libri degli autori liberi di pensare venivano bruciati.

L’Europa dovrebbe essere una cattedrale del bene e un’università della verità.

Anche in questo caso, va sottolineato che i vari divieti, le decisioni arbitrarie su ciò che può o non può essere presentato all’interno delle mura universitarie e la correttezza politica minano l’eterna missione dell’accademia, ossia la ricerca della verità.

Anche in questo caso ritroviamo una retorica comune alla destra e all’estrema destra, intorno alla denuncia della “correttezza politica” e, più recentemente, del “wokismo”, che costituirebbero minacce alla libertà di espressione, messe qui sullo stesso piano degli autodafé nazisti. A parte la grossolana esagerazione, va notato che, ironia della sorte, sono proprio i governi polacco e ungherese ad aver messo in atto politiche che hanno portato alla riduzione delle opportunità di espressione per i gruppi minoritari (in particolare LGBT) e ad aver condotto campagne contro l'”ideologia di genere”, in particolare nell’istruzione superiore. Si veda David Paternotte e Mieke Verloo, “De-democratization and the Politics of Knowledge: Unpacking the Cultural Marxism Narrative”, Social Politics: International Studies in Gender, State & Society, vol. 29, n. 3, 2021.

Inoltre, questi discorsi hanno alcune convergenze con quelli di Vladimir Putin, che viene eretto a eroe “anti-sveglio” celebrato da una parte della destra trumpista americana. L’argomentazione di Morawiecki a favore dei valori europei “democratici” e “liberali” trova qui i suoi limiti pratici, poiché l’ideologia nazional-conservatrice del suo schieramento politico è l’antitesi dei valori europei, come definiti nell’articolo 2 del TUE: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.

Così come proteggiamo il nostro patrimonio materiale, dovremmo proteggere anche il nostro patrimonio spirituale, che consiste in decine di tradizioni culturali e linguistiche diverse. La forza dell’Europa nel corso dei secoli è stata la sua diversità. Condividiamo valori comuni, ma ogni nazione ha la propria identità.

Gleichschalten, uravnilovka, è una strada che non porta da nessuna parte.

Germania e Francia sono due attori centrali in Europa.

Nei 75 anni tra il 1870 e il 1945 hanno combattuto tre guerre e solo dopo l’ultima si sono riconciliate.

Questa riconciliazione sta ora dando i suoi frutti nella speciale relazione politica tra Berlino e Parigi. Questa particolare sensibilità reciproca alle logiche e alle sensibilità delle due capitali è nata da un passato tragico.

Nell’interesse dell’equilibrio europeo, ma anche a causa di un passato molto più tragico, è necessario lo stesso modello di sensibilità reciproca alle logiche e agli interessi di Varsavia. Oggi, a Varsavia non avvertiamo questa sensibilità.

Le basi per questa riconciliazione sono state gettate da due grandi europei, Charles de Gaulle e Konrad Adenauer. Entrambi volevano costruire una pace duratura in Europa.

Essi compresero che il rispetto reciproco e la conoscenza delle radici dell’altro erano i presupposti per la cooperazione. Il Cancelliere Adenauer disse: “Se ora ci allontaniamo dalle fonti della nostra civiltà europea, nata dal cristianesimo, è impossibile per noi non fallire nei nostri sforzi di ricostruire l’unità della vita europea. Questo è l’unico modo efficace per mantenere la pace”.

Anche il generale de Gaulle era profondamente consapevole del grande patrimonio culturale dell’Europa e degli orrori della “guerra interna”. De Gaulle disse: “Dante, Goethe, Chateaubriand appartengono all’Europa in quanto erano rispettivamente ed eminentemente italiani, tedeschi e francesi. Non sarebbero stati molto utili all’Europa se fossero stati apolidi e se avessero pensato e scritto in una sorta di Esperanto o Volapük.

La nostra identità di base è l’identità nazionale. Io sono europeo perché sono polacco, francese o tedesco, non perché rinnego la mia poligonalità o germanizzazione.

L’odierno tentativo europeo di eliminare questa diversità, di creare un uomo nuovo, sradicato dalla sua identità nazionale, equivale a tagliare le radici e a segare il ramo su cui siamo seduti.

Attenzione: possiamo cadere facilmente – culture forti e dure dittature in altre parti del mondo non aspettano altro. Sarebbero certamente felici di vedere l’Europa cadere nell’insignificanza.

Vorremmo che tutti gli europei dimenticassero le loro lingue e parlassero solo il Volapük? Io non lo vorrei.

Alcuni cercano di negare il contributo dell’Europa allo sviluppo del mondo perché vedono solo il lato oscuro della storia. In effetti, i Paesi responsabili dello sfruttamento, del colonialismo, dell’imperialismo e di crimini terribili – come il nazismo tedesco e il comunismo russo, come i crimini commessi nelle colonie – devono fare ammenda per il proprio passato.

Questo fa parte del nostro DNA europeo: la ricerca della verità e della giustizia. Ma l’Europa storica non è solo fonte di vergogna per noi. Lo sviluppo scientifico e la straordinaria prosperità di oggi sono, si potrebbe dire, il frutto dell’Europa.

La via da seguire per l’Europa non è nemmeno la “mondializzazione politica”. Essa deve basarsi sulla propria diversità. Il tentativo di unificare artificialmente l’Europa in nome dell’abolizione delle differenze nazionali e politiche porterà in pratica al caos e al conflitto tra gli europei.

È la cooperazione combinata con la competizione il modo migliore per l’Europa di avere successo nel mondo globale.

Milioni di persone provenienti da tutto il mondo visitano ogni anno Parigi, Roma, Colonia, Madrid, Cracovia, Londra o Praga. La ricchezza di queste belle città e il loro potere di attrazione risiedono nel fatto che ognuna di esse ha una propria identità.

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Non vogliamo un’Europa che dia un ultimatum: rinunciate volontariamente alla vostra nazionalità o eserciteremo su di voi ogni tipo di pressione politica ed economica.

La Polonia ha accolto milioni di rifugiati negli ultimi mesi. Gli ucraini hanno trovato rifugio da noi. La nostra concezione dei valori europei comprende certamente il sostegno al vicino in difficoltà. Tuttavia, abbiamo ricevuto solo un aiuto minimo. In questo contesto, vediamo differenze di trattamento tra Paesi che si trovano nella stessa situazione, il che è la definizione stessa di discriminazione.

Mentre la Polonia è stata in prima linea nel fornire armi all’Ucraina e nell’accogliere i rifugiati ucraini, il che ha contribuito ad appianare le sue divergenze con la Commissione europea, l’Ungheria di Viktor Orban sta lottando per prendere le distanze da Putin. L’enfasi posta da Mateusz Morawiecki sull’accoglienza dei rifugiati ucraini in Polonia non deve far dimenticare che, pochi mesi prima dello scoppio della guerra in Ucraina, il governo polacco si era fatto un nome per la sua intransigenza poco ospitale (e poco cristiana, si sarebbe tentati di aggiungere) quando i rifugiati provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa centrale si ammassavano al confine tra Polonia e Bielorussia.

Vietando l’accesso ai media e alle ONG nella zona di confine – le stesse ONG che ora svolgono un ruolo centrale nell’accoglienza dei rifugiati ucraini – e praticando il metodo del “respingimento”, il governo polacco si è posto ancora una volta in contrasto con i trattati europei. Alla luce di questa politica dei rifugiati a due livelli, che distingue tra europei e non europei, cristiani e musulmani, il seguente passaggio sulla “discriminazione” di cui la Polonia sarebbe vittima è indecente.

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La Polonia subisce questa discriminazione anche a causa di una totale mancanza di comprensione delle riforme che un Paese emergente dal post-comunismo doveva intraprendere; a causa del coinvolgimento delle istituzioni europee nei conflitti interni di uno Stato membro con lo slogan di “difendere lo Stato di diritto”.

Vorrei sottolineare che in Polonia abbiamo la stessa concezione del termine “Stato di diritto” che abbiamo in Germania. E ci sono poche cose di cui sono sicuro come il fatto che il mio schieramento politico difende il vero Stato di diritto in misura molto maggiore rispetto ai primi 25 anni dopo il 1989.

Combatte contro l’oligarchia, contro il dominio delle corporazioni professionali chiuse, contro la povertà e contro la corruzione. Protegge la Polonia da questi mali. Ma poiché questo non è l’argomento principale della mia discussione, mi fermo qui.

Morawiecki giustifica qui le famose riforme del sistema giudiziario e della magistratura che sono valse alla Polonia una procedura di infrazione dello Stato di diritto.

Possiamo ricordare brevemente le principali misure adottate dal governo polacco dal 2015, che sono tutt’altro che aneddotiche poiché minano la separazione dei poteri: nomine di fedelissimi del PiS alla Corte costituzionale; nomina di membri del Consiglio giudiziario nazionale (competente per la nomina dei giudici) sotto il controllo del Parlamento; pensionamento forzato dei giudici della Corte suprema; licenziamento di oltre 150 presidenti e vicepresidenti di tribunale da parte del ministro della Giustizia; istituzione di una nuova camera disciplinare per i giudici della Corte suprema, i cui membri sono selezionati dal Consiglio nazionale della magistratura; avvio di procedimenti disciplinari contro i giudici che applicano alcune disposizioni del diritto europeo o che sottopongono questioni preliminari alla Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE).

La CGUE ha ripetutamente condannato queste riforme, che continuano a essere utilizzate per trasferire o licenziare i giudici. Cfr. Johannes Vöhler, “I ‘casi polacchi’ e la giurisprudenza sullo Stato di diritto della Corte di giustizia dell’Unione europea”, Europa dei diritti e delle libertà, marzo 2022/1, n. 5.

Inoltre, recenti sentenze della Corte costituzionale hanno stabilito che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il Trattato sull’Unione europea sono solo parzialmente compatibili con la Costituzione polacca. Questa sfida al principio del primato del diritto dell’UE mina la struttura giuridica su cui si fonda l’integrazione europea.

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In un senso più profondo, il conflitto odierno è tra sovranità statale e sovranità istituzionale; tra il potere democratico del popolo alla base e l’imposizione del potere dall’alto da parte di una ristretta élite.

Nei duemila anni di esistenza dell’Europa, nessuno è mai riuscito a subordinare politicamente l’intero continente. Non funzionerà nemmeno oggi.

La visione di un’Europa centralizzata finirà esattamente come il concetto di fine della storia annunciato 30 anni fa. Prima ci allontaniamo da questa visione e accettiamo la democrazia come fonte legittima di potere in Europa, migliore sarà il nostro futuro.

A proposito, non c’è nessuna fine della storia. La storia accelera e porta sfide di proporzioni illimitate.

L’opposizione tra la sovranità degli Stati e quella delle istituzioni europee, tra il voto democratico del popolo e l’élite cosmopolita, riflette una concezione minimalista della democrazia, come quella difesa da Viktor Orban. Una democrazia puramente formale in cui conta solo la volontà della maggioranza espressa attraverso le elezioni, senza pesi e contrappesi, senza gerarchie di norme e senza libertà fondamentali che possano essere opposte alla volontà dei governanti che, in questa concezione della democrazia, non hanno nulla che impedisca loro di trasformarsi in tiranni.

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Purtroppo, gran parte dell’attuale élite europea opera in una realtà alternativa.

Se le élite dell’UE si ostinano a difendere la visione di un superstato centralizzato, saranno contrastate da un numero maggiore di nazioni europee. Quanto più si ostinano, tanto più feroce sarà la ribellione. Non voglio polarizzazione, divisione e caos; voglio un’Europa forte e competitiva.

4. Passiamo ora all’ultima grande questione: come può l’Europa diventare un polo importante nella corsa alla leadership globale?

Innanzitutto, le politiche dell’Unione devono cambiare. Non nella direzione di una maggiore centralizzazione e di un trasferimento di potere a poche istituzioni chiave e ai Paesi più forti, ma verso il rafforzamento dell’equilibrio di potere tra i popoli del Nord, dell’Ovest, del Centro, dell’Est e del Sud dell’Europa, e per completare l’integrazione dell’UE con i Balcani occidentali, l’Ucraina e la Moldavia, in linea con i confini geografici dell’Europa.

È necessario chiedersi: quanto seriamente prendiamo la questione della costruzione di un’Unione europea forte e influente?

Oggi l’europeismo si esprime nella visione dell’allargamento, non nell’attenzione a noi stessi e alla centralizzazione dell’UE.

Curiosamente, i Paesi che amano presentarsi come europeisti e proporre un’integrazione ad alta velocità sono allo stesso tempo i più scettici nei confronti della politica di allargamento e giocano a poker politico.

Non dovremmo parlare dei valori che uniscono l’UE dividendo l’Europa in coloro che meritano di farne parte e coloro a cui è negato l’accesso.

Un mercato comune più ampio e la diversità delle sue risorse economiche ci renderebbero un forte attore globale.

Spesso sento dire che l’UE ha bisogno di riforme per allargarsi. Molto spesso si tratta di una proposta mascherata di federalizzazione e, di fatto, di centralizzazione.

Infatti, lo slogan della “federalizzazione” è una concentrazione del processo decisionale imposta dall’alto.

Secondo gli autori di questa centralizzazione chiamata “federalizzazione”, il processo decisionale deve passare dall’unanimità alla maggioranza qualificata in una serie di nuovi settori. L’argomento a favore di questa soluzione è che sarà difficile ottenere l’unanimità di più di 30 Paesi.

È vero che è più difficile ottenere un parere unificato all’interno di un gruppo più ampio di Stati. Tuttavia, la domanda è: dobbiamo pensare che le decisioni debbano essere prese dalla maggioranza, contro gli interessi della minoranza?

Mateusz Morawiecki sostiene un riequilibrio geopolitico dell’Unione a favore degli Stati dell’Europa centrale e orientale, giustificato dalla guerra in Ucraina e dalla prospettiva (ancora molto ipotetica) di un’adesione di questi ultimi all’Unione. Questa posizione si accompagna a una messa in discussione dei progetti di federalizzazione (“centralizzazione”), come quelli avanzati da Scholz e Macron con l’idea di abbandonare il voto all’unanimità in alcuni settori – a favore di una concezione opposta, quella di un’Unione più intergovernativa, ancora una volta in nome della sovranità degli Stati nazionali, presumibilmente democratica.

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Ho un’altra proposta da fare: asteniamoci dall’invadere questioni in cui l’interesse nazionale rimane diviso. Facciamo un passo indietro per farne due avanti. Concentriamoci sui settori in cui il Trattato di Roma ha attribuito all’Unione la competenza e lasciamo che il resto sia guidato dal principio di sussidiarietà.

Da diversi decenni osserviamo il processo di “spill-over” delle competenze dell’UE in nuovi settori. In molti Stati membri viene valutato criticamente. Tuttavia, di recente ha subito un’accelerazione.

La questione della misura in cui gli Stati rimangono “padroni del trattato”, come ha detto una volta la Corte costituzionale di Karlsruhe, è ancora più rilevante oggi.

Pertanto, se l’UE vuole apportare modifiche al suo processo decisionale che abbiano legittimità democratica e permettano la fiducia reciproca, gli Stati membri devono riacquistare la loro piena autorità sui trattati.

Non possono abbandonare il potere decisionale al “quartier generale di Bruxelles” e alle “coalizioni di potere”.

In altre parole, rivediamo i settori di competenza di Bruxelles e, guidati dal principio di sussidiarietà, ripristiniamo un maggiore equilibrio. Più democrazia, più consenso, più equilibrio tra gli Stati e le istituzioni europee. Riduciamo il numero di aree di competenza dell’UE; allora l’Unione, anche con 35 Paesi, sarà più facile da navigare e più democratica.

Più centralizzazione significa più errori. È stato un errore non ascoltare le voci dei Paesi che avevano ragione su Putin. Questo dà potere a persone come Gerhard Schroeder, che ha reso l’Europa dipendente dalla Russia e ha messo l’intero continente a rischio esistenziale”.

Morawiecki si riferisce al ruolo svolto dall’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder che, dopo la fine della sua carriera politica, ha assunto la direzione del consorzio incaricato della costruzione del gasdotto NordStream ed è entrato nel consiglio di amministrazione della società russa Gazprom.

