LO STATO DELLE COSE DELLA GEOPOLITICA, di Massimo Morigi _ 11a di 11 parti

AVVERTENZA

La seguente è la undicesima di undici parti di un saggio di Massimo Morigi. Nella prima parte è pubblicata in calce l’introduzione e nel file allegato il testo di Morigi; nella sua undicesima parte è disponibile la prosecuzione a partire da pagina 130. L’introduzione è identica per ognuna delle undici parti e verrà ripetuta solo nelle prime righe a partire dalla seconda parte.

PRESENTAZIONE DI QUARANTA, TRENTA, VENT’ANNI DOPO A LE
RELAZIONI FRA L’ITALIA E IL PORTOGALLO DURANTE IL PERIODO
FASCISTA: NASCITA ESTETICO-EMOTIVA DEL PARADIGMA
OLISTICO-DIALETTICO-ESPRESSIVO-STRATEGICO-CONFLITTUALE DEL
REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO ORIGINANDO DALL’ ETEROTOPIA
POETICA, CULTURALE E POLITICA DEL PORTOGALLO*

*Le relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista ora presentate sono
pubblicate dall’ “Italia e il Mondo” in undici puntate. La puntata che ora viene
pubblicata è la prima e segue immediatamente questa presentazione, e questa prima
puntata (come tutte le altre che seguiranno) è preceduta dall’introduzione alla stessa di
Giuseppe Germinario. Pubblicando l’introduzione originale delle Relazioni fra l’Italia
e il Portogallo durante il periodo fascista come prima puntata e che, come da indice,
non è numerata, la numerazione delle puntate alla fine di questa presentazione non
segue la numerazione ordinale originale in indice delle parti del saggio, che è stata
quindi mantenuta immutata, quando questa presente.

UNDICESIMA PUNTATA STATO DELLE COSE

LO STATO DELLE COSE DELLA GEOPOLITICA, di Massimo Morigi _ 10a di 11 parti

AVVERTENZA

La seguente è la decima di undici parti di un saggio di Massimo Morigi. Nella prima parte è pubblicata in calce l’introduzione e nel file allegato il testo di Morigi; nella sua decima parte è disponibile la prosecuzione a partire da pagina 130. L’introduzione è identica per ognuna delle undici parti e verrà ripetuta solo nelle prime righe a partire dalla seconda parte.

PRESENTAZIONE DI QUARANTA, TRENTA, VENT’ANNI DOPO A LE
RELAZIONI FRA L’ITALIA E IL PORTOGALLO DURANTE IL PERIODO
FASCISTA: NASCITA ESTETICO-EMOTIVA DEL PARADIGMA
OLISTICO-DIALETTICO-ESPRESSIVO-STRATEGICO-CONFLITTUALE DEL
REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO ORIGINANDO DALL’ ETEROTOPIA
POETICA, CULTURALE E POLITICA DEL PORTOGALLO*

*Le relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista ora presentate sono
pubblicate dall’ “Italia e il Mondo” in undici puntate. La puntata che ora viene
pubblicata è la prima e segue immediatamente questa presentazione, e questa prima
puntata (come tutte le altre che seguiranno) è preceduta dall’introduzione alla stessa di
Giuseppe Germinario. Pubblicando l’introduzione originale delle Relazioni fra l’Italia
e il Portogallo durante il periodo fascista come prima puntata e che, come da indice,
non è numerata, la numerazione delle puntate alla fine di questa presentazione non
segue la numerazione ordinale originale in indice delle parti del saggio, che è stata
quindi mantenuta immutata, quando questa presente.

DECIMA PUNTATA STATO DELLE COSE

Occasioni mancate della Storia piemontese e dintorni, di Claudio Martinotti Doria

Una possibile rubrica che potremmo intitolare: 

Occasioni mancate della Storia piemontese e dintorni. Peccato che invecchiando scrivo sempre meno, quindi non mi assumo alcun impegno.

–         Quando la Valtellina poteva divenire il 27° Cantone Svizzero (evento che se fosse avvenuto io e mia moglie ora saremmo cittadini svizzeri).

–         Quando il Regno Sabaudo poteva estendersi ai Cantoni Svizzeri di Svitto, Untervaldo, Uri (che sono i cantoni fondatori del primo nucleo della Confederazione Elvetica nel 1291) e Vallese.  Claudio Martinotti Doria

 

 

 

 

Il Cantone dei Grigioni è il più esteso e orientale della Confederazione Svizzera, con una superficie di poco inferiore al nostro Friuli Venezia Giulia ma con soli 200 mila abitanti, nel quale si parlano ben tre lingue, compreso l’italiano, essendoci alcune porzioni di territorio nelle estremità meridionali che costituiscono la Svizzera Italiana insieme al Canton Ticino.

grigionesi si erano riuniti nel 1471 nella Repubblica delle Tre Leghe, che potremmo definire il primo esempio al mondo di federazione, neppure la Svizzera lo era, gli altri Cantoni infatti avevano sottoscritto un blando patto confederale che prevedeva l’unanimità decisionale. La Repubblica delle Tre Leghe non faceva parte della Svizzera ma era solo associata militarmente.  I grigionesi forti di questa federazione costituirono un potente esercito col quale conquistarono nel 1512 la Valtellina con le contee di Bormio e Chiavenna sconfiggendo i francesi che dominavano il Ducato di Milano.

Nel 1518 la Repubblica delle Tre Leghe firmò un trattato di pace con l’imperatore del Sacro Romano Impero Massimiliano I d’Asburgo, che confermò le loro conquiste, assicurò definitivamente i futuri territori ticinesi (che erano 8 baliaggi) alla Svizzera, ma restituì l’Ossola al ducato di Milano. I territori della Valtellina, Bormio e Chiavenna, rimasero svizzeri per circa tre secoli, fino all’invasione napoleonica di fine ‘700.

Un altro momento topico a livello internazionale avvenne con la a Pace di Vestfalia del 1648, che pose fine alla Guerra dei Trent’anni ed è considerata la base o nascita dello Stato sovrano e assolutistico, che prevede il reciproco riconoscimento tra stati sovrani. Uno dei tre trattati che compongono questa Pace riconosceva l’indipendenza della Repubblica delle Tre Leghe e della Svizzera (cui era associata) dal Sacro Romano Impero.

Napoleone inizialmente decise di fare della Valtellina una quarta Lega al pari con le altre tre, ma furono gli stessi Grigioni ad opporsi, seppure a stretta maggioranza. Nel 1797 in seguito a questa decisione Napoleone incorporò la Valtellina nella Repubblica Cisalpina.

Dopo la sconfitta di Napoleone nel 1815, i Grigioni, al comando del commissario Rodolfo Massimiliano Salis-Soglio cercarono di riprendersi la Valtellina scendendo dalla val Bregaglia su Chiavenna, ma furono costretti a ritirarsi perché la valle era già occupata dagli austriaci. I giochi erano già stati fatti al Congresso di Vienna che si concluse nel mese di giugno del 1815, dopo parecchi mesi di trattative.

Al Congresso di Vienna una delegazione valtellinese, poco incline a ritornare sotto il dominio dei Grigioni a causa delle diverse religioni praticate nei reciproci territori, che spesso confliggevano (protestante e cattolica), chiese di entrare nel Regno Lombardo-Veneto o in alternativa di diventare un cantone svizzero; venne accolta la prima soluzione. Questo avvenne anche per responsabilità dei Grigioni e della Confederazione Svizzera in particolare. I Grigioni ovviamente volevano annettere la Valtellina come facente parte del Cantone, e la Confederazione Svizzera era dubbiosa se approvare il desiderio dei Grigioni, che in tal caso sarebbe diventato troppo grande e potente, oppure riconoscere alla Valtellina l’autonomia come Cantone Svizzero.

Prevalsero i diffidenti che non volevano un ulteriore cantone cattolico. Così alla fine tergiversando troppo e con poco zelo diplomatico, al Congresso di Vienna decise l’Austria al loro posto, avendo già posizionato le truppe in Valtellina. Il resto della storia la conosciamo. La Valtellina costituisce l’attuale provincia di Sondrio in Lombardia.

Alcuni decenni successivi agli avvenimenti riportati, il semisconosciuto conte Clemente Solaro della Margarita per la sua assoluta fedeltà monarchica venne nominato nel 1835 dal re Carlo Alberto ministro plenipotenziario alla corte di Vienna, la più importante d’Europa, e poco dopo fu nominato Ministro degli Esteri del Regno Sabaudo (formalmente divenne Regno di Sardegna solo nel 1847 con l’unione del Regno di Sardegna con gli Stati di Terraferma posseduti dai Savoia, voluta da Carlo Alberto con il cosiddetto “Statuto Albertino”, a livello diplomatico era ufficiosamente denominato Regno di Piemonte-Sardegna).

In tale ruolo Solaro fu molto attivo fino a invadere anche le competenze di altri ministeri provocando tensioni nel governo che poi dovevano essere sedate dall’intervento diretto di Carlo Alberto.

Solaro era molto inviso ai liberali perché fervido conservatore e fervente cattolico (dagli storici considerato un reazionario), ostile all’Unità d’Italia (motivo per cui la storiografia ufficiale risorgimentale ne ha decretato la damnatio memoriae). I suoi continui interventi a favore della Chiesa e invadenze di campo in altri ambiti ministeriali finirono per stancare il re Carlo Alberto, che iniziò a prendere le distanze da lui. La sua carriera politica finì con le dimissioni forzate, seppur tra mille onori, verso la fine del 1847, nell’aria si respiravano troppi fermenti libertari si e il suo rigidismo conservatore era fuori luogo, non essendo disposto a concedere nulla alle forze del cambiamento e del rinnovamento.

Solaro in cuor suo propendeva per un’idea che potremmo ora definire “geopolitica” di pragmatismo politico (Realpolitik), che all’epoca nessuno condivideva e tantomeno esponeva pubblicamente e per lungo tempo tenne per sé fino al momento opportuno stabilito dalla Storia.

Accadde nel 1844 quando il cantone svizzero del Vallese, tradizionalmente cattolico, da pochi decenni entrato a far parte della Confederazione Svizzera, venne aggredito dalle ben organizzate ed equipaggiate truppe dei “Corpi Franchi” dei Cantoni protestanti, che costituivano la maggioranza della Confederazione (i Cantoni cattolici erano in netta minoranza essendo solo otto)

Mai la Svizzera fu così vicina all’autodistruzione come entità politica come in quel periodo, cioè dal 1844 al ‘47, anche se onestamente le cause furono più politiche che religiose, in quanto la Dieta Federale Svizzera a guida radicale voleva un governo più centralizzato e voleva eliminare le barriere doganali ancora in vigore tra i Cantoni oltre ai particolarismi e campanilismi, e i cantoni più rurali e conservatori (cattolici) erano contrari perché temevano di perdere i loro piccoli privilegi, tradizioni e autonomie, pertanto si riunirono in una lega detta Sonderbund che negli anni appena successivi si scontrò con l’esercito dei Cantoni Confederati nella cosiddetta Guerra del Sonderbund, che fortunatamente fu poco cruenta pur coinvolgendo circa 180mila soldati quasi equamente distribuiti nei reciproci schieramenti. Si risolse con la resa della lega e la trasformazione della Svizzera in uno Stato Federale a far data dal 1848, anche se è in uso definirla Confederazione Svizzera o Elvetica.

Ma torniamo al 1844 quando Il Vallese aggredito dai protestanti chiese e ottenne rapidamente l’appoggio dei Cantoni cattolici di Schwyz, Uri ed Unterwalden, i quali seppur uniti in questa alleanza contingente, ebbero immani difficoltà a respingere il fortissimo attacco dei protestanti, soprattutto perché erano privi di risorse e non erano in grado di procurarsi armi ed equipaggiamento.

Quando ormai stava prevalendo la disperazione per l’ormai imminente e inevitabile sconfitta, i cantoni cattolici inviarono a Torino due “ambasciatori”: il generale Kalbermatten e il conte Maurizio de Courten per invocare il sostegno del regno di Sardegna, disposti ad assoggettarsi al re Carlo Alberto come sovrano e di conseguenza incorporare nel suo regno i Cantoni cattolici già citati. Preferivano sottomettersi a un monarca piuttosto che accettare le intenzioni ormai manifeste di un governo svizzero centralizzato a guida protestante, radicale e liberale.

