Intelligence strategica, geopolitica e guerra economica. Dagli anni ’50 ad oggi_di Giuseppe Gagliano

C’è chi fa, chi ci prova, chi lascia fare. La Francia potrebbe essere collocata in seconda fascia. Ha avuto nel dopoguerra il momento di maggior risolutezza nel periodo gaullista; in un contesto di decadenza e regressione ha conosciuto sussulti più che reazioni efficaci ad una politica di vera e propria colonizzazione ed espropriazione delle proprie capacità tecnologiche mascherate da una sterile prosopopea che non ha fatto altro che far perdere ulteriore credibilità alla classe dirigente. L’aspetto più interessante che differenzia quel paese dal nostro riguarda l’esistenza di un nucleo esplicito ancora in grado di porre la questione della sovranità e di condurre una battaglia politica. Su questo sito ne abbiamo parlato frequentemente. Buona Lettura, GIuseppe Germinario

Dall’affare Raytheon (1994) all’affare Alstom (iniziato nel 2014), la guerra economica ha colpito duramente le aziende francesi. Gli Stati, lontani dalle raccomandazioni liberali, sono attori costanti in questa guerra economica, in particolare paesi come il Regno Unito e gli Stati Uniti, che si dichiarano i più favorevoli alla libera impresa. Lungi dal fare il punto sulla posta in gioco strategica di questo terreno di scontro, la politica pubblica francese sull’intelligence economica è rimasta insufficiente poiché la caduta dell’URSS ha alzato la posta in gioco. La difesa delle imprese francesi contro acquisizioni estere che potrebbero portare al trasferimento di tecnologie sensibili, o mettere a rischio posti di lavoro, è rimasta quindi un aspetto dimenticato dell’azione pubblica.
Nella strategia economica come nell’arte militare, il successo di una politica pubblica richiede tanto iniziativa quanto anticipazione: questi sono i precetti che gli Stati Uniti applicarono all’indomani della seconda guerra mondiale. Al contrario, a partire dagli anni ’90, i governi francesi hanno reagito molto di più a shock che mettono in difficoltà le imprese nazionali, di quanto non abbiano sviluppato a priori elementi strategici di fronte alle nuove sfide della guerra economica.

Grazie alla Guerra Fredda, e alle competizioni militari, ma anche alle tecniche, economiche e scientifiche a cui ha dato origine, le politiche pubbliche americane hanno affrontato a testa alta la questione dell’intelligence economica alla fine della seconda guerra mondiale. Il primo passo è stato quello di fornire alle aziende americane il beneficio dell’informazione pubblica: negli anni Cinquanta sono state istituite agenzie federali come la National Science Foundation per trasmettere alle aziende strategiche le informazioni prodotte dalle amministrazioni. Poiché la prospettiva di uno scontro militare con la Russia sovietica si allontanava, l’intelligence economica divenne una preoccupazione centrale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, che in particolare mise in atto una strategia per finanziare e proteggere l’economia dell’innovazione. : il finanziamento della ricerca scientifica da parte del Dipartimento della Difesa , che salì bruscamente al 96% della R&S pubblica nel 1950, è stata mantenuta, ad esempio, al 63% della R&S nel 1987.

Questa precoce preoccupazione espressa dalla comunità dell’intelligence americana per questioni di strategia economica ha radicato potenti eredità e spiega, ancora oggi, la forza dei legami che uniscono le grandi imprese americane e servizi segreti. Alla fine della Guerra Fredda, parte delle risorse dell’intelligence americana furono, inoltre, dirottate, in mancanza di un nemico, verso l’intelligence economica; si è infatti inasprita la competizione tra attori nazionali per la conquista dei mercati. Tuttavia, questa cultura dell’intelligence economica non si è radicata nelle stesse condizioni in Francia, che fino agli anni ’90 è rimasta relativamente insensibile a questo concetto.Se la Francia era inizialmente interessata alle politiche di intelligence economica pubblica, è perché era obbligata a farlo dal contesto dell’affare Raytheon. Nel 1994, Thomson-CSF ha perso inaspettatamente il progetto brasiliano Sivam, un sistema di monitoraggio per la foresta pluviale amazzonica. E per una buona ragione: la NSA (National Security Agency) è intervenuta per intercettare le telefonate francesi e consegnare a Raytheon, concorrente americano di Thompson, informazioni strategiche che le hanno permesso di aggiudicarsi l’appalto.Nel contesto di una forte globalizzazione dei mercati, la Francia si è trovata male armata per parare questi colpi, che sono stati distribuiti tra gli alleati. I responsabili politici ora si sono resi conto che, lungi dall’idea di “concorrenza libera e non distorta”, gli Stati Uniti stavano realizzando in modo aggressivo coinvolgendo i propri servizi di intelligence nella conquista dei mercati internazionali da parte delle loro aziende.

In seguito all’affare Raytheon, alti funzionari, come l’ingegnere aeronautico Henri Martre, allora di stanza al Commissariat Général au Plan, erano convinti della necessità di colmare la “spartizione” tra aziende private e pubbliche amministrazioni per sostenere gli attori economici francesi. Grazie alla ricomposizione dell’ordine mondiale dopo la caduta dell’URSS, la “guerra economica”, intesa come la crescente importanza delle poste finanziarie nelle lotte globali tra le potenze, ha acquistato importanza, ed è stata finalmente considerata a pieno, in Francia, come una minaccia alla sicurezza nazionale.
Queste diagnosi hanno dato origine alla stesura del rapporto Martre, documento fondativo dell’intelligence economica francese, pubblicato nel febbraio 1994. Il rapporto definisce l’intelligence economica come “tutte le azioni coordinate di ricerca, elaborazione e distribuzione in vista del suo utilizzo, informazioni utili per gli attori economici.”Le proposte del rapporto hanno portato all’istituzionalizzazione di un ente pubblico dedicato all’intelligence economica, il Comitato per la competitività e la sicurezza economica (CCSE), che riferisce al presidente del Consiglio. Questo organismo, però, ha avuto le maggiori difficoltà a funzionare, abbandonato dal potere nel contesto delle elezioni presidenziali del 1995, e del fallito scioglimento del 1997. Il rapporto Martre aveva teorizzato l’intelligence economica francese, ma questa ebbe inizialmente molto poco seguito.
Contemporaneamente alla pubblicazione del rapporto Martre, negli anni ’90 la Francia si dotò di un arsenale legislativo più adatto alle minacce: fino al 1994 la tutela del patrimonio economico era disciplinata dall’ordinanza del 7 gennaio 1950, che poneva l’accento sulla regolamentare le carenze, lontano dagli imperativi della guerra economica. Solo nel 1994 la nuova versione del Codice penale incorporò, tra gli interessi fondamentali della nazione, “gli elementi essenziali del suo potenziale scientifico ed economico. Solo nel 2003 il sostegno del governo all’intelligence economica ha riscosso un rinnovato interesse.

Ciò è stato causato da un lato da un’altra vicenda di guerra economica, quella di Gemplus : nel 2003, la società francese Gemplus, leader mondiale nelle smart card, dopo aver accettato l’ingresso di Texas Pacific Group tra i suoi azionisti, non ha potuto impedire la nomina di Alex Mandl alla guida del suo consiglio di amministrazione… Alex Mandl era un direttore di In-Q Tel, un fondo di investimento creato dalla CIA, e supervisionava il trasferimento di queste tecnologie francesi negli Stati Uniti. Ancora una volta, un’impresa strategica francese fu vittima di intrighi americani in materia di guerra economica; ancora una volta, la Francia si è trovata politicamente male armata per rispondere a queste minacce. Gli avvisi dati al governo dalla Direzione della Sicurezza Territoriale (DST) non erano stati ascoltati, e i servizi segreti francesi non potevano impedire la distruzione di molti posti di lavoro alla Gemplus, né il trasferimento del brevetto dalla carta al chip al suolo americano .
Consapevoli di queste battute d’arresto, il primo ministro Jean-Pierre Raffarin e il parlamentare Bernard Carayon hanno spinto per la nomina di Alain Juillet, direttore dell’intelligence della DGSE, ad alto commissario per l’intelligence economica..
Tuttavia Tale organismo è poi entrato in concorrenza con il Servizio di coordinamento dell’informazione economica, che fa capo al Ministero delle finanze. Per evitare duplicazioni amministrative, i due organi sono stati accorpati per creare il Servizio di Informazione Strategica e Sicurezza Economica (SISSE), che costituisce il sistema esistente. Questa necessaria riforma non è stata completata fino al 2016: questa lentezza testimonia chiaramente la mancanza di considerazione da parte delle autorità pubbliche della politica di intelligence economica, in un contesto segnato dal passaggio del settore energetico del gruppo Alstom, nel 2014, sotto il controllo americano.

