IL BICCHIERE MEZZO PIENO, Teodoro Klitsche de la Grange

IL BICCHIERE MEZZO PIENO

Tra le innovazioni del decreto 150/2022, c’è l’estensione dei reati procedibili solo a querela dell’offeso, onde creare un barrage ai processi penali e così ridurne il numero. Il tutto, si sostiene, in linea con gli obiettivi di efficienza del processo e del sistema penale. Ancorché il tutto possa prestarsi ad un’inferiore deterrenza della prescrizione sanzionatoria (e così al di essa effetto dissuasorio) la rimessione alla parte lesa della facoltà di “far partire” il procedimento, ne facilita – a vantaggio della medesima – le condotte risarcitorie e riparatorie del reato, con soddisfazione – almeno parziale – dell’interesse della vittima.

Nello stato in cui versa la giustizia italiana, non possono che essere benvenute disposizioni che consentono una migliore soddisfazione dell’interesse privato, peraltro “alleggerendone” gli oneri per lo Stato. Tuttavia sono i presupposti di soluzioni come questa a dover essere criticati; vediamo perché.

Scriveva Hegel che lo “Stato è la realtà della libertà concreta”, in quanto, brevemente, coniuga gli interessi particolari con l’interesse della generalità così che né l’universale si compie senza l’interesse particolare, né che gli individui vivano solo per questo, senza che vogliano, in pari tempo, l’universale.

Più “tecnicamente”, da giurista, Jhering collegava l’interesse particolare al generale, attraverso i meccanismi giuridici, in particolare la sanzione, che, come Carnelutti avrebbe sottolineato, è un avvaloramento del precetto normativo con la quale si penalizza la condotta conforme o contraria a quella, sacrificando o soddisfacendo l’interesse particolare.

Anche per questo Jhering scrisse quel best seller giuridico che è La lotta per il diritto (Kampf ums Recht) ancora oggi, a circa un secolo e mezzo dalla pubblicazione, continuamente riedito. Nell’edizione Laterza degli anni ’30, con un’avvertenza preliminare di Croce che, sorprendentemente, ne sottolineava l’alto valore etico, scrivendo: “Può far maraviglia che questo elevamento della lotta pel diritto sopra le considerazioni utilitarie sia sostenuto da un pensatore che nella sua speciale trattazione filosofica dell’argomento, Der Zweck im Recht (1877-83), riportò il principio del diritto all’egoismo… Ma tant’è: nel Jhering il sentimento morale era più forte dei suoi presupposti e della sua logica filosofica” e proseguiva che a questa concezione “valse il forte rilievo dato agli individui e ai loro bisogni e ai fini che si propongono nel formare il diritto; se anche gli piacque interpretarli e chiamarli, poco felicemente, egoistici”.

La ragione per cui lottare (Kampf) per il proprio diritto soggettivo, al tempo stesso si risolve nel realizzare  quello oggettivo è che il diritto che non è applicato, per cui non si lotta, è un diritto… teorico. Cioè che nega la propria essenza di attività (ragione) pratica. Come le idee di Platone, confinato in un iperuranio normativo, senza un demiurgo che lo porti in terra.

Se la funzione del demiurgo è rivestita soltanto dalla vittima zelante probabilmente l’effettività dell’attuazione (cioè la soddisfazione dell’interesse pubblico all’ordine sociale) e così l’oggettivazione lascerà a desiderare.

Ciò premesso quel che più sorprende di questa soluzione è che se ne vuole misurare (almeno nella rappresentazione che ne danno molti mass-media) l’efficacia non dal calo dei reati commessi ma da quello dei processi che ne conseguono.

Di per se che non si celebri il processo dopo il reato perché manca la querela, non significa che il reato non sia avvenuto (né che il reo non lo reiteri), ma solo, per l’appunto, che manca la querela. Anzi, sbrigarsela con un risarcimento e non con la detenzione non fa calare le trasgressioni, ma aumentare le possibilità di “farla franca”. In particolare per i rei dotati di disponibilità finanziarie.

C’è da aggiungere che tale modo di ragionare, in particolare se presentato come “momento” decisivo delle riforme, è figlio di una visione burocratica del mondo; è l’universo visto dall’angolo visuale della scrivania, ma tale punto di osservazione non permette una percezione “a giro d’orizzonte” e prenderla per quella principale è frutto di una deformazione professionale, spesso ripetuta. Se invece di centomila processi da iniziare se ne hanno settantamila, onde la durata degli stessi dimezza, non vuol dire (neppure) che l’efficacia dell’amministrazione della giustizia penale è migliorata, ma solo che ha minore lavoro da sbrigare. Tuttavia la funzione della giustizia penale in ispecie, di assicurare l’ordine sociale non ci guadagna un gran che. Ciò non significa che la riforma sia disprezzabile, ma che non è il caso di intonare peana né confidare in grandi risultati da un bicchiere mezzo pieno.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Emmanuel Todd: ‘La Terza Guerra Mondiale è iniziata’

Se guardiamo i voti dall’ONU, vediamo che il 75% del mondo non segue l’Occidente, che così appare piccolissimo. Vediamo che questo conflitto, descritto dai media come conflitto di valori politici, è un più profondo conflitto di valori antropologici.

Intervista a cura di Alexandre Devecchio a Emmanuel Todd su “Le Figaro”.

Grande intervista – Emmanuel Todd è antropologo, storico, saggista, prospettivista, autore di numerose opere. Molte di esse, come “La caduta finale”, “Illusione economica” o “Dopo l’impero”, sono diventati classici delle scienze sociali. Il suo ultimo lavoro, “La terza guerra mondiale”, è apparso nel 2022 in Giappone e ha venduto 100.000 copie.

Pensatore scandaloso per alcuni, intellettuale visionario per altri, “Rebelle Destroy” con le sue stesse parole, Emmanuel Todd non lascia indifferente. L’autore de “La caduta finale”, che ha previsto nel 1976 il crollo dell’Unione Sovietica, era rimasto discreto in Francia sulla questione della guerra in Ucraina. L’antropologo ha finora riservato la maggior parte dei suoi interventi al pubblico giapponese, perfino pubblicando nell’arcipelago un titolo provocatorio: “La terza guerra mondiale è già iniziata”. Per “Le Figaro”, descrive in dettaglio la sua tesi iconoclasta. […]

Oltre allo scontro militare tra Russia e Ucraina, l’antropologo insiste sulla dimensione ideologica e culturale di questa guerra e sull’opposizione tra l’Occidente liberale e il resto del mondo che ha acquisito una visione conservatrice e autoritaria. I più isolati non sono, secondo lui, quelli che sono ritenuti tali.

Le Figaro. – Perché pubblicare un libro sulla guerra in Ucraina in Giappone e non in Francia?

Emmanuel Todd. – I giapponesi sono altrettanto anti-russi quanto gli europei. Ma sono geograficamente lontani dal conflitto, quindi non c’è un vero senso di urgenza, non hanno la nostra relazione emotiva con l’Ucraina. E lì, non ho affatto lo stesso status. Qui, ho l’assurda reputazione di essere un ribelle iconoclasta, mentre in Giappone sono un antropologo, uno storico e geopolitico rispettato, che si esprime in tutti i grandi giornali e riviste e di cui tutti i libri sono pubblicati. Laggiù posso esprimermi in un’atmosfera serena, cosa che ho fatto dapprima su delle riviste, e poi pubblicando questo libro, che è una raccolta di interviste. Quest’opera si chiama “La terza guerra mondiale è già iniziata, con 100.000 copie vendute ad oggi.

È ovvio che il conflitto, nel passare da una limitata guerra territoriale a uno scontro economico globale, tra tutto l’Occidente da una parte e la Russia sostenuta dalla Cina dall’altra parte, è divenuto una guerra mondiale.

Perché questo titolo?

Perché è la realtà, la Terza Guerra mondiale è iniziata. È vero che ha iniziato “in piccolo” e con due sorprese. Si è partiti in questa guerra con l’idea che l’esercito della Russia fosse molto potente e che la sua economia fosse molto debole. Si credeva che l’Ucraina sarebbe stata schiacciata militarmente e che la Russia sarebbe stata schiacciata economicamente dall’Occidente. Tuttavia, è accaduto il contrario. L’Ucraina non è stata schiacciata militarmente anche se ha perso il 16% del suo territorio ad oggi; La Russia non è stata schiacciata economicamente. Mentre le parlo, il rublo ha preso l’8% rispetto al dollaro e il 18% rispetto all’euro dalla vigilia dell’ingresso in guerra.

Quindi c’è stata una sorta di malinteso. Ma è ovvio che il conflitto, nel passare da una guerra territoriale limitata a uno scontro economico globale, tra l’intero Occidente da un lato e la Russia sostenuta dalla Cina dall’altro, è diventato una guerra globale. Anche se le violenze militari sono più deboli rispetto a quelle delle precedenti guerre mondiali.

Non starà mica esagerando? L’Occidente non è direttamente impegnato militarmente …

Forniamo comunque armi. Uccidiamo i russi, anche se non ci esponiamo in prima persona. Ma resta il fatto che noi, europei, siamo principalmente impegnati economicamente. Sentiamo d’altronde sopraggiungere il nostro vero ingresso in guerra attraverso l’inflazione e le penurie.

Putin ha commesso un grosso errore all’inizio, che presenta un immenso interesse socio-storico. Coloro che lavoravano sull’Ucraina alla vigilia della guerra consideravano questo paese non tanto come una democrazia emergente, quanto come una società in decomposizione e uno “stato fallito” in divenire. Ci si chiedeva se l’Ucraina avesse perso 10 o 15 milioni di abitanti dalla sua indipendenza. Non possiamo decidere in proposito perché l’Ucraina non fa più censimenti dal 2001, classico segno di una società che ha paura della realtà. Penso che il calcolo del Cremlino fosse che questa società in decomposizione sarebbe crollata nel primo shock, o avrebbe addirittura detto “Benvenuta mamma” alla Santa Russia. Ma ciò che è stato scoperto, al contrario, è che una società in decomposizione, se è alimentata da risorse finanziarie e militari esterne, può trovare in guerra un nuovo tipo di equilibrio e persino un orizzonte, una speranza. I russi non potevano prevederlo. Nessuno poteva.

Ma non è che i russi hanno sottovalutato, nonostante lo stato di autentica decomposizione della società, la forza del sentimento nazionale ucraino, e persino la forza del sentimento europeo di sostegno verso l’Ucraina? E lei stesso non la sottovaluta?

Non lo so. Ci lavoro, ma lo faccio in veste di ricercatore, vale a dire ammettendo che ci sono cose che non si sanno. E per me, stranamente, uno dei campi su cui ho troppo poche informazioni per esprimermi è l’Ucraina. Potrei dirle, sulla fede degli antichi dati, che il sistema familiare della piccola Russia era nucleare, più individualistico del sistema Grande Russo, che era più comunitario, collettivista. Questo, posso dirglielo, ma che cosa sia diventata l’Ucraina, con enormi movimenti della popolazione, un’auto-selezione di alcuni tipi sociali attraverso il rimanere in loco o l’emigrare prima e durante la guerra, non posso dirglielo, non lo sappiamo per il momento.

Uno dei paradossi che devo affrontare è che la Russia non mi pone problemi di comprensione. È qui che sono più fuori passo rispetto al mio ambiente occidentale. Capisco l’emozione di tutti, è mi risulta doloroso parlare come uno storico freddo. Ma quando pensiamo a Giulio Cesare che cattura Vercingetorige ad Alesia, portandolo poi a Roma per celebrare il suo trionfo, non ci si chiede se i romani fossero cattivi o carenti di valori. Oggi, in emozione, in sintonia con il mio paese, posso vedere l’ingresso dell’esercito russo nel territorio ucraino, bombardamenti e morti, distruzione di infrastrutture energetiche, ucraini che crepano di freddo per tutto l’inverno. Ma per me, il comportamento di Putin e dei russi è leggibile altrimenti e vi dirò in che modo.

Tanto per cominciare, ammetto di essere stato preso alla sprovvista all’inizio della guerra, non ci credevo. Oggi condivido l’analisi del geopolitico “realista” americano John Mearsheimer. Quest’ultimo ha fatto la seguente osservazione: ci dicevano che l’Ucraina, il cui esercito era stato preso in mano dai soldati della NATO (americani, britannici e polacchi) almeno dal 2014, era quindi membro di fatto della NATO e che i russi avevano annunciato che non avrebbero mai tollerato un’Ucraina membro della NATO. Questi russi fanno quindi, (come Putin ci ha spiegato il giorno prima dell’attacco) una guerra che dal loro punto di vista è difensiva e preventiva. Mearsheimer ha aggiunto che non avremmo motivo di rallegrarci di qualsiasi difficoltà dei russi perché, poiché per loro si tratta una questione esistenziale, quanto più questa dovesse risultare dura, tanto più loro colpirebbero con forza. L’analisi sembra essersi verificata. Aggiungerei un complemento e una critica all’analisi di Mearsheimer.

Questa guerra è quindi diventata esistenziale per gli Stati Uniti. Non più della Russia, non possono ritirarsi dal conflitto, non possono mollare. Questo è il motivo per cui stiamo ormai dentro una guerra infinita, dentro uno scontro il cui risultato deve essere il crollo dell’uno o dell’altro.

I quali?

Per il complemento: quando si dice che l’Ucraina era di fatto membro della NATO, non si va abbastanza lontano. La Germania e la Francia erano diventate da parte loro partner minori della NATO e non erano a conoscenza di ciò che si tramava in Ucraina a livello militare. Abbiamo criticato l’ingenuità francese e tedesca perché i nostri governi non credevano nella possibilità di un’invasione russa. Certo, ma perché non sapevano che americani, britannici e polacchi potevano consentire all’Ucraina di poter condurre una guerra allargata. L’asse fondamentale della NATO ora è Washington-Londra-Varsavia-Kiev.

Ora la critica: Mearsheimer, da buon americano, sopravvaluta il suo paese. Ritiene che, se per i russi la guerra ucraina è esistenziale, per gli americani è fondamentalmente solo un “gioco” di potere tra gli altri. Dopo il Vietnam, l’Iraq e l’Afghanistan, una disfatta in più o in meno…. Cosa importa? L’assioma di base della geopolitica americana è: “Possiamo fare quello che vogliamo perché siamo al sicuro, lontani, tra due oceani, non ci succederà mai nulla”. Niente sarebbe esistenziale per l’America. Analisi insufficiente che ora porta Biden a una fuga in avanti. L’America è fragile. La resistenza dell’economia russa spinge il sistema imperiale americano verso il precipizio. Nessuno aveva previsto che l’economia russa avrebbe tenuto testa al “potere economico” della NATO. Credo che i russi stessi non lo avessero anticipato.

Se l’economia russa resistesse alle sanzioni indefinitamente e riuscisse a esaurire l’economia europea, laddove essa rimanesse in campo, sostenuta dalla Cina, il controllo monetario e finanziario americano del mondo crollerebbe e con esso la possibilità per gli Stati Uniti di finanziare il proprio enorme deficit commerciale dal nulla. Questa guerra è quindi diventata esistenziale per gli Stati Uniti. Così come la Russia, non possono ritirarsi dal conflitto, non possono mollare. Questo è il motivo per cui ora siamo in una guerra infinita, in uno scontro il cui risultato deve essere il crollo dell’uno o dell’altro. Cinesi, indiani e sauditi, tra gli altri, esultano.

Ma l’esercito russo sembra ancora in una brutta posizione. Alcuni arrivano perfino a prevedere il crollo del regime, lei non ci crede?

No, all’inizio sembra esserci stata, in Russia, un’esitazione, ovvero la sensazione di essere stati abusati, di non essere stati avvertiti. Ma lì, i russi sono installati nella guerra e Putin beneficia di qualcosa di cui non abbiamo idea, ossia che gli anni 2000, gli Anni Putin, sono stati per i russi gli anni del ritorno all’equilibrio, del ritorno a una vita normale. Penso che Macron rappresenterà per contro agli occhi dei francesi la scoperta di un mondo imprevedibile e pericoloso, il ricongiungimento con la paura. Gli anni ’90 furono un periodo incredibile di sofferenza per la Russia. Gli anni 2000 sono stati un ritorno alla normalità, e non solo in termini di livelli di vita: abbiamo visto crollare i tassi di suicidio e di omicidio e, soprattutto, aqbbiamo visto il mio indicatore preferito, il tasso di mortalità infantile, che precipitava e persino andava al di sotto del tasso americano.

Nello spirito dei russi, Putin incarna (nel senso forte, cristico), questa stabilità. E, fondamentalmente, i russi ordinari ritengono, come il loro presidente, di fare una guerra difensiva. Sono consapevoli di aver commesso errori all’inizio, ma la loro buona preparazione economica ha aumentato la loro fiducia, non in confronto all’Ucraina (la resistenza degli ucraini è per loro interpretabile, sono coraggiosi come dei russi, mai degli occidentali combatterebbero così bene!), bensì di fronte a quel che chiamano “L’Occidente Collettivo”, oppure “gli Stati Uniti e i loro vassalli”. La vera priorità del regime russo non è tanto la vittoria militare sul terreno, quanto non perdere la stabilità sociale acquisita negli ultimi 20 anni.

Pertanto, fanno questa guerra “in economia”, in particolare un’economia d’uomini. Perché la Russia mantiene il suo problema demografico, con una fertilità di 1,5 bambini per donna. Tra cinque anni avranno classi di età vuote. Secondo me, devono vincere la guerra in 5 anni o perderla. Una durata normale per una guerra mondiale. Pertanto fanno questa guerra in economia, ricostruendo un’economia di guerra parziale, ma volendo preservare gli uomini. Questo è il significato del ritiro di Kherson, dopo quelli nelle regioni di Kharkiv e Kiev. Noi contiamo i chilometri quadrati ripresi dagli ucraini, ma i russi da parte loro attendono la caduta delle economie europee. Noi siamo il loro fronte principale. Posso ovviamente sbagliarmi, ma vivo con l’idea che il comportamento dei russi sia leggibile, perché razionale e duro. Le incognite sono altrove.

Lei spiega che i russi percepiscono questo conflitto come “una guerra difensiva”, ma nessuno ha cercato di invadere la Russia e oggi, a causa della guerra, la NATO non ha mai avuto così tanta influenza ad Est con i paesi baltici che vi si vogliono integrare.

Per risponderle, le propongo un esercizio psico-geografico, che può essere fatto zoomando all’indietro. Se guardiamo la mappa dell’Ucraina, vediamo l’ingresso alle truppe russe da nord, est, sud … e lì, in effetti, abbiamo la visione di un’invasione russa, non c’è altra parola. Ma se facciamo un enorme zoom all’indietro, verso una percezione del mondo, poniamo fino Washington, vediamo che i cannoni e i missili della NATO convergono lontano verso il campo di battaglia, movimenti di armi che erano iniziati prima della guerra. Bakhmout si trova a 8.400 chilometri da Washington ma a 130 chilometri dal confine russo. Una semplice lettura della mappa del mondo consente di pensare, di considerare l’ipotesi che “sì, dal punto di vista russo, quella deve essere una guerra difensiva”.

Quando guardiamo i voti delle Nazioni Unite, vediamo che il 75% del mondo non segue l’Occidente, che a quel punto appare piccolissimo. Vediamo quindi che questo conflitto, descritto dai nostri media come un conflitto di valori politici, è a un livello più profondo un conflitto di valori antropologici.