I due delegati chiesero pertanto a Carlo Alberto di inviare truppe in loro aiuto oltre a un finanziamento di un milione a fondo perduto per l’acquisto di armi ed equipaggiamento militare.

Il ministro Solaro pensò fosse finalmente giunto il suo momento magico, atteso da tempo, coltivato in quella sua idea “geopolitica” custodita gelosamente, convinto com’era che il destino storico del Piemonte fosse quello di  “Stato cuscinetto” fra l’Europa continentale e la Penisola italiana, ma restando indipendente da tutti ed espandendosi quando le circostanze storiche lo avessero consentito, e questa era una di quelle occasioni da cogliere al volo.

Solaro chiese pertanto a Carlo Alberto di sostenere i cattolici svizzeri aggrediti dai protestanti, accogliendo le richieste dei delegati vallesi.

Come scrisse in seguito nei suoi libri di memorie storiche e politiche, era certo che le truppe dell’esercito piemontese avrebbero prevalso sui protestanti, riuscendo a liberare tutti i Cantoni cattolici dagli aggressori.

Purtroppo Carlo Alberto non la pensava allo stesso modo, aveva ambizioni da megalomane pur nelle sue frequenti esitazioni, voleva addirittura espandersi in Lombardia sfidando l’Austria, e così non colse la ben più facile e accessibile Svizzera cattolica, che gli si offriva su un piatto d’argento, con un minimo tributo di sangue e risorse finanziarie.

Se Carlo Alberto avesse seguito il suggerimento di Solaro Il Regno di Piemonte e Sardegna che già era uno Stato multilingue (se ne parlavano già una dozzina e si sarebbe aggiunto il tedesco), avrebbe raggiunto dimensioni di tutto rispetto, collocandosi in una posizione strategica invidiabile, tramite la quale ottenere benefici da un’accorta politica diplomatica.

Per i cattolici svizzeri l’ignavia di Carlo Alberto poteva avere conseguenze drammatiche se non si fosse poi pervenuti nel 1847 al compromesso sopracitato, di fronte al rischio di una cruenta ed estesa guerra civile si è preferito accettare uno stato federale, cui tutti i Cantoni aderirono, anche i più riottosi cattolici, ognuno cedendo parte delle proprie pretese.

Pur non essendo una cima d’intelligenza Solaro era comunque un fedele, onesto e capace servitore dello Stato e nelle sue pubblicazioni redatte da “pensionato”, tra cui le  principali furono il “Memorandum storico politico” del 1854 e lo “Sguardo politico sulla convenzione italo-franca del 15 settembre 1864”, il conte rivelò la sua contrarietà all’espansione piemontese verso la Pianura Padana, che lo mise in contrasto con Carlo Alberto inducendolo alle dimissioni.

Nelle sue opere riferì che il suo desiderio di espansione dello Stato Sabaudo verso le alpi svizzere non era frutto di espedienti tattici o velleità estemporanee ma di strategie meditate e lucide, che la Storia gli avrebbe consentito di realizzare se ci fosse stato un sovrano diverso dall’instabile Carlo Alberto.

Solaro riteneva che il Piemonte per storia, tradizione, mentalità e lingua, fosse una Nazione con una sua identità ben distinta, addirittura estranea dal resto della penisola, e non avrebbe dovuto immischiarsi nell’Unità d’Italia, respingendo con tutte le forze quella che definiva “fantastica idea di Risorgimento nazionale, falsa in teoria, funesta in pratica”.

La Storia gli dette ragione quando i piemontesi dalle popolazioni dell’ex Regno delle Due Sicilie furono considerati conquistatori e colonizzatori e furono combattuti a lungo dai cosiddetti briganti, che non erano quattro gatti come si crede comunemente ma oltre 100mila armati che ricorrevano alle tecniche di guerriglia per contrastare l’Esercito Piemontese e che provocò decine di migliaia di morti violente con feroci repressioni ed esecuzioni, oltre a una prolungata miseria nella popolazione.

Solaro, profeticamente aveva previsto nelle sue memorie che il Piemonte unendosi con il resto della Penisola, sarebbe diventato solo una marginale “provincia d’un Regno” dominato da non piemontesi.

Il costo per i piemontesi dell’Unità d’Italia iniziò a palesarsi nell’infame massacro di Torino del settembre 1864 quando decine di cittadini inermi che protestavano per il trasferimento della capitale a Firenze furono uccisi o feriti gravemente dalle fucilate di allievi carabinieri cui si unirono elementi di fanteria, che qualcuno avrà pur comandato di agire.

Si trattò di una vera e propria “strage di Stato”, cui ne seguirono molte altre e sulle quali non si è mai ottenuta giustizia né tantomeno verità.

Il conte Solaro morì a Torino il 12 novembre 1869, a settantasette anni, nell’indifferenza pressoché generale, proseguita finora, basti vedere il penoso contenuto della paginetta a lui dedicata su Wikipedia, solo l’Enciclopedia Treccani gli ha dedicato una voce abbastanza dignitosa.

 

 

CONCLUSIONI

Spesso la Storia è determinata da singoli personaggi, non necesariamente dotati di particolare potere, che però si trovano a dover fare delle scelte, perché demandati, delegati o perché le circostanze della vita li hanno posti in quel ruolo, che può essere limitato e temporaneo. Ma le ripercussioni delle loro scelte spesso sono gravi e niente affatto temporanee, determinando i destini di intere comunità o nazioni.

Il primo evento mancato, la Valtellina come 27° Cantone Svizzero non è attribuibile a singoli personaggi, ma a intere comunità cantonali (che in questo caso con un banale gioco di parole potremmo dire abbiano preso una “cantonata”). All’epoca di questi eventi, prime decadi dell’800, la Svizzera era quanto più si avvicinasse ad una democrazia, addrittura “partecipata”, con fortissime autonomie locali, e per prendere decisioni condivise ci voleva tempo, e a volte il contesto storico non te ne concedeva a sufficienza, e allora altre entitò ben più forti e potenti la prendevano al posto tuo, soprattutto trattandosi di entità autoritarie e quindi molto più rapide e decisioniste, come in questo caso è stato l’Impero Austriaco.

Nel secondo evento mancato la responsabilità storica è indubbiamente attribuibile al re Carlo Alberto, che aveva altre ambizioni (eccessive, poco realistiche) e non era minimamente interessato a espandersi verso la Svizzera, anche se il costo sarebbe stato modesto rispetto a quello che avrebbero pagato i piemontesi per realizzare la sua ambizione e quella dei suoi successori, per realizzare la quale era inevitabile appoggiarsi ad una potenza straniera (in questo caso la Francia) che ne avrebbe approfittato per indebolire il regno, nel nostro caso il regno Piemonte-Sardegna dovette rinunciare all’intera Savoia e alla contea di Nizza.

Se il re Carlo Alberto avesse ascoltato il conte Solaro, le sorti del regno sarebbero state conpletamente diverse e a mio avviso molto più prospere e pacifiche, pur entrando nella dimensione dell’ucronia, mi sento di prevedere che molto probabilmente avremmo seguito quella che sarebbe dientata la politica estera svizzera, basata sulla neutralità (in quanto stato cuscinetto, come era nella concezione geopolitica di Solaro), sulla diplomazia e sulla pace, pur essendo tutt’altro che inerme dal punto di vista militare, Ricordiamo infatti che i migliori mercenari ingaggiati dai vari regnanti europei erano svizzeri.

Tra gli aspetti che potremmo definire “passivi e indiretti” di questa scelta di Carlo Alberto, influisce certamente il fatto che Solaro non aveva una personalità carismatica e autorevole e soprattutto l’intelligenza del conte Camillo Benso di Cavour, altrimenti il re lo avrebbe ascoltato e probabilmente seguito nel suo percorso strategico e prospettico, ed ora vivremmo in uno stato piemontese-svizzero, con una qualità della vita invidiabile e una democrazia partecipata molto evoluta rispetto agli attuali regimi oligarcici gattopardeschi che si spacciano per democratici perché vi consentono di mettere una x su una scheda quando fa comodo a loro.

 

Cav. Dottor Claudio Martinotti Doria, Via Roma 126, 15039 Ozzano Monferrato (AL), Unione delle Cinque Terre del Monferrato,  Italy,

Email: claudio@gc-colibri.com  – Blog: www.cavalieredimonferrato.it – http://www.casalenews.it/patri-259-montisferrati-storie-aleramiche-e-dintorni

Cos’è il Putinismo? di JEAN-ROBERT RAVIOT

Il giorno dopo il lancio dell’offensiva russa contro l’Ucraina, il 24 febbraio 2022, è stata sollevata la questione del sostegno della società russa, e più in particolare delle élite – anche ai vertici – per una guerra di portata senza precedenti sul suolo europeo dalla seconda guerra mondiale, che è più probabile che in Russia sia percepito come fratricidio. Fin dall’inizio, questa offensiva si presenta come una prova per il Putinismo. Studi sociologici indicano che il suo ruolo di signore della guerra avrebbe consentito a Vladimir Putin di estendere e persino rafforzare la base della sua legittimità politica [1] . Tuttavia, l’estensione delle operazioni, anche la sua evoluzione in guerriglia, potrebbe cambiare il punto di vista dei russi, e delle élite russe, sulla strategia scelta dal presidente russo.

Ufficialmente la Russia sta portando avanti un’operazione di liberazione dell’Ucraina, posta sotto il giogo di leader qualificati come “cricca di usurpatori” . Questa operazione è scandita da misure presentate come un’eliminazione mirata occasionale delle forze nazionaliste ucraine più radicali, qualificate come “naziste”.. Finora la propaganda ufficiale russa che accompagna le operazioni sembra dare i suoi frutti, nel senso che la dimensione offensiva di questa guerra resta nascosta agli occhi dei russi. L’uso della forza attinge dalle fonti del Putinismo. Non è quindi illogico che agisca, inizialmente, come un bagno di giovinezza. Perché il Putinismo non è né un’ideologia (conservatrice, nazionalista, eurasista), né un progetto politico (vendetta sulla storia, neoimperialismo, neosovietismo). Il Putinismo si presenta dapprima come una strategia politica volta a mostrare la propria forza, e talvolta a farne uso, al fine di rafforzare un potere cremlinocentrico [2] e cremlinocentripeto .con un obiettivo principale, che non cambia mai: difendere lo Stato russo dalle forze ostili che lo minacciano, dall’interno e dall’esterno. Il Putinismo è figlio della perestrojka e del crollo dell’URSS e del pronipote della rivoluzione russa e del crollo dell’Impero russo.

Il cesarismo di Putin

L’immagine ha fatto il giro del mondo. La scena si svolge a Mosca il 21 agosto 1991. Boris Eltsin, eletto presidente della Russia due mesi prima a suffragio universale, raggiante, è appollaiato su un carro armato, con sullo sfondo la bandiera tricolore russa. Annuncia trionfante il fallimento del golpe contro Gorbaciov. Imponendo la sua autorità ai ministeri sovrani dell’URSS, il primo presidente russo ha accelerato la cacciata di Gorbaciov e la caduta dell’URSS, avvenuta quattro mesi dopo. Due anni dopo, nell’ottobre 1993, Eltsin sciolse il Parlamento. Ordina alle forze di sicurezza interna di prendere d’assalto l’edificio, in cui si sono rifugiati alcuni oppositori armati. L’offensiva uccide 150 persone. Eltsin dichiara lo stato di emergenza, sospende le istituzioni e convoca un referendum per adottare, poche settimane dopo, la prima Costituzione liberale e democratica nella storia della Russia. Il liberalismo e la democrazia, nella nuova Russia, sono dunque segnati dal sigillo indelebile del cesarismo.

