Il dopo Deng e le sfide della nuova leadership, di Daniela Caruso

Gli Stati Uniti non potrebbero smettere di essere stupidi pur se lo volessero, di Stephen M. Walt

Per Washington, la moderazione autoimposta sarà sempre una contraddizione in termini.

I difensori della “leadership globale” degli Stati Uniti a volte ammettono che Washington si è estesa eccessivamente, ha perseguito politiche sciocche, non è riuscita a raggiungere i suoi obiettivi dichiarati di politica estera e ha violato i suoi principi politici dichiarati. Vedono tali azioni come deplorevoli aberrazioni, tuttavia, e credono che gli Stati Uniti impareranno da questi (rari) errori e agiranno in modo più saggio in futuro. Dieci anni fa, ad esempio, gli scienziati politici Stephen Brooks, John Ikenberry e William Wohlforth hanno riconosciutoche la guerra in Iraq è stata un errore, ma ha insistito sul fatto che la loro politica preferita di “profondo impegno” era ancora l’opzione giusta per la grande strategia degli Stati Uniti. A loro avviso, tutto ciò che gli Stati Uniti dovevano fare per preservare un ordine mondiale benevolo era mantenere i propri impegni esistenti e non invadere nuovamente l’Iraq. Come amava dire l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama, dobbiamo solo smetterla di fare ” cazzate stupide “.

La recente difesa del potere statunitense nell’Atlantico da parte di George Packerè l’ultima versione di questa logora linea di argomentazione. Packer apre il suo saggio con un paragone rivelatore falso, affermando che gli americani “esagerano le nostre crociate all’estero, e poi esageriamo con i nostri tagli, senza mai fermarci nel mezzo, dove un paese normale cercherebbe di raggiungere un sottile equilibrio”. Ma un paese che ha ancora più di 700 installazioni militari in tutto il mondo; gruppi di battaglia di portaerei nella maggior parte degli oceani del mondo; alleanze formali con dozzine di paesi; e che attualmente sta conducendo una guerra per procura contro la Russia, una guerra economica contro la Cina, operazioni antiterrorismo in Africa, insieme a uno sforzo senza fine per indebolire e un giorno rovesciare i governi di Iran, Cuba, Corea del Nord, ecc., difficilmente può essere accusato di eccessivo “risparmio”. L’idea di Packer di quel “sottile equilibrio”: una politica estera che non sia né troppo calda né troppo fredda,

Sfortunatamente, Packer e altri difensori del primato statunitense sottovalutano quanto sia difficile per un potente paese liberale come gli Stati Uniti limitare le proprie ambizioni di politica estera. Mi piacciono i valori liberali degli Stati Uniti quanto chiunque altro, ma la combinazione di valori liberali e vasto potere rende quasi inevitabile che gli Stati Uniti cerchino di fare troppo piuttosto che troppo poco. Se Packer favorisce un buon equilibrio, deve preoccuparsi di più di dirigere l’impulso interventista e meno di coloro che stanno cercando di frenarlo.

Perché è così difficile per gli Stati Uniti agire con moderazione? Il primo problema è il liberalismo stesso. Il liberalismo inizia con l’affermazione che tutti gli esseri umani possiedono determinati diritti naturali (ad esempio, “la vita, la libertà e il perseguimento della felicità”). Per i liberali, la sfida politica fondamentale è creare istituzioni politiche abbastanza forti da proteggerci gli uni dagli altri, ma non così forti o incontrollate da privarci di questi diritti. Per quanto imperfettamente, gli stati liberali realizzano questo atto di bilanciamento dividendo il potere politico; ritenere i leader responsabili attraverso le elezioni; sancire lo stato di diritto; proteggere la libertà di pensiero, parola e associazione; e sottolineando le norme di tolleranza. Per i veri liberali, quindi, gli unici governi legittimi sono quelli che possiedono queste caratteristiche e le utilizzano per salvaguardare i diritti naturali di ogni cittadino.

Ma prendi nota: poiché questi principi iniziano con l’affermazione che tutti gli esseri umani possiedono diritti identici, il liberalismo non può essere confinato a un singolo stato o anche a un sottoinsieme dell’umanità e rimanere coerente con le proprie premesse. Nessun vero liberale può dichiarare che americani, danesi, australiani, spagnoli o sudcoreani hanno diritto a questi diritti, ma le persone che vivono in Bielorussia, Russia, Iran, Cina, Arabia Saudita, Cisgiordania e un numero qualsiasi di altri posti non sono. Per questo motivo, gli stati liberali sono fortemente inclini a ciò che John Mearsheimer definiscel ‘”impulso crociato” – il desiderio di diffondere i principi liberali fin dove il loro potere lo consente. Lo stesso problema assilla altre ideologie universaliste, tra l’altro, sia nella forma del marxismo-leninismo o dei vari movimenti religiosi che credono sia loro dovere portare tutti gli esseri umani sotto l’influenza di una particolare fede. Quando un paese ei suoi leader credono sinceramente che i loro ideali offrano l’unica formula adeguata per organizzare e governare la società, cercheranno di convincere o costringere gli altri ad abbracciarli. Come minimo, ciò garantirà l’attrito con coloro che hanno una visione diversa.

In secondo luogo, gli Stati Uniti trovano difficile agire con moderazione perché possiedono una notevole quantità di potere. Come l’ex senatore degli Stati Uniti Richard B. Russell, presidente del Comitato per i servizi armati del Senato e senza colomba, ribadì negli anni ’60: “[Se] è facile per noi andare ovunque e fare qualsiasi cosa, andremo sempre da qualche parte e fare qualcosa. Quando sorge un problema quasi ovunque nel mondo, c’è sempre qualcosa che gli Stati Uniti potrebbero provare a fare al riguardo; gli stati più deboli non hanno la stessa libertà e quindi non affrontano le stesse tentazioni. La Nuova Zelanda è una sana democrazia liberale con molte qualità ammirevoli, ma nessuno si aspetta che i neozelandesi prendano il comando nell’affrontare l’invasione russa dell’Ucraina, il programma nucleare iraniano o le incursioni cinesi nel Mar Cinese Meridionale.

Al contrario, chiunque sieda nello Studio Ovale comanda una serie di opzioni ogni volta che sorgono problemi o si presenta un’opportunità. Un presidente può imporre sanzioni, ordinare un blocco, minacciare l’uso della forza (o usarla direttamente) e qualsiasi altra azione, e quasi sempre senza mettere a serio rischio gli Stati Uniti (almeno a breve termine). In queste circostanze, resistere alla tentazione di agire sarà estremamente difficile, soprattutto quando un coro di critici è pronto a denunciare qualsiasi atto di moderazione come una mancanza di volontà, un atto di pacificazione o un colpo fatale alla credibilità degli Stati Uniti.

Cosa può fare la diplomazia? una conversazione con Jérôme Bonnafont

Cosa può fare la diplomazia? una conversazione con Jérôme Bonnafont

Mentre la professione sembra essere sempre più indebolita ovunque e dovunque, Jérôme Bonnafont, relatore per gli Stati Generali della Diplomazia, torna in un recente libro sulla vocazione diplomatica. In questa intervista fluviale, cerca di delineare un ritratto del diplomatico nel 21° secolo – tra l’interprete e il messaggero.

Jérôme Bonnafont, diplomatico, per cosa? , Parigi, Odile Jacob, 2022, 380 pagine, ISBN 9782415000844

Jérôme Bonnafont è diplomatico di carriera dal 1986. Dopo aver prestato servizio a Nuova Delhi, Kuwait e New York, è stato consigliere e poi portavoce della Presidenza della Repubblica prima di diventare Ambasciatore in India e Spagna, Direttore per il Nord Africa e il Medio Oriente e Consigliere del Primo Ministro. Attualmente è il rappresentante permanente della Francia presso le Nazioni Unite a Ginevra.

Nel tuo libro Diplomate, pour quoi faire?, offri un’ampia riflessione su questa professione che è affine a una vocazione. Colpisce l’ibridità stessa del genere del tuo libro: pensato in luoghi come esercizio di definizione della diplomazia, con una forte dimensione concettuale, attinge anche dal genere delle Memorie, offrendo così una forma di riflessione sulla somma delle tue esperienze passate …

La diplomazia infatti non è una filosofia ma una pratica, anzi un mestiere, nel senso di quei mestieri in cui il saper fare unisce il sapere libresco e l’esperienza che nasce da una lunga applicazione piuttosto perfezionista.

In questo libro mi sono posta per prima cosa la domanda sul percorso che porta qualcuno a voler diventare un diplomatico. È certamente una professione vocazionale, con una duplice natura: il gusto per il mare aperto, il nomadismo e il desiderio di servire la patria. Per servire il suo Paese, dunque, ma per quanto possibile. 

Volevo anche sfatare miti logori. Ricordiamo Chateaubriand, allora diplomatico a Roma, che scriveva a un amico: “   il mestiere è facile, lo possono fare tutti” . Senza dubbio, come molti nella sua situazione, l’autore di Le Génie du Christianisme non si è nemmeno reso conto che probabilmente non stava facendo il suo lavoro, lo faceva solo in apparenza. 

Volevo anche sfatare alcuni miti logori sulla diplomazia.

GIROLAMO BONNAFONT

Un buon diplomatico deve essere guidato da tre tipi di curiosità, passioni e conoscenze. 

Curiosità per il mondo, soprattutto per l’altrove: sentire il richiamo dell’altro, voler vivere con l’altro, influenzarlo ed esserne influenzati, concepire i rapporti tra Stati come uno scambio, non accettare l’idea della sola guerra come ultima opzione. 

Poi la curiosità, la passione per la cosa pubblica. Si tratta di sviluppare una conoscenza dettagliata della politica: come si costruisce uno Stato e come funziona? Quali sono le sue organizzazioni sociali, economiche e politiche, le sue ambizioni, le minacce che provoca o subisce? E questa curiosità vale per il suo paese quanto per gli altri. 

Infine, è un lavoro estroverso, un lavoro sociale: conoscere – e amare – rappresentare, comunicare, organizzare, reagire alle crisi e ai conflitti, negoziare. Un mestiere di azione e di esteriorità, dove il pensiero è messo al servizio del concreto. 

Per illustrare l’impatto che un diplomatico può avere sull’azione esterna del suo Paese, ho scelto, tra l’altro, il famoso esempio del Long Telegram scritto da Georges Kennan nel 1946. Era allora un giovane diplomatico americano di stanza a Mosca. Il presidente Truman si interroga sulla reazione all’imperialismo sovietico. Kennan scrive che, data la natura dell’URSS, gli Stati Uniti non possono stare a guardare, poiché ciò andrebbe contro i suoi interessi e valori. Tuttavia osserva che Washington non può respingere militarmente l’URSS, perché la guerra è impossibile. È così che concepisce quella che sarà conosciuta come la dottrina del contenimento , del contenimento, adottata dall’amministrazione americana e che ha svolto il ruolo che conosciamo nella Guerra Fredda. 

Tuttavia, se confrontiamo i diversi Paesi, osserviamo anche sistemi in cui l’ambasciatore è spesso nominato tra persone vicine al Presidente della Repubblica, senza necessariamente essere un diplomatico. Potrebbe essere, per esempio, nella tradizione americana, qualcuno che ha contribuito a finanziare la campagna elettorale del presidente. Come spiegare questa differenza di modello, tra un tale sistema e quello trovato in Francia? 

Ogni paese ha la sua tradizione. La Francia vive sul modello di un servizio civile professionale, politicamente neutrale e fedele al governo. Come la maggior parte dei suoi partner europei. Lei è attaccata ad esso. Vengono nominati alcuni ambasciatori tra quelli vicini al Capo dello Stato: questo è raro e il più delle volte contribuisce a far respirare il sistema. Questo è il nostro sistema, ha dato prova di sé anche se deve essere continuamente modernizzato e rinnovato.

Altri paesi, come gli Stati Uniti, favoriscono le nomine politiche. Gli ambasciatori sono il più delle volte persone vicine al presidente, o più precisamente donatori che hanno finanziato la sua elezione e che vengono così premiati. Il risultato sono spesso, non sempre, capi di posto ridotti a una funzione cerimoniale mentre i servizi ruotano intorno a loro. 

È un lavoro estroverso, un lavoro sociale: conoscere – e amare – rappresentare, comunicare, organizzare, reagire alle crisi e ai conflitti, negoziare. Un mestiere di azione e di esteriorità, dove il pensiero è messo al servizio del concreto.

GIROLAMO BONNAFONT

La modella americana non è però priva di interesse: quando Pamela Harriman viene nominata ambasciatrice a Parigi dal presidente Clinton, la sua statura e il suo background le permettono di alzare il telefono per parlare con il presidente o un ministro del momento, che ‘un l’ambasciatore ordinario generalmente non può fare di più. Inoltre, se il vertice è gestito dallo ”  spoiler system  “, al Dipartimento di Stato così come nelle ambasciate, un nutrito corpo di diplomatici di carriera assicura la permanenza con professionalità, in particolare per quanto riguarda la conoscenza delle lingue e civiltà così come le tecniche del mestiere.

Cominciamo parlando della fine del libro, e della sua conclusione, intitolata “Diplomazia immutabile e cangiante”. Questo identifica tutta la difficoltà dell’esercizio in cui sei impegnato: catturare l’essenza di una delle professioni più antiche del mondo, ma che rimane una delle prime a cambiare nel tempo. Scrivi così che “l’essenza dell’arte diplomatica è il movimento, la fluidità, la duttilità”. Come, dal punto di vista del diplomatico, non perdere la sua identità in questi movimenti, e spiegare una professione che fatica a definirsi in poche parole?

L’espressione è di Raymond Aron, che ha intitolato un’opera che ripercorre la genesi delle nostre istituzioni: “  Immutabile e cangiante. Dalla Quarta alla Quinta Repubblica”. 

La galleria di ritratti contenuta nel libro vuole mostrare la varietà di profili, professionalità e tecnicismi, nonché le differenze di carattere e di metodo che distinguono tra loro i diplomatici. 

Quando Proust descrive il vecchio marchese de Norpois come un mondano vuoto e pedante, è preso dall’illusione ottica che è che vede il personaggio – i suoi modelli – nella società solo in un ruolo un po’ futile. . Il narratore incontra Norpois solo nei salotti, mai con i suoi partner stranieri, mai con il suo ministro o il suo presidente, mai alla sua scrivania, insomma mai in azione. 

Chi avrebbe dovuto rappresentare Norpois? Forse un Cambon o un Barrère: un vecchio negli occhi di un giovane. Ed è vero, molti ritratti di diplomatici in letteratura danno questa impressione di vanità. Si pensi al personaggio di Georges de Sarre nei romanzi di Roger Peyrefitte, che lascia nel lettore una spiacevole sensazione di vuoto. 

Contrariamente a queste rappresentazioni, mi sembra che la principale qualità del diplomatico sia, per usare un’espressione di Rimbaud, il voler essere “  risolutamente moderno  ”. Pienamente a suo tempo, allo stesso tempo intriso di storia per agire sul presente e cercare di plasmare il futuro con gli occhi aperti sul mondo così com’è e sta andando, e non come lo sogniamo o crediamo.

Chi avrebbe dovuto rappresentare Norpois? Forse un Cambon o un Barrère: un vecchio negli occhi di un giovane. Ed è vero, molti ritratti di diplomatici in letteratura danno questa impressione di vanità.

GIROLAMO BONNAFONT

Sempre nello stesso brano lei scrive che se il diplomatico “lavora nel presente, hic et nunc  “, deve costantemente “tenere presente l’impermanenza”. Il diplomatico è una specie di dialettico?

Qualsiasi azione pubblica richiede una dialettica, una diplomazia come le altre. Dobbiamo costantemente scegliere: arbitrare, ad esempio, tra il breve e il lungo termine. Le soluzioni immediate possono creare difficoltà per il futuro, anche se devono essere favorite quando l’urgenza lo impone. E spesso si tratta di scegliere tra le seconde migliori opzioni.

Ci sono altri tipi di scelte; tra la guerra o la pace, tra lo spirito di compromesso, indispensabile per raggiungere soluzioni comuni ma frustrante, e lo spirito di autoaffermazione. E, come vediamo oggi, essere troppo assertivi può scuotere i sistemi internazionali, mettendo così in discussione la loro stabilità. Occorre anche distinguere tra “interessi” e “valori”, anche se questa distinzione è in pratica difficile da definire. 

La diplomazia è caratterizzata dalla ricerca permanente di compromessi accettabili con la realtà nel presente. In questo senso non può esistere un’architettura assoluta e permanente. Come diplomatico, cerchi di risolvere il problema del momento, ma anche di costruire qualcosa di stabile, un trattato, un sistema di sicurezza. Tenendo presente che può spostarsi in qualsiasi momento! Se ti lasci andare nello spirito del sistema o dell’ideologia, la fluidità e la complessità della realtà ti sfuggono. L’immutabile e il mutevole, ancora.

I riferimenti storici – e alla mitologia – innervano il tuo lavoro. Una di esse colpisce particolarmente: è il riferimento che fai a Hermes, il Dio messaggero, sotto la cui protezione il diplomatico sembra posto. Tuttavia, l’intera difficoltà del lavoro del messaggero è riuscire a far udire l’inudibile, sia in casa che fuori. A costo di diventare un bersaglio o agire come un parafulmine… 

Nel mondo funzionale in cui viviamo, non è male mettere un po’ di colore, da qui il ricorso all’Antichità. Cito due figure in particolare: quella di Ermete e quella di Gabriele, omaggio alle due fonti principali della nostra civiltà: quella greco-romana e quella giudeo-cristiana. 