Come valutare oggi l’azione della SISSE, principale strumento delle politiche di sicurezza economica francesi? L’organizzazione sembra ridotta a reagire a posteriori alle minacce che incombono sulle aziende francesi, per due ragioni. In primo luogo, si occupa, come si evince dal suo titolo, solo di sicurezza economica: ciò significa che la Francia rinuncia a esercitare influenza e a sostenere in modo decisivo le sue imprese nella conquista dei mercati. In secondo luogo, come ha sottolineato Nicolas Moinet, specialista in intelligence economica,la struttura stessa della SISSE non è necessariamente la più adatta: di fronte a una minaccia multiforme che grava sulle aziende francesi , un organismo centralizzato all’interno della Direzione Generale delle Imprese (DGE) non è la forma più fluida che può assumere la politica di sicurezza economica. Al contrario, l’intelligence economica richiede adattamenti locali, che potrebbero passare in modo più deciso attraverso le prefetture, per raccogliere informazioni sul campo e contrastare più efficacemente le minacce. È vero che alle prefetture è stato affidato, da una direttiva del 2005, la conduzione delle politiche di sicurezza economica. Tuttavia, come già notato da Floran Vadillo e Nicolas Moinet nel 2012, questi servizi prefettizi non hanno raggiunto la dimensione critica che li renderebbe veramente efficaci.

L’intelligence economica francese soffre quindi della mancanza di risorse impiegate nei servizi statali decentralizzati. Mentre le iniziative stanno nascendo a livello di comunità, rimangono molto incerte e per molti insufficientemente operative: alcune regioni, come la regione dell’Alvernia Rhône-Alpes, producono così documenti destinati alle imprese per renderle consapevoli delle sfide della sicurezza economica , senza che il risultato di tali comunicazioni sia assicurato. La strategia di intelligence economica francese soffre quindi di due gravi carenze: da un lato, la SISSE, organismo specializzato in sicurezza economica, non è perfettamente idoneo a garantire la sicurezza delle imprese nazionali. D’altra parte, gli altri attori che intervengono sul campo sono troppo poco dotati finanziariamente, e troppo poco coordinati tra loro. Quali prospettive di sicurezza economica ci sono allora sul territorio francese? Gli strumenti di controllo degli investimenti esteri potrebbero dare i loro frutti se implementati: il caso Photonis ne è un esempio perfetto. Questa società con sede a Brive la Gaillarde, specializzata in sistemi di visione notturna – in particolare per uso militare – è stata oggetto di un’offerta di acquisto da parte del fondo di investimento Teledyne nel settembre 2020. Il Ministero delle Forze Armate si è poi opposto al suo veto alla vendita di questo azienda strategica. Alla fine, è stato il fondo europeo HLD ad acquisire questa azienda con 1.000 dipendenti.

In questo caso, lo stato è stato in grado di opporsi all’acquisizione di tecnologie sensibili da parte di investitori stranieri. Tuttavia, questo successo non deve essere un trionfo: mentre la natura strategica di Photonis non era in dubbio, viste le ovvie implicazioni militari delle tecnologie che stava sviluppando, lo stesso non vale per le altre azienda. La riflessione su cosa dovrebbe o non dovrebbe essere un asset strategico deve quindi essere avviata in modo sistematico e non occasionale : per esempio le fabbriche tessili di Gérardmer possono, ad esempio, essere considerate un asset strategico. La loro chiusura potrebbe causare un alto tasso di disoccupazione nel territorio, e pertanto devono essere messe in atto efficaci misure di tutela economica da parte delle autorità pubbliche per evitare acquisizioni che potrebbero mettere in pericolo l’attività, e per trovare, anticipando offerte di acquisto che mettano a rischio la sostenibilità dell’attività, acquirenti alternativi. Tuttavia, è improbabile che siano soggetti a un controllo sugli investimenti simile a quello applicato per Photonis.

Insomma Sostenere una politica di intelligence economica è un modo per la ripresa della Francia.E questo è una valutazione ampiamente condivisa non solo da Moinet,ma da Christian Harbulot e da Eric Denécé.
Il controllo degli investimenti esteri è quindi necessario, e nel caso Photonis ha dato risultati convincenti; non è però sufficiente definire un’adeguata politica di intelligence economica e tutelare le aziende in un contesto di guerra economica. Il disegno di legge portato da Marie-Noëlle Lienemann al Senato https://www.senat.fr/leg/ppl20-489.html
nella primavera del 2021 costituisce una buona risposta, oltre ai decreti Montebourghttps://www.legifrance.gouv.fr/loda/id/JORFTEXT000028933611/ e al necessario rafforzamento dell’arsenale giuridicohttps://www.economie.gouv.fr/extension-decret-2014-investissements-etrangers-entreprises-strategiques#
di fronte all’extraterritorialità del diritto americano.

https://www.iassp.org/2021/09/intelligence-strategica-geopolitica-e-guerra-economica-dagli-anni-50-ad-oggi/

Stati Uniti! Afghanistan una tappa verso il multipolarismo Con Gianfranco Campa

L’Afghanistan si sta rivelando un acceleratore della fase multipolare. Alla perdita di capacità egemonica degli Stati Uniti corrisponde l’emergere di numerosi attori con l’ambizione di perseguire proprie ambizioni e determinare aree di influenza dai molteplici e mutevoli punti di attrito e cooperazione cui corrisponde uno scontro politico interno alle formazioni socio-politiche della stessa asprezza e volatilità. Una moltiplicazione di focolai di conflitto e di continue mediazioni in grado di procrastinare l’evenienza di schieramenti contrapposti più stabili e delimitati e le conseguenti tentazioni di confronto risolutivo. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vm7qpb-stati-uniti-afghanistan-e-multipolarismo-con-gianfranco-campa.html

 

 

Stati Uniti! Dalla farsa alle comiche verso il dramma_ Con Gianfranco Campa

La tentazione di ridurre la storia a grandi trame o all’inconsapevolezza dei protagonisti è sempre ricorrente. La vicenda disatrosa della ritirata statunitense e della NATO dall’Afghanistan ci dice qualcosa di più. La volontà di piegare a qualche scadenza simbolica il corso degli eventi per trarne un qualche beneficio immediato in termini di immagine può ritorcersi pesantemente ed accelerare inesorabilmente la crisi e la resa dei conti.. E’ quanto è successo a Joe Biden; è l’epilogo di un lungo processo che a portato all’emersione di un ceto politico mediocre circondato da un gruppo dirigente accondiscendente a prescindere. Così la rovina politica di un uomo, la sua evidente decadenza fisica rischiano di portarsi dietro una intera classe dirigente e con esso il loro paese. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vlzriz-stati-uniti-biden-dalla-farsa-al-dramma-con-gianfranco-campa.html

 

 

GLI USA: CAOS E DISTRUZIONE DI PAESI SENZA COSTRUZIONE DI FUTURO, a cura di Luigi Longo

GLI USA: CAOS E DISTRUZIONE DI PAESI SENZA COSTRUZIONE DI FUTURO

a cura di Luigi Longo

 

Invito alla lettura di due articoli, il primo di John Pilger (noto e conosciuto giornalista di fama mondiale) apparso sul sito www.lantidiplomatico.it del 25/8/2021 con il titolo Il “grande gioco” di distruggere i Paesi; il secondo di Alberto Negri (giornalista esperto di politica internazionale e in particolare del mondo arabo) pubblicato sul sito www.ilmanifesto.it del 28/8/2021 con il titolo Il cortocircuito jihadista degli Stati uniti.

La loro lettura ha stimolato le seguenti riflessioni riguardanti il caos in Afghanistan.

La prima. Per dirla con Sun Tzu, “[…] Generalmente, il caos è il disordine esistente tra l’ultimo ordine di cui si è a conoscenza e l’ordine futuro ancora da realizzarsi. E’ una fase pericolosa e incerta, nella quale ogni elemento di solidità sembra sgretolarsi […] Sebbene il caos sia in genere una fase difficile e faticosa, è anche dinamica, una fase di grande creatività e sviluppo […]”. Per gli USA, è bene dirlo, non è una fase di grande creatività e sviluppo, di fatto stanno costruendo un ordine basato sulla distruzione, sia perchè non hanno la capacità interna ed esterna di rilanciare una nuova idea di sviluppo e di relazioni sociali, né di costruire un nuovo modello di relazioni internazionali, né, tantomeno, di pensare un nuovo futuro (per la conferma di ciò si legga l’intervento di Henry Kissinger apparso sul The Economist Newspaper Limited, London del 25-8-2021 e ripreso dal Corriere della sera del 27/8/2021), sia perchè hanno scelto, per la loro peculiare storia di potenza, la strada dell’egemonia sfruttatrice; per dirla con David Calleo << [il] sistema internazionale crolla non solo perché nuove potenze non controbilanciate e aggressive cercano di dominare i loro vicini, ma anche perché le potenze in declino, invece di adattarsi e cercare una conciliazione, tentano di cementare la loro vacillante predominanza trasformandola in una egemonia sfruttatrice >>.