 

Erede designato da Boris Eltsin prima di essere consacrato a suffragio universale, Vladimir Putin si impossessa della torcia delle origini Cesariste. L’attacco va poi contro i focolai terroristici del Caucaso settentrionale. Questa seconda guerra interna in Cecenia (dopo quella del 1994-1996) ha fondato il Putinismo. Pone l’immagine mediatica del nuovo presidente, allora del tutto sconosciuto ai russi, come un signore della guerra a cui attribuiamo l’intenzione di ristabilire l’ordine, l’autorità dello Stato, il potere della Russia. Sostenuto, a differenza del suo predecessore, da una forte maggioranza parlamentare, Vladimir Putin consolidò la sua autorità. Se la Costituzione russa rimane essenzialmente liberale, la pratica del potere assume una svolta autoritaria sempre più assertiva. Il cesarismo di Vladimir Putin combina una forma democratica di legittimità con una realtà monarchica di potere. Il gioco democratico è limitato dall’ultra-maggioranza detenuta dal partito al governo, Russia Unita, in Parlamento e in quasi tutte le regioni dal 2004. Le forze di opposizione devono accettare di limitare le loro critiche solo alla politica economica e sociale, in mancanza della quale sono escluse il gioco elettorale e dallo spazio pubblico. Oggi l’opposizione non di sistema non ha più visibilità in Russia. in mancanza sono esclusi dal gioco elettorale e dallo spazio pubblico. Oggi l’opposizione non di sistema non ha più visibilità in Russia. in mancanza sono esclusi dal gioco elettorale e dallo spazio pubblico. Oggi l’opposizione non di sistema non ha più visibilità in Russia.

L’élite del potere e l’oligarchia di stato

Il Putinismo non si limita a un modo autoritario di esercitare il potere, a un discorso politico conservatore o all’espressione del desiderio di ripristinare il potere della Russia sulla scena internazionale. È anche un sistema di potere che si basa su una leale élite di potere, uno zoccolo duro ristretto attorno a una Guardia Pretoriana [3] composta da uomini che, per molti di loro, provengono dal municipio. Pietroburgo dove Vladimir Putin ha compiuto l’inizio della sua carriera politica negli anni 1990-1996. Troviamo questo nocciolo duro oggi ai vertici dello stato russo, in posizioni sovrane chiave (sicurezza, interni, difesa, giustizia e procura generale) così come in posizioni chiave nella korpokratura, questi nuovi grandi capi dell’apparato statale, posti dal presidente a capo di grandi gruppi e conglomerati statali (o controllati dallo stato) per orientare al meglio i settori strategici dell’economia (energia, tecnologie d’avanguardia, armamenti , infrastrutture e filiere, ecc.). La nascita di questa nuova oligarchia di Stato, verso la fine degli anni 2000, testimonia il fatto che Vladimir Putin è riuscito a capovolgere l’equilibrio di potere tra lo Stato russo e gli oligarchi che si era instaurato negli anni ’90. , nel contesto della Russia debolezza ed elevato indebitamento esterno, molto a favore di quest’ultimo.

Il ritorno del potere russo

 

Negli anni 2000, il “ripristino della verticale del potere” di Putin ha coinciso internamente con un’impennata del prezzo degli idrocarburi sul mercato mondiale, che ha consentito alla Russia di operare un vero decollo economico e di considerare, al di là della riduzione del debito, una strategia di modernizzazione e sviluppo economico. Il benessere economico consente un netto miglioramento del tenore di vita medio della popolazione, con il quale l’ascesa politica di Putin coincide con il potere d’acquisto e l’accesso ai consumi. Per molti russi, il Putinismo è sinonimo di una vita quotidiana migliorata e di uno stile di vita che si avvicina agli standard occidentali. Nel complesso, questo boom economico offre alla Russia e ai russi vendetta per le umiliazioni subite negli anni ’90,

 

Il discorso pronunciato da Vladimir Putin nel febbraio 2007 a Monaco di Baviera ha segnato una svolta nella politica estera russa. Il presidente russo afferma una volontà di potere e utilizza un vocabolario offensivo senza precedenti, che solo successivamente verrà rafforzato. Si tratta di opporsi al mondo unipolare (dominato da Washington) del dopo Guerra Fredda e di fare della Russia uno dei maggiori poli in divenire del mondo multipolare. Mosca aveva già contestato la pretesa americana di consolidare il proprio dominio unipolare, nel 1999 – opposizione agli attacchi della NATO contro la Serbia – e nel 2003 – veto contro la guerra americano-britannica in Iraq. Dopo Monaco, la Russia fa un passo avanti. Durante il vertice della NATO a Bucarest (2008), Mosca ha protestato contro la possibile adesione della Georgia e/o dell’Ucraina alla NATO, percepito come una minaccia alla sicurezza nazionale. Adattando l’azione alla parola, la Russia interviene militarmente in Georgia per sostenere la repubblica secessionista dell’Ossezia del Sud contro Tbilisi. Nel 2014, la destituzione del presidente ucraino Yanukovich è stata analizzata, a Mosca, come un colpo di stato non frutto di una rivolta popolare, ma di un lavoro approfondito delle ONG che erano state a lungo utilizzate dagli stati occidentali per far cadere l’Ucraina nella loro campo. Dopo questo cambio di potere, ritenuto illegittimo, a kyiv Mosca annesse la Crimea, dopo un inequivocabile referendum favorevole all’annessione della penisola alla Federazione Russa, poi sostenne, per otto anni, la ribellione armata delle repubbliche secessioniste di Donetsk e Lugansk nell’Ucraina orientale,

Il consenso di Putin ha un futuro?

Il consenso della società russa attorno al Putinismo è stato costruito su un rapporto di fedeltà, piuttosto che di adesione al potere. Se l’entrata in guerra contro l’Ucraina sembra, all’inizio di questa, provocare il consolidamento di questo consenso, molti elementi portano a interrogarsi sulla sostenibilità nel lungo periodo di questo consenso putiniano. Va ricordato che la fase ascendente del putinismo ha corrisposto a un periodo di forte sviluppo economico: tra il 2000 e il 2020 il PIL russo è triplicato e il PIL pro capite, che nel 2000 rappresentava appena un terzo di quello francese, sale oggi a più di metà di quella della Francia [4]. Questo benessere economico è stato accompagnato da un forte aumento del prestigio internazionale della Russia, in particolare agli occhi dei russi stessi. Tuttavia, oggi gli indicatori socioeconomici sono molto peggiori. Sebbene sia ancora presto per misurare l’impatto delle sanzioni occidentali sulla popolazione russa, sembra indiscutibile che provocherà almeno una stagnazione del tenore di vita e un calo dei consumi. Questa crisi prevedibile sarà percepita come un ulteriore deterioramento nel contesto di un tenore di vita in costante calo, per la maggior parte dei russi, dalla metà degli anni 2010. percepito? Il ”  Volta a oriente “, cioè verso la Cina, della politica estera russa, evoluzione che dovrebbe accelerare a causa della guerra in Ucraina, riuscirà a produrre dividendi economici palpabili per la popolazione? Riusciremo, in una società dei consumi come quella russa, a fare a meno dei marchi occidentali e ad accontentarci dei marchi cinesi? Che dire di una Russia, anche prospera, totalmente riorientata verso l’Asia? Quali sono i limiti di un autoritarismo politico che, grazie a questa “operazione speciale”, si è rafforzato fino a bandire dalla scena pubblica tutte le voci dissidenti? Che dire di un gruppo d’élite consolidato attorno alla testa del Cremlino, ma che invecchia, e che ora deve organizzare imperativamente la sua successione?

Anche da leggere

Putin, il gas e l’Europa

[1] Cfr. studio del Centro Levada, 30 marzo 2022: https://www.levada.ru/2022/03/30/odobrenie-institutov-rejtingi-partij-i-politikov/

[2] Jean-Robert Raviot, Chi gestisce la Russia? , Linee di riferimento, 2007.

[3] Jean-Robert Raviot, “Il pretorismo russo: l’esercizio del potere secondo Vladimir Poutine”, Hérodote , n . 166/167 , 2017.

[4] Dati della Banca Mondiale, in PPP. Vedi https://data.worldbank.org

https://www.revueconflits.com/quest-ce-que-le-poutinisme/

Pensare la potenza. Intervista a Rémi Brague #4 di REMI BRAGUE

Rémi Brague è professore di filosofia medievale all’Università di Parigi I Panthéon-Sorbonne e all’Università di Louis-et-Maximilien a Monaco di Baviera. Specialista in filosofia greca, araba ed ebraica, è autore di numerosi libri di consultazione su questo argomento. 

Intervista condotta da Louis du Breil. 

In Europa, la strada romana , spieghi che il contenuto dell’Europa è essere un contenitore, essere aperto all’universale. Il potere dell’Europa è stato costruito su questa cultura dell’apertura e della trasmissione?

Il libro che siete così gentili da citare celebrerà quest’anno il trentesimo anniversario della sua prima edizione e la sua diciassettesima traduzione. Non potendomi accontentare a stento di farne riferimento, mi costa un po’ tornare sulle sue tesi principali, anche se da allora non ho smesso di difenderle, anche di approfondirle. Nel mio libro, quindi, stavo solo ripetendo un gioco di parole dovuto al filosofo spagnolo José Ortega y Gasset. Nella sua lingua continente significa sia “continente” che “contenitore”. Detto questo, nel mio stesso lavoro, difficilmente concepivo la cultura dell’Europa, poiché è tutto ciò di cui parlo lì, in termini di potere.

In ogni caso, questa apertura all’universale che lei giustamente accenna è per me il risultato di un’apertura più fondamentale alle proprie fonti, e di un rapporto con il precedente che è ben lungi dal fomentare un sentimento di potere. . Al contrario, l’Europa si sentiva inferiore ai suoi antichi riferimenti culturali. Solo l’anno scorso ho scoperto, con mia grande vergogna, che l’idea era già stata lanciata, molto prima di me, in un libro che non avevo letto, dello storico tunisino Hichem Djaït, morto lo scorso giugno: l’umiltà dell’Europa ha stata la paradossale molla del suo sviluppo. Secondo lui, è perché l’Europa si è trovata umile davanti all’Antichità, che ha esaltato, e davanti al cristianesimo a cui è stata sottoposta, che ha potuto andare oltre la prima e mantenere la distanza dalla seconda (Europa e Islam , Parigi, Seuil, 1978, p. 157).

Molto concretamente, l’Europa ha avuto il talento di utilizzare e portare a compimento ciò che le veniva da altrove e che altre civiltà hanno trascurato. Questo vale sia per la civiltà materiale che per la vita dello spirito. I cinesi hanno inventato quasi tutto ciò che è tecnico, carta, bussola, ecc. Hanno anche “inventato la polvere da sparo”, per esempio, ma è stata l’Europa che ha saputo farne un uso militare (potremmo pentirci, tra l’altro…). Gli arabi avevano una grande filosofia, ma furono i cristiani e gli ebrei d’Europa che usarono i commenti di Averroè, dimenticato nella sua civiltà originaria. In breve, l’Europa ha fatto le pattumiere di altre civiltà. Per questo dovevi chinarti. Potrebbe anche essere ovvio che fosse arrogante. Ma alla radice di tutto,

Qual è il posto del cristianesimo in questa singolarità europea?

Dovremmo ancora insistere sull’evidenza che lo storico e filosofo italiano Benedetto Croce, che era egli stesso agnostico, ricordava nel 1943: “non possiamo non chiamarci cristiani”? Il posto del cristianesimo è cruciale, perché il cristianesimo è una seconda religione rispetto alla religione di Israele, quella di cui testimoniano gli scritti di quello che chiamiamo Antico Testamento, religione da cui proveniva anche l’ebraismo rabbinico. Abbiamo pensato abbastanza a questa stranezza della Bibbia cristiana, che inizia con la Bibbia ebraica e quindi che abbiamo allo stesso prezzo i libri sacri di due religioni? Il “Nuovo Testamento” è in gran parte una reinterpretazione dell’Antico alla luce del fatto nuovo rappresentato dall’insegnamento, dalla passione e dalla risurrezione di Gesù.

Reinterpretare l’antico è ciò che la cultura europea ha fatto per secoli, non solo con il primo dei suoi due libri sacri, ma anche con tutto il patrimonio dell’antichità greco-latina. In un piccolo trattato, ottimamente ripubblicato da Arnaud Perrot (Les Belles Lettres, 2012), San Basilio di Cesarea (m. 379) spiegava come sfruttare la letteratura antica, cioè spogliandola della sua dimensione religiosa, “pagana”. se volete, e riducendolo alla sua dimensione puramente pedagogica, morale, dunque. In questo modo, quella che io chiamo la “secondarietà” culturale dell’Europa è resa possibile dal suo ancoraggio al livello più alto, al livello stesso del rapporto con l’Assoluto-religione, per dirla semplicemente.