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Un esempio: solo pochi mesi fa, nel giugno 2021, si parlava di celebrare la riunione del Consiglio europeo con Vladimir Putin. Come se per allora non ci fosse stata alcuna azione aggressiva da parte della Russia. Dove saremmo senza l’opposizione di Polonia, Finlandia e Stati baltici? Se l’unanimità fosse stata rifiutata?

La politica estera polacca – in questo contesto – è decisa in elezioni democratiche dai cittadini polacchi – persone per le quali un vicino aggressivo è un problema reale. Non si tratta di persone che vivono a migliaia di chilometri di distanza e che vedono la Russia solo attraverso il prisma delle opere di Pushkin, Tolstoj o Tchaikovsky.

Oggi non basta parlare di ricostruzione dell’Europa. Dobbiamo parlare di una nuova visione dell’Europa. In modo che la pace e la sicurezza diventino le basi sostenibili dello sviluppo nei decenni a venire.

Se gli ultimi mesi possono essere considerati un successo, è certamente grazie alla cooperazione nel campo della sicurezza.

La cooperazione transatlantica e la NATO in particolare hanno dimostrato di essere la più efficace alleanza di difesa disponibile. Senza il coinvolgimento degli Stati Uniti e – forse – della Polonia, l’Ucraina oggi non esisterebbe.

La NATO, che presto sarà rafforzata dall’adesione di Finlandia e Svezia, è essenziale per la sicurezza dell’Europa. Deve essere rafforzata e sviluppata. Allo stesso tempo, dobbiamo sviluppare le nostre capacità di difesa. Questo è ciò che sta facendo la Polonia. Stiamo costruendo un esercito moderno, non solo per difenderci, ma anche per aiutare i nostri alleati. Stiamo spendendo fino al 4% del PIL per la difesa, il che è possibile solo grazie alle riparazioni delle finanze pubbliche dopo i buchi lasciati dai nostri predecessori. E proponiamo che la spesa per la difesa non sia inclusa nel criterio del Trattato di Maastricht che prevede un limite del 3%.

L’Europa si è disarmata; oggi non ha le munizioni e le armi di base per rispondere all’invasione russa. Per non parlare di altre minacce che potrebbero sorgere altrove.

Il mio augurio per i Paesi europei è di essere così forti militarmente da non aver bisogno di aiuti esterni in caso di attacco, ma di poter fornire supporto militare ad altri.

Oggi non è così. Senza il coinvolgimento americano, l’Ucraina non esisterebbe più. E il Cremlino sarebbe passato alla sua prossima vittima.

Durante la “distensione” degli anni Settanta sono stati commessi molti errori. Quell’epoca finì con l’invasione sovietica dell’Afghanistan. L’Occidente reagì correttamente. Questa volta, l’aggressione russa degli ultimi 20 anni non ha destato altrettanta preoccupazione. La sobrietà è arrivata tardi, il 24 febbraio 2022.

Ora, 4.1 cosa serve ancora per rafforzare la posizione dell’Europa?

Tutti ricordiamo lo slogan della campagna elettorale di Clinton: “È l’economia, stupido!”.

All’epoca, quasi tutti credevano che il denaro fosse un rimedio universale.

Anche in Paesi come la Russia e la Cina, il denaro avrebbe aiutato a sviluppare la classe media e a democratizzare la vita pubblica.

Le cose sono andate diversamente. Oggi sappiamo che l’economia deve andare di pari passo con i desideri sociali e le esigenze di sicurezza.

Molti dei problemi dell’Europa moderna derivano dalla frustrazione dei giovani, le cui prospettive future spesso non sono all’altezza di quelle dei loro genitori. La classe media si sta erodendo in tutta Europa. Un mondo in cui l’1% più ricco accumula più ricchezza del restante 99% è scandaloso. Ed è quello che sta accadendo oggi.

I paradisi fiscali, che sarebbe più corretto chiamare “inferni fiscali”, stanno derubando la classe media e i bilanci pubblici di Germania, Francia, Spagna e Polonia.

La forza dell’Europa deriva principalmente dalla sua base più solida, la sua robusta classe media. La convinzione che la prosperità e la crescita possano essere condivise non solo da un gruppo di ricchi, ma dall’intera società, è stata la forza trainante dello sviluppo occidentale fin dagli anni Cinquanta.

Purtroppo, questa convinzione sta scomparendo e le disuguaglianze stanno aumentando. Questa situazione è molto pericolosa perché, da un lato, rafforza i movimenti radicali che chiedono la distruzione dell’attuale struttura economica e politica. Dall’altro, scoraggia il lavoro e lo sviluppo.

Dobbiamo invertire questo processo. Perché rischiamo di perdere la corsa a favore dei nostri concorrenti, civiltà incallite e intransigenti che organizzano le relazioni sociali ed economiche in modo diverso.

Il nostro compito di politici è quello di garantire a tutti una vita onesta. Il mercato del lavoro europeo deve offrire salari dignitosi, facilitare l’ingresso dei giovani nella vita lavorativa e dare loro un senso di stabilità.

Dobbiamo anche creare le migliori condizioni possibili per la creazione di famiglie. Allora l’Europa avrà un futuro luminoso. Le famiglie ben funzionanti sono la base per una vita sana, felice e stabile.

Dobbiamo anche evitare che l’Europa diventi dipendente da altri. La cooperazione con la Cina è una grande sfida. È un Paese enorme con grandi ambizioni. L’Europa deve, come minimo, essere su un piano di parità con la Cina, il suo partner. La dipendenza dalla Cina è una strada che non porta da nessuna parte. È un obiettivo che l’Europa deve cercare di raggiungere con urgenza. Oltre alla vittoria dell’Ucraina, questa è un’altra grande sfida per gli anni a venire.

Non esistono errori che non possano essere corretti, almeno in parte. Quando sento che il nostro governo ha avuto ragione su Russia e Ucraina, sono soddisfatto. Ma scambierei volentieri anche il più grande senso di soddisfazione con la volontà europea di combattere.

Per una volontà politica ancora più forte – di continuare a sostenere l’Ucraina. E per la volontà di confiscare 400 miliardi di euro di beni russi. Congelarli non è sufficiente. La Russia deve rispondere dei suoi crimini e della distruzione materiale che ha causato. I brutali aggressori devono sapere che prima o poi il loro Paese pagherà per le perdite causate dalla violenza.

Oggi rivolgo un nuovo appello a tutti i leader europei: è tempo di confiscare i beni russi in modo totale e permanente. Ricostruire l’Ucraina e ridurre i costi energetici per i cittadini europei.

L’Europa è molto più forte della Russia. Ma oltre al nostro potenziale, dobbiamo avere la volontà di usarlo. Se lasciamo che la Russia vinca questa guerra, rischiamo di non perdere solo l’Ucraina. Rischiamo di emarginare l’intero continente.

La conclusione di fondo è semplice. Nel mondo contano solo i Paesi forti, efficienti e sicuri di sé. Putin ha attaccato l’Ucraina perché vedeva gli europei esausti, deboli e inattivi. Un anno dopo, vediamo che si sbagliava. Almeno in parte.

L’Europa non è ancora morta, finché vivremo. Ma non è ancora vittoriosa.

Il riferimento è all’inno nazionale polacco: “Jeszcze Polska nie zginęła, kiedy my żyjemy” (“La Polonia non è ancora morta, finché viviamo”).

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Signore e signori, all’inizio ho ricordato che anche molti polacchi si sono laureati all’Università di Heidelberg: medici, avvocati, filosofi. Uno di loro era il nostro grande poeta, Adam Asnyk. Nella primavera del 1871, proprio nel momento in cui stava nascendo la Germania unificata, anche Asnyk sognava di far rinascere una Polonia indipendente. Capì che i grandi compiti potevano essere portati a termine solo attraverso un lavoro paziente e sistematico, grazie allo sforzo collettivo di tutta la comunità. Scrisse:

“Disprezzate sempre la vana gloria trionfale,

non applaudire l’oppressore violento

Non venerate l’abbondanza delle vostre sconfitte,

né vantatevi di essere sempre piccoli”.

L’Europa deve dimostrare la sua forza e il suo valore. Questo è il nostro momento di “essere o non essere”. Ma, a differenza dell’Amleto di Shakespeare, non possiamo esitare. Nel 1844, quando la Germania assomigliava ancora alle rovine del castello di Heidelberg – imponente ma incompleto – il poeta tedesco Ferdinand Freiligrath ammoniva: “Deutschland ist Hamlet! I tedeschi esitano troppo invece di prendere una posizione chiara dalla parte del bene”.

Giovanni Paolo II è stato uno dei principali sostenitori dell’unificazione europea. Ha svolto un ruolo chiave nella liberazione delle nazioni europee. E insieme al suo grande successore tedesco, Benedetto XVI, questo singolare duo tedesco-polacco è stato una voce importante per il futuro dell’Europa – la sua direzione, la sua cultura e la sua civiltà.

Infine, permettetemi di riassumere le quattro questioni principali che sono state oggetto del mio discorso.

1. In primo luogo, non possiamo costruire il nostro futuro senza imparare dal nostro passato. La storia dimostra che una politica che non rispetta la sovranità e la volontà del popolo prima o poi si dissolve in utopia o dittatura. L’Europa ha un futuro luminoso se rispetta la diversità delle sue nazioni.

2. In secondo luogo, il futuro dell’Europa è determinato dalla lotta dell’Ucraina per la libertà e dal nostro sostegno. È nostro dovere sostenere l’Ucraina. Lo spirito combattivo degli ucraini deve essere una fonte di ispirazione e una guida per le nostre azioni.

3. In terzo luogo, una comunità democratica di nazioni, basata sull’eredità greca, romana e cristiana, che promuove la pace, la libertà e la solidarietà, è il fondamento dei valori europei. Questi valori hanno costituito la base dell’integrazione europea e possono continuare a essere la forza trainante del continente.

Ciò che minaccia di minare queste forze è la centralizzazione. Il dominio del più forte e l’affidamento arbitrario del futuro dell’Europa a una burocrazia senza cuore, che sta cercando di “resettare i valori”. Questo “reset”, cioè l’accentramento burocratico sotto l’apparenza della “federalizzazione”, è il seme dei grandi conflitti e delle ribellioni sociali che verranno.

4. In quarto luogo, se l’Europa vuole vincere la corsa alla leadership globale, deve trasformarsi. Deve essere pronta ad accettare nuovi Paesi ma anche, di fronte a una comunità più ampia, a limitare alcune delle sue competenze.

Di fronte alle minacce esterne, deve rafforzare le proprie capacità difensive. Di fronte alle sfide economiche e sociali, deve costruire una prosperità egualitaria e ordoliberale e lottare contro gli inferni fiscali mascherati da paradisi fiscali.

L’Europa deve mantenere alleanze solide, ma deve anche promuovere la propria indipendenza e non diventare vittima di ricatti energetici o economici.

Un tempo l’Europa era il centro del mondo, rispettata in tutti i continenti. Ci interessa ancora la sopravvivenza dell’Europa e della nostra civiltà? E non solo se sopravviveranno, ma in quale forma? Abbiamo la volontà di essere leader? O forse abbiamo già accettato di fare da secondo piano? Abbiamo il coraggio di far tornare grande l’Europa? Di rendere l’Europa vittoriosa?

Io credo di sì.

L’Europa ha un grande potenziale. Esso deriva dalla sua storia e dal suo patrimonio, ma oggi si estende alle sue innumerevoli qualità e vantaggi. L’Europa ha bisogno di determinazione e coraggio.

E sono profondamente convinto che se lavoreremo duramente – a nome delle nostre rispettive patrie e del continente nel suo complesso – l’Europa vincerà.

In conclusione, questo è il discorso di un capo di governo polacco la cui posizione nel gioco politico europeo sembra essere stata temporaneamente rafforzata dalla nuova situazione aperta dalla guerra in Ucraina.

Lo scoppio della guerra ha convalidato il punto di vista tradizionalmente diffidente del PiS nei confronti della Russia. La richiesta di un riequilibrio dei rapporti di forza tra gli Stati europei a favore dell’Europa centrale, e in particolare della Polonia, non nasconde il timore di un “accordo” tra i leader europei (guidati da Macron) e Putin, che ricorderebbe ai polacchi il “tradimento di Yalta”. Questo timore di vedere i Paesi dell’Europa centrale e orientale relegati ai margini e sacrificati a vantaggio delle potenze occidentali e russe dovrebbe farci interrogare sulla natura della costruzione europea e sul modo in cui essa integra questa periferia centro-orientale, che vi ha aderito quasi vent’anni fa. Per liberarci da una visione geopolitica ereditata dalla Guerra Fredda, dovremmo prendere sul serio le aspirazioni sovrane delle nazioni poste tra la Germania e la Russia. Questo è l’aspetto più rilevante, ma anche il più inquietante, del discorso di Morawiecki. Ciò non significa, tuttavia, che si debba aderire all’ideologia nazionalista, conservatrice, familista e nativista dell’autore, che è evidente in questo testo. È dubbio che il governo polacco sarà in grado di unire un’ampia coalizione di Stati europei attorno a un’agenda politica di questo tipo. Resta il fatto che l’attuale governo polacco si oppone fermamente a qualsiasi progresso verso un’Europa più federale e potrebbe coalizzare l’opposizione a tale processo, che riflette ancora una volta una certa paura di essere relegati in un’Europa a più velocità.

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L’Europa sarà vittoriosa!

Grazie per l’attenzione.

https://legrandcontinent.eu/fr/2023/03/26/le-projet-europeen-de-la-pologne/

Politiche UE e Interessi Nazionali Italiani, di Piergiorgio Rosso

Politiche UE e Interessi Nazionali Italiani (di Piergiorgio Rosso)

 

In questo inizio d’anno sono emerse tutte insieme all’attenzione della cronaca italiana numerose decisioni dell’UE relative alla svolta energetica e ambientale. Il denominatore comune è: de carbonizzazione. Produzione di elettricità unicamente da fonti rinnovabili, riconversione dell’industria automobilistica alla produzione di veicoli a batteria, incremento della classe energetica degli edifici residenziali e non, riconversione dell’industria agro-alimentare con abbandono progressivo degli allevamenti di ovini, suini e bovini.

 

Nel merito della questione de-carbonizzazione abbiamo già preso posizione più volte in questo blog, ad esempio qui e qui. In questa nota ci concentreremo su alcuni aspetti delle prese di posizione dell’attuale governo italiano nei confronti delle summenzionate proposte UE.

 

Nel merito tecnico è difficile contestare la correttezza degli argomenti utilizzati. Esaminiamoli brevemente e sinteticamente uno per uno.

 

Veicoli a batteria (BEV) vs. bio-combustibili: fintantoché l’elettricità non sia prodotta al 100% da fonti rinnovabili anche l’utilizzo di BEV comporta emissioni. Al raggiungimento eventuale ….  molto eventuale … di questo obiettivo, l’estrazione e la raffinazione dei metalli necessari per le batterie comporterà continue emissioni aggiuntive. D’altra parte i bio-combustibili già da ora dovrebbero essere considerati “neutrali” in quanto la loro combustione emette la stessa quantità di CO2 precedentemente inglobata dalla biomassa attraverso la fotosintesi.

 

Classe energetica degli edifici: obbligare tutti alla medesima classe energetica – espressa in kWh al m2/anno – non ha molto senso. Le sensibili differenze climatiche fra Europa del nord e del sud fanno sì che anche con una classe energetica inferiore, le emissioni effettive annue di una residenza/ufficio da Roma in giù, possano essere minori di quelle di un edificio di classe superiore da Amburgo in su.

 

Eliminazione degli allevamenti intensivi: dal punto di vista delle emissioni ogni animale emette tanto carbonio quanto precedentemente catturato dall’atmosfera dalla biomassa di cui si ciba.

 

Ma allora se le argomentazioni tecniche sono a favore della posizione espressa dai ministri italiani, come mai queste non prevalgono? Chissà forse c’entra la Politica nel senso lagrassiano del conflitto fra nazioni per la supremazia. Certo qui in Europa non parliamo certo di poteri globali in alcuna sfera, ma più limitatamente e prosaicamente alla supremazia per la distribuzione dei sussidi UE (che sono poi risorse messe a disposizione dalle nazioni secondo certe quote e poi redistribuite internamente secondo …. i rapporti di forza). E che la Germania stia indirizzando queste risorse verso i suoi interessi nazionali, appare evidente ai più.