Hermès si riferisce alla nostra eredità politeista, Gabriel alla nostra storia monoteistica. Hermes è un messaggero speciale: in quanto dio, gode di grande libertà di azione. Gabriele, invece, arcangelo che deve trasmettere il messaggio di Dio, opera in un certo senso sulle istruzioni. Queste sono le due situazioni tra le quali il diplomatico oscilla costantemente.

Il messaggio è ancora ascoltato? La domanda è vecchia. Prendo nel libro l’esempio di André François-Poncet, ambasciatore a Berlino dal 1931 al 1938 poi a Roma nel 1938-1939. Ha scritto Souvenirs che mostrano chiaramente che ha capito tutto quello che stava succedendo a Roma e Berlino in quel momento. È stato ascoltato dalle sue autorità? Il sistema di vincoli che all’epoca gravava sui nostri dirigenti impediva loro di dare una risposta adeguata ai fenomeni descritti da questo ambasciatore. C’era qualcosa di tragico nella scalata alla guerra.

Un’altra domanda è se il messaggio è ben compreso dal destinatario. Si pensi qui all’esempio dell’ambasciatore americano a Baghdad nel 1991. Ricevuta da Saddam Hussein il giorno prima dell’invasione del Kuwait, si dice — con le dovute riserve — che abbia dato una risposta così ambigua al dittatore che lo interrogava su le conseguenze di un intervento armato che avrebbe visto una sorta di via libera all’invasione. Ciò è stato successivamente smentito, ovviamente, dal corso della storia.

Qual è l’interprete giusto in diplomazia? Mi sembra che il diplomatico debba essere convenzionale e un po’ incrinato allo stesso tempo perché deve oscillare tra i mondi, il suo e quelli degli altri.

GIROLAMO BONNAFONT

Qual è l’interprete giusto in diplomazia? Mi sembra che il diplomatico debba essere convenzionale e un po’ incrinato allo stesso tempo perché deve oscillare tra i mondi, il suo e quelli degli altri. Per fare questo serve una crepa, uno squilibrio, un disagio che metta in moto le cose, il che significa che, pur essendo completamente a casa, lì non ci si trova del tutto a proprio agio e si ha bisogno di questa apertura per respirare.

Roberto Calasso ha scritto un libro magnifico su questo argomento, La Ruine de Kasch , in cui osserva la figura di Talleyrand, traghettatore tra il vecchio e il nuovo mondo. Ora Talleyrand è questo gran signore la cui famiglia gli ruba la primogenitura con il pretesto che, in quanto piede torto, non può essere un soldato.

Coincidenza significativa, zoppia – ricorda cosa ha osservato Dumézil: Efesto, anche Giacobbe zoppicava. I vecchi pensavano che questa infermità, l’handicap in generale, desse delle attitudini, una capacità di accesso a campi dove il normale non può arrivare.

Precisione di giudizio, capacità di farsi capire e ascoltare dalle autorità e dagli interlocutori stranieri, sono qualità che si imparano e maturano nel tempo. Poi, le cose appartengono all’autorità politica, è la regola fondamentale di questo tipo di professione. 

Da lì si passa a un’altra metafora che gioca un ruolo centrale nel tuo lavoro: l’immagine musicale, che fa del diplomatico un interprete. Sotto questo prisma, il ruolo del diplomatico non è semplicemente quello di trasmettere il messaggio, ma di dargli significato, persino incarnarlo, seguendo i limiti prescritti dall’autorità politica – queste istruzioni sono l’equivalente di uno spartito. Come rispettare concretamente questa linea di cresta, assicurando che il messaggero dimostri la necessaria umiltà e moderazione – il che solleva anche una questione democratica? 

L’immagine musicale permette di descrivere il dialogo permanente tra il diplomatico-esecutore e il politico-compositore. Le istruzioni sono come una partitura; durante le trattative, il diplomatico tasta il polso ai suoi omologhi, per poi rientrare nella sua capitale nell’ambito di un dialogo continuo. È vincolato dalla sua partitura, ma gode della libertà dell’interprete.

Il compositore è il politico; con questa particolarità che certi diplomatici – ad esempio i consiglieri diplomatici del Presidente o del Primo Ministro – possono contribuire a scrivere questa partitura, anche se rimane fondamentalmente politica. Secondo questa immagine, si noti che lo stesso compositore è spesso un interprete: questo è il caso in cui gli stessi politici si impegnano direttamente nella diplomazia, in particolare durante i vertici o le visite bilaterali.

Ci sono anche casi in cui il diplomatico deve improvvisare, soprattutto nelle crisi. Deve quindi, per improvvisare bene, aver accumulato una somma di conoscenza ed esperienza, in modo che il riflesso dell’improvvisazione poggi su una base sicura.

L’immagine musicale permette di descrivere il dialogo permanente tra il diplomatico-esecutore e il politico-compositore. Le istruzioni sono come un punteggio.

GIROLAMO BONNAFONT

Nel tuo lavoro noti il ​​contrasto tra il linguaggio delle armi e quello della diplomazia, mentre spieghi che l’uno non può avere un’esistenza duratura senza l’altro. Se la diplomazia può vivere all’ombra della guerra – che risuona dell’attualità più immediata – come fare in modo che i conflitti non la emarginino definitivamente? In pratica, si ha l’impressione che, lungi dall’essere complementari, questi due linguaggi siano spesso opposti…

Sono due facce della stessa medaglia: la diplomazia che svolgi dipende da ciò su cui sei stabilito. Rappresenti un paese potente o in declino? Ricco o povero? In una posizione di vulnerabilità o in una posizione di forza? La guerra è il culmine del confronto, la prova suprema, ma queste domande sorgono anche quando si tratta di finanze, standard tecnici, impegni commerciali. Si negozia prima secondo una realtà e un equilibrio di potere.

Possiamo vivere senza armi? Prendiamo spesso l’esempio del Costa Rica, che non ha esercito. Ma guarda la Svizzera: la sua neutralità si è basata per secoli su forze armate abbastanza forti da scoraggiare gli aggressori. Puoi quindi essere un paese pacifico e basare questa posizione sulla tua forza militare. 

Anche la storia gioca un ruolo importante: dopo il 1945, la Germania era riluttante a intervenire in operazioni militari esterne, a differenza della Francia o del Regno Unito, pur avendo ricostituito un esercito nel quadro della NATO. 

Ne consegue che quando vuoi pesare in diplomazia, devi assicurarti una capacità credibile affinché i tuoi interlocutori capiscano che quello che dici, il tuo Paese è in grado di farlo.  

È anche necessario distinguere in base ai tipi di guerra. Un solo distinguo su questo immenso e complesso argomento. Se si tratta di una guerra civile, la comunità internazionale deve intervenire per trovare una soluzione pacifica e cercare di imporre la cessazione delle ostilità. Di fronte a una guerra di aggressione, come quella che stiamo vedendo oggi in Ucraina, questa è un’altra questione. Alcuni difendono la scelta pacifista, dicendo che la guerra è il male assoluto. Ma cosa significherebbe per l’Ucraina? Che dovrebbe rinunciare alla sua sovranità?

Parlare non significa arrendersi in anticipo, significa mantenere il filo per cercare di prevenire il peggio e prepararsi al futuro.

GIROLAMO BONNAFONT

L’Ucraina dice chiaramente di no. Resiste con tutte le sue forze. È il vecchio concetto di san Tommaso d’Aquino di “guerra giusta”, di legittima difesa, ripreso dalla Carta delle Nazioni Unite che autorizza, in caso di legittima difesa, l’uso della forza. 

Questo significa che non dovrebbe esserci più dialogo? Affatto. Analizzare le dichiarazioni del Presidente della Repubblica. Diceva sempre che doveva esserci spazio per la diplomazia. Guarda le iniziative messe in atto per risolvere la questione alimentare. Parlare non significa arrendersi in anticipo, significa mantenere il filo per cercare di prevenire il peggio e prepararsi al futuro.

Nell’ambito della riforma dello Stato, sono stati modificati i canali di reclutamento per il flusso diplomatico. Di fronte alla mobilitazione di alcuni agenti, il Governo ha deciso di aprire gli “Stati Generali della Diplomazia”, di cui lei è il relatore generale. Questo è un esercizio unico. Potrebbe descrivere a grandi linee questo processo: quale volontà politica riflette questa iniziativa? In che prospettiva sono stati pensati questi Stati Generali, e quali potenziali conseguenze si prospettano rispetto al momento che seguirà a quello della consultazione?

Inizierò dicendo che oggi osserviamo due fenomeni. 

In primo luogo, i processi di europeizzazione e globalizzazione implicano che gli affari internazionali permeano sempre più quasi tutti gli affari pubblici. Questa è un’estensione del dominio diplomatico. 

Poi, da una generazione, il budget e la forza lavoro del Quai d’Orsay sono in calo: è l’unico ministero di Stato ad aver vissuto una situazione del genere così continuamente. La fine di questo declino è stata segnata da un cambio di direzione, iniziato quando era ministro Jean-Yves Le Drian, e confermato dall’attuale ministro degli Esteri, Catherine Colonna.  

In tale contesto, l’applicazione al Ministero degli Affari Esteri della riforma dell’alta funzione pubblica ha rivelato un disagio fortemente espresso. Da qui l’idea degli “Stati Generali della Diplomazia”, ​​ripresa dal Presidente della Repubblica e dal Ministro: dare la parola agli agenti del Quai d’Orsay e ai soci e utenti del “servizio pubblico della diplomazia” per riflettere su tre temi: 

1. Essendo il mondo quello che è, di quale diplomazia ha bisogno la Francia e cosa significa questo per la professione di diplomatico? 

2. In un’amministrazione moderna, come può il Quai d’Orsay assumere al meglio il suo ruolo di capofila dell’azione internazionale? 

3. In questo contesto, come deve evolvere la professione del diplomatico, sia in termini di struttura che di metodo?

In questo contesto, si è costituito un gruppo per organizzare e condurre questo “grande dibattito” applicato alla diplomazia, al fine di fornire alle nostre autorità politiche – Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro degli Affari Esteri – una relazione sui risultati e raccomandazioni.

Procediamo in modo classico ma ambizioso: invio di questionari ai nostri 13.000 agenti, organizzazione di workshop e audizioni aperte a tutti coloro che sono interessati, di persona o online, visitando i vari siti francesi del ministero e un rappresentante campione delle nostre ambasciate e missioni . Vogliamo che i colleghi di ogni grado e status si esprimano liberamente sulla loro situazione personale e sulla loro visione della nostra professione e del suo futuro; e che, allo stesso tempo, qualificate personalità del mondo politico, economico, culturale, associativo e mediatico ci guidino con la loro visione.

Il risultato dovrà essere un quadro fedele della situazione, certo, ma soprattutto precise indicazioni sul futuro della professione diplomatica, sulle modalità di esercizio che evolveranno, ma che resteranno una componente importante e peculiare dell’azione pubblica.

Il diplomatico continuerà a fornire ciò che è essenziale per la gestione degli affari internazionali, ma lo farà nelle condizioni del nostro tempo.

GIROLAMO BONNAFONT

Secondo lei, come preservare oggi la specificità di una professione di fronte a situazioni molto diverse da quelle che esistevano qualche decennio fa: l’intensificarsi della costruzione europea, l’emergere di questioni globali ben identificate (clima, terrorismo, Covid- 19), o ancora il ruolo crescente svolto dalle imprese multinazionali nelle relazioni internazionali? 

Questi sviluppi non sono sconosciuti. Guarda il campo degli affari strategici: questi sono gestiti da decenni da coppie di diplomatici e soldati che lavorano insieme su questioni di disarmo e non proliferazione. Queste coppie lavorano al Segretariato Generale per la Difesa e la Sicurezza Nazionale (SGDSN), a Matignon, all’interno della cellula diplomatica dell’Eliseo, nei Ministeri degli Affari Esteri e delle Forze Armate, nelle nostre ambasciate e nelle nostre missioni all’estero. Lo stesso vale nel campo degli affari europei, ad esempio all’interno del Segretariato generale per gli affari europei (SGAE), che opera grazie a tandem di diplomatici e specialisti tematici. 

Si tratta di estendere questi binomi generalizzando questo metodo all’elaborazione di tutti i casi globali. Si tratta di trovare modalità di intervento più trasversali, adeguate all’interdisciplinarietà delle materie e alla rapidità delle crisi. Un esercizio essenziale di adeguamento delle strutture e delle modalità operative dell’amministrazione.

La professione deve essere definita attraverso le sue missioni e la sua vocazione. Non sono preoccupato per il futuro della funzione diplomatica. Il diplomatico continuerà a portare l’essenziale per la gestione degli affari internazionali: conoscenza e “uso del mondo”, per usare la bella espressione di Nicolas Bouvier, ma lo farà nelle condizioni del nostro tempo.

Come vede lo sviluppo della diplomazia europea in questo contesto?  

Il futuro della diplomazia europea dipende semplicemente da come l’Europa si affermerà come potenza nel mondo. In Francia abbiamo l’ambizione di un’Europa sovrana, che controlla i suoi destini, come ha sottolineato in numerose occasioni il Presidente della Repubblica. 

In alcuni settori, ad esempio nella politica commerciale o di sviluppo, esiste già una diplomazia europea completa e consolidata. In materia di salute e ambiente, gli Stati e la Commissione uniscono sempre più le loro capacità diplomatiche. In altri ambiti, ancora in divenire, l’approfondimento di questo percorso dipenderà dall’evoluzione politica dell’Europa.

In particolare, a Ginevra, dove sei attualmente distaccato, ti occupi di molte questioni relative al Consiglio dei diritti umani. Nota divisioni quotidiane tra la concezione occidentale dei diritti umani e le posizioni difese da Stati come la Cina o la Russia? Come descriveresti l’evoluzione delle tue interazioni con russi e cinesi dal 24 febbraio su questi temi?

Il Consiglio dei Diritti Umani è composto da 47 Stati eletti per due anni con una rotazione progressiva. Nell’insieme delle Nazioni Unite esistono schematicamente tre gruppi: Stati di affinità (Paesi europei, America Latina, Stati Uniti, Giappone, Corea e pochi altri, cioè una cinquantina di Paesi), che promuovono una concezione universale e indivisibile dei diritti umani. Un secondo gruppo di Stati (Iran, Cina, Russia, molti paesi con regimi dittatoriali o comunque non democratici), contesta questa universalità, afferma che l’Occidente, nella sua ricerca dell’egemonia, usa questi principi per fondare ingerenze negli affari interni degli Stati sovrani. Infine, 

I diritti umani sono universali? La risposta è nei testi e nella loro elaborazione. La Dichiarazione universale del 1948 e le due Alleanze del 1966 (quella sui diritti civili e politici e quella sui diritti economici e sociali) non sono state scritte da soli occidentali e affermano semplici verità sulla pari dignità di tutti e sulle conseguenze che ne derivano. 

Certo, la Cina, ad esempio, ha ratificato il Patto sui diritti economici e sociali ma non il Patto sui diritti civili e politici: questa è la scelta che deriva da un sistema politico. Tuttavia è interessante vedere che in occasione della visita di Michelle Bachelet in Cina nel maggio scorso, che potrebbe aver dato adito a polemiche, questo Paese si è sentito in dovere di ricordare che stava studiando la questione del Patto sui diritti civili e politici. 

Da francese ed europeo, non ho il minimo dubbio sull’universalità dei diritti, non tanto in pratica, basta guardarsi intorno, quanto in termini assoluti: i testi, a rileggerli, dicono semplicemente che ovunque la libertà è più bella della servitù e dell’oppressione. La nostra stessa storia ci ricorda inoltre che questi diritti sono stati duramente conquistati, mai concessi. Ma occorre, in tutta franchezza, saper ascoltare e sentire ciò che gli altri dicono a questo libero e prospero Occidente. Ci rimandano a un passato bellicoso, coloniale, conquistatore, che ha esercitato una grande influenza, spesso crudele, sul proprio destino. Sottolineano di essere spesso vittime di fenomeni economici o ecologici che non hanno in alcun modo creato e che impediscono loro, almeno in parte, di svilupparsi.

Occorre, in tutta franchezza, saper ascoltare e sentire ciò che gli altri dicono a questo libero e prospero Occidente. Ci rimandano a un passato bellicoso, coloniale, conquistatore, che ha esercitato una grande influenza, spesso crudele, sul proprio destino.

GIROLAMO BONNAFONT

In queste pagine, questo cambiamento nel mondo è stato più volte descritto come un periodo di “interregno”. Questa nozione, ripresa in particolare da Josep Borrell in un testo dottrinale, descrive le grandi riconfigurazioni che stiamo vivendo, ma che non si sono ancora realizzate. Come pensa che il multilateralismo di domani possa adattarsi a questa nuova realtà? 

È una grande domanda. Bisogna stare attenti allo sguardo retrospettivo: nel presente abbiamo sempre l’impressione di vivere in un tempo di sconvolgimenti che non comprendiamo fino in fondo. Dopo , tutto diventa chiaro. Questo è il paradigma della civetta di Minerva: cogliamo solo ciò che abbiamo vissuto a posteriori. 