Secondo te, la separazione tra spirituale e temporale nella civiltà europea si spiega con la dualità delle fonti dell’Europa: Atene e Gerusalemme. Come mai ?

Questa separazione infatti è già dalla parte di “Gerusalemme”. La famosa frase di Cristo su cosa dare a Cesare e cosa appartiene a Dio è stata intesa in questo senso. I fatti hanno aiutato potentemente i cristiani a distinguere tra lo spirituale e il temporale. Infatti, durante i primi tre secoli della sua storia, lo Stato, all’epoca Stato Romano, li perseguitò. Non è troppo difficile sentirsi diversi dal tuo aguzzino. Successivamente, con Costantino, e soprattutto con Teodosio, alla fine del IV secolo, il cristianesimo assunse lo stato. Ma non fu mai puramente e semplicemente confuso con lui. La cosa divertente, è stato lo stato che avrebbe visto questa confusione in buona luce: la fede cristiana diventò l’ideologia ufficiale dell’Impero Romano e si sostituì alla religione “pagana” che sentivamo al limite della sua fune… La tentazione era forte per il popolo della Chiesa, e molti furono coloro che vi cedettero, come Eusebio di Cesarea, che lodava Costantino, nel quale vedeva, non senza ragione, una specie di «zar liberatore». Tuttavia, la Chiesa finì per secernere istituzioni che fungevano da contrappesi: il diritto canonico, il papato e il movimento monastico che le fornì le sue truppe d’assalto. Grazie a loro, nel XII secolo, al tempo della Litiga per le investiture (Chi ha nominato i vescovi?), la Chiesa seppe resistere agli imperatori d’Occidente e mantenere la propria autonomia. che lodava Costantino, nel quale vedeva, non senza ragione, una specie di “zar liberatore”. Tuttavia, la Chiesa finì per secernere istituzioni che fungevano da contrappesi: il diritto canonico, il papato e il movimento monastico che le fornì le sue truppe d’assalto. Grazie a loro, nel XII secolo, al tempo della Litiga per le investiture (Chi ha nominato i vescovi?), la Chiesa seppe resistere agli imperatori d’Occidente e mantenere la propria autonomia. che lodava Costantino, nel quale vedeva, non senza ragione, una specie di “zar liberatore”. Tuttavia, la Chiesa finì per secernere istituzioni che fungevano da contrappesi: il diritto canonico, il papato e il movimento monastico che le fornì le sue truppe d’assalto. Grazie a loro, nel XII secolo, al tempo della Litiga per le investiture (Chi ha nominato i vescovi?), la Chiesa seppe resistere agli imperatori d’Occidente e mantenere la propria autonomia.

Invocare le due città simbolo che hai citato, e ciò che rappresentano, risale a Tertulliano, nel 3° secolo, poi rifiorito nel 19° secolo con Matthew Arnold e Henri Heine, e nel 20° secolo con Leon Chestov e Leo Strauss. Mettiamo di seguito varie opposizioni: fede e ragione, etica ed estetica, ecc. Ma il semplice fatto che i due poli così messi in tensione siano sopravvissuti entrambi, senza che l’uno inghiottisse l’altro, è già un fenomeno eccezionale, che va spiegato. Qui tutto è capovolto: è piuttosto la separazione del temporale e dello spirituale che ha permesso ai due modelli culturali di sussistere nella loro autonomia e di entrare in un proficuo dialogo.

Infatti è proprio “Gerusalemme” che ha saputo accogliere “Atene”. Per dirla in termini biblici, Sem (mitico antenato degli Ebrei) fece posto nella sua tenda a Iafet (antenato dei Greci) (Genesi, 9, 27). Della Torah, San Paolo decise di mantenere solo il Decalogo nel suo senso letterale. Tutti gli altri 613 comandamenti riconosciuti dai rabbini sono da intendersi in senso allegorico. I Dieci “Comandamenti” riuniscono i principi di base che consentono a una società umana di sopravvivere e di essere pienamente umana, motivo per cui il loro contenuto si trova ovunque, in Mesopotamia come in Cina. Era fondamentale come kit di sopravvivenza, ma non bastavano le regole morali per costruire nel dettaglio un intero sistema di norme in grado di regolare una città, a differenza dell’halakha ebraica e della sharia islamica. Occorreva quindi conservare il diritto romano, la letteratura greca e la filosofia, in una parola preservare, accanto alla “religione”, qualcosa come quella che poi sarebbe stata chiamata “cultura”.

Qual è l’influenza di quella che lei chiama “modernità” sulla concezione europea del suo potere?

La parola “modernità” non è in alcun modo una mia invenzione. In lingua francese ricevette le sue lettere nobiliari da Baudelaire, che ne arrischiò una definizione. D’altra parte, ciò che è importante è che usiamo l’aggettivo “moderno” per designare una caratteristica essenziale e permanente del nostro tempo, a differenza dell’uso medievale, dove modernus significava semplicemente “recente”. Questo utilizzo è più vecchio di Baudelaire. Basti pensare alla famosa “Querelle des Anciens et des Modernes” a Parigi alla fine del XVII secolo. Ho abbozzato questa storia nel mio Moderately Modern.

Ciò che ha cambiato il modo in cui l’Europa ha inteso il proprio potere non è stata l’era moderna, un semplice riferimento cronologico, ma quello che, nel mio Regno dell’uomo, ho chiamato, dopo altri, il “progetto moderno”. Sogna un nuovo inizio da zero, un’umanità basata solo su se stessa, che elimini la dipendenza dal divino e padroneggi sempre meglio il fondamento naturale della sua esistenza: il proprio corpo, e questo tipo di “corpo esterno” (Fichte) che costituisce la biosfera.
In questa prospettiva, il potere diventa dominio, prima sulla natura, poi sul resto dell’umanità, a cominciare dalle donne. La ricezione dell’altro si trasforma in una bulimia di conquista.

Le virtù romane sono oggi indispensabili per uscire da quella che si impone come impotenza europea?

I romani non avevano virtù che fossero solo loro. Non si può inventare una virtù. È importante ricordarlo, perché immaginarlo fomenta un relativismo che, in fondo, corrompe tutte le virtù senza eccezioni. Quando Nietzsche distingue la virtù dei Greci: «mostrarsi ogni volta migliori ed essere superiori agli altri» (Iliade, 6, 208), quella degli Ebrei: onorare il proprio padre e la propria madre (Esodo, 20, 12), quella di i Persiani: non mentono e tirano bene con l’arco (Erodoto, I, 136, 2) (Così parlò Zarathustra, I: Dei mille e uno gol), vuole farci credere che le virtù sono relative e che possiamo creare nuovi. Ma nessuno dei tre popoli prende ad esempio considerava le virtù predilette degli altri due come vizi da evitare. Al massimo si può, come hanno fatto loro, sottolineando questa o quella virtù più di questa o quell’altra, a seconda del tipo di vita che si conduce. I romani insistevano su coraggio, senso civico, frugalità, virtù adatte alla dura vita di contadini e soldati.

Quella che ho chiamato la “strada romana” è un atteggiamento che ho isolato dal comportamento dell’élite di Roma, dal II secolo a.C., il “secolo degli Scipioni”, cioè poco dopo la loro vittoria militare sui Greci. Riconobbero la loro inferiorità culturale rispetto a coloro che avevano soggiogato e si misero coraggiosamente nella loro scuola, arrivando a creare un “impero greco-romano” ( Paul Veyne ). Questo è ciò che le élite europee fanno da secoli. Educarono la loro progenie facendo loro imparare il latino e il greco, cioè i classici di una civiltà che non era la loro, a differenza dei mandarini, che furono reclutati sulla loro conoscenza dei classici cinesi.

In questo momento è chiaro che l’Europa ha perso importanza: nella demografia vive di un’infusione di immigrati, nell’economia ha rilocalizzato la sua industria, nella diplomazia non gioca più nelle grandi serie, che convengono di passare oltre esso. Si ha però l’impressione che gli europei mascherino tutto questo con un eccesso di autocompiacimento. “Certo, siamo deboli, ma siamo gentili. Almeno non siamo bigotti e razzisti come gli americani, fanatici e macho come i musulmani, “formiche gialle” ossessionate dal lavoro come i cinesi, russi come i russi, ecc. Tutte queste persone ci danno dei crupper, ma pensiamo di non avere nulla da imparare da loro. Al contrario, sono loro che dobbiamo illuminare e civilizzare, ad esempio alzando la bandiera dei diritti fondamentali.

Di fronte a tutto questo, le tre virtù romane che ho citato sopra, coraggio, civismo, frugalità, potrebbero esserci di buon aiuto. La cittadinanza, ad esempio, potrebbe permetterci di temperare il nostro individualismo con la preoccupazione per il bene comune e la frugalità, aiutarci a resistere alla corsa frenetica al consumo.

Scrivi che la cultura non è un’origine pacificamente posseduta, ma una fine conquistata attraverso una dura lotta. Come combattere bene?

Ci sono molte prove lì. La cultura è qualcosa che acquisisci attraverso il duro lavoro. Anche usi e costumi, a cominciare dal linguaggio, non vengono semplicemente ricevuti nella culla e poi lasciati lì, abbandonati alla spontaneità dei bambini. Non dobbiamo accontentarci di canticchiare i canti della nostra nutrice; devi imparare a cantare secondo la teoria musicale. Non dobbiamo accontentarci di parlare “come ci viene spinto il becco”, secondo l’espressione tedesca; devi imparare a parlare la tua lingua madre secondo la grammatica, anche a scrivere poesie. Non devi solo camminare mettendo un piede davanti all’altro e ricominciando da capo; bisogna imparare, per esempio, a camminare al passo – c’è un bel passaggio su questo in Nietzsche del 1872 (Sul futuro delle nostre istituzioni educative, 2a lezione) – oppure, meglio, ballare. Tutto ciò richiede impegno, e quindi coraggio. Questa è un’altra virtù romana da cui dovremmo imparare. Non c’è battaglia più nobile di quella che combatti contro te stesso, contro la tua stessa pigrizia.

Lei scrive che la storia dell’Europa può essere vista come quella di una serie quasi ininterrotta di rinascite. Ci stiamo dirigendo verso un nuovo rinascimento?

Ho solo raccontato una storia, quella della cultura europea, una storia che ovviamente è solo una parte della storia dell’Europa, che ha dimensioni economiche, sociali, politiche e altre. in cui preferisco non entrare, per mancanza della necessaria competenza. È un dato di fatto che si sono susseguiti risvegli dal momento in cui, coincidenza interessante e forse significativa, abbiamo cominciato a prendere la parola “Europa” nel senso di entità politico-culturale — con questo sacro Carlo Magno e soprattutto il suo Ministro di Educazione Nazionale (o meglio Imperiale), Alcuino di York. Dopo la rinascita carolingia, abbiamo quella del XII secolo con il culto di Ovidio, l’ingresso del sapere greco e arabo nel XIII secolo, l’Italia dei grandi scrittori fiorentini, poi, nel XV secolo, l’ingresso della letteratura greca prima e dopo la caduta di Costantinopoli e il platonismo dei Medici, poi il classicismo di Weimar. E come continua di tutto questo, l’attività dei filologi di redigere, commentare, tradurre.

