PIÚ DIKE TIMIDAMENTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

PIÚ DIKE TIMIDAMENTE

Ha suscitato un discreto dibattito la riforma della giustizia tributaria impostata e realizzata dalla ministra Cartabia. Molti ne hanno evidenziato la timidezza, altri la congruità, non pochi l’hanno considerata un’occasione mancata.

A mio avviso per valutarne la portata “ordinamentale” (che brutta espressione!) occorre risalire sia a principi e norme costituzionali, sia alle innovazioni in materia di giustizia tra pubbliche amministrazioni e cittadino, in particolare nell’ultimo trentennio.

Al riguardo ho sostenuto più volte (v. da ultimo “Temi e Dike nel tramonto della Repubblica”) riprendendo così delle tesi di Maurice Hauriou, che in ogni Stato vi sono due giustizie: una paritaria e intergroupale, che il grande giurista chiamava Dike, l’altra non paritaria (e intra)istituzionale, che denominava Temi. Le quali corrispondevano al diritto (sostanziale) comune la prima e a quello istituzionale la seconda.

Nessuna istituzione politica ne può prescinderne, nel senso che in ogni ordinamento, anche il più liberale o, all’opposto, il più autoritario, v’è comunque un po’ dell’una e dell’altra (come del diritto sostanziale corrispondente).

L’una e l’altra rientrano nel rapporto (presupposto del “politico”) tra comando e obbedienza, autorità e libertà (secondo una definizione fortunata e ripetuta, anche se un po’ imprecisa).

Facevo notare in quei lavori che nell’ultimo trentennio, il rapporto tra potere pubblico e cittadini aveva preso una piega tale da aumentare la disparità (a favore del primo), ad onta del fatto che la novella all’art. 111 della Costituzione aveva disposto che le parti stanno in giudizio in condizione di parità. Anzi l’aver affermato solennemente con la modificazione costituzionale il principio di parità aveva incentivato il proliferare di norme legislative che di diritto o di fatto lo riducevano, così come di comportamenti amministrativi contrari alla “parità”.

Sotto tale profilo indubbiamente la riforma Cartabia, senza avere nulla di travolgente, ha un suo indiscutibile pregio: che ha invertito la tendenza ad aumentare la disparità, anzi riducendola. Le norme – ancorché non chiarissime, sull’onere della prova e sull’ammissibilità di quella testimoniale (scritta) nonché quella sull’aumento delle spese (per rifiuto ingiustificato di conciliazione) riducono la disparità tra amministrazione e contribuenti (in lite). In senso opposto è la previsione del rapporto tra Giudici tributari e Ministero dell’Economia, che è una delle parti (sostanziale) del processo.

C’è un altro aspetto in cui l’intervento risulta positivo: l’aver “professionalizzato” la nomina dei magistrati tributari, prevedendo per quelli da assumere il possesso della laurea (magistrale) in giurisprudenza o economia. Se si  vanno a leggere gli artt. 4 e 5 del D.Lgs. 545/92 (abrogati) nelle commissioni potevano essere nominati anche: ragionieri, periti commerciali, revisori dei conti, abilitati all’insegnamento in materie giuridiche, economiche e ragionieristiche, ingegneri, architetti, agronomi (e altro).

Era stato anche notato che il 47% dei ricorsi in Cassazione avverso le sentenze dei giudici tributari era accolto ed era interpretato nel senso di una scarsa capacità di agronomi, ragionieri, ecc. ecc. ad applicare il diritto (il dato era tuttavia contestato quale sintomo di…scarsa perizia). Resta il fatto che prescrivere dei requisiti più “stringenti” per la nomina, dovrebbe portare ad un miglioramento della competenza professionale dei magistrati; ma potrebbe concorrervi anche la previsione del concorso (invece che della precedente nomina su elenchi).

È comunque incontestabile che, pur nella sua timidezza, la riforma ha capovolto l’andazzo trentennale voluto soprattutto dal centrosinistra, onde i diritti da proteggere erano quelli che avevano meno occasioni di essere esercitati: così quello  all’eutanasia, al matrimonio tra omosessuali, all’adozione “allargata”, alla gravidanza a pagamento, ecc. ecc. E per questo anche quelli che hanno meno possibilità che ne fosse richiesta la tutela in giudizio. Per gli altri, di converso, oggetto di contenzioso, di cui costituiscono la stragrande maggioranza delle liti, come i rapporti di lavoro (pubblico e privato), i contratti, la proprietà, ecc. ecc., le obbligazioni della P.A., le imposte, ecc. ecc., si faceva poco o niente per rendere più agibile la giustizia.

Anzi, se controparte ne erano le pubbliche amministrazioni si aumentavano deroghe e privilegi della parte pubblica. Resta comunque molto lavoro da fare, nello steso senso e in termini più generali. Un controllo giudiziario fiacco e ostacolato è uno dei migliori sostegni di un’amministrazione inefficiente e predatoria.

C’è da chiedersi perché proprio alla fine del trentennio della seconda repubblica è stata emanata questa norma di segno contrario alla pratica filo-statalista seguita prima. Forse per l’evidenza che norme come quelle modificate stridevano con principi e testo della costituzione, onde se ne sacrificano alcune per conservarne altre, facendo tuttavia “bella figura”, come per la modifica dell’art. 111, rimasto disapplicato o poco applicato.

L’importante è procedere nella strada appena iniziata anche resistendo alle critiche (usuali e prevedibili) di chi dirà che colpa dell’evasione è d’aver ripartito paritariamente l’onere della prova. Cui si può fin d’ora replicare che se per sostenere un fatto basta affermarlo (senza provarlo), un precetto del genere legittima qualsiasi abuso.

Teodoro Klitsche de la Grange

Intelligenza artificiale: l’Italia vuole essere grande in Europa, di conflits

Articolo importante, ma con una grave omissione critica. L’assenza consapevole dell’Italia dai programmi europei di protezione e di produzione di software di trasmissione e motori di ricerca autonomi, se non limitatamente alla pubblica amministrazione. Un ulteriore segnale della scarsa protezione politica riservata al proprio patrimonio industriale nazionale e alla scarsa considerazione non solo della propria sovranità, ma anche di una partecipazione attiva alle dinamiche geopolitiche e geoeconomiche. Giuseppe Germinario

Il 26 novembre 2021 il governo italiano ha approvato il programma per l’intelligenza artificiale. Questo progetto ha visto la collaborazione tra il Ministro dello Sviluppo Economico, il Ministro dell’Università e della Ricerca e il Ministro della Transizione Digitale e ha posto al centro dei suoi obiettivi l’industria 4.0, che mira a cambiare il volto delle PMI.

Margherita Boscolo Marchi

La transizione digitale è ormai una necessità e tra i suoi angoli più affascinanti c’è sicuramente la filiera dedicata alla ricerca e all’applicazione dell’intelligenza artificiale (AI). Il governo italiano, spinto dalle dinamiche avviate in seno all’Unione Europea, ha adottato una propria strategia nazionale sull’IA, contenuta in un documento congiunto del Ministero dello Sviluppo Economico (MISE), del Ministero dell’Università e della Ricerca e di quello dell’Innovazione Tecnologica e Transizione Digitale: il programma strategico per l’intelligenza artificiale 2022-2024. Questa strategia per l’IA è condensata in un documento redatto dai tre ministeri interessati, a cui si aggiunge il gruppo di lavoro sulla strategia nazionale per l’intelligenza artificiale, un team di esperti del settore che si occuperà dell’efficacia organizzativa e gestionale, oltre che del monitoraggio dello stato di avanzamento del progetto. Sono state definite 24 politiche da attuare nel prossimo triennio, suddivise in tre aree di intervento, sei obiettivi e undici settori applicativi.

Il programma strategico italiano sull’intelligenza artificiale: ancoraggi, principi e obiettivi

L’ecosistema italiano dell’intelligenza artificiale ha grandi potenzialità che non sono ancora state sfruttate appieno. Il settore è in rapida crescita, ma il contributo economico rimane modesto. Soprattutto se confrontato con i vicini europei. Eppure, come delineato nella nuova agenda AI, la Penisola ha basi solide su cui costruire un nuovo ecosistema AI italiano a fronte di debolezze su cui concentrare riforme e investimenti. A tal fine, il programma delinea 24 politiche con l’obiettivo di rendere l’Italia un polo “globalmente competitivo”, trasformando i risultati della ricerca in valore aggiunto per l’industria.

Il piano prevede tre aree di intervento: rafforzare le competenze e attrarre talenti, aumentare i finanziamenti per la ricerca all’avanguardia nell’intelligenza artificiale e favorirne l’adozione e l’applicazione sia nella pubblica amministrazione che nel settore produttivo in generale.

Iniziative a favore delle imprese e della pubblica amministrazione

Particolare attenzione è rivolta alle piccole imprese attive in contesti geografici o socio-economici periferici e disagiati. Un’altra preoccupazione dichiarata è la necessità di aumentare il numero di donne imprenditrici ed esperte di intelligenza artificiale, nonché di attrarre start-up e professionisti stranieri con incentivi economici. Infine, il testo evidenzia la volontà istituzionale di allineare tutte le politiche di intelligenza artificiale relative al trattamento, aggregazione, condivisione e scambio dei dati, nonché alla sicurezza dei dati, alla strategia nazionale del cloud e alle iniziative in corso a livello europeo, a partire da European data and le recenti proposte di legge sulla governance dei dati e di regolamento sull’IA.

Per questo sono state individuate due linee di azione: l’intelligenza artificiale per modernizzare le aziende e quella per modernizzare la pubblica amministrazione. Per quanto riguarda le aziende, si tratta di supportare il processo di assunzione di personale altamente qualificato nelle aziende private, al fine di rafforzare il loro processo di transizione 4.0; spingere l’adozione di soluzioni di intelligenza artificiale nelle aziende private, per favorirne la competitività; aiutare le start-up e gli spin-off a svilupparsi, sia a livello nazionale che internazionale; e definire un contesto normativo che possa favorire la sperimentazione e la certificazione di prodotti e servizi affidabili di intelligenza artificiale. Ricordiamo che secondo l’Osservatorio AI della Scuola Politecnica di Management di Milano, sono 260 le aziende italiane che offrono prodotti e servizi di intelligenza artificiale. Nel 2020 il mercato privato dell’intelligenza artificiale in Italia ha raggiunto i 300 milioni di euro, in crescita del 15% rispetto al 2019, ma pari solo al 3% del mercato europeo.

Sul versante della pubblica amministrazione, gli interventi in corso mirano alla creazione di infrastrutture dati per sfruttare in sicurezza le potenzialità dei big data, ma anche per semplificare e personalizzare l’erogazione dei servizi pubblici e l’innovazione delle amministrazioni, attraverso il rafforzamento dell’ecosistema GovTech (ad esempio con periodici bandi per identificare e sostenere le start-up che offrono soluzioni basate sull’intelligenza artificiale). Altre due aree di interesse riguardano il talento e la ricerca. Nel primo caso si tratta di interventi per aumentare il numero dei dottorati e attrarre ricercatori, nonché per promuovere corsi e carriere nelle materie scientifiche (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica). Nel secondo, l’obiettivo è promuovere la collaborazione tra il mondo accademico e della ricerca, l’industria, gli enti pubblici e la società. Infine, per monitorare i progressi su tutti i fronti, all’interno del Comitato Interministeriale per la Transizione Digitale è stato istituito un gruppo di lavoro permanente sull’Intelligenza Artificiale.

 

Analisi dei problemi potenziali e critici del programma per l’intelligenza artificiale

Dall’analisi di questo nuovo programma, emerge che il progetto non mira ad una dimensione prettamente nazionale ma anche ad una prospettiva internazionale. Sia perché rientra nella strategia europea per l’IA, sia perché la forte ambizione dell’Italia è quella di conquistare una posizione di primo piano nella filiera internazionale dello sviluppo, dell’innovazione e dell’applicazione dell’IA, senza trascurare l’impegno per la sostenibilità e il rispetto della persona umana. Per raggiungere l’ambizioso obiettivo internazionale, l’idea è quella di creare una rete di collaborazione tra università, imprese e settore pubblico.

Particolare attenzione è rivolta alla questione dei giovani: il governo si sta impegnando per concedere il maggior numero possibile di posti di dottorato e opportunità per investire il proprio tempo e le proprie capacità intellettuali nel campo della ricerca. L’avvio del dottorato nazionale in intelligenza artificiale è infatti recentissimo (2021). Al vaglio anche la creazione di nuove cattedre incentrate sull’intelligenza artificiale, strettamente legata all’impegno di riportare all’estero esperti emigrati, nonché investimenti in piattaforme di condivisione dati e di software.

In Italia, 260 aziende operano concretamente nel campo dell’intelligenza artificiale. Di questi, il 55% si occupa di sanità, sicurezza informatica, marketing e finanza. Sempre secondo il Politecnico di Milano, il 53% delle medie e grandi imprese italiane ha avviato almeno un progetto di intelligenza artificiale: il 22% è attivo nel settore manifatturiero, il 16% nel settore bancario finanziario e il 10% nel campo della tecnologia. ‘assicurazione. In generale, come indica il piano, c’è un sottoinvestimento da parte del settore privato in termini di ricerca e sviluppo ed è in discussione anche la dimensione delle imprese. Il gruppo di lavoro sulla strategia riferisce che l’adozione di soluzioni AI nel mercato italiano si attesta al 35%, circa otto punti in meno rispetto alla media UE. Le ragioni del sottoinvestimento citate dai piccoli imprenditori italiani sono principalmente duplici: la mancanza di professionisti dell’IA e la mancanza di fondi pubblici. In questo senso, per risolvere il primo quesito, il piano propone di adeguare la remunerazione dei professionisti dell’IA a quella internazionale, visto che si tratta di una delle materie più delicate, che si confonde con quella della fuga dei cervelli. Per quanto riguarda i fondi pubblici, invece, 13 miliardi di euro sono messi a disposizione dal Piano nazionale per la ripresa e la resilienza. Il punto dei finanziamenti pubblici è fondamentale, visto che anche in questo ambito c’è un ritardo rispetto a Francia e Germania: l’Italia investe troppo poco, se non altro per gli appalti pubblici per l’acquisto di beni e servizi. Altrimenti, l’obiettivo è quello di colmare l’altro grande gap rispetto ai partner europei, vale a dire la certificazione dei prodotti e dei brevetti. Tutto ciò è paradossale, considerando che i ricercatori italiani sono molto prolifici e ricercati a livello internazionale. Solo che a casa sono poco considerati e, quando lo sono, mal pagati. Altro aspetto più che positivo del programma è il tentativo di ridurre la frammentazione e la disparità del nostro ecosistema della ricerca, in cui vi è scarsa comunicazione tra laboratori, università ed enti pubblici, oltre al forte divario di genere. considerando che i ricercatori italiani sono molto prolifici e ricercati a livello internazionale. Solo che a casa sono poco considerati e, quando lo sono, mal pagati. Altro aspetto più che positivo del programma è il tentativo di ridurre la frammentazione e la disparità del nostro ecosistema della ricerca, in cui vi è scarsa comunicazione tra laboratori, università ed enti pubblici, oltre al forte divario di genere. considerando che i ricercatori italiani sono molto prolifici e ricercati a livello internazionale. Solo che a casa sono poco considerati e, quando lo sono, mal pagati. Altro aspetto più che positivo del programma è il tentativo di ridurre la frammentazione e la disparità del nostro ecosistema della ricerca, in cui vi è scarsa comunicazione tra laboratori, università ed enti pubblici, oltre al forte divario di genere.

Ancora sfide per sviluppare un’IA italiana

Purtroppo non ci sono solo lati positivi, ma anche limiti. Innanzitutto il programma è inquadrato nel triennio 2022-2024, un intervallo di tempo non proprio esteso, che forse non è il più adatto per realizzare un progetto così ambizioso, che mira a risolvere problemi e chiudere un divario che è stato riparato per decenni.

Se l’obiettivo è coinvolgere le aziende, il programma forse parla troppo di comunicazione, informazione e promozione, ma non sempre le soluzioni concrete sembrano esserci (cosa molto comune per questo tipo di documenti). E l’eterno problema delle imprese italiane, troppo piccole per essere innovative, comincia a pesare sulla loro capacità di imporsi a livello internazionale. L’idea di affiancare al tessuto delle PMI italiane un gruppo di esperti per guidarle verso le nuove prospettive dell’economia basata sull’AI è sicuramente positiva, ma questo approccio non è però sufficiente: senza il coinvolgimento diretto dei cittadini, senza il formazione dei più giovani del settore per trovare nuovi collaboratori e senza potenti mezzi economici nessuna innovazione è possibile.

Altro limite del testo, visto il contesto in cui si inserisce, è il limitato spazio dedicato al tema della condivisione dei dati, mentre sarà fondamentale per il settore economico e sociale di domani. L’intelligenza artificiale viene approcciata più dal punto di vista di favorire la formazione di giovani talenti nelle discipline scientifiche che dal punto di vista dell’attuazione di un’economia italiana ed europea volta a promuovere sia l’uso economico dell’intelligenza artificiale sia la produzione di beni e servizi compatibili con lo sviluppo incentrato sui dati. Tra le tante criticità individuabili, vale la pena citare anche quella relativa all’interoperabilità e alla qualità dei dati, di cui si parla molto poco nel programma italiano.

In questo contesto, la destinazione e l’utilizzo nazionale dei fondi del piano nazionale per la ripresa e la resilienza saranno di fondamentale importanza. L’azione della pubblica amministrazione – che avrà un ruolo di primo piano nell’attuazione del programma – sarà poi fondamentale: si tratta di una sfida importante per una pubblica amministrazione ancora piccola. In tale contesto, è evidentemente necessario instaurare al più presto un dialogo costruttivo sulle azioni necessarie a tutelare tutti gli attori interessati (dagli sviluppatori alle aziende, ai clienti finali) dai rischi che possono derivare dall’utilizzo dell’intelligenza artificiale per i quali è necessario che la pubblica amministrazione italiana adotti, fin d’ora, un approccio più illuminato, che non guardi solo agli obiettivi commerciali, ma anche alle persone, in attesa di specifici interventi del legislatore nazionale e dell’Unione Europea.

https://www.revueconflits.com/intelligence-artificielle-litalie-veut-etre-un-grand-en-europe/

Intelligenza artificiale: tra Cina e Stati Uniti viene dichiarata la guerra degli standard, dalla ÉCOLE DE GUERRE ÉCONOMIQUE

Intelligenza artificiale: tra Cina e Stati Uniti viene dichiarata la guerra degli standard

dalla 

A partire dal secondo dopoguerra e, a fortiori, nell’ultimo decennio, il tema dell’“intelligenza artificiale” si è davvero affermato come una questione tecnologica chiave, portando a una corsa all’innovazione tra attori globali. Ma ancor più che suscitare semplicemente l’interesse di startup, ricercatori, fondi di investimento o scrittori di fantascienza, l’IA si sta anche affermando come una vera e propria questione di sovranità politica e geopolitica attraverso una guerra di standard sfrenata.