Quindi, se tu fossi stato un giovane europeo vissuto nel 1945, non saresti stato convinto dall’evidenza della stabilità dell’ordine mondiale. Allo stesso modo, quando vivevi nel 1990, un ordine e un sistema continentali stavano tremando. Certo, si è affermato che è stata la vittoria per sempre della pace, della libertà e della democrazia. Ma è un’illusione pensare che negli anni successivi alla caduta del muro o dell’Urss il mondo fosse stabile. Abbiamo assistito alle guerre nell’ex Jugoslavia, a un genocidio in Rwanda, agli attentati dell’11 settembre 2001: un mondo dove accadevano cose impensabili. 

È vero però che oggi osserviamo nuove linee di forza. In primo luogo, l’instaurazione di una duratura rivalità sino-americana. Poi l’affermazione di alcuni grandi colossi regionali: Brasile, India, Russia, Unione Europea. Decine di paesi medi o piccoli devono trovare un nuovo posto all’interno di questo gruppo. E durante questo periodo si esercitano forze opposte: quelle relative a questioni globali, che riteniamo richiedano un trattamento multilaterale; quelli relativi alla parziale messa in discussione della globalizzazione degli scambi, che pone il rischio di frammentazione e di nuovi scontri.

Questa riconfigurazione è fonte di sfide per l’Europa. Prima sfida: essere un potere che conta. Seconda sfida: costruire un sistema internazionale sufficientemente forte da evitare che la rivalità tra le major si traduca in un sistema senza norme, ordine o prevedibilità. È l’ambizione di mettere in atto quella che il presidente Chirac ha definito una “  globalizzazione umanizzata e controllata  ” o addirittura un “  mondo multipolare armonioso  ”. In quanto europei, abbiamo tutto da guadagnare da un mondo stabile e regolamentato.

Abbiamo parlato oggi dell’ascesa di una “diplomazia al vertice”. Quali progressi concreti consentono questi vertici? Alcuni osservatori ne mettono in dubbio il valore, affermando che i diplomatici sono troppo concentrati sulla creazione di dichiarazioni che non riescono a far avanzare la realtà sul campo. Cosa ne pensi ? 

Se non parli, non risolvi nulla. Diplomazia è il verbo; e la parola deve essere tradotta in azione. Queste versioni sono impegni internazionali. Se non ci parlassimo di cambiamento climatico, migrazioni, lotta alla criminalità organizzata, situazione dei diritti umani, crisi umanitarie, come potremmo affermare di gestire interazioni crescenti e questioni globali? 

Poi, se vuoi costruire gruppi regionali coerenti, devi incontrarti. L’Unione Africana è nata dalla sensazione degli africani che se vogliono affermare la loro influenza e gestire da soli i loro affari regionali, devono interagire di più. Prendiamo anche il caso dell’Unione Europea, dove i 27 Stati membri si incontrano costantemente. Creare interesse generale dalla divergenza degli interessi nazionali è un compito complesso, che richiede tempo.  

I comunicati sono impegni internazionali. Se non ci parlassimo di cambiamento climatico, migrazioni, lotta alla criminalità organizzata, situazione dei diritti umani, crisi umanitarie, come potremmo affermare di gestire interazioni crescenti e questioni globali? 

GIROLAMO BONNAFONT

Più in generale, tornerò su questo, l’evoluzione della globalizzazione richiede l’organizzazione della società internazionale. Non siamo più nel tempo in cui gli Stati potevano pretendere di vivere in una forma di autarchia, di autosufficienza, di regolare i propri rapporti attraverso la guerra e le sue estensioni. Le cosiddette questioni globali saranno meglio affrontate da risposte globali e multilaterali. La scelta è tra un intreccio di regole e organizzazioni che inquadrano l’azione sovrana degli Stati e quella di altri attori internazionali, da un lato, e dall’altro il persistere di una forma di anarchia sovrana in cui risiedono solo i rapporti di forza. 

I diplomatici devono adattarsi a questa realtà che ha, sulla loro azione, almeno tre conseguenze: in primo luogo, devono rimanere capaci di padroneggiare questa grammatica dell’equilibrio di potere senza la quale uno Stato non può difendersi. Quindi, devono estendere la loro tavolozza a tutte queste nuove cosiddette questioni globali, che vanno dall’ecologia alle nuove tecnologie, compresa la salute, la migrazione e i diritti umani. Infine, devono adattarsi a una ginnastica costante per spostarsi costantemente dal nazionale al regionale o globale, dal proprio paese a mondi diversi e lontani per geografia e civiltà, ma più vicini che mai alla nostra vita quotidiana.

Insomma, ben lungi dall’aver perso densità a causa dell’evoluzione del mondo, la professione ha guadagnato in contenuti tanto quanto in portata, ed è davvero una professione del futuro per tutti coloro che amano inscrivere la propria vita nel mondo così com’è. Questo è sostanzialmente il messaggio di questo libro ai giovani francesi che si interrogano sul loro futuro, su quello del loro paese e su una vocazione da diplomatico.

https://legrandcontinent.eu/fr/2022/12/15/que-peut-la-diplomatie-une-conversation-avec-jerome-bonnafont/

SINFONIA, di Pierluigi Fagan

SINFONIA. Il termine origina nell’antico greco dove significava “consonanza”. Consonanza s’intende come confluenza di più suoni in un suono principale in modo armonioso. Ancora oggi in greco moderno Συμφωνία significa accordo. Abbiamo dunque due percorsi di significato di accordo, esser d’accordo ed esser accordati. Useremo il concetto, in metafora, per una considerazione sull’immagine di mondo.
A breve inizierò un libro di un demografo britannico che in Introduzione sostiene che il colonialismo ed imperialismo europeo moderno non sarebbe potuto esistere senza una sottostante ondata di continua crescita demografica. Così per l’impeto concorrenziale che nel proseguo del Novecento ha premiato più gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica rispetto l’Europa. Oggi, per la competizione tra USA e Cina e più in generale Occidente vs Resto del mondo, da cui il destino multipolare di cui parliamo spesso in geopolitica. Tutta la sequenza del c.d. “capitalismo” da Genova-Venezia agli USA studiata da Braudel-Arrighi, via Province Unite-Inghilterra-Gran Bretagna-Regno Unito è una crescita di massa del soggetto centrale. Ma gli esempi potrebbero andare avanti per un po’ sia in positivo (popolazione che cresce e si fa massa), sia in negativo (popolazione che decresce e sistemi che si disordinano e perdono potere). Di contro, ogni volta che un demografo parla in pubblico qualcuno dal pubblico insorge accusandolo di essere malthusiano (?).
L’altro giorno leggevo un articolo di Internazionale di uno storico sempre britannico, che se la prendeva con questa nuova mania della geopolitica. L’Autore prima definiva la geopolitica una disciplina riduzionista che tenta un nuovo imperialismo esplicativo quale abbiamo a lungo subito da parte degli economisti, poi aveva gioco facile a distruggere questa pretesa riduzionista basata sul binomio geografia e potenza. Così, quando un geopolitico parla in pubblico c’è sempre qualcuno che avanza con ironico sarcasmo critiche di eccessivo materialismo a base geografica, se non tendenze para-naziste.
Da un po’ di tempo, la nostra attenzione alle questioni ecologico-ambientali partendo dalla variabile climatica, vanno formando sia un canone proprio, sia un paradigma esplicativo che retroproiettiamo nella storia. Scopriamo così che assai spesso, il fatidico “motore delle storia” ovvero ciò che ha mosso a nuovi percorsi e dinamiche rilevanti di quella che era una traiettoria prevedibile e costante, è stato un repentino e significativo cambiamento climatico o ecologico. Ma anche qui, a fronte del a volte eccessivo entusiasmo che nuove qualcuno ad usare una variabile come totalità esplicativa, ci sono molti che lo coprono di critico sarcasmo.
Ogni volta e vale per tutti e tre gli esempi, qualche studioso richiama l’attenzione su una variabile prima poco o per niente considerata che è poi l’oggetto dei suoi studi, ogni volta altri intellettuali partono in quarta ad accusare questa proposta di novità come riduzionista, poco fondata, poco o nulla realmente influente o comunque meno importante ed influente della loro, quella che gli conferisce il crisma di intellettuale.
Andando sul piano di metafora, è come se avessimo platee di solisti che ogni volta che sentono un suono nuovo dondolano la testa prima pensando e poi dicendo che quel suono non è bello e significativo come quello che producono loro. Nell’epoca di X Factor nessuno più scrive sinfonie.
A fine anni ’70 quando la società italiana si venne a trovare alla fine del trentennio postbellico e prima di scivolare nei fatidici anni ’80 che aprirono la stagione socio-culturale che è arrivata sino a poco tempo fa, Fellini produsse quello che chiamò un “filmetto”, una delle sue opere meno riuscite forse, dal titolo “Prova d’orchestra”. Forse si perse nella metafora, credo però che l’intento fosse quello di rappresentare la nuova impossibilità di avere sinfonia, accordo nel suo duplice significato.
Ci sono forse dei paralleli reciprocamente condizionanti tra l’individualismo sociale, la divisione del lavoro alla base dell’economia moderna (e relativo senso di “alienazione” anche se l’analisi di questo concetto presenta problematiche), la divisione delle discipline di studio dell’uomo e del mondo come unico canone della conoscenza sempre “moderna”? O quantomeno di seconda modernità? Non so, forse sì, andrebbe approfondita l’analisi.
Senz’altro però si può dire che ciò che è diviso chiede di esser ordinato dall’esterno. Aristotele, posto in Metafisica il problema che “… (le) molte parti il cui insieme non è un ammasso e il cui intero è qualcosa di più delle parti …” e quindi notato che dovevano avere un criterio di unità, si domandava quale.
Dopo lungo ricercare sull’origine del detto, oggi si pensa che l’espressione poi latina “divide et impera” sia nata dal padre di Alessandro Magno ovvero Filippo II di Macedonia ovvero il primo unificatore dell’ammasso conflittuale di poleis greche che condividevano sì una certa cultura comune, ma con geografie politiche fortemente concorrenziali ed appunto, conflittuali. In termini politico-sociali, sappiamo che il problema occorso ad un certo punto della storia nella polis più famosa ovvero Atene, fu quello della “stasis” della guerra civile che poi aveva anche forti connotati di classe, ne ha parlato in un bel libricino Agamben. C’era certo un forte connotato di classe che si rifletteva sul diritto ovvero sul regolamento giuridico della società; infatti, quella che poi venne chiamata “democrazia”, in realtà a suoi tempi iniziali era chiamata “isonomia” ovvero quello che oggi è scritto in ogni aula del tribunale “la legge è uguale per tutti”. Se la Legge doveva esser uguale per tutti per applicazione, necessariamente doveva esser definita da tutti in definizione. Così nasce la democrazia ateniese, partecipare tutti a definire le leggi ed amministrarle. Infatti, i primi atti democratici che diedero il via alla gloriosa storia della democrazia ateniese, furono riforme giuridico-elettorali operate prima da Clistene e concluse con la definitiva sottrazione del potere giuridico dell’Areopago in esclusiva mano aristocratica, operata da Efialte.
Tornando al ragionamento principale, sembra esserci più che un fortuito parallelismo tra questa frantumazione degli interi e la conseguente necessità di avere un potere a monte che ne dia il necessario ordine che non può più essere auto-organizzato.
I termini di immagini di mondo, non si capisce perché non convenire sull’ovvietà del fatto che le variabili che fanno il mondo sono molteplici e così molteplici dovrebbero esser le componenti delle immagini di mondo ovvero ciò che riflette il mondo al fine di, se necessario, cambiarlo.
Demografia, geografia, ecologia sono variabili e campi di studio necessari al pari di economia, sociologia, politica e molto altro poiché il mondo è alla fine il risultato dell’interrelazione tra tutte queste variabili. Dividere gli interi è il presupposto per richiedere un imperio esterno. “il Vero è l’Intero” diceva un filosofo tedesco, per cui ogni immagine di mondo che tenti di acchiappare il mondo da una sola parte, è falsa. E’ su questa falsità autoindotta che si basa la necessità di un potere che metta in ordine ciò che trattiamo disordinatamente.
Per cambiare ciò che non ci piace o ci sembra non funzionare del mondo, andrebbero aperte scuole di sinfonia? Come lo cambi il mondo se non sei in grado di darne una immagine su cui fare diagnosi e prognosi?

Hyperguerra: esca o fatalità per l’Europa?_di Hajnalka Vincze

Hyperguerra: esca o fatalità per l’Europa?

“Suggerire che la nuova tecnologia possa cambiare la natura immutabile della guerra, non solo il modo in cui viene combattuta, è ignorante. È come dire che un nuovo orologio cambierà la natura del tempo. (
Sean McFate, Le nuove regole della guerra )

Tra dieci anni una nuova grande guerra in Europa sarebbe una iperguerra”: è in questi termini inequivocabili che due ex comandanti della NATO e un eminente specialista britannico dell’Alleanza introducono, al grande pubblico, la nozione di iperguerra nel loro recente libro ( 1). Hanno quindi messo una parola evocativa e facile da ricordare su un fenomeno annunciato da molti, ovvero un imminente cambio di paradigma della cosa militare, dovuto all’arrivo sui campi di battaglia di tecnologie dirompenti, in prima linea l’intelligenza artificiale ( AI). Il lettore perspicace sperimenterà senza dubbio una vaga sensazione di déjà vu. Le formule e l’atmosfera sono inequivocabilmente simili alla RAM (Revolution in Military Affairs) degli anni 90. Solo le tecnologie variano. Resta il fatto che gli europei si trovano ancora una volta di fronte a un dilemma. Trarranno le giuste lezioni dalle loro recenti esperienze o si condanneranno piuttosto a un puro e semplice seguito nei confronti dell’alleato americano? Per una volta, la risposta potrebbe essere meno ovvia di quanto sembri.

Nuovi gadget, nuovi concetti

il generale John R. Allen, ex comandante delle forze Nato in Afghanistan, ora presidente della prestigiosa Brookings Institution, il generale Ben Hodges, ex comandante dell’esercito degli Stati Uniti in Europa, ora a capo degli studi strategici presso il CEPA (Centro per le Policy Analysis), e il professore britannico Julian Lindley-French, consigliere onnipresente nei cenacoli dell’Alleanza, non si sono dilungati nel loro libro di recente pubblicazione, “La guerra futura e la difesa dell’Europa”. Notano che è in corso una “rivoluzione nelle tecnologie militari” e criticano “il desiderio pericolosamente limitato degli europei di cogliere questo cambiamento”. Anche se tutti i tipi di nuove tecnologie all’avanguardia (IA, quantistica, nanotecnologia, ecc.

Tuttavia, secondo questo trio di autori, “la tecnologia guiderà la politica e la strategia in modi senza precedenti”. Non a caso, citano come esempio gli Stati Uniti, dove nel 2018 è stato istituito dal Pentagono un Joint Artificial Intelligence Center (JAIC: Joint Artificial Intelligence Center), sulla base della National Defense Strategy (NDS: National Defense Strategy) di lo stesso anno. Per l’NDS, l’ambiente di sicurezza sempre più complesso è definito, in primo luogo, dal rapido ritmo del cambiamento tecnologico che altererà il carattere della guerra. Il documento elenca sinteticamente le tecnologie in questione: informatica avanzata, “big data”, intelligenza artificiale, autonomia, robotizzazione, ipersonica, biotecnologia e armi ad energia diretta. La persona responsabile di quest’area al Pentagono,

La logica americana è sempre stata chiara: non potendo prevedere il futuro o le minacce future, il modo migliore per premunirsi contro ogni eventualità è garantire, su base costante, una superiorità tecnologica, se possibile “schiacciante”. Nonostante le poche voci di dissenso qua e là, l’accordo su questo punto è, come si suol dire, bipartisan. L’ultima incarnazione di questo approccio è la cosiddetta Third Offset Strategy, lanciata sotto l’amministrazione Obama e da allora perseguita senza sosta. Come riassunto in un rapporto dell’Assemblea Parlamentare della NATO sull’argomento, “la Terza Strategia di Compensazione è in definitiva quella di preservare e aumentare la supremazia tecnologica americana” ( 2). Con il notevole vantaggio che oltre ad irrigare decine di miliardi di dollari di commesse pubbliche del tradizionale complesso militare-industriale, prevede esplicitamente un’ampia collaborazione con aziende private che non hanno alcun legame con la difesa, Silicon Valley guarda caso.

Di fronte a tanta determinazione e slancio, gli europei non mostrano né lo stesso entusiasmo né lo stesso impegno. Il suddetto rapporto osserva: “Alcuni alleati temono che la Terza strategia di offset ponga troppa enfasi su soluzioni tecnologiche avanzate progettate per ambienti operativi specifici in cui gli alleati europei non sarebbero attualmente in grado o disposti a intervenire”. Di qui le varie e varie ingiunzioni. I tre autori di “The Future War” avvertono: “Hyperwar sta arrivando in Europa, spinto non dagli europei, ma dal cambiamento tecnologico in corso negli Stati Uniti, in Cina e in Russia. Se gli europei non si comportano di conseguenza, potrebbero “trovarsi di fronte a una nuova Pearl Harbor”.3 )”. Solo che in Europa, questa volta, c’è riluttanza. E non sono estranei a certe esperienze recenti.