Ci sarà una nuova rinascita? Per temperamento, non sono proprio quello che viene chiamato “ottimista”. Se questo richiede di tornare allo studio delle lingue classiche, non credo che si cominci bene: da sessant’anni buoni, le autorità che pretendono di governarci hanno escogitato di renderlo impossibile; e ora negli Stati Uniti, alcune delle stesse persone che insegnano loro stanno iniziando a segare il loro ramo. Infatti è proprio l’idea di “classico”, indipendentemente dalla distanza linguistica, temporale, culturale, ecc., che ce ne separa, che dovremmo riscoprire: realtà più belle, più vere, migliori di noi, e da cui dobbiamo imparare. Ma ciò suppone un decentramento rispetto a se stessi, smettere di credersi molto scaltri, insomma una virtù meno romana che cristiana, l’umiltà…

https://www.revueconflits.com/penser-la-puissance-entretien-avec-remi-brague/

Il nazismo, figlio legittimo dell’imperialismo occidentale, di Andrea Zhok

Oggi in Russia e in molti altri paesi viene celebrata la commemorazione “Бессмертный полк” (Reggimento Immortale), rievocazione e festeggiamento della vittoria nella “Grande Guerra Patriottica” (così chiamano i russi il conflitto contro i nazisti nella seconda guerra mondiale tra il 1941 e il 1945).
Il 9 maggio 1945 è infatti la data della firma della resa tedesca (il “giorno della Vittoria”).
Questa, come tutte le celebrazioni, ha anche una funzione politica e propagandistica, e non c’è dubbio che il governo russo ne faccia uso “pro domo sua”.
Tuttavia, diversamente da altre, questa celebrazione è cresciuta di seguito popolare in Russia e in molti paesi dell’ex Unione Sovietica negli ultimi anni.
Ciò che sta avvenendo, e che l’attuale situazione in Ucraina alimenta in modo cospicuo, è una sovrapposizione – storicamente discutibile, ma emozionalmente potente – tra l’opposizione russa all’imperialismo nazista e la resistenza russa all’imperialismo occidentale (cioè americano).
Tutti sappiamo che a partire dal 1948 l’irrigidimento della divisione in blocchi e l’avvio della guerra fredda – unita ad una certa inclinazione alla paranoia da parte di Stalin – condusse all’istituzione di uno stato di polizia nei paesi del patto di Varsavia.
Tuttavia questo triste esito è indipendente dal valore simbolico della vittoria nella “Grande guerra patriottica”, che è rimasto potente e persino crescente, essendo qualcosa che per i russi, ma non solo per essi, va al di là del semplice patriottismo e assume un significato idealtipico.
Per capire questo punto non bisogna dimenticare che il nazismo è un movimento storico fortemente caratterizzato da due tratti distintamente occidentali: esso fu Imperialistico e fu Efficientistico.
Il nazismo si intese come movimento storico della costituzione di un Impero (Reich), un impero che non si poneva limiti territoriali di sorta. Ma il nazismo fu anche il primo grande movimento storico a mettere senza remore al centro della propria concezione non una strutturata visione del mondo, religiosa o civica (ideologicamente il nazismo è un guazzabuglio incoerente, privo di elaborazione e di radici) ma l’OTTIMIZZAZIONE dei processi.
Tale ottimizzazione è visibile tanto nella micidiale efficienza degli eserciti nazisti quanto nei processi di sfruttamento dei “sottouomini”, di cui, dopo averli sfruttati fino alla morte come manodopera, non si buttava letteralmente via niente.
Il nazismo, per quanto ciò possa disturbare, è un’incarnazione esemplare della volontà di potenza occidentale, dell’amore per l’estensione della potenza in quanto potenza, dell’efficienza in quanto efficienza, e dell’inebriarsi per tutto ciò.
E’ certo che nell’Occidente, nella sua storia e tradizione c’è infinitamente di più, ma è anche certo che l’imperialismo degli ultimi due secoli, partito alla conquista del mondo prima con la “diplomazia delle cannoniere” britannica e poi con la “diplomazia dei bombardieri” americana, ha sottomesso con la forza – militare ed economica – gran parte del mondo.
Per il mondo non occidentale, dunque, l’Occidente è percepito innanzitutto come forza, forza tecnologica ed efficientistica, volta alla conquista, all’espansione e allo sfruttamento.
So che può essere doloroso per un cittadino occidentale pensarlo, so che preferiremmo credere di aver persuaso cinesi e giapponesi e indiani con la brillantezza della nostra cultura e la profondità delle nostre argomentazioni, ma purtroppo la triste verità è che di cultura, profondità ed argomentazioni ne avevano tanta anche gli altri, mentre ciò che abbiamo usato senza particolari scrupoli – ma con secchiate di ipocrisia ad uso interno – è stata la tecnologia bellica e finanziaria.
Così, per quanto noi possiamo pensare noi stessi come toto coelo altra cosa dall’orrore nazista, per chi ci guarda da fuori il nazismo non può che apparire come un nostro tipico e coerente frutto.
L’unico aspetto su cui il nazismo è stato difettivo (e ciò gli è costato la sconfitta) è stato nel limitare il proprio efficientismo e il proprio razionalismo bellico di fronte al proprio viscerale razzismo.
E’ il razzismo che ha impedito alla Germania nazista la vittoria, perché trattare gli ebrei e gli slavi come sottouomini gli ha sottratto da un lato una bella fetta dell’expertise tecnologica (fuga dell’intellighentsia ebraica) e dall’altro ha dichiarato a (quasi) tutti i popoli del fronte orientale che il loro era un destino in catene, suscitandone la resistenza.
E’ importante vedere che ciò che è davvero mostruoso nel nazismo non è il suo razzismo (naturalmente pessimo), ma l’idea che tutto ciò che non è superiore può ed anzi DEVE diventare mero materiale sfruttabile per chi è alla sommità della catena alimentare. L’orrore non è pensare che un certo vivente sia inferiore, ma pensare che ciò che pensiamo inferiore (un “sottouomo”, un capo di bestiame, una foresta vergine) diventi perciò mera cosa, macellabile e bruciabile serialmente.
Ma nei suoi punti più spaventosi, perché vincenti, il Nazismo è percepibile in perfetta continuità con la storia occidentale degli ultimi due secoli, e come tale è visto o può essere visto al di fuori del mondo occidentale.
Per questo motivo esiste un significato simbolico profondo che andrebbe colto in un festeggiamento come quello odierno.
Per un occidentale esso potrebbe essere visto come una vittoria su una tentazione demoniaca – l’imperialismo tecnarchico – insita nella propria storia. Ma non è facile vederlo così perché quella tentazione demoniaca, lungi dall’essere state superata una volta per tutte, è in crescita da almeno una trentina d’anni e recentemente si sta mostrando virulenta come non mai.
Al di fuori dello sguardo occidentale e della sua propaganda autopromozionale il nazismo può essere facilmente visto come un volto appena dissimulato, e pronto ad emergere in ogni momento, dell’Occidente stesso.

GIUGNO 1941: L’OPERAZIONE BARBAROSSA E IL SODALIZIO DEL REICH CON I NAZIONALISTI UCRAINI, di Marco Giuliani

GIUGNO 1941: L’OPERAZIONE BARBAROSSA E IL SODALIZIO DEL REICH CON I NAZIONALISTI UCRAINI

 

Nel giugno 1941, una volta penetrate nell’Est Europa, con l’Operazione Barbarossa le armate dell’Asse guidate dalla Germania nazista diedero il via all’invasione dell’Unione Sovietica (nome in codice Unternehmen Barbarossa). L’approccio dei tedeschi con le popolazioni locali, durante l’avanzata, si diversificò a seconda del luogo e della tipologia di comunità incontrata, e nel caso, sottomessa. Dette relazioni, fondate su rapporti di ordine divisivo o inclusivo, hanno suscitato e suscitano ancora polemiche circa la condivisione delle politiche di sterminio perpetrate dal Reich e dai collaborazionisti locali ai danni di alcune minoranze etniche appartenenti alla vecchia URSS. Cerchiamo, nel merito, di individuare i fatti salienti e analizzarne il decorso storico-politico.

È necessario puntualizzare innanzitutto che l’obiettivo di Adolf Hitler, denominato “colonialismo integrale”, era quello di sottoporre ad amministrazione controllata ogni provincia oggetto di occupazione militare; fu così per la regione bielorussa di Bialystok (annessa alla Prussia), per la Transnistria e il Dnepr (annesse alla Romania) e per l’Ucraina (inglobata per gran parte nella Polonia in corso di nazificazione). Dall’idea di smantellamento geopolitico furono volutamente risparmiate numerose comunità agricole, le quali, forti delle immense ricchezze naturali di cui disponevano le regioni russo-caucasiche, avrebbero dovuto continuare a produrre incessantemente. Così, se da un lato ebbe luogo la decollettivizzazione delle proprietà e dei fondi, dall’altro il timore di disorganizzare la struttura produttiva delle zone più ricche fece desistere i tedeschi dall’attuare qualsiasi forma di destabilizzazione. Ciò non impedì alla Germania, dal 1942, di “prelevare” a scopo manodopera circa 4 milioni e duecentomila lavoratori da tutto il territorio russo centro-occidentale.

La politica di Ostpolitik del Reich, come accennato, si manifestò in modo differente in base alle regioni via via occupate; i paesi baltici, per esempio, nei quali la cultura tedesca aveva da sempre attecchito in forma più marcata rispetto alle zone interne dell’Eurasia, dovevano essere associati al destino della Germania, e per questo fu riservato loro un trattamento speciale. Consce che per liberarsi dell’influenza russa e aspirare alle storiche autonomistiche ambizioni socioculturali (di cui si facevano da secoli portatrici) era necessario appoggiarsi ai tedeschi, le popolazioni “privilegiate” si videro riconoscere alcune prerogative molto importanti: libertà di culto, un’ampia facoltà di manovra politica e diverse deleghe amministrative. È in questo contesto che la “dottrina Rosemberg” – dal nome dell’allora Ministro per i territori occupati, Alfred Ernst Rosemberg, per l’appunto – si ispirò all’utilizzo politico e militare di alcune popolazioni in funzione antirussa. Una era rappresentata dai cittadini dell’Ucraina. La sua parte occidentale, area in cui i tedeschi furono ben accolti nel corso della campagna di guerra, sembrò impersonare, politicamente, il nucleo adatto per dare corpo e velocizzare la disgregazione dell’URSS, ritenuto l’ostacolo più duro da superare. Fu proprio in questa fase che l’intellighenzia ucraina, fortemente nazionalista e notoriamente antisemita, trovò un punto di incontro ideologico con l’Asse nella prospettiva di neutralizzare l’Armata Rossa e nazificare il paese. Si trattò tuttavia di un’idiosincrasia di media durata in quanto Hitler, che ravvisò proprio nelle aspirazioni autonomistiche un potenziale pericolo, frenò in seguito ogni iniziativa tesa a dare ulteriori poteri alla classe dirigente di Kiev.

In suddetta prospettiva, alcuni celebri studiosi slavisti e ucrainisti hanno sostenuto la tesi per cui l’instabilità delle regioni più estese dell’Europa orientale ha secolarmente rappresentato un problema storico (e storiografico) di rara complessità. Come dargli torto? Guardando a quello che tra il 1941 e il 1945 si può definire come l’avvenuto “incontro-scontro” tra Germania hitleriana e sciovinismo ucraino, si evince, in relazione a un accurato studio scientifico, il punto di fusione rivestito senza dubbio dalla occidentalizzazione dei piccoli-russi filo-indipendentisti, nei quali si confondevano in modo sincronico sia la concezione socialista che quella ultranazionalista. Una delle peculiarità dei partiti ucraini relativi alla Russia post-zarista era il carattere eterogeneo dei rispettivi obiettivi; diversi di questi movimenti, di fatto, oltre a insistere sull’antica emancipazione sociale, legavano a tale tratto distintivo anche un marcato patriottismo rivoluzionario filo-menscevico. Pertanto, la questione agraria e quella nazional-popolare erano notoriamente le più sentite, cosicché i fautori di queste istanze presero a svolgere la loro attività politiche nei villaggi rurali, luoghi in cui la loro propaganda si diffuse in maniera maggiore. L’ala patriottica, che si riconosceva nel manifesto stilato da Mikola Michnovs’kyj, confluì nel partito dei socialisti indipendenti, il cui programma principale consisteva proprio nella separazione dalla Russia e nella creazione di uno stato nazionale indipendente. Si può senz’altro asserire che (anche) al già tradizionale antisemitismo locale e alla scia di sangue provocata dalla Seconda guerra mondiale, andava ad aggiungersi un ulteriore e micidiale elemento: l’associazione tra ebrei e bolscevichi considerati come unico nemico da abbattere. Condizione che inasprì il già conclamato status di guerra civile in atto.