 

Per gli interessi nazionali italiani non c’è molto spazio fintantoché i ministri non costruiscano dal nulla esistente, una rete di funzionari lobbisti abili almeno quanto quelli tedeschi e francesi. Temiamo però che anche in questo caso non otterremmo soddisfazione. Una nuova classe dirigente non dovrà essere solo abile nelle trattative tra Commissione, Consiglio e Parlamento europei, ma dotata di una ben radicata autonomia ideologica rispetto ad una UE ancora concepita prevalentemente, sia a destra che a sinistra, come il luogo dove si prendono le decisioni.

 

Occorre prima sapere esercitare un confronto autonomo bilaterale fra nazioni, per noi soprattutto Francia e Germania, ristabilendo la corretta gerarchia degli interessi e dei poteri (sempre relativi perché siamo comunque tutti vassalli degli USA).

 

Per ora accontentiamoci della possibilità che le stesse recenti decisioni UE in materia energetica ed ambientale – con il protagonismo assoluto del vice presidente Timmermans – contribuiscano ad alzare il velo a livello di massa sulla reale e sottostante natura nazionalistica delle sue decisioni.

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Unità fragile: Perché gli europei si stanno unendo sull’Ucraina (e cosa potrebbe allontanarli), di Ivan Krastev e Mark Leonard

Sintesi
Un recente sondaggio multinazionale condotto dall’ECFR suggerisce che gli europei si sono avvicinati nel sostegno all’Ucraina.
Gli europei ora concordano sul fatto che la Russia è un loro avversario o rivale.
Tre fattori hanno favorito questo notevole avvicinamento: I successi ucraini nel primo anno di guerra; il modo in cui la guerra ha unito la destra e la sinistra politica; la percezione del ritorno di un Occidente forte guidato dagli Stati Uniti.
Ma questi fattori sono fragili e i leader europei dovrebbero essere cauti nel loro ottimismo.
I politici europei dovrebbero approfittare di questa unità per equipaggiare l’Ucraina, facendo al contempo tutto il possibile per mitigare le divisioni causate dal cambiamento delle circostanze all’interno e all’estero.
Introduzione
La saggezza convenzionale vuole che le guerre finiscano con i negoziati. Ma la loro fine è più spesso determinata dalle urne – o addirittura dai sondaggi di opinione. La mancanza di sostegno pubblico ha posto fine alla guerra americana in Vietnam, alla guerra francese in Algeria e, con la sconfitta di Slobodan Milosevic alle urne nel 2000, alle guerre nell’ex Jugoslavia. Gli alleati occidentali dell’Ucraina sono stati finora sorprendentemente uniti nel loro sostegno a Kiev. Ma Vladimir Putin spera sicuramente che l’opinione pubblica occidentale si rivolti, lasciando l’Ucraina a bocca asciutta.

Nel suo discorso sullo stato della nazione, pronunciato pochi giorni prima dell’anniversario dell’invasione dell’Ucraina, il presidente russo ha detto chiaramente che si sta preparando a una lunga guerra, sperando che la logica della politica democratica esaurisca il sostegno occidentale a Kiev e permetta a Mosca di prevalere.

Ma a 12 mesi dall’inizio dei combattimenti, le crepe nella coalizione occidentale sono diventate più piccole che grandi. Un sondaggio multinazionale dell’ECFR condotto nel gennaio 2023 in dieci Paesi europei (Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Portogallo, Romania e Spagna) mostra che gli europei sono sorprendentemente uniti nella loro determinazione a sostenere l’indipendenza di Kiev. L’unità dell’opinione pubblica europea potrebbe sorprendere Putin, così come ha fatto lo spirito combattivo degli ucraini? Cosa ci dice la dinamica dell’opinione pubblica negli ultimi 12 mesi sulla prossima fase della guerra?

Questo documento documenta il sorprendente avvicinamento dell’Europa, esplora i tre principali fattori di questa unità e spiega come i leader europei possono posizionarsi per le sfide future.

Un’unità sorprendente: la mobilitazione delle opinioni pubbliche europee
Nel maggio 2022, un importante sondaggio dell’ECFR ha rivelato che gli europei, pur essendo uniti nella condanna della guerra e nel desiderio di rompere le relazioni con la Russia, erano profondamente divisi su come vedevano la fine della guerra.

Un gruppo riteneva che fosse molto importante che la guerra finisse il prima possibile, anche se ciò significava che l’Ucraina avrebbe fatto concessioni alla Russia (lo abbiamo definito il “campo della pace”), mentre l’altro gruppo credeva che solo una chiara sconfitta della Russia avrebbe potuto portare la pace, anche se ciò significava una guerra più lunga (il “campo della giustizia”). Nel 2022 la nostra analisi ha indicato che il “campo della pace” era più numeroso del “campo della giustizia”, con la preferenza per la fine della guerra il prima possibile che prevaleva nella maggior parte dei Paesi europei che abbiamo intervistato. La preferenza per questa opzione è particolarmente forte in Italia, Germania, Romania e Francia. La Polonia è stato l’unico Paese in cui il maggior numero di persone voleva che la Russia fosse punita per la sua aggressione, anche se ciò significava una guerra più lunga. Il nostro timore allora era che la divisione tra questi due campi potesse minare l’impressionante dimostrazione di unità che l’Unione Europea aveva raccolto dopo l’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia il 24 febbraio 2022.

Ma nove mesi dopo, sebbene permangano importanti divisioni tra i Paesi europei e al loro interno, il quadro è cambiato.

Dato che la “reazione” all’aggressione russa riguarda sempre più la riconquista di tutto il territorio da parte dell’Ucraina, piuttosto che la semplice punizione della Russia, nel sondaggio del 2023 abbiamo formulato l’opzione “guerra lunga” in modo diverso. Abbiamo anche aggiunto una terza possibile risposta – che il dominio occidentale del mondo dovrebbe essere respinto, anche se ciò significa accettare l’aggressione territoriale russa contro l’Ucraina – poiché il sondaggio 2023 è stato condotto anche in Cina, India, Turchia, Russia e Stati Uniti.

Nonostante queste differenze, i risultati indicano che il desiderio che la guerra tra Russia e Ucraina finisca il prima possibile non è più così popolare tra gli europei. In diversi Paesi – Estonia, Polonia, Danimarca e Gran Bretagna – è ormai evidente la preferenza per la riconquista da parte dell’Ucraina di tutto il suo territorio, anche se ciò significa una guerra più lunga o un maggior numero di morti e sfollati ucraini. In Germania e in Francia, il numero di coloro che vorrebbero che la guerra finisse il prima possibile è diminuito significativamente. In Germania, il numero di persone che desiderano che l’Ucraina riconquisti tutto il suo territorio è quasi uguale a quello che desidera che la guerra finisca il prima possibile. In Francia, l’opzione della guerra lunga è in leggero vantaggio rispetto a quella della fine della guerra il prima possibile. Solo in Italia e in Romania sono molti di più quelli che pensano che la guerra debba finire il prima possibile.

2023: Quale delle seguenti affermazioni si avvicina di più alla sua opinione? In percentuale

I risultati di questo sondaggio confermano anche la nostra affermazione del maggio dello scorso anno, secondo cui – contrariamente al cliché giornalistico secondo cui la guerra ha diviso l’UE in un est falco e un ovest dovish – sono emersi almeno tre blocchi diversi. In primo luogo, ci sono i falchi del nord e dell’est (Estonia, Polonia, Danimarca e Gran Bretagna), dove la maggior parte dei cittadini sostiene fortemente gli obiettivi di Kyiv nella guerra. In secondo luogo, c’è l’occidente ambiguo (Francia, Germania, Spagna e Portogallo), dove le opinioni sono divise su come dovrebbe finire la guerra. Infine, ci sono gli anelli deboli del sud (Italia e Romania), dove la preferenza per una fine della guerra il più presto possibile ha il sopravvento.

La convergenza sul modo in cui gli europei percepiscono la Russia è ancora più sorprendente di quanto non lo sia la convergenza sull’idea di combattere la guerra. In tutti i Paesi intervistati, l’opinione prevalente è che la Russia sia un avversario (da un minimo del 32% in Romania al 77% in Estonia). Nei nove Stati membri dell’UE intervistati, solo il 2% degli intervistati vede la Russia come un alleato e il 12% la considera un partner necessario per il proprio Paese. Il 66% degli intervistati vede invece la Russia come un avversario o un rivale.

Si tratta di un risultato completamente diverso rispetto ai risultati di un sondaggio dell’ECFR condotto nella primavera del 2021. In quell’occasione, abbiamo chiesto ai cittadini la loro percezione del rapporto della Russia con l’Europa, piuttosto che con il loro Paese, il che rende difficile un confronto diretto tra i risultati. Nel complesso, però, il modo in cui gli europei percepiscono la Russia è cambiato notevolmente. Due anni fa, un numero molto inferiore di intervistati (dal 5% in Bulgaria al 38% in Polonia) vedeva la Russia come un avversario. La percezione più diffusa è che la Russia sia un partner necessario per l’Europa: un’opinione condivisa da oltre il 30% degli intervistati in Germania, Francia e Spagna e dalla metà di quelli in Italia.

2023: Quale delle due rispecchia meglio la sua visione di ciò che la Russia rappresenta per il suo Paese? In percentuale
2021 2023
Un alleato – che condivide i nostri interessi e valoriUn partner necessario – con cui dobbiamo cooperare strategicamenteUn rivale – con cui dobbiamo competereUn avversario – con cui siamo in conflittoNon lo so

I motori dell’unità
Perché l’opinione pubblica è cambiata in questo modo? E, soprattutto, quanto durerà questa unità?

Probabilmente non esiste un’unica spiegazione per queste dinamiche. Ma i nostri dati suggeriscono che tre fattori principali, che si rafforzano a vicenda, hanno portato a questo cambiamento: Il successo dell’Ucraina sul campo di battaglia, il modo in cui la guerra ha unito entrambe le parti dello spettro politico e il ruolo degli Stati Uniti.

Lo slancio ucraino
Nel maggio 2022, la grande maggioranza degli intervistati nel nostro sondaggio era unita nel condannare la Russia per la sua aggressione e nel voler sostenere l’Ucraina. In tutti i Paesi intervistati allora, oltre il 50% (dal 56% in Italia al 90% in Finlandia) riteneva la Russia la principale responsabile dello scoppio della guerra, piuttosto che l’Ucraina, l’UE o gli Stati Uniti. Analogamente, in ciascuno dei dieci Paesi intervistati, la maggioranza si è espressa a favore di una maggiore assistenza economica all’Ucraina, dal 51% in Italia al 76% in Svezia. Quasi ovunque (tranne che in Italia e Romania), la maggioranza si è espressa a favore dell’invio di ulteriori armi ed equipaggiamenti militari all’Ucraina.

Nel frattempo, l’esercito ucraino è riuscito a riconquistare oltre il 50% dei territori occupati dalla Russia dal 24 febbraio. I successi ottenuti in estate e in autunno hanno reso più realistica una vittoria ucraina. I risultati di un altro recente sondaggio indicano che la maggioranza degli europei ritiene che l’Ucraina vincerà la guerra. Anche se il nostro sondaggio di quest’anno non comprendeva domande sugli obiettivi di guerra di Putin o sulle possibilità di Kyiv di riconquistare i territori occupati, i risultati indicano comunque che la percezione degli europei sulla condotta della guerra è cambiata.

In primo luogo, i cittadini segnalano un cambiamento nella loro percezione del potere della Russia e dell’UE. Una pluralità di europei ritiene che la Russia sia più debole oggi rispetto a quanto pensavano prima della guerra. Nei nove Paesi dell’UE intervistati, una media del 46% vede la Russia ugualmente debole o più debole di prima, mentre il 33% la considera forte o più forte. Le risposte non presentano un quadro uniforme. Per i cittadini di Gran Bretagna, Danimarca, Polonia, Estonia e Germania è chiaro che la guerra ha dimostrato la debolezza della Russia. Altrove, gli intervistati hanno una visione più equilibrata. Questa percezione di indebolimento della Russia può far credere a un maggior numero di persone che gli ucraini abbiano una reale possibilità di vincere la guerra.

L’attuale conflitto tra Russia e Ucraina le fa pensare che la Russia sia più forte o più debole di quanto pensasse in precedenza? In percentuale
Molto o un po’ più forteEra e resta forteNon lo soEra e resta deboleMolto o un po’ più debole

Gli europei condividono ora anche l’ampia percezione che l’UE sia forte come la vedevano prima, o addirittura più forte di quanto pensassero in precedenza. A un anno dall’inizio della guerra, il numero di persone che considerano l’UE più forte di quanto la percepissero prima della guerra è superiore al numero di persone che la considerano più debole. Nei nove Paesi dell’UE intervistati, una media del 49% ritiene che l’UE sia più forte, o almeno altrettanto forte, rispetto a come la percepivano prima della guerra. Il 32% ritiene invece che sia più debole, o almeno altrettanto debole, rispetto a prima. In quasi tutti i Paesi europei intervistati – con la sola eccezione dell’Italia – l’opinione prevalente è che l’UE sia forte o più forte piuttosto che debole o più debole.

L’attuale conflitto tra Russia e Ucraina le fa pensare che l’UE sia più forte o più debole di quanto pensasse in precedenza? In percentuale
Molto o un po’ più forteEra e resta forteNon lo soEra e resta deboleMolto o un po’ più debole

E, cosa ancora più importante, questa percezione della forza dell’UE è correlata al sostegno all’Ucraina per la riconquista di tutto il suo territorio. Nei nove Paesi dell’UE intervistati, la maggioranza (in media il 54%) di coloro che considerano l’UE più forte vuole che l’Ucraina riconquisti tutto il suo territorio, mentre solo il 25% vuole che la guerra cessi il prima possibile. Nel frattempo, coloro che considerano l’UE più debole sono più divisi su questo punto, con una preferenza per una rapida cessazione della guerra (38%) piuttosto che per una resistenza dell’Ucraina alla Russia (32%).

Questo cambiamento di percezione potrebbe anche essere legato al fatto che alcuni degli scenari catastrofici che si temevano all’inizio della guerra non si sono materializzati, soprattutto in termini di escalation nucleare. L’ultimo sondaggio dimostra che, rispetto a un anno fa, il numero di europei che temono la guerra nucleare è diminuito, soprattutto in Francia. Allo stesso modo, in Romania, la percezione che l’azione militare russa contro il Paese sia la principale minaccia è diminuita dal 21 al 16%.

Pensando all’attuale conflitto tra la Russia e l’Ucraina, quale dei seguenti aspetti la preoccupa maggiormente? In percentuale
Minaccia dell’uso di armi nucleari da parte della Russia

Mentre la minaccia dell’uso di armi nucleari era considerata la principale minaccia in tutti gli otto Paesi inclusi nei sondaggi del 2022 e del 2023, oggi il quadro è diverso: il costo della vita è ora considerato la principale minaccia nelle tre maggiori economie dell’UE, Germania, Francia e Italia (anche se la minaccia nucleare rimane la principale preoccupazione altrove). Questo leggero cambiamento potrebbe essere spiegato non solo dalla crescente ansia economica, ma anche dal calo della preoccupazione per un attacco nucleare.

Fondere nazionalisti e cosmopoliti
Un altro fattore dell’attuale unità è il modo in cui la guerra della Russia in Ucraina ha unito diversi settori dell’opinione pubblica europea. Anche questo non era scontato all’inizio della guerra. La guerra di Putin non sfida solo la sicurezza e l’economia europea, ma anche la cultura europea. Ciò ha provocato un ripensamento radicale sia a sinistra che a destra dello spettro politico.

La vittoria pacifica dell’Occidente nella guerra fredda ha portato sia le élite che i cittadini europei a dare per scontata la pace. Gli europei hanno sempre più guardato alla sicurezza con gli occhi delle compagnie di assicurazione piuttosto che con quelli dei pianificatori militari. Come ha avvertito l’ex segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Robert Gates, in un discorso tenuto nel febbraio 2011 alla National Defense University, la “smilitarizzazione dell’Europa – dove ampie fasce dell’opinione pubblica e della classe politica sono avverse alla forza militare e ai rischi che ne derivano – è passata da una benedizione nel XX secolo a un ostacolo al raggiungimento di una vera sicurezza e di una pace duratura nel XXI”. Il sacrificio non faceva più parte del contratto sociale europeo.