Secondo lei, l’ingresso nella guerra dei russi è anche spiegato dal relativo declino degli Stati Uniti …

In ‘Dopo l’Impero’, pubblicato nel 2002, ho evocato il declino a lungo termine negli Stati Uniti e il ritorno del potere russo. Dal 2002, l’America ha una catena di sconfitte e ripiegamenti. Gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq, ma hanno lasciato l’Iran quale massimo attore del Medio Oriente. Sono fuggiti dall’Afghanistan. La satellizzazione dell’Ucraina da parte dell’Europa e degli Stati Uniti non ha rappresentato un ulteriore dinamismo occidentale, bensì l’esaurimento di un’onda lanciata intorno al 1990, rilanciata dal risentimento anti-russo dei polacchi e dei baltici. Tuttavia, è stato in questo contesto di riflusso americano che i russi hanno preso la decisione di mettere al passo l’Ucraina, perché avevano la sensazione di avere finalmente i mezzi tecnici per farlo.

Esco dalla lettura di un’opera di S. Jaishankar, ministro degli Affari Esteri dell’India (The India Way), pubblicata poco prima della guerra, che vede la debolezza americana, che sa che lo scontro tra Cina e Stati Uniti non avrà un vincitore ma darà spazio a un paese come l’India e molti altri. Aggiungo: ma non agli europei. Ovunque vediamo l’indebolimento degli Stati Uniti, ma non in Europa e in Giappone perché uno degli effetti del ritrarsi del sistema imperiale è che gli Stati Uniti rafforzano la loro presa sui suoi protettorati iniziali.

Se leggiamo Brzeziński (La grande scacchiera), vediamo che l’Impero americano è stato formato alla fine della seconda guerra mondiale dalla conquista della Germania e del Giappone, che sono ancora oggi protettorati. Mentre il sistema americano si ritrae, pesa sempre più pesantemente sulle élite locali dei protettorati (e includo qui tutta l’Europa). I primi a perdere tutta l’autonomia nazionale, saranno (o sono già) gli inglesi e gli australiani. Internet ha prodotto nell’Anglosfera un’interazione umana con gli Stati Uniti di tale intensità che le loro università, media e élite artistiche sono, per così dire, annesse. Sul continente europeo siamo un po’ protetti dalle nostre lingue nazionali, ma la caduta nella nostra autonomia è considerevole e rapida. Ricordiamoci della guerra in Iraq, quando Chirac, Schröder e Putin hanno fatto conferenze stampa comuni contro la guerra.

Molti osservatori sottolineano che la Russia ha il PIL della Spagna; non è che sopravvaluta la sua potenza economica e la sua capacità di resistenza?

La guerra diventa un test dell’economia politica, è il grande rivelatore. Il PIL della Russia e della Bielorussia rappresenta il 3,3% del PIL occidentale (Stati Uniti, Anglosfera, Europa, Giappone, Corea del Sud), praticamente nulla. Ci si chiede come questo PIL insignificante possa affrontare e continuare a produrre missili. Il motivo è che il PIL è una misura fittizia della produzione. Se ti ritiriamo dal PIL americano metà delle sue spese sanitarie sovrafatturate, poi la “ricchezza prodotta” dall’attività dei suoi avvocati, dalle carceri più affollate del mondo, poi da un’intera economia di servizi scarsamente definiti tra cui la “produzione” dei suoi 15-20.000 economisti con uno stipendio medio annuo di 120 mila dollari, ci rendiamo conto che una parte importante di questo PIL è solo vapore acqueo. La guerra ci riporta all’economia reale, rende possibile capire quale sia la vera ricchezza delle nazioni, la capacità produttiva e quindi la capacità di guerra. Se torniamo alle variabili materiali, vediamo l’economia russa. Nel 2014, abbiamo messo in atto le prime importanti sanzioni contro la Russia, ma essa ha da allora aumentato la sua produzione di grano, che va da 40 a 90 milioni di tonnellate nel 2020. Mentre, grazie al neoliberismo, la produzione americana di grano, tra il 1980 e 2020, è passata da 80 a 40 milioni di tonnellate. La Russia è anche diventata il primo esportatore di centrali nucleari. Nel 2007, gli americani hanno spiegato che il loro avversario strategico era in un tale stato di decadimento nucleare che presto gli Stati Uniti avrebbero avuto una capacità di primo colpo atomico su una Russia che non avrebbe potuto rispondere. Oggi i russi sono in superiorità nucleare con i loro missili ipersonici.

La Russia ha quindi un’autentica capacità di adattamento. Quando vuoi prendere in giro le economie centralizzate, sottolinei la loro rigidità, mentre quando fai l’apologia del capitalismo, ne vanti la flessibilità. Giusto. Affinché un’economia sia flessibile, prendi ovviamente il mercato dei meccanismi finanziari e monetari. Ma prima di tutto, hai bisogno di una popolazione attiva che sappia fare delle cose. Gli Stati Uniti hanno ora più del doppio della popolazione della Russia (2,2 volte nelle fasce di età degli studenti). Resta il fatto che con proporzioni da parte di coorti comparabili di giovani che fanno istruzione superiore, negli Stati Uniti, il 7% sta studiando ingegneria, mentre in Russia è il 25%. Ciò significa che con 2,2 volte meno persone che studiano, i russi formano il 30% di più ingegneri. Gli Stati Uniti colmano il buco con studenti stranieri, ma che sono principalmente indiani e ancora più cinesi. Questa risorsa di sostituzione non è sicura e già diminuisce. È il dilemma fondamentale dell’economia americana: può affrontare la concorrenza cinese solo importando forza lavoro qualificata cinese. Propongo qui il concetto di bilanciamento economico. L’economia russa, da parte sua, ha accettato le regole operative del mercato (è persino un’ossessione per Putin quella di preservarle), ma con un ruolo grandissimo dello stato. E si tiene anche la sua flessibilità della formazione di ingegneri che consentono gli adattamenti, sia industriali che militari.

Molti osservatori credono, al contrario, che Vladimir Putin abbia sfruttato la rendita delle materie prime senza aver saputo sviluppare la sua economia …

Se fosse così, questa guerra non avrebbe avuto luogo. Una delle cose sorprendenti in questo conflitto, e questo lo rende così incerto, è che pone (come qualsiasi guerra moderna) la questione dell’equilibrio tra tecnologie avanzate e produzione di massa. Non vi è dubbio che gli Stati Uniti abbiano alcune delle tecnologie militari più avanzate, che a volte sono state decisive per i successi militari ucraini. Ma quando si entra nella durata, in una guerra di logoramento, non solo dalla parte delle risorse umane, ma anche di quelle materiali, la capacità di continuare dipende dal settore della produzione di armi più basso. E troviamo, vedendolo ritornare dalla finestra, la questione della globalizzazione e il problema fondamentale degli occidentali: abbiamo trasferito una proporzione tale delle nostre attività industriali che non sappiamo se la nostra produzione di guerra può proseguire. Il problema viene ammesso. La CNN, il New York Times e il Pentagono si chiedono se l’America riuscirà a rilanciare le catene di produzione di questo o quel tipo di missile. Ma non sappiamo se i russi sono in grado di seguire il ritmo di un tale conflitto. Il risultato e la soluzione della guerra dipenderanno dalla capacità dei due sistemi di produrre armamenti.

Secondo lei questa guerra non è solo militare ed economica, ma anche ideologica e culturale …

Mi esprimo qui soprattutto come antropologo. In Russia, ci sono state strutture familiari più dense, comunitarie, di alcune delle quali certi valori sono sopravvissuti. C’è un sentimento patriottico russo che è qualcosa di cui qui da noi non abbiamo idea, nutrito dal subconscio di una nazione famiglia. La Russia aveva un’organizzazione familiare patrilineare, vale a dire in cui gli uomini sono centrali e non può aderire a tutte le innovazioni occidentali neo-femministe, LGBT, transgender … Quando vediamo la duma russa vota una legislazione ancora più repressiva sulla “propaganda LGBT”, noi ci sentiamo superiori. Posso sentirlo come un occidentale normale. Ma da un punto di vista geopolitico, se pensiamo in termini di soft power, questo è un errore. Presso il 75% del pianeta, l’organizzazione della parentela era patrilineare e si può sentire una forte comprensione degli atteggiamenti russi. Per il non-Occidente collettivo, la Russia afferma un rassicurante conservatorismo morale. L’America Latina, tuttavia, qui sta sul lato occidentale.

Quando si fa geopolitica, ci si interessa a più dominii: i rapporti di forza energetici, militari, produzione di armi (che rinvia ai rapporti di forza industriali). Ma c’è anche l’equilibrio ideologico e culturale del potere, che gli americani chiamano il “soft power”. L’URSS aveva una certa forma di soft power, il comunismo, che influenzava parte dell’Italia, dei cinesi, dei vietnamiti, dei serbi, dei lavoratori francesi … ma il comunismo faceva in fondo orrore al mondo musulmano per via del suo ateismo e non fu particolarmente di ispirazione in India, tranne che nel Bengala Occidentale e nel Kerala. Ora, attualmente, poiché la Russia si è riposizionata come archetipo di grande potenza, non solo anti -coloniale, ma anche patrilineare e conservatrice dei costumi tradizionali, può andare molto più in là con la seduzione. Gli americani si sentono traditi oggi dall’Arabia Saudita che rifiuta di aumentare la sua produzione di petrolio, nonostante la crisi energetica dovuta alla guerra, e che di fatto si schiera dalla parte dei russi: in parte, ovviamente, per interesse petrolifero. Ma è evidente che la Russia di Putin, che è diventata moralmente conservatrice, è diventata solidale con i sauditi, i quali sono sicuro che abbiano qualche problemino con i dibattiti americani sull’accesso delle donne transgender (definite come maschi al concepimento) ai servizi igienici delle donne.

I giornali occidentali sono tragicamente divertenti, mentre continuano a dire: “La Russia è isolata, la Russia è isolata”. Ma quando guardiamo i voti delle Nazioni Unite, vediamo che il 75% del mondo non segue l’Occidente, che a quel punto sembra molto piccolo. Se siamo antropologi, possiamo spiegare la mappa, da un lato i paesi catalogati come aventi un buon livello di democrazia nelle classifiche di The Economist (vale a dire l’anglosfera, l’Europa …), dall’altra parte i paesi autoritari, che si diffondono dall’Africa fino alla Cina attraverso il mondo arabo e la Russia. Per un antropologo, questa è una carta banale. Alla periferia “occidentale” troviamo paesi dalla struttura della famiglia nucleare con sistemi di parentela bilaterale, vale a dire dove parenti maschi e femmine sono equivalenti nella definizione dello stato sociale del bambino. E al centro, con la maggior parte della massa afro-europea-asiatica, troviamo le organizzazioni familiari comunitarie e patrilineari. Vediamo quindi che questo conflitto, descritto dai nostri media come un conflitto di valori politici, è a un livello più profondo un conflitto di valori antropologici. È questa incoscienza e questa profondità che rendono pericoloso lo scontro.

Fonte originale: https://www.lefigaro.fr/vox/monde/emmanuel-todd-la-troisieme-guerre-mondiale-a-commence-20230112.

Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras.

https://megachip.globalist.it/cronache-internazionali/2023/01/15/emmanuel-todd-la-terza-guerra-mondiale-e-iniziata/

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SUL “NOMOS” POST-MODERNO(*), di Teodoro Katte Klitsche de la Grange

 

NOTA

Questo articolo è stato pubblicato nel 2003 su “Palomar”. E’ il primo di una serie di saggi che saranno pubblicati sul sito. La problematica che affronta appare tuttora – in gran parte – attuale. Sovranità, jus belli, potere e diritto sono riproposti di continuo in un ordine internazionale in via di trasformazione, di cui il conflitto in Ucraina è una delle conseguenze. 

Teodoro Katte Klitsche de la Grange

SUL “NOMOS” POST-MODERNO(*)

Carl Schmitt, nelle prime pagine del “Der Nomos der Erde”, dopo aver individuato nell’occupazione sia l’atto fondante di un ordinamento che la possibilità di dominio non solo sulla terra, ma anche (sia pure profondamente diverso) sul mare, e i rapporti tra i due tipi, sostiene che queste sono profondamente trasformate “da un nuovo avvenimento spaziale: la possibilità di un dominio sullo spazio aereo. Cambiano non solo le dimensioni della sovranità territoriale, non solo l’efficacia  e la rapidità dei mezzi umani di potere, di comunicazione e informazione, ma anche i contenuti dell’effettività. Quest’ultima possiede sempre un aspetto spaziale e rimane sempre, tanto nel caso delle occupazioni di terra e delle conquiste, quanto nel caso delle barriere e dei blocchi, un importante concetto di diritto internazionale. Muta inoltre, in seguito a ciò, anche la relazione tra protezione e obbedienza, e quindi la struttura del potere politico e sociale stesso, e il rapporto tra questi e altri poteri. Ha inizio così un nuovo stadio della coscienza umana dello spazio e dell’ordinamento globale”.

Tale affermazione, come tutto l’inizio del “Der Nomos der Erde”, si può collegare alla definizione che un altro grande giurista, Maurice Hauriou, da dell’ “idea direttiva” dello Stato ovvero di “attività protettiva di una società civile nazionale svolta da un potere pubblico a base territoriale” e prosegue, chiarendola, “non si deve confondere l’idea dell’opera da realizzare, che merita il nome di “idea direttiva dell’impresa” né con la nozione di scopo né con quella di funzione. L’idea dello Stato, per esempio, è cosa ben diversa dallo scopo dello Stato o dalla sua funzione”[1]. Nel “Précis de droit constitutionnel” Hauriou ricollega l’idea di Stato all’ “ordine  individualista”, conseguente al formarsi di civiltà sedentarie[2]: di guisa che la sedentarietà, cioè il rapporto stabile e ordinato con la terra è il fondamento (tra l’altro) dell’idea di Stato, tipo particolare di ordinamento localizzato.

Lo Stato (e il di esso concetto) si specifica con una serie di distinzioni caratteristiche, tra le quali, particolarmente interessante il tema qui trattato, è quella tra interno ed esterno e la delimitazione tra tali due aree, cioè il confine. Interno ed esterno, intra o extra moenia, non costituisce soltanto una divisione spaziale, né si limita a determinare l’ambito d’esercizio dell’imperium dello Stato, ma è la distinzione tra due diversi “ordinamenti”, fondati su principi e presupposti diversi. All’interno, lo spazio della sovranità statale, dell’imperium basato sul principio che “il sovrano nello Stato ha verso i sudditi soltanto diritti e nessun dovere (coattivo)”[3], la volontà sovrana è, per definizione, irresistibile e non condizionabile con limiti e controlli giuridici.

Corollario di questa illimitatezza è che non vi è alcun potere esterno che possa influire all’interno (dei confini) dell’unità politica. Mentre all’esterno il diritto internazionale (denominazione che Schmitt corregge, con maggiore precisione, in interstatale) si basa su una società di Stati simili e pari, componenti l’ordinamento internazionale: per cui, di converso, nessuno può dettar legge all’altro, ma i rapporti tra gli stessi sono a carattere, in linea di principio, paritario. Tuttavia Spinoza ne coglieva assai chiaramente il senso (e il limite), quando scriveva che “Lo Stato, dunque, in tanto è autonomo in quanto è in grado di provvedere alla propria sussistenza e alla propria difesa dall’aggressione di un altro, e… in tanto è soggetto ad altri, in quanto teme la potenza di un altro Stato o in quanto ne è impedito dal conseguire ciò che vuole o, infine, in quanto ha bisogno del suo aiuto per la propria conservazione o per il proprio incremento”[4]; per cui uno Stato, in diritto uguale e pari agli altri, lo è di fatto nella misura in cui riesca ad avere potentia sufficiente a garantire quel tanto di jus effettivamente esercitabile nel consesso internazionale (o interstatale).

Il rapporto tra jus e potentia, nel pensiero di Spinoza, è simmetrico: nel senso che non c’è il primo senza la seconda, né la seconda senza il primo. Un diritto internazionale che non si fondasse sul potere di fatto dei soggetti dell’ordinamento internazionale di conservare la pace e fare la guerra ma su un legalitarismo normativistico sarebbe un non-senso, una parata inutile di pubbliche impotenze.

Ciò non è senza conseguenze, ovviamente, per lo Stato: se questo non ha potentia sufficiente a garantire la protezione, perché non può, almeno, difendersi, se non aggredire, è la stessa obbligazione politica “principe” verso i sudditi a perdere – anch’essa – di senso. Uno Stato che ha bisogno della protezione di un altro non è libero; e neppure può garantire la protezione dei cittadini, (o lo può, ma solo in parte) per la medesima ragione. In tal modo, a seguire Hobbes, ne viene meno anche la legittimità e la funzione, intesa dal filosofo di Malmesbury come garanzia della protezione cui corrisponde il dovere di obbedienza (con la conseguenza che questa va data a chi effettivamente è in grado di assicurare quella).

Le possibilità di fatto sono, tuttavia, quelle che determinano la possibilità concreta di appropriazione, distribuzione e regolazione di una materia e/o di uno spazio: è la potentia che determina lo jus: il “Nomos” moderno della terra presupponeva la navigazione oceanica (e tecnologia, conoscenze che l’hanno reso possibile), cui conseguiva l’appropriazione e la divisione del continente americano – e di parte degli altri – realizzata dalle potenze europee. Ma anche su un altro versante, quello europeo ed euro-asiatico (continentale), connotato da una pluralità di Stati confinanti (per terra) o vicini, non difesi come l’Inghilterra dal fatto di essere un’isola, le innovazioni tecniche e scientifiche sviluppate tra il finire del medioevo e l’inizio dell’evo moderno non furono neutrali, ma decisive per l’assetto politico-giuridico costituitosi.

Sicuramente il nascere dello Stato moderno dal corpo delle monarchie feudali lo si deve a fattori “ideali”, tra cui non bisogna trascurare l’esigenza di una protezione più efficace di quella assicurata dal pluralismo feudale; ma tra quelli “materiali” appare decisiva la diffusione delle armi da fuoco. Queste decretarono l’obsolescenza, ad un tempo, della cavalleria aristocratica feudale e di quella “guerriera” dei popoli nomadi. A Pavia i tercios spagnoli, a Khazan gli strelizzi russi aprivano un nuovo capitolo della storia (militare e) politica; non nasceva solo lo Stato moderno, ma nelle contese tra questo e i non-Stati (interni ed esterni) – ovvero le altre forme di unità e organizzazione politica – il primo vinceva (quasi) sempre. Le aristocrazie feudali fecero così, essendo divenute più che inutili, d’impaccio alla nuova istituzione, una “fine” politica parallela a quella dei popoli nomadi, che per millenni avevano costituito uno dei principali “motori” della storia del Vecchio Mondo: negli stessi anni in cui la Fronda aristocratica perdeva il conflitto con lo Stato monarchico di Mazzarino e del giovane Luigi XIV, russi e cinesi s’incontravano sull’Amur, e definivano i confini dei rispettivi imperi. I nomadi erano circondati nelle loro tende, come la grande nobiltà francese sorvegliata a Versailles: non vi sarebbe stata più alcuna di quelle eruzioni nelle terre dei popoli stanziali che dalle invasioni indo-europee  protostoriche a Tamerlano avevano periodicamente rimesso in moto la storia del mondo. I popoli nomadi regredivano (nelle possibilità politiche) da Gengis Khan a Pugaciov: dall’imperatore al ribelle.

Così era ridimensionato, e praticamente scompariva, quel “principio fluttuante, vacillante” della storia, che Hegel vedeva nei nomadi[5].

Occorre vedere quanto di questa “chiusura” politico-istituzionale si debba allo spirito del Rinascimento e della Riforma, e quanto al fatto che artiglierie e moschetti erano molto più efficaci nel serrare le frontiere marittime e terrestri degli eserciti feudali, e molto meno condizionanti il potere monarchico. Sicuramente, tuttavia, lo “spirito” della modernità e l’elemento, per così dire, materiale, hanno collaborato allo stesso esito. Si può, a tale proposito, ricordare l’opinione di Marx che l’umanità si pone (e risolve) i problemi quando ne sono mature le soluzioni[6]. Il sistema degli Stati sovrani europei nasceva proprio al momento in cui ne maturavano le condizioni “fattuali”.