La storiografia ha sostenuto, nel tempo, che il motivo principale del fenomeno legato all’alto numero di collaborazionisti ucraini incorporati dal Reich sia stato dovuto alla volontà popolare di sottrarsi ai vincoli dell’amministrazione russa, e in parte polacca. In secondo luogo, è stata più volte rimarcata l’eredità raccolta dall’Impero austro-ungarico, di cui faceva parte la Galizia centrale, regione dove avevano prestato servizio militare e studiato migliaia di giovani ucraini. Per dare un’idea di come si stessero evolvendo gli eventi bellici, basti pensare che la dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina fu promulgata hic et nunc il 30 giugno del ’41, a nemmeno un mese dall’entrata dei tedeschi presso il territorio sovietico. I volontari che in seguito furono incorporati nella Wermacht e nelle SS, tra legionari e reclute, ammontarono a un numero di circa 300 mila unità. È lecito altresì affermare che la cooperazione tra nazismo e nazionalismo ucraino non fu di natura esclusivamente militare, ma anche ideologica. Ciò è comprovato, oltre che da numerosi documenti redatti negli archivi tedeschi e nelle relazioni alleate (in primis quella canadese), anche dal fatto che sin dai tempi di Caterina II di Russia, XVIII secolo, l’antisemitismo attraeva ampi gruppi sociali, il cui atteggiamento estremo si trasformava spesso e volentieri in saccheggi e uccisioni di innocenti. Si trattava di una discriminazione di matrice sia religiosa (l’Ucraina è un territorio dove il cristianesimo cattolico ortodosso è sempre stato di gran lunga prevalente) che sociale, laddove gli ebrei venivano accusati di gestire il grande commercio e controllare di conseguenza economia e finanza nazionali. I ceti bracciantili ucraini rappresentavano la maggioranza più povera e percepirono le comunità ebraiche come un nemico potenziale ricco e profittatore. Di lì, a seguito dei massacri, operati in prevalenza da gruppi paramilitari organizzati (tra questi il NSDAP e l’UVO), prese vigore un’ulteriore spinta all’emigrazione degli israeliti verso gli Stati Uniti.

A fare le spese delle violenze furono soprattutto gli ebrei presenti in tutto il territorio dell’ex Unione Sovietica, di cui buona parte relegati nella provincia di Kiev. I pogrom si moltiplicarono, spingendo più volte le autorità moscovite a denunciare le stragi alla comunità internazionale. Si calcola che in Russia (dove era presente una delle comunità ebraiche più numerose del mondo), tra il 1941 e il 1945, nel corso del genocidio attuato dai tedeschi e dai loro alleati, siano stati sterminati un milione e mezzo di ebrei, anche se la cifra esatta – visto il fenomeno dei dispersi – non potrà in alcun modo essere ricalcolata o censita con precisione.

 

         MG

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

  1. Cinnella, La tragedia della Rivoluzione russa 1917-1921, Milano/Trento, Luni, 2000 –
  2. Foa, Ebrei in Europa. Dalla peste nera all’emancipazione, Bari, Laterza, 2001 –

Raul Hilberg , La distruzione degli ebrei d’Europa , Parigi, Gallimard, 2006 –

A.Salomoni, L’Unione Sovietica e la Shoah. Genocidio, resistenza, rimozione, Bologna, Il Mulino, 2007 –

Virginie Symaniec , La costruzione ideologica slava orientale di lingue, razze e nazioni nella Russia del XIX secolo, Parigi, Petra, 2012

United States, Holocaust Memorial Museum, da Enciclopedia dell’olocausto (https://encyclopedia.ushmm.org/content/it/article/collaboration) –

  1. Werth, Storia della Russia del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2000 –

14 MINUTI DOPO LA MEZZANOTTE E A POCHI SECONDI DALL’APOCALISSE, LA STORIA DI UN EROE DIMENTICATO, di Gianfranco Campa

14 MINUTI DOPO LA MEZZANOTTE E A POCHI SECONDI DALL’APOCALISSE, LA STORIA DI UN EROE DIMENTICATO.

Purtroppo gli eventi attuali ci portano a rivisitare un periodo buio della storia moderna recente che si pensava di aver messo per sempre da parte.

Molti credono che il momento più pericoloso nella prima guerra fredda, del secolo passato, sia stata la crisi dei missili sovietici a Cuba. In realtà, il momento più critico, che portò il mondo vicinissimo ad una apocalisse nucleare è avvenuto nel settembre del 1983.

La crisi del 1983, a differenza del 1962, si è svolta a porte chiuse, in una connubio tra spie e segreti.

Che gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, nel 1962, fossero sull’orlo di una guerra mondiale, quando John Kennedy e Nikita Khrushchev si “confrontarono” sui missili a Cuba, è risaputo. Gli eventi del 1962 si svolsero, per la maggior parte, alla luce del sole. La crisi del 1983 si è svolta invece in un contesto, nel suo senso letterale, sotterraneo. Nel 1983, il mondo andava avanti con le sue solite routine ed affari per lo più ignaro dei mortali ed apocalittici pericoli cui andava incontro.

Molti della mia generazione, nel 1983 erano ventenni, probabilmente ricorderanno quell’anno più per motivi mondani-sociali e meno per le tensioni e i pericoli insiti nei giochi geopolitici. D’altronde il 1983 è stato un anno particolare: parte la rivoluzione High Tech; vengono messi in vendita i primi orologi Swatch ed entra in commercio il primo cellulare. Con ARPANET nasce di fatto l’era di Internet. Nintendo lancia la console NES. Il primo personal computer viene annunciato da Apple Computer. Microsoft rilascia la prima versione di Word. Si scopre il primo virus informatico.

Il 1983 verrà anche ricordato per altri eventi; come la vendita della prima FIAT Uno, e mentre nelle sale cinematografiche esce il leggendario Scarface, al cinema statuto di Torino, un incendio uccide 64 persone.

Sarà anche l’anno della scomparsa di Emanuela Orlandi e dell’arresto del povero Enzo Tortora. Mentre nell’ombra il mostro di Firenze commette il sesto duplice omicidio, in Brasile viene arrestato Tommaso Buscetta.

In termini di politica interna, Bettino Craxi forma il nuovo governo, legislatura che entrerà nella storia della politica italiana come la più longeva della prima repubblica.

Quell’anno, Margaret Thatcher aveva conseguito un secondo mandato come Primo Ministro inglese, ma il suo erede, Cecil Parkinson, aveva dovuto dimettersi dopo aver ammesso di essere il padre del frutto di una relazione con la sua segretaria. Due giovani socialisti, Tony Blair e Gordon Brown, erano stati eletti, per la prima volta, parlamentari. Lo stesso Tony Blair che ha servito da spalla alle avventure belliche di molte amministrazioni americane, quel Tony Blair che qualche giorno fa ha dichiarato possibile uno scenario da guerra nucleare come risultato del conflitto in Ucraina.

Detto ciò, fu nell’ambito geopolitico che in quel ormai lontano 1983 si verificheranno eventi che avrebbero portato il mondo sull’orlo della catastrofe nucleare e dell’abisso dell’estinzione. I sovietici avevano testato i missili SS-20 su piattaforme di lancio mobili, facili da nascondere e quasi impossibili da rilevare. Nello stesso tempo, gli americani nell’Europa occidentale, avevano dispiegato i missili balistici Pershing II, come contromisura a una “possibile” invasione dell’Europa Occidentale da parte degli eserciti del Patto di Varsavia.

Nel marzo di quell’anno il presidente americano Ronald Reagan annuncia, definendo l’Unione Sovietica “l’Impero del Male”, l’iniziativa di difesa strategica, meglio conosciuta con il nome di Scudo Spaziale, alzando, alla massima esponenza, la tensione fra le due superpotenze; una tensione palpabile che sarebbe sfociata in una serie di “incidenti” che porteranno l’umanità al limite del precipizio.

Il 1º settembre 1983, l’aviazione sovietica abbatté un aereo passeggeri sudcoreano, il volo Korean Air Lines 007, che aveva sconfinato nello spazio aereo sovietico; sono 269 le vittime a bordo dell’aereo, tra i quali Larry McDonald, membro del Congresso degli Stati Uniti. La pressione è alle stelle, il mondo una polveriera pronta ad esplodere.

Gli eventi del 1983 arrivano sulla coda degli anni ’70 che avevano visto un periodo di distensione tra le due superpotenze, simboleggiato dalla firma degli accordi di Helsinki del 1975, suggellati poi dall’incontro nello spazio delle navicelle Apollo e Soyuz. Dopo decenni di reciproco sospetto, sembrava che le due superpotenze potessero, dopotutto, godere di una pacifica convivenza. L’iniziativa dello Scudo Spaziale annunciato da Reagan viene visto a Mosca come un gesto altamente aggressivo, poiché minava il principio della “distruzione reciprocamente assicurata”, il concetto essenziale, non scritto, che teneva sotto scacco, da ambedue le parti, la tentazione di usare le armi nucleari.

 

***

 

 

L’orologio segna 14 minuti dopo la mezzanotte, ora di Mosca, del 26 Settembre 1983; in America, a causa delle differenze di fuso orario, e` ancora il 25 settembre di una qualsiasi domenica pomeriggio. Stanislav Petrov, un tenente colonnello nella sezione dell’intelligence militare dei servizi segreti dell’Unione Sovietica, si è accomodato, senza troppo entusiasmo, nella sedia di comandante nel bunker sotterraneo di pre-allerta, il cosiddetto Oko System, bunker collocato a sud della capitale sovietica, Mosca. Avrebbe dovuto essere la sua serata libera, ma un altro ufficiale si era ammalato e Petrov era stato convocato all’ultimo minuto per rimpiazzarlo.

La notte, nonostante sia ancora il 26 di Settembre, è già molto fredda; davanti a Petrov e i suoi uomini, ci sono gli schermi che mostrano la locazione di silos missilistici sotterranei nelle praterie del Midwest americano, foto frutto dei satelliti spia. Era dovere del tenente colonnello Stanislav Petrov, usando computer e satelliti, avvertire l’Unione Sovietica se ci fosse stato un attacco missilistico nucleare da parte degli Stati Uniti. In caso di un attacco simile, la strategia dell’Unione Sovietica prevedeva di lanciare un immediato contrattacco con tutte le armi nucleari a disposizione contro gli Stati Uniti stessi e i suoi alleati.

Petrov e i suoi uomini, presenti nel bunker, osservano e ascoltano in cuffia qualsiasi segno di movimento, qualsiasi cosa di insolito che potesse suggerire un attacco nucleare. Il tempo di volo di un missile balistico intercontinentale, dagli USA all’URSS e viceversa, era all’epoca di circa 12 minuti. Se la Guerra Fredda dovesse diventare “calda”, i secondi potrebbero fare la differenza.

 

 

Tutto fa credere che questa notte sarà una notte come tante altre, noiosa, di routine, in cui non succede mai niente. Improvvisamente però si accendono le spie e suonano gli allarmi del computer, avvertendo la presenza di un missile americano che si starebbe dirigendo verso l’Unione Sovietica. Una spia si illumina, a caratteri cubitali digitali, con lettere rosse su sfondo bianco, annunciano la decisione da prendere: “LANCIARE”. Il suono delle sirene avvolgono il bunker, gli allarmi, le luci, le scritte e il computer fanno credere che gli Stati Uniti hanno appena lanciato i loro missili, dando via alla terza e ultima guerra mondiale, la guerra nucleare, “the war to end all wars…” A Petrov spetta la decisione finale: alzare la cornetta del telefono rosso, per lanciare i missili, oppure no.

Petrov, mantiene la calma, quella calma che avvolge gli esseri umani veri quando vengono confrontati da situazioni difficili e mortali. Petrov, ragionando con freddezza, crede che si sia verificato un errore del computer anche perché,  pensando tra sé e sé, ritiene che gli Stati Uniti non avrebbero lanciato un solo missile se avessero davvero deciso di attaccare l’Unione Sovietica; ne avrebbero invece lanciato un numero molto più alto, per colpire più obiettivi, neutralizzando una possibile risposta di Mosca. Sa, inoltre, che in passato si erano presentati dubbi sull’affidabilità del sistema satellitare utilizzato. Petrov deduce, con logica lucidità, in un momento di forte stress, che si tratta quindi di un falso allarme, concludendo che nessun missile era stato realmente lanciato dagli Stati Uniti.