In questo contesto, non è stata solo l’aggressione imperiale di Putin, ma anche la mobilitazione nazionalista dell’Ucraina a mettere in discussione il modo in cui gli europei liberali vedevano il mondo. Mentre la paura di un attacco russo li ha costretti a ripensare al valore del potere duro, l’ammirazione per la resilienza ucraina li ha costretti a rivalutare il valore di una società post-eroica.

E mentre i liberali e gli europeisti hanno messo in discussione le loro opinioni sul ruolo del nazionalismo, la destra nazionalista è stata costretta a modificare ancora una volta le sue opinioni sul ruolo dell’UE. Questo processo era già iniziato dopo la pandemia di covidio-19. Dopo la crisi finanziaria globale e la crisi dei rifugiati, che hanno catapultato i partiti di estrema destra al centro dei dibattiti politici dell’ultimo decennio, il fallimento della Brexit e l’ascesa del covid-19 hanno visto l’euroscetticismo iniziare a svanire, mentre i partiti tradizionali hanno beneficiato del desiderio del pubblico di protezione dal caos. I sondaggi dell’ECFR hanno mostrato che durante questi eventi, molti elettori di destra hanno capito che la sovranità poteva essere recuperata solo attraverso un’azione congiunta, e molti partiti precedentemente euroscettici hanno abbandonato le loro promesse di lasciare l’UE o l’euro.

La risposta all’invasione russa in Ucraina può essere vista sia come un abbraccio alla sovranità da parte dei liberali, sia come un ulteriore mainstreaming di alcuni partiti della destra nazionalista. Il risultato è un’attenuazione del divario tra destra e sinistra in Europa sulle questioni geopolitiche e un’evoluzione verso la fusione di nazionalismo e cosmopolitismo. Ciò è stato particolarmente evidente nella decisione di offrire all’Ucraina lo status di Paese candidato all’UE: un’organizzazione post-nazionale incentrata sul diritto piuttosto che sulla guerra si è radunata dietro il sostegno militare a una causa nazionalista.

I risultati del nostro sondaggio d’opinione 2023 mostrano come i liberali e i nazionalisti, sia all’interno dei Paesi che tra di essi, si siano avvicinati nelle loro opinioni sull’Ucraina. Ad esempio, gli elettori del partito liberale La République en Marche (LREM) di Emmanuel Macron sono uniti a quelli del partito nazionalista polacco Diritto e Giustizia (PiS). Gli elettori del LREM (il più falco dei partiti francesi) preferiscono questa opzione a quella di fermare la guerra il prima possibile con una proporzione di 61 a 25 per cento; e quelli del PiS (che è unito a tutti gli altri principali partiti polacchi su questo punto) con 62 a 18 per cento. Le persone che hanno votato per il partito tedesco dei Verdi (il più falco dei principali partiti tedeschi) hanno una preferenza simile, con una proporzione di 48 a 23 per cento.

Quale dei seguenti rispecchia meglio la sua opinione?
Partiti selezionati, per intenzione di voto. In percentuale
Il conflitto tra Russia e Ucraina deve cessare al più presto, anche se ciò significa che l’Ucraina cede il controllo di alcune aree alla RussiaL’Ucraina deve riconquistare tutto il suo territorio, anche se ciò significa una guerra più lunga o un maggior numero di morti e sfollati ucraini

Gli elettori dei partiti europei euroscettici o di estrema destra hanno opinioni più varie di quanto ci si aspetterebbe. A differenza dei partiti di cui sopra, gli elettori del partito nazionalista Fratelli d’Italia hanno una preferenza per l’interruzione della guerra il prima possibile rispetto allo scenario di guerra lunga, con una proporzione di 42 a 32 per cento. Ma rispetto agli altri rivali radicali nazionali, sono chiaramente meno prudenti degli elettori della Lega (che hanno optato per questa opzione con una percentuale del 68% sull’11%) o del Movimento Cinque Stelle (che l’hanno preferita con una percentuale del 50-22%). Gli elettori del partito Fratelli d’Italia hanno espresso una preferenza per l’interruzione della guerra simile a quella degli elettori del partito National Rally di Marine Le Pen in Francia (39 a 30 per cento, che è meno radicale di quanto si potrebbe supporre data la posizione precedentemente favorevole alla Russia del partito e gli stretti legami di Le Pen con Putin); e a quelli di Vox in Spagna (35 a 31 per cento) o Chega in Portogallo (42 a 28 per cento).

Ciò rende l’Alternativa per la Germania (AfD) e la Lega e il Movimento Cinque Stelle in Italia degli outlier europei, piuttosto che la norma tra i radicali europei. Gli elettori dell’AfD non solo hanno una forte preferenza per l’interruzione della guerra il prima possibile (59 a 17 per cento), ma sono anche quasi equamente divisi sul fatto che la Russia sia un alleato o un partner (42 per cento), o un rivale o un avversario (48 per cento). Tuttavia, l’opinione prevalente tra gli elettori dell’AfD è ancora che la Russia sia un avversario (37%). Questi risultati sono in linea con quelli degli elettori della maggior parte degli altri partiti di estrema destra, che vedono anch’essi la Russia principalmente come un avversario – una risposta data dal 42% degli elettori di National Rally, dal 41% degli elettori di Fratelli d’Italia, dal 53% degli elettori della Confederazione polacca e dal 41% degli elettori di Chega. Sembra che Putin sia riuscito a inimicarsi gli elettori di molti dei partiti europei più filo-russi.

Quale rispecchia meglio il suo punto di vista su chi è la Russia per il suo Paese?
Partiti selezionati, per intenzione degli elettori. In percentuale
Un alleato – che condivide i nostri interessi e valoriUn partner necessario – con cui dobbiamo cooperare strategicamenteUn rivale – con cui dobbiamo competereUn avversario – con cui siamo in conflittoNon lo so

Il ritorno dell’Occidente
Infine, il ruolo degli Stati Uniti durante tutta la guerra è stato un fattore importante nel determinare questa unità. Molto è stato scritto sull’enorme importanza del sostegno americano allo sforzo militare dell’Ucraina. Ma anche il perno del Presidente Biden verso l’Europa ha avuto un effetto significativo sull’opinione pubblica del continente. Durante la guerra in Iraq del 2003, Washington ha diviso gli europei in parti nuove e vecchie. In Ucraina, invece, l’amministrazione Biden ha contribuito a promuovere una nuova unità tra i tradizionali euro-atlantici e i sovranisti europei.

In un precedente sondaggio dell’ECFR, condotto nell’aprile 2021, la maggioranza degli europei vedeva gli Stati Uniti come “partner necessario” dell’Europa, piuttosto che come “alleato”. Sebbene quest’anno abbiamo chiesto la percezione di ciò che gli Stati Uniti rappresentano per i loro Paesi e non per l’Europa, i risultati possono essere interpretati come una leggera ma significativa differenza. Negli otto Paesi inclusi nei sondaggi del 2021 e del 2023, la maggior parte delle persone continua a considerare gli Stati Uniti come un “partner necessario”, ma in Danimarca e in Gran Bretagna l’opinione prevalente è che gli Stati Uniti siano un “alleato”, mentre in Germania e in Polonia le opinioni sono equamente divise tra queste due opzioni. La differenza è più evidente in Germania e Danimarca. Nel 2021, gli europei erano meno propensi a considerare gli americani come alleati, e questa non era la risposta più ampia in nessun Paese intervistato.

2023: Quale delle due opzioni riflette meglio la sua opinione su ciò che gli Stati Uniti rappresentano per il suo Paese? In percentuale

Ciò che forse colpisce ancora di più è la rinascita dell’idea della forza americana in Europa. I risultati del sondaggio del 2021 rivelavano una crisi del potere americano, con molti europei che temevano che gli Stati Uniti sarebbero stati eclissati dalla Cina entro un decennio. Ma nel 2023, in tutti i Paesi europei oggetto del sondaggio, gli europei vedono chiaramente gli Stati Uniti più forti o almeno altrettanto forti di quanto pensassero in precedenza. La percentuale varia dal 58% della Francia al 76% dell’Estonia. La guerra in Ucraina ha ricordato agli europei la potenza militare americana, il che li ha apparentemente rassicurati.

Inoltre, la percezione di un rafforzamento degli Stati Uniti va di pari passo con quella di un’Unione europea più forte. Nei nove Paesi dell’UE intervistati, il 63% di coloro che considerano l’UE più forte ritiene che anche gli Stati Uniti siano più forti, mentre questa opinione è condivisa solo dal 22% di coloro che ritengono l’UE più debole di quanto pensassero in precedenza. Il 45% degli intervistati nei nove Paesi dell’UE vede sia l’UE che gli USA più forti di quanto pensassero in precedenza o almeno altrettanto forti di prima, mentre solo il 9% li considera entrambi deboli o più deboli. Questi risultati suggeriscono che molti europei si sentono parte di un Occidente rinnovato e forte, guidato dagli Stati Uniti.

L’attuale conflitto tra Russia e Ucraina le fa pensare che gli Stati Uniti siano più forti o più deboli di quanto pensasse in precedenza? In percentuale
Molto o un po’ più forti Erano e sono ancora forti Non soErano e sono ancora deboli Molto o un po’ più deboli

Ciò è confermato anche da un altro dato sorprendente. Contrariamente alle speranze di alcuni leader europei, come Emmanuel Macron, gli europei non si aspettano necessariamente che l’Europa diventi uno dei centri di potere in un mondo multipolare. Alla domanda sulla forma dell’ordine globale tra un decennio, una pluralità di intervistati nei nove Paesi dell’UE si aspetta un mondo bipolare, con campi rivali guidati da Stati Uniti e Cina, piuttosto che uno multipolare.

In quasi tutti i Paesi, ad eccezione dell’Estonia, la risposta sostanziale prevalente (che va dal 24% della Romania al 32% della Spagna e dell’Italia, e al 28% in media nei nove Paesi dell’UE intervistati) è che il mondo sarà diviso in due blocchi. La seconda risposta sostanziale più frequente tende ad essere un mondo multipolare (ma con solo il 19 percento in media nei nove Paesi dell’UE intervistati). C’è anche un ampio gruppo di persone che non conosce la risposta a questa domanda (25 percento in media nei nove Paesi dell’UE intervistati, e la risposta principale in Gran Bretagna, Danimarca, Francia, Polonia e Romania), il che potrebbe indicare un notevole livello di confusione, incertezza o semplicemente mancanza di conoscenza su questo tema tra i cittadini europei.

Tra dieci anni, quale delle seguenti ipotesi ritiene più probabile? In percentuale

L’ambizione dell’UE come attore globale autonomo sembra essere stata almeno temporaneamente ritirata a seguito della guerra. Di fronte alla prospettiva di una rottura generazionale delle relazioni con la Russia, ci si potrebbe aspettare che gli europei siano più desiderosi che mai di concentrarsi sulle loro relazioni con il resto del mondo. Invece, gli europei guardano al loro interno e si affidano ancora di più agli Stati Uniti.

Conclusione: Una fragile unità
A un anno dall’inizio della guerra russa in Ucraina, l’unità europea si è approfondita ed è cresciuta, sorprendendo non solo Mosca e Washington, ma anche gli stessi europei.

I leader europei possono sentirsi incoraggiati e rassicurati da questi risultati, ma dovrebbero essere cauti nel loro ottimismo. Ognuna delle tre forze che abbiamo descritto è contingente – e potrebbe cambiare nel corso del prossimo anno – con un grande impatto sull’unità europea.

Se la possibilità di una vittoria ucraina ha contribuito al sostegno degli europei per la riconquista di tutto il territorio ucraino, è molto probabile che il cambiamento sia morbido piuttosto che duraturo. Le battute d’arresto militari potrebbero erodere il sostegno all’Ucraina e portare a un aumento della preferenza per la fine della guerra il prima possibile.

Anche la convergenza tra liberali e nazionalisti potrebbe essere fragile. Come dimostrato, i timori economici sono in cima all’agenda dei cittadini europei – e la loro importanza è aumentata ovunque dal maggio 2022. Se l’inflazione e il costo della vita rimarranno elevati, il sostegno pubblico all’Ucraina potrebbe quindi diminuire. Di fronte ai problemi interni, è probabile che i liberali e i nazionalisti prendano ancora una volta direzioni diverse. Anche altre questioni legate alla guerra hanno il potenziale per far saltare la fragile unione tra destra e sinistra. Ad esempio, se la questione dei rifugiati tornasse al centro della politica europea, potrebbe dare forza agli estremisti, polarizzare le società e mettere in difficoltà i partiti centristi, come è successo nel 2015. Il calo del sostegno ai rifugiati dopo l’enorme compassione dimostrata nei primi anni della guerra siriana fa temere che la migrazione possa essere un tema critico nelle prossime elezioni europee, che dividerebbe ancora una volta la sinistra dalla destra e i liberali dai nazionalisti.

Pensando all’attuale conflitto tra la Russia e l’Ucraina, quale dei seguenti aspetti la preoccupa maggiormente? In percentuale
Costo della vita e aumento dei prezzi dell’energia

Ma forse il pericolo maggiore per questa unità è un cambiamento a Washington. Biden è stato quasi altrettanto importante per costruire l’unità europea da una direzione positiva quanto Putin da una negativa. Se Donald Trump – o un altro repubblicano America First – tornerà alla Casa Bianca nel 2024, il sostegno degli Stati Uniti all’Ucraina e all’unità con l’Europa sembrerà molto meno certo. Qualsiasi cambiamento nella politica americana renderebbe l’unità europea particolarmente vulnerabile.

Piuttosto che dare per scontata l’attuale notevole unità, i leader europei dovrebbero sfruttare lo spazio che si crea per rafforzare la propria resistenza alla luce di questi fattori. Dovrebbero fare il possibile per attrezzare l’Ucraina e metterla in condizione di affrontare i negoziati che saranno necessari per porre fine alla guerra. Dovrebbero mettere in atto politiche per mitigare l’aumento del costo della vita e per condividere l’onere della gestione dei rifugiati. E soprattutto dovrebbero sfruttare al meglio i prossimi 18 mesi per diventare immuni ai cambiamenti politici oltreoceano, sviluppando capacità europee e strategie comuni per diversi scenari. Se gli europei riusciranno a fare queste cose, potrebbero scoprire che la loro opinione pubblica sorprende davvero l’uomo del Cremlino.

Metodologia
Il presente rapporto si basa su un sondaggio di opinione condotto all’inizio di gennaio 2023 in dieci Paesi europei (Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Portogallo, Romania e Spagna). Il numero totale di intervistati è stato di 14.439.

I sondaggi sono stati realizzati per ECFR come indagine online attraverso Datapraxis e YouGov in Danimarca (1.064 intervistati; 3-11 gennaio), Francia (2.051; 3-12 gennaio), Germania (2.017; 4-11 gennaio), Gran Bretagna (2.200; 4-10 gennaio), Italia (1.599; 4-12 gennaio), Polonia (1.413; 3-20 gennaio), Portogallo (1.057; 4-12 gennaio), Romania (1.003; 4-11 gennaio) e Spagna (1.013; 4-11 gennaio); e attraverso Datapraxis e Norstat in Estonia (1.022; 18-24 gennaio). In tutti questi Paesi il campione era rappresentativo a livello nazionale dei dati demografici di base e delle votazioni precedenti. Nel Regno Unito, il sondaggio non ha riguardato l’Irlanda del Nord, motivo per cui il documento si riferisce alla Gran Bretagna.

Gli autori
Ivan Krastev è presidente del Centro per le Strategie Liberali di Sofia e borsista permanente presso l’Istituto per le Scienze Umane di Vienna. È autore di Is It Tomorrow Yet? Paradoxes of the Pandemic, oltre a numerose altre pubblicazioni.