Appare decisivo che, comunque, non sarebbe stato possibile realizzare, almeno al grado di efficacia ottenuto, quella “chiusura” se non con i mezzi che la tecnica “moderna” aveva messo a disposizione: pochi moschettieri ed artiglieri ben armati ed addestrati potevano fermare e sconfiggere orde assai più numerose di valorosi guerrieri nomadi, occuparne e presidiarne il territorio (il che, in modo parzialmente inverso, nel senso della conquista e dell’espansione, si ripeterà nel Nord America).

La complessità, poi, della nuova organizzazione militare escludeva – o rendeva altamente improbabile, e quindi marginale – che gruppi poco numerosi o poco organizzati (ovvero non organizzati come Stati) potessero arrecare offese rilevanti alle comunità ordinate in Stati, anche a quelli più piccoli e deboli, come i principati italiani e tedeschi, per via di terra: per mare la situazione era parzialmente diversa. Lo sviluppo della pirateria atlantica ai danni anche delle grandi potenze, e il permanere di quella mediterranea (che colpiva però, come scriveva Montesquieu, essenzialmente i commerci dei piccoli Stati) era dovuto alla minor sproporzione, sul mare, del rapporto tra potenza e vulnerabilità: i commerci marittimi erano più vulnerabili dei confini. E più difficile inseguire e scoprire i pirati negli oceani che i predoni nelle steppe e nelle foreste.

2 L’intuizione di Schmitt che la nuova dimensione acquisita con la navigazione aerea modificava sia la guerra che le forme del “politico” è stato confermata dai nuovi attacchi terroristici.

Il nuovo tipo di terrorismo (tra l’altro realizzato col mezzo aereo) ha in comune con l’offesa dall’aria altre caratteristiche, già individuate chiaramente dal generale italiano Giulio Douhet, teorico – pioniere della guerra aerea “totale”. Non esistono in primo luogo, “linee” di fronte, perché sono impossibili (o pressoché superflue): il terrorista, come l’aereo, le può oltrepassare senza prima essere costretto a combattere per forzarle. Secondariamente, neppure barriere naturali possono concorrere a rinsaldarle: l’aereo quindi, come il terrorista, è “indipendente dalla superficie, capace di muoversi in tutte le direzioni con uguale facilità”.

In terzo luogo così “la guerra può far sentire la sua ripercussione diretta oltre la più lunga gittata delle armi da fuoco impiegate sulla superficie, per centinaia e centinaia di chilometri, su tutto il territorio ed il mare nemico. Non più possono esistere zone in cui la vita possa trascorrere in completa sicurezza e con relativa tranquillità. Non più il campo di battaglia potrà venire limitato: ……  tutti diventano combattenti perché tutti sono soggetti alle dirette offese del nemico: più non può sussistere una divisione fra belligeranti  e non belligeranti”. Un quarto aspetto è che: “la vittoria sulla superficie non preserva dalle offese aeree dell’avversario il popolo che ha conseguito la vittoria”; per cui concludeva Douhet: “Tutto ciò deve, inevitabilmente produrre un profondo mutamento nelle forme della guerra, perché le caratteristiche essenziali vengono ad esserne radicalmente mutate”[7] di guisa che il più forte esercito e la più potente marina non servono ad evitare le offese che il mezzo aereo – e il nuovo terrorismo – sono in grado di produrre.

Neppure determinati jura belli, come quello di preda, che valgono a relativizzare la guerra o almeno l’atto di ostilità, sono concretamente esercitabili in tipi di guerra – e di azioni belliche – come quella aerea o terroristica. Il saccheggio che soddisfa l’avidità dell’aggressore salvando in genere la vita dei vinti, in questo tipo di conflitto non è esercitabile. L’unico obiettivo dell’azione diventa quindi la distruzione della vita e dei beni del nemico, senza riguardo alle distinzioni classiche della guerra “relativizzata” dello jus publicum europaeum.

Tale conclusione mina quindi il ricordato presupposto, fondamento – di fatto – dello Stato moderno; il quale, caratterizzato dalla distinzione tra interno ed esterno, si fonda sulla possibilità concreta di serrare porti e frontiere, riducendo e minimizzando sia gli atti di ostilità non rapportabili alla guerra “classica” sia i soggetti che la possono esercitare. Questo (ulteriore) elemento di novità, è suscettibile di sviluppi impensabili in un sistema di relazioni internazionali dominato dai soggetti “normali” (gli Stati) e costruito con istituti, rapporti (e concetti) sull’idea (classica) di Stato e di conflitto interstatale.

L’ “opposizione” di mare e terra, e la delimitazione che ne deriva, (l’offesa arrecabile per mare si trasforma difficilmente in quella di terra; al punto che le potenze marittime hanno, nelle guerre intereuropee, sempre avuto necessità di almeno una “spada” sul continente) non esiste più per la guerra aerea: questa può colpire indifferentemente sul suolo e sull’acqua, e trasferire l’offesa dall’uno all’altro elemento senza cambiare il mezzo con cui è portata[8].

Analoga è la guerra terroristica, condotta da piccole unità, sfuggenti al controllo ed al regime delle “linee” (di confine, di fronte, di “amicizia”) tipiche dell’ordinamento internazionale classico, guerra compresa, come a tutte le altre distinzioni intrinseche e conseguenti al relativo diritto di guerra (belligeranti e neutrali; civili e militari e così via). Di guisa che come guerra aerea e terrorismo non tollerano o riconoscono “linee” così  affievoliscono o fanno venir meno quelle distinzioni, giuridiche, che costituiscono delle chiusure “ideali”, necessarie per umanizzare la guerra e scongiurarne la peculiare  dinamica dell’ “ascesa agli estremi” cioè alla guerra assoluta.

3 Carl Schmitt, nel passo citato, nota come le nuove forme di guerra e di dominio modificano la relazione tra protezione ed obbedienza, le strutture del potere politico (e sociale) e il rapporto tra poteri: così collega l’esterno all’interno, come sottolinea l’influenza delle situazioni fattuali e concrete sull’assetto normativo. E’ noto che i fattori concreti (geografici, storici, climatici, e così via) condizionano e modellano l’ordinamento (la costituzione) delle comunità umane: da Montesquieu a de Maistre l’hanno rilevato in tanti. Meno noto, anzi spesso trascurato, è che di solito le società si organizzano nella forma la quale meglio permette di condurre la guerra in una determinata epoca storica. Tuttavia il rapporto tra istituzioni e guerra fa parte del pensiero umano, almeno a far data da Polibio di Megalopoli e dalla sua spiegazione dell’ascesa di Roma[9]. Di tutti i (numerosi) fattori che determinano strutture e dimensioni di una società umana, questo, a dispetto di certe astrazioni della “progettualità” politica (praticata da ideologi, costruttori di utopie), è uno dei principali: perché se una società perfetta (sotto il profilo culturale, economico, giuridico) non fosse organizzata in modo da proteggersi efficacemente dai tanti vicini, non altrettanto colti, ricchi, pii o giusti, ma meglio attrezzati a far la guerra, non durerebbe che pochi anni o, al massimo, decenni. Le unità politiche di lunga durata sono state capaci di risolvere quel problema, con delle istituzioni non congrue perché buone, ma buone perché adatte; ed avendo oltretutto il senso politico di cambiarle, anche radicalmente, ove la rei novitas lo richiedesse.

La fortuna, in determinate epoche, di certe forme di aggregazione politica si deve così alla loro capacità di consentire un’esistenza libera alle comunità che in queste si organizzavano; la loro decadenza – e sostituzione con altre forme e tipi – dal non essere più adatte a quella.

Nella storia europea, in particolare mediterranea, vediamo che fino al IV secolo a.C. le comunità hanno la forma della polis o delle tribù; solo nell’Oriente mediterraneo  esistono imperi, le cui caratteristiche – come, ad esempio, l’estremo “decentramento” di quello achemenide – erano tuttavia tali da renderli nemici affrontabili dalle altre unità politiche, come dimostra l’esito delle guerre persiane. A partire dalla fine del IV secolo, i popoli mediterranei si organizzano – per larga parte – in unità politiche regionali: a oriente quelle degli epigoni di Alessandro, a occidente Roma e Cartagine. La fine dell’ultima potenza regionale, l’Egitto dei Tolomei, segnò l’inizio dell’imperium unico mediterraneo. Toynbee nota che nel I secolo d.C. l’area temperata del Vecchio Mondo, dall’Oceano Atlantico al Mar Cinese, era divisa in (solo) quattro grandi imperi, al di fuori dei quali esistevano una miriade di piccole comunità politiche, talvolta clienti degli imperi, ma per lo più indifferenti a questi, perché troppo deboli per muovere loro la guerra. In epoca più recente l’assetto costituzionale e il diritto pubblico interno delle potenze “marittime” (Inghilterra e U.S.A.) sono stati ritenuti tali perchè tipici di due “isole”: in senso geografico (e politico) l’Inghilterra da De Maistre[10]; in senso politico (perchè privi di nemici credibili  ai confini terrestri e grandi guerre da sostenere con questi) gli U.S.A. da Tocqueville e da Hegel[11]. Differente invece, quello degli Stati continentali, per la necessità di eserciti permanenti, sempre potente strumento di difesa e di centralizzazione, ma a volte d’oppressione. Si può affermare pertanto, parafrasando Marx, che il modo di condurre la guerra determina il modo di governare. In questo senso lo jus belli del diritto internazionale dell’Europa moderna era quello peculiare degli Stati, non solo dotati di una (notevole) omogeneità culturale, ma di forme politiche e modi simili di combattere e quindi di danneggiarsi o avvantaggiarsi (reciprocamente). Il che comportava – con l’eccezione, solo relativa, delle potenze marittime – delle regole applicabili (con relativa facilità) perché i soggetti dell’ordinamento internazionale erano simili e se non pari, almeno non troppo impari.

  1. Diversa appare la situazione attuale, per una pluralità di ragioni: riducendo le quali ai limiti del presente scritto, ovvero ai riflessi che possono avere i nuovi modi di condurre la guerra – aerea e aerospaziale in primo luogo, e terroristica – sulle forme ed organizzazioni dell’unità politica, abbiamo diverse conseguenze.

In primo luogo che la “chiusura” dello Stato, sulla cui possibilità si basava l’idea (e l’ideologia) del medesimo, appare più difficile, e così i “beni “ che assicurava alla comunità: ordine, pace, e sicurezza. Il “defensor pacis”, in un mondo in cui gli Stati sono fra loro come nello stato di natura è tale se riesce ad assicurare chiusura e distinzione tra interno ed esterno. Se tra questi spazi viene meno il confine, disordine e insicurezza penetrano all’interno, e non l’inverso. La capacità di garantire “attività protettiva” viene così correlativamente ridotta.

Secondariamente, nel XX secolo si è contribuito in vari modi ad attenuare e/o negare quella “chiusura”. La Weltbürgerkrieg del marxismo-leninismo, con la contrapposizione amicus/hostis tra borghesia e proletariato, e la minaccia – più volte prospettata (e spesso impiegata) di mobilitare, con la guerra rivoluzionaria, i proletari, amici dell’Unione Sovietica e quinta colonna alle spalle degli Stati borghesi, ne è stata quella, ideologicamente più intensa e qualificata[12]. Anche la nuova minaccia terroristica di Al Quaeda, non solo nega qualsiasi distinzione tra interno ed esterno (e le altre peculiari allo jus publicum europaeum), ma, a quanto è dato capire, nega che la distinzione tra amici e nemici corra lungo i confini degli Stati attualmente esistenti, islamici o “non”, e sembra piuttosto contrapporre credenti ad infedeli[13].

In qualche misura , anche se su basi diverse, la stessa aspirazione a leghe di Stati o comunque ad istituzioni internazionali che scongiurino il ricorso alla forza sostituendolo con procedure “giuridiche” (d’ispirazione Kantiana), o meglio para-giudiziarie, concorre ad attenuare quella distinzione, ma senza granchè dei benefici prospettati: anche perché, a ben vedere, non riesce a portare la pace se non attraverso la guerra, che differisce da una “normale” guerra solo perché a dichiararla e condurla è una lega di Stati piuttosto che uno Stato singolo[14]. Il caso del Kosovo ne è stata la conferma più chiara, perché occasione (e motivo) dell’intervento non era un’aggressione esterna (come nella guerra all’Irak per l’occupazione del Kuwait), ma la repressione attuata dallo Stato sovrano sulla popolazione di etnia albanese residente nel proprio territorio. Con ciò si contestava allo Stato l’esercizio della funzione di “polizia” cui è connessa quella di identificare il nemico interno (il ribelle) e anche il criminale. Il principio di non-intervento negli affari interni dello Stato, essenziale alla distinzione tra quelli e gli affari esterni, viene così meno. In termini weberiani le relazioni  chiuse vengono sempre più sostituite da relazioni aperte[15]. Conseguenza di ciò non è tuttavia di sostituire il diritto alla guerra, ma di espropriare lo Stato del diritto d’individuare il nemico , trasferendolo ad un’istituzione internazionale, cui compete il potere anche d’esercitare la “violenza legittima” e garantire la pace, non solo tra Stati, ma anche negli Stati[16].

In questo senso il termine di “operazione di polizia internazionale” spesso dato a quella guerra è in effetti corretto nel sostantivo, ma fuorviante nell’aggettivo: perché costituisce attività di polizia (in quanto interna allo Stato che la subisce), ma proprio per ciò, quanto all’oggetto non è internazionale, nel senso delle relazioni fra più Stati, ma solo con riguardo al soggetto cioè all’istituzione (internazionale) che l’esercita[17]. A una simile concezione vanno ricondotti anche altri organismi (come la Corte penale internazionale di cui al recente Statuto di Roma) che, derogando alle regole (per la verità ripetutamente violate nel XX secolo) dell’esclusività statale dell’esercizio della giustizia la trasferiscono, in determinati casi, all’istituzione internazionale[18].

  1. Dati i rapporti (e le distinzioni) tra interno ed esterno, jus e potentia, modi di guerra e forma politica, occorre vedere in quale guisa i nuovi tipi di ostilità possono modificare il Nomos o, più limitatamente, l’ordinamento internazionale, e di riflesso, e in quale misura, quello interno.

Nella situazione odierna nessuno Stato appare in grado di esercitare appieno lo jus belli, perché nessuno è in grado di condurre una guerra (con qualche possibilità di sopravvivenza) con gli U.S.A., tranne, forse, la Russia e, in futuro, la Cina. Lo jus non corrisponde pertanto alla potentia, limitata alle guerre realmente possibili. E anche tali tipi di ostilità (tra Stati senza eccessivo squilibrio di potenza), sono praticabili nei limiti in cui la superpotenza non se ne ritenesse lesa o minacciata: di fatto quindi sottoposte a un possibile veto U.S.A.. A questo occorre aggiungere il favore al principio di intervento, finalizzato alla salvaguardia di diritti umani che limita la sovranità al contrario, salvaguardata da quello di non-intervento.

In tale situazione è la guerra terroristica, condotta da piccoli – o piccolissimi – gruppi umani, l’unica sempre praticabile. Ciò comporta che questi gruppi sono, paradossalmente, più efficienti ed adatti  dello Stato all’esercizio dello jus belli (malgrado tale diritto non sia loro riconosciuto).

Si verifica così una scissione tra jus e potentia: confermata dal fatto che la maggior parte dei conflitti successivi alla Seconda guerra mondiale non sono guerre tra Stati, ma tra uno Stato e una fazione (partito, etnia, ecc.) o tra fazioni all’interno di uno Stato.

A questo punto si pone anche il problema se può considerarsi Stato, nel senso dello jus publicum europaeum un’entità politica largamente (o totalmente) di fatto priva dello jus belli. Ai giuristi – ma non solo a loro – è familiare giudicare che, se a un istituto – e al concetto corrispondente – si sottrae un carattere (un attributo) essenziale, questo non è riconducibile a quello normalmente considerato e definito. A sottrarre (o ridurre) lo jus belli  allo Stato, se ne azzera (o si riduce) la capacità di protezione. E’ possibile, poi, ricondurre, al genere “Stato” un’istituzione, connotandola, per fare un esempio (tra i molti), secondo la definizione “funzionale” di Hauriou: “Protéger la société individualiste par son gouvernement, lui assurer la paix et l’ordre au dedans et au dehors par sa force armée, par sa diplomatie, par sa police, par sa législation, par ses tribunaux[19]”, di cui la protezione è l’elemento essenziale? E lo stesso potremmo ripetere paragonandolo ad altre definizioni o concetti di Stato elaborati. Certo si può chiamare “Stato” un ente privo dello jus belli, analogamente a come l’eufemismo prima ricordato definisce “operazioni di polizia internazionale” delle guerre tout-court, ma occorre intendersi, prescindendo dal tasso d’ipocrisia o d’illusione di certe operazioni da vocabolario, che quanto ne risulta non è uno Stato né qualcosa di diverso dalla guerra.

Il tutto non è indifferente all’altro aspetto della sovranità, così limitata dalla (parziale) inidoneità del ricorso alla forza, cioè quello interno. Invero il rapporto hobbesiano tra protezione ed obbedienza e l’effettività della decisione sovrana poggiano sul monopolio statale della violenza legittima, che appare doppiamente eroso: in primo luogo dalla (parziale) inidoneità prima ricordata e, secondariamente, dal ruolo delle istituzioni internazionali.

Ma se lo Stato non è più idoneo, se non è più la “gran macchina” della pace e della sicurezza, se non riesce a tenere al di fuori dai confini lo “stato di natura”, a chi si dovrà dare obbedienza? Un sostituto dello Stato moderno non è all’orizzonte, e ciò ch’è visibile è piuttosto un ritorno, mutatis mutandis, a forme politiche pre-moderne, di volta in volta imperiali, feudali, particolaristiche, corporative, comunque contrapposte allo Stato e all’ordine interstatale dello jus publicum europaeum, perché non basate su quella chiusura (e distinzione) e sull’assolutezza della decisione sovrana. A un mondo in cui lo jus è determinato da quel tanto di potentia esercitabile in una situazione concreta e in continuo movimento, meno o poco “calcolabile” e prevedibile; e quindi tendenzialmente non comparabile con ordine concreto in se concluso, come quello determinato dallo Stato.

La non coincidenza tra Stato, sovranità e jus belli fa, di converso, intravedere, in futuro, forme politiche di confusione e sovrapposizione tra quelli: con Stati non sovrani, sovrani senza Stato, belligeranti non statali e così via. Lo stesso Impero, ordine politico assai differenziato nelle varie situazioni storiche, non ha escluso sia forme “interne” di ostilità (come le guerre “tribali” nelle colonie extraeuropee o i conflitti tra feudatari  nel Sacro Romano Impero), sia, di conseguenza situazioni di “pace” interna non comparabile a quella assicurata dallo Stato europeo “classico”, e, in taluni casi financo, autorità “locali” che praticano una politica all’esterno (quindi estera) non coincidente né compatibile con quella dell’Impero[20].