La seconda. Il falso ritiro degli USA dall’Afghanistan, a mio avviso, va visto sia dal punto di vista della strategia sia dal punto di vista della tattica. La strategia iniziò, come ricorda John Pilger, con la creazione di un esercito formato da un gruppo di fanatici tribali e religiosi conosciuti come i Mujahedin con l’obiettivo di diffondere il fondamentalismo islamico in Asia centrale, per destabilizzare e distruggere l’Unione Sovietica (è da riscrivere criticamente la storia, alla luce dell’implosione dell’URSS del 1990-1991, della fase bipolare tra i due grandi poli contrapposti, del capitalismo e del comunismo); oggi, nella la fase multicentrica sempre più accelerata, l’obiettivo è duplice: boicottare il coordinamento, sempre più intenso, tra la Cina e la Russia e bloccare il grande progetto di respiro mondiale rappresentato dalle Vie della seta (sia quella terreste, sia quella marittima, con i loro corridoi economici). Lo strumento di queste mire diventa la Nato che, come ci ricorda il Generale di corpo d’Armata Vincenzo Santo (ex capo di Stato Maggiore di tutte le forze Nato in Afghanistan dal settembre 2014 al mesi di febbraio 2015), “gli americani usano la Nato come vogliono e quando vogliono” (è disarmante Sergio Romano quando sminuisce, nel suo intervento pubblicato su www.ilriformista.it del 27/8/2021, il ruolo della Nato e auspica per l’Unione Europea la Comunità Europea di Difesa).

La tattica, che iniziò con la creazione dei terroristi (un pullulare di gruppi terroristici manovrati e utilizzati alla bisogna in tutte le aree di crisi mondiale), è quella di usare, ancora oggi, questi gruppi (una grande invenzione come quella di esportare i diritti umani e la democrazia (sic) nel mondo) per creare caos [nel grande spazio asiatico, dove l’Afghanistan è un territorio strategico] distruggendo popoli, città, territori, risorse, in modo che dal disordine creato venga fuori il loro ordine. Come ricorda Alberto Negri “Quello che stiamo vedendo è l’anticipazione del caos che verrà in Afghanistan e anche in altre aree critiche del mondo”.

Riporto quanto scrissi nel 2015 (Che ci fa l’Islamic state (IS) in Libia?): L’uso strumentale dei movimenti islamisti funzionali alla strategia atlantica non terminò con il ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan. Il patrocinio fornito dall’Amministrazione Clinton al separatismo bosniaco ed a quello kosovaro, l’appoggio statunitense e britannico al terrorismo wahhabita nel Caucaso, il sostegno ufficiale di Brzezinski ai movimenti fondamentalisti armati in Asia centrale, gli interventi a favore delle bande sovversive in Libia ed in Siria sono gli episodi successivi di una guerra contro l’Eurasia in cui gli USA e i loro alleati si avvalgono della collaborazione islamista.

Per la terza riflessione ripropongo dal succitato scritto del 2015, quanto segue: si sa che gli USA non amano un ordine mondiale multipolare, ma amano un mondo a loro immagine e somiglianza, democraticamente e civilmente costruito, e che, a tal fine scatenano guerre e usano tutti i mezzi per difendere e ri-creare su basi storicamente date un nuovo ordine mondiale. La guerra è un prolungamento della politica con altri mezzi, << La guerra non è dunque solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi. >>, può cambiare modalità, strumenti, strategie, eserciti, tecniche, eccetera, ma resta l’ultima istanza nel definire la potenza mondiale egemone, la storia questo insegna.

Gli USA sono una potenza pericolosa da bloccare: stanno perdendo la capacità egemonica perché non hanno un nuovo modello di respiro mondiale da proporre e puntano solo alla distruzione per bloccare le potenze in ascesa.

 

 

 

IL “GRANDE GIOCO” DI DISTRUGGERE I PAESI

di John Pilger *

 

Mentre uno tsunami di lacrime di coccodrillo travolge i politici occidentali, la storia viene soppressa. La libertà che l’Afghanistan ha conquistato oltre una generazione fa è stata distrutta dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e i loro “alleati”.

Nel 1978, il movimento di liberazione nazionale guidato dal Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA) rovesciava la dittatura di Mohammad Daud, il cugino del re Zahir Shar. Fu una rivoluzione immensamente popolare che colse di sorpresa gli inglesi e gli americani.

I giornalisti stranieri a Kabul, riferiva il New York Times, rimasero sorpresi nello scoprire che “quasi tutti gli afghani che hanno intervistato hanno dichiarato [di essere] felici del colpo di stato“. Il Wall Street Journal riportava che “150.000 persone… hanno marciato per onorare la nuova bandiera… i partecipanti sono apparsi sinceramente entusiasti“.

Il Washington Post scriveva che “la lealtà afgana al governo non può essere messa in discussione“. Laico, modernista e, in misura considerevole, socialista, il governo presentò un programma di riforme visionarie che includeva la parità di diritti per le donne e le minoranze.

I prigionieri politici furono liberati e gli archivi della polizia pubblicamente bruciati.

Sotto la monarchia, l’aspettativa di vita era di 35 anni; un bambino su tre moriva durante l’infanzia. Circa il 90% della popolazione era analfabeta. Il nuovo governo introdusse l’assistenza medica gratuita. Fu lanciata una campagna di alfabetizzazione di massa.

Per le donne, i guadagni non avevano precedenti; alla fine degli anni ’80, metà degli studenti universitari erano donne, e le donne costituivano il 40% dei medici dell’Afghanistan, il 70% dei suoi insegnanti e il 30% dei suoi dipendenti pubblici.

I cambiamenti furono così radicali che rimangono vividi nei ricordi di coloro che ne beneficiarono.

Saira Noorani, una donna chirurgo fuggita dall’Afghanistan nel 2001, ha ricordato:

Ogni ragazza potrebbe andare al liceo e all’università. Potevamo andare dove volevamo e indossare quello che ci piaceva… Andavamo nei bar e al cinema per vedere gli ultimi film indiani il venerdì… tutto ha cominciato ad andare storto quando i mujahedin hanno iniziato a vincere… queste erano le persone che l’occidente ha supportato.”

Per gli Stati Uniti, il problema con il governo PDPA era che fosse sostenuto dall’Unione Sovietica.

Eppure non è mai stato il “fantoccio” deriso in Occidente, né il colpo di stato contro la monarchia è stato “sostenuto dai sovietici”, come sostenevano all’epoca la stampa americana e britannica.

Il segretario di Stato del presidente Jimmy Carter, Cyrus Vance, scrisse in seguito nelle sue memorie: “Non avevamo prove di alcuna complicità sovietica nel colpo di stato.”

Nella stessa amministrazione c’era Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale di Carter, un emigrato polacco e fanatico anticomunista ed estremista morale la cui duratura influenza sui presidenti americani è scaduta solo con la sua morte nel 2017.

Il 3 luglio 1979, all’insaputa del popolo americano e del Congresso, Carter autorizzò un programma di “azione segreta” da 500 milioni di dollari per rovesciare il primo governo laico e progressista dell’Afghanistan.

Questo è stato chiamato in codice dalla CIA Operation Cyclone.

I 500 milioni di dollari furono usati per corrompere e armare un gruppo di fanatici tribali e religiosi conosciuti come i Mujahedin. Nella sua storia semi-ufficiale, il giornalista del Washington Post Bob Woodward ha scritto che la CIA ha speso 70 milioni di dollari solo in tangenti. Descrive un incontro tra un agente della CIA noto come “Gary” e un signore della guerra chiamato Amniat-Melli: “Gary mise un mucchio di soldi sul tavolo: 500.000 dollari in file di banconote da 100 dollari. Credeva che sarebbe stato più impressionante dei soliti $ 200.000, il modo migliore per dire che siamo qui, siamo seri, ecco i soldi, sappiamo che ne avete bisogno … Gary avrebbe presto chiesto al quartier generale della CIA e avrebbe ricevuto $ 10 milioni in contanti.”

Reclutato da tutto il mondo musulmano, l’esercito segreto americano fu addestrato in campi in Pakistan gestiti dall’intelligence pakistana, dalla CIA e dall’MI6 britannico.

Altri sono stati reclutati in un college islamico a Brooklyn, New York, vicino a quelle Torri Gemelle che verranno poi abbattute. Una delle reclute era un ingegnere saudita di nome Osama Bin Laden.

L’obiettivo era diffondere il fondamentalismo islamico in Asia centrale e destabilizzare e infine distruggere l’Unione Sovietica.

Nell’agosto 1979, l’ambasciata degli Stati Uniti a Kabul riferì che “i maggiori interessi degli Stati Uniti sarebbero stati esauditi dalla scomparsa del governo del PDPA, nonostante qualunque battuta d’arresto che avrebbe comportato per le future riforme sociali ed economiche in Afghanistan“.

Rileggete le parole sopra che ho messo in corsivo. Non capita spesso che un tale intento cinico sia espresso in modo così chiaro. Gli Stati Uniti dicevano che un governo afghano genuinamente progressista ed i diritti delle donne afghane potevano andare all’inferno.