Mark Leonard è cofondatore e direttore dell’European Council on Foreign Relations. Il suo nuovo libro, The Age of Unpeace: How Connectivity Causes Conflict, è stato pubblicato da Penguin in brossura il 2 giugno 2022. Presenta inoltre il podcast settimanale “World in 30 Minutes” dell’ECFR.

Ringraziamenti
Questa pubblicazione non sarebbe stata possibile senza lo straordinario lavoro del team Unlock dell’ECFR. Gli autori desiderano ringraziare in particolare Pawel Zerka e Gosia Piaskowska, che hanno svolto un lavoro minuzioso sui dati alla base di questo rapporto e che hanno individuato alcune delle tendenze più interessanti, nonché Nastassia Zenovich, che ha lavorato alla visualizzazione dei dati. Flora Bell è stata un’ammirevole redattrice, mentre Andreas Bock ha guidato il lavoro strategico di sensibilizzazione dei media. Susi Dennison e Anand Sundar hanno dato suggerimenti sensibili e utili sulla sostanza. Gli autori desiderano inoltre ringraziare Paul Hilder e il suo team di Datapraxis per la paziente collaborazione con noi nello sviluppo e nell’analisi dei sondaggi a cui si fa riferimento nel rapporto. Nonostante i numerosi e variegati contributi, gli eventuali errori restano a carico degli autori.

Questi sondaggi e analisi sono il risultato di una collaborazione tra l’ECFR e il progetto “Europe in a Changing World” del Programma Dahrendorf del St Antony’s College, Università di Oxford. L’ECFR ha collaborato a questo progetto con la Fondazione Calouste Gulbenkian, il Think Tank Europa e l’International Center for Defence and Security.

L’European Council on Foreign Relations non prende posizioni collettive. Le pubblicazioni dell’ECFR rappresentano solo le opinioni dei singoli autori.

https://ecfr.eu/publication/fragile-unity-why-europeans-are-coming-together-on-ukraine/?fbclid=IwAR2QgVl18MLcVDiPrGnAGwMd5XKOjJeKuG0Tpf0qfraPzF17VBJetLV4xeA

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Capire cosa sta succedendo in Francia, di Aurelien

Articolo interessante, ma con una breve chiosa. Il movimento dei “Gilet Gialli” non era promosso e organizzato da organizzazioni politiche o politico-sindacali, ma aveva agganci importanti con centri di apparati statali, specie militari. L’attuale movimento è diretto, al momento, dalle tradizionali organizzazioni sindacali; le sue dimensioni e il livello di insoddisfazione potranno spingerlo facilmente fuori dai recinti canonici della protesta, senza intravedere offerte alternative visibili di organizzazione politica. Giuseppe Germinario

https://aurelien2022.substack.com/p/understanding-whats-happening-in?utm_source=post-email-title&publication_id=841976&post_id=109974339&isFreemail=true&utm_medium=email

Capire cosa sta succedendo in Francia.

In seguito potrebbe venire la fase cinetica

di Aurelien 23 marzo 2023

Quasi sicuramente avrete letto o visto qualcosa sul caos politico che regna attualmente in Francia. Non è solo importante in sé, ma anche come potenziale indicatore di ciò che potrebbe accadere in altri Paesi. Ecco come capire cosa sta succedendo: la situazione non è semplice, ma questa spiegazione include le cose che di solito vengono tralasciate.

 

Per cominciare, qual è il problema più grande che la Francia deve affrontare in questo momento? Si potrebbe pensare all’inflazione, al forte aumento del costo dei generi alimentari e al vertiginoso aumento del prezzo del carburante che costringe alcuni ristoranti e negozi a chiudere e rende sempre più difficile per le persone stare al caldo. Si potrebbe pensare alla disoccupazione, alla povertà, alle fabbriche che chiudono, ai posti di lavoro inviati all’estero, alla corruzione nella vita politica a tutti i livelli, agli effetti dell’immigrazione incontrollata, al declino catastrofico del sistema educativo e al collasso del servizio sanitario. Oh, e si potrebbero includere il riscaldamento globale, i continui effetti del Covid e le conseguenze della guerra in Ucraina.

 

Naturalmente non è un elenco completo, ma per ora è sufficiente. Quindi, tra tutti questi, qual è l’argomento o gli argomenti principali del Presidente francese Emmanuel Macron? Cosa lo tiene sveglio di notte e su quale argomento è pronto a giocarsi la reputazione e persino la sopravvivenza politica?

 

Se siete stati attenti, saprete che la risposta corretta è “nessuno dei precedenti”. L’ossessione di Macron, da ben prima della sua seconda incoronazione nel 2022, è stata quella di far aspettare i francesi più poveri diversi anni in più prima di poter riscuotere la pensione.

 

Data l’acrimonia, il conflitto e persino la violenza che questa proposta ha già provocato, nonché la crisi politica che si sta sviluppando anche mentre scrivo questo articolo, vale la pena cercare di spiegare non solo quali sono le questioni a breve termine, non solo come siamo arrivati a questo punto, ma anche quali potrebbero essere le conseguenze: perché ciò che sta accadendo oggi in Francia potrebbe accadere domani dalle vostre parti.

 

Cominciamo quindi con un po’ di storia. La crisi politica della Francia di oggi è il prodotto di un sistema politico che è ormai in disfunzione terminale, e probabilmente è vero che se la causa immediata non fossero state le pensioni, ci sarebbe stata un’altra causa.

La politica in Francia dalla Rivoluzione in poi è stata tradizionalmente binaria e dualistica. Prima repubblicani contro monarchici; poi, all’interno della confraternita repubblicana, liberali contro socialisti; all’interno del socialismo, marxisti contro non marxisti. E dal trionfo dei principi repubblicani dopo la Seconda Guerra Mondiale, la divisione fondamentale è stata “Sinistra” contro “Destra”. C’erano famiglie con una lunga tradizione di voto per il Partito Comunista, per esempio, e altre per i socialisti, e c’erano organizzazioni intermedie come i sindacati, esplicitamente legate a un partito o all’altro. La Chiesa aveva legami con alcuni partiti di destra. Ma i partiti politici francesi cambiano, declinano, muoiono, rinascono altrove, si dividono e a volte si uniscono, cambiando continuamente nome, ed è per questo che qui parlo di gruppi piuttosto che di nomi. Un francese anziano di oggi, se glielo chiedessimo, probabilmente direbbe semplicemente “sono di sinistra” o “sono di destra”. L’esatto partito per cui ha votato dipenderebbe dalle circostanze del momento.

 

La politica francese è altamente personalizzata e la maggior parte dei “partiti” sono in pratica raccolte di fazioni. Ad esempio, il “partito” di Macron all’Assemblea nazionale è in realtà una coalizione di diversi gruppi, noti collettivamente (almeno questa settimana) come “Ensemble”. Il partito di Macron, “Renaissance”, inizialmente battezzato “En Marche” dalle sue iniziali, poi successivamente “La République en Marche”, si è unito a “Horizons”, un partito guidato da Eduard Philippe, un rifugiato dalla destra che è stato il suo primo Primo Ministro, e a un paio di altri partiti del centro-destra. Non c’è nulla di strano in questo: la consistente maggioranza che i socialisti avevano nel 2012 derivava da un raggruppamento di tutta una serie di partiti, alcuni grandi, altri piccoli.

 

Ciò ha due conseguenze che potrebbero non essere ovvie per l’osservatore casuale. In primo luogo, se i partiti della stessa parte dello spettro politico si oppongono l’uno all’altro al primo turno di un’elezione, possono effettivamente impedirsi a vicenda di qualificarsi per il secondo. È quello che è successo nel 2002, quando la disunione del Centro e della Sinistra ha fatto sì che Jean-Marie Le Pen del Fronte Nazionale arrivasse al secondo turno, precedendo di poco il candidato socialista Lionel Jospin. In secondo luogo, poiché i partiti sono, in ultima istanza, coalizioni, possono essere fragili e i loro membri possono cambiare affiliazione. (Jean-Yves Le Drian, ministro della Difesa nel governo di Hollande del 2012, è stato eletto come socialista nel 2017, ma è passato rapidamente a Macron, diventando il suo ministro degli Esteri).

 

Fino a circa una generazione fa, il sistema funzionava comunque abbastanza bene. Il primo turno vedeva una profusione di partiti ampiamente di sinistra o di destra, il secondo turno vedeva il partito che aveva fatto meglio in ogni raggruppamento portare avanti da solo lo stendardo. Questo non sempre funzionava – ad esempio nelle elezioni locali, notoriamente complicate – ma nel complesso, un sistema politico binario in una cultura binaria, di solito produceva un risultato chiaro. Più di recente, il sistema ha iniziato a rompersi e Macron è sia il risultato che l’agente del suo ulteriore declino.

 

Il caso della sinistra è quello più noto e meglio compreso. Il potente Partito Comunista Francese, che era una sorta di governo parallelo in alcune parti del Paese e che poteva contare fino al 20% dei voti nelle elezioni presidenziali e legislative degli anni Cinquanta, si è ridotto quasi a nulla (meno di 50.000 membri secondo l’ultimo conteggio). I socialisti, che avrebbero potuto raccogliere questo voto, hanno invece voltato le spalle e si sono trasformati in un partito vagamente socialmente progressista della classe media urbana. Tuttavia, fino a un decennio fa, mantenevano un sostegno istintivo tradizionale e, quando nel 2012 Nicolas Sarkozy, in preda agli scandali, cercò di farsi rieleggere, il poco carismatico François Hollande, di fronte a una campagna di allarme rosso di dimensioni e cattiveria mai viste dagli anni Ottanta, riuscì a strappare una vittoria. A quel punto, i socialisti controllavano la presidenza, avevano preso il controllo dell’Assemblea nazionale e dominavano la scena del governo locale. La loro vittoria era completa e avrebbero potuto fare qualsiasi cosa. Non hanno fatto nulla. La maggior parte del tempo di Hollande è stata impiegata per gestire faticosamente la sua fragile alleanza e per lanciare ossi a vari gruppi di interesse sotto forma di legislazione sociale. La nemesi è arrivata nel 2017, quando il candidato socialista alla presidenza è stato eliminato al primo turno con il 5% dei voti, e la nemesi ha riservato un secondo calcio nelle palle per le elezioni del 2022, quando il candidato non è riuscito a raggiungere nemmeno il 2%. La “sinistra” nell’Assemblea Nazionale è ora un gruppo instabile di partiti con circa il 20% dei seggi, e con poca identità comune.

Questo per quanto riguarda la sinistra. La storia della destra è semmai ancora più complicata (qui una versione semplificata, che non sembra avere una traduzione in inglese) e i “Droites”, come gli studiosi francesi preferiscono chiamarli, hanno incluso tutto, dai neo-monarchici ai cristiano-democratici ai liberali di stile anglosassone, passando per decine di altre tendenze. Dopo lo shock dell’ingresso di Le Pen al secondo turno nel 2002, ci sono stati tentativi di unificare la destra in Francia, per evitare che accadesse lo stesso a loro. Questo tentativo è riuscito in parte con la creazione dell’UMP nel 2002, ma le differenze politiche e le velenose animosità personali che hanno sempre caratterizzato la destra hanno reso il tutto difficile da sostenere, e anche la destra tradizionale ha subito un declino, solo non così pubblico.

 

Nel 2017, la corruzione e il cinismo degli anni di Sarkozy e l’abissale fallimento della presidenza Hollande avevano prodotto uno stato d’animo di impazienza e rabbia nei confronti della classe politica che non si era mai visto prima durante la Quinta Repubblica. Ora, la tendenza normale della politica francese potrebbe essere descritta come una dialettica incompiuta: dalla tesi all’antitesi, di nuovo alla tesi, con poca sintesi. Di conseguenza, i cambiamenti nella vita politica francese tendono a essere bruschi e discontinui quando si verificano. Quindi, in circostanze normali, la destra si sarebbe aspettata di tornare al potere nel 2017, e in effetti è quasi successo. Le ragioni per cui non è successo hanno molto a che fare con le origini della crisi attuale.

 

Gran parte dell’elettorato francese si è sentita esclusa. L’implosione dei socialisti ha fatto sì che gran parte del sostegno della classe operaia andasse a Marine Le Pen, il cui partito, il Fronte Nazionale (ora Assemblea Nazionale), è meglio inteso semplicemente come l’unico partito in Francia che parla di cose importanti per la gente comune, a prescindere da ciò che si pensa delle sue politiche in merito. Ciò significa anche che il suo sostegno alla classe media ha disertato verso i Verdi o verso l’irregolare Jean-Luc Mélenchon, e spesso ha vacillato tra i due. A destra, alcuni elettori sono stati tentati dalla Le Pen, altri hanno deciso di non votare affatto. È in questo panorama politico confuso e diviso che è entrato Emmanuel Macron.

 

Retrospettivamente, i commentatori più pigri hanno parlato di Macron che ha “conquistato” il potere. La realtà è stata ben diversa. Con enormi quantità di denaro e la maggioranza dei media alle sue spalle, era il candidato di protesta delle classi medie, come Le Pen era il candidato di protesta delle classi popolari. Con la sinistra per lo più fuori dai giochi e con la Le Pen di fatto ineleggibile, il vero obiettivo di Macron era quello di arrivare al secondo turno davanti al candidato della destra, François Fillon, dopo di che si sarebbe assicurato la vittoria contro la Le Pen. Normalmente, Fillon avrebbe battuto la sfida di Macron e sarebbe diventato Presidente, ma è rimasto invischiato in una sordida indagine per corruzione, nella quale è stato infine condannato. Questo gli è costato quei pochi punti percentuali che hanno permesso a Macron di spuntarla e di ottenere una vittoria scontata contro Le Pen, anche se l’affluenza alle urne è stata bassa per gli standard francesi e l’entusiasmo per lui è stato scarso.

 

C’erano molti francesi disposti a dare una possibilità a Macron. Certo, era un puro prodotto dell’establishment francese, ma d’altra parte non era una figura affermata della classe politica, ampiamente disprezzata. Ma la gente si è disillusa molto rapidamente di fronte a un giovane tecnocrate inesperto, che ha annaspato e sembrava avere poca idea della vita e dei problemi della gente comune. L’esplosione di protesta che è diventata nota come l’episodio dei Gilets jaunes nel 2018/19 era diretta non solo contro Macron personalmente, ma contro un intero establishment globalizzato, anglicizzato, liberale e benpensante, che distrugge posti di lavoro e di cui Macron, nonostante le sue proteste, era un rappresentante quasi caricaturale.

 

Al potere, e con un partito creato a sua immagine e somiglianza, Macron ha cercato di distruggere qualsiasi opposizione offrendo posti di lavoro a politici di destra e di sinistra per staccarli dai loro partiti e indebolirli. Lentamente, come un buco nero, ha iniziato ad attirare verso di sé gran parte della politica francese.

 

Macron è sopravvissuto ai Gilets jaunes, come è sopravvissuto al Covid. L’anno scorso, in corsa per la rielezione, la sua piattaforma consisteva nel non essere la Le Pen e la sua strategia consisteva nell’assicurarsi di combattere il secondo turno contro di lei. La sinistra tradizionale era ancora a pezzi e la destra tradizionale era stata gravemente indebolita. Le elezioni presidenziali del 2022 furono quindi una lotta tra tre candidati (Le Pen, Macron e Mélenchon) che sostenevano di essere “fuori” dal sistema. Macron ha vinto contro Le Pen (anche se non di tanto come nel 2017): avrebbe battuto anche Mélenchon se quest’ultimo fosse riuscito a recuperare i pochi punti percentuali di distacco da Le Pen. Il confronto al secondo turno tra Le Pen e Macron è stato un confronto che la grande maggioranza degli elettori francesi ha detto di non volere. L’hanno ottenuto comunque, a causa della debolezza del sistema politico francese e del vertiginoso declino dei partiti tradizionali.

 

L’ultimo tassello del puzzle è stato rappresentato dalle elezioni dell’Assemblea Nazionale del 2022, che hanno prodotto un risultato confuso in cui il partito di Macron era il più grande, ma non aveva la maggioranza. L’opposizione proveniva da contingenti ampiamente paritari della destra, dal partito della Le Pen e da un’alleanza elettorale di sinistra, ma non c’era un’unica opposizione unita.