In effetti l’impero è un ordinamento politico che, al contrario dello Stato, ha conosciuto forme diversissime, in cui le variabili prevalgono largamente nelle costanti. Tuttavia uno dei caratteri tipici (quasi sempre) degli imperi è di consentire forme – più o meno limitate – di ostilità all’interno (e all’esterno) dell’unità politica, cui corrisponde spesso una “competenza” in politica estera, riconosciuta (o tollerata) alle unità politiche “minori” o “vassalle”. In questo contesto si può immaginare – ma di fatto l’immaginazione è divenuta, in parte, già realtà – che possano esservi forme di ostilità limitate sia nei soggetti (accanto agli Stati, movimenti e partiti di liberazione, forme in futuro anche gilde armate e compagnie di ventura) sia nel motivo e nei modi di guerra, secondo distinzioni che ricalcano la dottrina della “guerra giusta” di S. Tommaso e dei teorici della controriforma. Per cui certi motivi e modi di guerra sarebbero consentiti: come (nei modi) l’uso di armi convenzionali, la eliminazione degli obiettivi militari, al contrario dell’impiego di armi “NBC” e, in genere, la sistematica distruzione di bersagli civili. Nei motivi sarebbero consentite guerre per la tutela dei “diritti umani”, probabilmente l’autodeterminazione di popoli e regioni, forse guerre limitate per diritti determinati. A una moltiplicazione  dei soggetti ( lo justus hostis, limitato fino a tutto il XIX secolo allo Stato, diviene un concetto “elastico”) corrisponderebbe una casistica dei modi e dei motivi (justa causa e justus modus), con un solo limite: l’illiceità di nuova guerra (giusta) alla potenza egemone, d’altra parte già esclusa di fatto, che lo sarebbe così anche – e conseguentemente – di diritto. Al di sotto di questo, le guerre – entro una “soglia” determinata – sarebbero consentite e tollerate.

Inter pacem et bellum nihil medium: questa frase di Cicerone era ripresa da Schmitt (come titolo di un breve saggio) a denotare uno dei principi del diritto internazionale classico, da Schmitt considerato ormai tramontato per i vistosi vulnera subiti nel primo dopoguerra[21], e dovuti alla prassi di azioni ostili non militari o senza dichiarazione di guerra. Tuttavia sempre condotte da Stati contro Stati. Nel secondo dopoguerra (e già durante la seconda guerra mondiale) lo sviluppo inconsueto di nuovi soggetti politici belligeranti, con i movimenti partigiani, aggiungeva allo Stato un “nuovo” soggetto politico[22].

Il successivo sviluppo è costituito proprio da Al Quaeda, il cui principale carattere differenziale rispetto ai movimenti partigiani e ai partiti rivoluzionari è di non avere come quelli, seppure in forma fluida, gli elementi di Stato “in embrione”[23], ma prescinde (almeno apparentemente) in modo completo dalla “statalità”. Ciò non ha impedito a un’organizzazione avulsa da un popolo e da un territorio (cioè da due dei tre elementi-base dello Stato) di condurre un’operazione “bellica”[24].

La presenza, pertanto di soggetti politici non statali e il carattere “illimitato” e “irregolare” delle guerre da questi condotte, contrapposto alla “guerra in forma” fra Stati dello  jus publicum europaeum, appare non inquadrabile in un ordinamento che, come quello classico, costituisce un sistema di relazioni fondate su un contesto di pace e sicurezza reciproca. Il nuovo Nomos post-moderno che si intravede al tramonto dello Stato e dell’ordinamento “classico” appare quindi assai meno rassicurante di quello formatosi nell’età moderna.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

(*) Questo articolo è la rielaborazione di un contributo scritto per la rivista nordamericana “Telos”, destinata ad un “Symposium” internazionale sul “Der Nomos der Erde” di Carl Schmitt.

[1] V.M. Hauriou, La théorie de l’institution et de la fondation (essai de vitalisme social), trad. it. in Teoria dell’istituzione e della fondazione, Milano 1967, pp. 15-15.

[2] M. Hauriou op. cit., P. Iª, cap. 1, Sez. II, Paris 1929 p. 41 ss..

[3] E’ la definizione di I. Kant in “Die Metaphysik der Sitten”, p. II, sez. I.

[4] Trattato politico, Torino 1958 p. 196.

[5] V. Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, trad. it., Firenze 1941 p. 212. Hegel prosegue con considerazioni sul diritto “Non sono legati al suolo, e non conoscono niente dei diritti che la convivenza, insieme con l’agricoltura, rende di natura obbligatoria. Questo principio incostante ha costituzione patriarcale, ma prorompe in guerre e rapine interne, ed anche in aggressioni contro altri popoli”.

[6] Nella prefazione alla Zur Kritik der Politischen Ökonomie, trad. It., Roma 1974, pp. 5-6.

[7] Giulio Douhet, Il dominio dell’aria, rist. Roma 1955, p. 9-10.

[8] Scrive Schmitt che i conquistadores (ma lo stesso vale per i coloni inglesi) si spostavano velocemente e per questo sottomisero gli Amerindi: sui vascelli per mare e sui cavalli per terra. La guerra aerea evita anche l’inconveniente di dover cambiare mezzo di trasporto.

[9] VI libro delle Storie.

[10] Du Pape, II, 2.

[11] La démocratie en Amérique, Lib. I°, p. 1, cap. VIII°. Una considerazione analoga faceva Hegel, secondo il quale “L’America del nord…va considerata come uno Stato tuttora in divenire: esso non è ancora tanto progredito da aver bisogno della monarchia. E’ uno Stato federativo: ma questi, per quel che concerne i loro rapporti con l’estero, sono gli Stati peggiori. Solo la sua particolare posizione ha impedito che questa circostanza non causasse la sua totale rovina. Ciò si è visto nell’ultima guerra con l’Inghilterra” e prosegue: “ gli Stati liberi nordamericani non hanno nessuno Stato confinante, rispetto a cui siano nella situazione in cui gli Stati europei sono reciprocamente, uno Stato cioè che debbano considerare con sospetto e contro cui debbano mantenere un esercito stanziale. Il Canada e il Messico non incutono loro timore”. Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, trad. it., Firenze 1941 p. 231. Si noti che sia Hegel che Tocqueville prendono lo spunto per queste considerazioni dal rifiuto di alcuni Stati del New England d’inviare i loro contingenti militari nella guerra del 1812 contro l’Inghilterra.

[12] Ne è un esempio chiaro ed argomentato, tra tanti, il discorso di Stalin al XVII congresso del PCUS (nel 1934): “la guerra si svolgerebbe non unicamente sul fronte, ma pure nell’interno dei paesi dei nostri nemici. La borghesia può essere sicurissima che i numerosi amici della classe operaia dell’U.R.S.S. nell’Europa e nell’Asia tenterebbero di colpire alle spalle i loro  oppressori che avessero ordito una guerra delittuosa contro la patria della classe operaia di tutti i paesi…”. Tale minaccia di Stalin era indirizzata (prevalentemente) alle democrazie liberali. Fu attuata, com’è noto, in tutt’altra direzione.

[13] Il tratto comune tra marxismo-leninismo e fondamentalismo islamico appare non solo quello di prescindere degli Stati (e dei confini) al fine di scriminare amici e nemici, ma anche di depotenziare o negare l’idea di Stato. Se nel marxismo questo è destinato ad estinguersi con l’avvento della società senza classi, nell’Islam – più o meno fondamentalista – appare negata la distinzione tra potere  spirituale e temporale, che nell’idea di Stato dell’Europa moderna è il carattere fondamentale.

[14] Quando poi s’intende applicare un diritto a carattere universalistico (diritti umani) ci s’imbatte  in una contraddizione con i principi dell’ordinamento internazionale. Non solo, il che è evidente con la “chiusura” per cui è lo Stato a decidere cos’è che deve valere come diritto all’interno dell’unità politica; ma anche col principio che, a determinare la “legittimità” di uno Stato non è la conformità delle sue leggi (o comportamenti) a un sistema ideale o anche positivo di norme, ma l’effettività del potere sul (proprio) territorio. Che questo sia un criterio non solo realistico ma anche opportuno è dimostrato dal fatto che riconoscimenti e trattati hanno un senso solo con chi può garantire la pace o minacciare la guerra: ove non sia in grado di fare queste due cose, un trattato con lo stesso è del tutto inutile, e talvolta farsesco.

[15] V. Max Weber Wirtshaft und Gesellshaft, Vol. I°, p. 1, cap. I, prgrf. 10.

[16] A sviluppare coerentemente  certe posizioni di “pacifismo giudiziario” si ha l’impressione si creda di aver risolto l’enigma della storia (e della Provvidenza) invertendo il detto di Hegel Die weltgeschichte ist das weltgericht, e cioè trovato il weltgericht adatto a giudicare e financo a fare la storia del mondo. Ma non è questo il reale rapporto tra Storia e Tribunali (anche autorevoli). Lo prova il fatto che nella veste di giudici stanno sempre i vincitori, in quella d’imputati, i vinti.

[17] In effetti si potrebbe sostenere, a sostegno dell’intervento nel Kosovo, che, di fatto nella regione lo Stato iugoslavo non esisteva più, essendovi una guerra civile. In tal caso, a seguire Kant, non varrebbe più il principio di non intervento v. in “Per la pace perpetua” in Antologia degli scritti politici, Bologna 1961, p. 110; sul tema, ci sia consentito richiamare il nostro scritto “Breve Storia della guerra giusta” in Palomar 2/2002.

[18] Com’è noto tale trattato non è stato ratificato  dagli Stati militarmente più forti del pianeta come gli USA, la Russia e la Cina, e neppure da quelli che verosimilmente avrebbero più occasioni (e tentazioni) per violare le regole istituite dal Trattato, come Israele, l’India o il Pakistan. E’ dubbio quale consistente beneficio per la pace ed il diritto possano apportare norme non applicabili ai (più) probabili trasgressori

[19] V. Précis de droit Constitutionnel  cit. p. 49, Paris 1929, in cui ne descrive le funzioni essenziali (quella riportata nel testo è la prima).

[20] Un esempio classico ne costituisce, a leggere l’Anabasi, quella del satrapo Tissaferne contro i mercenari greci; ovvero come scrive Otto Brunner in “Land und Herrshaft. Grundfragen der territorialen Verfassungsgeschichte Österreichs in Mittelater„ (trad. It. Milano 1983, p. 7) quella dei feudatari nel medioevo: “si da politica – politica spinta sino all’estrema conseguenza della guerra – non solo fra gli “Stati” medievali ma anche al loro interno … i regni medievali  si articolano in poteri locali ai quali competono il diritto ed il dovere di svolgere, entro determinati confini, una politica autonoma sia all’interno che dall’esterno del territorio. Anzi, questa politica, in certe circostanze, può perfino volgersi contro i poteri superiori”.

[21] Inter pacem et bellum nihil medium trad. it. ne lo Stato, X, 1939, pp. 541-548.

[22] In effetti “vecchio” dato che risaliva alle guerre napoleoniche, come ricordato da Schmitt nella Theorie des Partisanen (1963), che lo fa risalire ai guerilleros spagnoli antinapoleonici del 1808-1812. In realtà le prime forme della moderna guerra partigiana devono essere fatte risalire agli insorgenti italiani del 1796-1799 e all’esercito della “Santa Fede” guidato dal Cardinal Ruffo, che riconquistò il Regno di Napoli nel 1799.

[23] Come notato da un grande giurista italiano, Santi Romano, nel 1946, in uno scritto sul partito rivoluzionario: “si tratta di un’organizzazione, la quale, tendendo a sostituirsi a quella dello Stato, consta di autorità, di poteri, di funzioni più o meno corrispondenti e analoghi a quelli di quest’ultimo: è un’organizzazione statale in embrione, che, a mano mano,, se il movimento è vittorioso si sviluppa sempre più in tal senso”, Santi Romano Frammenti di un dizionario giuridico, p. 224, rist. Milano 1983.

[24] Sul che ci permettiamo di rinviare a quanto scritto in Osservazioni sul terrorismo post-moderno in Behemoth n. 30, luglio-dicembre 2001.

saggio del 2003, pubblicato su “Palomar” n. 14 (4/2003)

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SCOTT RITTER: Prospettive 2023 per l’Ucraina

Data la duplice storia degli Accordi di Minsk, è improbabile che la Russia possa essere  dissuasa diplomaticamente  dalla sua offensiva militare. In quanto tale, il 2023 sembra preannunciarsi come un anno di continui scontri violenti.

Il presidente russo Vladimir Putin osserva le esercitazioni militari nella regione orientale del Primorsky Krai, settembre 2022. (Cremlino)

Di  Scott Ritter Speciale per Consortium News

D opo quasi un anno di azioni drammatiche, in cui le prime avances russe si sono scontrate con impressionanti controffensive ucraine, le linee del fronte nel conflitto russo-ucraino in corso si sono stabilizzate, con entrambe le parti impegnate in una sanguinosa guerra di posizione, schiacciandosi a vicenda in una brutale gara di logoramento. in attesa della prossima grande iniziativa da entrambe le parti.

Con l’avvicinarsi del primo anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina, il fatto che l’Ucraina sia arrivata a questo punto nel conflitto rappresenta una vittoria sia morale che, in misura minore, militare.

Dal presidente dei capi di stato maggiore congiunti degli Stati Uniti al direttore della CIA , la maggior parte degli alti funzionari militari e dell’intelligence in Occidente ha valutato all’inizio del 2022 che un’importante offensiva militare russa contro l’Ucraina si sarebbe tradotta in una rapida e decisiva vittoria russa.

La resilienza e la forza d’animo dei militari ucraini hanno sorpreso tutti, compresi i russi, il cui piano d’azione iniziale, comprensivo delle forze assegnate al compito, si è rivelato inadeguato ai compiti assegnati. Questa percezione di una vittoria ucraina, tuttavia, è fuorviante .

La morte della diplomazia

Mentre la polvere si deposita sul campo di battaglia, è emerso uno schema riguardo alla visione strategica alla base della decisione della Russia di invadere l’Ucraina. Mentre la principale narrativa occidentale continua a dipingere l’azione russa come un atto precipitoso di aggressione non provocata, è emerso uno schema di fatti che suggerisce che l’argomento russo per l’autodifesa collettiva preventiva ai sensi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite può avere valore.

Recenti ammissioni da parte dei funzionari responsabili dell’adozione degli accordi di Minsk sia del 2014 che del 2015 ( l’ex presidente ucraino Petro Poroshenko , l’ex presidente francese Francois Hollande e l’ ex cancelliere tedesco Angela Merkel ) mostrano che l’obiettivo degli accordi di Minsk per il la promozione di una soluzione pacifica al conflitto post-2014 nel Donbass tra il governo ucraino e i separatisti filo-russi era una bugia.

Febbraio 12, 2015: il presidente russo Vladimir Putin, il presidente francese Francois Hollande, il cancelliere tedesco Angela Merke, il presidente ucraino Petro Poroshenko al formato Normandia colloqui a Minsk, in Bielorussia. (Cremlino)

Invece, gli accordi di Minsk, secondo questa troika, erano poco più che un mezzo per far guadagnare all’Ucraina il tempo di costruire un esercito, con l’assistenza della NATO, in grado di mettere in ginocchio il Donbass e cacciare la Russia dalla Crimea.

Vista in questa luce, l’istituzione di una struttura di addestramento permanente da parte degli Stati Uniti e della NATO nell’Ucraina occidentale , che tra il 2015 e il 2022 ha addestrato circa 30.000 soldati ucraini secondo gli standard della NATO al solo scopo di affrontare la Russia nell’Ucraina orientale, assume una prospettiva del tutto nuova.

L’ammessa duplicità di Ucraina, Francia e Germania contrasta con la ripetuta insistenza della Russia prima della sua decisione del 24 febbraio 2022 di invadere l’Ucraina affinché gli accordi di Minsk fossero attuati integralmente.

Nel 2008, l’ex ambasciatore degli Stati Uniti in Russia William Burns, l’attuale direttore della CIA, avvertì che qualsiasi sforzo della NATO per portare l’Ucraina nel suo ovile sarebbe stato visto dalla Russia come una minaccia alla sua sicurezza nazionale e, se perseguito, avrebbe provocato un attacco militare russo. intervento. Quel promemoria di Burns fornisce il contesto tanto necessario alle iniziative del 17 dicembre 2021 della Russia per creare un nuovo quadro di sicurezza europeo che tenga l’Ucraina fuori dalla NATO.

In poche parole, la traiettoria della diplomazia russa è stata quella di evitare i conflitti. Lo stesso non si può dire né dell’Ucraina né dei suoi partner occidentali, che perseguivano una politica di espansione della NATO legata alla risoluzione delle crisi del Donbass/Crimea attraverso mezzi militari.

Cambio di gioco, non vincitore del gioco

La reazione del governo russo all’incapacità dell’esercito russo di sconfiggere l’Ucraina nelle fasi iniziali del conflitto fornisce importanti informazioni sulla mentalità della leadership russa riguardo ai suoi scopi e obiettivi.

Negata una vittoria decisiva, i russi sembravano pronti ad accettare un risultato che limitasse le conquiste territoriali russe al Donbass e alla Crimea e un accordo dell’Ucraina a non aderire alla NATO. In effetti, la Russia e l’Ucraina erano sul punto di formalizzare un accordo in questo senso nei negoziati che si sarebbero svolti a Istanbul all’inizio di aprile 2022.

Questo negoziato, tuttavia, è stato affondato in seguito all’intervento dell’allora primo ministro britannico Boris Johnson , che ha collegato la continua fornitura di assistenza militare all’Ucraina alla volontà dell’Ucraina di forzare una conclusione del conflitto sul campo di battaglia, al contrario dei negoziati. L’intervento di Johnson è stato motivato da una valutazione da parte della NATO secondo cui i fallimenti militari russi iniziali erano indicativi della debolezza russa.

9 aprile 2022: il presidente ucraino Volodymyr Zelensky accompagna il primo ministro britannico a fare una passeggiata a Kiev. (Presidente dell’Ucraina, dominio pubblico)

Lo stato d’animo nella NATO, riflesso nelle dichiarazioni pubbliche del segretario generale della NATO Jens Stoltenberg (“Se [il presidente russo Vladimir] Putin vince, questa non è solo una grande sconfitta per gli ucraini, ma sarà la sconfitta, e pericolosa, per tutti di noi”) e il Segretario alla Difesa americano Lloyd Austin (“Vogliamo vedere la Russia indebolita al punto da non poter fare il genere di cose che ha fatto invadendo l’Ucraina”) doveva usare il conflitto russo-ucraino come una guerra per procura progettata per indebolire la Russia al punto che non avrebbe mai più cercato di intraprendere un’avventura militare simile all’Ucraina. [Assieme a una sfortunata guerra economica, era anche progettato per far cadere il governo russo, come ha ammesso la scorsa primavera il presidente Joe Biden.]

Questa politica è servita da impulso per l’iniezione di assistenza per un valore di oltre 100 miliardi di dollari, comprese decine di miliardi di dollari di equipaggiamento militare avanzato, all’Ucraina.

Questa massiccia infusione di aiuti è stata un evento rivoluzionario , consentendo all’Ucraina di passare da una posizione principalmente difensiva a una che ha visto un esercito ucraino ricostituito, addestrato, equipaggiato e organizzato secondo gli standard della NATO, lanciare contrattacchi su larga scala che sono riusciti a guidare le forze russe da vaste aree dell’Ucraina. Non era, tuttavia, una strategia vincente, tutt’altro.

Matematica militare

Gli impressionanti risultati militari ucraini che sono stati facilitati attraverso la fornitura di aiuti militari da parte della NATO hanno comportato un costo enorme in vite umane e materiale. Mentre il calcolo esatto delle vittime subite da entrambe le parti è difficile da ottenere, vi è un ampio riconoscimento, anche tra il governo ucraino, che le perdite ucraine sono state pesanti .

Con le linee di battaglia attualmente stabilizzate, la questione di dove va la guerra da qui si riduce alla matematica militare di base – in breve, una relazione causale tra due equazioni di base che ruotano attorno ai tassi di combustione (quanto velocemente vengono sostenute le perdite) rispetto ai tassi di rifornimento (come rapidamente tali perdite possono essere sostituite.) Il calcolo è di cattivo auspicio per l’Ucraina.