Sei mesi dopo, i sovietici fecero la loro mossa fatale in Afghanistan in risposta alla minaccia jihadista creata dagli americani alle loro porte.

Armati con missili Stinger forniti dalla CIA e celebrati come “combattenti per la libertà” da Margaret Thatcher, i mujahedin alla fine cacciarono l’Armata Rossa dall’Afghanistan.

Definendosi ora l'”Alleanza del Nord”, i Mujahedin erano dominati da signori della guerra che controllavano il commercio di eroina e terrorizzavano le donne rurali.

I talebani erano una fazione ultra-puritana, i cui mullah vestivano di nero e punivano banditismo, stupri e omicidi ma bandivano le donne dalla vita pubblica.

Negli anni ’80, ho preso contatto con l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell’Afghanistan, conosciuta come RAWA, che aveva cercato di allertare il mondo sulla sofferenza delle donne afgane. Durante il periodo dei talebani, nascondevano le telecamere sotto il burqa per filmare le prove delle atrocità, e facevano lo stesso per esporre la brutalità dei mujahedin sostenuti dall’occidente. ‘Marina’ di RAWA mi ha detto:”Abbiamo portato la videocassetta a tutti i principali gruppi di media, ma non volevano sapere…

Nel 1996, il governo illuminato del PDPA cadde. Il presidente, Mohammad Najibullah, era andato alle Nazioni Unite per chiedere aiuto. Al suo ritorno, fu impiccato a un lampione.

“Confesso che [i paesi] sono pezzi su una scacchiera”, disse Lord Curzon nel 1898, “su cui si sta svolgendo una grande partita per il dominio del mondo”.

Il viceré dell’India si riferiva in particolare all’Afghanistan. Un secolo dopo, il primo ministro Tony Blair ha usato parole leggermente diverse.

Questo è un momento da cogliere“, dichiarò dopo l’11 settembre. ”Il caleidoscopio è stato scosso. I pezzi sono in movimento. Presto si sistemeranno di nuovo. Prima che lo facciano, riordiniamo questo mondo intorno a noi”.

Sull’Afghanistan aggiunse: “Non ce ne andremo [ma assicureremo] una via d’uscita dalla povertà che è la sua miserabile esistenza“.

Blair ha fatto eco al suo mentore, il presidente George W. Bush, che ha parlato alle vittime delle sue bombe dallo Studio Ovale: “Il popolo oppresso dell’Afghanistan conoscerà la generosità dell’America. Mentre colpiamo obiettivi militari, lasceremo anche cibo, medicine e rifornimenti agli affamati e ai sofferenti…

Quasi ogni parola era falsa. Le loro dichiarazioni di preoccupazione erano crudeli illusioni per una ferocia imperiale che “noi” in Occidente raramente riconosciamo come tale.

Nel 2001, l’Afghanistan è stato colpito e dipendeva dai convogli di emergenza dal Pakistan.

Come ha riferito il giornalista Jonathan Steele, l’invasione ha causato indirettamente la morte di circa 20.000 persone poiché le forniture alle vittime della siccità sono state interrotte e le persone sono fuggite dalle loro case.

Circa 18 mesi dopo, ho trovato bombe a grappolo americane inesplose tra le macerie di Kabul, spesso scambiate per pacchi di soccorso gialli lanciati dall’aria. Hanno fatto esplodere le membra dei bambini affamati e in cerca di cibo.

Nel villaggio di Bibi Maru, ho visto una donna di nome Orifa inginocchiarsi presso le tombe di suo marito, Gul Ahmed, un tessitore di tappeti, e di altri sette membri della sua famiglia, inclusi sei bambini e due bambini che sono stati uccisi nella porta accanto.

Un aereo americano F-16 era uscito da un cielo azzurro e aveva sganciato una bomba Mk82 da 500 libbre sulla casa di fango, pietra e paglia di Orifa. Orifa era assente in quel momento. Quando tornò, raccolse le parti del corpo.

Mesi dopo, un gruppo di americani arrivò da Kabul e le diede una busta con quindici biglietti: un totale di 15 dollari. “Due dollari per ciascuno dei miei familiari uccisi“, ha raccontato.

L’invasione dell’Afghanistan è stata una frode.

Sulla scia dell’11 settembre, i talebani hanno cercato di prendere le distanze da Osama Bin Laden. Erano, per molti aspetti, un cliente americano con il quale l’amministrazione di Bill Clinton aveva fatto una serie di accordi segreti per consentire la costruzione di un gasdotto da 3 miliardi di dollari da parte di un consorzio di compagnie petrolifere statunitensi.

In massima segretezza, i leader talebani erano stati invitati negli Stati Uniti e intrattenuti dall’amministratore delegato della compagnia Unocal nella sua villa in Texas e dalla CIA nel suo quartier generale in Virginia.

Uno degli affaristi fu Dick Cheney, in seguito vicepresidente di George W. Bush.

Nel 2010, ero a Washington e ho organizzato un colloquio con la mente dell’era moderna di sofferenza dell’Afghanistan, Zbigniew Brzezinski. Gli ho citato la sua autobiografia in cui ammetteva che il suo grande piano per attirare i sovietici in Afghanistan aveva creato “alcuni musulmani agitati“.

Hai qualche rimpianto?” Ho chiesto.

Rimpianti! Rimpianti! Quali rimpianti?

Quando guardiamo le attuali scene di panico all’aeroporto di Kabul e ascoltiamo giornalisti e generali in lontani studi televisivi che lamentano il ritiro della “nostra protezione“, non è il momento di prestare attenzione alla verità del passato in modo che tutta questa sofferenza non accada mai? ancora?

 

*Uno dei più grandi giornalisti viventi. Il film di John Pilger del 2003, “Breaking the Silence”, è disponibile per la visione su

http://johnpilger.com/videos/breaking-the-silence-truth-and-lies-in-the-war-on-terror

 

 

 

 

 

 

 

 

IL CORTOCIRCUITO JIHADISTA DEGLI STATI UNITI

di Alberto Negri

 