Dall’AEGE Influence Club

AI: una tecnologia dirompente al centro delle sfide globali

Con le sue promesse per il futuro, l’intelligenza artificiale suscita l’appetito delle grandi potenze che desiderano ottenere un vantaggio competitivo sui loro vicini e sui loro rivali: l’IA (e tutte le tecnologie che la circondano come l’apprendimento automatico per esempio) promette quindi ai suoi difensori di beneficiare dai metodi automatizzati di elaborazione delle informazioni, una vera necessità nell’era dei big data e dell’infoobesità, in un momento in cui i dati non sono mai stati così accessibili, ma ugualmente difficili da elaborare e analizzare. In questo contesto, ottenere un vantaggio sullo sviluppo dell’IA sta potenzialmente ottenendo un vantaggio eccezionale nella sfera cognitiva.

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Le grandi potenze interessate a questa promessa stanno quindi conducendo una vera e propria guerra su questo tema: Cina, Stati Uniti, Unione Europea, le potenze si scontrano in un campo di attività dove tutto resta da fare. E al centro di questo “grande gioco”, questa lotta per l’IA, c’è la standardizzazione. Gli Stati si affidano alle loro aziende (e viceversa) per dettare il ritmo di questo confronto attraverso gli standard, monopolizzando il più possibile i posti nei comitati di standardizzazione come ISO o ETSI, arrivando talvolta al ricorso a metodi mafiosi se non barbouzeries. È per comprendere meglio questa guerra di standard in materia di IA che l’Agenzia francese per gli standard (AFNOR) ha commissionato all’Influence Club della School of Economic Warfare unrelazione , documento che è servito come base per la stesura di questo articolo.

Standardizzazione: uno strumento per influenzare e conquistare i mercati

In questo contesto di guerra tra grandi attori, la standardizzazione appare infatti come un asse fondamentale per consentire agli attori pubblici e privati ​​di imporre i propri interessi. Non riconosciuta, sottovalutata, spesso fraintesa, la standardizzazione è tuttavia un elemento fondamentale di qualsiasi approccio alla sovranità economica e quindi un elemento centrale in qualsiasi guerra economica.

In un certo senso, mantenere lo standard significa mantenere il mercato. In effetti, la norma è per un mercato o una tecnologia ciò che le regole grammaticali sono per una lingua. Lo standard consente agli attori di un ecosistema economico o tecnologico di operare secondo standard comuni e interoperabili. Tuttavia, per un operatore economico, essere in grado di influenzare o scrivere le regole del gioco in cui si appresta a giocare rappresenta un sostanziale vantaggio competitivo.

La norma si impone così come strumento di influenza geopolitica e commerciale: non è solo un vincolo che frenerebbe la creatività e lo sviluppo delle imprese in nome della tutela dei consumatori, può essere anche un’arma competitiva formidabile per bloccare un mercato in suo favore.

Un esempio permette di rendersi conto dell’importanza della standardizzazione per la conquista dei mercati tecnologici: il caso del conflitto tra “Tipo 2” e “Tipo 3”, le prese di ricarica per le auto elettriche in Europa. Le due prese hanno gareggiato per diventare lo standard ufficiale per le prese di ricarica nell’UE. Uno dei punti vendita è stato sostenuto dalle case automobilistiche tedesche, che avevano già iniziato a implementare la tecnologia. L’altra rocca era difesa da industriali francesi, che avevano anche iniziato a schierare le proprie roccaforti. Riuscire ad imporre uno standard unico di spina avrebbe quindi consentito ai produttori tedeschi di scalzare i loro concorrenti francesi, e viceversa.

In effetti, è andata così: la spina tedesca si è affermata grazie a importanti sforzi di lobbying e standardizzazione ed è ora alla base di tutte le auto elettriche e ibride nell’UE, una vera battuta d’arresto per l’industria automobilistica francese, che è quindi entrata in questo mercato con notevole ritardo e che ha dovuto riadattare tutta una parte della sua produzione per adeguarsi a questo nuovo standard.

Ciò che è valido in questo esempio è altrettanto valido nel contesto dell’IA: i vari attori dell’intelligenza artificiale possono sperare di bloccare il mercato a loro favore e quindi ottenere un vantaggio a lungo termine sulla concorrenza, imponendo la loro visione secondo gli standard che potrebbero passare attraverso comitati normativi come l’ISO. La questione è quindi cruciale e spiega perché paesi come Cina e Stati Uniti se ne stanno impadronendo.

Cina e Stati Uniti: due strategie normative, un vincitore

Nella vera e propria guerra economica che infuria tra Stati Uniti e Cina, tecnologia e innovazione fanno ovviamente parte dei maggiori teatri di scontro: in questo senso, l’intelligenza artificiale sta infatti prendendo il posto della posta in gioco di questa rivalità sino-americana .

Una posizione di leadership nell’IA consentirebbe infatti al governo cinese di raggiungere una serie di obiettivi:

  • In primo luogo, l’intelligenza artificiale consentirebbe alla Cina di piantare l’ultimo chiodo del suo dominio industriale globale totale , ottimizzando ulteriormente il suo circuito di produzione e le sue reti di distribuzione (in particolare automatizzando parte del trasporto del suo progetto Silk New Roads);
  • Poi, l’intelligenza artificiale consentirebbe all’apparato statale cinese di aumentare ulteriormente il proprio apparato di sorveglianza e intelligence , sia che miri a controllare la propria popolazione (es. );
  • Infine, l’intelligenza artificiale consentirebbe alla Cina di modernizzare notevolmente i sistemi d’arma dell’Esercito popolare di liberazione (PLA) e assumere così un vantaggio significativo sul grande rivale americano rispondendo a molti problemi dell’Esercito popolare di liberazione (APL).

Ma nonostante l’AI sia al centro della strategia di lungo termine della Cina, il Medio Impero se ne va con una grossa spina nel fianco nel settore delle nuove tecnologie: sulla standardizzazione ci sono anche i colossi americani della Silicon Valley, pionieri in fatto di innovazione, creando standard de facto per tenere i mercati totalmente prigionieri.

Questo dominio è quasi totale nell’innovazione industriale, nel cloud, nei social network o nell’informatica pura. Ma il PCC cerca di impedire alle aziende americane di replicare questo modello sulla nascente industria dell’IA. La Cina vuole quindi assumere il controllo di questo settore con una politica di crescente potenza che è illustrata da alcuni successi.

Per contrastare questa egemonia tecnologica e normativa americana, Pechino ha messo a disposizione molte risorse alle sue rivendicazioni in AI: nel periodo 2019-2020, sono stati stanziati ben 70 miliardi di dollari per la ricerca in questo ambito dal governo cinese.

Come diretta conseguenza di questo volontarismo dello Stato cinese, nel 2019, 6 degli 11 “unicorni” del settore AI globale erano cinesi. Nello stesso anno, l’Allen Institute for Artificial Intelligence ha stimato che la Cina avrebbe presto superato gli Stati Uniti in termini di ricerca di base sull’IA: entro il 2025, l’1% più ricco di articoli accademici sull’IA sarà composto per la maggior parte da articoli cinesi. Una corsa universitaria che ovviamente si trasforma anche in una corsa ai brevetti, secondo l’Organizzazione internazionale per la proprietà intellettuale (OMPI), che indica che nell’ultimo decennio i cinesi da soli hanno depositato quasi il 75% di brevetti relativi all’IA. Infine, secondo i dati di LexisNexis, Tencent e Baidu, due società cinesi, sono i due maggiori proprietari di brevetti AI,

Il sostegno dello Stato cinese ai suoi grandi conglomerati ha quindi effetti diretti molto visibili. Ma oltre a questo sostegno alle imprese e alla ricerca, la Cina sta mettendo in piedi una vera e propria offensiva normativa per dominare in maniera più strutturale il settore dell’IA. La strategia normativa cinese in AI si basa quindi su due aspetti:

  • La creazione di standard de facto sull’IA , al di fuori di qualsiasi comitato normativo, diventando i primi a rilasciare un’innovazione, spingendo per la sua adozione di massa pur non rendendola compatibile con altri sistemi informatici o altre IA . Esempio interessante di questa strategia, la Cina intende utilizzare le sue Nuove Vie della Seta per diffondere i propri standard nell’IA: un accordo cinese di “riconoscimento degli standard”, firmato dal 2019 da quarantanove Paesi, prevede che la Cina renda incompatibili con la propria infrastruttura di trasporto sono tutte navi e treni autonomi stranieri che non seguono gli standard di interoperabilità cinesi.
  • La creazione di standard ufficiali sull’IA , rappresentandosi massicciamente nei comitati normativi per proporre progetti di standard favorevoli agli interessi cinesi. Per farlo, la Cina può contare sui suoi colossi digitali, i BHATX (Baïdu, Huawei, Alibaba, Tencent e Xiaomi), per agire per loro conto (e quindi per conto della Cina) all’interno della grande rete internazionale (es. ISO, IEC ) o organizzazioni di globalizzazione regionali (ad es. ETSI); questa strategia è esplicitamente descritta nel piano “China Standards 2035”, o in francese “Les Normes chinoises en 2035”.

La strategia cinese di predominio nell’IA si basa quindi su innovazione tecnologica, ricerca scientifica e massiva standardizzazione. Questa strategia è presunta e sembra consentire ai cinesi di allargare il divario con il paese dello zio Sam, ma gli Stati Uniti non sono lasciati indietro in questa guerra aperta. Il deputato Cédric Villani, in un rapporto del 2018, tornava così a lungo sulla presunta volontà di Washington di imporsi come leader in materia di IA, in particolare utilizzando come arma normativa l’indiscutibile vantaggio che i GAFAM rappresentano per l’America. Come la Cina, gli Stati Uniti utilizzano standard de facto , ma in misura ancora maggiore.

Washington sostiene infatti le aziende della Silicon Valley affinché utilizzino il loro vantaggio nei settori tecnologici, in modo che portino innovazione attorno all’IA e affinché queste scoperte diventino poi standard de facto . Un buon esempio di questa normalizzazione per fatto compiuto è il caso di Google con TenserFlow. Molto innovativa e in anticipo rispetto al resto del mercato (e in particolare rispetto alle tecnologie cinesi), questa tecnologia di deep learning è stata adottata fin dall’inizio da quasi tutto il mercato, diventando il riferimento su cui tutto è stato costruito. tecnologie di apprendimento profondo. Questi sono quindi obbligati ad essere interoperabili con questa tecnologia americana di Google. Essere i primi a poter fornire l’innovazione che tutti cercavano significa assicurarsi il controllo dell’intero mercato presente e futuro creando uno standard di fatto.

Una volta che questi standard de facto sono stati messi in atto dai GAFAM (cioè una volta che la tecnologia americana è stata sufficientemente diffusa), l’American National Standards Institute (ANSI) registra questi standard e li difende negli organismi internazionali di standardizzazione, come ISO e IEC, mobilitare considerevoli risorse di lobbying per far adottare questi standard.

Interrogato dall’AEGE Influence Club, Patrick Bezombes, presidente della commissione per la standardizzazione dell’IA e dei Big Data presso l’Agenzia francese per gli standard (AFNOR), conferma questa attività di lobbying molto significativa da parte dei GAFAM americani nei comitati per gli standard: “i gruppi americani guadagnano miliardi in profitto all’anno, quindi possono facilmente decidere di investire in un team di cento persone solo per lavorare sullo standard e proiettarsi in una visione a lungo termine su questo argomento”. Una strategia costosa e quindi molto meno accessibile ai piccoli attori dell’innovazione dell’IA, come le aziende europee.

Ciò che risulta quindi chiaro è che la strategia cinese è abbastanza simile a quella americana. Usare le imprese monopolistiche per mantenere, affascinare l’innovazione tecnologica, ma soprattutto per stabilire standard de facto, alle aziende americane e cinesi non resta che farle adottare definitivamente presentando ai comitati di standardizzazione un fatto compiuto. Questo approccio pragmatico si basa su un puro equilibrio di potere ed è possibile solo perché Washington, come Pechino, può contare sul proprio apparato industriale e sui propri gioielli nella ricerca di base. Giocatori di dimensioni più modeste, come la Francia, non possono, per mancanza di risorse, copiare questa strategia. Devono quindi cogliere questo confronto normativo o scegliendo da che parte stare, oppure scommettendo su una “terza via”, necessariamente meno offensiva.

Quale posto per la Francia in questa guerra normativa?

Con le due superpotenze in testa alla corsa alla leadership per l’IA, la Francia si sta gradualmente rendendo conto che se vuole esistere in questa competizione, dovrà fare affidamento sull’Europa. Dopo diversi anni di ritardo, Parigi sembra aver finalmente avuto la spinta necessaria, una presa di coscienza che si è tradotta nell’adozione a livello nazionale di una roadmap volta a fare della Francia un hub fondamentale nella corsa all’IA, ma anche con la pubblicazione ad aprile 2021 dalla Commissione Europea dell’Artificial Intelligence Act (AI Act).

Lo scopo principale dell’AI Act è creare un quadro giuridico rigoroso e chiaro attorno alla tecnologia AI. La novità di questo documento risiede nel suo approccio olistico, sia puramente legale, ma anche più etico, con questioni filosofiche o ecologiche.

Ma un altro elemento dell’AI Act è passato inosservato pur essendo una caratteristica chiave di questo documento: il documento della Commissione Europea istituisce, in tutta l’UE, una classificazione delle tecnologie AI correlata ai rischi che vanno dal minimo all’inaccettabile (4 livelli) . Tuttavia, questa classificazione consentirà alle autorità europee di effettuare un vero e proprio controllo di conformità che porti a tecnologie accettate sul territorio europeo con un marchio “trusted AI”, consentendo così di escludere dal mercato comune europeo qualsiasi IA americana o cinese che non non soddisferebbe gli standard europei.

Potenze industriali di prim’ordine, Cina e Stati Uniti basano logicamente la loro strategia normativa sull’innovazione tecno-industriale; In ritardo in questo settore, la Francia e l’UE hanno fatto la scelta della responsabilità e dell’etica per chiudere il loro mercato agli attori stranieri.

Ma ciò non dovrebbe impedire alla Francia di adottare un approccio di standardizzazione più aggressivo, inviando o incoraggiando gli industriali francesi a unirsi ai comitati di standardizzazione come capi progetto su argomenti specifici, ma anche più in generale producendo pressioni all’interno dei voti di questi comitati al fine di approvare testi favorevole alle imprese e ai cittadini europei. Anche la Francia, Paese da tempo all’avanguardia nella ricerca e nell’innovazione (4° Paese al mondo per numero di premi Nobel), deve riconnettersi con le proprie origini e incoraggiare in modo più ampio la ricerca sull’IA nei propri stabilimenti. eccellenza al fine di depositare brevetti che porteranno a standard de facto di origine francese.

E la Francia?

Utilizzati in modo complementare, i brevetti e la standardizzazione consentono sia di proteggere il nostro mercato e le nostre tecnologie, ma anche di distribuirle. Questi due vettori alimentano quindi lo stesso unico obiettivo: la competitività.

Va ricordato che questo approccio all’avanguardia dell’innovazione e della standardizzazione, la Francia ha già saputo sfruttarlo nel corso della sua storia, ad esempio per le celle a combustibile, l’idrogeno, le tecnologie nucleari, ma anche per lo standard “GSM”, che serve ancora oggi come base per la telefonia mobile globale. È questa strategia che ha in parte consentito al Paese di rimanere competitivo in questi campi altamente dirompenti. Pertanto, la Francia ha tutto l’interesse a fare il grande passo e ad adottare strategie di standardizzazione simili nell’Intelligenza Artificiale.

Soprattutto, la Francia non è sola in questa guerra tra due grandi potenze: Parigi ha molti alleati che possono agire al suo fianco: utilizzando i suoi alleati europei come trampolino di lancio e i suoi partner africani come risorsa, la Francia ha davvero i mezzi per realizzare un politica di accerchiamento normativo che consentirà di tutelare la prequadra francese ed europea in tema di innovazione sull’IA. Pertanto, sebbene la Francia non disponga in questa fase di un tessuto industriale sufficiente per competere con Washington e Pechino in termini di standardizzazione attiva, può comunque utilizzare la standardizzazione a fini “difensivi”, per proteggere il mercato europeo dagli appetiti dei due grandi imperi. Questo protezionismo economico attraverso la standardizzazione, limitando e condizionando l’accesso al mercato (francesi,

La Francia deve quindi lanciarsi nella battaglia normativa contro i suoi maggiori avversari internazionali, ma questo significa mobilitare alla sua causa industriali, imprese, gruppi di riflessione, centri di ricerca, imprenditori e altri attori europei che desiderano impegnarsi in campo normativo.

Il dopo Deng e le sfide della nuova leadership, di Daniela Caruso

Gli Stati Uniti non potrebbero smettere di essere stupidi pur se lo volessero, di Stephen M. Walt

Per Washington, la moderazione autoimposta sarà sempre una contraddizione in termini.