Ritorno della RAM, in modalità turbo: strumento di manutenzione sotto la tutela degli alleati

Dalla prima guerra del Golfo si cominciò a parlare di “rivoluzione” per designare i cambiamenti apportati nell’arte della guerra dall’uso massiccio delle tecnologie informatiche. Oggi si annuncia un salto qualitativo ancora più decisivo: nuove tecnologie emergenti e dirompenti dovrebbero accelerare ancora di più, in proporzioni “sovrumane”, il ritmo della guerra, anche – perché, in parte, di questa velocità – escludere completamente l’umano essere, a lungo termine. Va notato che questa riedizione, in meglio, della RAM arriva in un momento di crescenti rivalità tra grandi potenze. La posta in gioco è quindi molto più alta che nell’era relativamente spensierata degli anni ’90, quando l’aspetto geopolitico della RAM era più preoccupato del suo impatto sugli equilibri di potere all’interno del mondo occidentale.

Uno dei progettisti della RAM, e vicepresidente del Joint Chiefs of Staff, l’ammiraglio William A. Owens, lo scrive nero su bianco: la corsa alle nuove tecnologie è un nuovo modo di perpetuare la “leadership americana nell’Alleanza” . Nel suo libro Alto mare, pubblicato nel 1995, sviluppa l’idea secondo la quale “la superiorità americana in questi campi può darci lo stesso tipo di influenza politica che abbiamo avuto in passato grazie alle nostre capacità nucleari. In quanto superpotenza nucleare occidentale, gli Stati Uniti godevano di un’autorità preminente all’interno della NATO per organizzare e dirigere le difese dell’Europa occidentale. Per l’ammiraglio, la scomparsa dell’Urss ha svalutato questa leva nucleare, con il corollario “il crollo dell’argomento a favore del dominio americano nell’Alleanza e, per estensione, quello dell’influenza degli Stati Uniti negli affari europei. Per preservare la nostra influenza con i nostri alleati, dobbiamo trovare un sostituto dell’ombrello nucleare”.

Con la promozione delle nuove tecnologie digitali nello spazio militare, la soluzione è stata trovata. Secondo l’ammiraglio Owens, gli Stati Uniti possono “stabilire una nuova relazione [con i suoi alleati] basata sul progresso tecnologico americano nei settori del C3I, della sorveglianza e dell’acquisizione di bersagli e delle armi a guida di precisione. Questi strumenti offrono un margine di superiorità e sono attraenti per tutte le nazioni, ma sono molto costosi da sviluppare; [per gli europei, che vogliono] trarne vantaggio senza doverne sostenere i costi, lavorare a fianco degli Stati Uniti diventa un’opzione allettante. L’America avrebbe quindi voce in capitolo su ciò che fanno con le loro forze armate”.

Tra i tanti svantaggi, da parte europea, di tale dipendenza (come l’insicurezza dell’approvvigionamento o il prosciugamento della base di difesa industriale e tecnologica), ne citiamo qui solo uno, quello che riguarda direttamente l’operatività delle forze armate attrezzo. Tenere il ritmo imposto dal tecnologismo americano comporta, per gli alleati, spese colossali e comporta, di conseguenza, una riduzione del numero dei mezzi. Possono rimediare a ciò in due modi, optando per la specializzazione o accettando il formato di un esercito campione. In entrambi i casi, diventano incapaci di fare la guerra in modo indipendente. Finirebbero, come dice questo monito rivolto agli inglesi da Raymond Odierno, comandante dell’esercito americano, “combattendo non ‘accanto’,

Hubris tecnologica, eminentemente controproducente

RAM, inoltre, ha già evidenziato due punti deboli che non potranno che aumentare con gli scenari di tipo “hyperwar”. Queste sono le vulnerabilità intrinseche dell’eccessiva digitalizzazione (come evidenziato dall’aumento degli attacchi informatici) e la mancata corrispondenza con gli obiettivi politici (illustrati in modo lampante in Iraq, Libia, Afghanistan). Nel 2017, il Defense Science Board del Pentagono ha osservato che praticamente nessun sistema d’arma in servizio negli Stati Uniti era immune da un attacco informatico. L’apparato militare americano è sia il più digitalizzato che, non essendo questo nuovo, il più vulnerabile. Un rapporto della Brookings Institution, dedicato all’evoluzione della tecnologia militare 2020-2040, riassume la situazione: “Gli eserciti moderni hanno effettivamente messo i talloni d’Achille in tutto ciò che usano, creando enormi opportunità per i loro nemici. (4 )”

La scommessa americana su tutto ciò che è tecnologico va di pari passo, infatti, con una cronica incapacità di vincere le guerre. Il generale Vincent Desportes discute questo argomento nel suo libro L’ultima battaglia di Francia “La tecnologia è solo una dimensione dell’efficacia strategica. Gli armamenti vanno ovviamente considerati in termini dei loro effetti militari, ma soprattutto della loro capacità di partecipare utilmente al raggiungimento dell’effetto politico desiderato. Il minimo che si possa dire è che durante i conflitti degli ultimi trent’anni, questa efficienza e questa capacità della tecnologia all’americana non sono state dimostrate. Un recente rapporto del Parlamento europeo invita anche alla prudenza di fronte a “l’eccessivo affidamento sui sistemi tecnologici dovuto a percezioni eccessivamente ottimistiche dell’efficacia delle soluzioni tecnologiche a problemi politici complessi”. Resta il fatto che, sempre secondo questo rapporto,5 ).

Insidie ​​e sfide in Europa: dipendenze di rete

Di fronte alla prospettiva di tecnologie dirompenti, gli europei non possono più nascondersi: i rischi di dipendenza e vulnerabilità aumentano con il cambiamento rappresentato dal 5G, dalla robotizzazione avanzata, dall’intelligenza artificiale o dalla tecnologia quantistica. La sovraesposizione delle nostre aziende e dei nostri dispositivi militari sta aumentando esponenzialmente. E questo, anche se la chiusura del sistema prescelto – sovrano o sotto controllo straniero – diventa quasi completa.

Un assaggio di ciò che potrebbe attendere gli europei in questa logica di iperconnettività è offerto dal sistema informatico di supporto logistico ai velivoli F-35, compresi quelli acquistati da partner o clienti esteri, denominato Autonomic Logistics Information System, e meglio conosciuto come ALIS. È stato progettato per affrontare il problema insito negli aerei militari all’avanguardia, vale a dire costi di manutenzione esorbitanti e tassi di disponibilità ridotti. Per fare ciò, ALIS invia continuamente informazioni sullo stato del velivolo, tutti i dettagli tecnici, inclusi piani di volo, profili di missione, dati di comunicazione e immagini video, al produttore Lockheed Martin, quindi negli Stati Uniti. Se l’obiettivo era facilitare la manutenzione dei dispositivi, è chiaro che è mancato. Secondo un rapporto della Corte dei conti americana, i suoi malfunzionamenti causano più di 45.000 ore di attività aggiuntive all’anno per un’unità dell’aeronautica. Il segretario dell’aeronautica americana ha anche scherzato, dicendo:

La situazione è infinitamente più problematica per gli acquirenti stranieri. Si trovano in un sistema altamente inefficiente, sul quale non hanno alcun controllo e nessuna speranza di staccarsene. Un eccellente specialista dell’F-35, l’americano Bill Sweetman, ha osservato nel 2009 che era “difficile vedere come l’aereo potesse operare senza il supporto americano diretto e costante”, dato che “senza accesso all’ALIS, il dispositivo sarà rapidamente messo a terra. Inoltre, questo accesso comporta il continuo trasferimento di informazioni altamente sensibili, i cosiddetti dati sovrani, verso gli Stati Uniti e Lockheed Martin. Italia, Australia e Norvegia non sono riuscite a trovare soluzioni che avrebbero permesso loro di tenere per sé le proprie informazioni, e nemmeno la soluzione collettiva tramite Lockheed Martin (finanziata per 26 milioni di dollari, direttamente dai partner) ha portato i risultati sperati. L’SDM (Sovereign Data Management) progettato successivamente in aggiunta ad ALIS è sempre basato sulla fiducia, ovvero il cliente non ha la certezza che il filtraggio tra i dati che possono essere trasmessi o meno sarà realmente effettuato secondo le sue aspettative. Quest’ultima, inoltre, dispone ancora di poche ore di “volo libero” prima che l’aeromobile sia obbligato a ricollegarsi ad ALIS per continuare ad operare. vale a dire che il cliente non ha la certezza che il filtraggio tra dati trasferibili o meno sarà effettivamente effettuato secondo le sue aspettative. Quest’ultima, inoltre, dispone ancora di poche ore di “volo libero” prima che l’aeromobile sia obbligato a ricollegarsi ad ALIS per continuare ad operare. vale a dire che il cliente non ha la certezza che il filtraggio tra dati trasferibili o meno sarà effettivamente effettuato secondo le sue aspettative. Quest’ultima, inoltre, dispone ancora di poche ore di “volo libero” prima che l’aeromobile sia obbligato a ricollegarsi ad ALIS per continuare ad operare.

L’architettura JEDI (o chi le succederà) è ALIS alla potenza di dieci. La nuvola di guerra) immaginato dal Pentagono e la cui realizzazione è stata affidata a Microsoft si è presentato come la soluzione perfetta. Certo, questa Joint Enterprise Defense Infrastructure – che avrebbe gestito il cloud computing di tutto l’esercito americano, tutti i servizi e le agenzie messi insieme – è stata appena cancellata per ragioni interne, ma il concetto di un’interconnettività sempre più avanzata e sempre più avvolgente, rimane il corso. L’ottimo analista britannico Paul Cornish non ha sbagliato quando ha scritto: “JEDI è vitale non solo per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, ma anche per garantire che la rete informativa strategica dell’Occidente sia il più coerente e decisiva possibile”. Qualunque forma prenderà la sua successione, riapparirà la nota ingiunzione:

Orologio tiepido per l’UE

Stretto tra, da un lato, la sua dipendenza militare dagli Stati Uniti (ma anche dai colossi digitali americani, il famoso GAFAM per il quale non ha equivalenti) e, dall’altro, la sua esposizione alla Russia (nel campo della cyber ) e la pressione cinese (in termini di infrastrutture di telecomunicazioni, in particolare reti 5G), l’Europa è più una facile preda che una potenza “geopolitica” in divenire. In questo contesto, la Commissione di Bruxelles mostra un volontarismo indiscutibile, raramente visto da parte sua. Nel suo ultimo discorso sullo “Stato dell’Unione”, nel settembre 2021, la presidente Ursula von der Leyen ha affermato: “Il digitale è la questione decisiva”. Non “un”, ma “le”: si noti l’articolo determinativo (lo stesso nel testo inglese: “the”problema decisivo ). E sottolinea: “Non si tratta solo di competitività, ma anche di sovranità tecnologica”.

Le sue osservazioni sono in linea con una moltitudine di iniziative intraprese negli ultimi tre anni. Che si tratti di costituzione di alleanze industriali (per semiconduttori e tecnologie cloud), di proposte legislative (sulla governance dei dati, o sull’AI), di meccanismi di screening per gli investimenti esteri o dell’ennesima spinta di bilancio (almeno il 20% del recovery plan deve essere dedicato allo sviluppo digitale), l’intenzione della Commissione è chiara. Il commissario Thierry Breton difende, con un certo successo, il punto di vista della “sovranità”. Avverte costantemente che “la padronanza della tecnologia è al centro del nuovo ordine geopolitico”. Il Consiglio Atlantico non si sbaglia: uno dei suoi ultimi rapporti rileva che l’ambizione europea della “sovranità digitale” suscita, da parte americana, le stesse preoccupazioni del concetto di autonomia strategica. Rileviamo lo stesso desiderio di non dipendenza, persino di emancipazione. È chiaro che, in effetti, siamo lontani dal segno.

Non appena si tratta degli elementi costitutivi essenziali che darebbero sostanza a questa sovranità digitale, vale a dire le tecnologie chiave e le infrastrutture critiche, riaffiorano le tensioni degli Stati membri, e lì ritroviamo le solite prime linee. Le conclusioni del Consiglio europeo dell’ottobre 2020, relative alla politica industriale e alla dimensione digitale, parlano certamente di “riduzione delle dipendenze” e di “autonomia strategica”, ma la formulazione contorta la dice lunga sulla strada che resta da percorrere. “Il raggiungimento dell’autonomia strategica preservando un’economia aperta è un obiettivo chiave dell’Unione”. Detto così, il requisito dell’autonomia ne esce diluito e prevale l’imperativo dell’apertura. Nel gennaio 2021, dodici Stati membri hanno pubblicato una lettera aperta per sottolineare questo punto:

Sulle iniziative concrete, riaffiorano le stesse divisioni tra gli Stati membri, intorno alla distinzione tra dichiarata ambizione di autonomia e atti di reale autonomia. Diciannove paesi dell’UE si sono formalmente opposti all’iniziativa della Commissione sulla ricerca quantistica, perché vogliono che aziende e Stati stranieri possano partecipare a questo programma altamente strategico (finanziato con fondi pubblici e finalizzato, in linea di principio, all’autonomia strategica). Sul cloud Gaia-X, il supercomputer che supera la soglia dell’exaflop, equivalente a un miliardo di miliardi di operazioni al secondo, o anche sulle alleanze industriali, è sempre la solita storia: per la maggior parte dei partecipanti, oltre alla Francia, l’apertura (ovvero l’accesso concesso a partner stranieri, in particolare americani) prevale su considerazioni di non dipendenza e, di conseguenza, distorce i progetti. Tuttavia, senza questi “mattoni” critici, è impossibile costruire un ecosistema digitale fidato che permetta di garantire, in completa autonomia, il funzionamento delle nostre società e dispositivi militari sempre più digitalizzati.

Fatalità autoinflitta?

Non servono quindi scenari tipo “iperguerra” perché la questione digitale sia cruciale. Secondo il Ministro delle Forze Armate, Florence Parly, “la tecnologia digitale è ovunque nella nostra vita quotidiana. Il Ministero delle Forze Armate non fa eccezione, nelle sue fregate, nei suoi aerei, nei suoi veicoli corazzati sempre più imbottiti di microprocessori, chip o software. Le nostre comunicazioni si basano su reti digitalizzate”. Precisando che «questa realtà sarà moltiplicata per un fattore 50 o 100 in futuro». Certamente. Tuttavia, come ha affermato il generale Thierry Burkhard, capo di stato maggiore della difesa: “Sì, dobbiamo mantenere una certa superiorità tecnologica, ma se si tratta di avere una F1 efficace solo su un circuito con una scuderia intorno, è un’esca . Quindi non lasciarti trasportare dall’altissima tecnologia. I nostri sistemi d’arma devono essere sempre relativamente resistenti e stabili e, inoltre, devono essere in grado di operare in modalità degradata (6 )”. Un recente rapporto del Senato riprende da solo questo ragionamento e aggiunge altri due criteri: a costi contenuti e senza grosse dipendenze nei confronti del mondo esterno ( 7 ) .

Tuttavia, l’insistenza su un’eccessiva tecnologizzazione accelerata rischia di dirottare i bilanci europei a favore di ipotesi provenienti da culture strategiche e considerazioni economiche a loro estranee ea scapito degli investimenti in un ecosistema digitale veramente autonomo. Non è un caso che la maggior parte delle iniziative nel settore digitale, come negli armamenti in generale, inciampi sul tema della non dipendenza. Non dobbiamo solo trovare, come dice il generale Vincent Desportes, “la tecnologia giusta”, ma anche i partner giusti. In questo ambito, descritto dall’ex direttore dell’ANSII [Agenzia nazionale per la sicurezza dei sistemi informativi] Patrick Pailloux come “la sovranità della sovranità”, stare al sicuro da ogni pressione e ricatto è l’unica bussola rilevante. È chiaro che non è quello scelto il più delle volte dai partner europei della Francia.

Parlando dell’industria degli armamenti, il presidente Macron ha spiegato nel 2020: “L’autonomia è avere l’attrezzatura giusta ed essere sicuri che questa attrezzatura non dipenda da altri poteri. E quindi, non acquistare attrezzature che possono appartenere ai nostri alleati, ma che non sono sempre, in un certo senso, co-decisori di ciò che vogliamo fare. Se vogliamo una vera autonomia militare, vogliamo poter agire con gli americani ogni volta che lo decidiamo. Ma vogliamo anche poter agire anche quando non siamo d’accordo con gli americani su un argomento. E quindi, non vogliamo dipendere da loro. Ciò presuppone avere una vera industria della difesa per evitare che gli americani ci dicano, il giorno in cui interverremo in questa o quell’operazione, “no, no, no, con questo equipaggiamento che è mio,8 )”. Solo che è necessario andare fino in fondo a questa logica. In particolare per quanto riguarda l’uso della cooperazione europea per un ecosistema digitale. Intraprendere rapporti di interdipendenza con partner che si condannano – con il pretesto di rimanere “aperti” – a dipendere da qualsiasi terzo è lo stesso che accettare questa dipendenza. Con, di conseguenza, la definitiva perdita di alternative. A quel punto, qualsiasi pensiero indipendente sul futuro della guerra diventerebbe irrilevante, con gli europei che non avrebbero altra scelta che seguire l’esempio.

Giudizi

( 1 ) J. R. Allen, F. B. Hodges e J. Lindley-French, Future War and the Defence of Europe , Oxford University Press, 2021.

( 2 ) “Maintaining NATO’s Technological Edge: Strategic Adaptation and Defence Research and Development”, Report of the NATO Parliamentary Assembly, di Thomas Marino (Stati Uniti), settembre 2017.