 

Spero che questa carrellata (molto semplificata) della storia recente mostri l’estrema fragilità e disorganizzazione del sistema politico francese in questo momento. Il disgusto nei confronti dei partiti tradizionali non è necessariamente più forte in Francia che, ad esempio, negli Stati Uniti o nel Regno Unito, ma la mancanza di un forte sistema bipartitico lo rende molto più evidente. È un dato di fatto che, anche se si includono i Verdi, i partiti politici “tradizionali” in Francia riescono a raccogliere a malapena un quarto dei voti. Tra gli altri, Le Pen rimarrà per sempre fuori dal potere, l’instabile coalizione (più che partito) presieduta da Mélenchon non sopravviverà a lungo alla sua partenza e lo stesso partito di Macron non avrà futuro dopo la sua uscita dal potere nel 2027. Non c’è alcun segno di rinascita della sinistra, e la destra è divisa e sempre più debole, stretta tra il sostegno ideologico a molte delle idee più brutte di Macron da un lato, e la paura di essere data per scontata come una semplice appendice di Macron dall’altro.

 

C’è quindi un vuoto incolmabile dove dovrebbe esserci il sistema politico francese. Macron ha ereditato una pessima situazione politica e la lascerà in un campo di rovine. Un sistema politico e i suoi parassiti mediatici che per vent’anni hanno predicato la necessità di creare un “fuoco di sbarramento” contro la Le Pen hanno ora escogitato una situazione in cui nel 2027 lei guiderà l’unico partito unito e disciplinato del Paese con la possibilità di prendere il potere. Un’astuzia, questa. E in effetti, mentre la destra ha litigato pubblicamente e le tattiche parlamentari del partito di Mélenchon hanno alienato molti elettori, il partito della Le Pen è stato un modello di discrezione e di buona condotta negli ultimi mesi.

 

Quindi il sistema politico francese rischia di crollare da qui al 2027, anche senza la “riforma” delle pensioni.  I parlamentari di Macron cominceranno presto a farsi prendere dal panico, perché si renderanno conto che nel 2027 potrebbero rimanere senza lavoro. Nessuno ha idea di cosa faranno a quel punto. La destra andrà incontro a un declino terminale, a meno che non riesca a differenziarsi da Macron, ma questo significa votare contro cose come la “riforma” delle pensioni, che in realtà sostengono. Se il sistema attuale sopravvive fino al 2027, il risultato più probabile è una nuova Assemblea nazionale in cui il partito di Le Pen è il gruppo più numeroso, ma non ha la maggioranza, e si trova di fronte a un numero di gruppi che va da cinque a dieci e che non hanno nulla che li unisca. In una parola, il caos. Chi vincerà le elezioni presidenziali è semplicemente impossibile da dire.

 

Con i problemi strutturali che ho brevemente delineato e tutte le altre difficoltà sociali, economiche e internazionali che ho menzionato all’inizio, il sistema francese è in grave difficoltà e non ha bisogno di iniziative molto controverse e impopolari che peggiorano solo le cose. Ma è esattamente quello che è successo. Vediamo ora brevemente il fiasco delle pensioni e il suo significato.

In primo luogo, però, non si può negare che il sistema pensionistico francese sia un po’ un pasticcio. Come molte altre cose nel Paese, è cresciuto gradualmente nel corso delle generazioni ed è confuso sia da usare che da gestire. Tutto dipende dai settori in cui si è lavorato e da chi ci paga e quando. La maggior parte dei francesi ha almeno due pensioni, e quattro sono abbastanza comuni. Se avete lavorato per alcuni anni nel settore privato prima di diventare insegnanti e, parallelamente, avete lavorato come tutor privati per alcuni anni, potreste averne sei. Per certi versi (come nel caso della gradita introduzione della tassazione del reddito alla fonte un paio di anni fa) si sarebbe potuta realizzare un’iniziativa ragionevole e di basso profilo, che avrebbe riscosso un certo successo e che avrebbe potuto essere gestita da un ministro junior un po’ sfigato.

 

Invece, fin dall’inizio della sua carriera, Macron è ossessionato dall’idea di far aspettare di più le persone per ricevere la pensione: l’età attuale è di 62 anni (da 60 prima del 2010) e la sua intenzione originaria era di portarla a 65 anni. Ma poiché il gruppo parlamentare di Macron non ha la maggioranza, è stato costretto a cedere alla destra e a ridurre l’età a 64 anni. E da allora, ci sono state una serie di altre concessioni su punti di dettaglio che possiamo tralasciare in questa sede. Ma nonostante ciò, con ostinazione donnesca, contro l’opposizione di tre quarti della nazione e nonostante le preoccupazioni dei suoi stessi sostenitori, nonostante otto giorni di scioperi e manifestazioni, Macron è andato avanti, ricorrendo infine a una misura costituzionale per approvare le leggi necessarie senza un voto, che avrebbe molto probabilmente perso. Al momento in cui scriviamo, in tutta la Francia sono in corso manifestazioni spontanee, occupazioni, blocchi e scioperi. Sorgono quindi due ovvie domande. Perché la gente è così preoccupata per questa misura e perché Macron si ostina a rispettarla? Vediamo di affrontarle una dopo l’altra.

 

In primo luogo, il governo non si è quasi mai degnato di difendere l’iniziativa. Si è parlato di persone che vivono più a lungo, di un numero inferiore di contribuenti ai regimi pensionistici e che comunque tutti gli altri lo fanno. Ma questo è tutto. Il governo sembra credere che la gente comune sia troppo stupida per capire la necessità della “riforma”, che per loro e i loro sostenitori è evidente.  Le pensioni sono solo un’altra voce di spesa pubblica, e un governo che sta elargendo soldi a pioggia all’Ucraina e che ha dichiarato che avrebbe speso “tutto il necessario” per sconfiggere il Covid non è certo nella posizione di negare una pensione dignitosa a chi ha lavorato tutta la vita.

 

Inoltre, le “riforme” prendono essenzialmente di mira i poveri. Avvocati, politici, amministratori delegati, medici, giornalisti, banchieri… queste persone non hanno fretta di andare in pensione. Ma infermieri, autisti di mezzi pesanti, assistenti, braccianti agricoli, operai edili, raccoglitori di rifiuti… queste persone sono logorate dal lavoro manuale come non mai e non vedono l’ora di andare in pensione. In effetti, una delle ironie della situazione è che la misura non farà risparmiare molto denaro, perché molte persone della classe operaia di circa 60-62 anni sono disoccupate (poiché i giovani sono meno costosi da assumere) o percepiscono un sussidio di invalidità a lungo termine, logorati da una vita di lavoro. Proprio oggi un rapporto ha evidenziato il significativo aumento dei decessi precoci e delle invalidità di lunga durata nell’ultimo decennio, quando l’età pensionabile è stata portata a 62 anni. E poiché nessuno ha ancora capito come la misura possa effettivamente aumentare il numero totale di posti di lavoro disponibili, il risultato sarà un aumento della disoccupazione giovanile. Ma i giovani non votano.

 

È per questo motivo che l’iniziativa non riguarda e non è intesa a far “lavorare più a lungo” le persone. Si tratta piuttosto di farle aspettare più a lungo per riscuotere la pensione nella speranza, brutale, che muoiano. Cosa fare con una popolazione sempre più anziana e sempre più confinata in istituti è un problema che nessun governo francese ha ancora affrontato, quindi perché non aiutarli a morire prima, riducendo così le dimensioni del problema?

L’arroganza e la brutalità di questa misura, infine, sono solo l’ultima di una lunga serie di aggressioni al popolo francese, da parte di un Presidente che disprezza apertamente i francesi, il loro Paese, la loro storia e la loro cultura, e che considera l’essere Presidente della Francia solo un’altra casella da spuntare nel suo percorso per diventare Presidente dell’Europa, o altro. Come l’aumento delle tasse sul carburante nel 2018 è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, scatenando la rabbia che ha dato il via ai Gilets jaunes, così questa iniziativa inutile e provocatoria, unita all’atteggiamento sprezzante del governo nei confronti dell’opinione pubblica e all’uso spudorato di espedienti procedurali per far passare la legge necessaria in Parlamento, ha fatto precipitare la Francia in una protesta furiosa e sempre più casuale e disorganizzata – un punto su cui tornerò. Dopotutto, la legittimità di un governo in Francia si basa storicamente su molto di più di un semplice risultato elettorale.

 

Ora, qualsiasi governo normale, razionale e politicamente accorto, di fronte a questo livello di resistenza da parte degli elettori, e ai dubbi persino dei suoi stessi sostenitori, e su una questione francamente marginale, avrebbe detto: “Va bene, facciamo qualcos’altro”. Ma Macron (ed è lui in persona) ha fatto passare la misura, sfidando persino il Parlamento. Che cosa sta succedendo?

 

Innanzitutto, Macron è un individuo debole, con uno scarso senso della politica e molto distaccato dalla vita comune. È un rappresentante di una nuova generazione di politici, con una mentalità tecnocratica ma con pochissime conoscenze tecniche, per i quali le cariche politiche di alto livello sono solo un altro lavoro sul proprio curriculum, che porta denaro e status, e le possibilità di trarne profitto in seguito. In Macron c’è poco o nulla del tradizionale Presidente francese: fa i rumori obbligatori, ma il suo disprezzo per i suoi concittadini non è nemmeno molto mascherato. Come la maggior parte dei suoi simili, non si aspettava di dover affrontare problemi politici autentici e tradizionali, e non ha la minima idea di come farlo. La sua performance personale durante il Covid, ad esempio, è stata pietosa, ma anche il suo tocco nelle crisi politiche in generale è stato scarso. Quindi ha deciso che questa questione, per quanto banale, è una di quelle su cui vincerà e dimostrerà chi è il capo. È un esercizio per apparire determinato e statista, e le cose sono arrivate a un punto tale che non può tirarsi indietro senza essere gravemente danneggiato politicamente. Avrebbe potuto ritirare la proposta di legge quando è apparso chiaro che probabilmente non sarebbe stata approvata dall’Assemblea Nazionale, il che sarebbe stata la cosa più sensata e professionale da fare. Invece ha usato i poteri speciali per far passare il provvedimento, peggiorando così la situazione.

 

D’altra parte, questo è un problema che Macron, in un certo senso, capisce: il tipo di scenario che gli hanno insegnato quando era all’ENA vent’anni fa, il tipo di cose che i consulenti di gestione pensano di saper gestire. Tagliare, risparmiare, far soffrire e morire inutilmente, aiutare i ricchi e danneggiare i poveri, obbedire ad astruse superstizioni economiche: è tutto lì. Non richiede alcuna conoscenza o comprensione specialistica e non presenta la complessità intellettuale e le sfide della maggior parte degli altri problemi che il Paese deve affrontare.

 

E a differenza di molti altri problemi, questo è interamente francese. Non c’è una dimensione internazionale, non ci sono sviluppi improvvisi che sfuggono al controllo francese, non ci sono trattati e accordi internazionali, non ci sono alleati di cui preoccuparsi, non ci sono questioni veramente difficili e complesse, non ci sono posizioni di altri Paesi che devono essere prese in considerazione, ma solo alcuni modi intelligenti di presentare i numeri per far sembrare che ci sia un problema. Come sempre in politica, è più facile e attraente affrontare problemi piccoli e facili che grandi e complessi. Dopotutto, si tratta di una questione su cui la “vittoria” è effettivamente possibile.

 

Quindi, a che punto siamo? I media hanno fatto un po’ di confusione e la situazione cambia ogni giorno, ma facciamo un passo indietro e guardiamo al quadro generale. In primo luogo, Macron (nella persona del suo Primo Ministro) si è avvalso di una disposizione della Costituzione francese per imporre leggi senza dibattito. Si tratta dell’articolo 49,3 della Costituzione, il famoso Quarante-neuf-trois. In pratica, consente a un Primo Ministro di forzare l’approvazione di una legge, con la riserva che i partiti dell’opposizione possono presentare una mozione di censura; se questa mozione ha successo, il governo deve dimettersi e, naturalmente, la legge decade. Ma ci sono alcune sfumature qui, quindi rimanete con me.

In primo luogo, l’articolo stesso è stato redatto, come gran parte della Costituzione della Quinta Repubblica, come reazione alla Quarta. Quella Repubblica (1946-58) era ultraparlamentare e molto divisa, e i governi avevano spesso enormi problemi a far approvare le leggi. Un governo che non riusciva a far approvare la legge di bilancio, ad esempio, non aveva altra scelta che dimettersi. Questo portò a un’instabilità senza fine e i redattori della Costituzione della Quinta Repubblica erano determinati a evitare che si ripetesse. In realtà, il Quarante-neuf-trois è stato utilizzato solo occasionalmente sotto la Quinta Repubblica, perché la maggior parte dei governi aveva comunque una maggioranza stabile. Ma nell’attuale stato caotico dell’Assemblea Nazionale, il Primo Ministro vi ha già fatto ricorso quasi una dozzina di volte, anche pochi giorni fa. E come spesso accade in Francia, la soluzione è diventata più impopolare del problema iniziale, con comprensibili proteste per il comportamento autoritario di un governo senza maggioranza. Il governo ha vinto questo recente voto di sfiducia, ma solo per un pelo, ed è difficile credere che possa ripetere lo stesso trucco per molte altre volte.

 

Detto questo, i risultati della perdita di un voto di fiducia non sono così drammatici. Per cominciare, non ha alcun effetto sulla posizione di Macron, poiché il bersaglio è il governo, non il Presidente. È possibile (appena) sbarazzarsi di un Presidente sotto la Quinta Repubblica, ma non con questo metodo.  Salvo terremoti politici (ma vedi sotto), Macron è al sicuro fino al 2027. E non è nemmeno detto che ci siano necessariamente le elezioni. L’attuale Primo Ministro deve dimettersi e Macron dovrà trovarne uno nuovo per formare un nuovo governo. Si tratterà di una sconfitta, ma in gran parte simbolica, poiché qualsiasi futuro primo ministro sarà un altro burattino dell’Eliseo. Una singola sconfitta come questa sarebbe un grande imbarazzo politico. Se ci fossero più sconfitte di questo tipo, ci sarebbero pressioni per nuove elezioni, ma non è chiaro se qualcuno le voglia necessariamente: la maggior parte dei partiti ha più da perdere che da guadagnare.

 

C’è quindi una buona probabilità che le cose vadano avanti così ancora per qualche anno e che l’Assemblea Nazionale diventi sempre più caotica e meno rilevante. Ma questa è la Francia, dove c’è una venerabile tradizione di esprimere il malcontento nei confronti del governo nelle strade. Fino a poco tempo fa, l’umore nazionale, per quanto si potesse giudicare, era di rabbiosa rassegnazione. Settimane di manifestazioni e scioperi di massa non erano riuscite a smuovere il governo e sembrava che alla fine avrebbero fatto passare il provvedimento. Questo è in gran parte accaduto (anche se ci sono ancora alcuni trucchi procedurali da provare), ma la rabbia è ancora presente. Finora le cose sono state organizzate e pacifiche. I sindacati, per una volta, hanno lavorato insieme e ci sono stati solo pochi incidenti violenti. Ma i sindacati hanno ormai esaurito le armi: le manifestazioni di massa sono l’unica cosa che sanno fare e ci sono segnali di perdita di controllo a livello locale.

 

Negli ultimi giorni, sono aumentate le segnalazioni di scioperi improvvisati, assembramenti rabbiosi davanti agli edifici ufficiali, blocchi e persino sabotaggi. In diverse città tradizionalmente militanti, i sindacati locali hanno organizzato interruzioni dei trasporti. La spazzatura continua ad accumularsi nelle strade di Parigi. Le raffinerie di petrolio hanno smesso di funzionare per un po’ e gli autotrasportatori stanno parlando di usare tattiche di blocco: un paio di dozzine di camion, posizionati strategicamente nelle ore di punta, farebbero fermare la maggior parte delle città francesi. I tentativi del governo di rimuovere i blocchi hanno ulteriormente infiammato le tensioni.  È interessante il fatto che si cominci a muovere contro l’infrastruttura dello Stato stesso e dei suoi politici eletti.