Scenari. Non governando il caos da loro stessi creato, gli americani hanno provato a usarlo in Iraq, Libia e Siria. Siamo all’anticipazione di un nuovo disordine. E non solo afghano
Ci sono jihadisti utili e altri no. I jihadisti è meglio manovrarli che combatterli, hanno pensato gli americani dopo i fallimenti in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria. Con i talebani ci si può anche mettere d’accordo: quindi nel 2018 hanno chiesto ai pakistani, sponsor dei talebani, di scarcerare il Mullah Baradar e sono cominciate le danze di Doha. Uno spettacolo che piaceva a tutti perché nessuno durante questo tempo ha detto una parola contraria.
Certo bisognava vendere ai carnefici di prima gli afghani che avevano creduto nell’Occidente ma il pelo sullo stomaco alla Casa Bianca non manca, sia con Trump che con Biden. Del resto Trump nell’ottobre 2019 aveva venduto i curdi, valorosi alleati degli Usa contro l’Isis, alla Turchia di Erdogan: che male c’è a farlo un’altra volta? In fondo sia la Nato che gli europei digeriscono tutto.
È UNA VECCHIA STORIA. È stato usando gli estremisti islamici che gli Usa avevano iniziato la loro avventura da queste parti: foraggiando negli anni Ottanta, insieme a Pakistan e Arabia Saudita, i mujaheddin afghani contro l’Urss. Molti erano jihadisti ma allora in Occidente li chiamavamo «combattenti per la libertà». Era stato un successo: l’Urss perse la guerra e nell’89 si ritirò lasciando un governo che comunque durò altri tre anni.
Poi gli americani ci hanno provato anche in Siria, con la complicità della Turchia di Erdogan, per abbattere Bashar Assad: ma lì sono stati fermati nel 2015 dalla risorgente Russia di Putin.
Era servito, al momento, anche eliminare nel 2011 il regime di Gheddafi. Guerriglieri libici e jihadisti reduci da Iraq e Afghanistan venivano trasportati dalla Libia alla Turchia per passare in territorio siriano insieme a tunisini, ceceni, marocchini e via discorrendo. Il segretario di stato Hillary Clinton, che allora aveva in squadra Toni Blinken, attuale capo della diplomazia Usa, avevano pensato di fare un’alleanza di comodo anti-Assad con i jihadisti libici mandando l’ambasciatore Chris Stevens a Bengasi: venne fatto fuori dai salafiti di Ansar Al Sharia, era l’11 settembre 2012. E la Clinton ci rimise la Casa Bianca.
NON GOVERNANDO il caos che loro stessi avevano creato, gli americani provarono a usarlo contro i rivali. In Iraq gli Usa si erano ritirati con Obama nel 2011, lasciando il Paese al suo destino dopo averlo invaso nel 2003 con la bugia delle armi di distruzione di massa: il Paese precipitò nelle mani di Al Qaeda e poi dell’Isis.
Questi jihadisti erano utili per impantanare l’Iran, sponsor del governo locale: nel 2014 pasdaran e milizie sciite dovettero intervenire per fermare il Califfato alle porte di Baghdad. Bloccare la Mezzaluna sciita e metterla sottopressione era il vero obiettivo geopolitico di Washington. A missione compiuta gli americani mollarono i curdi al massacro dei turchi, fecero fuori Al Baghdadi e il 3 gennaio 2020 uccisero a Baghdad con un drone il generale iraniano Qassem Soleimani.
ORA GLI USA SE NE VANNO, per la seconda volta, anche dall’Iraq lasciando il posto alla Nato con un contingente al comando dell’Italia. E dopo la disfatta di Kabul dobbiamo incrociare le dita, visto che di solito lasciano dietro terra bruciata.
GLI ACCORDI DI DOHA dovevano riconsegnare l’Afghanistan ai talebani, complici di Al Qaeda nell’11 settembre 2001, ma anche eredi dei prediletti mujaheddin anti-sovietici. Insomma una bella operazione per sfilarsi e riportare «ordine» dopo avere preso atto del fallimento di esportare la democrazia liberale.
Nel momento in cui si sono messi a negoziare in Qatar, a Washington erano consapevoli che avrebbero smontato alla «bolla» filo-occidentale in un Afghanistan già controllato al 50% dai talebani. Bastava una ventata e tutto sarebbe crollato in mano loro. Il 2 luglio gli Usa chiudono di notte la base di Bagram, senza avvertire l’esercito afghano, tagliando luce e acqua: Kabul era già perduta allora. Il messaggio è stato devastante sul morale dei soldati afghani che si sono anche trovati senza copertura aerea perché avevano ritirato tecnici e contractors. Sono quindi stati calcolati male i tempi e gli Usa e la Nato sono finiti nel caos dell’aereoporto e in un’evacuazione più caotica di quella di Saigon 1975, dove per altro non c’erano attentatori suicidi da affrontare.
L’ISIS-KHORASSAN non spunta dal nulla. Fondato nel 2015 ha portato una settantina di attentati e l’8 maggio ha fatto una strage di 55 studenti a Kabul. Per combatterlo si erano mobilitati americani, esercito afghano, talebani e persino Al Qaeda. Con l‘attentato di Kabul l’Isis-K ha colto 4 obiettivi: 1) colpire gli Usa 2) minare la credibilità dell’”ordine” talebano 3) colpire la rivale Al Qaeda 4) lanciare un messaggio alla Jihad globale dall’Asia al Nordafrica, dal Medio Oriente al Sahel. Il ritiro americano può provocare un effetto domino sulla sicurezza internazionale.
Quello che stiamo vedendo è l’anticipazione del caos che verrà in Afghanistan e anche in altre aree critiche del mondo. Adesso accorciare i tempi e fuggire lascerebbe bloccati in territorio ostile, secondo la maggior parte delle stime, centinaia di cittadini statunitensi e migliaia di collaboratori afgani. Tutti candidati a diventare ostaggi. Ma restare più a lungo sarebbe un invito a ulteriori attacchi terroristici all’aeroporto da parte dell’Isis-K e, dopo il 31 agosto, da parte anche degli stessi talebani. Il cortocircuito jihadista, innescato 40 anni fa dagli Usa, fulmina e incenerisce i suoi maldestri manovratori.

 

 

Stati Uniti! In Afghanistan strategia e tattica stridono_con Gianfranco Campa

La gran parte vede la ritirata statunitense come un disastro epocale tale da compromettere irrimediabilmente l’egemonia americana; altri, la minoranza, come una mossa tattica tesa ad incastrare in quel pantano le forze emergenti nello scenario geopolitico. Quello che sta avvenendo è il combinato disposto tra le spinte esterne nello scenario geopolitico e i contrasti interni ai centri decisionali americani che ne determinano la direzione. Le carte in mano agli americani sono tante; la qualità dei giocatori sul campo lascia sempre più a desiderare; non è ancora in vista un allenatore in grado di amalgamare una realtà così complessa e disarmonica come quella statunitense. Non sono i soli ovviamente ad avere questo tipo di problemi; sono quelli che li manifestano con una particolare gravità ed in una fase discendente della loro storia. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vlub8q-stati-uniti-e-afghanistan-con-gianfranco-campa.html

Cosa vogliono veramente i talebani?_di Cheryl Benard

L’articolo qui tradotto è particolarmente significativo. E’ una prima metabolizzazione della svolta americana. Le tesi sostenute sono certamente condizionate dagli interessi, dai punti di vista acquisiti e dalle inerzie della pletora di apparati di organizzazioni umanitarie e culturali collaterali agli strumenti più coercitivi e diretti in azione nelle dinamiche geopolitiche. Poggiano tuttavia su di un importante fondamento di realtà che ne sostiene l’autorevolezza:

  • i tempi e gli strumenti di sedimentazione di un bagaglio culturale e di visione del mondo, del “mondo vitale” direbbe Habermas, necessari a garantire solidità ed autorevolezza ad una condizione egemonica sono diversi da quelli propri dell’azione politica diretta dei centri decisionali in un particolare contesto. Sono importanti per garantire solidità ed autorevolezza agli imperi; non sono in grado di impedire contrasti aspri e distruttivi nelle dinamiche politiche e geopolitiche, come insegna la storia europea. Quelli dettati dai centri americani iniziano a stridere visibilmente in modo preoccupante e a confliggere apertamente;
  • la realtà afghana non si può ridurre allo stereotipo contrabbandato in questi anni nella narrazione occidentale. In essa vi è una componente più laica e modernizzatrice sedimentata negli anni della monarchia e soprattutto dei regimi giacobini sostenuti dall’Unione Sovietica, ma che godevano di un certo radicamento andatosi via via esaurendo politicamente, grazie anche alle faide interne, senza però estinguersi.
  • Le componenti più tradizionaliste non sono rappresentate solo dai talebani, ma anche in quelle componenti claniche e tribali all’occasione presentati opportunisticamente come paladini della libertà. I talebani, se proprio si vuole, rappresentano il tentativo di costruzione nazionale di queste istanze, distinguendosi in questo dall’ISIS nelle sue varie sembianze.
  • è in questo contesto che si inseriscono in maniere determinante le dinamiche geopolitiche e l’azione di tre attori globali, Stati Uniti, Cina e Russia, di almeno quattro attori regionali, Iran, Turchia, Pakistan e India e numerosi locali. L’intervento militare statunitense, paradossalmente e probabilmente al di là delle intenzioni, ha favorito di fatto questa realtà di competizione e cooperazione ad alto rischio conflittuale. In questa fase, i centri decisionali prevalenti, hanno semplicemente scelto di scaricare assieme ai benefici almeno i costi e i rischi di questa competizione sui nuovi attori cercando di riservarsi comunque il ruolo di arbitro-giocatore. Le modalità di svolgimento di questa operazione comporterà un prezzo pesante in termini di immagine, di autorevolezza e credibilità degli Stati Uniti, grazie anche alla qualità al ribasso della sua classe dirigente e all’asprezza dello scontro politico interno. Rimangono per altro ancora tante carte importanti da giocare su più tavoli, compresa, probabilmente, la presenza nella compagine provvisoria talebana di numerosi ministri ospiti delle carceri occidentali e sui quali realisticamente sarà stata compiuta una qualche efficace operazione di addomesticamento. Nel repertorio sono compresi ovviamente lasciti generosi ai talebani ed avvertimenti (ISIS). Una condizione della quale i talebani sembrano consapevoli e della quale vogliono essere parte attiva. Parte insulsa, destinata a pagare un caro prezzo, ancora una volta gli europei. Non è detto per altro che quest’ultimo sia un semplice corollario involontario delle scelte americane.

Buona lettura_Giuseppe Germinario

Cosa vogliono veramente i talebani?

Dobbiamo ricordare cosa stavamo cercando di ottenere in Afghanistan: tutte le persone che abbiamo istruito e tutte le cose che abbiamo fatto per raggiungere tale obiettivo, e non portare il capitale umano risultante, i valori incorporati e le opportunità economiche fuori da quel paese con il carico aereo, su ali di paura.

Prevedo che tra cinque o dieci anni saranno condotti studi e scritti libri sulla Great American Afghanistan Hysteria del 2021.

Come è stato possibile, ci chiederemo in retrospettiva, che una superpotenza abbia messo a freno i fatti, la ragione, il proprio interesse nazionale, la ricerca della pace, le considerazioni geopolitiche e il semplice buon senso? E invece impegnato in azioni sconsiderate e perfettamente controproducenti mentre sguazzava nel panico e nelle voci.

Mentre scrivo, leggo che “i talebani danno da mangiare ai cani i corpi delle donne” e guardo un video di una donna che si riprende mentre scappa dal nulla in una zona deserta mentre urla “Le donne afghane stanno correndo per salvarsi la vita”. Sto leggendo che “i talebani stanno sparando tra la folla.” L’ex presidente George W. Bush è in TV a parlare di stupro. Il generale David Petraeus, che non è riuscito a intaccare i talebani quando era al comando, è sul Wall Street Journal che chiede all’esercito americano di rientrare. La ragione è fuggita e i fatti non contano.