( 3 ) “NATO 2030: Uniti per una nuova era”, analisi e raccomandazioni della Task Force istituita dal Segretario Generale della NATO, novembre 2020.

( 4 ) Michael E. O’Hanlon, Forecasting change in military technology, 2020-2040 , The Brookings Institution, settembre 2018.

( 5 ) “Innovative technologies shaping the 2040 battlefield, EPRS”, Servizio di ricerca del Parlamento europeo, agosto 2021.

( 6 ) Intervista al Generale Thierry Burkhard, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, La Tribune , 18 marzo 2021.

( 7 ) “Nagorno-Karabakh: dieci lezioni da un conflitto che ci riguarda”, rapporto di informazione (O. Cigliotti e M.-A. Carlotti), Commissione Affari Esteri, Difesa e Forze Armate del Senato, 7 luglio 2021.

( 8 ) Osservazioni del presidente Emmanuel Macron al dibattito dei cittadini con la cancelliera Angela Merkel, Aquisgrana, 22 gennaio 2020.

Didascalia della foto in prima pagina: Il termine “hyperwar” descrive un nuovo paradigma bellico, costruito attorno a nuove tecnologie dirompenti, come l’intelligenza artificiale. ©USAF

https://www.deftech.news/2021/12/08/hyperguerre-leurre-ou-fatalite-pour-leurope/

L’INFLAZIONE NEL CONFLITTO STRATEGICO DELLA FASE MULTICENTRICA, a cura di Luigi Longo

L’INFLAZIONE NEL CONFLITTO STRATEGICO DELLA FASE MULTICENTRICA

a cura di Luigi Longo

 

1.Lo scritto di Megas Alexandros (alias Fabio Bonciani), pubblicato sul sito www.comedonchisciotte.org del 6/12/2022 con il titolo Il controllo dell’inflazione per la BCE viene prima della pace fra i popoli, del quale invito alla lettura, pone il problema del controllo dell’inflazione nella società cosiddetta capitalistica (si continua a definirla così per mancanza di ricerca e di studi).

Dico subito che non condivido né il privilegiare l’aspetto monetaristico né il campo teorico di posizionamento della Modern MonetaryTheory (per una introduzione della citata teoria si rimanda al sito www.mmtitalia.info); ne sottolineo però il merito nel trattare la questione dell’inflazione ad un livello interessante e non banale, come fa, invece, la vulgata maistream dei grandi esperti economisti (di destra, di centro e di sinistra, per chi crede ancora a queste ideologiche divisioni che nella storia passata – a partire dal 1789 della rivoluzione francese – avevano un senso forte e fondato in Europa (Costanzo Preve, Destra e sinistra. La natura inservibile di due categorie tradizionali, Editrice C.R.T., Pistoia, 1998), ma oggi diventa stupido (nell’accezione dello storico Carlo Maria Cipolla) attardarsi ancora su queste mistificazioni sistemiche. Giorgio Gaber questa pantomima l’aveva risolta nel 1995-1996! (Album musicale E Pensare Che C’era Il Pensiero). Per non parlare dei lavori di Gianfranco La Grassa e di Costanzo Preve (per esempio, Il teatro dell’assurdo. Cronaca e storia dei recenti avvenimenti italiani, Edizioni Punto Rosso, Milano, 1995).

Riporto una lunga frase dall’articolo di Megas Alexandros che mi permette di avanzare alcune riflessioni che considerano l’inflazione come un processo di distribuzione di risorse finanziarie-monetarie a) tra i gruppi sociali che configurano il popolo, b) tra le varie sfere (economica, sociale, finanziaria, istituzionali, eccetera) che compongono l’intera società e i relativi rapporti sociali storicamente dati, c) tra i mutamenti dei prezzi relativi come espressione del conflitto tra gli agenti strategici, d) tra gli agenti strategici per l’appropriazione delle risorse finanziarie-monetarie come strumenti di lotta per il potere e il dominio, e) tra gli agenti strategici per il controllo dello strumento Stato (con le sue articolazioni istituzionali e territoriali) per realizzare la loro idea di vita e di rapporto sociale (con la strategia, la gestione e la esecuzione) nella società storicamente data, la cui realizzazione è espressione di egemonia di dominio e non di potere (per approfondimenti si rimanda, nonostante la lettura prevalentemente economica, sia al vecchio e ottimo articolo di Jacob Morris, La crisi da inflazione in Monthly Review n.10/1973 sia al vecchio e ottimo libro di Roberto Convenevole, Processo inflazionistico e redistribuzione del reddito, Einaudi, Torino, 1977).

La lunga frase è: Mentre pare abbastanza chiaro che in caso di inflazione da eccesso di domanda in pieno boom economico, dove la gente si ritrova ad avere molti più soldi rispetto ai prodotti da acquistare, il governo debba immediatamente procedere a raffreddare l’economia attraverso politiche fiscali restrittive. Quello che invece oggi a molti non è chiaro, è come si debba affrontare il fenomeno inflattivo in corso di matrice esogena, scatenato da una vera e propria azione speculativa nel settore pressoché monopolistico dell’energia. Fenomeno che per molti paesi come il nostro, la cui economia versa in stato recessivo, assume i contorni ancora più drammatici della stagflazione.

Anche in questo caso è chiaro che il fenomeno ha origine dalla mancata azione dei governi, che rinunciano volutamente a porre un freno all’azione di chi gestisce nel paese in regime di monopolio il suddetto settore. Basterebbe che il governo imponesse un tetto al prezzo di rivendita all’interno del paese stesso (e non al produttore come desidera Mario Draghi) ed il fenomeno sarebbe già sotto controllo. Perché come ben sappiamo, il problema energetico non è alla fonte, ovvero non manca la materia prima o chi ce la fornisce, ma i nostri governi compiacenti hanno messo in mano le nostre vite ai diavoli della finanza speculativa, consentendo loro di fare il prezzo del gas in base alle loro scommesse e di conseguenza, alle compagnie energetiche di conseguire profitti colossali succhiando il sangue delle famiglie e delle imprese che vivono nel nostro sistema economico.

Il monopolista della moneta, in extrema ratio, per salvare il proprio sistema economico e la propria gente, sarebbe persino in grado di operare all’interno delle propria politica fiscale, nella direzione di una totale nazionalizzazione di un settore vitale come è appunto quello dell’energia. Ed addirittura fornire energia al proprio popolo sottocosto o a costo zero, qualora la situazione lo richiederebbe.

Le riflessioni che avanzo che considerano l’inflazione come un processo di appropriazione e di spostamento di risorse finanziarie-monetarie tra gli agenti strategici e tra i gruppi sociali che costituiscono il popolo sono le seguenti:

1.Il denaro è l’espressione di un rapporto sociale, “la sua funzione specificatamente sociale, e quindi il suo monopolio sociale, diventa quello di rappresentare la parte dell’equivalente generale entro il mondo delle mercie segue la logica dell’appropriazione del capitale: “Se il denaro, come dice l’Augier, <<viene al mondo con una voglia di sangue in faccia>>, il capitale viene al mondo grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro” (Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, Libro primo, 1975, pp. 84-85 e pag. 934). Voglio dire che il denaro (comprensivo di tutti gli strumenti finanziari-monetari) è lo strumento del potere e del dominio, il simbolico sociale, che gli agenti strategici accumulano in maniera diversa nelle diverse sfere sociali (economica, finanziaria, politica, culturale, eccetera) per il conflitto finalizzato all’egemonia nella società: il detto siciliano u comannari è megghiu du futtiri racchiude bene il significato profondo del potere.

2.L’importanza delle risorse energetiche nel ciclo economico e nelle strategie geopolitiche nella fase multicentrica: i) l’aumento dei prezzi ha diverse sfaccettature (economiche, finanziarie, politiche, geopolitiche, geografiche e territoriali) che non possono essere ridotte alla sfera finanziario-monetaria (sia pure importante se letta come strumento di conflitto tra agenti strategici) ma al conflitto tra nazioni-potenze per l’egemonia mondiale, ii) l’aumento dei prezzi delle risorse energetiche che hanno dato il peso specifico nel processo inflazionistico non è dato solo dalla speculazione della borsa di Amsterdam (Domenico De Simone, Il Price cap e le facce di tolla, www.sinistrainrete.info ,11/9/2022), ma va visto come una accelerazione strumentale di riconversione economica verso l’uso delle fonti rinnovabili e la chiusura dell’uso delle fonti fossili (il processo di transizione ecologica) ben sapendo che le fonti rinnovabili non sono mature e competitive (nella logica del modo di produzione capitalistico!) e necessitano di una lunga fase di transizione basata ancora sulle fonti fossili classiche (soprattutto il gas naturale): qui si inserisce la stupidità e la servitù europea nell’agevolare il gas naturale liquefatto (GNL) statunitense (la cosiddetta “rivoluzione dello shale” ovvero l’innovazione tecnologica che ha permesso lo sfruttamento con profitto dei giacimenti di idrocarburi contenuti nelle rocce di scisto prodotto con tecniche di distruzione ambientale oltre ad essere il suo utilizzo di difficile e pericolosa gestione sul territorio) a scapito di quello naturale russo, che è più economico, a causa delle strategie di aggressione statunitense, via Nato-Ucraina, alla Russia; iii) il velare il fatto che il sistema, a modo di produzione capitalistico, userà, fino a quando le merci energetiche saranno competitive, le fonti fossili storiche (carbone, petrolio, gas) così come sta avvenendo ora da parte di tutti i Paesi che si adoperano (sic) per la transizione ecologica basata sulle fonti di energie rinnovabili.

  1. L’attacco degli Usa (potenza in relativo declino) alla Russia e alla Cina (potenze in ascesa) con: il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream (1 e 2); le stupide sanzioni alla Russia che hanno finito per massacrare l’economia europea invece di assestare un duro colpo all’economia russa così come si era raccontato da parte Usa; il sabotaggio del grande progetto cinese, di respiro mondiale, delle Vie della Seta; la preparazione dei dazi sulle merci cinesi in particolare acciaio e alluminio; la guerra Nato-Ucraina per indebolire e accerchiare definitivamente il territorio russo e la sua area di influenza; le strategie statunitensi nell’oceano Indo-pacifico per contrastare l’espansione cinese; la disgregazione finale dell’Unione Europea con la crisi economica (e non solo) che si prospetta a seguito della sua servitù volontaria alle strategie statunitensi nel contrastare e isolare la Russia.

 

I processi su menzionati sono innervati e trovano fondamento nel conflitto strategico tra le potenze, con i relativi centri che si andranno a consolidare o a costituire in nuovi poli nella fase multicentrica, ed hanno ricadute differenti nei vari Paesi per le peculiarità storiche diverse.

In conclusione per capire il ruolo dell’inflazione bisogna partire (cito dalla recensione a mò di premessa di Augusto Graziani al libro di Roberto Convenevole succitato) << […] dalla concezione del processo economico come processo ciclico […] l’inflazione ha una funzione specifica da svolgere nel meccanismo capitalistico, che è quella di alterare i prezzi relativi; lungi dall’essere un puro fenomeno nominale, essa assolve alla funzione delicata di redistribuire ricchezze e potere da un gruppo all’altro (mio grassetto, LL). Per l’analisi di questo punto fondamentale, Convenevole utilizza la distinzione marxiana tra fase della produzione e fase della circolazione (mio grassetto, LL). Ogni fase va analizzata separatamente nei suoi rapporti con l’inflazione. Nella fase della produzione […] i prezzi che contano sono da un lato i salari, che rappresentano il costo di produzione, dall’altro i prezzi all’ingrosso delle merci vendute […] Nella fase della circolazione […] i prezzi che contano sono da un lato i prezzi all’ingrosso delle merci […] e dall’altro i prezzi di rivendita al dettaglio. Infine, sempre nella fase della circolazione, i lavoratori impiegano il proprio reddito per l’acquisto di beni finiti; qui, i prezzi che contano sono i salari da un lato, i prezzi al consumo dall’altro. […] L’analisi dei prezzi relativi consente di stabilire in che misura l’inflazione effettui una redistribuzione del reddito, e come di conseguenza essa non sia mai neutrale. La mancanza di neutralità discende direttamente dal modo in cui il meccanismo capitalistico funziona, e per rendersene conto non occorre invocare i complicati alambicchi della moneta interna ed esterna, e dei loro rapporti quantitativi reciproci. E, quel che più conta, gli effetti redistributivi dell’inflazione non appaiono nemmeno come risultato di attriti casuali o di imperfezioni del mercato, bensì come fattori sistemici, insiti nel meccanismo capitalistico. (grassetto mio, LL) >> (pp. XLIX-L).

 

 

 

IL CONTROLLO DELL’INFLAZIONE PER LA BCE VIENE PRIMA DELLA PACE FRA I POPOLI

di Megas Alexandros (alias Fabio Bonciani)

 

L’articolo 2 dello Statuto del Sistema di Banche Centrali e della Banca Centrale Europea (SEBC), solleva da ogni responsabilità chi presiede l’Istituto centrale di Francoforte, nel perseguire la pace e la prosperità dei popoli, ponendo l’obbiettivo del mantenimento della stabilità dei prezzi addirittura al di sopra della vita delle persone.

“Il diavolo si nasconde nei dettagli”, recita un antico proverbio – ed è proprio andando a scovare ed analizzare i dettagli, su cui è stato costruito il progetto predatorio di quella che è oggi l’Unione Europea – ideato dalle élite globaliste – che ritroviamo distintamente lo spirito “diabolico” che giusto appunto, ha caratterizzato l’idea di unire i popoli europei. Una unione monetaria presentata ai popoli stessi, dai suoi più che interessati ideatori, lastricando di marmo le strade per quello che oggi ci appare sempre più chiaro, come l’inferno più profondo.

Il tema dell’inflazione e tutto quello che ad esso gira intorno e che oggi influenza in maniera determinante le nostre vite, è l’ennesima frode dottrinale con cui i poteri stanno manipolando la mente della gente comune, per non rendere loro chiara la verità su chi sono i veri responsabili delle immani sofferenze che stanno affrontando.

L’inflazione, un fenomeno che come vedremo è strettamente generato e connesso all’azione dell’uomo, il cui controllo, viene addirittura messo come obiettivo prioritario all’interno del mandato che i governi dei paesi membri – oggi di tutta evidenza non più di espressione democratica – hanno conferito alla Banca centrale europea.

Ovvero niente è più importante del controllo del livello dei prezzi; tanto da rendere norma scritta che l’agire di chi siede sulla poltrona di governatore a Francoforte, di fronte al comparire dell’inflazione, non debba essere caratterizzato dalla ben che minima pietà cristiana per le sofferenze, i fallimenti e le morti che incontri sulla strada del proprio mandato.

Mai parole più forti di quelle appena espresse, sono così giustificate nell’esporre quanto di deliberatamente delinquenziale, appare leggendo l’articolo 2 dello Statuto del Sistema di Banche Centrali e della Banca Centrale Europea (SEBC) – che recita:

Conformemente agli articoli 127, paragrafo 1 e 282, paragrafo 2, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, l’obiettivo principale del SEBC è il mantenimento della stabilità dei prezzi. Fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi, esso sostiene le politiche economiche generali dell’Unione al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione definiti nell’articolo 3 del trattato sull’Unione europea. Il SEBC agisce in conformità del principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza, favorendo un’efficace allocazione delle risorse, e rispettando i principi di cui all’articolo 119 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. [1]

Se avete letto bene: fatto salvo l’obbiettivo della stabilità dei prezzi, ovverosia dopo aver pensato all’inflazione, la BCE può anche pensare a sostenere le politiche economiche generali dell’Unione e per la precisione gli obbiettivi che vengono indicati nell’articolo 3 del trattato sull’Unione europea (TUE).

Bene, allora andiamo a vedere quali sono i principali obbiettivi, indicati appunto nel TUE [2], che per coloro che hanno ideato questa unione, vengono dopo il controllo dell’inflazione, nella scala delle loro priorità promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli; lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente;

il progresso scientifico e tecnologico; combattere l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuovere la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore.

Sì, avete compreso bene! tutti questi obbiettivi possono essere perseguiti, dal SEBC (e quindi dalla BCE), solo se non compromettono l’obiettivo di controllo dell’inflazione.

Perfino la guerra è consentita nel nome del “Dio inflazione”. E direi che il principio sia ampiamente rispettato, stante gli eventi che stiamo vivendo.

A questo punto, non ci rimane che andare a vivisezionare in ogni suo aspetto quello che rappresenta nella realtà il fenomeno dell’inflazione, visto che per molti ancora, inconsapevolmente rappresenta il terrore assoluto e per chi ci comanda addirittura una priorità da anteporre alla pace nel mondo.

Quando in economia si parla di inflazione, si indica l’aumento prolungato del livello medio generale dei prezzi di beni e servizi in un determinato periodo di tempo, che genera una diminuzione del potere di acquisto della moneta.

Intanto dobbiamo premettere che l’inflazione è un fenomeno strettamente collegato e connesso alla presenza nel mondo della moneta, senza la quale il fenomeno stesso non esisterebbe. E quindi, di conseguenza, il livello dei prezzi e quindi l’inflazione non può che essere deciso da colui che è il monopolista della moneta e che per logica spende per primo. [Al riguardo per chi fosse interessato ad approfondire consiglio la lettura dell’ultimo “framework” che Warren Mosler ha redatto in merito all’analisi del livello dei prezzi e dell’inflazione]

Sto parlando del governo di un paese che, nell’esercizio esclusivo della funzione di politica fiscale ad esso demandato, è fattualmente l’unico soggetto che può immettere la moneta nel sistema economico, attraverso la spesa pubblica. Di conseguenza pare chiaro che solo e soltanto attraverso l’azione dei governi si possa regolare tale fenomeno.