Né la NATO né gli Stati Uniti sembrano in grado di sostenere la quantità di armi consegnate all’Ucraina, che hanno consentito il successo delle controffensive contro i russi.

Questo equipaggiamento è stato in gran parte distrutto e, nonostante l’insistenza dell’Ucraina sulla sua necessità di più carri armati, veicoli corazzati da combattimento, artiglieria e difesa aerea, e mentre nuovi aiuti militari sembrano essere imminenti , sarà tardi per la battaglia e in quantità insufficiente per avere un impatto vincente sul campo di battaglia.

Allo stesso modo, i tassi di vittime subiti dall’Ucraina, che a volte raggiungono più di 1.000 uomini al giorno, superano di gran lunga la sua capacità di mobilitare e addestrare sostituti.

Il 3 maggio 2022, il 3 maggio 2022, presso la struttura Lockheed Martin a Troy, in Alabama, il presidente Joe Biden ha pronunciato le osservazioni “stand with Ukraine”. (Casa Bianca, Adam Schultz)

La Russia, d’altra parte, è in procinto di finalizzare una mobilitazione di oltre 300.000 uomini che sembrano essere equipaggiati con i sistemi d’arma più avanzati dell’arsenale russo.

Quando queste forze arriveranno in pieno sul campo di battaglia, entro la fine di gennaio, l’Ucraina non avrà risposta. Questa dura realtà, se unita all’annessione da parte della Russia di oltre il 20% del territorio dell’Ucraina e ai danni alle infrastrutture che si avvicinano a 1 trilione di dollari, è di cattivo auspicio per il futuro dell’Ucraina.

C’è un vecchio detto russo: “Un russo imbriglia lentamente ma cavalca velocemente”. Questo sembra essere ciò che sta accadendo riguardo al conflitto russo-ucraino.

Sia l’Ucraina che i suoi partner occidentali stanno lottando per sostenere il conflitto che hanno avviato quando hanno rifiutato un possibile accordo di pace nell’aprile 2022. La Russia, dopo aver iniziato con i suoi passi indietro, si è ampiamente riorganizzata e sembra pronta a riprendere operazioni offensive su larga scala che né l’Ucraina né i suoi partner occidentali hanno una risposta adeguata.

Inoltre, data la duplice storia degli Accordi di Minsk, è improbabile che la Russia possa essere dissuasa dall’intraprendere la sua offensiva militare attraverso la diplomazia. Pertanto, il 2023 sembra preannunciarsi come un anno di continui scontri violenti che porteranno a una decisiva vittoria militare russa.

È ancora da vedere come la Russia sfrutti una simile vittoria militare in un accordo politico sostenibile che si manifesti nella pace e nella sicurezza regionali.

Scott Ritter è un ex ufficiale dell’intelligence del Corpo dei Marines degli Stati Uniti che ha prestato servizio nell’ex Unione Sovietica attuando trattati sul controllo degli armamenti, nel Golfo Persico durante l’operazione Desert Storm e in Iraq sovrintendendo al disarmo delle armi di distruzione di massa. Il suo libro più recente è Disarmament in the Time of Perestroika , pubblicato da Clarity Press.

https://consortiumnews.com/2023/01/11/scott-ritter-2023-outlook-for-ukraine/

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Perché i politici non risolvono quasi mai i problemi dei loro elettori? di Davide Gionco

Perché i politici non risolvono quasi mai i problemi dei loro elettori?

di Davide Gionco
09.01.2023

 

 

Per quale motivo i politici eletti non riescono quasi mai a rispondere alle attese dei loro elettori?
E’ vero il teorema di Beppe Grillo, intorno al quale si formò il Movimento 5 Stelle?
Secondo questo teorema i politici sarebbero tutti corrotti e sarebbe sufficiente eleggere dei “normali cittadini” per avere finalmente dei parlamentari onesti e capaci di risolvere i problemi degli italiani.

La storia recente ci ha dimostrato che non è vero. Nelle ultime legislature gli italiani hanno eletto molte facce nuove le quali, una volta entrate in Parlamento, non hanno saputo risolvere i principali problemi degli italiani, in primis quelli economici.
Peraltro neppure i politici cresciuti nei partiti e neppure i politici “competenti” hanno dimostrato di saper fare meglio.

 

La storia recente italiana ci dimostra che esistono dei politici corrotti, così come esistono dei funzionari pubblici corrotti. Ma non è realistico che tutti i politici si corrompano non appena entrano in Parlamento o vanno al governo, diventando di colpo nemici del popolo.

Tuttavia è un dato di fatto che in Italia, anche quando i politici cambiano, i problemi principali del paese restano. E spesso peggiorano.
Possibile che tutti i politici si mettano ogni volta d’accordo per fare andare le cose di male in peggio?

E non sono solo luoghi comuni: i dati statistici sulla situazione economica italiana sono davvero impietosi.

La povertà è in aumento da molti anni.

Il reddito disponibile è sceso ai livelli del 1990, il PIL è in sostanziale decrescita da 15 anni, la capacità di risparmio è crollata.

Le stesse considerazioni le potremmo fare sul deterioramento dei servizi sanitari, sul peggioramento della scuola pubblica, sullo strapotere delle banche, sul malfunzionamento della giustizia, ecc.

Possibile che tutto questo sia dovuto ad una costante mala fede dei decisori politici degli ultimi 30 anni?
O ci sono altre ragioni che portano a queste conseguenze?

 

Ci sono indubbiamente dei vincoli esterni che impediscono ai politici eletti di fare ciò che vorrebbero.

L’adesione dell’Italia a trattati internazionali comprensivi di “clausole-capestro” non permette all’Italia di fare tutto quello che dovrebbe e le converrebbe nel confronto di soggetti esteri. Tuttavia è il caso di ricordare che l’adesione ai trattati internazionali è una decisione politica del passato, che può essere modificata, ovviamente tenendo conto delle conseguenze nelle relazioni internazionali. Inoltre i trattati internazionali non sono delle leggi. E’ possibile attuarli in modo integralista, come in genere fa l’Italia, o in modo parziale, secondo convenienza, come da sempre fanno i nostri vicini francesi e tedeschi.
Nei rapporti internazionali contano non solo i trattati scritti, ma anche i rapporti di forza. E l’Italia, quantomeno in Europa, è un paese di un certo peso, che potrebbe avere degli importanti spazi di manovra.

 

Un altro vincolo esterno all’azione dei politici eletti è posto dai funzionari pubblici “poco collaborativi”. E’ chiaro che difficilmente una decisione politica può essere eseguita se gli organi dello stato adibiti marciano in direzione opposta. O per ragioni di vicinanza ideologica ai partiti del precedente governo o per regioni di vicinanza ad altri gruppi di interesse.
Negli USA esiste la prassi dello spoiling system ovvero che quando cambia il governo vengono sostituiti i dirigenti dei vari dicasteri. In Italia la cosa viene annunciata dai giornali come quasi scandalosa, quasi che il nuovo governo volesse “vendicarsi dei nemici” sconfitti alle elezioni. Ma in realtà è la cosa più logica da fare, se dei politici eletti vengono ostacolati nelle loro decisioni da funzionari pubblici che, per qualsiasi motivo, non obbediscono al mandato popolare rappresentato dagli eletti.

 

Tuttavia, anche nei casi in cui gli eletti siano determinati a cambiare la linea politica, avviene che, all’atto dei fatti, i cambiamenti sostanziali non arrivano quasi mai.

Questo succede perché i decisori politici sono sottoposti alle fortissime pressioni delle tecniche di manipolazione messe in atto dai gruppi di potere che intendono piegare le decisioni dei politici ai propri interessi. Tali tecniche vengono utilizzate non sono, come noto, per far approvare dall’opinione pubblica decisioni politiche che di per sé non sarebbero accettabili, come una guerra o un aumento delle tasse, ma soprattutto per piegare la volontà degli stessi decisori politici verso l’approvazione di misure gradite al manipolatore di turno.

 

Gli studi sulle tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica iniziarono con l’antropologo francese Gustave Le Bon che nel 1895 pubblicò il libro “Psicologia delle folle”. Fra i suoi successori più influenti ricordiamo il giornalista americano Walter Lippman, che nel 1922 pubblicò il libro “Opinione Pubblica” ed il fondatore delle pubbliche relazioni, Edward Bernays, nipote di Sigmund Freud, che nel 1928 pubblicò il libro “Propaganda”.
Il primo governo ad attuare sistematicamente queste tecniche, spingendole fino agli estremi, fu quello tedesco di Adolf Hitler, grazie al ministro della propaganda Joseph Goebbels, il quale riuscì nel giro di pochi anni a convincere l’intero popolo tedesco (tranne poche eccezioni) del fatto che gli ebrei erano dei sub-umani, dei parassiti degni di essere sterminati, cosa che avvenne nei campi di concentramento.

 

Naturalmente dall’inizio del XX secolo ad oggi le tecniche si sono ulteriormente evolute.
Uno dei maggiori divulgatori dei nostri tempi su questi argomenti è lo psicologo americano Robert Cialdini, autore del libro “Le armi della persuasione”, edito nel1984, il quale riassume le tecniche in 6 “armi” a disposizione dei manipolatori:
1) Autorevolezza
2) Riprova sociale
3) Scarsità
4) Simpatia

5) Reciprocità
6) Coerenza

 

Le decisioni del politico vengono spesso influenzate dall’autorevolezza (o autorità) di persone che si presentano come tecnici, esperti della materia oggetto di decisione.
Questi personaggi possono essere consulenti assunti dalle istituzioni pubbliche, ma anche degli specialisti che prendono parola su tv e giornali.

Un politico non può essere competente di tutto, per cui alla fatica di formarsi preferisce fidarsi ciecamente dell’autorità proposta nel prendere le proprie decisioni.

In questo modo, però, il manipolatore di turno avrà gioco facile ad influenzare le decisioni del politico o corrompendo lo specialista (competente non significa necessariamente onesto) oppure facendo in modo che i politici incontrino solo tecnici che, nel pluralismo della discussione scientifica, sostengono posizioni utili agli interessi del manipolatore. Il manipolatore, corrompendo chi seleziona gli specialisti da proporre al politico, crea il pensiero unico in materia. “There is no alternative” (non c’è alternativa), come diceva Margareth Thatcher.
In questo modo il politico sarà portato, in totale buona fede, a prendere decisioni sbagliate per il popolo e giuste solo per gli interessi del manipolatore.

 

Un politico è sempre attento alla riprova sociale delle proprie decisioni. Il terrore di ogni politico è di non essere rieletto per il fatto di avere scontentato i propri elettori.

Tuttavia il politico ha poco tempo per incontrare direttamente i propri elettori, tendendo a interpretare come opinione pubblica quanto scrivono tv e giornali. Peraltro la contrarietà di tv e giornali alle posizioni del decisore politico porterà anche la gente a pensare che quel politico è inadeguato, dato che anche l’opinione pubblica è oggetto delle tecniche di manipolazione.
Un politico attento a ciò che dicono tv e giornali sarà portato a decidere cercando il loro consenso. Tuttavia se accadesse (e in Italia accade spesso) che i mezzi di informazione sono di proprietà di soggetti vicino ai manipolatori, il messaggio di tv e giornali sarebbe falsato per indurre in inganno i decisori politici, i quali prenderebbero decisioni sbagliate per cercare il consenso falsato dell’opinione pubblica.
Per chi non sapesse come funzionano oggi i mass media, invitiamo il lettore a conoscere la testimonianza del defunto giornalista tedesco Udo Ulfkotte o quella di Marcello Foa sugli “spin doctors”. Un politico accorto deve conoscere queste realtà e tenerne conto nelle sue decisioni.

 

Il principio di scarsità in genere viene usato dai venditori per convincere i clienti ad acquistare in fretta, senza riflettere: “è rimasta solo un’auto di quel tipo”, “lo sconto sarà valido sono fino a domani”. La fretta porterà il cliente a decidere in modo imponderato, a tutto vantaggio del venditore.

Nel caso del decisore politico succede spesso che una decisione importante debba essere presa entro una scadenza troppo ravvicinata, senza avere il tempo necessario per approfondire a sufficienza l’argomento.

Nei casi in cui il manipolatore abbia il potere di imporre delle tempistiche strette per le decisioni politiche, avrà gioco facile ad indurre in errore il politico che, non avendone il tempo, si dovrà fidare delle informazioni superficiali di cui dispone o dell’autorità tecnica di turno (combinazione del principio 1 con il principio 3).
Al manipolatore sarà sufficiente influenzare, in qualche modo, chi detta i tempi delle decisioni (ad esempio la Commissione Europea o chi stabilisce l’agenda del Parlamento) per indurre in errore molti decisori politici.

 

Il principio di simpatia viene utilizzato dai venditori per creare fiducia nei clienti, così come viene utilizzato dai manipolatori per carpire la fiducia di un politico. La persona “simpatica” che viene a contatto con il decisore politico utilizzerà questa fiducia, al di là dei meriti e delle capacità, per influenzare le sue scelte.
In altri casi l’innata simpatia viene utilizzata da qualcuno per portare consensi a se stesso ed al proprio partito politico, arrivando a guadagnare il ruolo di leader di partito.
Il politico eletto, per disciplina di partito, dovrà sottostare alle decisioni di quel leader.
I manipolatori hanno il potere di selezionare persone non capaci, ma “simpatiche” e fedeli al mandato del manipolatore, introducendole alla vita politica ed usandole per influenzare le decisioni dei politici.

 

La reciprocità è l’arma preferita dai manipolatori per influenzare le decisioni dei politici eletti. Umanamente ogni volta che riceviamo un favore ci sentiamo in obbligo di contraccambiare.
Il manipolatore offre dei favori “gratuiti” al politico: regali, occasioni di visibilità, incarichi di prestigio, di potere e remunerativi, incarichi presenti o futuri. Dopo di che il decisore politico si sentirà in obbligo di restituire il favore, accondiscendendo alle richieste del manipolatore. Questo anche senza arrivare a fenomeni di corruzione.
Il potere e la visibilità personale per un politico sono garanzie per il futuro. Difficile rinunciarvi. La decisione di restituire il favore, votando provvedimenti a vantaggio dei manipolatori, dei quali non ci si preoccupa neppure di conoscere le conseguenze, viene ritenuta una decisione “innocente”.

 

Una volta che un politico abbia preso un impegno pubblico, farà di tutto per confermare agli elettori la sua coerenza rispetto all’impegno preso.
La coerenza è certamente un fattore di serietà e di credibilità quando una persona mantiene ciò che ha promesso. Ma diventa una trappola micidiale per il decisore politico ogni volta in cui si sia precedentemente sbagliato nelle proprie valutazioni. Ovvero ogni volta in cui sia stato tratto in inganno tramite uno degli altri 5 metodi sopra esposti.
Un decisore politico serio dovrebbe avere il coraggio di ammettere pubblicamente di essersi precedentemente sbagliato, perché mal consigliato o per non avere prima sufficientemente approfondito la questione. In questo modo avrebbe la libertà di correggersi e prendere le decisioni giuste in favore degli elettori. Ma molto spesso questo non succede, perché il meccanismo psicologico è fortissimo, sia nei confronti del politico eletto, sia nei confronti degli elettori.
Tu, cittadini, che leggi questo articolo, preferiresti votare per un politico che si presenta sempre coerente, senza mai riconoscere i propri errori anche quando si accorge di avere sbagliato o votare un politico che ammette pubblicamente di essersi sbagliato e di avere cambiato opinione?
In questo meccanismo noi elettori non siamo esenti da responsabilità.

 

Cosa potrà fare un politico accorto per evitare di cadere nelle dinamiche di condizionamento sopra illustrate?

Per evitare di sottomettersi alle false consulenze degli specialisti autorevoli la prima cosa da fare per un politico è di formarsi, per arrivare a disporre di competenze proprie di base sulle principali questioni, soprattutto su quelle che richiamano maggiori interessi economici e, quindi, maggiori pressioni dei manipolatori.

A tale scopo, per chi fosse interessato, la nostra associazione Confederazione Sovranità Popolare ha organizzato un corso di cultura politica, che inizierà il prossimo 25 gennaio 2023.
Per informazioni: https://sovranitapopolare.info/corso-politica/

 

In secondo luogo un politico sinceramente motivato a fare il bene del proprio paese approfondirà la conoscenza delle tecniche di manipolazione dell’opinione qui sopra citate ed eviterà, per quanto possibile, di cadere nei tranelli dei manipolatori.
Avrà quindi sempre un atteggiamento critico nei confronti degli specialisti tecnici, ricercando anche punti di vista alternativi, prima di prendere delle decisioni.

Il politico accorto deve sapere che oggi i mezzi di informazione sono fortemente condizionati dagli interessi dei poteri forti, per cui saprà che non sempre la voce di tv e giornali corrisponde alla verità ed all’opinione della gente. E saprà che gli stessi mezzi di informazione spesso operano manipolando l’opinione pubblica.
Il decisore politico cercherà, anche con coraggio, di non farsi mettere alle strette nelle proprie decisioni, prendendosi il tempo necessario per decidere bene, perché una decisione sbagliata costerà al popolo molto di più di una settimana di ritardo sui tempi imposti per l’approvazione.

Un politico serio cercherà sempre di valutare gli interlocutori sulla base della loro serietà e competenza e non sulla base della simpatia o di favori concessi.
L’umiltà, necessaria per fuggire la vanagloria dei posti di prestigio, e la sobrietà, intransigente, necessaria ad evitare che l’azione politica sia finalizzata al servizio del popolo e non all’arricchimento personale, sono delle qualità fondamentali. L’etica, in un decisore politico, è un fattore fondamentale. Non devono essere ammessi compromessi.

 

La risposta alla domanda iniziale, del perché i politici non riescono quasi mai a risolvere i problemi dei cittadini, sono quindi i seguenti 3 punti:
1) Fondamenti etici poco solidi;
2) Limitate competenze proprie di base, unite ad una eccessiva fiducia malriposta negli specialisti tecnici;
3) Ignoranza delle tecniche di manipolazione messe in atto da chi vuole asservire la politica ad interessi privati.

 

Per cambiare veramente il nostro paese abbiamo bisogno di una nuova generazione di politici attenti a questi aspetti e di elettori che sappiano apprezzare, quando vanno al voto, i politici con queste qualità.

 

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NOMINE E AIUTANTATO, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOMINE E AIUTANTATO

Nell’imminenza dello scadere del termine  entro il quale la vigente legislazione prescrive che debbano essere confermati o sostituiti i grands-commis statali dopo l’insediamento del governo post-elettorale, si è acceso il dibattito su conferma o ricambio dei suddetti servitori dello Stato.

Ovviamente il PD, il quale a dispetto del fatto di non aver mai ottenuto una maggioranza dei votanti è stato sempre al governo (o nell’area di governo) negli ultimi dieci anni – fatta eccezione per il Governo Conte 1 -, con relative nomine, accusa il governo di voler fare lo stesso: di ricoprire le caselle dei personaggi ossequienti alla nuova maggioranza quanto i loro predecessori a PD (e sodali). Condendo il tutto con l’usuale ricorso alla megliocrazia: che i loro nominati erano bravi, colti, esperti, educati, buoni, umanitari (ecc. ecc.). Mentre quelli nominandi dal governo Meloni sono mediocri, ignoranti, dilettanti, ecc. ecc. Argomento involontariamente comico: se l’Italia avesse avuto una tecno-burocrazia così eccellente non si capisce come – da trent’anni – sia ferma, anzi in decadenza. O meglio la spiegazione è meno confortante per il PD di quanto lo sia ritenerne corresponsabile la dirigenza burocratica.