I difensori della “leadership globale” degli Stati Uniti a volte ammettono che Washington si è estesa eccessivamente, ha perseguito politiche sciocche, non è riuscita a raggiungere i suoi obiettivi dichiarati di politica estera e ha violato i suoi principi politici dichiarati. Vedono tali azioni come deplorevoli aberrazioni, tuttavia, e credono che gli Stati Uniti impareranno da questi (rari) errori e agiranno in modo più saggio in futuro. Dieci anni fa, ad esempio, gli scienziati politici Stephen Brooks, John Ikenberry e William Wohlforth hanno riconosciutoche la guerra in Iraq è stata un errore, ma ha insistito sul fatto che la loro politica preferita di “profondo impegno” era ancora l’opzione giusta per la grande strategia degli Stati Uniti. A loro avviso, tutto ciò che gli Stati Uniti dovevano fare per preservare un ordine mondiale benevolo era mantenere i propri impegni esistenti e non invadere nuovamente l’Iraq. Come amava dire l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama, dobbiamo solo smetterla di fare ” cazzate stupide “.

La recente difesa del potere statunitense nell’Atlantico da parte di George Packerè l’ultima versione di questa logora linea di argomentazione. Packer apre il suo saggio con un paragone rivelatore falso, affermando che gli americani “esagerano le nostre crociate all’estero, e poi esageriamo con i nostri tagli, senza mai fermarci nel mezzo, dove un paese normale cercherebbe di raggiungere un sottile equilibrio”. Ma un paese che ha ancora più di 700 installazioni militari in tutto il mondo; gruppi di battaglia di portaerei nella maggior parte degli oceani del mondo; alleanze formali con dozzine di paesi; e che attualmente sta conducendo una guerra per procura contro la Russia, una guerra economica contro la Cina, operazioni antiterrorismo in Africa, insieme a uno sforzo senza fine per indebolire e un giorno rovesciare i governi di Iran, Cuba, Corea del Nord, ecc., difficilmente può essere accusato di eccessivo “risparmio”. L’idea di Packer di quel “sottile equilibrio”: una politica estera che non sia né troppo calda né troppo fredda,

Sfortunatamente, Packer e altri difensori del primato statunitense sottovalutano quanto sia difficile per un potente paese liberale come gli Stati Uniti limitare le proprie ambizioni di politica estera. Mi piacciono i valori liberali degli Stati Uniti quanto chiunque altro, ma la combinazione di valori liberali e vasto potere rende quasi inevitabile che gli Stati Uniti cerchino di fare troppo piuttosto che troppo poco. Se Packer favorisce un buon equilibrio, deve preoccuparsi di più di dirigere l’impulso interventista e meno di coloro che stanno cercando di frenarlo.

Perché è così difficile per gli Stati Uniti agire con moderazione? Il primo problema è il liberalismo stesso. Il liberalismo inizia con l’affermazione che tutti gli esseri umani possiedono determinati diritti naturali (ad esempio, “la vita, la libertà e il perseguimento della felicità”). Per i liberali, la sfida politica fondamentale è creare istituzioni politiche abbastanza forti da proteggerci gli uni dagli altri, ma non così forti o incontrollate da privarci di questi diritti. Per quanto imperfettamente, gli stati liberali realizzano questo atto di bilanciamento dividendo il potere politico; ritenere i leader responsabili attraverso le elezioni; sancire lo stato di diritto; proteggere la libertà di pensiero, parola e associazione; e sottolineando le norme di tolleranza. Per i veri liberali, quindi, gli unici governi legittimi sono quelli che possiedono queste caratteristiche e le utilizzano per salvaguardare i diritti naturali di ogni cittadino.

Ma prendi nota: poiché questi principi iniziano con l’affermazione che tutti gli esseri umani possiedono diritti identici, il liberalismo non può essere confinato a un singolo stato o anche a un sottoinsieme dell’umanità e rimanere coerente con le proprie premesse. Nessun vero liberale può dichiarare che americani, danesi, australiani, spagnoli o sudcoreani hanno diritto a questi diritti, ma le persone che vivono in Bielorussia, Russia, Iran, Cina, Arabia Saudita, Cisgiordania e un numero qualsiasi di altri posti non sono. Per questo motivo, gli stati liberali sono fortemente inclini a ciò che John Mearsheimer definiscel ‘”impulso crociato” – il desiderio di diffondere i principi liberali fin dove il loro potere lo consente. Lo stesso problema assilla altre ideologie universaliste, tra l’altro, sia nella forma del marxismo-leninismo o dei vari movimenti religiosi che credono sia loro dovere portare tutti gli esseri umani sotto l’influenza di una particolare fede. Quando un paese ei suoi leader credono sinceramente che i loro ideali offrano l’unica formula adeguata per organizzare e governare la società, cercheranno di convincere o costringere gli altri ad abbracciarli. Come minimo, ciò garantirà l’attrito con coloro che hanno una visione diversa.

In secondo luogo, gli Stati Uniti trovano difficile agire con moderazione perché possiedono una notevole quantità di potere. Come l’ex senatore degli Stati Uniti Richard B. Russell, presidente del Comitato per i servizi armati del Senato e senza colomba, ribadì negli anni ’60: “[Se] è facile per noi andare ovunque e fare qualsiasi cosa, andremo sempre da qualche parte e fare qualcosa. Quando sorge un problema quasi ovunque nel mondo, c’è sempre qualcosa che gli Stati Uniti potrebbero provare a fare al riguardo; gli stati più deboli non hanno la stessa libertà e quindi non affrontano le stesse tentazioni. La Nuova Zelanda è una sana democrazia liberale con molte qualità ammirevoli, ma nessuno si aspetta che i neozelandesi prendano il comando nell’affrontare l’invasione russa dell’Ucraina, il programma nucleare iraniano o le incursioni cinesi nel Mar Cinese Meridionale.

Al contrario, chiunque sieda nello Studio Ovale comanda una serie di opzioni ogni volta che sorgono problemi o si presenta un’opportunità. Un presidente può imporre sanzioni, ordinare un blocco, minacciare l’uso della forza (o usarla direttamente) e qualsiasi altra azione, e quasi sempre senza mettere a serio rischio gli Stati Uniti (almeno a breve termine). In queste circostanze, resistere alla tentazione di agire sarà estremamente difficile, soprattutto quando un coro di critici è pronto a denunciare qualsiasi atto di moderazione come una mancanza di volontà, un atto di pacificazione o un colpo fatale alla credibilità degli Stati Uniti.

Cosa può fare la diplomazia? una conversazione con Jérôme Bonnafont

Cosa può fare la diplomazia? una conversazione con Jérôme Bonnafont

Mentre la professione sembra essere sempre più indebolita ovunque e dovunque, Jérôme Bonnafont, relatore per gli Stati Generali della Diplomazia, torna in un recente libro sulla vocazione diplomatica. In questa intervista fluviale, cerca di delineare un ritratto del diplomatico nel 21° secolo – tra l’interprete e il messaggero.

Jérôme Bonnafont, diplomatico, per cosa? , Parigi, Odile Jacob, 2022, 380 pagine, ISBN 9782415000844

Jérôme Bonnafont è diplomatico di carriera dal 1986. Dopo aver prestato servizio a Nuova Delhi, Kuwait e New York, è stato consigliere e poi portavoce della Presidenza della Repubblica prima di diventare Ambasciatore in India e Spagna, Direttore per il Nord Africa e il Medio Oriente e Consigliere del Primo Ministro. Attualmente è il rappresentante permanente della Francia presso le Nazioni Unite a Ginevra.

Nel tuo libro Diplomate, pour quoi faire?, offri un’ampia riflessione su questa professione che è affine a una vocazione. Colpisce l’ibridità stessa del genere del tuo libro: pensato in luoghi come esercizio di definizione della diplomazia, con una forte dimensione concettuale, attinge anche dal genere delle Memorie, offrendo così una forma di riflessione sulla somma delle tue esperienze passate …

La diplomazia infatti non è una filosofia ma una pratica, anzi un mestiere, nel senso di quei mestieri in cui il saper fare unisce il sapere libresco e l’esperienza che nasce da una lunga applicazione piuttosto perfezionista.

In questo libro mi sono posta per prima cosa la domanda sul percorso che porta qualcuno a voler diventare un diplomatico. È certamente una professione vocazionale, con una duplice natura: il gusto per il mare aperto, il nomadismo e il desiderio di servire la patria. Per servire il suo Paese, dunque, ma per quanto possibile. 

Volevo anche sfatare miti logori. Ricordiamo Chateaubriand, allora diplomatico a Roma, che scriveva a un amico: “   il mestiere è facile, lo possono fare tutti” . Senza dubbio, come molti nella sua situazione, l’autore di Le Génie du Christianisme non si è nemmeno reso conto che probabilmente non stava facendo il suo lavoro, lo faceva solo in apparenza. 

Volevo anche sfatare alcuni miti logori sulla diplomazia.

GIROLAMO BONNAFONT

Un buon diplomatico deve essere guidato da tre tipi di curiosità, passioni e conoscenze. 

Curiosità per il mondo, soprattutto per l’altrove: sentire il richiamo dell’altro, voler vivere con l’altro, influenzarlo ed esserne influenzati, concepire i rapporti tra Stati come uno scambio, non accettare l’idea della sola guerra come ultima opzione. 

Poi la curiosità, la passione per la cosa pubblica. Si tratta di sviluppare una conoscenza dettagliata della politica: come si costruisce uno Stato e come funziona? Quali sono le sue organizzazioni sociali, economiche e politiche, le sue ambizioni, le minacce che provoca o subisce? E questa curiosità vale per il suo paese quanto per gli altri. 

Infine, è un lavoro estroverso, un lavoro sociale: conoscere – e amare – rappresentare, comunicare, organizzare, reagire alle crisi e ai conflitti, negoziare. Un mestiere di azione e di esteriorità, dove il pensiero è messo al servizio del concreto. 

Per illustrare l’impatto che un diplomatico può avere sull’azione esterna del suo Paese, ho scelto, tra l’altro, il famoso esempio del Long Telegram scritto da Georges Kennan nel 1946. Era allora un giovane diplomatico americano di stanza a Mosca. Il presidente Truman si interroga sulla reazione all’imperialismo sovietico. Kennan scrive che, data la natura dell’URSS, gli Stati Uniti non possono stare a guardare, poiché ciò andrebbe contro i suoi interessi e valori. Tuttavia osserva che Washington non può respingere militarmente l’URSS, perché la guerra è impossibile. È così che concepisce quella che sarà conosciuta come la dottrina del contenimento , del contenimento, adottata dall’amministrazione americana e che ha svolto il ruolo che conosciamo nella Guerra Fredda. 

Tuttavia, se confrontiamo i diversi Paesi, osserviamo anche sistemi in cui l’ambasciatore è spesso nominato tra persone vicine al Presidente della Repubblica, senza necessariamente essere un diplomatico. Potrebbe essere, per esempio, nella tradizione americana, qualcuno che ha contribuito a finanziare la campagna elettorale del presidente. Come spiegare questa differenza di modello, tra un tale sistema e quello trovato in Francia? 

Ogni paese ha la sua tradizione. La Francia vive sul modello di un servizio civile professionale, politicamente neutrale e fedele al governo. Come la maggior parte dei suoi partner europei. Lei è attaccata ad esso. Vengono nominati alcuni ambasciatori tra quelli vicini al Capo dello Stato: questo è raro e il più delle volte contribuisce a far respirare il sistema. Questo è il nostro sistema, ha dato prova di sé anche se deve essere continuamente modernizzato e rinnovato.

Altri paesi, come gli Stati Uniti, favoriscono le nomine politiche. Gli ambasciatori sono il più delle volte persone vicine al presidente, o più precisamente donatori che hanno finanziato la sua elezione e che vengono così premiati. Il risultato sono spesso, non sempre, capi di posto ridotti a una funzione cerimoniale mentre i servizi ruotano intorno a loro. 

È un lavoro estroverso, un lavoro sociale: conoscere – e amare – rappresentare, comunicare, organizzare, reagire alle crisi e ai conflitti, negoziare. Un mestiere di azione e di esteriorità, dove il pensiero è messo al servizio del concreto.

GIROLAMO BONNAFONT

La modella americana non è però priva di interesse: quando Pamela Harriman viene nominata ambasciatrice a Parigi dal presidente Clinton, la sua statura e il suo background le permettono di alzare il telefono per parlare con il presidente o un ministro del momento, che ‘un l’ambasciatore ordinario generalmente non può fare di più. Inoltre, se il vertice è gestito dallo ”  spoiler system  “, al Dipartimento di Stato così come nelle ambasciate, un nutrito corpo di diplomatici di carriera assicura la permanenza con professionalità, in particolare per quanto riguarda la conoscenza delle lingue e civiltà così come le tecniche del mestiere.

Cominciamo parlando della fine del libro, e della sua conclusione, intitolata “Diplomazia immutabile e cangiante”. Questo identifica tutta la difficoltà dell’esercizio in cui sei impegnato: catturare l’essenza di una delle professioni più antiche del mondo, ma che rimane una delle prime a cambiare nel tempo. Scrivi così che “l’essenza dell’arte diplomatica è il movimento, la fluidità, la duttilità”. Come, dal punto di vista del diplomatico, non perdere la sua identità in questi movimenti, e spiegare una professione che fatica a definirsi in poche parole?

L’espressione è di Raymond Aron, che ha intitolato un’opera che ripercorre la genesi delle nostre istituzioni: “  Immutabile e cangiante. Dalla Quarta alla Quinta Repubblica”. 

La galleria di ritratti contenuta nel libro vuole mostrare la varietà di profili, professionalità e tecnicismi, nonché le differenze di carattere e di metodo che distinguono tra loro i diplomatici. 

Quando Proust descrive il vecchio marchese de Norpois come un mondano vuoto e pedante, è preso dall’illusione ottica che è che vede il personaggio – i suoi modelli – nella società solo in un ruolo un po’ futile. . Il narratore incontra Norpois solo nei salotti, mai con i suoi partner stranieri, mai con il suo ministro o il suo presidente, mai alla sua scrivania, insomma mai in azione. 

Chi avrebbe dovuto rappresentare Norpois? Forse un Cambon o un Barrère: un vecchio negli occhi di un giovane. Ed è vero, molti ritratti di diplomatici in letteratura danno questa impressione di vanità. Si pensi al personaggio di Georges de Sarre nei romanzi di Roger Peyrefitte, che lascia nel lettore una spiacevole sensazione di vuoto. 

Contrariamente a queste rappresentazioni, mi sembra che la principale qualità del diplomatico sia, per usare un’espressione di Rimbaud, il voler essere “  risolutamente moderno  ”. Pienamente a suo tempo, allo stesso tempo intriso di storia per agire sul presente e cercare di plasmare il futuro con gli occhi aperti sul mondo così com’è e sta andando, e non come lo sogniamo o crediamo.

Chi avrebbe dovuto rappresentare Norpois? Forse un Cambon o un Barrère: un vecchio negli occhi di un giovane. Ed è vero, molti ritratti di diplomatici in letteratura danno questa impressione di vanità.

GIROLAMO BONNAFONT

Sempre nello stesso brano lei scrive che se il diplomatico “lavora nel presente, hic et nunc  “, deve costantemente “tenere presente l’impermanenza”. Il diplomatico è una specie di dialettico?

Qualsiasi azione pubblica richiede una dialettica, una diplomazia come le altre. Dobbiamo costantemente scegliere: arbitrare, ad esempio, tra il breve e il lungo termine. Le soluzioni immediate possono creare difficoltà per il futuro, anche se devono essere favorite quando l’urgenza lo impone. E spesso si tratta di scegliere tra le seconde migliori opzioni.

Ci sono altri tipi di scelte; tra la guerra o la pace, tra lo spirito di compromesso, indispensabile per raggiungere soluzioni comuni ma frustrante, e lo spirito di autoaffermazione. E, come vediamo oggi, essere troppo assertivi può scuotere i sistemi internazionali, mettendo così in discussione la loro stabilità. Occorre anche distinguere tra “interessi” e “valori”, anche se questa distinzione è in pratica difficile da definire. 

La diplomazia è caratterizzata dalla ricerca permanente di compromessi accettabili con la realtà nel presente. In questo senso non può esistere un’architettura assoluta e permanente. Come diplomatico, cerchi di risolvere il problema del momento, ma anche di costruire qualcosa di stabile, un trattato, un sistema di sicurezza. Tenendo presente che può spostarsi in qualsiasi momento! Se ti lasci andare nello spirito del sistema o dell’ideologia, la fluidità e la complessità della realtà ti sfuggono. L’immutabile e il mutevole, ancora.

I riferimenti storici – e alla mitologia – innervano il tuo lavoro. Una di esse colpisce particolarmente: è il riferimento che fai a Hermes, il Dio messaggero, sotto la cui protezione il diplomatico sembra posto. Tuttavia, l’intera difficoltà del lavoro del messaggero è riuscire a far udire l’inudibile, sia in casa che fuori. A costo di diventare un bersaglio o agire come un parafulmine… 

Nel mondo funzionale in cui viviamo, non è male mettere un po’ di colore, da qui il ricorso all’Antichità. Cito due figure in particolare: quella di Ermete e quella di Gabriele, omaggio alle due fonti principali della nostra civiltà: quella greco-romana e quella giudeo-cristiana. 

Hermès si riferisce alla nostra eredità politeista, Gabriel alla nostra storia monoteistica. Hermes è un messaggero speciale: in quanto dio, gode di grande libertà di azione. Gabriele, invece, arcangelo che deve trasmettere il messaggio di Dio, opera in un certo senso sulle istruzioni. Queste sono le due situazioni tra le quali il diplomatico oscilla costantemente.

Il messaggio è ancora ascoltato? La domanda è vecchia. Prendo nel libro l’esempio di André François-Poncet, ambasciatore a Berlino dal 1931 al 1938 poi a Roma nel 1938-1939. Ha scritto Souvenirs che mostrano chiaramente che ha capito tutto quello che stava succedendo a Roma e Berlino in quel momento. È stato ascoltato dalle sue autorità? Il sistema di vincoli che all’epoca gravava sui nostri dirigenti impediva loro di dare una risposta adeguata ai fenomeni descritti da questo ambasciatore. C’era qualcosa di tragico nella scalata alla guerra.

Un’altra domanda è se il messaggio è ben compreso dal destinatario. Si pensi qui all’esempio dell’ambasciatore americano a Baghdad nel 1991. Ricevuta da Saddam Hussein il giorno prima dell’invasione del Kuwait, si dice — con le dovute riserve — che abbia dato una risposta così ambigua al dittatore che lo interrogava su le conseguenze di un intervento armato che avrebbe visto una sorta di via libera all’invasione. Ciò è stato successivamente smentito, ovviamente, dal corso della storia.