Anche se le cause che possono scatenare l’inflazione possono essere diverse, i rimedi devono essere sempre ricercati nella politica fiscale dei governi e non altrove. Sia che si tratti di inflazione da eccesso di domanda generata da circostanze endogene al paese, quale potrebbe essere un forte surriscaldamento dell’economia, dovuto ad una spesa eccessiva da parte del governo in condizioni di piena occupazione e di scarsità di risorse reali, sia che si tratti di inflazione da scarsità di offerta o proveniente da cause esogene quali il caro-prezzi energetico attuale, non esiste altro rimedio che correre ad aggiustare la politica fiscale da parte dei governi.

Mentre pare abbastanza chiaro che in caso di inflazione da eccesso di domanda in pieno boom economico, dove la gente si ritrova ad avere molti più soldi rispetto ai prodotti da acquistare, il governo debba immediatamente procedere a raffreddare l’economia attraverso politiche fiscali restrittive. Quello che invece oggi a molti non è chiaro, è come si debba affrontare il fenomeno inflattivo in corso di matrice esogena, scatenato da una vera e propria azione speculativa nel settore pressoché monopolistico dell’energia. Fenomeno che per molti paesi come il nostro, la cui economia versa in stato recessivo, assume i contorni ancora più drammatici della stagflazione.

Anche in questo caso è chiaro che il fenomeno ha origine dalla mancata azione dei governi, che rinunciano volutamente a porre un freno all’azione di chi gestisce nel paese in regime di monopolio il suddetto settore. Basterebbe che il governo imponesse un tetto al prezzo di rivendita all’interno del paese stesso (e non al produttore come desidera Mario Draghi) ed il fenomeno sarebbe già sotto controllo. Perché come ben sappiamo, il problema energetico non è alla fonte, ovvero non manca la materia prima o chi ce la fornisce, ma i nostri governi compiacenti hanno messo in mano le nostre vite ai diavoli della finanza speculativa, consentendo loro di fare il prezzo del gas in base alle loro scommesse e di conseguenza, alle compagnie energetiche di conseguire profitti colossali succhiando il sangue delle famiglie e delle imprese che vivono nel nostro sistema economico.

Il monopolista della moneta, in extrema ratio, per salvare il proprio sistema economico e la propria gente, sarebbe persino in grado di operare all’interno delle propria politica fiscale, nella direzione di una totale nazionalizzazione di un settore vitale come è appunto quello dell’energia. Ed addirittura fornire energia al proprio popolo sottocosto o a costo zero, qualora la situazione lo richiederebbe.

E dopo aver visto chi è il responsabile unico nel bene e nel male del fenomeno inflattivo ed accertato che lo stesso soggetto è colui che può facilmente gestire e regolare il fenomeno stesso, ditemi voi se esiste una sola ragione al mondo, eccetto che quella diabolica, di anteporre il controllo dei prezzi alla pace tra i popoli!

Se andiamo oltre nella nostra analisi, possiamo facilmente comprendere, che non solo viene data alla BCE questa “folle” priorità da anteporre su tutto e tutti, ma allo stesso tempo c’è la piena consapevolezza che la stessa sia impossibilitata a rispettare tale mandato, proprio perché priva di quello strumento essenziale che abbiamo visto essere la politica fiscale istituzionalmente demandata ai governi.

Più volte, nei miei articoli, ho evidenziato come le sole politiche monetarie delle banche centrali non abbiano la minima possibilità di far affluire moneta aggiuntiva all’interno del settore privato. Un esempio su tutti sono le famose operazioni di Quantitative easing, con le quali gli istituti centrali emettono moneta per acquistare titoli di stato dal settore privato. Un “partita di giro” che di fatto per banche e privati equivale a giro-contare i propri risparmi da un conto di deposito (titoli di stato) ad un conto di riserva (conto corrente) e niente aggiunge alla capacità di consumo da parte del settore.

Qualcuno potrebbe obiettare che le banche centrali possono aumentare la massa monetare all’interno dell’economia reale attraverso le operazioni di prestito al sistema bancario (i famosi programmi TLTRO), che a sua volta poi presterebbe ai privati. Sì, questo è vero, ma sul punto dobbiamo fare due essenziali considerazioni: primo che trattasi di prestiti e quindi “moneta credito” e secondo che il sistema bancario opera in modo ciclico all’interno del settore privato e con le medesime logiche di redditività; quindi presta solo e soltanto se è certo di avere indietro i propri soldi ed in una economia in stato recessivo, come abbiamo visto, le banche non prestano. Oltre al fatto che non possiamo avere la folle credenza e pretesa che l’economia possa svilupparsi eternamente in modo ciclico a debito. La stessa moneta credito esiste per logica, se a monte c’è stata una precedente creazione di riserve nette da parte della banca centrale, introdotte poi nel sistema economico dagli stati attraverso la spesa pubblica.

Lo stessa facoltà che viene conferita alle banche centrali di poter decidere i tassi di interesse, non serve a niente per fronteggiare i fenomeni inflattivi se non supportata dalla politica fiscale dei governi. Questo, al netto del fatto, che oltretutto molti banchieri centrali nel fronteggiare l’inflazione, sono usi ad interpretare la politica dei tassi al contrario. Ovvero, erroneamente alzano i tassi all’apparire dell’inflazione, come stanno facendo adesso, sia la Fed che la BCE. Cosa che di fatto contribuisce ad aggravare la situazione, soprattutto per quelle economie che si trovano ad affrontare il fenomeno in stato recessivo.

Pagare tassi più alti è di fatto una scelta di politica fiscale e non monetaria, che di per sé è una misura inflattiva, poiché aggiunge capacità di spesa nell’economia (si percepiscono maggiori interessi). Certo l’evolversi inflattivo di tale misura dipende dalla sua interconnessione con lo stato dell’economia del paese che l’adotta, da come è distribuito il risparmio e dalle altre misure di politica fiscale che il suo governo mette in atto.

Quindi ricapitoliamo, la BCE ha come obbiettivo primo ed assoluto il controllo del livello dei prezzi, ovvero fino alla fine del mondo dovrà combattere con ogni sua forza contro l’inflazione, anche se questo dovesse comportare la morte economica e fisica del pianeta. Insomma, usando una metafora, il Governatore della BCE, ha il diritto di gettare a mare ogni passeggero che trasporta pur di salvare una nave che si chiama inflazione. E nel seguire tale folle e delinquenziale mandato, è addirittura ben cosciente che non potrà mai raggiungerlo, proprio perché non ha gli strumenti per farlo.

Se non è diabolico questo, ditemi voi cosa altro lo è!

E che Satana potrebbe veramente aver preso dimora fissa in questa Europa, lo dimostra il fatto che gli Statuti di altre banche centrali, perfino del mondo occidentale (compresa la Fed), almeno, lasciano loro libere di decidere discrezionalmente se privilegiare l’obiettivo di controllo dell’inflazione o altri obiettivi, come l’incremento dell’occupazione e la crescita economica. [3]

 

Note:

[1] Wayback Machine (archive.org)

[2] Art. 3 Trattato sull’Unione europea — Europedirect (assemblea.emr.it)

[3] Banca centrale europea – Wikipedia

 

 

Squilibrio di poteri, ridondanza di poteri _ di Giacomo Gabellini

Il testo di Giacomo Gabellini centra magistralmente un aspetto peculiare che ha determinato le modalità di svolgimento dello scontro politico in Italia. I suoi argomenti, però, sollevano, non so quanto consapevolmente, sarà l’autore a confermarcelo, un tema ancora più generale e generalizzabile riguardante il riflesso della sovrapposizione di poteri sul funzionamento delle istituzioni e il loro ruolo peculiare nel plasmare le dinamiche del confronto politico, specie nelle sue fasi di scontro esasperato ed endemico. Un tema affrontato tra gli altri da Althusser e dai suoi epigoni, negli anni ’70/’80, sulla base soprattutto delle tesi sulla separazione dei poteri, esposte da Montesquieu e del modello interpretativo offerto dai sociologi strutturalisti. Althusser, ancor di più i suoi epigoni, trattando dello stato, in estrema sintesi, più che di separazione, parla di divisione dei poteri all’interno dello stato in una ripartizione codificata di ruoli e di funzioni. Quando in una situazione di crisi o di conflitto esasperato si avvia un processo di destabilizzazione, specie se protratta, di uno dei settori o dell’insieme di esso, accade che a questo vuoto sopperisce in qualche maniera l’azione invasiva e sostitutiva di uno o di altri centri di potere istituzionale, con gravi conseguenze e distorsioni legate alle particolari modalità di svolgimento dell’azione politica dettate dal ruolo e dalle funzioni delle figure destinate a sopperire. Proprio come è successo e sta ancora succedendo con l’interminabile fase di “Tangentopoli” in Italia. Tanto più che il ruolo dei procuratori e la particolare conformazione dell’ordinamento giudiziario in Italia, favorisce sino all’esasperazione la frammentazione e la capillarità e pervasività dell’azione di influenza e condizionamento di gruppi di pressione sin nei centri più periferici, riottosi ad ogni controllo centralizzato e gelosi delle proprie prerogative. Con questo non si vuol negare la frequenza e ricorrenza “occasionale” dell’azione e delle implicazioni politiche dell’azione giudiziaria, quanto sottolineare le conseguenze della sua azione eventualmente protratta nel tempo soprattutto nel ridefinire i pesi all’interno dei centri decisori e l’equilibrio tra le istituzioni. Prigionieri, fermi al loro retaggio marxista e strutturalista, espresso dalla funzione esplicativa della lotta di classe, ad essere precisi del suo mito, e dal gioco delle posizioni proprio dello strutturalismo, il contributo di Althusser, Balibar e Poulantzas si ferma qui, al suo aspetto fenomenologico; anche se non è poco. Dovrà emergere la teoria del conflitto-cooperazione politici tra centri decisori, propria del realismo politico e riemersa in Italia, in forma più compiuta, venti anni dopo con Gianfranco la Grassa, per arrivare ad una chiave interpretativa delle dinamiche politiche e socio-politiche meno deterministica e più comprensiva della complessità dei fattori e delle loro interrelazioni in opera. Buona lettura, Giuseppe Germinario
Osservato retrospettivamente, l’uso strumentale dell’avviso di garanzia recapitato nel 1994 a Silvio Berlusconi mentre presenziava in qualità di primo ministro al vertice internazionale di Napoli sulla criminalità organizzata (in conformità alle anticipazioni fornite al riguardo dal Corriere della Sera e alle pubbliche dichiarazioni pronunciate giorni prima dal coordinatore del pool milanese Francesco Saverio Borrelli) si configura in tutta evidenza come il primo di una lunga serie di “sconfinamenti” di cui si sarebbe resa protagonista nel corso degli anni successivi la magistratura italiana, titolare di privilegi ritenuti inconcepibili in tutte le altre democrazie occidentali. Il modello anglosassone, ad esempio, si incardina sui principi fondamentali della divisione delle carriere, della netta distinzione dei ruoli e della subordinazione dell’azione penale ai criteri oggettivi dell’impatto sociale dei reati e delle concrete chance di successo dell’indagine.
Pochi parametri ma estremamente precisi, a cui i procuratori sono costretti ad adeguare la propria linea d’azione coerentemente con la natura elettiva della loro carica. Ancor più rigoroso risulta il sistema francese, in cui i procuratori rispondono direttamente al Guardasigilli. In Italia, viceversa, i pubblici ministeri hanno il pieno controllo della polizia giudiziaria e beneficiano delle medesime garanzie e guarentigie riservate ai giudici giudicanti. Allo stesso tempo, i pubblici ministeri sono autorizzati ad imbastire rapporti con i giornalisti, specialmente con quelli disposti ad assicurare adeguata eco mediatica e “congrui” ritorni in termini di visibilità in cambio dell’accesso a intercettazioni telefoniche da pubblicare integralmente sulle pagine dei quotidiani. Comprese quelle coperte da segreto o prive di alcun legame con le indagini, qualora il loro contenuto risulti funzionale alle inchieste o alle inconfessabili mire personali del magistrato requirente (come screditare un indiziato con cui si ha qualche conto in sospeso ma di cui non si riesce ad accertare la colpevolezza).
Svincolate dai controlli tradizionali che in ogni sistema democratico disciplinano l’operato di qualsiasi forza istituzionale, le procure hanno acquisito di una gigantesca libertà di manovra, che tende non di rado a trasformarsi in puro e semplice arbitrio per effetto delle perverse implicazioni insite all’applicazione pratica del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. Il quale, lungi dall’assicurare l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, ha posto i magistrati nelle condizioni di indagare sul conto di chiunque, attraverso un’attività di ricerca preventiva alla notitia criminis mirata all’individuazione di eventuali comportamenti passibili di reato teoricamente allargabile alla totalità dei comportamenti e delle interazioni umane. Una vera e propria pesca a strascico, non di rado attuata con precise finalità politiche. Prova ne sono le conversazioni in cui Palamara richiamava l’attenzione dei suoi colleghi magistrati sulla necessità di mettere strumentalmente sotto inchiesta Matteo Salvini. L’obiettivo consisteva non nell’ottenerne la condanna, ma semplicemente nel sabotare l’ascesa politica dell’allora ministro dell’Interno costringendolo un lungo ed estenuante braccio di ferro giudiziario.
Il tono dei messaggi inviati da Palamara (al procuratore di Viterbo Paolo Auriemma che gli manifestava perplesso di non capire dove Salvini stesse sbagliando, Palamara rispose con un inequivocabile «hai ragione, ma bisogna attaccarlo») lascia trapelare uno spiccato senso di impunità, dovuto non tanto all’assenza di leggi che impongano una reale responsabilità civile dei magistrati, quanto alla consapevolezza di poter celare la reale natura di qualsiasi iniziativa investigativa – anche se disposta sulla base di motivazioni ideologiche e/o interessi personali – dietro il paravento dell’obbligatorietà dell’azione penale, specie dinnanzi a un ente di vigilanza egemonizzato dall’Anm come il Consiglio Superiore della Magistratura. Vale a dire un organismo composto per due terzi dai cosiddetti “togati” – cioè giudici eletti da tutti i magistrati – e pertanto animato al pari di tutti gli organi di autogoverno da uno spirito corporativo che lo rende strutturalmente propenso all’anteposizione dei principi dell’autoconservazione e dell’intangibilità dei propri membri a qualsiasi altro genere di considerazione. Lo si è visto proprio con la gestione dello scandalo sollevato dal “caso Palamara”, a cui il Csm ha reagito infliggendo la classica “pena esemplare” al magistrato specifico – la radiazione – senza riservare alcun genere di provvedimento agli altri componenti della “cupola”. Senza l’appoggio dei quali, ovviamente, Luca Palamara non sarebbe mai potuto passare agli annali come il più giovane presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, né entrare a far parte del Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo al cui interno si concordano nomine e bocciature sulla base dei rapporti di forza vigenti tra le varie correnti e non sulle reali capacità dei singoli candidati.
Da quando, negli anni ’60, il Csm cominciò a demolire i sistemi di valutazione professionale risalenti all’immediato dopoguerra – e tuttora vigenti in Paesi come la Francia e la Germania – per sostituirli con meccanismi semi-automatici di avanzamento basati sul criterio dell’anzianità, le prospettive di carriera sono venute a dipendere molto più dalla disponibilità a lasciarsi cooptare che non dal merito. L’assenza di graduatorie basate su criteri quanto più possibile oggettivi produce due effetti immediati e sinergici; per un verso, rende l’adesione a una corrente, a cui offrire “fedeltà” in cambio di appoggio politico, una specie di scelta obbligata per qualsiasi giovane magistrato dotato di un minimo di ambizione. Per l’altro, priva scientemente i membri laici del Csm degli elementi necessari alla valutazione dei candidati in lizza per una promozione, in modo da costringerli a rivolgersi ai consiglieri togati che non mancheranno a loro volta di suggerire i nomi degli appartenenti alla propria corrente.
Questa deriva “tribalista” imboccata dalla magistratura è andata peraltro accentuandosi a partire dall’entrata in vigore della riforma dell’ordinamento giudiziario del 2007. Introducendo un limite temporale per gli incarichi, la “legge Mastella” – che secondo Francesco Cossiga era stata scritta dall’allora Guardasigilli «sotto dettatura di quella associazione tra il sovversivo e lo stampo mafioso che è l’Associazione Nazionale Magistrati» – ha prodotto il risultato di inasprire ulteriormente il tono della competizione tra le varie correnti, rendendole ancora più interessate a piazzare propri “fedelissimi” nei ruoli più influenti. A partire dalle procure, perché in grado di esercitare una particolare influenza all’interno dell’Anm e, a ricasco, del Csm, e in quanto titolari delle prerogative necessarie per «attaccare la politica ogni qualvolta vengano proposti provvedimenti intesi a eliminare o ridurre privilegi non giustificati e a varare riforme sgradite. Specie se implicanti l’affermazione del principio della separazione delle carriere, o l’introduzione di meccanismi sanzionatori che puniscano abusi e inadeguatezze con sospensioni e, nei casi limite, perfino la destituzione dall’incarico.
Il profondo svilimento della giustizia derivante da una simile degenerazione tende inesorabilmente a tradursi sul piano pratico in devastanti contraccolpi sulla vita di milioni di cittadini, oltre a produrre pesantissime implicazioni di carattere sia economico che politico ravvisabili dalle decine e decine di procedimenti giudiziari che prima di rivelarsi destituiti di qualsiasi fondamento avevano mandato in rovina aziende floride, precluso candidature, provocato dimissioni di ministri e amministratori locali e persino causato la caduta di governi.
Un altro effetto, meno plateale ma parimenti deteriore, ascrivibile all’ipertrofia del potere giudiziario consiste nell’inchiodare l’azione politica e burocratica a una condizione di paralisi permanente, confinandola a una specie di immobilismo attendista a cui gli amministratori vanno sempre più frequentemente conformandosi in via precauzionale onde evitare di finire al centro di inchieste giudiziarie che, protraendosi per anni, tendono ad assorbire ingenti somme di denaro e ad accompagnarsi alle rituali richieste di sospensione dall’incarico che da temporanee divengono sovente definitive ed irrevocabili. Il pericolo è reso tanto più concreto non soltanto dalla natura stessa delle mansioni svolte da coloro che ricoprono cariche pubbliche, ma anche dalla vasta gamma di reati estremamente generici (come l’abuso d’ufficio) contemplati dal codice penale che, in presenza di un ordinamento caratterizzato dall’obbligatorietà dell’azione penale, pongono le procure nella posizione di avviare indagini sul conto di ogni amministratore sulla base di pseudo-indizi o semplici “voci di corridoio”, come ampiamente dimostrato dalle 19 assoluzioni consecutive inanellate da Antonio Bassolino.
Qualsiasi politico con un minimo di pelo sullo stomaco, osservava il compianto Marco Giaconi, è infatti perfettamente consapevole che «basta un articolo malizioso, una denuncia da parte di un teste falso ma ben pagato (le anticamere dei Palazzi di Giustizia pullulano di falsi testimoni a pagamento), i vari nemici politici, e si interrompe carriera, vita, dignità di un uomo prima votato da molti, anche se alla fine del procedimento verrà dichiarato innocente». Nel 2017, l’allora presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone ha riconosciuto che «la cosiddetta paura della firma viene anche utilizzata come alibi per non agire, ma non va sottovalutata: molti amministratori sono effettivamente bloccati nel loro operato perché temono di finire sotto inchiesta».
Di fatto, la magistratura si è imposta come principale forza inibitrice del Paese, in grado di paralizzare la società attraverso specifici provvedimenti o molto più semplicemente infondendo – non necessariamente in maniera volontaria – nelle cariche pubbliche una sorta di “timore reverenziale” che conduce o all’autocensura e conferisce un carattere strutturale all’interferenza indebita tra i principali corpi istituzionali dello Stato.
Da parte sua, la politica ha fatto di tutto per accentuare questa degenerazione, cullandosi nell’illusione di poter ovviare al proprio deficit di competenze e di legittimazione popolare affibbiando alla magistratura un ruolo di supplenza – se i legislatori vengono meno alle loro funzioni regolatorie, l’intervento compensatorio del potere giudiziario diviene inevitabile – che le permesso alle procure di assumere gradualmente il controllo effettivo di alcune nevralgiche leve del potere.
Innescato dalla cedevolezza mostrata della classe dirigente dinnanzi al fenomeno del terrorismo, il processo di trasferimento della sovranità dalla politica alla giustizia subì l’accelerata decisiva con l’incredibile rinuncia all’immunità formalizzata nel momento culminante di Tangentopoli dai disorientati parlamentari italiani, resi improvvisamente incapaci di comprendere che quella fondamentale forma di tutela era stata eretta non per garantirne la loro semplice impunità, ma per porre la volontà popolare di cui sono depositari al riparo da qualsiasi minaccia esterna, comprese eventuali indagini da parte della magistratura.
Un concetto che Francesco Cossiga non mancò di ribadire quando, con uno dei suoi proverbiali colpi di teatro, si avvalse delle prerogative di capo supremo delle forze armate spettanti al Presidente della Repubblica per ordinare a un battaglione di carabinieri carristi di circondare Palazzo dei Marescialli in risposta al tentativo del Consiglio Superiore della Magistratura di colpire l’allora primo ministro Bettino Craxi. A suo avviso, il Csm stava tentando di «affermarsi pericolosamente quale terza Camera del Parlamento nazionale, non elettiva, non democratica, ed anche quale organo Costituzionale, posto al vertice del potere giudiziario». Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti, ma il potere della magistratura non ha cessato di crescere. Attualmente, i magistrati partecipano attivamente alle dispute elettorali, passano con grande disinvoltura dai tribunali agli scranni parlamentari e di nuovo ai tribunali, scrivono libri e articoli, presenziano a dibattiti televisivi e si esprimono pubblicamente in merito alle questioni più disparate, completamente avulse dal loro ambito di competenza.
Se nel 2007 l’allora ministro degli Esteri Massimo D’Alema si spinse a confidare all’ambasciatore statunitense a Roma Ronald Spogli che la magistratura era diventata «la più grande minaccia per lo Stato italiano», parte tutt’altro che irrilevante della responsabilità era tuttavia da ascrivere proprio alla classe politica. La quale è divenuta talmente avvezza a delegare la risoluzione delle controversie ai giudici (esempio paradigmatico: il caso relativo all’Ilva di Taranto) da non riuscire ancora oggi a trovare le motivazioni né il coraggio sufficienti per riappropriarsi delle proprie prerogative e recuperare quei margini di autonomia imprescindibili per la stesura di una legislazione ordinata, al passo coi tempi – che richiede una profonda ma irrinunciabile revisione del testo costituzionale – e soprattutto capace di delimitare con precisione lo spazio di manovra delle procure, ponendo fine allo strapotere discrezionale ed irresponsabile di cui godono i magistrati requirenti.