Ma, a parte la propaganda, il rapporto tra potere burocratico, potere politico, ma soprattutto democrazia è uno dei principali dello Stato moderno. Già agli albori, durante la rivoluzione francese (cioè nello Stato allora “forse” il più burocratizzato del pianeta) i rivoluzionari lo avvertivano ampiamente. Sia nelle correnti (e soluzioni) più moderate; ma più chiaramente e decisamente alla Convenzione la tensione tra dirigenza eletta dal popolo e civils servants è percepita e “risolta” dai giacobini. Saint-Just diceva alla Convenzione “Tutti coloro che il governo impiega sono parassiti… e la Repubblica diventa preda di ventimila persone che la corrompono, la osteggiano, la dissanguano… gli uffici hanno preso il posto delle monarchie… il servizio pubblico, come è esercitato, non è  virtù, è mestiere… C’è un’altra classe corruttrice, è la categoria dei funzionari

Del pari Robespierre riteneva “L’interesse del popolo è il bene pubblico; l’interesse di un uomo che ha una carica è un interesse privato. Per essere buono il popolo non ha bisogno d’altro che di anteporre se stesso a ciò che gli è estraneo, il magistrato, per essere buono, deve sacrificare se stesso al popolo”. Da ciò la necessità di controllarli.

È inutile continuare col ricordare tutti i pensatori che hanno giudicato come antitetiche burocrazia e democrazia. La soluzione – nelle varie applicazioni che ha avuto –  come osservava Max Weber, è stata di sottoporre gli apparati burocratici all’indirizzo, nomina e controllo di un vertice politico, responsabile verso il corpo elettorale e quindi “rimovibile” a scadenza fissa. Un vertice non necessariamente fornito delle caratteristiche fondamentali della burocrazia (sapere specializzato, durata del rapporto, selezione “dall’alto”, professionalità) proprio perché di designazione e conferma “dal basso”.

Se non fosse così, o si dovrebbe ricorrere alle istituzioni delle poleis democratiche, dove tutte – o quasi – le cariche erano elettive, ovvero se i burocrati apicali non fossero responsabili verso il vertice politico (e conservassero i propri connotati tipici) dire addio alla democrazia possibile.

Max Weber nel distinguere la figura del capo e del funzionario da un particolare valore alla “specie di responsabilità dell’uno e dell’altro”. Il funzionario ha come dovere di eseguire un ordine, anche se non lo condivide “come se esso corrispondesse alla sua intima convinzione, mostrando con ciò che il suo sentimento del dovere di ufficio è superiore alla sua volontà personale”; di converso, prosegue Weber «Un capo politico che agisse in questo modo meriterebbe disprezzo… se egli non trova il modo di dire al suo superiore – sia esso il monarca o il demos – “o ricevo adesso questa istruzione o me ne vado”, vuol dire che è un “rammollito” come Bismarck ha battezzato il tipo». Questo se capo e funzionario seguono l’ethos del rispettivo ruolo.

Ma se non lo seguono la questione cambia; in Italia vige il nicodemismo ma soprattutto la sfrontatezza coniugata all’ambizione di voler occupare posizioni pubbliche pur riservandosi il diritto di sindacare o mal eseguire le direttive “dall’alto”. Delle quali la pretesa ad esercitare la funzione senza la fiducia del vertice politico è l’aspetto più eclatante. Che è poi un “capitolo” della mentalità consociativa tutt’altro che sminuita dalla “bipolarizzazione” la quale ha ispirato la legislazione elettorale dell’ultimo trentennio.

Cambiare i vertici amministrativi della pubblica amministrazione non è così una lesione alla democrazia, ma il rispetto della volontà popolare espressa nelle votazioni e della responsabilità che ne consegue. Anche perché il ruolo della dirigenza generale e del vertice politico è ordinato (tra l’altro) dall’art. 4 del D.lgs. 165/2000 il quale per il vertice dispone “Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi ad attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la corrispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano in particolare:… e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi attribuiti da specifiche disposizioni”; mentre “Ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa… Essi sono responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati”.

Il fatto che diverse norme di legge dispongono la “conferma” (o la sostituzione) dell’apice della dirigenza burocratica al cambiamento del vertice politico risponde al “circuito” democratico: per il quale chi governa deve avere il consenso dei governati, attuarne la volontà e avere la responsabilità verso i medesimi. E quindi il potere di controllare, sostituire e confermare coloro che – non essendo “funzionari onorari” ma di carriera, non sono nominati né confermabili dal corpo elettorale. Verso il quale quello di nominare gli apici dirigenziali non è un diritto ma un dovere. Una responsabilità cui non ci si può sottrarre.

Teodoro Klitsche de la Grange

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REALTA’ E MALINCONIA, di Pierluigi Fagan

REALTA’ E MALINCONIA. Prenderemo in esame le due fotografie su “lo stato d’animo del Paese” fatte dal 56° Rapporto CENSIS uscito ai primi dello scorso dicembre, i cui temi confermerebbe l’IPSOS con una indagine uscita sul Corsera. Chi scrive ha lavorato in passato con queste ricerche ed istituti, si possono criticare poiché in statistica nulla è esente da critiche, ma nella sostanza le ritiene affidabili o quantomeno indicative. Vediamo i temi principali che emergono da questa doppia fotografia.
Il primo e più importante sembra essere quello che CENSIS chiama “malinconia”. Da una parte emerge forte disagio nella somma degli effetti delle quattro crisi (economica, geopolitica, ambientale, sanitaria), dall’altra se tutto ciò infrange irreparabilmente il sogno-promessa della tarda modernità (in attesa ci si metta d’accordo a dar la modernità per terminata trovando nome alla nuova epoca in cui siamo capitati), tutto ciò non ha rappresentazione e forse valida interpretazione. Ne consegue un senso di privata e passiva tristezza.
Tra i tanti dati di cui poi accenneremo, quelli microsociologici mi sembrano i più interessanti. Dice CENSIS “Complessivamente, 8 italiani su 10 affermano di non avere voglia di fare sacrifici per cambiare, diventare altro da sé”. Si tratta della rottura della macchina delle promesse desideranti che traina ogni società dei consumi ovvero società basate sull’ordinatore economico. Nei dettagli: “Prevale piuttosto la voglia di essere sé stessi, con i propri limiti. Gli italiani non sono più disposti a fare sacrifici: per mettere in pratica le indicazioni di qualche influencer, per vestirsi secondo i canoni della moda, per acquistare prodotti di prestigio, per sembrare più giovani, per sentirsi più belli. E (per molti ed in crescita) non si è più disposti a sacrificarsi per fare carriera nel lavoro e guadagnare di più”. Questa macchina è in doppia crisi. Sia perché non più in grado di mantenere anche al minimo la sua promessa di avanzamento sociale, sia perché a fronte della gravità delle crisi reali non è di questo tipo di presunto “avanzamento sociale” che si sente il bisogno. Ogni “gioco sociale” è una convenzione, questo che ha innervato e strutturato le nostre società così a lungo, sembra a corto di convinzione ed una convenzione senza convinzione, implode lasciando dietro di sé il vuoto. Il vuoto si riempie di malinconia.
Poiché altrove nel Rapporto si conferma che le persone hanno tutte capito alla perfezione di esser capitate in una transizione ovvero un passaggio trasformativo profondo, storico e non occasionale, ne consegue che il crollo di una convenzione di cui quasi nessuno è più convinto, lascia il vuoto ed il vuoto si riempie di malinconia.
Sui dati sociologici più duri, le due ricerche confermano esserci un picco di problematicità acuta sull’aspetto economico-sociale. Questo è dato dai temi “economici, occupazionali, welfare ed assistenza”. Società basate sull’ordinatore economico soffrono particolarmente il non funzionamento del gioco economico, il crollo delle prospettive, l’esasperata precarietà (che non ha più neanche il traino dell’ipotetica promessa al potersi risolvere in prospettiva diventando così “sacrificio senza speranza”), l’inflazione, le forti diseguaglianze, dicono che stiamo giocando un gioco che non funziona, truccato, di falsa promessa. La distanza tra questi item ed altri quali la sicurezza, gli immigrati, l’ambiente, il controllo sociale, dice anche quanto alcune forze politiche o culturali parlino di cose che in realtà non corrispondono affatto allo stato d’animo diffuso. Questa mancanza di rappresentazione pubblica del sentimento personale crea una dissociazione, ognuno si ritira nel suo preoccupato sentimento privato, il che aumenta depressione e malinconia.
Chissà poi perché non solo l’area politica che è ovvio che in questa fase storica sia del tutto inadeguata, ma anche e soprattutto quella intellettuale non si sintonizzi su questo sentimento. Evidentemente, sfugge all’auto-analisi. O molti di questi “intellettuali” essendo pensionati o professori, non vivono appieno il problema o sono catturati in un mondo parallelo in cui la battaglia delle idee segue tutt’altra partizione, una forma esasperata di “scolastica critica” in cui ormai si gioca tutto all’interno di un mondo concettuale che ha perso ogni riferimento al reale. Un po’ come nella pandemia in cui pochi hanno notato lo stato pietoso ed inadeguato della sanità pubblica nel Paese con più anziani al mondo (assieme altri due o tre), librandosi ariosi dalle vette e dai picchi dell’analisi biopolitica, un po’ come ormai più di un decennio di retorica anti-neolibersita, anti-globalista, anti-eurista che non è mai atterrata lì dove i nodi che da ideologici diventano pratici, producono malessere individuale e sociale (le famose “contraddizioni”).
Eppure, queste stesse ricerche rilevano l’ovvio in una società sempre più anziana: severe preoccupazioni per il rischio di non autosufficienza e invalidità, di non poter contare su redditi sufficienti in vecchiaia, di perdere il lavoro e quindi di andare incontro a difficoltà economiche, di incorrere in incidenti o infortuni sul lavoro, di dover pagare di tasca propria prestazioni sanitarie impreviste. Così per i più giovani che sappiamo ormai dimenticati e per lo più esclusi dalla coesione sociale. Sarà il caso di notare che gli anziani statistici (+64 ed in costante aumento) sono quasi il 25% della popolazione, aggiungendo giovani in stato di lunga precarietà ed attesa di futuro siamo ad una massa importante della società, quasi il 40%.
Ma nulla di tutto ciò sempre preoccupare molti dei nostri intellettuali critici che, negli ultimi giorni, si sono abbandonati a profluvi di analisi sulla grandezza mal compresa di Joseph Ratzinger. Molti sembrano presi da questa grande macchina di intrattenimento dei concetti e delle critiche che sembra voler evitare a tutti i costi i fondamentali reali. Chi parla più di lavoro, reddito, ridistribuzione, diseguaglianza concreta, protezione pubblica? Chi sente ed interpreta la malinconia e la depressione diffusa? Meglio l’euro, l’UE matrigna, il popolo, i vaccini, il non c’è più destra né sinistra. Ognuno felice di partecipare alla costruzione di questa nuova area neo-con dal confuso sapore libertariano, visto che non c’è più sinistra e siamo tutti di destra meglio cercare la propria interpretazione di cinquanta sfumature di destra. Poi magari si scrive un articolo sulla minaccia anestetizzante della virtualità senza accorgersi quanto si partecipa attivamente a costruire questa virtualità distraente, ognuno col suo commento del giorno dopo in cerca di pubblico riconoscimento secondo un indice dei temi e degli argomenti che è poi quello del fatidico mainstream.
Poi magari si fonda un partitino tre mesi prima delle elezioni, si fa una figuraccia ma non c’è problema, arriva sempre un nuovo tema su cui esibire pensiero critico e mettersi in mostra in nome di un “cambiamento” che in realtà nessuno sembra davvero volere mentre si cerca di sfuggire, ognun per sé, all’attrazione appiccicosa di questa vasta malinconia che non trova più il suo inchiostro per esser raccontata.

L’Occidente è debole dove conta…, di Aurelien

 …e alcune delle conseguenze non sono ovvie.

Ho sostenuto più volte che è molto probabile che l’Europa si ritroverà presto parzialmente disarmata, politicamente isolata ed economicamente vulnerabile, e che, salvo qualche tipo di intervento soprannaturale, quei processi non possono essere invertiti. Qui voglio entrare più in dettaglio su quelle che penso possano essere alcune delle conseguenze della debolezza militare e della sicurezza, oltre ad estendere brevemente l’analisi agli Stati Uniti. Alcune delle possibili conseguenze potrebbero sorprenderti.

Siamo, credo, in un momento abbastanza unico nella storia del mondo: l’Occidente, collettivamente la più grande costellazione economica singola del mondo, ha passato trent’anni a ridurre progressivamente la sua capacità di combattere una guerra terrestre/aerea convenzionale, specializzandosi nell’estrema finisce invece il conflitto. In pratica, ciò equivale ad armi nucleari e sottomarini e caccia ad alte prestazioni e aerei d’attacco da un lato, e contro-insurrezione e proiezione della forza in un ambiente permissivo dall’altro, senza molto in mezzo. Come spiegherò tra poco, non è la prima volta che le nazioni hanno ridotto radicalmente le loro forze o vi sono state obbligate, né è la prima volta che le nazioni si trovano con forze irrimediabilmente inadatte ai compiti che devono può essere chiesto di eseguire, ma questo èin realtà la prima volta che intere capacità sono state abbandonate supponendo che non sarebbero mai state necessarie, e ora non possono essere ricreate di nuovo. Vale a dire, l’attuale capacità militare convenzionale dell’Europa e degli Stati Uniti oggi è mal adattata all’attuale situazione mondiale, ma è tutto ciò che ci sarà per il prossimo futuro.

Paradossalmente, questa situazione non è direttamente dovuta al fatto che i paesi hanno tagliato la spesa per la difesa. Alcuni l’hanno fatto, ma altri, come gli Stati Uniti, hanno continuato ad aumentarlo. Eppure è chiaro che la spesa lorda per la difesa ha relativamente poco a che fare con la reale capacità militare, una volta superato un certo livello minimo di finanziamenti e strutture di forza. Al contrario, risparmi piuttosto limitati, a breve termine, in termini di tempo di addestramento, reclutamento o scorte di munizioni possono creare problemi che sono successivamente estremamente costosi e richiedono tempo per essere risolti. Spendere un sacco di soldi per le cose sbagliate non ti dà alcun vantaggio rispetto a spendere un po’ meno denaro per le cose sbagliate. Il trucco è spendere i soldi per le cose giuste. Il problema, ovviamente, è che la spesa per la difesa (e non solo per le attrezzature) è per definizione così a lungo termine e così suscettibile al cambiamento e alla moda politica, che è davvero raro trovarsi con le armi e le strutture di forza giuste per l’ultima operazione quando ne hai bisogno. Quindi la situazione in cui si è trovato oggi l’Occidente non è concettualmente inedita: è solo difficile se non impossibile vedere una via d’uscita, questa volta.

Ora è importante sottolineare che, di per sé, la decisione di allontanarsi da una concentrazione sulle forze per la difesa del territorio era probabilmente quella giusta da prendere trent’anni fa. Era difficile capire perché sarebbe mai stato necessario combattere di nuovo una grande guerra terrestre/aerea convenzionale: le due guerre del Golfo contro l’Iraq sono state combattute perché potevano essere combattute, non perché fosse necessario. Se quella decisione fosse stata collegata a un’intelligente strategia politica per affrontare le macerie della guerra fredda, sarebbe stato difficile criticarla. Peccato quindi che fosse legato invece a una strategia politica di minaccia e antagonismo di un grande stato che aveva deciso di mantenere la capacità di combattere conflitti terra-aria su vasta scala. Ma siamo dove siamo.

Le nazioni hanno sempre ridotto le loro forze armate dopo le guerre, e i francesi nel 1814 e nel 1940, e i tedeschi nel 1918 e nel 1945, sono esempi in cui uno stato era effettivamente obbligatoridurre le sue forze armate quasi, o assolutamente, a nulla. Ma anche in quei casi, gli eserciti furono ricostruiti nel giro di pochi anni, utilizzando personale militare precedente, esperienza ereditata e capacità industriale conservata. Detto questo, alcune ricostruzioni furono più facili di altre: si rivelò abbastanza semplice ricostruire l’esercito tedesco dopo il 1933. La forza era più difficile, ma poteva contare in una certa misura sul programma aereo civile e sulle numerose organizzazioni ombra che avevano cercato di mantenere in vita una capacità dell’aeronautica. La Marina era un problema molto più grande, dal punto di vista organizzativo e tecnologico, ed è sorprendente quanto fallimentare sia stato l’ambizioso programma di costruzione navale tedesco dopo il 1933.

La situazione in cui si trova oggi l’Occidente è simile a quella ma peggiore. Non è semplicemente che la capacità industriale di produrre armi in grandi quantità non esiste più; è anche impossibile ricrearlo senza l’intervento divino, ed è anche impossibile, allo stato attuale delle cose, vedere ricrearsi le massicce strutture organizzative, tecnologiche e di supporto di cui avrebbe bisogno. Alcuni di questi motivi hanno solo a che fare con il costo, la complessità e il tempo di produzione. Qualche mese fa, ho notato una folla di persone raccolta attorno a un veicolo fermo al semaforo, scortato dai militari. Era un carro armato Leclerc su un trasportatore, presumibilmente consegnato a un’unità operativa. Ho capito perché la gente lo guardava a bocca aperta. Era enormeUn moderno carro armato pesa 60-70 tonnellate e non può muoversi lungo una strada normale senza distruggerla. Circa due terzi del costo di un tale serbatoio è in elettronica e sistemi, e richiede persone qualificate per gestirlo e persone ancora più qualificate per mantenerlo. Una fabbrica in un paese occidentale oggi potrebbe produrre tre o quattro di questi colossi al mese. Non ci sarebbe alcuna possibilità di tenere il passo con il tipo di tassi di perdita sperimentati in Ucraina in caso di conflitto.

Ma non si tratta solo, e forse nemmeno principalmente, di problemi tecnologici. Le industrie della difesa degli stati occidentali sono state riconfigurate negli ultimi decenni dagli stessi MBA con gli occhi rotanti che hanno rovinato tutto il resto. Le fabbriche di armi statali sono state vendute e chiuse. La maggior parte della ricerca di base e quasi tutto lo sviluppo sono stati esternalizzati. Molte industrie della difesa nazionale hanno appena cessato di esistere, rilevate da conglomerati internazionali fedeli solo agli azionisti. Un piccolo ma significativo esempio: la prossima arma automatica per l’esercito francese sarà fabbricata in Germania, poiché la fabbrica in Francia ha ora chiuso.