Giusto il tempo per ponderare la sua scelta che la situazione precipita ulteriormente, diventando drammatica. Il sistema informatico indica che un secondo missile è stato lanciato dagli Stati Uniti  in direzione dell’Unione Sovietica. L’allarme continua a suonare mostrando ora un terzo missile, seguito da un quarto e poi un quinto missile. Il suono degli allarmi si fa assordante. Mentre gli occhi degli uomini presenti nel bunker si concentrano su Petrov, lui continua a fissare la scritta lampeggiante “lanciare”, il segnale che indica a Petrov di iniziare la procedura per il lancio dei missili nucleari.

Nonostante ciò, Petrov, sotto tremenda pressione, continua a credere che si tratti di un falso allarme. La sua scelta si basa solo sul suo intuito; intuito che gli fa credere che il sistema informatico sia in qualche modo compromesso. In altre parole Petrov crede che sia un problema tecnico, ma non aveva comunque modo di saperlo con certezza. Non c’erano altri parametri sui quali basarsi. In caso di errore i missili avrebbero presto iniziato a piovere sull’Unione Sovietica.

Passano prima i secondi poi i minuti, ma tutto rimane tranquillo: non ci sono missili e non c’è nessuna distruzione. Il Tenente Colonnello Stanislav Petrov aveva preso la decisione giusta, scongiurando di fatto una guerra nucleare. Il resto dei colleghi, nel Bunker, tirano con Petrov un sospiro di sollievo, qualcuno si congratula con il suo superiore per aver preso, d’istinto, la decisione giusta, salvando il mondo dalla catastrofe. Se l’attacco fosse stato reale, anche un solo missile avrebbe causato una esplosione 50 volte maggiore a quella di Hiroshima; le sirene invece  smettono di suonare e le spie si spengono.

Il dramma intorno agli eventi di quel 26 settembre 1983 era reale, ma gli allarmi fasulli. Successivamente, si scoprì che ciò che i sensori del satellite avevano captato e interpretato come missili in volo non erano altro che nuvole d’alta quota. Un glitch nel sistema che sarebbe potuto costare molto caro.

 

***

 

La coraggiosa decisione di Petrov violava però  la procedura militare che fino a quel momento obbligava l’ufficiale di turno al comando di Oko, di assecondare gli avvertimenti del computer, lasciando di fatto la decisione del lancio ai terminali stessi, marginalizzando il fattore umano. Petrov, dopo l’incidente, fu posto sotto interrogatorio dai vertici militari, per mettere in chiaro le sue decisioni e azioni. Petrov aveva scongiurato una guerra nucleare, ma così facendo aveva anche smascherato le inadeguatezze del tanto decantato sistema di allerta impiegato da Mosca.

La scelta del comando militare sovietico si orientò verso l’atteggiamento pilatesco: da un lato Petrov fu criticato per aver violato le procedure e venne di conseguenza ritenuto un ufficiale non più affidabile. Non fu quindi né premiato né onorato per le sue decisioni, ma non fu neanche punito. La sua carriera militare, un tempo promettente, era giunta al termine. Fu riassegnato in una posizione meno importante. Nel 1984 Petrov lasciò l’esercito e ottenne un lavoro presso l’istituto di ricerca che aveva sviluppato il sistema di allerta dell’Unione Sovietica, quello stesso sistema che in quella notte settembrina, nel bunker, aveva tradito Petrov e i suoi uomini. In seguito Petrov si ritirò per poter prendersi cura di sua moglie dopo che le fu diagnosticato un cancro che la portò via nel 1997 . Ha continuato a vivere la sua vita, in Russia, da pensionato, soffrendo di depressione e morendo di polmonite, il 17 Maggio del 2017.

 

 

Stanislav Petrov, quel giorno del 1983, salvò la Terra dal disastro, salvando l’umanità da una tragedia immane. Petrov ha sempre sostenuto che non si considerava un eroe per quello che aveva fatto quel giorno. Ma in termini di numero incalcolabile di vite salvate e di danni risparmiati al pianeta Terra, Petrov è innegabilmente uno dei più grandi eroi di tutti i tempi. Certamente se c’era un personaggio che meritava il premio nobel per la pace, questo era Petrov; ma si sa i finti scienziati climatici e i finti pacifisti hanno la precedenza…

C’è ancora qualcos’altro di inquietante in questo incidente. Stanislav Petrov non era originariamente l’ufficiale in servizio quella notte. Se non fosse stato presente nel bunker, è possibile che un altro comandante più solerte non avrebbe dubitato degli allarmi dei computer, ponendo di fatto tragicamente fine all’umanità. Il debito dovuto a Petrov da parte del mondo è incommensurabile; non saremo mai in grado di ripagarlo.

Quarant’anni dopo gli eventi racchiusi in quel bunker, siamo di nuovo qui a confrontarci con la prospettiva di una guerra nucleare. Ormai si parla apertamente e disinvoltamente di rischio nucleare, “armi tattiche nucleari“, “missili nucleari“, come se fossero noccioline, con i meschini mass media più che entusiasti di rilanciare la propaganda alzando il livello della tensione e alimentando così il pericolo nucleare. Neppure una pausa nel ponderare la pazzia di una tale dialettica. Poche sono le voci che si alzano di condanna o di critica costruttiva a questa situazione. Pubblichiamo il titolo di un articolo pubblicato nel 2011 dell’Huffpost sulle tematiche ambientali, che ci serva da avvertimento a non sottovalutare il delirio di questa gente cui abbiamo affidato il nostro destino :

“POTREBBE UNA PICCOLA GUERRA NUCLEARE CAPOVOLGERE IL SURRISCALDAMENTO DELLA TERRA?”

Durante un viaggio negli Stati Uniti, per un discorso all’ONU, Petrov disse: ‘Non sono un eroe, ero solo nel posto giusto al momento giusto” Alla domanda posta da Kevin Costner se un giorno si sarebbero usate le armi nucleari Petrov rispose che “era una certezza”.

Oggi purtroppo siamo in mano a maniaci; si confida nell’avvento di uno, dieci, cento, mille Stanislav Petrov, l’eroe oscuro e umile che salvò il mondo.

 

P.S. Consiglio la visione del documentario: The Man Who Saved the World

 

STORIA COME INCREMENTO DI COMPLESSITA’ A CUI ADATTARSI, di Pierluigi Fagan

STORIA COME INCREMENTO DI COMPLESSITA’ A CUI ADATTARSI. [Post di studio] Tornerò su un argomento su cui abbiamo scritto più e più volte. Il tema è il passaggio storico tra modi di vita pre e post civili dove -civile- viene da -civitas- e dà luogo a civiltà, quindi pre e post cittadini. Siamo nella sequenza tra Mesolitico e Neolitico tra 15.000 e 3500 a.C. con prospettiva verso l’inizio del periodo civile o storico propriamente detto e siamo in quel della Mesopotamia.
La narrazione (sempre meno) dominante è quella per cui l’invenzione dell’agricoltura, innovazione dei modi di produzione, ha rivoluzionato le forme di vita associata. Questo ha portato da una parte progresso ed incremento di complessità, dall’altra gerarchie sociali, diseguaglianze e guerre. La narrazione è interna alla nostra immagine di mondo costruita già nel XIX secolo e conforme le due famiglie ideologiche politiche prevalenti, quella liberale e quella social-marxista. Ha la stessa scansione della narrazione sulla “rivoluzione” industriale ovvero la teoria è “il proprio (spazio)-tempo appreso nel pensiero” ovvero le forme socio-economiche del Regno Unito nel XIX secolo. Fin qui nulla di male, il problema è poi decidere di fare di questa teoria locale (nello spazio e nel tempo) un universale, una presunta legge storica. Oltretutto pensando che la storia, per rendersi scientifica, debba mostrare le logiche della regina delle scienze: la fisica. La fisica ha le leggi? Quindi anche la storia ed il pensiero economico dovevano avere “leggi”.
Negli ultimi anni, la quantità delle informazioni ricavate dagli scavi archeologici è decisamente aumentata. Viepiù se la compariamo al XIX secolo, ma anche a buona parte del XX. È anche aumentata la nostra capacità di trarre informazione dagli scavi ed è diventata più complessa, quindi più realistica, la nostra organizzazione narrativa in grado ora di mettere assieme informazioni su natura, clima, uomini, modi di vita etc. Vediamo in breve cosa abbiamo scoperto.
1 – L’agricoltura non fu una invenzione puntiforme. Abbiamo primi semi messi da parte per esser ripiantati negli scavi di un sito di 20.000 anni fa. Abbiamo prove di prodotto agricolo selvatico ovvero cura della produzione naturale spontanea che poi lascia il passo a produzione intenzionale ovvero semina-cura-raccolta, da allora fino a 15.000 anni dopo. Tra l’altro l’atteggiamento di cura e raccolta valeva anche per la silvicultura e l’orticultura ad allargare l’output di sussistenza. Pari progressione vale anche per le prime forme di allevamento.
2 – La destinazione di questo nuovo prodotto di sussistenza agricola (naturale ed intenzionale) fu di integrazione e stoccaggio. Integrazione in quanto così si allargavano le opzioni della dieta, di base centrata ancora a lungo su caccia e raccolta. Stoccaggio in quanto i cereali raccolti, seccati, garantivano prodotto consumabile in via differita, per quanto di ripiegamento.
3- Tre informazioni ulteriori vanno considerate per ricostruire un processo che durerà millenni: a) i gruppi umani mostrano una tendenza moderata ma costante (a grana grossa) a crescere di dimensioni. Ciò avviene per vari motivi non tutti derivati dalle oscillazioni di sussistenza disponibile; b) altresì cresce la loro densità territoriale relativa. Questa riduce progressivamente gli areali di riferimento per la singola banda o tribù. A loro volta, molte di queste aggregazioni, diventano progressivamente stanziali. La forma stanziale fissa l’areale di riferimento mentre prima l’areale si spostava allo spostamento del gruppo umano; c) il tutto si svolge in un periodo climatico molto dinamico. Il periodo inizia con la deglaciazione che letteralmente inonda il mondo di acqua, aumentando la produzione naturale di piante ed animali. A più riprese però, il clima oscilla diventando più secco. Queste fasi diminuiscono di colpo (nell’ordine dei secoli) la produzione naturale per, ricordiamolo, gruppi ora più massivi, densi e fissi territorialmente.
4 – C’è un movimento progressivo di discesa del fuoco di presenza umane territoriali dal sud anatolico al Golfo Persico. Contemporaneamente continua l’afflusso dall’esterno di questo areale (Monti Zagros, altopiano iranico). Contemporaneamente, i siti abitativi vanno progressivamente sempre più vicino i due grandi fiumi (Tigri ed Eufrate). Quest’ultimo punto si verifica in più o meno corrispondenza con il cambiamento climatico. C’era una regolare agricoltura intenzionale (semina-cura-raccolto) che si basava sulla semplice periodicità delle piogge e non su lavori di canalizzazione. Quando l’andamento climatico oscilla verso il secco, l’acqua che non cade più dal cielo, andrà presa dai fiumi.
I punti di questa ricostruzione porterebbero ad una narrazione lineare, ma i fenomeni a grana fine non lo furono. I gruppi umani oscillarono all’oscillazione del contesto. Questo perché la regola cui sono soggetti è l’adattamento a contesti mutevoli.
C’è poi anche una controverifica indiretta alla tesi dell’invenzione del modo agricolo. I modi agricoli compaiono a più riprese in poco meno di altri dodici casi nel globo (ma c’è chi ne conta ben di più), in tempi differenti, tra luoghi non comunicanti. A meno di non prevedere una magica sincronizzazione dell’ingegno umano, l’unica spiegazione che sta in piedi, è che i vari gruppi umani vennero sottoposti a pressioni adattive simili. La condizione simile è un “complesso di cause” (cause tra loro interagenti) che prevede: aumento costante demografico, aumento di densità per areale chiuso (che ha condizioni migliori che non si trovano nell’intorno), un primo miglioramento costante delle condizioni naturali (clima, acqua, rigoglio vegetale, esuberanza demografica animale), progressiva stanzializzazione, una seconda relativamente improvvisa inversione negativa delle condizioni climatiche. Il ricorso a produzione intenzionale (agricoltura-allevamento) che all’inizio è arricchimento della varietà di dieta, poi stoccaggio di alimenti a cui attingere per compensare le curve oscillanti di produzione naturale (caccia e raccolta), diventa sempre di più fonte di sussistenza primaria, poi esclusiva. Per quanto di apporto nutritivo monotono e modesto, la coltivazione di cereali e la segregazione con riproduzione di animali, era l’unica possibilità di sopravvivenza date le condizioni. Ed a sua volta, la sua relativa prevedibilità quindi sicurezza alimenterà ulteriore incremento demografico e di densità relativa avviandoci lungo un percorso irreversibile.
Non ci fu quindi alcuna invenzione come motore della storia, fu un complesso adattamento a nuove condizioni dei gruppi umani, dei territori e distribuzione umana e naturale dentro di essi, del clima. Tutte le mitologie posteriori raccontano questa storia come una caduta dall’età dell’oro, non come un progresso. Ritenuti a lungo “miti”, oggi sembrano confermati dall’analisi delle ossa e degli scheletri che confermano l’impoverimento nutritivo, dismorfismo sessuale e la perdita di forza e salute generale. A seconda di come si deciderà di organizzare le nuove forme di vita associata, nasceranno le diseguaglianze sociali (anziani su giovani, maschi su femmine, classi su classi, élite castali su popolo), le gerarchie fisse e riprodotte per ereditarietà, la guerra, le narrazioni di contesto, tra cui le religioni, le varie caste tripartite (commerciali, militari, sacerdotali) ovvero la civiltà.
Il significato proprio del ricorso prima saltuario, poi sistematico, poi unico all’opzione agricola fu una necessità, non una libertà. Necessità di garantire, quindi prevedere, output alimentare per numeri sempre più ampi di popolazione già stanziale per via delle dimensioni. L’adattamento del tempo portò in dote il problema del doverci pensarci prima, del prevedere. Il ricorso sempre maggiore all’agricoltura-allevamento fu la necessità di prevedere le forniture di sussistenza per migliaia e migliaia di persone ormai inurbate. Per altro, non sembra neanche che fu il semplice predominio del modo agricolo a scatenare la trasformazione sociale, ma una dinamica più complessa a molti fattori che all’inizio prese forma di quello che alcuni chiamano “socialismo sacerdotale” ovvero l’attribuzione del prodotto della terra (inizialmente terra degli dèi, non più totalmente libera e non ancora privatizzata) ad un centro ridistributivo gestito dai funzionari della credenza. Sarà all’interno di questi centri che la burocrazia civile al servizio del tempio diverrà poi predominante politicamente (il “re”, inizialmente spesso eletto e senza dinastia, al tempio si affiancherà il palazzo) mentre accanto si infittiscono le dispute per lo spazio da cui si svilupperanno le élite militari e si formano i monopoli di scambio tra eccedenze e mancanze, a volte pubblici, a volte privati, più spesso privati su concessione pubblica. Se all’inizio il “centro” assolve ad una funzione controllata, al crescere del volume dei gruppi, il centro si emancipa dal controllo dal basso e diventa l’alto dominante.
Se una regola si vuol trovare, a grana grossa, sembra lampante una correlazione tra modi di organizzare la società e sua dimensione in cui società viepiù massive confinano le decisioni da prendere in una élite sempre più stretta. Più che in economia, il motore della faccenda va cercato in socio-demografia. Quello che si perde è la facoltà di decidere assieme il che fare, facoltà naturale nei piccoli gruppi, molto meno naturale in quelli grandi.
Detto da D. Graeber e D. Wengrow nel loro di recente pubblicato “L’alba di tutto” (Rizzoli, 2022, p. 19): “La questione ultima della storia dell’umanità non è l’equo accesso alle risorse materiali (terre, alimenti, mezzi di produzione), per quanto queste cose siano ovviamente importanti, bensì l’equa capacità di partecipare alle decisioni sulla nostra convivenza”.
Oggi, con un mondo cresciuto di tre volte in soli settanta anni, di quattro quando saremo al 2050, si pone nuovamente, il problema dell’adattamento su previsioni anticipanti. Il modo o forma di come comporre le nostre forme di vita associata, non dovrebbe più esser un esercizio a ruota libera, di invenzione, innovazione, nostri vari desiderata. Dovrebbe esser un esercizio di necessità e compatibilità: come e cosa fare per convivere in così tanti nello stesso spazio obbligato. Dovrebbe esser un esercizio adattativo, le forme sociali dipendono non solo dalle loro dinamiche interne, ma queste stesse sono condizionate dal contesto. Ereditiamo forma politiche in cui pochissimi si occupano di questo problema, inevitabilmente propensi ad aumentare diseguaglianze, gerarchie, vantaggi ereditari, guerre e confitti, narrazioni sempre più assurde, forme religiose di credenza anche quando non hanno in oggetto fatti spirituali.
Cinquemila anni fa dovemmo fare i conti di compatibilità tra società umane e contesto, di nuovo oggi. Allora andò come sappiamo, come fare in modo che oggi vada diversamente?