L’EUROTARTUFO, di Teodoro Klitsche de la Grange

L’EUROTARTUFO

Colpisce la sorpresa per quanto accade all’Europarlamento, alcuni dei membri del quale sono accusati – e trovati dagli inquirenti letteralmente con le mani nel sacco – per aver caldeggiato, dietro compenso – il campionato di calcio nel Qatar. Sorprende non solo perché tanti dimenticano quanto scritto da Max Weber che, in genere i governanti non vivono solo per la politica, ma anche di politica (con quel che ne può conseguire sotto il profilo penale); ma anche perché a leggere Sallustio gli stessi mezzi erano adoperati da  Giugurta per influire sulla decisione del Senato e dei magistrati romani. Racconta Sallustio che più sulle capacità e potenza militare del pur valoroso re numida, i romani dovettero guardarsi dalla sua perizia di corruttore, attraverso la quale riusciva a conseguire ciò che voleva e a evitare le conseguenze delle proprie azioni, alterando i processi decisionali della repubblica egemone. Così un potentato medio-piccolo come quello di Giugurta resistette per oltre sei anni alla potenza di Roma. Per cui orientare le decisioni politiche della potenza superiore è, da almeno venti secoli, una risorsa da utilizzare proficuamente dai potentati minori.

Ma quel che maggiormente colpisce è che, nelle istituzioni europee usano i buoni propositi (diritti umani, migranti) per occultare le cattive azioni (le tangenti), come abitualmente e prevalentemente dalla sinistra italiana (e non solo).

Anche questo è un vecchio espediente. Ne diede una straordinaria rappresentazione Moliére nel Tartufo, quasi quattro secoli fa. Nella commedia c’è in primo luogo, ma poco notato, un aspetto politico evidenziato da Moliére stesso: il quale nella prefazione scrive “L’ipocrita, è per lo Stato, un pericolo più grave di tutti gli altri”: per lo Stato quindi, ancor più (o alla pari) che per la religione. Nel primo “placet” rivolto al Re perché revocasse la proibizione di rappresentare in pubblico la commedia, ribadiva che “l’ipocrisia è sicuramente uno dei vizi più diffusi, dei più scomodi e dei più pericolosi”. Onde è un servizio descrivere “gli ipocriti…che vogliono far cadere in trappola gli uomini con un falso zelo ed una sofisticata carità”. In effetti i connotati di Tartufo sono i più pericolosi per lo Stato. Gli ipocriti pubblici nascondono progetti ed intenzioni inutili al pubblico interesse, e talvolta delittuose, finalizzate ai propri interessi privati e personali, con il richiamo a opinioni ed interessi condivisi e generali. I diritti umani, la pace, l’assistenza ai migranti sono le buone intenzioni usate per nascondere interessi concreti.

Al riguardo nella commedia Dorine (cioè la cameriera) commenta i discorsi edificanti di Tartufo così: “come sa bene con modi traditori, farsi un bel mantello con tutto ciò che è venerato”.

Il bello è che Tartufo lo giustifica anche. Nel dialogo con Elmire, la moglie del di esso benefattore, che vuole sedurre ma la quale gli fa notare che quanto desidera è contrario alla legge divina, argomenta “Se non è che il cielo che viene opposto ai miei desideri…, con lui si possono trovare degli accomodamenti… col rettificare la malvagità dell’azione con la purezza della nostra intenzione”. Così l’intenzione buona “purifica” l’azione cattiva. È un’assoluzione preventiva.

La quale svuota la stessa azione politica, che è (soprattutto) una fase in virtù di risultati, e solo in seconda battuta un predicare del bene. Così il criterio principale per giudicare se un’azione è politicamente proficua o meno, non è verificare se corrisponde a buoni propositi, largamente condivisi, ma se ottiene risultati positivi.

D’altra parte è evidente che col richiamo continuo e prevalente alle buone intenzioni oltre che assolversi dalle cattive opere, i politici tendono ad assomigliare ai sacerdoti. Hobbes (tra i tanti) sosteneva che funzione dei quali è predicare il bene (la parola di Cristo, oggi, per lo più, quella più facilmente condivisa) e non di comandare (e costringere).

E fin qui nulla di male. Ma se il bene predicato si converte in cattive azioni, la santità che dovrebbe produrre si converte in una via comoda per l’arricchimento a spese di chi paga. Cioè dei contribuenti, i quali contribuiscono, a differenza di chi spontaneamente dona il proprio per le buone cause, per il comando di chi predica. Volontario nel primo caso, frutto di coazione nell’altro.

Teodoro Klitsche de la Grange

Peter Pan va in Ucraina, di AURELIEN

L’infantilizzazione della cultura occidentale nell’ultima generazione o giù di lì è una realtà accettata e spesso discussa. Ma credo che abbia avuto un impatto molto maggiore sulla politica occidentale di quanto pensiamo, e che spieghi buona parte del caos ucraino. Ecco perché.

Un sabato o due fa, nel clima freddo e piovigginoso di un inizio inverno nell’Europa continentale, sono uscito per fare un po’ di shopping nelle vicinanze, indossando cappotto, cappello e guanti. Nei negozi e nelle strade ho incrociato altri locali, da soli, in coppia o con bambini. In tutti i casi, gli uomini erano vestiti da bambini. Molti indossavano persino pantaloncini.

Suppongo di essere stato solo sorpreso di essere sorpreso. La strisciante infantilizzazione della cultura popolare è ormai così pervasiva da sembrare normale. Ci aspettiamo che gli adulti si comportino in modo leggermente diverso dai loro figli, e che la cultura popolare si concentri principalmente sulle banalità adolescenziali e su cose che non richiedono un uso serio del cervello. Questo mi ha colpito per la prima volta guardando il feed di notizie del Guardian qualche giorno fa e ricordando che il Grauniad(come era affettuosamente chiamato per i suoi famosi errori di stampa) un tempo era un vero giornale con notizie vere, che compravo ogni giorno da decenni con i miei soldi. In questi giorni, sfoglio i titoli alla ricerca di qualcosa che potrebbe davvero valere la pena leggere. È essenzialmente una fonte multimediale per adolescenti ora, o almeno il tipo di adolescenti che avevamo quando ero adolescente. Presenta: un sacco di storie di sport, intrattenimento, musica popolare, viaggi, sesso e interesse umano, punteggiate da capricci di vari rappresentanti di IdiotPol. Dovresti lavorare sodo per scoprire effettivamente qualcosa di utile sul mondo da esso. Ma questo è solo un esempio: ogni volta che vado su YouTube per guardare uno dei canali a cui mi iscrivo, devo passare davanti alla pagina di Benvenuto con la sua lista di video consigliati, la maggior parte dei quali sembra essere rivolta a persone con un’età mentale di circa dodici anni. E questo è il paese di Molière e Proust.

OK, non ho intenzione di continuare a parlare di come le cose siano peggiorate da quando ero giovane (anche se oggettivamente lo hanno fatto), ma piuttosto di speculare su come questo declino abbia influenzato la nostra cultura, e in particolare la nostra politica. Per esempio; nessuno, credo, può non aver riconosciuto la petulanza infantile, il broncio infantile e il pio desiderio che hanno caratterizzato l’atteggiamento dell’Occidente nei confronti della crisi in Ucraina. Vale la pena ricordare che Putin e Lavrov sono abbastanza grandi per essere i padri di politici come Macron e Sunak, e c’è una netta sensazione dei due russi come genitori malvagi che dicono ai bambini che non possono avere ciò che vogliono: in questo caso, l’Ucraina . Ma da dove viene questo?

In definitiva, suggerisco, dobbiamo tornare al 1968: le rivolte studentesche di quell’anno erano lotte generazionali travestite da politiche. Quello che volevano gli studenti (per lo più della classe media) era più libertà dai loro genitori, sia quelli veri, sia quelli simbolici come le università. (La più recente mania per la distruzione di statue e la scomparsa di persone morte è solo un’altra manifestazione di rivoluzione simbolica contro i propri genitori.) Gli “eventi” del 1968 hanno avuto molte conseguenze, ma due sono particolarmente rilevanti per questa discussione.

Uno era l’esaltazione della giovinezza come virtù in sé. Le vecchie idee lascerebbero il posto a quelle nuove, l’idealismo giovanile sostituirebbe la prudenza e il cinismo degli anziani, l’energia della giovinezza soppianterebbe l’immobilismo del vecchio. (In altre parole, la cosa genitori/figli di nuovo). Ciò è stato applicato per la prima volta, in modo abbastanza interessante, nel mondo degli affari, e specialmente nel mondo della tecnologia dell’informazione, dove è stato predetto con sicurezza dagli anni ’80 in poi che “i giovani” avrebbero avuto una comprensione istintiva dei computer, e quindi avrebbero continuato a dominare il mondo. Un’intera serie di giovani nerd, da Gates a Zuckerberg, avrebbero trasformato il mondo, per poi trasformarlo di nuovo regalando tutti i soldi che avevano guadagnato. Eppure tutto ciò che veramente distingueva queste persone era che provenivano da ambienti privilegiati e che erano spietati, ambiziosi e molto fortunati. Quando effettivamente gli veniva richiesto di fare qualcosa che non comportasse righe di codice o semplici subdolezze, erano sostanzialmente impotenti. Ricordo di aver visto le foto di Zuckerberg interrogato in qualche forum politico qualche anno fa: sembrava un adolescente spaventato, e per molti versi lo è. Ma si supponeva che i giovani “sconvolgessero” i vecchi modelli di business e quei modelli, abbiamo appreso in seguito, includevano effettivamente la realizzazione di cose che le persone volevano acquistare a prezzi che erano disposti a pagare e trarne profitto. Era così antiquato, rispetto all’entusiasmante mondo dei beni elettronici puramente fittizi, come recentemente perpetrato da quell’idiota americano di cui non mi preoccupo di cercare il nome (Qualche frode bancaria? Qualcosa del genere).

Ma abbastanza rapidamente, la stessa logica ha cominciato ad applicarsi alla politica. Il politico tradizionale è entrato in gioco piuttosto tardi, con l’esperienza di fare prima qualcos’altro. (Anche Kennedy aveva prestato servizio nella seconda guerra mondiale ed era circondato da persone esperte.) In questi giorni, la giovinezza e l’ambizione sono considerate di per sé qualifiche perfettamente adeguate. Il politico di oggi raramente ha fatto prima qualcos’altro di valore (e no, il merchant banking non è qualcosa di valore). La politica è diventata semplicemente un gioco per scalare la scala del partito, da assistente ricercatore a scribacchino di partito a consigliere politico a membro del parlamento a ministro. Non sono richieste qualifiche o esperienze di alcun tipo, motivo per cui gran parte del mondo occidentale è ora gestito da una generazione di pigmei politici che non capiscono che ci sono alcuni problemi che i social media non possono affrontare.

La seconda conseguenza fu l’idea del primato assoluto dei desideri individuali e del potere quasi magico del volere stesso. “Sii ragionevole” dicevano tutte quelle magliette di Che Guevara, “chiedi l’impossibile”. Lo slogan più importante del 1968 era “è vietato proibire”. Quindi il mondo dovrebbe soddisfare tutti i nostri desideri e desideri. Fai ciò che vuoi sarà tutta la legge. I nostri genitori e la società non dovrebbero essere in grado di dettare il nostro comportamento. Quel genere di cose. Ha portato in vari modi all’ossessione New Age con l’idea che “tu crei la tua realtà”, alla convinzione neoliberista che se sei povero e affamato è perché non hai il giusto approccio mentale e, insieme a quell’altro grande slogan del 1968, “creiamo nuove perversioni sessuali!