 

Finora, i sindacati sembrano avere il controllo a livello locale; ma tutti vedono la possibilità di un ritorno della protesta in stile Gilets jaunes: organizzata localmente, senza una gerarchia fissa, in gran parte senza controllo o direzione e aperta alle infiltrazioni. Come in passato, la causa apparente sarà solo una tra le tante: stiamo assistendo all’inizio di un’esplosione di rabbia contro un sistema arrogante che si comporta in modo sempre più dittatoriale. E si può contare sul fatto che Macron peggiorerà la situazione, con una risposta affrettata e probabilmente sproporzionata.

 

La realtà è che lo Stato non è in grado di affrontare efficacemente una ripetizione del 2018/19. Anche in quel caso, la polizia si è ridotta in gran parte a stare a guardare la distruzione di proprietà, intervenendo solo quando la vita era minacciata. Non ce ne sono abbastanza e non possono essere ovunque. Questa volta l’atmosfera è più pesante, la rabbia probabilmente maggiore e la scelta degli obiettivi quasi infinita. Abbiamo già subito attacchi alle infrastrutture elettriche. Non si può proteggere tutto, e anche se si potesse, non si potrebbe proteggere nient’altro.

 

Le cose potrebbero quindi diventare decisamente cinetiche, in un Paese che ha la reputazione di avere una forma vigorosa e vivace di politica di strada. Sebbene il caso francese presenti delle specificità, la maggior parte delle ragioni di malcontento è anche internazionale. È interessante ipotizzare chi potrebbe essere il prossimo.

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Osservatorio sulla diplomazia: Crescono le tensioni in Occidente mentre si trascina la guerra brutale, di Connor Echols a cura di Roberto Buffagni

https://responsiblestatecraft.org/2023/03/10/diplomacy-watch-tensions-grow-in-west-as-brutal-war-drags-on/?mc_cid=0fd4e74627&mc_eid=f4f4f0ee08

Osservatorio sulla diplomazia: Crescono le tensioni in Occidente mentre si trascina la guerra brutale

La solidarietà dell’Occidente sembra incrinarsi mentre il conflitto in Ucraina entra nel suo secondo anno.

di Connor Echols

 

10 MARZO 2023

Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, l’Occidente si è unito in una straordinaria dimostrazione di solidarietà. Decine di Paesi hanno inviato aiuti all’Ucraina nella speranza di rallentare almeno la marcia del Cremlino, aiutando Kiev a ribaltare le sorti del conflitto e a respingere Mosca nell’Ucraina orientale. Da allora si è arrivati a una situazione di stallo.

 

Mentre i leader occidentali si impegnano ancora ad aiutare Kiev “fino a quando sarà necessario“, il sostegno pubblico agli aiuti all’Ucraina ha iniziato a dividersi. In Europa, l’entusiasmo per le sanzioni forti è diminuito costantemente in molti Paesi chiave, tra cui Germania, Gran Bretagna e Francia.

 

Negli Stati Uniti, il sostegno dei repubblicani all’invio di qualsiasi tipo di aiuto finanziario all’Ucraina è crollato da quasi il 70% dello scorso aprile a meno del 40% di oggi, e “anche i democratici stanno mostrando un sostegno leggermente inferiore per alcuni tipi di aiuti rispetto all’anno scorso“, secondo l’Economist. (Si noti che Washington ha fornito più della metà degli aiuti totali all’Ucraina dall’anno scorso, molto più di qualsiasi altro Paese).

 

Queste tensioni sono esplose nella sfera pubblica all’inizio di questa settimana, quando l’ambasciatore della Germania negli Stati Uniti ha avuto un battibecco non proprio diplomatico su Twitter con il senatore J.D. Vance (R-Ohio), un politico emergente con un talento per il populismo.

 

Il comportamento della Germania in questa guerra è vergognoso, ed è un insulto ai nostri elettori il fatto che troppi repubblicani la assecondino“, ha twittato Vance, riferendosi alle preoccupazioni diffuse sul fatto che Berlino abbia promesso troppo e mantenuto poco rispetto all’impegno di modernizzare le proprie forze armate per affrontare meglio la Russia. “Tutte le loro promesse si sono trasformate in letame“.

L’ambasciatore tedesco Emily Haber ha risposto a Vance qualche giorno dopo. “Letame? Siamo il più grande fornitore di armi dell’#Ucraina nell’UE“, ha twittato Haber. “Le nostre importazioni di energia russa sono ridotte a zero. Un cambiamento strategico irreversibile, avvenuto quasi da un giorno all’altro“.

 

Abbiamo stanziato 100 miliardi di dollari in più per la difesa“, ha continuato. “Li spenderemo. Ma non si possono comprare carri armati da Costco“.

 

Vance non ha perso tempo a rispondere. “Se la vostra politica non fosse stata quella di dipendere dalla Russia per l’energia e di sottrarvi alle quote della NATO per due decenni, non avreste comprato carri armati da Aldi“, ha scritto. (Sebbene la NATO non abbia una “quota” ufficiale, i politici statunitensi da tempo spingono gli alleati a spendere almeno il 2% del PIL per la difesa). Con una mossa probabilmente ben consigliata, Haber ha scelto di lasciare la conversazione lì.

 

Nel frattempo, il mese scorso, alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, si è consumata un’altra spaccatura occidentale, secondo Stephen Walt, professore di Harvard e borsista non residente del Quincy Institute. In “Foreign Policy”, Walt ha notato “un abisso tra l’ottimismo espresso in pubblico dagli alti funzionari e le valutazioni più pessimistiche ascoltate in privato“.

 

Nonostante la retorica impetuosa dei discorsi pubblici, nessun funzionario che ha parlato con Walt si aspettava che l’Ucraina sarebbe stata in grado di riprendere tutto il suo territorio, e nessuno prevedeva che la guerra sarebbe finita presto. “La maggior parte delle persone con cui ho parlato si aspetta un continuo stallo, che forse porterà a un cessate il fuoco tra qualche mese“, ha scritto Walt.

 

La conclusione di Walt? “Gli aiuti occidentali all’Ucraina non mirano alla vittoria; pertanto, il vero obiettivo è mettere Kyiv in condizione di concludere un accordo favorevole quando sarà il momento“.

 

Ma, osserva, questo approccio comporta rischi significativi. “Se nel febbraio 2024 la guerra è ancora in una fase di stallo brutale e l’Ucraina viene distrutta, Biden dovrà affrontare pressioni per fare di più o per cercare un piano B“, ha scritto Walt. “Considerando ciò che ha promesso, qualsiasi cosa che non sia una vittoria completa sembrerà un fallimento“.

 

Altre notizie relative alla diplomazia:

 

– Il Dipartimento della Difesa sta impedendo agli Stati Uniti di condividere le prove delle atrocità russe con la Corte penale internazionale “perché teme di creare un precedente che potrebbe contribuire a spianare la strada per perseguire gli americani“, secondo il New York Times. La mossa mette il Pentagono in contrasto con il resto dell’amministrazione Biden e con molti membri del Congresso, che hanno dato il permesso speciale di condividere l’intelligence americana con la Corte nonostante Washington ne rifiuti la giurisdizione. Nell’ultima proposta di pace dell’Ucraina, il presidente Volodymyr Zelensky ha chiesto un tribunale speciale per processare i leader russi per numerosi presunti crimini di guerra. “Stiamo facendo tutto il possibile per garantire che la Corte penale internazionale riesca a punire i criminali di guerra russi“, ha dichiarato venerdì scorso Zelensky.

 

– Mercoledì scorso, il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha incontrato Zelensky a Kiev, dove i due hanno espresso il loro sostegno alla proroga dell’accordo sul grano del Mar Nero prima della scadenza del 18 marzo, secondo quanto riportato da Politico. “Oggi siamo interessati a garantire che non ci sia fame nel mondo”, ha detto Guterres dopo l’incontro. La nostra politica comune è quella di continuare a gestire il “corridoio del grano”“. Almeno 23 milioni di tonnellate di cereali ucraini e altri prodotti agricoli sono passati attraverso questo corridoio da quando la Russia e l’Ucraina hanno concordato l’accordo lo scorso agosto, secondo il Dipartimento di Stato.

 

– Funzionari statunitensi anonimi hanno dichiarato martedì al New York Times che, secondo “nuove informazioni“, un “gruppo filo-ucraino” senza legami apparenti con i vertici di Kiev, potrebbe aver compiuto l’attacco dello scorso anno ai gasdotti Nord Stream. Questa nuova teoria arriva dopo che il giornalista investigativo veterano Seymour Hersh ha attribuito la colpa agli Stati Uniti in un articolo dettagliato, scatenando un vortice di discussioni su chi fosse dietro l’attacco. Anche se il vero colpevole rimane poco chiaro, la prima teoria occidentale – che sosteneva che fosse stata la Russia a compiere l’attentato – sembra essere stata screditata.

 

– In una notevole inversione di tendenza, l’Ungheria intende sostenere la candidatura della Svezia all’adesione alla NATO dopo un incontro tra funzionari dei due Paesi, secondo quanto riportato da AP News. Una delegazione ungherese visiterà presto anche la Finlandia per colloqui su una potenziale adesione all’alleanza. Se l’Ungheria approverà entrambe le candidature, la Turchia diventerà l’unico Stato che impedirà ai Paesi scandinavi di entrare nella NATO, che può ammettere nuovi membri solo per consenso unanime.

– Martedì, il ministro degli Esteri cinese Qin Gang ha dichiarato che “il conflitto, le sanzioni e le pressioni non risolveranno il problema” in Ucraina e ha rinnovato l’appello del suo Paese ai colloqui di pace, secondo quanto riportato dalla Reuters. Qin si è anche scagliato contro i funzionari statunitensi per la promessa di “conseguenze” nel caso in cui Pechino scelga di inviare armi per sostenere lo sforzo bellico di Mosca. “La Cina non è parte della crisi e non ha fornito armi a nessuna delle parti in conflitto“, ha dichiarato. “Quindi su che base si parla di colpe, sanzioni e minacce contro la Cina?”.

 

Notizie dal Dipartimento di Stato americano:

 

In una conferenza stampa di martedì, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price si è impegnato a ritenere la Russia responsabile di crimini di guerra. “La comunità internazionale, compresi gli Stati Uniti, farà tutto il possibile per assicurarsi che i responsabili, dal livello locale a quello politico, siano ritenuti responsabili di questi crimini di guerra e delle atrocità che abbiamo visto commettere“, ha dichiarato Price.

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“NON SIAMO NATI IERI…” GUAI AL DI LÀ DEL CONFINE ed altro_La Redazione

     

“NON SIAMO NATI IERI…” GUAI AL DI LÀ DEL CONFINE

Il reato di cui è accusato l’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e che oggi potrebbe costargli l’arresto, è “fabbricato” ad arte per impedirgli di ricandidarsi alla Casa Bianca.” Lo ha detto il presidente del Messico, Andres Manuel Lopez Obrador (AMLO), definendo, quella che si starebbe costruendo intorno a Trump, una manovra “completamente antidemocratica“. “In questo momento l’ex presidente Trump ha dichiarato che potrebbero arrestarlo. Se così fosse, visto che nessuno è nato ieri, sarebbe per far sì che il suo nome non compaia sulla scheda elettorale”, ha detto AMLO durante la tradizionale conferenza stampa quotidiana. “Lo dico perché anch’io ho sofferto per la fabbricazione di un crimine, quando non volevano che mi candidassi. E questo è completamente antidemocratico, perché non permette al popolo di decidere chi lo governa

AMLO prosegue affermando che l’Amministrazione Biden non ha il diritto di parlare di violenza in Messico poiché avrebbe autorizzato il “sabotaggio” del gasdotto Nord Stream, come sostiene il giornalista Seymour Hersh.

Il presidente AMLO risponde al rapporto statunitense sui diritti umani che attacca il Messico: “Non è vero, stanno mentendo. È pura politica… Non vogliono abbandonare la Dottrina Monroe, né il cosiddetto Destino Manifesto. Non vogliono cambiare, e si credono il governo del mondo. Sono dei bugiardi. Non prendetela male. È come se iniziassimo a valutarli in termini di diritti umani. Perché non liberate Julian Assange? Se parlate di giornalismo e libertà di stampa, perché avete Assange in carcere? Come mai un giornalista pluripremiato ci dice che il governo statunitense ha sabotato il gasdotto tra Russia ed Europa?”.

Le dichiarazioni di AMLO sono arrivate poco prima di incontrare l’inviato di Biden, per il cambiamento climatico, John Kerry; questo rende l’impatto delle sue dichiarazioni ancora più significativo e forte.  AMLO da credibilità a una narrazione che sostiene che lo stesso Biden abbia autorizzato un’azione segreta per bombardare il gasdotto Nord Stream.

Altre volte, in passato, Lopez Obrador si è schierato dalla parte di Trump, Nel gennaio del 2021, Lopez Obrador aveva denunciato, ad esempio, la decisione di Twitter di bloccare il profilo di Trump, per i riferimenti alle proteste in corso al Campidoglio. “Una cosa che non mi è piaciuta è la censura. Non mi piace che qualcuno venga censurato e privato del suo diritto di trasmettere messaggi, su Twitter o su Facebook, non sono d’accordo”, ha sottolineato il presidente Messicano “Dobbiamo tutti garantire la libertà“.

Alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2020 AMLO fu uno degli ultimi leader stranieri a fare visita all’allora presidente americano tessendo le lodi al presidente Trump, ringraziandolo per il rispetto e l’amicizia riconosciuta al Messico e ad AMLO. AMLO fu anche uno degli ultimi leader mondiali (insieme a Putin) a congratularsi con Biden per le sue elezioni da presidente.

 

 

 

NEL CORTILE DI CASA

Dopo l’Argentina, anche il Messico, il 12 marzo scorso, ha ufficializzato, assieme all’Egitto e ad altri stati, la richiesta di adesione al BRICS. Trattandosi della parte del “cortile di casa” adiacente ai propri confini, pur nello smarrimento e nel caos in cui si trova la leadership statunitense, ci sarà da aspettarsi una sua qualche energica reazione. Il canale più diretto e immediato di intervento potrebbero essere i cosidetti “cartelli della droga” messicani, vere e proprie formazioni paramilitari in gran parte provenienti dalle forze speciali dell’esercito messicano.

Non è detto, però, che questa volta si realizzi facilmente.

È vero che i legami con l’entroterra statunitense sono più che solidi; è altrettanto vero che i laboratori di droghe sintetiche di questi cartelli si forniscono in gran parte dei principi attivi di produzione cinese. Una sorta di nemesi della “guerra dell’oppio” di fine ‘800 che presuppone la tessitura di legami altrettanto forti di questi cartelli con ambienti cinesi.

In guerra non si va certo a sottilizzare sull’integrità morale degli “amici”.

https://eurasiamedianetwork.com/mexico-plans-to-join-brics-amid-growing-tensions-with-us/

 

NEL VICINATO DI CASA NOSTRA

Come ben sanno i nostri lettori, uno dei motivi di contrasto e di logoramento dei rapporti tra l’Algeria e la Francia è stato il mancato rispetto, da parte transalpina, degli impegni di investimento nel settore industriale e manifatturiero in territorio algerino. Uno dei fattori che ha aperto ulteriormente la strada alla Russia e alla Cina. Come un “miles gloriosus” da par suo, il Governo Meloni ha rilanciato con toni roboanti una riedizione della antica politica di Enrico Mattei, che tanto lustro e prestigio ha dato all’Italia in quelle lande.

Ora cominciano a delinearsi i contorni reali di questa politica, in paradossale sodalizio con la Francia.

Macron ha appena annunciato il programma di costruzione di uno stabilimento automobilistico in Algeria. Finalmente una prima parziale soddisfazione tra tante promesse inevase.

Cosa dovrebbe produrre questo stabilimento? Ebbene sì, la FIAT 500.

Questo impegno sarebbe parte del pacchetto di accordi bilaterali di collaborazione tra Italia e Algeria, o parte di un triangolo discreto nel quale l’Italia, in cambio di forniture alquanto dubbie di gas e petrolio, funge da paravento, con i propri marchi e con il proprio residuo prestigio nell’area mediterranea, a mere operazioni di recupero per conto terzi. Del resto aziende come Fiat, ma sempre più anche ENI e Leonardo, gravitano sempre più in orbita statunitense e in subordine dei satelliti europei più importanti.