Ma proviamo. Proviamo a guardare alcuni fatti.

In passato, per la cronaca, sono stato un deciso oppositore dei talebani. E io non sono il loro fan club ora. Mi riservo il giudizio, ma il giudizio richiede fatti, e finora i fatti supportano la loro affermazione che sono cambiati. Ecco alcuni fatti, elencati per argomento di interesse. Tutto ciò l’ho verificato personalmente parlando con le persone colpite o da materiale originale.
minoranze religiose

I talebani hanno affermato che chiunque di una religione diversa potrà praticarlo indisturbato. Che cosa hanno fatto? Secondo i leader sciiti, gli individui locali sciiti e il vitigno sciita internazionale, di fatto hanno reso possibile la celebrazione sicura della principale festa religiosa sciita dell’Ashura , a Mazar-i-Sharif, con la partecipazione delle donne, per la prima volta dopo molti anni. In passato il governo di Ghani non è stato in grado di garantire protezione agli sciiti che sono stati regolarmente attaccati , con vittime, da estremisti sunniti o dall’ISIS.

Allo stesso modo, la minoranza indù è stata visitata e rassicurata da una delegazione talebana che sarà al sicuro e dovrebbe restare.

Donne

A questo proposito, abbiamo avuto una serie di preoccupazioni principali: il loro diritto all’istruzione, il loro diritto di essere in pubblico e di partecipare alla vita pubblica, il loro diritto al lavoro e la loro protezione contro stupri, matrimoni forzati e abusi. I talebani sono registrati su alcuni di questi con dichiarazioni, su altri con le loro azioni finora ad ora compiute, e su altri ancora, è troppo presto per dirlo. In materia di istruzione, si sono rivolti in modo specifico alle studentesse e le hanno incoraggiate a proseguire gli studi. Sul lavoro, hanno inviato delegazioni negli ospedali e hanno incontrato medici e personale femminile, lodandoli per il loro lavoro e chiedendo loro di continuare. Nella vita pubblica, non hanno interferito con le giornaliste, comprese le conduttrici di telegiornali, che sono in onda e riferiscono e intervistano Taleb. Sul matrimonio forzato e lo stupro, molte di noi hanno contattato i gruppi di donne nel paese, e queste storie non hanno fondamento. Un mio amico è associato a un’organizzazione che gestisce rifugi proprio per queste vittime in tutto il paese: non ne hanno visto nessuno. Il matrimonio forzato è fortemente proibito dal Corano, così come lo stupro. Il comportamento scorretto sessuale è stato rigorosamente sanzionato dai talebani in passato e non c’è motivo di credere che le loro opinioni siano cambiate. Sarei ancora preoccupato per le loro opinioni sull’adulterio, che in precedenza punivano come prescrive il Corano, cioè con la fustigazione nel caso dei non sposati e la morte nel caso dei sposati. Non è ancora successo questa volta, ma potrebbe. Questo, insieme a tutte le altre cose che speriamo di evitare, è molto più probabile che accada se perdiamo la nostra influenza su di loro o se concludono che non importa se si comportano bene, perché li condanneremo e faremo pace storie su di loro comunque.

Eredità culturale

Paura e panico

Tutti sul campo in Afghanistan hanno buone ragioni per essere molto nervosi. I talebani si sono impegnati in quella che la stampa definisce un'”offensiva di fascino” e hanno rilasciato molteplici dichiarazioni rassicuranti. Metto queste ultime perché sono solo parole, ma le includo perché finora i talebani le hanno onorate. Hanno chiesto a tutti i burocrati del governo di rimanere al lavoro e hanno promesso che non ci sarebbero state rappresaglie contro chiunque avesse sostenuto il precedente governo o lavorato per il regime di Ghani o per gli americani. Non ci sono notizie credibili di rappresaglie. Hanno fatto appello alla folla di giovani all’aeroporto perché tornassero a casa e restassero e aiutassero a costruire il loro paese, invece di “implorare di essere caricati sugli aerei americani come pecore” e spingersi verso terre straniere. Hanno istituito un numero e una procedura di denuncia, che trasmettono per le strade e nei mercati tramite altoparlanti, incoraggiando le persone a segnalare qualsiasi comportamento scorretto da parte dei taleb per ricevere assistenza. Questo è progettato per affrontare due probabili problemi: singoli taleb indisciplinati che si comportano male e impostori criminali che coglieranno le opportunità insite nel caos. Conosco almeno un’organizzazione di donne che ha chiamato con successo la “linea diretta” dei talebani quando qualcuno che affermava di essere talebano ha richiesto il loro veicolo. È vero che molte persone riferiscono che le loro auto sono state sequestrate. I talebani dicono che non sono loro, perché hanno un sacco di auto – e SUV e carri armati del resto – dell’esercito afghano in fuga per gentile concessione dei contribuenti statunitensi.

Facciamo un passo indietro e valutiamo. Avevamo messo tutte le nostre carte sul governo afghano, le cui elezioni abbiamo finanziato, curato e organizzato. Abbiamo costruito un costoso esercito e aeronautica che si è voltato ed è fuggito alla prima sfida. Abbiamo formato, istruito e finanziato una rete di attivisti e “leader” della società civile che si sono rivelati, come il loro esercito, dei corridori, senza nemmeno tentare di prendere posizione per i loro valori e presunte missioni, ma correndo invece verso l’aeroporto.

Quando la consapevolezza che il nostro esperimento afghano non avrebbe avuto successo ha finalmente cominciato ad affondare, sotto l’amministrazione Trump, abbiamo preso la decisione di ritirare le nostre truppe da questa guerra senza fine e infruttuosa. Abbiamo trovato un accordo con i talebani: ci saremmo ritirati, non ci avrebbero interferito o attaccato, e avrebbero avviato colloqui di pace con il governo afghano per progettare un nuovo governo di transizione in cui sarebbero stati inclusi, con elezioni per un governo permanente da tenere lungo la strada. Per due anni hanno onorato la loro parte dell’accordo. Non un solo americano è stato ucciso, nemmeno una volta che siamo stati ridimensionati e vulnerabili. Hanno stilato una serie di proposte tecniche come spunti di confronto con i loro omologhi di governo, dai quali nulla ha avuto in cambio. Ci hanno consultato e ascoltato le nostre “linee rosse” riguardo ai diritti umani, ai diritti delle donne e ad altre questioni di interesse per la comunità internazionale. Erano completamente preparati a negoziare.

Chi non si è presentato? Il governo di Ghani. Ashraf Ghani credeva che se fosse rimasto intransigente, gli Stati Uniti avrebbero invertito la rotta e avrebbero accettato di continuare a combattere. Quando quel magico risultato non si è materializzato, ha riposto le sue speranze nelle elezioni statunitensi, sicuro che Joe Biden avrebbe annullato ciò che Donald Trump aveva iniziato e avrebbe rimandato indietro le truppe. di come non avesse bisogno degli americani perché l’esercito afghano avrebbe fatto poca attenzione ai talebani. Alla fine, mentre i talebani hanno invaso gran parte del suo paese incontrando una resistenza zero da parte di detto esercito, ha accettato un accordo. Si sarebbero astenuti dall’entrare a Kabul, ci sarebbe stato un cessate il fuoco di due settimane, durante quel periodo avrebbero negoziato un accordo di condivisione del potere con il governo – anche se non sarebbe più stato l’accordo 50/50 che Kabul avrebbe potuto ottenere due anni prima – e in cambio Ghani si sarebbe impegnato a dimettersi dal suo incarico alla fine di quel periodo . Ghani ha acconsentito. Poi di nascosto ha fatto le valigie ed è fuggito nella notte, facendo naufragare l’ultima possibilità di Kabul e del suo governo per una transizione ordinata.

Con il governo in tal modo piegato e con poche alternative, gli Stati Uniti hanno tollerato che i talebani prendessero il controllo della città.

E poi, per nessuna ragione che si possa identificare, nulla essendo accaduto per metterla in moto, l’amministrazione Biden ha intrapreso una serie di decisioni fatalmente sbagliate. Avevano già chiuso prematuramente Bagram , una delle basi più sicure al mondo, una risorsa che sarebbe stata perfetta per l’evacuazione e le operazioni di emergenza in corso dell’ambasciata, e la struttura che avrebbe dovuto chiudere per ultima. Ora hanno annunciato che stavano riducendo, e poco dopo che stavano chiudendo, l’ambasciata degli Stati Uniti. Annunciarono che avrebbero inviato 3.000, poi 4.000 soldati per aiutare questa evacuazione. Hanno annunciato due programmi di visto, il primo per le persone che avevano lavorato per noi come traduttori, presto esteso a chiunque avesse lavorato per l’ambasciata o un programma governativo o militare, poi un secondo per le persone associate ai media statunitensi o alle organizzazioni non governative (ONG). Per quest’ultimo è stata messa in atto una serie di regole completamente assurde: le persone non potevano fare domanda dall’interno dell’Afghanistan, non erano ammissibili fino a quando non avevano raggiunto un paese terzo, in altre parole, avevano bisogno di andare in Pakistan o Tagikistan o Uzbekistan , cosa già impossibile a quel punto poiché i talebani controllavano i confini. E solo per aggiungere un altro livello di impossibilità, il sito web dell’ambasciata ha avvertito che tali domande richiederebbero molto tempo per essere elaborate e non aspettarsi assistenza nel frattempo.