Pertanto, nonostante spenda una fortuna collettiva in capacità di difesa, l’Occidente è in grado di operare con successo solo in un numero limitato di scenari, e non è ovvio come questo possa cambiare. Possiamo elencarne alcuni dei principali. (Le forze nucleari esistono in una diversa categoria concettuale, e non dirò altro su di loro qui.) Gli aerei occidentali potrebbero ottenere e mantenere con successo la superiorità aerea contro, diciamo Russia o Cina, a condizione che il nemico accetti di limitare rigorosamente gli impegni al combattimento aria-aria fuori dalla portata dei missili antiaerei. I sottomarini, le navi di superficie e le portaerei occidentali potrebbero probabilmente prevalere, afferma la Marina cinese, a condizione che quest’ultima accetti di combattere al di fuori della portata dei missili terrestri. Quantità ragionevoli di forza potrebbero essere proiettate via mare e aria in ambienti permissivi in ​​​​cui la superiorità aerea potrebbe essere garantita. Ciò potrebbe includere operazioni di combattimento con forze meccanizzate e artiglieria, a condizione che le operazioni non durassero più di poche settimane. E le missioni di mantenimento della pace potrebbero ancora essere intraprese, anche se probabilmente non su larga scala. Ci sono, ovviamente, differenze e sfumature molto importanti tra le nazioni occidentali, ma tutte, a diversi livelli, sono intrappolate in un processo di forze sempre più piccole con numeri sempre più piccoli di attrezzature sempre più costose e sofisticate che è sempre più costoso da mantenere e impossibile da sostituire una volta iniziato un conflitto. Quest’ultimo punto ha conseguenze politiche che spesso vengono ignorate:

Queste strutture di forza oggi non si sono sviluppate per caso: riflettevano le convinzioni sulle missioni che le forze militari avrebbero probabilmente intrapreso. In sostanza, le forze occidentali hanno molte capacità super sofisticate e una discreta quantità di capacità a bassa intensità e contro-insurrezione, ma non molto nel mezzo. Ma non possono combattere una grande guerra terrestre/aerea convenzionale, o anche una guerra limitata che vada avanti per più di qualche settimana. Affrontano anche il duplice problema della diffusa proliferazione di missili da crociera e balistici relativamente economici e precisi in grado di sopraffare le difese e distruggere sistemi d’arma altamente costosi e complessi da un lato, e la loro mancanza di investimenti nella sostenibilità, dall’altro. Non c’è niente di magico nella tecnologia coinvolta nei nuovi missili; è solo che l’Occidente non vedeva alcuna virtù nello sviluppo di quella stessa tecnologia. Allo stesso modo, l’Occidente non vedeva alcuna virtù nelle grandi e costose scorte di munizioni. Di conseguenza, d’ora in poi, l’Occidente semplicemente non potrà fare affidamento sulla superiorità aerea automatica in nessun conflitto serio, né le sue marine saranno in grado di operare in sicurezza ovunque vicino a una costa nemica o all’interno del raggio di supporto aereo. -off missili, né sarà in grado di condurre operazioni prolungate a terra. . né sarà in grado di condurre operazioni sostenute a terra. . né sarà in grado di condurre operazioni sostenute a terra. .

Per ripetere, nessuno dei precedenti sarebbe stato necessariamente un problema, a condizione che le politiche di sicurezza complessive delle nazioni occidentali fossero state coerenti con queste limitazioni. Ma non lo erano, e in sostanza hanno provocato una situazione in cui iniziano a sorgere problemi militari ai quali l’Occidente non ha una risposta adeguata.

Poco di quanto sopra, penso, sarebbe considerato controverso, e molto è ben noto. Il mio scopo qui è quindi quello di prendere questo sfondo e chiedere quali sono le più ampie conseguenze politiche e di sicurezza dell’apparentemente irreparabile discrepanza tra i problemi di sicurezza che potrebbero sorgere ei mezzi disponibili per affrontarli. (E questi problemi vanno ben oltre quelli derivanti direttamente dall’Ucraina.) Ora, ovviamente, un certo livello di discrepanza è inevitabile, poiché puoi essere assolutamente certo che il problema di sicurezza che effettivamente si pone sarà esattamente quello a cui non avresti mai pensato. La vita è così. Ma le forze esperte e professionali possono ancora essere riutilizzate. Gli inglesi combatterono la guerra delle Falkland mettendo insieme attrezzature e capacità originariamente destinate a scopi completamente diversi: Bombardieri nucleari vulcaniani in un ruolo convenzionale, aerei d’attacco Sea Harrier riproposti come caccia, cannoni navali, in procinto di essere gradualmente eliminati, usati come artiglieria galleggiante. Ma tale improvvisazione richiedeva organizzazione e capacità che non esistono più. Un esempio più tipico di discrepanza sono i Rafales francesi che operano sul Mali. La sofisticatezza degli aerei è tale che possono essere supportati solo dalla Francia e devono essere riforniti due volte per attaccare un singolo bersaglio con una bomba o un missile. È stato stimato che uccidere un solo jihadista in Mali costi circa un milione di euro. C’è un limite a quanto tempo puoi andare avanti così. Un esempio più tipico di discrepanza sono i Rafales francesi che operano sul Mali. La sofisticatezza degli aerei è tale che possono essere supportati solo dalla Francia e devono essere riforniti due volte per attaccare un singolo bersaglio con una bomba o un missile. È stato stimato che uccidere un solo jihadista in Mali costi circa un milione di euro. C’è un limite a quanto tempo puoi andare avanti così. Un esempio più tipico di discrepanza sono i Rafales francesi che operano sul Mali. La sofisticatezza degli aerei è tale che possono essere supportati solo dalla Francia e devono essere riforniti due volte per attaccare un singolo bersaglio con una bomba o un missile. È stato stimato che uccidere un solo jihadista in Mali costi circa un milione di euro. C’è un limite a quanto tempo puoi andare avanti così.

Ma tenendo presente che non si avrà mai esattamente il giusto mix di forze, l’Occidente sembra al momento mal equipaggiato per affrontare molte delle probabili sfide alla sicurezza dell’immediato futuro. Ne esporrò alcune ora, in termini tradizionali, e parlerò di “sicurezza” piuttosto che solo di sfide “militari”, perché c’è una notevole fluidità tra, per esempio, i militari e una forza di polizia paramilitare.

Poche persone, nella mia esperienza, considerano abitualmente la domanda “a cosa servono le forze di sicurezza?” La risposta più tipica, anche se tautologica, è “fornire sicurezza”, che di solito porta a un’inutile discussione su cosa sia la sicurezza. Ma, molto bene, quando vedi i poliziotti per strada, i soldati in TV o leggi dei servizi di intelligence, cosa pensi che queste persone stiano effettivamente cercando di ottenere? Concentriamoci sui militari, poiché è forse il caso più semplice da comprendere. A cosa servono realmente i militari ?

Apri un libro di testo di scienze politiche a caso e probabilmente troverai qualche breve dichiarazione su come combattere (e preferibilmente vincere) guerre o difendere il territorio e gli interessi nazionali. Se ciò fosse vero, allora la maggior parte delle forze armate del mondo starebbe sprecando il proprio tempo, dal momento che sono troppo piccole per vincere guerre o addirittura difendere il territorio della loro nazione. E come si inseriscono esattamente le forze armate della Nuova Zelanda o dello Sri Lanka in un simile schema? La risposta è ovviamente un po’ più complessa di così. In sostanza, il ruolo primario dei militari è quello di sostenere le politiche estere e interne di uno stato con la violenza della minaccia della violenza. (Toccheremo brevemente alcuni ruoli secondari tra un momento.) Sono, in altre parole, uno strumento dei governi in circostanze in cui è richiesta la minaccia, o l’uso effettivo, della forza per raggiungere un obiettivo. Ovviamente, questi obiettivi possono (e di solito includono) la difesa nazionale, ma non si limitano affatto a questo.

Il ruolo più importante dei militari è quello di garantire il monopolio della forza legittima da parte del governo e dello Stato. Questa, ovviamente, è la formulazione di Max Weber (sebbene non sia stato lui a inventare l’idea) nel discutere ciò che qualifica un’entità per essere uno Stato. Deve, ha affermato Weber, poter rivendicare con successo il monopolio della forza legittima su un determinato territorio. Ovviamente, ci saranno sempre usi illegittimi della forza, ma lo Stato, se deve qualificarsi come tale, deve essere in grado di creare e applicare regole per mantenere quel monopolio e dire quale uso della forza è legittimo e quale no.

Molti cosiddetti “stati” non possono farlo. L’esempio più evidente è il Libano, dove c’è una forza militare – Hezbollah – che è più potente dell’esercito ufficiale, e del tutto fuori dal controllo del governo, oltre che fortemente influenzata dal governo di un paese straniero. E notoriamente, in molte parti dell’Africa lo Stato e il suo apparato militare sono solo un attore, e non necessariamente il più potente.

Al di là dell’apparato tecnico dello Stato, c’è anche la natura stessa del sistema politico. Gli stati liberali danno così per scontata la propria virtù inerente e il diritto di esistere, che tendono a dimenticare che i sistemi politici liberali stessi sono spesso saliti al potere con la punta di una pistola e hanno spesso usato la violenza per distruggere gruppi con concezioni diverse della politica: la sanguinosa repressione della Comune di Parigi nel 1871 ne è l’esempio classico. Tuttile forze di sicurezza hanno il compito di tutelare la natura del regime politico del Paese: non per nulla il servizio di intelligence interno tedesco, il BfV, è l'”Ufficio per la protezione della Costituzione”. In altre parole, esiste per proteggere un particolare sistema politico dai suoi oppositori, inclusa la banda dell’opera buffa che ha cercato di rovesciarlo poche settimane fa e di mettere al potere Enrico XIII.

La storia di costruzione e distruzione dello stato nel corso di centinaia di anni è quindi in gran parte il tentativo di imporre un monopolio della violenza legittima da una posizione centrale e in nome di un dato sistema politico, e della sfida a quel monopolio da aree periferiche. Ma sicuramente, diciamo, è tutto finito adesso? Almeno in Europa, comunque? Ebbene, è stata la dinamica essenziale delle guerre di dissoluzione nell’ex Jugoslavia e della crisi del Kosovo, e fondamentalmente spiega perché la crisi ucraina si è sviluppata in quel modo. E del resto, la lotta poliziesca e militare del governo britannico durata 25 anni contro l’IRA è stata essenzialmente una lotta per rafforzare il suo monopolio della violenza legittima nell’Irlanda del Nord. (Alla fine ci è riuscito, ma ci sono stati momenti in cui parti della Provincia erano al di fuori del suo effettivo controllo. ). Non sarebbe saggio presumere che tali problemi non si verificheranno mai più, soprattutto in quelle parti dell’UE in cui le frontiere sono migrate molto nel corso dei secoli. La vera domanda è: quanto sono preparate le forze di sicurezza occidentali a far fronte a focolai di problemi del genere?

La risposta sembra essere, non molto. Già negli anni ’70, gli inglesi scoprirono che il loro esercito, ormai in gran parte concentrato sulla NATO, aveva troppo poche truppe adatte alle operazioni di controinsurrezione. Dopo la confusione e il panico dei primi anni, le unità dovettero essere portate fuori dalla Germania, sottoposte a un corso di addestramento di tre mesi, schierate per sei mesi e poi non addestrate alla fine per riprendere i loro compiti abituali. Al suo apice, l’impegno in Irlanda del Nord richiedeva circa 20.000 soldati: cosa oggi impossibile. Durante la crisi in Bosnia e le sue conseguenze, la maggior parte delle truppe occidentali inviate in quel paese erano irrimediabilmente non addestrate e inesperte nelle operazioni di mantenimento della pace, e spesso erano militarmente inutilizzabili. Queste tendenze sono state rafforzate da allora. Militari, e persino forze paramilitari, hanno sempre più cercato di sostituire la tecnologia alla manodopera e ci sono alcune situazioni in cui non puoi proprio farlo. Il risultato è che la maggior parte degli stati occidentali oggi non sarebbe in grado di far fronte con successo a seri tentativi di contestare il monopolio della violenza legittima.

Un problema correlato è quello della violenza politica su larga scala, ideologicamente motivata e intesa a infliggere vittime di massa. In passato, tali gruppi tendevano ad essere piccoli e poco efficaci, e in generale le forze di polizia sono state in grado di affrontarli. Ciò si sta dimostrando meno vero con la crescita di gruppi islamici estremisti organizzati e ben finanziati, i cui membri hanno spesso addestramento militare ed esperienza di combattimento in diverse regioni del mondo. A differenza del marxismo piuttosto incoerente di gruppi come le Brigate Rosse, o del nazionalismo romantico di gruppi come l’ETA, queste organizzazioni hanno una sofisticata dottrina dell’Islam politico, formulata per la prima volta negli anni ’20, ampiamente seguita in tutto il mondo e generosamente finanziata da paesi come come il Qatar, la Turchia e l’Arabia Saudita come mezzo per diffondere il soft power. Tali gruppi credono che lo stesso Stato laico sia peccatore e debba essere distrutto, poiché le società devono essere gestite secondo i principi del Corano, e che i non credenti di ogni tipo, e i musulmani che vivono in Stati laici, siano peccatori che meritano la morte. Secondo la testimonianza dei membri sopravvissuti delle bande che hanno compiuto attentati in Francia nel 2015-16, i loro obiettivi includevano tutti i “non credenti”, compresi i bambini, e tutte le istituzioni, incluse chiese e scuole. (Amedy Coulibaly stava andando ad attaccare una scuola ebraica vicino a Parigi nel gennaio 2015, quando è stato fermato da una poliziotta, che ha ucciso prima di fuggire.) sono peccatori che meritano la morte. Secondo la testimonianza dei membri sopravvissuti delle bande che hanno compiuto attentati in Francia nel 2015-16, i loro obiettivi includevano tutti i “non credenti”, compresi i bambini, e tutte le istituzioni, incluse chiese e scuole. (Amedy Coulibaly stava andando ad attaccare una scuola ebraica vicino a Parigi nel gennaio 2015, quando è stato fermato da una poliziotta, che ha ucciso prima di fuggire.) sono peccatori che meritano la morte. Secondo la testimonianza dei membri sopravvissuti delle bande che hanno compiuto attentati in Francia nel 2015-16, i loro obiettivi includevano tutti i “non credenti”, compresi i bambini, e tutte le istituzioni, incluse chiese e scuole. (Amedy Coulibaly stava andando ad attaccare una scuola ebraica vicino a Parigi nel gennaio 2015, quando è stato fermato da una poliziotta, che ha ucciso prima di fuggire.)

Da un punto di vista tecnico, tentare di prevenire tali attacchi è un incubo. Quando tutti e tutto sono un potenziale bersaglio, il metodo classico di proteggere obiettivi di alto valore e VIP è inutile. Allo stesso modo, qualsiasi cosa può essere un’arma, da un camion a un coltello da cucina, ei bersagli possono essere scelti a caso. A titolo indicativo, negli ultimi anni la Francia ha dispiegato 10.000 militari di pattuglia nelle principali città, più per rassicurare la popolazione che per altro. Supponendo che pattugliamenti di questo tipo durino quattro ore, e che la copertura sia fornita per sedici ore al giorno, e che ciascun gruppo pattugli due volte, ciò significa cinquemila soldati per le strade alla volta, il che sarebbe del tutto inadeguato, anche se tu sapeva che tipo di attacco aspettarsi e quando. Così com’è, le truppe stesse a volte sono state attaccate. Inoltre,

Questi problemi si uniscono, in una certa misura, alla diffusione capillare delle armi automatiche e alla diffusione di gruppi etnici di criminalità organizzata nelle periferie delle principali città europee. Insieme alla presa crescente del fondamentalismo islamico organizzato sulle comunità locali, ciò ha creato una serie di aree in cui i governi non desiderano più inviare le forze di sicurezza, per paura di scontri violenti, e dove questi gruppi esercitano un effettivo monopolio della violenza loro stessi. Ancora una volta, non è chiaro quali attuali capacità militari o paramilitari sarebbero di reale utilità nell’affrontare tali situazioni, e c’è il rischio che altri attori, non statali, intervengano invece. (Vale la pena aggiungere che qui non stiamo parlando di “guerra civile”, che è una questione completamente diversa)

Quindi le attuali strutture di forza degli stati occidentali avranno problemi a far fronte alle probabili minacce alla sicurezza interna del prossimo futuro. La maggior parte delle forze armate occidentali è semplicemente troppo piccola, troppo altamente specializzata e troppo tecnologica per affrontare situazioni in cui è richiesto lo strumento di base della forza militare: un gran numero di personale addestrato e disciplinato, in grado di fornire e mantenere un ambiente sicuro e imporre il monopolio della violenza legittima. Le forze paramilitari possono aiutare solo in una certa misura. Le potenziali conseguenze politiche di quel fallimento potrebbero essere enormi. La domanda politica più basilare, dopotutto, non è il famigerato “chi è il mio nemico” di Carl Schmitt? ma piuttosto “chi mi proteggerà?” Se gli Stati moderni, essi stessi privi di capacità, ma anche dotati di forze di sicurezza troppo piccole e mal adattate, non può proteggere la popolazione, e allora? L’esperienza altrove suggerisce che, se le uniche persone che possono proteggerti sono estremisti islamici e trafficanti di droga, sei praticamente obbligato a dare loro la tua lealtà o, in caso contrario, a qualche forza non statale altrettanto forte che si oppone a loro.

In modo perverso, gli stessi problemi di rispetto e capacità si presentano anche a livello internazionale. Ho già scritto più volte sullo stato precario delle forze occidentali convenzionali oggi, e sull’impossibilità di riportarle a qualcosa come i livelli della Guerra Fredda. Qui, voglio solo concludere parlando di alcune delle conseguenze politiche meno ovvie di quella debolezza.

Nella sua forma più semplice, l’efficacia militare relativa influenza il modo in cui vedi i tuoi vicini e come loro ti vedono. Ciò può comportare minacce e paura, ma non è necessario. Significa, ad esempio, che la percezione di quali siano i problemi di sicurezza regionale e di come affrontarli sarà influenzata in modo sproporzionato dalle preoccupazioni degli Stati più capaci. (Da qui, ad esempio, la posizione influente di cui gode la Nigeria nell’Africa occidentale). Nemmeno questo deriva necessariamente da una misura approssimativa delle dimensioni delle forze: nella vecchia NATO, i Paesi Bassi avevano probabilmente più influenza della Turchia, sebbene le sue forze fossero molto più piccole. All’interno dei raggruppamenti internazionali – alleanze formali o meno – alcuni stati tendono a guidare e altri a seguire, a seconda delle percezioni di esperienza e capacità.

A livello internazionale, ad esempio nelle Nazioni Unite, paesi come la Gran Bretagna e la Francia, insieme a Svezia, Canada, Australia, India e pochi altri, erano influenti perché avevano forze armate capaci, sistemi di governo efficaci e, soprattutto, esperienza nella conduzione di operazioni lontane da casa. Quindi, se tu fossi il Segretario generale delle Nazioni Unite e stessi mettendo insieme un piccolo gruppo per esaminare le possibilità di una missione di pace in Myanmar, chi inviteresti? Gli argentini? I congolesi? Gli algerini? I messicani? Inviteresti alcune nazioni della regione, certamente, ma ti concentreresti principalmente su nazioni capaci con una comprovata esperienza. Ma in modi abbastanza complessi e sottili, i modelli di influenza, sia a livello pratico che concettuale, stanno cambiando. La visione attuale anche di cosa sia la sicurezza e di come dovrebbe essere perseguita, è attualmente dominato dall’Occidente. Sarà molto meno così in futuro.

Questo calo di influenza si applicherà anche agli Stati Uniti. Le sue armi più potenti e costose – missili nucleari, sottomarini nucleari, gruppi di battaglia di portaerei, caccia per la superiorità aerea ad alte prestazioni – non sono utilizzabili, o semplicemente non sono rilevanti, per la maggior parte dei problemi di sicurezza di oggi. Ad esempio, non conosciamo i numeri precisi e l’efficacia dei missili anti-nave terrestri cinesi, ma è chiaro che l’invio di navi di superficie statunitensi ovunque all’interno del loro raggio sarà un rischio troppo grande per qualsiasi governo statunitense. E poiché i cinesi lo sanno, le sottili sfumature dei rapporti di forza tra i due paesi vengono alterate. Ancora una volta, gli Stati Uniti si sono trovati nell’impossibilità di influenzare effettivamente l’esito di una grande guerra in Europa, perché non hanno le forze per intervenire direttamente, e le armi che ha potuto inviare sono troppo poche e in molti casi del tipo sbagliato. I russi ovviamente ne sono consapevoli, ma è il tipo di cosa che anche altri stati notano, e quindi ha delle conseguenze.