Qual è l’interprete giusto in diplomazia? Mi sembra che il diplomatico debba essere convenzionale e un po’ incrinato allo stesso tempo perché deve oscillare tra i mondi, il suo e quelli degli altri.

GIROLAMO BONNAFONT

Qual è l’interprete giusto in diplomazia? Mi sembra che il diplomatico debba essere convenzionale e un po’ incrinato allo stesso tempo perché deve oscillare tra i mondi, il suo e quelli degli altri. Per fare questo serve una crepa, uno squilibrio, un disagio che metta in moto le cose, il che significa che, pur essendo completamente a casa, lì non ci si trova del tutto a proprio agio e si ha bisogno di questa apertura per respirare.

Roberto Calasso ha scritto un libro magnifico su questo argomento, La Ruine de Kasch , in cui osserva la figura di Talleyrand, traghettatore tra il vecchio e il nuovo mondo. Ora Talleyrand è questo gran signore la cui famiglia gli ruba la primogenitura con il pretesto che, in quanto piede torto, non può essere un soldato.

Coincidenza significativa, zoppia – ricorda cosa ha osservato Dumézil: Efesto, anche Giacobbe zoppicava. I vecchi pensavano che questa infermità, l’handicap in generale, desse delle attitudini, una capacità di accesso a campi dove il normale non può arrivare.

Precisione di giudizio, capacità di farsi capire e ascoltare dalle autorità e dagli interlocutori stranieri, sono qualità che si imparano e maturano nel tempo. Poi, le cose appartengono all’autorità politica, è la regola fondamentale di questo tipo di professione. 

Da lì si passa a un’altra metafora che gioca un ruolo centrale nel tuo lavoro: l’immagine musicale, che fa del diplomatico un interprete. Sotto questo prisma, il ruolo del diplomatico non è semplicemente quello di trasmettere il messaggio, ma di dargli significato, persino incarnarlo, seguendo i limiti prescritti dall’autorità politica – queste istruzioni sono l’equivalente di uno spartito. Come rispettare concretamente questa linea di cresta, assicurando che il messaggero dimostri la necessaria umiltà e moderazione – il che solleva anche una questione democratica? 

L’immagine musicale permette di descrivere il dialogo permanente tra il diplomatico-esecutore e il politico-compositore. Le istruzioni sono come una partitura; durante le trattative, il diplomatico tasta il polso ai suoi omologhi, per poi rientrare nella sua capitale nell’ambito di un dialogo continuo. È vincolato dalla sua partitura, ma gode della libertà dell’interprete.

Il compositore è il politico; con questa particolarità che certi diplomatici – ad esempio i consiglieri diplomatici del Presidente o del Primo Ministro – possono contribuire a scrivere questa partitura, anche se rimane fondamentalmente politica. Secondo questa immagine, si noti che lo stesso compositore è spesso un interprete: questo è il caso in cui gli stessi politici si impegnano direttamente nella diplomazia, in particolare durante i vertici o le visite bilaterali.

Ci sono anche casi in cui il diplomatico deve improvvisare, soprattutto nelle crisi. Deve quindi, per improvvisare bene, aver accumulato una somma di conoscenza ed esperienza, in modo che il riflesso dell’improvvisazione poggi su una base sicura.

L’immagine musicale permette di descrivere il dialogo permanente tra il diplomatico-esecutore e il politico-compositore. Le istruzioni sono come un punteggio.

GIROLAMO BONNAFONT

Nel tuo lavoro noti il ​​contrasto tra il linguaggio delle armi e quello della diplomazia, mentre spieghi che l’uno non può avere un’esistenza duratura senza l’altro. Se la diplomazia può vivere all’ombra della guerra – che risuona dell’attualità più immediata – come fare in modo che i conflitti non la emarginino definitivamente? In pratica, si ha l’impressione che, lungi dall’essere complementari, questi due linguaggi siano spesso opposti…

Sono due facce della stessa medaglia: la diplomazia che svolgi dipende da ciò su cui sei stabilito. Rappresenti un paese potente o in declino? Ricco o povero? In una posizione di vulnerabilità o in una posizione di forza? La guerra è il culmine del confronto, la prova suprema, ma queste domande sorgono anche quando si tratta di finanze, standard tecnici, impegni commerciali. Si negozia prima secondo una realtà e un equilibrio di potere.

Possiamo vivere senza armi? Prendiamo spesso l’esempio del Costa Rica, che non ha esercito. Ma guarda la Svizzera: la sua neutralità si è basata per secoli su forze armate abbastanza forti da scoraggiare gli aggressori. Puoi quindi essere un paese pacifico e basare questa posizione sulla tua forza militare. 

Anche la storia gioca un ruolo importante: dopo il 1945, la Germania era riluttante a intervenire in operazioni militari esterne, a differenza della Francia o del Regno Unito, pur avendo ricostituito un esercito nel quadro della NATO. 

Ne consegue che quando vuoi pesare in diplomazia, devi assicurarti una capacità credibile affinché i tuoi interlocutori capiscano che quello che dici, il tuo Paese è in grado di farlo.  

È anche necessario distinguere in base ai tipi di guerra. Un solo distinguo su questo immenso e complesso argomento. Se si tratta di una guerra civile, la comunità internazionale deve intervenire per trovare una soluzione pacifica e cercare di imporre la cessazione delle ostilità. Di fronte a una guerra di aggressione, come quella che stiamo vedendo oggi in Ucraina, questa è un’altra questione. Alcuni difendono la scelta pacifista, dicendo che la guerra è il male assoluto. Ma cosa significherebbe per l’Ucraina? Che dovrebbe rinunciare alla sua sovranità?

Parlare non significa arrendersi in anticipo, significa mantenere il filo per cercare di prevenire il peggio e prepararsi al futuro.

GIROLAMO BONNAFONT

L’Ucraina dice chiaramente di no. Resiste con tutte le sue forze. È il vecchio concetto di san Tommaso d’Aquino di “guerra giusta”, di legittima difesa, ripreso dalla Carta delle Nazioni Unite che autorizza, in caso di legittima difesa, l’uso della forza. 

Questo significa che non dovrebbe esserci più dialogo? Affatto. Analizzare le dichiarazioni del Presidente della Repubblica. Diceva sempre che doveva esserci spazio per la diplomazia. Guarda le iniziative messe in atto per risolvere la questione alimentare. Parlare non significa arrendersi in anticipo, significa mantenere il filo per cercare di prevenire il peggio e prepararsi al futuro.

Nell’ambito della riforma dello Stato, sono stati modificati i canali di reclutamento per il flusso diplomatico. Di fronte alla mobilitazione di alcuni agenti, il Governo ha deciso di aprire gli “Stati Generali della Diplomazia”, di cui lei è il relatore generale. Questo è un esercizio unico. Potrebbe descrivere a grandi linee questo processo: quale volontà politica riflette questa iniziativa? In che prospettiva sono stati pensati questi Stati Generali, e quali potenziali conseguenze si prospettano rispetto al momento che seguirà a quello della consultazione?

Inizierò dicendo che oggi osserviamo due fenomeni. 

In primo luogo, i processi di europeizzazione e globalizzazione implicano che gli affari internazionali permeano sempre più quasi tutti gli affari pubblici. Questa è un’estensione del dominio diplomatico. 

Poi, da una generazione, il budget e la forza lavoro del Quai d’Orsay sono in calo: è l’unico ministero di Stato ad aver vissuto una situazione del genere così continuamente. La fine di questo declino è stata segnata da un cambio di direzione, iniziato quando era ministro Jean-Yves Le Drian, e confermato dall’attuale ministro degli Esteri, Catherine Colonna.  

In tale contesto, l’applicazione al Ministero degli Affari Esteri della riforma dell’alta funzione pubblica ha rivelato un disagio fortemente espresso. Da qui l’idea degli “Stati Generali della Diplomazia”, ​​ripresa dal Presidente della Repubblica e dal Ministro: dare la parola agli agenti del Quai d’Orsay e ai soci e utenti del “servizio pubblico della diplomazia” per riflettere su tre temi: 

1. Essendo il mondo quello che è, di quale diplomazia ha bisogno la Francia e cosa significa questo per la professione di diplomatico? 

2. In un’amministrazione moderna, come può il Quai d’Orsay assumere al meglio il suo ruolo di capofila dell’azione internazionale? 

3. In questo contesto, come deve evolvere la professione del diplomatico, sia in termini di struttura che di metodo?

In questo contesto, si è costituito un gruppo per organizzare e condurre questo “grande dibattito” applicato alla diplomazia, al fine di fornire alle nostre autorità politiche – Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro degli Affari Esteri – una relazione sui risultati e raccomandazioni.

Procediamo in modo classico ma ambizioso: invio di questionari ai nostri 13.000 agenti, organizzazione di workshop e audizioni aperte a tutti coloro che sono interessati, di persona o online, visitando i vari siti francesi del ministero e un rappresentante campione delle nostre ambasciate e missioni . Vogliamo che i colleghi di ogni grado e status si esprimano liberamente sulla loro situazione personale e sulla loro visione della nostra professione e del suo futuro; e che, allo stesso tempo, qualificate personalità del mondo politico, economico, culturale, associativo e mediatico ci guidino con la loro visione.

Il risultato dovrà essere un quadro fedele della situazione, certo, ma soprattutto precise indicazioni sul futuro della professione diplomatica, sulle modalità di esercizio che evolveranno, ma che resteranno una componente importante e peculiare dell’azione pubblica.

Il diplomatico continuerà a fornire ciò che è essenziale per la gestione degli affari internazionali, ma lo farà nelle condizioni del nostro tempo.

GIROLAMO BONNAFONT

Secondo lei, come preservare oggi la specificità di una professione di fronte a situazioni molto diverse da quelle che esistevano qualche decennio fa: l’intensificarsi della costruzione europea, l’emergere di questioni globali ben identificate (clima, terrorismo, Covid- 19), o ancora il ruolo crescente svolto dalle imprese multinazionali nelle relazioni internazionali? 

Questi sviluppi non sono sconosciuti. Guarda il campo degli affari strategici: questi sono gestiti da decenni da coppie di diplomatici e soldati che lavorano insieme su questioni di disarmo e non proliferazione. Queste coppie lavorano al Segretariato Generale per la Difesa e la Sicurezza Nazionale (SGDSN), a Matignon, all’interno della cellula diplomatica dell’Eliseo, nei Ministeri degli Affari Esteri e delle Forze Armate, nelle nostre ambasciate e nelle nostre missioni all’estero. Lo stesso vale nel campo degli affari europei, ad esempio all’interno del Segretariato generale per gli affari europei (SGAE), che opera grazie a tandem di diplomatici e specialisti tematici. 

Si tratta di estendere questi binomi generalizzando questo metodo all’elaborazione di tutti i casi globali. Si tratta di trovare modalità di intervento più trasversali, adeguate all’interdisciplinarietà delle materie e alla rapidità delle crisi. Un esercizio essenziale di adeguamento delle strutture e delle modalità operative dell’amministrazione.

La professione deve essere definita attraverso le sue missioni e la sua vocazione. Non sono preoccupato per il futuro della funzione diplomatica. Il diplomatico continuerà a portare l’essenziale per la gestione degli affari internazionali: conoscenza e “uso del mondo”, per usare la bella espressione di Nicolas Bouvier, ma lo farà nelle condizioni del nostro tempo.

Come vede lo sviluppo della diplomazia europea in questo contesto?  

Il futuro della diplomazia europea dipende semplicemente da come l’Europa si affermerà come potenza nel mondo. In Francia abbiamo l’ambizione di un’Europa sovrana, che controlla i suoi destini, come ha sottolineato in numerose occasioni il Presidente della Repubblica. 

In alcuni settori, ad esempio nella politica commerciale o di sviluppo, esiste già una diplomazia europea completa e consolidata. In materia di salute e ambiente, gli Stati e la Commissione uniscono sempre più le loro capacità diplomatiche. In altri ambiti, ancora in divenire, l’approfondimento di questo percorso dipenderà dall’evoluzione politica dell’Europa.

In particolare, a Ginevra, dove sei attualmente distaccato, ti occupi di molte questioni relative al Consiglio dei diritti umani. Nota divisioni quotidiane tra la concezione occidentale dei diritti umani e le posizioni difese da Stati come la Cina o la Russia? Come descriveresti l’evoluzione delle tue interazioni con russi e cinesi dal 24 febbraio su questi temi?

Il Consiglio dei Diritti Umani è composto da 47 Stati eletti per due anni con una rotazione progressiva. Nell’insieme delle Nazioni Unite esistono schematicamente tre gruppi: Stati di affinità (Paesi europei, America Latina, Stati Uniti, Giappone, Corea e pochi altri, cioè una cinquantina di Paesi), che promuovono una concezione universale e indivisibile dei diritti umani. Un secondo gruppo di Stati (Iran, Cina, Russia, molti paesi con regimi dittatoriali o comunque non democratici), contesta questa universalità, afferma che l’Occidente, nella sua ricerca dell’egemonia, usa questi principi per fondare ingerenze negli affari interni degli Stati sovrani. Infine, 

I diritti umani sono universali? La risposta è nei testi e nella loro elaborazione. La Dichiarazione universale del 1948 e le due Alleanze del 1966 (quella sui diritti civili e politici e quella sui diritti economici e sociali) non sono state scritte da soli occidentali e affermano semplici verità sulla pari dignità di tutti e sulle conseguenze che ne derivano. 

Certo, la Cina, ad esempio, ha ratificato il Patto sui diritti economici e sociali ma non il Patto sui diritti civili e politici: questa è la scelta che deriva da un sistema politico. Tuttavia è interessante vedere che in occasione della visita di Michelle Bachelet in Cina nel maggio scorso, che potrebbe aver dato adito a polemiche, questo Paese si è sentito in dovere di ricordare che stava studiando la questione del Patto sui diritti civili e politici. 

Da francese ed europeo, non ho il minimo dubbio sull’universalità dei diritti, non tanto in pratica, basta guardarsi intorno, quanto in termini assoluti: i testi, a rileggerli, dicono semplicemente che ovunque la libertà è più bella della servitù e dell’oppressione. La nostra stessa storia ci ricorda inoltre che questi diritti sono stati duramente conquistati, mai concessi. Ma occorre, in tutta franchezza, saper ascoltare e sentire ciò che gli altri dicono a questo libero e prospero Occidente. Ci rimandano a un passato bellicoso, coloniale, conquistatore, che ha esercitato una grande influenza, spesso crudele, sul proprio destino. Sottolineano di essere spesso vittime di fenomeni economici o ecologici che non hanno in alcun modo creato e che impediscono loro, almeno in parte, di svilupparsi.

Occorre, in tutta franchezza, saper ascoltare e sentire ciò che gli altri dicono a questo libero e prospero Occidente. Ci rimandano a un passato bellicoso, coloniale, conquistatore, che ha esercitato una grande influenza, spesso crudele, sul proprio destino.

GIROLAMO BONNAFONT

In queste pagine, questo cambiamento nel mondo è stato più volte descritto come un periodo di “interregno”. Questa nozione, ripresa in particolare da Josep Borrell in un testo dottrinale, descrive le grandi riconfigurazioni che stiamo vivendo, ma che non si sono ancora realizzate. Come pensa che il multilateralismo di domani possa adattarsi a questa nuova realtà? 

È una grande domanda. Bisogna stare attenti allo sguardo retrospettivo: nel presente abbiamo sempre l’impressione di vivere in un tempo di sconvolgimenti che non comprendiamo fino in fondo. Dopo , tutto diventa chiaro. Questo è il paradigma della civetta di Minerva: cogliamo solo ciò che abbiamo vissuto a posteriori. 

Quindi, se tu fossi stato un giovane europeo vissuto nel 1945, non saresti stato convinto dall’evidenza della stabilità dell’ordine mondiale. Allo stesso modo, quando vivevi nel 1990, un ordine e un sistema continentali stavano tremando. Certo, si è affermato che è stata la vittoria per sempre della pace, della libertà e della democrazia. Ma è un’illusione pensare che negli anni successivi alla caduta del muro o dell’Urss il mondo fosse stabile. Abbiamo assistito alle guerre nell’ex Jugoslavia, a un genocidio in Rwanda, agli attentati dell’11 settembre 2001: un mondo dove accadevano cose impensabili. 

È vero però che oggi osserviamo nuove linee di forza. In primo luogo, l’instaurazione di una duratura rivalità sino-americana. Poi l’affermazione di alcuni grandi colossi regionali: Brasile, India, Russia, Unione Europea. Decine di paesi medi o piccoli devono trovare un nuovo posto all’interno di questo gruppo. E durante questo periodo si esercitano forze opposte: quelle relative a questioni globali, che riteniamo richiedano un trattamento multilaterale; quelli relativi alla parziale messa in discussione della globalizzazione degli scambi, che pone il rischio di frammentazione e di nuovi scontri.

Questa riconfigurazione è fonte di sfide per l’Europa. Prima sfida: essere un potere che conta. Seconda sfida: costruire un sistema internazionale sufficientemente forte da evitare che la rivalità tra le major si traduca in un sistema senza norme, ordine o prevedibilità. È l’ambizione di mettere in atto quella che il presidente Chirac ha definito una “  globalizzazione umanizzata e controllata  ” o addirittura un “  mondo multipolare armonioso  ”. In quanto europei, abbiamo tutto da guadagnare da un mondo stabile e regolamentato.

Abbiamo parlato oggi dell’ascesa di una “diplomazia al vertice”. Quali progressi concreti consentono questi vertici? Alcuni osservatori ne mettono in dubbio il valore, affermando che i diplomatici sono troppo concentrati sulla creazione di dichiarazioni che non riescono a far avanzare la realtà sul campo. Cosa ne pensi ? 

Se non parli, non risolvi nulla. Diplomazia è il verbo; e la parola deve essere tradotta in azione. Queste versioni sono impegni internazionali. Se non ci parlassimo di cambiamento climatico, migrazioni, lotta alla criminalità organizzata, situazione dei diritti umani, crisi umanitarie, come potremmo affermare di gestire interazioni crescenti e questioni globali? 