CERCASI BADOGLIO 2.0. TORNA, PIETRO: TUTTO È PERDONATO.

28 settembre 1937, Stadio di Berlino.

Benito Mussolini [in tedesco]: “Il Fascismo ha la sua etica, alla quale intende rimanere fedele, ed è anche la mia personale morale: parlare chiaro e aperto e, quando si è amici, marciare insieme sino in fondo.”

21 marzo 2023, Senato della Repubblica italiana.

Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio: “Continueremo a sostenere l’Ucraina senza badare all’impatto che queste scelte possano avere nel breve periodo sul consenso verso la sottoscritta, il governo, o le forze di maggioranza. Continueremo perché è giusto farlo sul piano dei valori e dell’interesse nazionale”.

 

 

 

Polli e pollastre

Scherzo al presidente della Banca Centrale Europea Christine Lagarde

Il capo della Banca centrale europea, Christine Lagarde, è stata vittima di uno scherzo da parte di troll russi e ha rivelato informazioni sorprendenti. Il fallimento delle sanzioni, l’inflazione massiccia, i piani della CBDC per l’e-Euro e la prevenzione delle criptovalute straniere nell’UE.

Lagarde ammette che l’inflazione non è transitoria come sostengono pubblicamente, ma è ora a un livello molto più alto. “Abbiamo una bassa crescita e i prezzi sono troppo alti”. Secondo la Lagarde, la Banca centrale russa ha fatto un ottimo lavoro nel rispondere alle sanzioni dell’UE e nel mantenere bassa l’inflazione in Russia.

Lagarde ammette che le sanzioni contro la Russia non stanno avendo il peso sperato. La Russia riesce ancora a vendere energia ad altri Paesi che ignorano le sanzioni.

Il tetto al prezzo del petrolio imposto dall’UE funzionerà?

“Io e voi sappiamo che i russi sono molto bravi ad aggirare le sanzioni”.

Come possiamo migliorare le sanzioni?

Se si hanno delle backdoor attraverso le quali si può sfuggire alle sanzioni, queste si indeboliscono. La Turchia, ad esempio, sta facendo buon viso a cattivo gioco rifiutando a Svezia e Finlandia di entrare nella NATO, e per questo la NATO non può fare pressione sulla Turchia.

Qual è l’inflazione massima che prevede per l’UE quest’anno?

È difficile da prevedere. Il 7% è un valore basso. Probabilmente sarà più alta. So che i tassi di interesse continueranno a salire inevitabilmente. Non riusciremo a domare l’inflazione se i tassi di interesse non saliranno. Io e Powell parliamo.

Dell’Ucraina che ha vinto la guerra.

Io sono dell’idea che chi ha la pistola più grossa vince. “Si tratta di un principio di base sciocco da cowboy del Far West”. La potenza militare più importante è quella degli Stati Uniti. L’Ucraina deve vincere.

Lagarde dimentica che nessuna delle due potenze nucleari ha un’arma più grande.

A proposito di CBDC e-Euro

La decisione sarà presa in ottobre. Non voglio che Facebook o Google sviluppino una moneta che si appropri della sovranità dell’UE. Non voglio che le criptovalute straniere diventino la valuta di scambio in Europa. Controllo totale delle transazioni, anche per piccole somme.

Questo è ciò che i leader si dicono a porte chiuse. Questo dimostra che la macchina della propaganda vi sta propinando bugie. Nulla di ciò che leggete sulla guerra, sulle sanzioni o sull’inflazione nei media tradizionali è vero.

Guarda il video completo
Lagarde/ Zelenskyy qui:

  https://rumble.com/v2ddlps-prank-with-the-president-of-the-european-central-bank-christine-lagarde.html

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IL POPOLO DEI LUPI. (3-4), di Daniele Lanza

IL POPOLO DEI LUPI. (3)
(note storiche sparse tra Moldova, Valacchia e Transilvania, dagli albori alla contemporaneità, ripubb. 2018*)
Torniamo a noi……dove ci ha portati la corsa dei lupi ? Attraverso una selva che pare inghiottirli più volte, eppure non lo fa, solo ogni volta che ne escono sono differenti da come ne sono entrati : sono solo gli snodi dell’etnogenesi.
Gli orgogliosi e combattivi DACI, affini ai traci, che invocano ATTIS e non credono alla morte, precipitano nel mare della latinità e quando ne riemergono 3 centinaia di anni più tardi, si esprimono in un latino volgare che ha iniziato ad evolversi a modo suo….e la sera pregano Cristo.
Senza coscienza alcuna di unità territoriale, in un mondo successivo a Roma che muta forma e senso, scivolano e si perdono nuovamente nella macchia……è il momento della grande Bulgaria altomedievale, e quando i nostri lupi riemergono dal lungo abbraccio bulgaro/bizantino 400 anni più tardi, sono ormai orientati alla fede ortodossa.
A questo punto abbiamo varcato ormai di molto l’anno 1000 e questi discendenti intrepidi dei daci, vengono adesso chiamati VLACS da gran parte delle fonti che li menzionano. Si tratta di un curioso essere….un’umanità sprofondata tra Carpazi e Balcani che parla una stravagante variante del cosmo romanzo seppur circondata da parlate comparativamente indecifrabili (dal magiaro alle slave), ma a differenza dei cugini latini (sudditi di pontefici e monarchi francesi o spagnoli) sono saldamente ortodossi. Consolidato questo fascinoso equilibrio di romanità e grecità, ma PRIVI di qualsiasi unità politica (nemmeno la cercano) si avventurano tra le spire del tardo medioevo…….
I monarchi magiari e la loro progressiva conquista porta alla creazione di TRE aree abitate dai nostri Vlacs, nel corso del cruciale XIV secolo : Valacchia e Moldavia, costituite come territori cuscinetto (materialmente messi assieme da condottieri Vlacs in nome del re d’Ungheria, ma che quasi subito diverranno principati vassalli di fatto indipendenti) la terza invece, incamerata integralmente allo spazio ungherese col nome di Transilvania.
Il quadro, considerato con la sensibilità politica di un nostro contemporaneo parrebbe sconsolante : un popolo suddiviso in due potentati minori perennemente a rischio di essere assorbiti da qualche potenza, più un terzo che invece non vanta neppure una propria forma di stato, ma è regione di un altro regno il cui nucleo è magiaro. La coscienza del suddito premoderno tuttavia NON è la nostra……e non se ne facevano gran cruccio. A maggior ragione considerando che qualsiasi eventuale diatriba sta per risultare declassata per valore, del tutto miniaturizzata a paragone di quanto si prepara : la lunga notte ottomana si stende su tutti costoro, dalle più sperdute isole dell’Egeo fino (un giorno) alla Pannonia.
Il macro evento che si sviluppa tra il XIV° e il XV° secolo cambia gli equilibri di forza nel vecchio continente, sebbene non modifichi sensibilmente le organizzazioni territoriali preesistenti (come accade con tutti gli imperi : se già esiste una suddivisione organizzativa locale, più comodo servirsi di QUELLA sostituendone l’amministrazione anziché riformare tutto dal principio).
Pertanto per quanto riguarda la nostra storia : i principati di Moldavia e Valacchia continuano a esistere, come stati vassalli soggetti a tributo: il padrone non è più il sovrano d’Ungheria, ma il sultano ottomano.
Il 15° secolo scorre così in uno stato di tensione che vede la Valacchia, ancora libera ma sempre più soggetta alle volontà del sultano (che cerca di influenzarne la successione), in pratica tra due contendenti che tentano di tirarla dalla propria parte (l’altro contendente, ancora i sovrani d’Ungheria avversari dei turchi). In questo contesto, che più caotico non potrebbe essere per numero di intrighi e contendenti, deve governare Vlad l’impalatore che tutti conosciamo……….
Il controllo ottomano si rafforza dopo la vittoria storica sugli ungheresi (battaglia di Mohac 1526) che determina relativa stabilità dell’influenza ottomana nei Balcani ed oltre : con Solimano il magnifico si inaugura quasi un secolo di dominio saldo (ed in realtà anche oltre).
Saltando arbitrariamente un susseguirsi intrigante di fatti, passaggi e spargimenti di sangue si può dire che solo verso la fine del XVII° secolo la cristianità torna ad incombere sull’areale balcano/carpatico : a partire dalla vittoria del 1689, tanto la potenza asburgica dall’Europa centrale quanto quella zarista da oriente iniziano a far sentire tutto il proprio peso.
Siamo ormai nella tarda età moderna….è il tempo di Luigi XIV di Francia a Versailles come di Pietro il grande (suo emulo) a San Pietroburgo o della nascita del regno di Prussia. Secolo di guerre di successioni della prima guerra planetaria (dei 7 anni ossia) e di Diderot e la sua Enciclopedia.
Non molto è mutato per i vlacs sottoposti al potere ottomano : dopo 300 anni di tributi ai sultani l’esistenza scorre ancora come sempre. Qualcosa tuttavia sta per cambiare…..la riscossa (mitica) della fede cristiana ortodossa riprende vigore col sempre maggiore esaurimento turco e con un nuovo attore che si affaccia sull’intricato teatro balcanico……l’impero di RUSSIA.
Il popolo dei lupi incontra lo zar alla fine, sul termine dell’età moderna.
(prosegue)
[Liber Chronicarum di Norimberga, 1493. Ill. di Transilvania]
 
IL POPOLO DEI LUPI. (4)
(nell’immagine si vede la Tuhgra, sigillo personale dei sultani
,esempio ricco dell’arte calligrafica araba anche se in lingua turca. Per la precisione sarebbe quella di Suleiman il il magnifico, Solimano).
Il lasso di tempo che gli schemi storiografici odierni chiamano “storia moderna” (1500-1800) è pertanto definito : gli antichi daci figli dei lupi, trasfigurati dal flusso della storia e rinati come VLACS “romanzofoni” ed ortodossi, vivono pacificamente (più o meno) come sudditi dei principi valacchi e moldavi, i quali a loro volta sono divenuti vassalli dei sultani osmanidi. Una parte di loro è invece suddita del re d’Ungheria e poi in seguito dell’imperatore d’Austria.
Lo schema (assai grossolano) è questo, per le centinaia di anni che vanno dalla caduta di Costantinopoli fino alla rivoluzione francese, su per giù (immaginiamola così, per dire).
In linea con lo stadio di coscienza socio-politica dell’era in questione, NON si fa sentire alcun eco di irredentismi o ricerca di un’unità nazionale più vasta : alla gente non fa differenza se il proprio regnante non parli la loro stessa lingua o se i vicini della provincia accanto abbiano un altro costume. Non si ricerca la fratellanza con chicchessia solo perché si esprime nel medesimo idioma e di conseguenza i vlacs rimangono sudditi di potentati differenti : in oltre 400 anni di influenza ottomana si registra un solo episodio (una meteora durata un battito di ciglia) in cui un pricipe vlac riesca a raccogliere sotto di sé in contemporanea Valacchia, Moldavia e Transilvania….si tratta di Mihai Viteazu nel 1600, che la effettua tra l’altro come unione personale dinastica, come norma dell’epoca (nella migliore tradizione di interpretazione romantica della storiografia patriottica ottocentesca, sarà retroattivamente eletto a campione dell’unità romena e precursore del risorgimento di questo stato).
Non è ancora il tempo e le masse sono ancora prigioniere dello schema di classe (legati ai loro “naturali superiori”, principi e granduchi) piuttosto che sviluppare un’identità etnica militante.
Se qualcosa si muove è grazie alla spinta di eventi assai più grandi che non le vicende interne di questi principati romeni e sarebbe a dire la pressione ormai congiunta di due grandi potenze (Austria e Russia) sui confini ottomani.
Nella totale impossibilità di riportare la catena innumerevole di avvenimenti che compongono la storia politico-militare del 700 nel sud-est Europa cerco di condensare per il lettore a digiuno focalizzandomi sui pochi punti cruciali (seguitemi).
Lo schema geopolitico GENERALE è il seguente : a patire dalla fine del 600 (ossia dalla fine della minaccia turca in Europa col conflitto conclusosi nel 1699 contro Russia ed Austria) per tutto il lungo corso del 18° secolo e ancora i primi decenni del secolo successivo, l’impero ottomano si ritrova ormai costantemente in una posizione DIFENSIVA. Gli equilibri tradizionali dell’età moderna sono radicalmente mutati ed ora la potenza turca anziché avanzare si ritrova in lenta, ma costante ritirata. Davanti a sé DUE grossi problemi : 1) il traballante regno d’Ungheria, suo tradizionale opponente dell’Europa centrale, si è unito dinasticamente all’Austria ed ora è un IMPERO (asburgico) con tutta la sua forza, il nuovo avversario. 2) In secundis, un nuovo rivale, di stazza sconfinata, si affaccia su tutto il perimetro che va dal Caucaso ai Carpazi, lungo la linea del mar Nero……..finalmente gli zar di Russia entrano nel gioco.
Morale della favola : gli ottomani si trovano contro due potenti concorrenti, con forti interessi nei Balcani e determinati a non retrocedere, il cui attacco sarà spesso quasi concomitante (congiunto oppure in successione).
Nello spazio di circa 150 anni menzionato sopra (1700-1850), si verificano una decina di conflitti militari tra zar e sultani (cosiddette “guerre russo-turche” tra 18°/19° sec. , come le cataloga la storiografia) e PARALLELAMENTE un’altra mezza dozzina contro gli imperatori d’Asburgo (“guerre austro-turche”) : quasi 20 confronti bellici di varia scala in un secolo e mezzo, contro antagonisti di notevole spessore. La collisione con l’occidente (austro/russo) dalla tarda modernità alla prima età contemporanea è decisamente più di quanto le risorse militari ed economiche ottomane possano oggettivamente sostenere…..gran parte di questi conflitti finiscono con sconfitte e con armistizi non memorabili : nessun insuccesso di per sé è determinante, ma messi tutti assieme determinano il lento declino della potenza ottomana.
Questo come riguarda i vlacs ? I nostri piccoli (a paragone delle forze in gioco) e coraggiosi autoctoni, sudditi di Moldavia e Valacchia si ritrovano quasi esattamente sulla linea di fuoco della contesa ! A guardare uno scacchiere bellico sono una striscia di terra che separa tutti i contendenti citati (letteralmente).
Gli effetti non si fanno attendere : GIA’ al tempo di Pietro il grande si registrano svariate defezioni da parte dei principi valacchi e moldavi (sostenute dalla Russia principalmente) il che costringe gli ottomani non soltanto a giustiziarli, ma a metter mano direttamente nel sistema di governo e successione, estromettendo i regnanti locali (ritenuti non abbastanza leali) per sostituirli con altri scelti direttamente a Istanbul. A partire dal 1715, Valacchia e Moldova non avranno più a governarli principi nativi, bensì inviati speciali dell’impero : si tratta dei “fanarioti”, ovvero nobili di origine GRECA appartenenti alle famiglie di più illustri natali residenti in una zona della capitale ottomana (l’argomento prende un capitolo a sé per interesse. Diciamo solo che ciò che simboleggiano è molto importante).
Questi greci di antichissima estrazione, discendenti di antichi clan greci o ellenizzati (in generale bizantini) da lungo tempo incorporati dall’impero ottomano (senza nulla perdere delle proprie tradizioni), sono la scelta ideale in quanto ortodossi come i popoli che dovranno governare, ma al tempo stesso distaccati da essi e ritenuti (ancora) fedeli alle istituzioni turche per il momento. Uno principe fanariota decreterà la fine del servaggio della gleba nel 1743, anche per limitare il flusso sempre maggiore di fuggitivi verso la più illuminata Transilvania asburgica.
Il trend tuttavia è ormai determinato e a partire dall’ultimo 1/3 del 18° secolo la situazione precipita per gli ottomani : nel 1768 inizia una dura guerra contro l’imperatrice Caterina II, che oltre a determinare la perdita definitiva della CRIMEA anni dopo (nonché una prima penetrazione nel Caucaso), indebolisce la posizione turca in Moldova e Valacchia. Quest’ultima è per la PRIMA VOLTA occupata dai russi che giungono fino a Bucharest e tutto si conclude quando 6 anni più tardi si firma la pace di Küçük Kaynarca : questo esotico nome è sorgente di tante cose a venire…….
[continua]

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