Infine, c’è la questione delle relazioni future tra Stati europei deboli in un continente in cui gli Stati Uniti hanno cessato di essere un attore importante. Come ho già sottolineato, la NATO è andata avanti così a lungo perché ha tutti i tipi di vantaggi pratici non riconosciuti per le diverse nazioni, anche se alcuni di questi vantaggi si escludono a vicenda. Ma non è scontato che un tale stato di cose continui. Nessuna nazione europea, né alcuna ragionevole coalizione di esse, avrà la potenza militare per eguagliare quella della Russia, e gli Stati Uniti sono stati a lungo incapaci di colmare la differenza. D’altra parte, questa non è la Guerra Fredda, dove le truppe sovietiche erano di stanza a poche centinaia di chilometri dalle principali capitali occidentali. In realtà non ci sarà davvero nulla per cui combattere, e nessun posto ovvio dove combattere. Ciò che ci sarà sarà un rapporto di dominio e inferiorità quale l’Europa non ha mai veramente conosciuto prima, e la fine di quel consenso traballante che rimane su ciò che i militari,per . Sospetto, ma non è altro, che assisteremo a una svolta verso l’interno, mentre gli stati cercano di affrontare i problemi all’interno dei loro confini e su di essi. Ironia della sorte, la più grande protezione contro i grandi conflitti potrebbe essere l’incapacità della maggior parte degli stati europei, in questi giorni, di condurli. Anche la debolezza può avere i suoi pregi.

https://aurelien2022.substack.com/p/the-west-is-weak-where-it-matters?utm_source=post-email-title&publication_id=841976&post_id=94626727&isFreemail=true&utm_medium=email

PIÚ DIKE TIMIDAMENTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

PIÚ DIKE TIMIDAMENTE

Ha suscitato un discreto dibattito la riforma della giustizia tributaria impostata e realizzata dalla ministra Cartabia. Molti ne hanno evidenziato la timidezza, altri la congruità, non pochi l’hanno considerata un’occasione mancata.

A mio avviso per valutarne la portata “ordinamentale” (che brutta espressione!) occorre risalire sia a principi e norme costituzionali, sia alle innovazioni in materia di giustizia tra pubbliche amministrazioni e cittadino, in particolare nell’ultimo trentennio.

Al riguardo ho sostenuto più volte (v. da ultimo “Temi e Dike nel tramonto della Repubblica”) riprendendo così delle tesi di Maurice Hauriou, che in ogni Stato vi sono due giustizie: una paritaria e intergroupale, che il grande giurista chiamava Dike, l’altra non paritaria (e intra)istituzionale, che denominava Temi. Le quali corrispondevano al diritto (sostanziale) comune la prima e a quello istituzionale la seconda.

Nessuna istituzione politica ne può prescinderne, nel senso che in ogni ordinamento, anche il più liberale o, all’opposto, il più autoritario, v’è comunque un po’ dell’una e dell’altra (come del diritto sostanziale corrispondente).

L’una e l’altra rientrano nel rapporto (presupposto del “politico”) tra comando e obbedienza, autorità e libertà (secondo una definizione fortunata e ripetuta, anche se un po’ imprecisa).

Facevo notare in quei lavori che nell’ultimo trentennio, il rapporto tra potere pubblico e cittadini aveva preso una piega tale da aumentare la disparità (a favore del primo), ad onta del fatto che la novella all’art. 111 della Costituzione aveva disposto che le parti stanno in giudizio in condizione di parità. Anzi l’aver affermato solennemente con la modificazione costituzionale il principio di parità aveva incentivato il proliferare di norme legislative che di diritto o di fatto lo riducevano, così come di comportamenti amministrativi contrari alla “parità”.

Sotto tale profilo indubbiamente la riforma Cartabia, senza avere nulla di travolgente, ha un suo indiscutibile pregio: che ha invertito la tendenza ad aumentare la disparità, anzi riducendola. Le norme – ancorché non chiarissime, sull’onere della prova e sull’ammissibilità di quella testimoniale (scritta) nonché quella sull’aumento delle spese (per rifiuto ingiustificato di conciliazione) riducono la disparità tra amministrazione e contribuenti (in lite). In senso opposto è la previsione del rapporto tra Giudici tributari e Ministero dell’Economia, che è una delle parti (sostanziale) del processo.

C’è un altro aspetto in cui l’intervento risulta positivo: l’aver “professionalizzato” la nomina dei magistrati tributari, prevedendo per quelli da assumere il possesso della laurea (magistrale) in giurisprudenza o economia. Se si  vanno a leggere gli artt. 4 e 5 del D.Lgs. 545/92 (abrogati) nelle commissioni potevano essere nominati anche: ragionieri, periti commerciali, revisori dei conti, abilitati all’insegnamento in materie giuridiche, economiche e ragionieristiche, ingegneri, architetti, agronomi (e altro).

Era stato anche notato che il 47% dei ricorsi in Cassazione avverso le sentenze dei giudici tributari era accolto ed era interpretato nel senso di una scarsa capacità di agronomi, ragionieri, ecc. ecc. ad applicare il diritto (il dato era tuttavia contestato quale sintomo di…scarsa perizia). Resta il fatto che prescrivere dei requisiti più “stringenti” per la nomina, dovrebbe portare ad un miglioramento della competenza professionale dei magistrati; ma potrebbe concorrervi anche la previsione del concorso (invece che della precedente nomina su elenchi).

È comunque incontestabile che, pur nella sua timidezza, la riforma ha capovolto l’andazzo trentennale voluto soprattutto dal centrosinistra, onde i diritti da proteggere erano quelli che avevano meno occasioni di essere esercitati: così quello  all’eutanasia, al matrimonio tra omosessuali, all’adozione “allargata”, alla gravidanza a pagamento, ecc. ecc. E per questo anche quelli che hanno meno possibilità che ne fosse richiesta la tutela in giudizio. Per gli altri, di converso, oggetto di contenzioso, di cui costituiscono la stragrande maggioranza delle liti, come i rapporti di lavoro (pubblico e privato), i contratti, la proprietà, ecc. ecc., le obbligazioni della P.A., le imposte, ecc. ecc., si faceva poco o niente per rendere più agibile la giustizia.

Anzi, se controparte ne erano le pubbliche amministrazioni si aumentavano deroghe e privilegi della parte pubblica. Resta comunque molto lavoro da fare, nello steso senso e in termini più generali. Un controllo giudiziario fiacco e ostacolato è uno dei migliori sostegni di un’amministrazione inefficiente e predatoria.

C’è da chiedersi perché proprio alla fine del trentennio della seconda repubblica è stata emanata questa norma di segno contrario alla pratica filo-statalista seguita prima. Forse per l’evidenza che norme come quelle modificate stridevano con principi e testo della costituzione, onde se ne sacrificano alcune per conservarne altre, facendo tuttavia “bella figura”, come per la modifica dell’art. 111, rimasto disapplicato o poco applicato.

L’importante è procedere nella strada appena iniziata anche resistendo alle critiche (usuali e prevedibili) di chi dirà che colpa dell’evasione è d’aver ripartito paritariamente l’onere della prova. Cui si può fin d’ora replicare che se per sostenere un fatto basta affermarlo (senza provarlo), un precetto del genere legittima qualsiasi abuso.

Teodoro Klitsche de la Grange

Intelligenza artificiale: l’Italia vuole essere grande in Europa, di conflits

Articolo importante, ma con una grave omissione critica. L’assenza consapevole dell’Italia dai programmi europei di protezione e di produzione di software di trasmissione e motori di ricerca autonomi, se non limitatamente alla pubblica amministrazione. Un ulteriore segnale della scarsa protezione politica riservata al proprio patrimonio industriale nazionale e alla scarsa considerazione non solo della propria sovranità, ma anche di una partecipazione attiva alle dinamiche geopolitiche e geoeconomiche. Giuseppe Germinario

Il 26 novembre 2021 il governo italiano ha approvato il programma per l’intelligenza artificiale. Questo progetto ha visto la collaborazione tra il Ministro dello Sviluppo Economico, il Ministro dell’Università e della Ricerca e il Ministro della Transizione Digitale e ha posto al centro dei suoi obiettivi l’industria 4.0, che mira a cambiare il volto delle PMI.

Margherita Boscolo Marchi

La transizione digitale è ormai una necessità e tra i suoi angoli più affascinanti c’è sicuramente la filiera dedicata alla ricerca e all’applicazione dell’intelligenza artificiale (AI). Il governo italiano, spinto dalle dinamiche avviate in seno all’Unione Europea, ha adottato una propria strategia nazionale sull’IA, contenuta in un documento congiunto del Ministero dello Sviluppo Economico (MISE), del Ministero dell’Università e della Ricerca e di quello dell’Innovazione Tecnologica e Transizione Digitale: il programma strategico per l’intelligenza artificiale 2022-2024. Questa strategia per l’IA è condensata in un documento redatto dai tre ministeri interessati, a cui si aggiunge il gruppo di lavoro sulla strategia nazionale per l’intelligenza artificiale, un team di esperti del settore che si occuperà dell’efficacia organizzativa e gestionale, oltre che del monitoraggio dello stato di avanzamento del progetto. Sono state definite 24 politiche da attuare nel prossimo triennio, suddivise in tre aree di intervento, sei obiettivi e undici settori applicativi.

Il programma strategico italiano sull’intelligenza artificiale: ancoraggi, principi e obiettivi

L’ecosistema italiano dell’intelligenza artificiale ha grandi potenzialità che non sono ancora state sfruttate appieno. Il settore è in rapida crescita, ma il contributo economico rimane modesto. Soprattutto se confrontato con i vicini europei. Eppure, come delineato nella nuova agenda AI, la Penisola ha basi solide su cui costruire un nuovo ecosistema AI italiano a fronte di debolezze su cui concentrare riforme e investimenti. A tal fine, il programma delinea 24 politiche con l’obiettivo di rendere l’Italia un polo “globalmente competitivo”, trasformando i risultati della ricerca in valore aggiunto per l’industria.

Il piano prevede tre aree di intervento: rafforzare le competenze e attrarre talenti, aumentare i finanziamenti per la ricerca all’avanguardia nell’intelligenza artificiale e favorirne l’adozione e l’applicazione sia nella pubblica amministrazione che nel settore produttivo in generale.

Iniziative a favore delle imprese e della pubblica amministrazione

Particolare attenzione è rivolta alle piccole imprese attive in contesti geografici o socio-economici periferici e disagiati. Un’altra preoccupazione dichiarata è la necessità di aumentare il numero di donne imprenditrici ed esperte di intelligenza artificiale, nonché di attrarre start-up e professionisti stranieri con incentivi economici. Infine, il testo evidenzia la volontà istituzionale di allineare tutte le politiche di intelligenza artificiale relative al trattamento, aggregazione, condivisione e scambio dei dati, nonché alla sicurezza dei dati, alla strategia nazionale del cloud e alle iniziative in corso a livello europeo, a partire da European data and le recenti proposte di legge sulla governance dei dati e di regolamento sull’IA.

Per questo sono state individuate due linee di azione: l’intelligenza artificiale per modernizzare le aziende e quella per modernizzare la pubblica amministrazione. Per quanto riguarda le aziende, si tratta di supportare il processo di assunzione di personale altamente qualificato nelle aziende private, al fine di rafforzare il loro processo di transizione 4.0; spingere l’adozione di soluzioni di intelligenza artificiale nelle aziende private, per favorirne la competitività; aiutare le start-up e gli spin-off a svilupparsi, sia a livello nazionale che internazionale; e definire un contesto normativo che possa favorire la sperimentazione e la certificazione di prodotti e servizi affidabili di intelligenza artificiale. Ricordiamo che secondo l’Osservatorio AI della Scuola Politecnica di Management di Milano, sono 260 le aziende italiane che offrono prodotti e servizi di intelligenza artificiale. Nel 2020 il mercato privato dell’intelligenza artificiale in Italia ha raggiunto i 300 milioni di euro, in crescita del 15% rispetto al 2019, ma pari solo al 3% del mercato europeo.

Sul versante della pubblica amministrazione, gli interventi in corso mirano alla creazione di infrastrutture dati per sfruttare in sicurezza le potenzialità dei big data, ma anche per semplificare e personalizzare l’erogazione dei servizi pubblici e l’innovazione delle amministrazioni, attraverso il rafforzamento dell’ecosistema GovTech (ad esempio con periodici bandi per identificare e sostenere le start-up che offrono soluzioni basate sull’intelligenza artificiale). Altre due aree di interesse riguardano il talento e la ricerca. Nel primo caso si tratta di interventi per aumentare il numero dei dottorati e attrarre ricercatori, nonché per promuovere corsi e carriere nelle materie scientifiche (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica). Nel secondo, l’obiettivo è promuovere la collaborazione tra il mondo accademico e della ricerca, l’industria, gli enti pubblici e la società. Infine, per monitorare i progressi su tutti i fronti, all’interno del Comitato Interministeriale per la Transizione Digitale è stato istituito un gruppo di lavoro permanente sull’Intelligenza Artificiale.

 

Analisi dei problemi potenziali e critici del programma per l’intelligenza artificiale

Dall’analisi di questo nuovo programma, emerge che il progetto non mira ad una dimensione prettamente nazionale ma anche ad una prospettiva internazionale. Sia perché rientra nella strategia europea per l’IA, sia perché la forte ambizione dell’Italia è quella di conquistare una posizione di primo piano nella filiera internazionale dello sviluppo, dell’innovazione e dell’applicazione dell’IA, senza trascurare l’impegno per la sostenibilità e il rispetto della persona umana. Per raggiungere l’ambizioso obiettivo internazionale, l’idea è quella di creare una rete di collaborazione tra università, imprese e settore pubblico.

Particolare attenzione è rivolta alla questione dei giovani: il governo si sta impegnando per concedere il maggior numero possibile di posti di dottorato e opportunità per investire il proprio tempo e le proprie capacità intellettuali nel campo della ricerca. L’avvio del dottorato nazionale in intelligenza artificiale è infatti recentissimo (2021). Al vaglio anche la creazione di nuove cattedre incentrate sull’intelligenza artificiale, strettamente legata all’impegno di riportare all’estero esperti emigrati, nonché investimenti in piattaforme di condivisione dati e di software.

In Italia, 260 aziende operano concretamente nel campo dell’intelligenza artificiale. Di questi, il 55% si occupa di sanità, sicurezza informatica, marketing e finanza. Sempre secondo il Politecnico di Milano, il 53% delle medie e grandi imprese italiane ha avviato almeno un progetto di intelligenza artificiale: il 22% è attivo nel settore manifatturiero, il 16% nel settore bancario finanziario e il 10% nel campo della tecnologia. ‘assicurazione. In generale, come indica il piano, c’è un sottoinvestimento da parte del settore privato in termini di ricerca e sviluppo ed è in discussione anche la dimensione delle imprese. Il gruppo di lavoro sulla strategia riferisce che l’adozione di soluzioni AI nel mercato italiano si attesta al 35%, circa otto punti in meno rispetto alla media UE. Le ragioni del sottoinvestimento citate dai piccoli imprenditori italiani sono principalmente duplici: la mancanza di professionisti dell’IA e la mancanza di fondi pubblici. In questo senso, per risolvere il primo quesito, il piano propone di adeguare la remunerazione dei professionisti dell’IA a quella internazionale, visto che si tratta di una delle materie più delicate, che si confonde con quella della fuga dei cervelli. Per quanto riguarda i fondi pubblici, invece, 13 miliardi di euro sono messi a disposizione dal Piano nazionale per la ripresa e la resilienza. Il punto dei finanziamenti pubblici è fondamentale, visto che anche in questo ambito c’è un ritardo rispetto a Francia e Germania: l’Italia investe troppo poco, se non altro per gli appalti pubblici per l’acquisto di beni e servizi. Altrimenti, l’obiettivo è quello di colmare l’altro grande gap rispetto ai partner europei, vale a dire la certificazione dei prodotti e dei brevetti. Tutto ciò è paradossale, considerando che i ricercatori italiani sono molto prolifici e ricercati a livello internazionale. Solo che a casa sono poco considerati e, quando lo sono, mal pagati. Altro aspetto più che positivo del programma è il tentativo di ridurre la frammentazione e la disparità del nostro ecosistema della ricerca, in cui vi è scarsa comunicazione tra laboratori, università ed enti pubblici, oltre al forte divario di genere. considerando che i ricercatori italiani sono molto prolifici e ricercati a livello internazionale. Solo che a casa sono poco considerati e, quando lo sono, mal pagati. Altro aspetto più che positivo del programma è il tentativo di ridurre la frammentazione e la disparità del nostro ecosistema della ricerca, in cui vi è scarsa comunicazione tra laboratori, università ed enti pubblici, oltre al forte divario di genere. considerando che i ricercatori italiani sono molto prolifici e ricercati a livello internazionale. Solo che a casa sono poco considerati e, quando lo sono, mal pagati. Altro aspetto più che positivo del programma è il tentativo di ridurre la frammentazione e la disparità del nostro ecosistema della ricerca, in cui vi è scarsa comunicazione tra laboratori, università ed enti pubblici, oltre al forte divario di genere.

Ancora sfide per sviluppare un’IA italiana

Purtroppo non ci sono solo lati positivi, ma anche limiti. Innanzitutto il programma è inquadrato nel triennio 2022-2024, un intervallo di tempo non proprio esteso, che forse non è il più adatto per realizzare un progetto così ambizioso, che mira a risolvere problemi e chiudere un divario che è stato riparato per decenni.

Se l’obiettivo è coinvolgere le aziende, il programma forse parla troppo di comunicazione, informazione e promozione, ma non sempre le soluzioni concrete sembrano esserci (cosa molto comune per questo tipo di documenti). E l’eterno problema delle imprese italiane, troppo piccole per essere innovative, comincia a pesare sulla loro capacità di imporsi a livello internazionale. L’idea di affiancare al tessuto delle PMI italiane un gruppo di esperti per guidarle verso le nuove prospettive dell’economia basata sull’AI è sicuramente positiva, ma questo approccio non è però sufficiente: senza il coinvolgimento diretto dei cittadini, senza il formazione dei più giovani del settore per trovare nuovi collaboratori e senza potenti mezzi economici nessuna innovazione è possibile.

Altro limite del testo, visto il contesto in cui si inserisce, è il limitato spazio dedicato al tema della condivisione dei dati, mentre sarà fondamentale per il settore economico e sociale di domani. L’intelligenza artificiale viene approcciata più dal punto di vista di favorire la formazione di giovani talenti nelle discipline scientifiche che dal punto di vista dell’attuazione di un’economia italiana ed europea volta a promuovere sia l’uso economico dell’intelligenza artificiale sia la produzione di beni e servizi compatibili con lo sviluppo incentrato sui dati. Tra le tante criticità individuabili, vale la pena citare anche quella relativa all’interoperabilità e alla qualità dei dati, di cui si parla molto poco nel programma italiano.

In questo contesto, la destinazione e l’utilizzo nazionale dei fondi del piano nazionale per la ripresa e la resilienza saranno di fondamentale importanza. L’azione della pubblica amministrazione – che avrà un ruolo di primo piano nell’attuazione del programma – sarà poi fondamentale: si tratta di una sfida importante per una pubblica amministrazione ancora piccola. In tale contesto, è evidentemente necessario instaurare al più presto un dialogo costruttivo sulle azioni necessarie a tutelare tutti gli attori interessati (dagli sviluppatori alle aziende, ai clienti finali) dai rischi che possono derivare dall’utilizzo dell’intelligenza artificiale per i quali è necessario che la pubblica amministrazione italiana adotti, fin d’ora, un approccio più illuminato, che non guardi solo agli obiettivi commerciali, ma anche alle persone, in attesa di specifici interventi del legislatore nazionale e dell’Unione Europea.

https://www.revueconflits.com/intelligence-artificielle-litalie-veut-etre-un-grand-en-europe/

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