POMBALINA-E-GIOCO-DELLE-PERLE-DI-VETRO-2, di Massimo Morigi

Massimo Morigi
ANCORA IN AVVICINAMENTO AL NUOVO GIOCO DELLE
PERLE DI VETRO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO:
POMBALINA ET INACTUALIA ARCHEOLOGICA

PARTE SECONDA
Dopo la pubblicazione sull’ “Italia e il Mondo” del saggio sulla dialettica prassistica
dell’epigenetica e della sintesi evoluzionistica estesa intitolato Epigenetica, Teoria
endosimbiotica, Sintesi evoluzionista moderna, Sintesi evoluzionistica estesa
efantasmagorie transumaniste. Breve commento introduttivo, glosse al Dialectical
Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin, su Lynn Margulis, su Donna Haraway e
materiali di studio strategici per la teoria della filosofia della prassi olisticodialetticaespressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico e dopo la
recentissima pubblicazione sempre sull’ “Italia e il Mondo” sotto la Leitbild di
Federico II il Grande re di Prussia dell’inattuale La Loggia Dante Alighieri nella storia
della Romagna e di Ravenna nel 140° anniversario della sua fondazione (1863-2003) (la
prima parte all’URL https://italiaeilmondo.com/2022/01/09/massimo-morigi-la-loggia-dantealighieri-nella-storia-della-romagna-e-di-ravenna-nel-140-anniversario-della-sua-fondazione1863-2003-_________-i-parte/, Wayback Machine:
https://web.archive.org/web/20220110075018/https://italiaeilmondo.com/2022/01/09/massimomorigi-la-loggia-dante-alighieri-nella-storia-della-romagna-e-di-ravenna-nel-140-anniversario-della-sua-fondazione-1863-2003-_________-i-parte/; la seconda all’URL
https://italiaeilmondo.com/2022/01/11/massimo-morigi-la-loggia-dante-alighieri-nella-storiadella-romagna-e-di-ravenna-nel-140-anniversario-della-sua-fondazione-1863-2003-ii-parte/, Wayback Machine:
https://web.archive.org/web/20220111161456/https://italiaeilmondo.com/2022/01/11/massimomorigi-la-loggia-dante-alighieri-nella-storia-della-romagna-e-di-ravenna-nel-140-anniversario-della-sua-fondazione-1863-2003-ii-parte/ ho ritenuto presentare ai
lettori del blog alcune riflessioni se si vuole ancora più inattuali ed attinenti il
Repubblicanesimo Geopolitico solo in Statu nascenti ed inseribili in questo contesto
interpretativo ma solo in prospettiva archeologica, quattro scritti ed interventi
pubblicati o presentati in sede seminariale in Portogallo che hanno precorso,
attraverso una prima riflessione sul repubblicanesimo, sull’estetizzazione della politica
e sulla conflittualità sociale, le attuali conclusioni, anch’esse inattuali ça va sans dire,
cui è giunto il Repubblicanesimo Geopolitico, informate al paradigma olisticodialettico-espressivo-strategico-conflittuale e appunto giunte a piena maturità – o
involuzione, chi può dirlo? – nel summenzionato saggio sulla dialettica storica e
biologica. Come suggerisce il titolo, queste fonti a stampa sono state per la maggior
parte edite dalla casa editrice Pombalina dell’Università di Coimbra oppure hanno
avuto comunque un editore portoghese (anche se sul Web, oltre a questa immissione
dei documenti in questione da parte dei “portoghesi”, esiste, di queste precursioni
inattuali del Repubblicanesimo Geopolitico, pure un’edizione dello scrivente immessa
direttamente dallo stesso sul Web: si tratta di Repvblicanismvs Geopoliticvs Fontes
Origines et Via, all’URL di Internet Archive
https://archive.org/details/RepvblicanismvsGeopoliticvsFontesOriginesEtViaMassimo, un’antologia di interventi sul Repubblicanesimo Geopolitico,
comprendente anche parte dei documenti presenti in questa antologia e con contenuti
anche multimediali) e riguardano o una prima ricognizione sul concetto di
‘Repubblicanesimo’ e come questo possa venire machiavellianamente in contatto con
la conflittualità sociale e l’estetizzazione della politica e come quest’ultima venga
utilizzata dai regimi totalitari di massa del Novecento. Come Leitbild si è pensato di
ricorrere ai Due amanti di Giulio Romano. Scelta apparentemente avulsa dal discorso
delle precursioni e delle inattualità. A ben vedere non troppo se si consideri il profondo
legame dialettico fra queste quattro riflessioni e la filosofia della prassi espressa dal
saggio Epigenetica, Teoria endosimbiotica, Sintesi evoluzionista moderna, Sintesi
evoluzionistica estesa e fantasmagorie transumaniste (ed anche visto l’attuale degrado
politico-filosofico, civile e culturale che in questi tempi di pandemie virali ma anche
psichiche, con ciò intendendo non solo l’irrazionale paura della morte causa morbo ma
l’altrettanto irrazionale terrore antivaccinista – entrambe le angosce frutto della
superstizione, del fideismo e dell’anomia caratteristici delle c.d. moderne democrazie
rappresentative, un degrado la cui succitata Leitbild costituisce il più dialetttico ed
ironico controveleno). E oltre non vado perché una corretta dialettica ha sempre
implicato una creativa e penetrante attività da parte di tutti i soggetti coinvolti.
Perché, si spera e si pensa, Gentile e Gramsci non hanno certo predicato (e sofferto e
pagato) invano, e soprattutto, inattualmente. Il nuovo gioco delle perle di vetro, lo
sappiamo, disdegna la cronaca e si compiace di accostamenti (apparentemente)
inusitati per le superstiziose, anomiche, fideistiche e degradate masse dei sopraddetti
regimi “democratici”.
Massimo Morigi – Ravenna, inizio anno 2022
Massimo Morigi, Aesthetica fascistica II. Tradizionalismo e modernismo sotto l’ombra del
fascio (comunicazione inviata al convegno “IV Colloquio Tradição e modernidade no mundo
Iberoamericano – Coimbra 1, 2, 3 de outubro de 2007”), in “Estudo do Século XX”, N° 8,
Coimbra, Centro de Estudos Interdisplinares do Século XX de Coimbra – CEIS20, 2008, pp.
119-133. URL dal quale si può scaricare la rivista dal quale proviene l’estratto:
https://www.uc.pt/iii/ceis20/Publicacoes/revistas/revista_8, Wayback Machine:
https://web.archive.org/web/20201114222139/https://www.uc.pt/iii/ceis20/Publicacoes/revistas/revista_8. Inoltre in regime di autopubblicazione sulla piattaforma Internet
Archive e col titolo di GESAMTKVNSTWERK RES PVBLICA la comunicazione è visionabile e
scaricabile agli URL https://archive.org/details/GesamtkvnstwerkResPvblica e
https://ia801704.us.archive.org/2/items/GesamtkvnstwerkResPvblica/GesamtkvnstwerkResPvblica.pdf

Qui sotto il link con il testo della II parte:

POMBALINA E GIOCO DELLE PERLE DI VETRO SECONDO

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