Poi, se vuoi costruire gruppi regionali coerenti, devi incontrarti. L’Unione Africana è nata dalla sensazione degli africani che se vogliono affermare la loro influenza e gestire da soli i loro affari regionali, devono interagire di più. Prendiamo anche il caso dell’Unione Europea, dove i 27 Stati membri si incontrano costantemente. Creare interesse generale dalla divergenza degli interessi nazionali è un compito complesso, che richiede tempo.  

I comunicati sono impegni internazionali. Se non ci parlassimo di cambiamento climatico, migrazioni, lotta alla criminalità organizzata, situazione dei diritti umani, crisi umanitarie, come potremmo affermare di gestire interazioni crescenti e questioni globali? 

GIROLAMO BONNAFONT

Più in generale, tornerò su questo, l’evoluzione della globalizzazione richiede l’organizzazione della società internazionale. Non siamo più nel tempo in cui gli Stati potevano pretendere di vivere in una forma di autarchia, di autosufficienza, di regolare i propri rapporti attraverso la guerra e le sue estensioni. Le cosiddette questioni globali saranno meglio affrontate da risposte globali e multilaterali. La scelta è tra un intreccio di regole e organizzazioni che inquadrano l’azione sovrana degli Stati e quella di altri attori internazionali, da un lato, e dall’altro il persistere di una forma di anarchia sovrana in cui risiedono solo i rapporti di forza. 

I diplomatici devono adattarsi a questa realtà che ha, sulla loro azione, almeno tre conseguenze: in primo luogo, devono rimanere capaci di padroneggiare questa grammatica dell’equilibrio di potere senza la quale uno Stato non può difendersi. Quindi, devono estendere la loro tavolozza a tutte queste nuove cosiddette questioni globali, che vanno dall’ecologia alle nuove tecnologie, compresa la salute, la migrazione e i diritti umani. Infine, devono adattarsi a una ginnastica costante per spostarsi costantemente dal nazionale al regionale o globale, dal proprio paese a mondi diversi e lontani per geografia e civiltà, ma più vicini che mai alla nostra vita quotidiana.

Insomma, ben lungi dall’aver perso densità a causa dell’evoluzione del mondo, la professione ha guadagnato in contenuti tanto quanto in portata, ed è davvero una professione del futuro per tutti coloro che amano inscrivere la propria vita nel mondo così com’è. Questo è sostanzialmente il messaggio di questo libro ai giovani francesi che si interrogano sul loro futuro, su quello del loro paese e su una vocazione da diplomatico.

https://legrandcontinent.eu/fr/2022/12/15/que-peut-la-diplomatie-une-conversation-avec-jerome-bonnafont/

SINFONIA, di Pierluigi Fagan

SINFONIA. Il termine origina nell’antico greco dove significava “consonanza”. Consonanza s’intende come confluenza di più suoni in un suono principale in modo armonioso. Ancora oggi in greco moderno Συμφωνία significa accordo. Abbiamo dunque due percorsi di significato di accordo, esser d’accordo ed esser accordati. Useremo il concetto, in metafora, per una considerazione sull’immagine di mondo.
A breve inizierò un libro di un demografo britannico che in Introduzione sostiene che il colonialismo ed imperialismo europeo moderno non sarebbe potuto esistere senza una sottostante ondata di continua crescita demografica. Così per l’impeto concorrenziale che nel proseguo del Novecento ha premiato più gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica rispetto l’Europa. Oggi, per la competizione tra USA e Cina e più in generale Occidente vs Resto del mondo, da cui il destino multipolare di cui parliamo spesso in geopolitica. Tutta la sequenza del c.d. “capitalismo” da Genova-Venezia agli USA studiata da Braudel-Arrighi, via Province Unite-Inghilterra-Gran Bretagna-Regno Unito è una crescita di massa del soggetto centrale. Ma gli esempi potrebbero andare avanti per un po’ sia in positivo (popolazione che cresce e si fa massa), sia in negativo (popolazione che decresce e sistemi che si disordinano e perdono potere). Di contro, ogni volta che un demografo parla in pubblico qualcuno dal pubblico insorge accusandolo di essere malthusiano (?).
L’altro giorno leggevo un articolo di Internazionale di uno storico sempre britannico, che se la prendeva con questa nuova mania della geopolitica. L’Autore prima definiva la geopolitica una disciplina riduzionista che tenta un nuovo imperialismo esplicativo quale abbiamo a lungo subito da parte degli economisti, poi aveva gioco facile a distruggere questa pretesa riduzionista basata sul binomio geografia e potenza. Così, quando un geopolitico parla in pubblico c’è sempre qualcuno che avanza con ironico sarcasmo critiche di eccessivo materialismo a base geografica, se non tendenze para-naziste.
Da un po’ di tempo, la nostra attenzione alle questioni ecologico-ambientali partendo dalla variabile climatica, vanno formando sia un canone proprio, sia un paradigma esplicativo che retroproiettiamo nella storia. Scopriamo così che assai spesso, il fatidico “motore delle storia” ovvero ciò che ha mosso a nuovi percorsi e dinamiche rilevanti di quella che era una traiettoria prevedibile e costante, è stato un repentino e significativo cambiamento climatico o ecologico. Ma anche qui, a fronte del a volte eccessivo entusiasmo che nuove qualcuno ad usare una variabile come totalità esplicativa, ci sono molti che lo coprono di critico sarcasmo.
Ogni volta e vale per tutti e tre gli esempi, qualche studioso richiama l’attenzione su una variabile prima poco o per niente considerata che è poi l’oggetto dei suoi studi, ogni volta altri intellettuali partono in quarta ad accusare questa proposta di novità come riduzionista, poco fondata, poco o nulla realmente influente o comunque meno importante ed influente della loro, quella che gli conferisce il crisma di intellettuale.
Andando sul piano di metafora, è come se avessimo platee di solisti che ogni volta che sentono un suono nuovo dondolano la testa prima pensando e poi dicendo che quel suono non è bello e significativo come quello che producono loro. Nell’epoca di X Factor nessuno più scrive sinfonie.
A fine anni ’70 quando la società italiana si venne a trovare alla fine del trentennio postbellico e prima di scivolare nei fatidici anni ’80 che aprirono la stagione socio-culturale che è arrivata sino a poco tempo fa, Fellini produsse quello che chiamò un “filmetto”, una delle sue opere meno riuscite forse, dal titolo “Prova d’orchestra”. Forse si perse nella metafora, credo però che l’intento fosse quello di rappresentare la nuova impossibilità di avere sinfonia, accordo nel suo duplice significato.
Ci sono forse dei paralleli reciprocamente condizionanti tra l’individualismo sociale, la divisione del lavoro alla base dell’economia moderna (e relativo senso di “alienazione” anche se l’analisi di questo concetto presenta problematiche), la divisione delle discipline di studio dell’uomo e del mondo come unico canone della conoscenza sempre “moderna”? O quantomeno di seconda modernità? Non so, forse sì, andrebbe approfondita l’analisi.
Senz’altro però si può dire che ciò che è diviso chiede di esser ordinato dall’esterno. Aristotele, posto in Metafisica il problema che “… (le) molte parti il cui insieme non è un ammasso e il cui intero è qualcosa di più delle parti …” e quindi notato che dovevano avere un criterio di unità, si domandava quale.
Dopo lungo ricercare sull’origine del detto, oggi si pensa che l’espressione poi latina “divide et impera” sia nata dal padre di Alessandro Magno ovvero Filippo II di Macedonia ovvero il primo unificatore dell’ammasso conflittuale di poleis greche che condividevano sì una certa cultura comune, ma con geografie politiche fortemente concorrenziali ed appunto, conflittuali. In termini politico-sociali, sappiamo che il problema occorso ad un certo punto della storia nella polis più famosa ovvero Atene, fu quello della “stasis” della guerra civile che poi aveva anche forti connotati di classe, ne ha parlato in un bel libricino Agamben. C’era certo un forte connotato di classe che si rifletteva sul diritto ovvero sul regolamento giuridico della società; infatti, quella che poi venne chiamata “democrazia”, in realtà a suoi tempi iniziali era chiamata “isonomia” ovvero quello che oggi è scritto in ogni aula del tribunale “la legge è uguale per tutti”. Se la Legge doveva esser uguale per tutti per applicazione, necessariamente doveva esser definita da tutti in definizione. Così nasce la democrazia ateniese, partecipare tutti a definire le leggi ed amministrarle. Infatti, i primi atti democratici che diedero il via alla gloriosa storia della democrazia ateniese, furono riforme giuridico-elettorali operate prima da Clistene e concluse con la definitiva sottrazione del potere giuridico dell’Areopago in esclusiva mano aristocratica, operata da Efialte.
Tornando al ragionamento principale, sembra esserci più che un fortuito parallelismo tra questa frantumazione degli interi e la conseguente necessità di avere un potere a monte che ne dia il necessario ordine che non può più essere auto-organizzato.
I termini di immagini di mondo, non si capisce perché non convenire sull’ovvietà del fatto che le variabili che fanno il mondo sono molteplici e così molteplici dovrebbero esser le componenti delle immagini di mondo ovvero ciò che riflette il mondo al fine di, se necessario, cambiarlo.
Demografia, geografia, ecologia sono variabili e campi di studio necessari al pari di economia, sociologia, politica e molto altro poiché il mondo è alla fine il risultato dell’interrelazione tra tutte queste variabili. Dividere gli interi è il presupposto per richiedere un imperio esterno. “il Vero è l’Intero” diceva un filosofo tedesco, per cui ogni immagine di mondo che tenti di acchiappare il mondo da una sola parte, è falsa. E’ su questa falsità autoindotta che si basa la necessità di un potere che metta in ordine ciò che trattiamo disordinatamente.
Per cambiare ciò che non ci piace o ci sembra non funzionare del mondo, andrebbero aperte scuole di sinfonia? Come lo cambi il mondo se non sei in grado di darne una immagine su cui fare diagnosi e prognosi?

Hyperguerra: esca o fatalità per l’Europa?_di Hajnalka Vincze

Hyperguerra: esca o fatalità per l’Europa?

“Suggerire che la nuova tecnologia possa cambiare la natura immutabile della guerra, non solo il modo in cui viene combattuta, è ignorante. È come dire che un nuovo orologio cambierà la natura del tempo. (
Sean McFate, Le nuove regole della guerra )

Tra dieci anni una nuova grande guerra in Europa sarebbe una iperguerra”: è in questi termini inequivocabili che due ex comandanti della NATO e un eminente specialista britannico dell’Alleanza introducono, al grande pubblico, la nozione di iperguerra nel loro recente libro ( 1). Hanno quindi messo una parola evocativa e facile da ricordare su un fenomeno annunciato da molti, ovvero un imminente cambio di paradigma della cosa militare, dovuto all’arrivo sui campi di battaglia di tecnologie dirompenti, in prima linea l’intelligenza artificiale ( AI). Il lettore perspicace sperimenterà senza dubbio una vaga sensazione di déjà vu. Le formule e l’atmosfera sono inequivocabilmente simili alla RAM (Revolution in Military Affairs) degli anni 90. Solo le tecnologie variano. Resta il fatto che gli europei si trovano ancora una volta di fronte a un dilemma. Trarranno le giuste lezioni dalle loro recenti esperienze o si condanneranno piuttosto a un puro e semplice seguito nei confronti dell’alleato americano? Per una volta, la risposta potrebbe essere meno ovvia di quanto sembri.

Nuovi gadget, nuovi concetti

il generale John R. Allen, ex comandante delle forze Nato in Afghanistan, ora presidente della prestigiosa Brookings Institution, il generale Ben Hodges, ex comandante dell’esercito degli Stati Uniti in Europa, ora a capo degli studi strategici presso il CEPA (Centro per le Policy Analysis), e il professore britannico Julian Lindley-French, consigliere onnipresente nei cenacoli dell’Alleanza, non si sono dilungati nel loro libro di recente pubblicazione, “La guerra futura e la difesa dell’Europa”. Notano che è in corso una “rivoluzione nelle tecnologie militari” e criticano “il desiderio pericolosamente limitato degli europei di cogliere questo cambiamento”. Anche se tutti i tipi di nuove tecnologie all’avanguardia (IA, quantistica, nanotecnologia, ecc.

Tuttavia, secondo questo trio di autori, “la tecnologia guiderà la politica e la strategia in modi senza precedenti”. Non a caso, citano come esempio gli Stati Uniti, dove nel 2018 è stato istituito dal Pentagono un Joint Artificial Intelligence Center (JAIC: Joint Artificial Intelligence Center), sulla base della National Defense Strategy (NDS: National Defense Strategy) di lo stesso anno. Per l’NDS, l’ambiente di sicurezza sempre più complesso è definito, in primo luogo, dal rapido ritmo del cambiamento tecnologico che altererà il carattere della guerra. Il documento elenca sinteticamente le tecnologie in questione: informatica avanzata, “big data”, intelligenza artificiale, autonomia, robotizzazione, ipersonica, biotecnologia e armi ad energia diretta. La persona responsabile di quest’area al Pentagono,

La logica americana è sempre stata chiara: non potendo prevedere il futuro o le minacce future, il modo migliore per premunirsi contro ogni eventualità è garantire, su base costante, una superiorità tecnologica, se possibile “schiacciante”. Nonostante le poche voci di dissenso qua e là, l’accordo su questo punto è, come si suol dire, bipartisan. L’ultima incarnazione di questo approccio è la cosiddetta Third Offset Strategy, lanciata sotto l’amministrazione Obama e da allora perseguita senza sosta. Come riassunto in un rapporto dell’Assemblea Parlamentare della NATO sull’argomento, “la Terza Strategia di Compensazione è in definitiva quella di preservare e aumentare la supremazia tecnologica americana” ( 2). Con il notevole vantaggio che oltre ad irrigare decine di miliardi di dollari di commesse pubbliche del tradizionale complesso militare-industriale, prevede esplicitamente un’ampia collaborazione con aziende private che non hanno alcun legame con la difesa, Silicon Valley guarda caso.

Di fronte a tanta determinazione e slancio, gli europei non mostrano né lo stesso entusiasmo né lo stesso impegno. Il suddetto rapporto osserva: “Alcuni alleati temono che la Terza strategia di offset ponga troppa enfasi su soluzioni tecnologiche avanzate progettate per ambienti operativi specifici in cui gli alleati europei non sarebbero attualmente in grado o disposti a intervenire”. Di qui le varie e varie ingiunzioni. I tre autori di “The Future War” avvertono: “Hyperwar sta arrivando in Europa, spinto non dagli europei, ma dal cambiamento tecnologico in corso negli Stati Uniti, in Cina e in Russia. Se gli europei non si comportano di conseguenza, potrebbero “trovarsi di fronte a una nuova Pearl Harbor”.3 )”. Solo che in Europa, questa volta, c’è riluttanza. E non sono estranei a certe esperienze recenti.

Ritorno della RAM, in modalità turbo: strumento di manutenzione sotto la tutela degli alleati

Dalla prima guerra del Golfo si cominciò a parlare di “rivoluzione” per designare i cambiamenti apportati nell’arte della guerra dall’uso massiccio delle tecnologie informatiche. Oggi si annuncia un salto qualitativo ancora più decisivo: nuove tecnologie emergenti e dirompenti dovrebbero accelerare ancora di più, in proporzioni “sovrumane”, il ritmo della guerra, anche – perché, in parte, di questa velocità – escludere completamente l’umano essere, a lungo termine. Va notato che questa riedizione, in meglio, della RAM arriva in un momento di crescenti rivalità tra grandi potenze. La posta in gioco è quindi molto più alta che nell’era relativamente spensierata degli anni ’90, quando l’aspetto geopolitico della RAM era più preoccupato del suo impatto sugli equilibri di potere all’interno del mondo occidentale.

Uno dei progettisti della RAM, e vicepresidente del Joint Chiefs of Staff, l’ammiraglio William A. Owens, lo scrive nero su bianco: la corsa alle nuove tecnologie è un nuovo modo di perpetuare la “leadership americana nell’Alleanza” . Nel suo libro Alto mare, pubblicato nel 1995, sviluppa l’idea secondo la quale “la superiorità americana in questi campi può darci lo stesso tipo di influenza politica che abbiamo avuto in passato grazie alle nostre capacità nucleari. In quanto superpotenza nucleare occidentale, gli Stati Uniti godevano di un’autorità preminente all’interno della NATO per organizzare e dirigere le difese dell’Europa occidentale. Per l’ammiraglio, la scomparsa dell’Urss ha svalutato questa leva nucleare, con il corollario “il crollo dell’argomento a favore del dominio americano nell’Alleanza e, per estensione, quello dell’influenza degli Stati Uniti negli affari europei. Per preservare la nostra influenza con i nostri alleati, dobbiamo trovare un sostituto dell’ombrello nucleare”.

Con la promozione delle nuove tecnologie digitali nello spazio militare, la soluzione è stata trovata. Secondo l’ammiraglio Owens, gli Stati Uniti possono “stabilire una nuova relazione [con i suoi alleati] basata sul progresso tecnologico americano nei settori del C3I, della sorveglianza e dell’acquisizione di bersagli e delle armi a guida di precisione. Questi strumenti offrono un margine di superiorità e sono attraenti per tutte le nazioni, ma sono molto costosi da sviluppare; [per gli europei, che vogliono] trarne vantaggio senza doverne sostenere i costi, lavorare a fianco degli Stati Uniti diventa un’opzione allettante. L’America avrebbe quindi voce in capitolo su ciò che fanno con le loro forze armate”.