Senza un percorso ragionevole aperto ma un programma di visti che suggerisce che credevamo che queste persone fossero altamente vulnerabili, non c’è da stupirsi che siano andate nel panico. Nel frattempo, gli elicotteri statunitensi ronzavano avanti e indietro nel cielo, l’ ambasciata è stata sgomberata e la bandiera ammainata, altre truppe stavano arrivando all’aeroporto per spingere le persone fuori e il messaggio era chiaro: gli americani si aspettano un bagno di sangue. Social media hanno fatto la loro parte. Twitter e TikTok hanno detto a tutti che c’era semplicemente bisogno di raggiungere l’aeroporto, non erano necessari documenti o carte d’identità, e gli americani ti avrebbero portato a Parigi, in Canada o negli Stati Uniti. Google ha deciso di bloccare qualsiasi messaggio talebano o qualsiasi cosa favorevole ai talebani, comprese le loro assicurazioni che non stavano pianificando una punizione, che i dipendenti pubblici potevano presentarsi tranquillamente al lavoro e che era un nuovo giorno e tutto era perdonato. Persino gli ordini ai loro comandanti che ordinavano loro di non molestare nessuno e di non requisire proprietà delle persone, che molti uffici e ONG erano pronti a svolgere per qualsiasi talebano che si fosse presentato alla loro porta, sono stati rimossi.

Abbiamo visto tutti i risultati: una folla di giovani che si è scatenata sull’asfalto e alla fine ha raggiunto un tale culmine di follia da aggrapparsi agli aerei in partenza e, in alcuni casi, resistere così a lungo che quando alla fine sono caduti, sono morti. È stata una visione scioccante, così come le immagini di una donna che consegna il suo bambino a un soldato su barriere di filo spinato. Le cattive immagini sono cattive per la politica interna e la politica di parte è negativa per le decisioni intelligenti sul nostro comune interesse nazionale. I repubblicani hanno dimenticato che è stata la loro amministrazione a dare il via al ritiro e hanno colto l’occasione per sbattere la realtà contro i democratici. I Democratici hanno dimenticato che sono contro guerre senza fine e che intervengono in altre culture e hanno deciso che ogni singolo afghano deve essere portato in America. L’amministrazione Biden, abituata all’adulazione dei giornalisti e agitata dalla cattiva stampa, ordinò subito l’evacuazione di massa. Dei primi 8.500 volati senza controlli o documenti, solo 250 si sono rivelati qualificati. Gli altri si erano semplicemente precipitati nel ponte aereo. Quanto tempo pensi che ci vorrà prima che l’ISIS colga la porta aperta in America, se non l’hanno già fatto? I giornalisti che non si prendono nemmeno la briga di verificare i fatti, che sono sotto pressione per produrre reportage drammatici e foto strazianti, dovrebbero fare la politica estera americana? Le immagini e il panico dovrebbero dettare la nostra condotta?

A Kabul, i talebani stavano visitando le ambasciate straniere, offrendo di mettere delle guardie e chiedendo loro di restare. I francesi rimasero. I russi sono rimasti. I cinesi sono rimasti. Perché non l’abbiamo fatto? O come minimo, visto che i talebani non hanno un piano evidente per attaccarci, e non l’hanno fatto per due anni quando avrebbero potuto, perché non abbiamo rivalutato la nostra decisione e siamo tornati indietro? Nessuna ambasciata significa nessun trattamento per i rifugiati, il che significa nessun modo ordinato per le persone di cercare di uscire se sono così qualificate, il che significa caos in aeroporto.

I talebani devono trovare tutto questo così confuso. Già storditi dal loro stesso successo, e quasi certamente non pronti per questo, hanno cercato di rispettare le nostre aspettative ed evitare le cose che prima avevano indignato tutti, ma noi non glielo permettiamo. Non possiamo aspettare e vedere, almeno brevemente? So chi non sta aspettando: Cina, Iran e Russia. I diplomatici russi a Kabul, in conversazioni rilassate con i giornalisti, stanno già esprimendo ottimismo nel futuro del Paese e la fiducia che i talebani non stiano pianificando azioni punitive contro gli ex avversari. Mentre allontaniamo i talebani, altri sono più che felici di abbracciarli. E non chiederanno cose come i diritti umani o la libertà di stampa: se ci interessa qualcosa, non possiamo abbandonare il campo. La Cina ha già annunciato la costruzione di una ferrovia, che per pura coincidenza raggiunge le aree con maggiori giacimenti minerari. Stiamo per perdere il nostro enorme investimento; vedere i nostri avversari allontanarsi con i guadagni; far fallire la possibilità dell’Afghanistan di modernizzare e democratizzare, forse più lentamente di quanto avremmo voluto, ma invece in modo più organico e sostenibile; e perdere una regione geostrategicamente cruciale. I futuri analisti si chiederanno perché. La risposta: per pura stupidità.

Matteo 7 ci dice: dalle loro azioni li riconoscerete. Sembriamo sicuri che i talebani non siano cambiati e non possano e non lo faranno. Non dovremmo aspettare le loro azioni? Incoraggiamoli a formare un governo moderato, responsabile e inclusivo. Comprendiamo che stiamo rendendo impossibile un Afghanistan moderato e progressista rimuovendo, potenzialmente per un milione di persone, tutti i loro cittadini istruiti , i loro anglofoni, i loro giovani uomini forti, le loro giovani donne “svegliate” e le loro minoranze. Sappiamo che un giorno, guardando indietro, vedremo che abbiamo consentito non solo una fuga di cervelli ma anche un progetto di pulizia etnica, portando via gli indù e i sikh che storicamente hanno fatto parte di quel paese, cambiando definitivamente il volto di Afghanistan averso il suo impoverimento.

Dobbiamo congelare le evacuazioni finché non avremo un processo ordinato in atto. Questo potrebbe cambiare, ma attualmente non c’è assolutamente alcun motivo per la fretta e ogni motivo per la cautela. Dobbiamo riaprire l’ambasciata e rimanere in stretto contatto con i talebani non solo per monitorarli, ma anche per cercare di modellare il loro comportamento, a cui, finora, sembrano disponibili. Dobbiamo ricordare ciò che stavamo cercando di ottenere in Afghanistan: tutte le persone che abbiamo istruito e tutte le cose che abbiamo fatto per raggiungere tale obiettivo, e non portare il capitale umano risultante, i valori incorporati e le opportunità economiche fuori da quel paese con il carico aereo, su ali di paura.

La dott.ssa Cheryl Benard è stata direttrice del programma nella divisione di ricerca sulla sicurezza nazionale della RAND. È l’autrice di  Veiled Courage, Inside the Afghan Women’s Resistance; Afghanistan: Stato e società Democrazia e Islam nella Costituzione dell’Afghanistan ; e  Garantire la salute, lezioni dalle missioni di costruzione della nazione . Attualmente è il Direttore di ARCH International, un’organizzazione che protegge i siti del patrimonio culturale nelle zone di crisi.

https://nationalinterest.org/feature/what-do-taliban-really-want-192306?page=0%2C1

Afghanistan, un groviglio che si dipana?_con Gianandrea Gaiani

Da circa quarant’anni l’Afghanistan contemporaneo sta confermando la fama di un groviglio talmente complesso da impedire a qualsiasi potenza, per quanto poderosa, di uscire indenne dalle proprie scorribande. Gli Stati Uniti non fanno eccezione; hanno addirittura raggiunto una tale grossolanità nella loro azione da trasformare in farsa una evidente sconfitta politica. Hanno comunque ancora parecchie carte da giocare o da rispolverare.  Ha evidenziato in contrasto la sagacia e la maturità politica del movimento talebano il quale sembra aver imparato parecchio da questi venti anni di occupazione. Dalla sua la possibilità di giocare con numerosi interlocutori geopolitici, praticamente ininfluenti appena vent’anni fa. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vlnt8z-il-groviglio-afgano-visto-da-gianandrea-gaiani.html

 

 

Illusioni pericolose, di Dimitri K. Simes

Confrontiamo i termini del dibattito in corso negli Stati Uniti e in Italia. Chi sono i protagonisti, chi le comparse?_Giuseppe Germinario

Illusioni pericolose

I responsabili politici negli Stati Uniti e in Europa hanno adottato la posizione che la loro missione è promuovere la democrazia in tutto il mondo, sostenendo regolarmente che se falliscono, i governi autoritari sfrutteranno la moderazione americana e uniranno le forze.