E quindi non sorprende che la classe politica occidentale abbia un approccio essenzialmente New Age alla guerra in Ucraina. Vogliono davvero sbarazzarsi dell’attuale classe politica russa e sostituirla con persone come loro. E come tutti sappiamo, se vuoi davvero qualcosa abbastanza, lo otterrai. E così l’approccio è di fantasia, dove cose banali come il terreno, il tempo, i numeri, la potenza di fuoco e così via vengono astratte. Soprattutto, non devi dire che i russi stanno vincendo, altrimenti potrebbero farlo. Shhh! Le PMC occidentali vogliono l’Ucraina e vogliono la Russia, e se le vogliono devono averle. È vietato proibire. Quindi si tratta solo di desiderare una stella e battere le mani se credi nelle fate. Oh, aspetta, questo è un pensiero interessante. Ci tornerò tra un minuto.

Parte del problema è che l’infanzia stessa non è più quella di una volta, e molti della nostra attuale generazione di leader politici sono stati cresciuti o fortemente influenzati da cambiamenti nella concezione stessa di cosa fosse l’infanzia e del suo rapporto con il resto della tua vita. Tradizionalmente, l’infanzia era una preparazione alla vita adulta, un momento di apprendimento e socializzazione. I bambini sono entrati nel mondo degli adulti molto presto: i miei genitori sono usciti entrambi per lavorare quando avevano quattordici anni. Sia la scuola che la famiglia avevano lo scopo di prepararti alle “responsabilità” (questa era la parola) della vita adulta. Le scuole insegnavano ai ragazzi come lavorare il legno e alle ragazze come cucinare, perché era quello che la maggior parte di loro avrebbe dovuto essere in grado di fare circa un decennio dopo. I genitori, da parte loro, cercavano di trasmettere competenze pratiche ai figli, e i figli, a quei tempi,fare cose . Ero tutt’altro che pratico, ma all’età di dodici o tredici anni sapevo leggere una mappa, come accendere un fuoco e cucinare cose, come fare un semplice primo soccorso, orientarmi per le strade e svolgere compiti semplici come collegare un tappo. Così hanno fatto tutti gli altri. Sono andato in campeggio e ho aiutato a scavare una latrina, piantare una tenda e cucinare il cibo su un fuoco aperto. (Ho il sospetto che presto avrò bisogno di quelle abilità di nuovo.) I genitori, in generale, avevano una serie di abilità in casa: riparare la lavatrice e l’auto, cambiare i fusibili, sapere come utilizzare al meglio cibo avanzato e rimuovi quella macchia sulla cravatta della scuola. Se vuoi qualche indicazione su quale fosse una figura genitoriale ideale, pensa a Mark Rylance nel film Dunkirk di Christopher Nolan del 2017 : calmo e competente nella sua barchetta, di fronte alle difficoltà e al grande pericolo, sapendo sempre cosa fare. Quando lui e suo figlio salvano un pilota di Spitfire da un aereo che affonda, non hanno il tempo di cercare su YouTube per vedere come farlo.

E la letteratura per ragazzi dell’epoca lo rifletteva: i personaggi erano capaci e, secondo i nostri standard, straordinariamente adulti per la loro età. Nessuno allora pensava che fosse insolito che i personaggi bambini di Enid Blyton andassero in vacanza da soli in una roulotte e vivessero avventure. I bambini avevano libero arbitrio e autonomia nei libri, come nella vita reale. Devo aver letto un numero qualsiasi di storie su un gruppo di bambini, diciamo, che lanciano accidentalmente l’astronave sperimentale a raggi cosmici del padre o dello zio e partono per avventure in tutto il sistema solare. I libri della serie Narnia di CS Lewis (oggi non pubblicabili, sospetto) contenevano in realtà allegorie religiose e bambini che si comportavano come eroi mitici.

I bambini di allora volevano crescere, fare ciò che i loro genitori erano in grado di fare, così come molti adulti oggi vogliono rimanere bambini, o almeno adolescenti permanenti. Ma c’era un altro aspetto di questo processo: la temuta parola “responsabilità”. Crescere significava dover fare tutti i tipi di cose complicate e spesso sgradite, e assumersene la responsabilità, come lamentava Tom Waitstrenta anni fa. La magica Isola che non c’è di Peter Pan in cui potresti rimanere un bambino per sempre era una fantasia confortante, ma alla fine i bambini di Darling sono tornati a casa e senza dubbio sono cresciuti. E crescere significava passare attraverso una serie di tappe riconosciute verso la maturità, spesso segnate da riti di passaggio; come ha sempre fatto, e come fa ancora in molte altre culture. Questo era particolarmente vero per i ragazzi: di questi tempi tendiamo a pensare all’idea del capofamiglia maschile come tutto blah-blah patriarcato blah-blah. Ma in realtà, era molto chiaro ai ragazzi che dovevano “sistemarsi”, trovare un buon lavoro, sposarsi, avere figli ed essere pronti a mantenere la famiglia per tutto il tempo necessario. Le vecchie zitelle erano accettabili, i vecchi scapoli molto meno.

Ora non sorprende che per alcune persone tutto questo sembrasse ingiusto. Perché non potresti divertirti a essere un adulto senza avere la responsabilità? Perché non potresti essere un adolescente per sempre? E questo è in gran parte, infatti, dove la nostra società è andata, poiché le persone crescono biologicamente senza necessariamente passare attraverso le fasi di crescente maturità. Ora, non sono un sociologo o uno psicologo, né mi immagino un critico sociale, quindi non ho intenzione di speculare su come e perché la società si sia infantilizzata in questo modo: mi limiterò a discutere alcuni delle conseguenze. Uno, certamente, è sulla classe politica e sui suoi tirapiedi. È sorprendente, ad esempio, che la maggior parte dei leader politici di questi tempi sia guidata dall’ambizione di diventareun leader, piuttosto che fare davvero qualsiasi cosa: piuttosto come essere votato calciatore dell’anno. Anzi, molti di loro (Sunak è forse l’ultimo esempio) sembrano un po’ sorpresi di trovarsi obbligati a fare cose e prendere decisioni. La vita da adulti non è così divertente come pensavano che sarebbe stata. E come osservarono all’epoca i critici di Boris Johnson, sembrava trattare l’essere Primo Ministro come una specie di scherzoso gioco di ruolo postmoderno, non come un lavoro serio. Per molti politici, infatti, una carriera politica sembra essere solo un modo per fare soldi, un po’ come scambiare beni virtuali. Lo riferisce Le Monde l’altro giorno che su 41 ministri dell’attuale governo francese, diciannove sono milionari. Voglio dire, perché dovresti andare al governo se non per soddisfare i tuoi desideri e fare soldi?

La manifestazione più evidente di questa immaturità di cui ho discusso è il rifiuto di assumersi la responsabilità di qualsiasi cosa. Ora da bambini, ovviamente, decliniamo la responsabilità dove possiamo (“non sono stato io, è stato un ragazzo grande che l’ha fatto ed è scappato.”) Ma parte del diventare adulti era sentire la pressione per davvero assumersi la responsabilità di cose che avevi fatto o non hai fatto. I politici di oggi, però, sono cresciuti in una cultura in cui tutto è sempre colpa di qualcun altro: la menzogna sfacciata che abbiamo visto dalla classe politica occidentale negli ultimi due anni non è solo una normale scivolosità politica e farla franca con quello che puoi, è quasi patologico. In effetti, probabilmente lo èpatologico: è la semplice incapacità di assumersi responsabilità da adulti, e la necessità di ricorrere a menzogne ​​dirette per eluderle.

Di tutti gli ambiti in cui l’infantilismo ha trionfato nella nostra vita politica, il più grande e preoccupante è quello della guerra e della pace. Si tratta principalmente, ma non esclusivamente, di una questione anglosassone, perché nel continente europeo il servizio militare è stato la norma fino a dopo la fine della Guerra Fredda. Un’ampia percentuale della popolazione, quindi, non si era limitata a indossare un’uniforme e portava un’arma, ma era consapevole che avrebbe potuto prestare servizio, o addirittura essere richiamata a prestare servizio, in un’altra terribile guerra. E ovviamente l’esperienza storica europea della guerra (non importa quella russa) è un po’ diversa: andate a visitare Verdun, se dubitate di me. Ma ora è cresciuta una nuova generazione di leader europei per i quali la guerra non è mai stata una minaccia personale, solo una storia in TV da qualche altra parte del mondo.

I nostri riferimenti culturali anglosassoni sulla guerra non provengono semplicemente dalla seconda guerra mondiale, ma, cosa molto più importante, da trattamenti popolari che vengono assorbiti durante l’infanzia e raramente modificati con l’avanzare dell’età. Ora in Europa, invece, le storie familiari includono parenti maschi uccisi in prima linea o trascorsi anni nei campi di prigionia, combattendo nella Resistenza, collaborando, prendendo parte a terribili atrocità o semplicemente scomparendo. Tra loro ci sono le parenti donne in fuga con i figli sotto le bombe, che tirano su famiglia da sole o che hanno anche un ruolo nella Resistenza o nel mercato nero. Includono famiglie lacerate da differenze politiche e membri che si uniscono a schieramenti diversi, così come intere comunità cacciate dalle loro case e paesi alla fine della guerra. I bambini europei, in generale,

Non è proprio la stessa cosa nel mondo anglosassone. Le forze britanniche combatterono solo brevemente contro i tedeschi, le forze statunitensi ancora meno. L’esercito che fu evacuato da Dunkerque nel 1940 era di professionisti. Gli eserciti di leva britannici e americani hanno combattuto con onore in Nord Africa e in Italia dal 1942, ma solo in numero molto ridotto. Gli eserciti che sbarcarono in Normandia nel 1944 erano ancora molto ridotti rispetto a quelli del fronte orientale. Patton, il più famoso generale alleato, non ebbe mai più di 100.000 uomini al suo comando. L’Armata Rossa ha perso più vittimedurante l’operazione Bagration nel 1944, quando distrusse il German Army Group Center, infliggendo circa 400.000 vittime all’invasore. La vastità della guerra in Oriente, le distanze e i massicci eserciti coinvolti, così come la natura industriale e di logoramento dei combattimenti, sarebbero andate oltre la comprensione anglosassone in seguito, anche se il ruolo sovietico nella sconfitta della Germania nazista avrebbe potuto sono state politicamente riconosciute. (Da qui, tra l’altro, la totale incapacità di capire come si combatte oggi la guerra in Ucraina.)

La versione della guerra con cui sono cresciuti coloro che sono nati subito dopo (e che ha creato le norme per pensare alla guerra nel suo insieme) è rimasta sostanzialmente stabile da allora e ha resistito agli sforzi di generazioni di storici per sfumarla. Abbiamo imparato a conoscere la guerra dalla generazione dei nostri genitori, ovviamente, ma anche dal tipo di riviste che i ragazzi leggevano in quei giorni, e che erano praticamente il momento clou della mia settimana quando sono arrivate. Avevano nomi come Wizard Hotspur, e presentava, sorprendentemente per gli standard odierni, forse diecimila parole di storie per numero con poche illustrazioni. Una era sempre una storia di guerra, anche se poche persone sono state effettivamente uccise. Tali riviste, insieme alla prima ondata di libri sulla guerra e ai film di guerra in bianco e nero a basso costo da guardare la domenica pomeriggio, hanno costituito l’educazione di un’intera generazione sulla guerra, e le norme stesse sono sopravvissute più a lungo. o meno intatto nella cultura popolare fino ad oggi.

La guerra fu presentata come un affare di piccola scala, di incursioni di commando, missioni di bombardamento, fughe di prigionieri e operazioni di resistenza, come del resto fu per la maggior parte del tempo per gli anglosassoni. Di conseguenza, l’intero progresso della guerra, riflesso nella cultura popolare, era molto sconcertante: dopo che avevano invaso l’Europa, sembrava che il morale tedesco fosse stato distrutto dai bombardamenti e dagli effetti psicologici di così tanti prigionieri in fuga, prima degli inglesi ( con l’aiuto di Stati Uniti e canadesi) sciamarono a terra per guidare fino a Berlino nel 1944. E questo è il modello che è sopravvissuto nella cultura popolare fino ad oggi: uno sguardo al sito di Amazon rivela che i libri più venduti e più popolari sul mondo War II riguarda ancora audaci incursioni, piccole unità, esperienze personali e rivelazioni sorprendenti.in realtà ha vinto la guerra contro la Germania, è molto più noioso e non vende molte copie. Da qui anche forse le acrobazie come far saltare in aria i ponti in Crimea, con i loro echi di temerarietà nella seconda guerra mondiale. (Vedo che al momento c’è una serie della BBC sulle origini dello Special Air Service: molto appropriato.)

La relativa purezza dell’esperienza anglosassone – nessuna invasione, nessuna collaborazione – ha reso facile per i bambini giocare ai soldati, come fanno ancora. (L’unico problema imbarazzante era chi avrebbe interpretato i tedeschi.) Negli ultimi anni, questa mentalità si è diffusa praticamente ovunque in Occidente e il pacifismo, un tempo un movimento potente, ora è essenzialmente moribondo. In particolare, i movimenti sociali progressisti e gli umanitari, un tempo bastioni del pacifismo, hanno ora abbracciato con gusto il militarismo interventista. Sfortunatamente sono ancora ignoranti sulle questioni militari come sempre, e traggono le loro idee in questi giorni dalla cultura popolare giovanile dei film sui supereroi e dal feticismo delle armi. (Coloro che chiedevano a gran voce una “No-Fly Zone” sull’Ucraina presumevano chiaramente che fosse un incantesimo tratto da un libro di Harry Potter.)

La convinzione che esistano risposte magiche a problemi reali nel mondo non è nuova, ma è diventata molto più potente negli ultimi anni, poiché il controllo e l’influenza su questioni di guerra e pace sono passati sempre più nelle mani di coloro che ne sanno poco o. Vogliamo che le crisi e i conflitti internazionali finiscano come fa Star Wars , con i buoni che vincono, e andremo agli estremi per sospendere la nostra incredulità, così da evitare di affrontare la realtà. Vogliamo credere che ci siano poteri che faranno andare le cose come vogliamo noi, siano esse super-armi o supereroi. Mezzo addormentato durante un lungo volo alcuni anni fa ricordo i primi minuti di un film —ho poi scoperto che si trattava di Watchmen—che ritraeva una storia alternativa in cui un singolo supereroe americano sconfisse i vietcong e cambiò il corso della storia. Se solo ciò potesse accadere in Ucraina…

Quindi, quando in questi giorni si svolgono incontri internazionali sull’Ucraina, è utile pensarli come raduni di eterni bambini, giocare a giochi fantasy collaborativi come Dungeons and Dragons e condividere le loro ultime acquisizioni di modelli militari e film di supereroi. L’Ucraina è la nuova Isola che non c’è, e il nuovo Capitan Uncino è… beh, devo proprio dirtelo? Alla fine i bambini Darling dovettero tornare a casa, perché non volevano rimanere bambini per sempre. Ma i politici di oggi, per i quali l’infanzia è fine a se stessa e non più una preparazione alla vita reale, possono restare nell’Isola che non c’è più a lungo di quanto possano restare i loro paesi interi.

Le leadership politiche in Occidente in questi giorni esistono in un mondo fantastico infantile permanente, un’illusione collettiva basata su modelli culturali tramandati loro, in molti casi da prima che nascessero. La vita reale è troppo impegnativa e troppo noiosa, quindi al momento stanno guardando un film d’azione pieno di emozioni. In passato, Hollywood ha aspettato un intervallo decente prima di riciclare conflitti reali come film d’azione stupidi. In questo caso (con l’aiuto di un attore di Kiev) avviene in tempo reale. Heroes of Kiev , classificato PG, sta trasmettendo sulla tua televisione ora, dove prima c’era il programma di notizie.

https://aurelien2022.substack.com/p/peter-pan-goes-to-ukraine?utm_source=post-email-title&publication_id=841976&post_id=89217579&isFreemail=true&utm_medium=email

La Cina e i cinesi! Come li vediamo, come si vedono_Con Daniela Caruso

Tempo fa Xi Jinping rimproverò a Trump la scarsa conoscenza della civiltà e del modo di pensare dei cinesi. Non è purtroppo una prerogativa esclusiva di quell’uomo politico. Una civiltà, un modo particolare di pensare proprio di una rappresentazione, può avvicinarsi soprattutto per analogie, specie nei primi impatti, alla comprensione di altre civiltà. Se poi a queste difficoltà si aggiungono l’ostinazione degli stereotipi e le forzature connesse alle dinamiche geopolitiche, al conflitto di interessi e alle manipolazioni del confronto politico, facilmente il conflitto e lo scontro politico possono assumere la veste di uno scontro di civiltà e di una lotta tra il bene e il male. La capacità critica e la conoscenza sul campo di Daniela Caruso ci aiutano a capire, già in questa prima puntata, le caratteristiche e le dinamiche di una formazione sociale e di una classe dirigente tutt’altro che arroccata ed avulsa, per non dire insensibile, dal contesto in cui vive e dalle esigenze espresse dalla popolazione. Una classe dirigente abituata al pragmatismo e ai tempi lunghi dai quali sembre spesso rifuggere chi pretende al contrario di darle ancora lezioni, non ostante gli antefatti dolorosi e ignobili dei quali sono responsabili. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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