Tra i tanti svantaggi, da parte europea, di tale dipendenza (come l’insicurezza dell’approvvigionamento o il prosciugamento della base di difesa industriale e tecnologica), ne citiamo qui solo uno, quello che riguarda direttamente l’operatività delle forze armate attrezzo. Tenere il ritmo imposto dal tecnologismo americano comporta, per gli alleati, spese colossali e comporta, di conseguenza, una riduzione del numero dei mezzi. Possono rimediare a ciò in due modi, optando per la specializzazione o accettando il formato di un esercito campione. In entrambi i casi, diventano incapaci di fare la guerra in modo indipendente. Finirebbero, come dice questo monito rivolto agli inglesi da Raymond Odierno, comandante dell’esercito americano, “combattendo non ‘accanto’,

Hubris tecnologica, eminentemente controproducente

RAM, inoltre, ha già evidenziato due punti deboli che non potranno che aumentare con gli scenari di tipo “hyperwar”. Queste sono le vulnerabilità intrinseche dell’eccessiva digitalizzazione (come evidenziato dall’aumento degli attacchi informatici) e la mancata corrispondenza con gli obiettivi politici (illustrati in modo lampante in Iraq, Libia, Afghanistan). Nel 2017, il Defense Science Board del Pentagono ha osservato che praticamente nessun sistema d’arma in servizio negli Stati Uniti era immune da un attacco informatico. L’apparato militare americano è sia il più digitalizzato che, non essendo questo nuovo, il più vulnerabile. Un rapporto della Brookings Institution, dedicato all’evoluzione della tecnologia militare 2020-2040, riassume la situazione: “Gli eserciti moderni hanno effettivamente messo i talloni d’Achille in tutto ciò che usano, creando enormi opportunità per i loro nemici. (4 )”

La scommessa americana su tutto ciò che è tecnologico va di pari passo, infatti, con una cronica incapacità di vincere le guerre. Il generale Vincent Desportes discute questo argomento nel suo libro L’ultima battaglia di Francia “La tecnologia è solo una dimensione dell’efficacia strategica. Gli armamenti vanno ovviamente considerati in termini dei loro effetti militari, ma soprattutto della loro capacità di partecipare utilmente al raggiungimento dell’effetto politico desiderato. Il minimo che si possa dire è che durante i conflitti degli ultimi trent’anni, questa efficienza e questa capacità della tecnologia all’americana non sono state dimostrate. Un recente rapporto del Parlamento europeo invita anche alla prudenza di fronte a “l’eccessivo affidamento sui sistemi tecnologici dovuto a percezioni eccessivamente ottimistiche dell’efficacia delle soluzioni tecnologiche a problemi politici complessi”. Resta il fatto che, sempre secondo questo rapporto,5 ).

Insidie ​​e sfide in Europa: dipendenze di rete

Di fronte alla prospettiva di tecnologie dirompenti, gli europei non possono più nascondersi: i rischi di dipendenza e vulnerabilità aumentano con il cambiamento rappresentato dal 5G, dalla robotizzazione avanzata, dall’intelligenza artificiale o dalla tecnologia quantistica. La sovraesposizione delle nostre aziende e dei nostri dispositivi militari sta aumentando esponenzialmente. E questo, anche se la chiusura del sistema prescelto – sovrano o sotto controllo straniero – diventa quasi completa.

Un assaggio di ciò che potrebbe attendere gli europei in questa logica di iperconnettività è offerto dal sistema informatico di supporto logistico ai velivoli F-35, compresi quelli acquistati da partner o clienti esteri, denominato Autonomic Logistics Information System, e meglio conosciuto come ALIS. È stato progettato per affrontare il problema insito negli aerei militari all’avanguardia, vale a dire costi di manutenzione esorbitanti e tassi di disponibilità ridotti. Per fare ciò, ALIS invia continuamente informazioni sullo stato del velivolo, tutti i dettagli tecnici, inclusi piani di volo, profili di missione, dati di comunicazione e immagini video, al produttore Lockheed Martin, quindi negli Stati Uniti. Se l’obiettivo era facilitare la manutenzione dei dispositivi, è chiaro che è mancato. Secondo un rapporto della Corte dei conti americana, i suoi malfunzionamenti causano più di 45.000 ore di attività aggiuntive all’anno per un’unità dell’aeronautica. Il segretario dell’aeronautica americana ha anche scherzato, dicendo:

La situazione è infinitamente più problematica per gli acquirenti stranieri. Si trovano in un sistema altamente inefficiente, sul quale non hanno alcun controllo e nessuna speranza di staccarsene. Un eccellente specialista dell’F-35, l’americano Bill Sweetman, ha osservato nel 2009 che era “difficile vedere come l’aereo potesse operare senza il supporto americano diretto e costante”, dato che “senza accesso all’ALIS, il dispositivo sarà rapidamente messo a terra. Inoltre, questo accesso comporta il continuo trasferimento di informazioni altamente sensibili, i cosiddetti dati sovrani, verso gli Stati Uniti e Lockheed Martin. Italia, Australia e Norvegia non sono riuscite a trovare soluzioni che avrebbero permesso loro di tenere per sé le proprie informazioni, e nemmeno la soluzione collettiva tramite Lockheed Martin (finanziata per 26 milioni di dollari, direttamente dai partner) ha portato i risultati sperati. L’SDM (Sovereign Data Management) progettato successivamente in aggiunta ad ALIS è sempre basato sulla fiducia, ovvero il cliente non ha la certezza che il filtraggio tra i dati che possono essere trasmessi o meno sarà realmente effettuato secondo le sue aspettative. Quest’ultima, inoltre, dispone ancora di poche ore di “volo libero” prima che l’aeromobile sia obbligato a ricollegarsi ad ALIS per continuare ad operare. vale a dire che il cliente non ha la certezza che il filtraggio tra dati trasferibili o meno sarà effettivamente effettuato secondo le sue aspettative. Quest’ultima, inoltre, dispone ancora di poche ore di “volo libero” prima che l’aeromobile sia obbligato a ricollegarsi ad ALIS per continuare ad operare. vale a dire che il cliente non ha la certezza che il filtraggio tra dati trasferibili o meno sarà effettivamente effettuato secondo le sue aspettative. Quest’ultima, inoltre, dispone ancora di poche ore di “volo libero” prima che l’aeromobile sia obbligato a ricollegarsi ad ALIS per continuare ad operare.

L’architettura JEDI (o chi le succederà) è ALIS alla potenza di dieci. La nuvola di guerra) immaginato dal Pentagono e la cui realizzazione è stata affidata a Microsoft si è presentato come la soluzione perfetta. Certo, questa Joint Enterprise Defense Infrastructure – che avrebbe gestito il cloud computing di tutto l’esercito americano, tutti i servizi e le agenzie messi insieme – è stata appena cancellata per ragioni interne, ma il concetto di un’interconnettività sempre più avanzata e sempre più avvolgente, rimane il corso. L’ottimo analista britannico Paul Cornish non ha sbagliato quando ha scritto: “JEDI è vitale non solo per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, ma anche per garantire che la rete informativa strategica dell’Occidente sia il più coerente e decisiva possibile”. Qualunque forma prenderà la sua successione, riapparirà la nota ingiunzione:

Orologio tiepido per l’UE

Stretto tra, da un lato, la sua dipendenza militare dagli Stati Uniti (ma anche dai colossi digitali americani, il famoso GAFAM per il quale non ha equivalenti) e, dall’altro, la sua esposizione alla Russia (nel campo della cyber ) e la pressione cinese (in termini di infrastrutture di telecomunicazioni, in particolare reti 5G), l’Europa è più una facile preda che una potenza “geopolitica” in divenire. In questo contesto, la Commissione di Bruxelles mostra un volontarismo indiscutibile, raramente visto da parte sua. Nel suo ultimo discorso sullo “Stato dell’Unione”, nel settembre 2021, la presidente Ursula von der Leyen ha affermato: “Il digitale è la questione decisiva”. Non “un”, ma “le”: si noti l’articolo determinativo (lo stesso nel testo inglese: “the”problema decisivo ). E sottolinea: “Non si tratta solo di competitività, ma anche di sovranità tecnologica”.

Le sue osservazioni sono in linea con una moltitudine di iniziative intraprese negli ultimi tre anni. Che si tratti di costituzione di alleanze industriali (per semiconduttori e tecnologie cloud), di proposte legislative (sulla governance dei dati, o sull’AI), di meccanismi di screening per gli investimenti esteri o dell’ennesima spinta di bilancio (almeno il 20% del recovery plan deve essere dedicato allo sviluppo digitale), l’intenzione della Commissione è chiara. Il commissario Thierry Breton difende, con un certo successo, il punto di vista della “sovranità”. Avverte costantemente che “la padronanza della tecnologia è al centro del nuovo ordine geopolitico”. Il Consiglio Atlantico non si sbaglia: uno dei suoi ultimi rapporti rileva che l’ambizione europea della “sovranità digitale” suscita, da parte americana, le stesse preoccupazioni del concetto di autonomia strategica. Rileviamo lo stesso desiderio di non dipendenza, persino di emancipazione. È chiaro che, in effetti, siamo lontani dal segno.

Non appena si tratta degli elementi costitutivi essenziali che darebbero sostanza a questa sovranità digitale, vale a dire le tecnologie chiave e le infrastrutture critiche, riaffiorano le tensioni degli Stati membri, e lì ritroviamo le solite prime linee. Le conclusioni del Consiglio europeo dell’ottobre 2020, relative alla politica industriale e alla dimensione digitale, parlano certamente di “riduzione delle dipendenze” e di “autonomia strategica”, ma la formulazione contorta la dice lunga sulla strada che resta da percorrere. “Il raggiungimento dell’autonomia strategica preservando un’economia aperta è un obiettivo chiave dell’Unione”. Detto così, il requisito dell’autonomia ne esce diluito e prevale l’imperativo dell’apertura. Nel gennaio 2021, dodici Stati membri hanno pubblicato una lettera aperta per sottolineare questo punto:

Sulle iniziative concrete, riaffiorano le stesse divisioni tra gli Stati membri, intorno alla distinzione tra dichiarata ambizione di autonomia e atti di reale autonomia. Diciannove paesi dell’UE si sono formalmente opposti all’iniziativa della Commissione sulla ricerca quantistica, perché vogliono che aziende e Stati stranieri possano partecipare a questo programma altamente strategico (finanziato con fondi pubblici e finalizzato, in linea di principio, all’autonomia strategica). Sul cloud Gaia-X, il supercomputer che supera la soglia dell’exaflop, equivalente a un miliardo di miliardi di operazioni al secondo, o anche sulle alleanze industriali, è sempre la solita storia: per la maggior parte dei partecipanti, oltre alla Francia, l’apertura (ovvero l’accesso concesso a partner stranieri, in particolare americani) prevale su considerazioni di non dipendenza e, di conseguenza, distorce i progetti. Tuttavia, senza questi “mattoni” critici, è impossibile costruire un ecosistema digitale fidato che permetta di garantire, in completa autonomia, il funzionamento delle nostre società e dispositivi militari sempre più digitalizzati.

Fatalità autoinflitta?

Non servono quindi scenari tipo “iperguerra” perché la questione digitale sia cruciale. Secondo il Ministro delle Forze Armate, Florence Parly, “la tecnologia digitale è ovunque nella nostra vita quotidiana. Il Ministero delle Forze Armate non fa eccezione, nelle sue fregate, nei suoi aerei, nei suoi veicoli corazzati sempre più imbottiti di microprocessori, chip o software. Le nostre comunicazioni si basano su reti digitalizzate”. Precisando che «questa realtà sarà moltiplicata per un fattore 50 o 100 in futuro». Certamente. Tuttavia, come ha affermato il generale Thierry Burkhard, capo di stato maggiore della difesa: “Sì, dobbiamo mantenere una certa superiorità tecnologica, ma se si tratta di avere una F1 efficace solo su un circuito con una scuderia intorno, è un’esca . Quindi non lasciarti trasportare dall’altissima tecnologia. I nostri sistemi d’arma devono essere sempre relativamente resistenti e stabili e, inoltre, devono essere in grado di operare in modalità degradata (6 )”. Un recente rapporto del Senato riprende da solo questo ragionamento e aggiunge altri due criteri: a costi contenuti e senza grosse dipendenze nei confronti del mondo esterno ( 7 ) .

Tuttavia, l’insistenza su un’eccessiva tecnologizzazione accelerata rischia di dirottare i bilanci europei a favore di ipotesi provenienti da culture strategiche e considerazioni economiche a loro estranee ea scapito degli investimenti in un ecosistema digitale veramente autonomo. Non è un caso che la maggior parte delle iniziative nel settore digitale, come negli armamenti in generale, inciampi sul tema della non dipendenza. Non dobbiamo solo trovare, come dice il generale Vincent Desportes, “la tecnologia giusta”, ma anche i partner giusti. In questo ambito, descritto dall’ex direttore dell’ANSII [Agenzia nazionale per la sicurezza dei sistemi informativi] Patrick Pailloux come “la sovranità della sovranità”, stare al sicuro da ogni pressione e ricatto è l’unica bussola rilevante. È chiaro che non è quello scelto il più delle volte dai partner europei della Francia.

Parlando dell’industria degli armamenti, il presidente Macron ha spiegato nel 2020: “L’autonomia è avere l’attrezzatura giusta ed essere sicuri che questa attrezzatura non dipenda da altri poteri. E quindi, non acquistare attrezzature che possono appartenere ai nostri alleati, ma che non sono sempre, in un certo senso, co-decisori di ciò che vogliamo fare. Se vogliamo una vera autonomia militare, vogliamo poter agire con gli americani ogni volta che lo decidiamo. Ma vogliamo anche poter agire anche quando non siamo d’accordo con gli americani su un argomento. E quindi, non vogliamo dipendere da loro. Ciò presuppone avere una vera industria della difesa per evitare che gli americani ci dicano, il giorno in cui interverremo in questa o quell’operazione, “no, no, no, con questo equipaggiamento che è mio,8 )”. Solo che è necessario andare fino in fondo a questa logica. In particolare per quanto riguarda l’uso della cooperazione europea per un ecosistema digitale. Intraprendere rapporti di interdipendenza con partner che si condannano – con il pretesto di rimanere “aperti” – a dipendere da qualsiasi terzo è lo stesso che accettare questa dipendenza. Con, di conseguenza, la definitiva perdita di alternative. A quel punto, qualsiasi pensiero indipendente sul futuro della guerra diventerebbe irrilevante, con gli europei che non avrebbero altra scelta che seguire l’esempio.

Giudizi

( 1 ) J. R. Allen, F. B. Hodges e J. Lindley-French, Future War and the Defence of Europe , Oxford University Press, 2021.

( 2 ) “Maintaining NATO’s Technological Edge: Strategic Adaptation and Defence Research and Development”, Report of the NATO Parliamentary Assembly, di Thomas Marino (Stati Uniti), settembre 2017.

( 3 ) “NATO 2030: Uniti per una nuova era”, analisi e raccomandazioni della Task Force istituita dal Segretario Generale della NATO, novembre 2020.

( 4 ) Michael E. O’Hanlon, Forecasting change in military technology, 2020-2040 , The Brookings Institution, settembre 2018.

( 5 ) “Innovative technologies shaping the 2040 battlefield, EPRS”, Servizio di ricerca del Parlamento europeo, agosto 2021.

( 6 ) Intervista al Generale Thierry Burkhard, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, La Tribune , 18 marzo 2021.

( 7 ) “Nagorno-Karabakh: dieci lezioni da un conflitto che ci riguarda”, rapporto di informazione (O. Cigliotti e M.-A. Carlotti), Commissione Affari Esteri, Difesa e Forze Armate del Senato, 7 luglio 2021.

( 8 ) Osservazioni del presidente Emmanuel Macron al dibattito dei cittadini con la cancelliera Angela Merkel, Aquisgrana, 22 gennaio 2020.

Didascalia della foto in prima pagina: Il termine “hyperwar” descrive un nuovo paradigma bellico, costruito attorno a nuove tecnologie dirompenti, come l’intelligenza artificiale. ©USAF

https://www.deftech.news/2021/12/08/hyperguerre-leurre-ou-fatalite-pour-leurope/

L’INFLAZIONE NEL CONFLITTO STRATEGICO DELLA FASE MULTICENTRICA, a cura di Luigi Longo

L’INFLAZIONE NEL CONFLITTO STRATEGICO DELLA FASE MULTICENTRICA

a cura di Luigi Longo

 

1.Lo scritto di Megas Alexandros (alias Fabio Bonciani), pubblicato sul sito www.comedonchisciotte.org del 6/12/2022 con il titolo Il controllo dell’inflazione per la BCE viene prima della pace fra i popoli, del quale invito alla lettura, pone il problema del controllo dell’inflazione nella società cosiddetta capitalistica (si continua a definirla così per mancanza di ricerca e di studi).

Dico subito che non condivido né il privilegiare l’aspetto monetaristico né il campo teorico di posizionamento della Modern MonetaryTheory (per una introduzione della citata teoria si rimanda al sito www.mmtitalia.info); ne sottolineo però il merito nel trattare la questione dell’inflazione ad un livello interessante e non banale, come fa, invece, la vulgata maistream dei grandi esperti economisti (di destra, di centro e di sinistra, per chi crede ancora a queste ideologiche divisioni che nella storia passata – a partire dal 1789 della rivoluzione francese – avevano un senso forte e fondato in Europa (Costanzo Preve, Destra e sinistra. La natura inservibile di due categorie tradizionali, Editrice C.R.T., Pistoia, 1998), ma oggi diventa stupido (nell’accezione dello storico Carlo Maria Cipolla) attardarsi ancora su queste mistificazioni sistemiche. Giorgio Gaber questa pantomima l’aveva risolta nel 1995-1996! (Album musicale E Pensare Che C’era Il Pensiero). Per non parlare dei lavori di Gianfranco La Grassa e di Costanzo Preve (per esempio, Il teatro dell’assurdo. Cronaca e storia dei recenti avvenimenti italiani, Edizioni Punto Rosso, Milano, 1995).

Riporto una lunga frase dall’articolo di Megas Alexandros che mi permette di avanzare alcune riflessioni che considerano l’inflazione come un processo di distribuzione di risorse finanziarie-monetarie a) tra i gruppi sociali che configurano il popolo, b) tra le varie sfere (economica, sociale, finanziaria, istituzionali, eccetera) che compongono l’intera società e i relativi rapporti sociali storicamente dati, c) tra i mutamenti dei prezzi relativi come espressione del conflitto tra gli agenti strategici, d) tra gli agenti strategici per l’appropriazione delle risorse finanziarie-monetarie come strumenti di lotta per il potere e il dominio, e) tra gli agenti strategici per il controllo dello strumento Stato (con le sue articolazioni istituzionali e territoriali) per realizzare la loro idea di vita e di rapporto sociale (con la strategia, la gestione e la esecuzione) nella società storicamente data, la cui realizzazione è espressione di egemonia di dominio e non di potere (per approfondimenti si rimanda, nonostante la lettura prevalentemente economica, sia al vecchio e ottimo articolo di Jacob Morris, La crisi da inflazione in Monthly Review n.10/1973 sia al vecchio e ottimo libro di Roberto Convenevole, Processo inflazionistico e redistribuzione del reddito, Einaudi, Torino, 1977).

La lunga frase è: Mentre pare abbastanza chiaro che in caso di inflazione da eccesso di domanda in pieno boom economico, dove la gente si ritrova ad avere molti più soldi rispetto ai prodotti da acquistare, il governo debba immediatamente procedere a raffreddare l’economia attraverso politiche fiscali restrittive. Quello che invece oggi a molti non è chiaro, è come si debba affrontare il fenomeno inflattivo in corso di matrice esogena, scatenato da una vera e propria azione speculativa nel settore pressoché monopolistico dell’energia. Fenomeno che per molti paesi come il nostro, la cui economia versa in stato recessivo, assume i contorni ancora più drammatici della stagflazione.

Anche in questo caso è chiaro che il fenomeno ha origine dalla mancata azione dei governi, che rinunciano volutamente a porre un freno all’azione di chi gestisce nel paese in regime di monopolio il suddetto settore. Basterebbe che il governo imponesse un tetto al prezzo di rivendita all’interno del paese stesso (e non al produttore come desidera Mario Draghi) ed il fenomeno sarebbe già sotto controllo. Perché come ben sappiamo, il problema energetico non è alla fonte, ovvero non manca la materia prima o chi ce la fornisce, ma i nostri governi compiacenti hanno messo in mano le nostre vite ai diavoli della finanza speculativa, consentendo loro di fare il prezzo del gas in base alle loro scommesse e di conseguenza, alle compagnie energetiche di conseguire profitti colossali succhiando il sangue delle famiglie e delle imprese che vivono nel nostro sistema economico.

Il monopolista della moneta, in extrema ratio, per salvare il proprio sistema economico e la propria gente, sarebbe persino in grado di operare all’interno delle propria politica fiscale, nella direzione di una totale nazionalizzazione di un settore vitale come è appunto quello dell’energia. Ed addirittura fornire energia al proprio popolo sottocosto o a costo zero, qualora la situazione lo richiederebbe.

Le riflessioni che avanzo che considerano l’inflazione come un processo di appropriazione e di spostamento di risorse finanziarie-monetarie tra gli agenti strategici e tra i gruppi sociali che costituiscono il popolo sono le seguenti:

1.Il denaro è l’espressione di un rapporto sociale, “la sua funzione specificatamente sociale, e quindi il suo monopolio sociale, diventa quello di rappresentare la parte dell’equivalente generale entro il mondo delle mercie segue la logica dell’appropriazione del capitale: “Se il denaro, come dice l’Augier, <<viene al mondo con una voglia di sangue in faccia>>, il capitale viene al mondo grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro” (Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, Libro primo, 1975, pp. 84-85 e pag. 934). Voglio dire che il denaro (comprensivo di tutti gli strumenti finanziari-monetari) è lo strumento del potere e del dominio, il simbolico sociale, che gli agenti strategici accumulano in maniera diversa nelle diverse sfere sociali (economica, finanziaria, politica, culturale, eccetera) per il conflitto finalizzato all’egemonia nella società: il detto siciliano u comannari è megghiu du futtiri racchiude bene il significato profondo del potere.

2.L’importanza delle risorse energetiche nel ciclo economico e nelle strategie geopolitiche nella fase multicentrica: i) l’aumento dei prezzi ha diverse sfaccettature (economiche, finanziarie, politiche, geopolitiche, geografiche e territoriali) che non possono essere ridotte alla sfera finanziario-monetaria (sia pure importante se letta come strumento di conflitto tra agenti strategici) ma al conflitto tra nazioni-potenze per l’egemonia mondiale, ii) l’aumento dei prezzi delle risorse energetiche che hanno dato il peso specifico nel processo inflazionistico non è dato solo dalla speculazione della borsa di Amsterdam (Domenico De Simone, Il Price cap e le facce di tolla, www.sinistrainrete.info ,11/9/2022), ma va visto come una accelerazione strumentale di riconversione economica verso l’uso delle fonti rinnovabili e la chiusura dell’uso delle fonti fossili (il processo di transizione ecologica) ben sapendo che le fonti rinnovabili non sono mature e competitive (nella logica del modo di produzione capitalistico!) e necessitano di una lunga fase di transizione basata ancora sulle fonti fossili classiche (soprattutto il gas naturale): qui si inserisce la stupidità e la servitù europea nell’agevolare il gas naturale liquefatto (GNL) statunitense (la cosiddetta “rivoluzione dello shale” ovvero l’innovazione tecnologica che ha permesso lo sfruttamento con profitto dei giacimenti di idrocarburi contenuti nelle rocce di scisto prodotto con tecniche di distruzione ambientale oltre ad essere il suo utilizzo di difficile e pericolosa gestione sul territorio) a scapito di quello naturale russo, che è più economico, a causa delle strategie di aggressione statunitense, via Nato-Ucraina, alla Russia; iii) il velare il fatto che il sistema, a modo di produzione capitalistico, userà, fino a quando le merci energetiche saranno competitive, le fonti fossili storiche (carbone, petrolio, gas) così come sta avvenendo ora da parte di tutti i Paesi che si adoperano (sic) per la transizione ecologica basata sulle fonti di energie rinnovabili.

  1. L’attacco degli Usa (potenza in relativo declino) alla Russia e alla Cina (potenze in ascesa) con: il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream (1 e 2); le stupide sanzioni alla Russia che hanno finito per massacrare l’economia europea invece di assestare un duro colpo all’economia russa così come si era raccontato da parte Usa; il sabotaggio del grande progetto cinese, di respiro mondiale, delle Vie della Seta; la preparazione dei dazi sulle merci cinesi in particolare acciaio e alluminio; la guerra Nato-Ucraina per indebolire e accerchiare definitivamente il territorio russo e la sua area di influenza; le strategie statunitensi nell’oceano Indo-pacifico per contrastare l’espansione cinese; la disgregazione finale dell’Unione Europea con la crisi economica (e non solo) che si prospetta a seguito della sua servitù volontaria alle strategie statunitensi nel contrastare e isolare la Russia.

 

I processi su menzionati sono innervati e trovano fondamento nel conflitto strategico tra le potenze, con i relativi centri che si andranno a consolidare o a costituire in nuovi poli nella fase multicentrica, ed hanno ricadute differenti nei vari Paesi per le peculiarità storiche diverse.

In conclusione per capire il ruolo dell’inflazione bisogna partire (cito dalla recensione a mò di premessa di Augusto Graziani al libro di Roberto Convenevole succitato) << […] dalla concezione del processo economico come processo ciclico […] l’inflazione ha una funzione specifica da svolgere nel meccanismo capitalistico, che è quella di alterare i prezzi relativi; lungi dall’essere un puro fenomeno nominale, essa assolve alla funzione delicata di redistribuire ricchezze e potere da un gruppo all’altro (mio grassetto, LL). Per l’analisi di questo punto fondamentale, Convenevole utilizza la distinzione marxiana tra fase della produzione e fase della circolazione (mio grassetto, LL). Ogni fase va analizzata separatamente nei suoi rapporti con l’inflazione. Nella fase della produzione […] i prezzi che contano sono da un lato i salari, che rappresentano il costo di produzione, dall’altro i prezzi all’ingrosso delle merci vendute […] Nella fase della circolazione […] i prezzi che contano sono da un lato i prezzi all’ingrosso delle merci […] e dall’altro i prezzi di rivendita al dettaglio. Infine, sempre nella fase della circolazione, i lavoratori impiegano il proprio reddito per l’acquisto di beni finiti; qui, i prezzi che contano sono i salari da un lato, i prezzi al consumo dall’altro. […] L’analisi dei prezzi relativi consente di stabilire in che misura l’inflazione effettui una redistribuzione del reddito, e come di conseguenza essa non sia mai neutrale. La mancanza di neutralità discende direttamente dal modo in cui il meccanismo capitalistico funziona, e per rendersene conto non occorre invocare i complicati alambicchi della moneta interna ed esterna, e dei loro rapporti quantitativi reciproci. E, quel che più conta, gli effetti redistributivi dell’inflazione non appaiono nemmeno come risultato di attriti casuali o di imperfezioni del mercato, bensì come fattori sistemici, insiti nel meccanismo capitalistico. (grassetto mio, LL) >> (pp. XLIX-L).

 

 

 

IL CONTROLLO DELL’INFLAZIONE PER LA BCE VIENE PRIMA DELLA PACE FRA I POPOLI

di Megas Alexandros (alias Fabio Bonciani)

 

L’articolo 2 dello Statuto del Sistema di Banche Centrali e della Banca Centrale Europea (SEBC), solleva da ogni responsabilità chi presiede l’Istituto centrale di Francoforte, nel perseguire la pace e la prosperità dei popoli, ponendo l’obbiettivo del mantenimento della stabilità dei prezzi addirittura al di sopra della vita delle persone.

“Il diavolo si nasconde nei dettagli”, recita un antico proverbio – ed è proprio andando a scovare ed analizzare i dettagli, su cui è stato costruito il progetto predatorio di quella che è oggi l’Unione Europea – ideato dalle élite globaliste – che ritroviamo distintamente lo spirito “diabolico” che giusto appunto, ha caratterizzato l’idea di unire i popoli europei. Una unione monetaria presentata ai popoli stessi, dai suoi più che interessati ideatori, lastricando di marmo le strade per quello che oggi ci appare sempre più chiaro, come l’inferno più profondo.

Il tema dell’inflazione e tutto quello che ad esso gira intorno e che oggi influenza in maniera determinante le nostre vite, è l’ennesima frode dottrinale con cui i poteri stanno manipolando la mente della gente comune, per non rendere loro chiara la verità su chi sono i veri responsabili delle immani sofferenze che stanno affrontando.

L’inflazione, un fenomeno che come vedremo è strettamente generato e connesso all’azione dell’uomo, il cui controllo, viene addirittura messo come obiettivo prioritario all’interno del mandato che i governi dei paesi membri – oggi di tutta evidenza non più di espressione democratica – hanno conferito alla Banca centrale europea.

Ovvero niente è più importante del controllo del livello dei prezzi; tanto da rendere norma scritta che l’agire di chi siede sulla poltrona di governatore a Francoforte, di fronte al comparire dell’inflazione, non debba essere caratterizzato dalla ben che minima pietà cristiana per le sofferenze, i fallimenti e le morti che incontri sulla strada del proprio mandato.

Mai parole più forti di quelle appena espresse, sono così giustificate nell’esporre quanto di deliberatamente delinquenziale, appare leggendo l’articolo 2 dello Statuto del Sistema di Banche Centrali e della Banca Centrale Europea (SEBC) – che recita:

Conformemente agli articoli 127, paragrafo 1 e 282, paragrafo 2, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, l’obiettivo principale del SEBC è il mantenimento della stabilità dei prezzi. Fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi, esso sostiene le politiche economiche generali dell’Unione al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione definiti nell’articolo 3 del trattato sull’Unione europea. Il SEBC agisce in conformità del principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza, favorendo un’efficace allocazione delle risorse, e rispettando i principi di cui all’articolo 119 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. [1]

Se avete letto bene: fatto salvo l’obbiettivo della stabilità dei prezzi, ovverosia dopo aver pensato all’inflazione, la BCE può anche pensare a sostenere le politiche economiche generali dell’Unione e per la precisione gli obbiettivi che vengono indicati nell’articolo 3 del trattato sull’Unione europea (TUE).

Bene, allora andiamo a vedere quali sono i principali obbiettivi, indicati appunto nel TUE [2], che per coloro che hanno ideato questa unione, vengono dopo il controllo dell’inflazione, nella scala delle loro priorità promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli; lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente;

il progresso scientifico e tecnologico; combattere l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuovere la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore.

Sì, avete compreso bene! tutti questi obbiettivi possono essere perseguiti, dal SEBC (e quindi dalla BCE), solo se non compromettono l’obiettivo di controllo dell’inflazione.

Perfino la guerra è consentita nel nome del “Dio inflazione”. E direi che il principio sia ampiamente rispettato, stante gli eventi che stiamo vivendo.

A questo punto, non ci rimane che andare a vivisezionare in ogni suo aspetto quello che rappresenta nella realtà il fenomeno dell’inflazione, visto che per molti ancora, inconsapevolmente rappresenta il terrore assoluto e per chi ci comanda addirittura una priorità da anteporre alla pace nel mondo.

Quando in economia si parla di inflazione, si indica l’aumento prolungato del livello medio generale dei prezzi di beni e servizi in un determinato periodo di tempo, che genera una diminuzione del potere di acquisto della moneta.

Intanto dobbiamo premettere che l’inflazione è un fenomeno strettamente collegato e connesso alla presenza nel mondo della moneta, senza la quale il fenomeno stesso non esisterebbe. E quindi, di conseguenza, il livello dei prezzi e quindi l’inflazione non può che essere deciso da colui che è il monopolista della moneta e che per logica spende per primo. [Al riguardo per chi fosse interessato ad approfondire consiglio la lettura dell’ultimo “framework” che Warren Mosler ha redatto in merito all’analisi del livello dei prezzi e dell’inflazione]

Sto parlando del governo di un paese che, nell’esercizio esclusivo della funzione di politica fiscale ad esso demandato, è fattualmente l’unico soggetto che può immettere la moneta nel sistema economico, attraverso la spesa pubblica. Di conseguenza pare chiaro che solo e soltanto attraverso l’azione dei governi si possa regolare tale fenomeno.

Anche se le cause che possono scatenare l’inflazione possono essere diverse, i rimedi devono essere sempre ricercati nella politica fiscale dei governi e non altrove. Sia che si tratti di inflazione da eccesso di domanda generata da circostanze endogene al paese, quale potrebbe essere un forte surriscaldamento dell’economia, dovuto ad una spesa eccessiva da parte del governo in condizioni di piena occupazione e di scarsità di risorse reali, sia che si tratti di inflazione da scarsità di offerta o proveniente da cause esogene quali il caro-prezzi energetico attuale, non esiste altro rimedio che correre ad aggiustare la politica fiscale da parte dei governi.

Mentre pare abbastanza chiaro che in caso di inflazione da eccesso di domanda in pieno boom economico, dove la gente si ritrova ad avere molti più soldi rispetto ai prodotti da acquistare, il governo debba immediatamente procedere a raffreddare l’economia attraverso politiche fiscali restrittive. Quello che invece oggi a molti non è chiaro, è come si debba affrontare il fenomeno inflattivo in corso di matrice esogena, scatenato da una vera e propria azione speculativa nel settore pressoché monopolistico dell’energia. Fenomeno che per molti paesi come il nostro, la cui economia versa in stato recessivo, assume i contorni ancora più drammatici della stagflazione.

Anche in questo caso è chiaro che il fenomeno ha origine dalla mancata azione dei governi, che rinunciano volutamente a porre un freno all’azione di chi gestisce nel paese in regime di monopolio il suddetto settore. Basterebbe che il governo imponesse un tetto al prezzo di rivendita all’interno del paese stesso (e non al produttore come desidera Mario Draghi) ed il fenomeno sarebbe già sotto controllo. Perché come ben sappiamo, il problema energetico non è alla fonte, ovvero non manca la materia prima o chi ce la fornisce, ma i nostri governi compiacenti hanno messo in mano le nostre vite ai diavoli della finanza speculativa, consentendo loro di fare il prezzo del gas in base alle loro scommesse e di conseguenza, alle compagnie energetiche di conseguire profitti colossali succhiando il sangue delle famiglie e delle imprese che vivono nel nostro sistema economico.

Il monopolista della moneta, in extrema ratio, per salvare il proprio sistema economico e la propria gente, sarebbe persino in grado di operare all’interno delle propria politica fiscale, nella direzione di una totale nazionalizzazione di un settore vitale come è appunto quello dell’energia. Ed addirittura fornire energia al proprio popolo sottocosto o a costo zero, qualora la situazione lo richiederebbe.

E dopo aver visto chi è il responsabile unico nel bene e nel male del fenomeno inflattivo ed accertato che lo stesso soggetto è colui che può facilmente gestire e regolare il fenomeno stesso, ditemi voi se esiste una sola ragione al mondo, eccetto che quella diabolica, di anteporre il controllo dei prezzi alla pace tra i popoli!

Se andiamo oltre nella nostra analisi, possiamo facilmente comprendere, che non solo viene data alla BCE questa “folle” priorità da anteporre su tutto e tutti, ma allo stesso tempo c’è la piena consapevolezza che la stessa sia impossibilitata a rispettare tale mandato, proprio perché priva di quello strumento essenziale che abbiamo visto essere la politica fiscale istituzionalmente demandata ai governi.

Più volte, nei miei articoli, ho evidenziato come le sole politiche monetarie delle banche centrali non abbiano la minima possibilità di far affluire moneta aggiuntiva all’interno del settore privato. Un esempio su tutti sono le famose operazioni di Quantitative easing, con le quali gli istituti centrali emettono moneta per acquistare titoli di stato dal settore privato. Un “partita di giro” che di fatto per banche e privati equivale a giro-contare i propri risparmi da un conto di deposito (titoli di stato) ad un conto di riserva (conto corrente) e niente aggiunge alla capacità di consumo da parte del settore.

Qualcuno potrebbe obiettare che le banche centrali possono aumentare la massa monetare all’interno dell’economia reale attraverso le operazioni di prestito al sistema bancario (i famosi programmi TLTRO), che a sua volta poi presterebbe ai privati. Sì, questo è vero, ma sul punto dobbiamo fare due essenziali considerazioni: primo che trattasi di prestiti e quindi “moneta credito” e secondo che il sistema bancario opera in modo ciclico all’interno del settore privato e con le medesime logiche di redditività; quindi presta solo e soltanto se è certo di avere indietro i propri soldi ed in una economia in stato recessivo, come abbiamo visto, le banche non prestano. Oltre al fatto che non possiamo avere la folle credenza e pretesa che l’economia possa svilupparsi eternamente in modo ciclico a debito. La stessa moneta credito esiste per logica, se a monte c’è stata una precedente creazione di riserve nette da parte della banca centrale, introdotte poi nel sistema economico dagli stati attraverso la spesa pubblica.

Lo stessa facoltà che viene conferita alle banche centrali di poter decidere i tassi di interesse, non serve a niente per fronteggiare i fenomeni inflattivi se non supportata dalla politica fiscale dei governi. Questo, al netto del fatto, che oltretutto molti banchieri centrali nel fronteggiare l’inflazione, sono usi ad interpretare la politica dei tassi al contrario. Ovvero, erroneamente alzano i tassi all’apparire dell’inflazione, come stanno facendo adesso, sia la Fed che la BCE. Cosa che di fatto contribuisce ad aggravare la situazione, soprattutto per quelle economie che si trovano ad affrontare il fenomeno in stato recessivo.

Pagare tassi più alti è di fatto una scelta di politica fiscale e non monetaria, che di per sé è una misura inflattiva, poiché aggiunge capacità di spesa nell’economia (si percepiscono maggiori interessi). Certo l’evolversi inflattivo di tale misura dipende dalla sua interconnessione con lo stato dell’economia del paese che l’adotta, da come è distribuito il risparmio e dalle altre misure di politica fiscale che il suo governo mette in atto.

Quindi ricapitoliamo, la BCE ha come obbiettivo primo ed assoluto il controllo del livello dei prezzi, ovvero fino alla fine del mondo dovrà combattere con ogni sua forza contro l’inflazione, anche se questo dovesse comportare la morte economica e fisica del pianeta. Insomma, usando una metafora, il Governatore della BCE, ha il diritto di gettare a mare ogni passeggero che trasporta pur di salvare una nave che si chiama inflazione. E nel seguire tale folle e delinquenziale mandato, è addirittura ben cosciente che non potrà mai raggiungerlo, proprio perché non ha gli strumenti per farlo.

Se non è diabolico questo, ditemi voi cosa altro lo è!

E che Satana potrebbe veramente aver preso dimora fissa in questa Europa, lo dimostra il fatto che gli Statuti di altre banche centrali, perfino del mondo occidentale (compresa la Fed), almeno, lasciano loro libere di decidere discrezionalmente se privilegiare l’obiettivo di controllo dell’inflazione o altri obiettivi, come l’incremento dell’occupazione e la crescita economica. [3]

 

Note:

[1] Wayback Machine (archive.org)

[2] Art. 3 Trattato sull’Unione europea — Europedirect (assemblea.emr.it)

[3] Banca centrale europea – Wikipedia

 

 

Squilibrio di poteri, ridondanza di poteri _ di Giacomo Gabellini

Il testo di Giacomo Gabellini centra magistralmente un aspetto peculiare che ha determinato le modalità di svolgimento dello scontro politico in Italia. I suoi argomenti, però, sollevano, non so quanto consapevolmente, sarà l’autore a confermarcelo, un tema ancora più generale e generalizzabile riguardante il riflesso della sovrapposizione di poteri sul funzionamento delle istituzioni e il loro ruolo peculiare nel plasmare le dinamiche del confronto politico, specie nelle sue fasi di scontro esasperato ed endemico. Un tema affrontato tra gli altri da Althusser e dai suoi epigoni, negli anni ’70/’80, sulla base soprattutto delle tesi sulla separazione dei poteri, esposte da Montesquieu e del modello interpretativo offerto dai sociologi strutturalisti. Althusser, ancor di più i suoi epigoni, trattando dello stato, in estrema sintesi, più che di separazione, parla di divisione dei poteri all’interno dello stato in una ripartizione codificata di ruoli e di funzioni. Quando in una situazione di crisi o di conflitto esasperato si avvia un processo di destabilizzazione, specie se protratta, di uno dei settori o dell’insieme di esso, accade che a questo vuoto sopperisce in qualche maniera l’azione invasiva e sostitutiva di uno o di altri centri di potere istituzionale, con gravi conseguenze e distorsioni legate alle particolari modalità di svolgimento dell’azione politica dettate dal ruolo e dalle funzioni delle figure destinate a sopperire. Proprio come è successo e sta ancora succedendo con l’interminabile fase di “Tangentopoli” in Italia. Tanto più che il ruolo dei procuratori e la particolare conformazione dell’ordinamento giudiziario in Italia, favorisce sino all’esasperazione la frammentazione e la capillarità e pervasività dell’azione di influenza e condizionamento di gruppi di pressione sin nei centri più periferici, riottosi ad ogni controllo centralizzato e gelosi delle proprie prerogative. Con questo non si vuol negare la frequenza e ricorrenza “occasionale” dell’azione e delle implicazioni politiche dell’azione giudiziaria, quanto sottolineare le conseguenze della sua azione eventualmente protratta nel tempo soprattutto nel ridefinire i pesi all’interno dei centri decisori e l’equilibrio tra le istituzioni. Prigionieri, fermi al loro retaggio marxista e strutturalista, espresso dalla funzione esplicativa della lotta di classe, ad essere precisi del suo mito, e dal gioco delle posizioni proprio dello strutturalismo, il contributo di Althusser, Balibar e Poulantzas si ferma qui, al suo aspetto fenomenologico; anche se non è poco. Dovrà emergere la teoria del conflitto-cooperazione politici tra centri decisori, propria del realismo politico e riemersa in Italia, in forma più compiuta, venti anni dopo con Gianfranco la Grassa, per arrivare ad una chiave interpretativa delle dinamiche politiche e socio-politiche meno deterministica e più comprensiva della complessità dei fattori e delle loro interrelazioni in opera. Buona lettura, Giuseppe Germinario
Osservato retrospettivamente, l’uso strumentale dell’avviso di garanzia recapitato nel 1994 a Silvio Berlusconi mentre presenziava in qualità di primo ministro al vertice internazionale di Napoli sulla criminalità organizzata (in conformità alle anticipazioni fornite al riguardo dal Corriere della Sera e alle pubbliche dichiarazioni pronunciate giorni prima dal coordinatore del pool milanese Francesco Saverio Borrelli) si configura in tutta evidenza come il primo di una lunga serie di “sconfinamenti” di cui si sarebbe resa protagonista nel corso degli anni successivi la magistratura italiana, titolare di privilegi ritenuti inconcepibili in tutte le altre democrazie occidentali. Il modello anglosassone, ad esempio, si incardina sui principi fondamentali della divisione delle carriere, della netta distinzione dei ruoli e della subordinazione dell’azione penale ai criteri oggettivi dell’impatto sociale dei reati e delle concrete chance di successo dell’indagine.
Pochi parametri ma estremamente precisi, a cui i procuratori sono costretti ad adeguare la propria linea d’azione coerentemente con la natura elettiva della loro carica. Ancor più rigoroso risulta il sistema francese, in cui i procuratori rispondono direttamente al Guardasigilli. In Italia, viceversa, i pubblici ministeri hanno il pieno controllo della polizia giudiziaria e beneficiano delle medesime garanzie e guarentigie riservate ai giudici giudicanti. Allo stesso tempo, i pubblici ministeri sono autorizzati ad imbastire rapporti con i giornalisti, specialmente con quelli disposti ad assicurare adeguata eco mediatica e “congrui” ritorni in termini di visibilità in cambio dell’accesso a intercettazioni telefoniche da pubblicare integralmente sulle pagine dei quotidiani. Comprese quelle coperte da segreto o prive di alcun legame con le indagini, qualora il loro contenuto risulti funzionale alle inchieste o alle inconfessabili mire personali del magistrato requirente (come screditare un indiziato con cui si ha qualche conto in sospeso ma di cui non si riesce ad accertare la colpevolezza).
Svincolate dai controlli tradizionali che in ogni sistema democratico disciplinano l’operato di qualsiasi forza istituzionale, le procure hanno acquisito di una gigantesca libertà di manovra, che tende non di rado a trasformarsi in puro e semplice arbitrio per effetto delle perverse implicazioni insite all’applicazione pratica del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. Il quale, lungi dall’assicurare l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, ha posto i magistrati nelle condizioni di indagare sul conto di chiunque, attraverso un’attività di ricerca preventiva alla notitia criminis mirata all’individuazione di eventuali comportamenti passibili di reato teoricamente allargabile alla totalità dei comportamenti e delle interazioni umane. Una vera e propria pesca a strascico, non di rado attuata con precise finalità politiche. Prova ne sono le conversazioni in cui Palamara richiamava l’attenzione dei suoi colleghi magistrati sulla necessità di mettere strumentalmente sotto inchiesta Matteo Salvini. L’obiettivo consisteva non nell’ottenerne la condanna, ma semplicemente nel sabotare l’ascesa politica dell’allora ministro dell’Interno costringendolo un lungo ed estenuante braccio di ferro giudiziario.
Il tono dei messaggi inviati da Palamara (al procuratore di Viterbo Paolo Auriemma che gli manifestava perplesso di non capire dove Salvini stesse sbagliando, Palamara rispose con un inequivocabile «hai ragione, ma bisogna attaccarlo») lascia trapelare uno spiccato senso di impunità, dovuto non tanto all’assenza di leggi che impongano una reale responsabilità civile dei magistrati, quanto alla consapevolezza di poter celare la reale natura di qualsiasi iniziativa investigativa – anche se disposta sulla base di motivazioni ideologiche e/o interessi personali – dietro il paravento dell’obbligatorietà dell’azione penale, specie dinnanzi a un ente di vigilanza egemonizzato dall’Anm come il Consiglio Superiore della Magistratura. Vale a dire un organismo composto per due terzi dai cosiddetti “togati” – cioè giudici eletti da tutti i magistrati – e pertanto animato al pari di tutti gli organi di autogoverno da uno spirito corporativo che lo rende strutturalmente propenso all’anteposizione dei principi dell’autoconservazione e dell’intangibilità dei propri membri a qualsiasi altro genere di considerazione. Lo si è visto proprio con la gestione dello scandalo sollevato dal “caso Palamara”, a cui il Csm ha reagito infliggendo la classica “pena esemplare” al magistrato specifico – la radiazione – senza riservare alcun genere di provvedimento agli altri componenti della “cupola”. Senza l’appoggio dei quali, ovviamente, Luca Palamara non sarebbe mai potuto passare agli annali come il più giovane presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, né entrare a far parte del Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo al cui interno si concordano nomine e bocciature sulla base dei rapporti di forza vigenti tra le varie correnti e non sulle reali capacità dei singoli candidati.
Da quando, negli anni ’60, il Csm cominciò a demolire i sistemi di valutazione professionale risalenti all’immediato dopoguerra – e tuttora vigenti in Paesi come la Francia e la Germania – per sostituirli con meccanismi semi-automatici di avanzamento basati sul criterio dell’anzianità, le prospettive di carriera sono venute a dipendere molto più dalla disponibilità a lasciarsi cooptare che non dal merito. L’assenza di graduatorie basate su criteri quanto più possibile oggettivi produce due effetti immediati e sinergici; per un verso, rende l’adesione a una corrente, a cui offrire “fedeltà” in cambio di appoggio politico, una specie di scelta obbligata per qualsiasi giovane magistrato dotato di un minimo di ambizione. Per l’altro, priva scientemente i membri laici del Csm degli elementi necessari alla valutazione dei candidati in lizza per una promozione, in modo da costringerli a rivolgersi ai consiglieri togati che non mancheranno a loro volta di suggerire i nomi degli appartenenti alla propria corrente.
Questa deriva “tribalista” imboccata dalla magistratura è andata peraltro accentuandosi a partire dall’entrata in vigore della riforma dell’ordinamento giudiziario del 2007. Introducendo un limite temporale per gli incarichi, la “legge Mastella” – che secondo Francesco Cossiga era stata scritta dall’allora Guardasigilli «sotto dettatura di quella associazione tra il sovversivo e lo stampo mafioso che è l’Associazione Nazionale Magistrati» – ha prodotto il risultato di inasprire ulteriormente il tono della competizione tra le varie correnti, rendendole ancora più interessate a piazzare propri “fedelissimi” nei ruoli più influenti. A partire dalle procure, perché in grado di esercitare una particolare influenza all’interno dell’Anm e, a ricasco, del Csm, e in quanto titolari delle prerogative necessarie per «attaccare la politica ogni qualvolta vengano proposti provvedimenti intesi a eliminare o ridurre privilegi non giustificati e a varare riforme sgradite. Specie se implicanti l’affermazione del principio della separazione delle carriere, o l’introduzione di meccanismi sanzionatori che puniscano abusi e inadeguatezze con sospensioni e, nei casi limite, perfino la destituzione dall’incarico.
Il profondo svilimento della giustizia derivante da una simile degenerazione tende inesorabilmente a tradursi sul piano pratico in devastanti contraccolpi sulla vita di milioni di cittadini, oltre a produrre pesantissime implicazioni di carattere sia economico che politico ravvisabili dalle decine e decine di procedimenti giudiziari che prima di rivelarsi destituiti di qualsiasi fondamento avevano mandato in rovina aziende floride, precluso candidature, provocato dimissioni di ministri e amministratori locali e persino causato la caduta di governi.
Un altro effetto, meno plateale ma parimenti deteriore, ascrivibile all’ipertrofia del potere giudiziario consiste nell’inchiodare l’azione politica e burocratica a una condizione di paralisi permanente, confinandola a una specie di immobilismo attendista a cui gli amministratori vanno sempre più frequentemente conformandosi in via precauzionale onde evitare di finire al centro di inchieste giudiziarie che, protraendosi per anni, tendono ad assorbire ingenti somme di denaro e ad accompagnarsi alle rituali richieste di sospensione dall’incarico che da temporanee divengono sovente definitive ed irrevocabili. Il pericolo è reso tanto più concreto non soltanto dalla natura stessa delle mansioni svolte da coloro che ricoprono cariche pubbliche, ma anche dalla vasta gamma di reati estremamente generici (come l’abuso d’ufficio) contemplati dal codice penale che, in presenza di un ordinamento caratterizzato dall’obbligatorietà dell’azione penale, pongono le procure nella posizione di avviare indagini sul conto di ogni amministratore sulla base di pseudo-indizi o semplici “voci di corridoio”, come ampiamente dimostrato dalle 19 assoluzioni consecutive inanellate da Antonio Bassolino.
Qualsiasi politico con un minimo di pelo sullo stomaco, osservava il compianto Marco Giaconi, è infatti perfettamente consapevole che «basta un articolo malizioso, una denuncia da parte di un teste falso ma ben pagato (le anticamere dei Palazzi di Giustizia pullulano di falsi testimoni a pagamento), i vari nemici politici, e si interrompe carriera, vita, dignità di un uomo prima votato da molti, anche se alla fine del procedimento verrà dichiarato innocente». Nel 2017, l’allora presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone ha riconosciuto che «la cosiddetta paura della firma viene anche utilizzata come alibi per non agire, ma non va sottovalutata: molti amministratori sono effettivamente bloccati nel loro operato perché temono di finire sotto inchiesta».
Di fatto, la magistratura si è imposta come principale forza inibitrice del Paese, in grado di paralizzare la società attraverso specifici provvedimenti o molto più semplicemente infondendo – non necessariamente in maniera volontaria – nelle cariche pubbliche una sorta di “timore reverenziale” che conduce o all’autocensura e conferisce un carattere strutturale all’interferenza indebita tra i principali corpi istituzionali dello Stato.
Da parte sua, la politica ha fatto di tutto per accentuare questa degenerazione, cullandosi nell’illusione di poter ovviare al proprio deficit di competenze e di legittimazione popolare affibbiando alla magistratura un ruolo di supplenza – se i legislatori vengono meno alle loro funzioni regolatorie, l’intervento compensatorio del potere giudiziario diviene inevitabile – che le permesso alle procure di assumere gradualmente il controllo effettivo di alcune nevralgiche leve del potere.
Innescato dalla cedevolezza mostrata della classe dirigente dinnanzi al fenomeno del terrorismo, il processo di trasferimento della sovranità dalla politica alla giustizia subì l’accelerata decisiva con l’incredibile rinuncia all’immunità formalizzata nel momento culminante di Tangentopoli dai disorientati parlamentari italiani, resi improvvisamente incapaci di comprendere che quella fondamentale forma di tutela era stata eretta non per garantirne la loro semplice impunità, ma per porre la volontà popolare di cui sono depositari al riparo da qualsiasi minaccia esterna, comprese eventuali indagini da parte della magistratura.
Un concetto che Francesco Cossiga non mancò di ribadire quando, con uno dei suoi proverbiali colpi di teatro, si avvalse delle prerogative di capo supremo delle forze armate spettanti al Presidente della Repubblica per ordinare a un battaglione di carabinieri carristi di circondare Palazzo dei Marescialli in risposta al tentativo del Consiglio Superiore della Magistratura di colpire l’allora primo ministro Bettino Craxi. A suo avviso, il Csm stava tentando di «affermarsi pericolosamente quale terza Camera del Parlamento nazionale, non elettiva, non democratica, ed anche quale organo Costituzionale, posto al vertice del potere giudiziario». Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti, ma il potere della magistratura non ha cessato di crescere. Attualmente, i magistrati partecipano attivamente alle dispute elettorali, passano con grande disinvoltura dai tribunali agli scranni parlamentari e di nuovo ai tribunali, scrivono libri e articoli, presenziano a dibattiti televisivi e si esprimono pubblicamente in merito alle questioni più disparate, completamente avulse dal loro ambito di competenza.
Se nel 2007 l’allora ministro degli Esteri Massimo D’Alema si spinse a confidare all’ambasciatore statunitense a Roma Ronald Spogli che la magistratura era diventata «la più grande minaccia per lo Stato italiano», parte tutt’altro che irrilevante della responsabilità era tuttavia da ascrivere proprio alla classe politica. La quale è divenuta talmente avvezza a delegare la risoluzione delle controversie ai giudici (esempio paradigmatico: il caso relativo all’Ilva di Taranto) da non riuscire ancora oggi a trovare le motivazioni né il coraggio sufficienti per riappropriarsi delle proprie prerogative e recuperare quei margini di autonomia imprescindibili per la stesura di una legislazione ordinata, al passo coi tempi – che richiede una profonda ma irrinunciabile revisione del testo costituzionale – e soprattutto capace di delimitare con precisione lo spazio di manovra delle procure, ponendo fine allo strapotere discrezionale ed irresponsabile di cui godono i magistrati requirenti.
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