DOPO più di sei mesi in carica, l’amministrazione Biden sembra incline ad adottare la visione utopica della promozione della democrazia come principio guida della strategia globale degli Stati Uniti. Questa dottrina, o, se preferite, persuasione, sostiene che l’America dovrebbe, per quanto possibile, piegare il mondo secondo le preferenze degli Stati Uniti e dei suoi alleati in gran parte europei. Fortunatamente, il presidente Joe Biden è un uomo di esperienza e di istinto pragmatico. Qualunque siano i suoi impulsi, finora è stato attento a non bruciare i ponti dell’America e, al contrario, ha preso provvedimenti per migliorare i legami con i principali alleati europei, per riavviare il dialogo con la Russia e per ridurre un po’ l’intensità del confronto con la Cina. Tale flessibilità tattica, tuttavia, non cambia la direzione fondamentale della politica estera statunitense, che a volte è quasi orwelliano nella sua tendenza a emulare concetti dell’ex Unione Sovietica. Era una convinzione fondamentale di Vladimir Lenin e Leon Trotsky che l’URSS, per la propria sicurezza, non potesse tollerare l’esistenza del cosiddetto “ambiente capitalista”. Presumono che i capitalisti non avrebbero mai accettato la coesistenza con il nuovo stato comunista e quindi hanno rifiutato lo status quo come un’opzione irrealistica. Oggi, accanto all’Unione europea, gli Stati Uniti hanno adottato la posizione che la loro missione è promuovere la democrazia in tutto il mondo. I leader di Washington sostengono regolarmente che se non riescono a svolgere questa missione, i governi autoritari sfrutteranno la moderazione americana e uniranno le forze, non solo per minare il potere americano, ma per distruggere la stessa democrazia, privando gli Stati Uniti delle loro amate libertà.

Queste mappe ti lasceranno a bocca aperta

È notevole che questo concetto sia diventato un principio chiave della politica estera americana senza alcun serio dibattito al Congresso, nei media o all’interno della comunità di politica estera. Al centro di questo approccio c’è il presupposto che la democrazia sia intrinsecamente superiore ad altre forme di governo, sia moralmente che in termini di capacità di fornire prosperità e sicurezza. Si presume che la promozione della democrazia sia una parte di vecchia data della tradizione della politica estera statunitense piuttosto che un radicale allontanamento da essa. L’amministrazione Biden parla come se il mondo in generale, a parte i malvagi tiranni, accogliesse con favore la sua spinta per la democrazia e accettasse l’evidente giustizia dell’America e dell’Unione Europea, piuttosto che opporre una potente resistenza che potrebbe danneggiare gli interessi di sicurezza americani, libertà e lo stile di vita americano.

ANCORA DEMOCRAZIA non ha un record stellare nel corso della storia. Il meglio che si può dire di esso, come ha osservato una volta Winston Churchill, è che nella maggior parte delle circostanze rimane superiore a tutte le altre forme di governo testate. Ma perché ciò sia vero, la democrazia deve essere veramente liberale, basata sulla legge e includere protezioni credibili per i diritti delle minoranze. Tali garanzie spesso non vengono prese. Fin dalla sua concezione, la democrazia è stata segnata dal peccato originale della schiavitù. L’antica Atene, la prima democrazia conosciuta, non solo tollerava la schiavitù, ma era di fatto fondata su di essa. Cittadini e schiavi formavano i due lati del sistema politico ateniese. Come scrive lo storico Paulin Ismard, “la schiavitù era il prezzo da pagare per la democrazia diretta”. Gli schiavi consentivano ai cittadini di allontanarsi dal lavoro e di partecipare direttamente al governo,

Negli Stati Uniti, i Padri Fondatori tollerarono similmente la schiavitù, rendendo la sua incorporazione implicita nella Costituzione degli Stati Uniti. Il concetto costituzionale delle relazioni tra gli Stati presupponeva l’esistenza della schiavitù, e fu necessaria una guerra civile per portare all’emancipazione degli schiavi da parte di Abraham Lincoln nel 1863. L’Impero russo in modo notevole – e senza spargimenti di sangue – abolì del tutto la servitù nel 1861, a differenza del Stati Uniti, dove la schiavitù era, per convenienza politica, consentita in alcuni stati dell’Unione fino alla fine della guerra civile. Anche in seguito, la democrazia americana ha continuato a privare le donne e gli afroamericani del diritto di voto per molti altri decenni. Non è ovvio che una democrazia che limita i diritti politici a una minoranza di uomini bianchi sia intrinsecamente così superiore a uno stato autoritario “benevolo” che possiede uno stato di diritto elementare e abbraccia il concetto di uguale protezione per i suoi sudditi. Esempi contemporanei includono la Russia sotto Alessandro II, le cui riforme legali introdussero per la prima volta in Russia il concetto di uguaglianza davanti alla legge, o la Germania sotto Otto von Bismarck, che istituì il primo stato sociale moderno offrendo assicurazione sanitaria e sicurezza sociale ai lavoratori classe. Più vicino al nostro tempo, l’autoritarismo illuminato di Lee Kuan Yew di Singapore ha sollevato milioni di persone dalla povertà e ha mantenuto l’armonia in un paese multietnico. Esempi contemporanei includono la Russia sotto Alessandro II, le cui riforme legali introdussero per la prima volta in Russia il concetto di uguaglianza davanti alla legge, o la Germania sotto Otto von Bismarck, che istituì il primo stato sociale moderno offrendo assicurazione sanitaria e sicurezza sociale ai lavoratori classe. Più vicino al nostro tempo, l’autoritarismo illuminato di Lee Kuan Yew di Singapore ha sollevato milioni di persone dalla povertà e ha mantenuto l’armonia in un paese multietnico. Esempi contemporanei includono la Russia sotto Alessandro II, le cui riforme legali introdussero per la prima volta in Russia il concetto di uguaglianza davanti alla legge, o la Germania sotto Otto von Bismarck, che istituì il primo stato sociale moderno offrendo assicurazione sanitaria e sicurezza sociale ai lavoratori classe. Più vicino al nostro tempo, l’autoritarismo illuminato di Lee Kuan Yew di Singapore ha sollevato milioni di persone dalla povertà e ha mantenuto l’armonia in un paese multietnico.

FINO ALLA fine della Guerra Fredda, la promozione della democrazia non era un elemento costitutivo della tradizione di politica estera degli Stati Uniti: il termine “democrazia” non compare nemmeno nella Costituzione degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti non hanno fatto la guerra per diffondere la democrazia, nemmeno nella propria sfera di influenza nelle Americhe. L’alleanza della NATO, al suo inizio nel 1949, era diretta direttamente contro la minaccia geopolitica sovietica e abbracciò volentieri membri autoritari come il Portogallo sotto António de Oliveira Salazar, che molti consideravano fascisti. Altri alleati americani del primo periodo della Guerra Fredda includevano la Corea del Sud e Taiwan, nessuna delle due era una democrazia a quel tempo. Perché gli Stati Uniti hanno assicurato la protezione di queste non democrazie? Era per proteggerli dall’acquisizione da parte degli avversari degli Stati Uniti. Nel processo, questa politica ha permesso agli alleati americani di avere la libertà di scelta, democratica o meno. Dopo la seconda guerra mondiale, l’America si è posizionata come il vero leader del mondo libero, consentendo alle nazioni con interessi, sistemi di governo e tradizioni diversi di determinare il proprio destino.

Il credo della promozione della democrazia è, al contrario, molto diverso. Va ben oltre la protezione dello status quo internazionale e sostiene una politica apertamente revisionista, progettata non semplicemente per contenere altre grandi nazioni non democratiche, ma per cambiare i loro sistemi di governo. Quando si tratta di grandi potenze, profonde trasformazioni di questa natura di solito derivano da cambiamenti interni o da una vera e propria sconfitta militare; le pressioni economiche e diplomatiche da sole in genere non ottengono molto, a meno che, naturalmente, come nel caso del Giappone prima di Pearl Harbor, non inneschino una guerra con chiari vincitori e vinti. L’amministrazione Biden non parla di cambio di regime, ma le sue parole e azioni contribuiscono a far sospettare sia a Pechino che a Mosca che il cambio di regime sarebbe proprio il risultato del cedimento alle pressioni americane.

Ancora più importante, la promozione della democrazia non è necessaria (almeno per motivi geopolitici) perché ci sono poche prove che Cina e Russia, se lasciate a se stesse, sarebbero desiderose di formare un’alleanza autoritaria globale. Nessuna delle due potenze mostra molta inclinazione a vedere la geopolitica o la geoeconomia principalmente attraverso il prisma di una presunta grande divisione tra democrazia e autocrazia. La Cina sembra perfettamente disposta a stabilire stretti legami economici con l’Unione Europea e, del resto, anche con gli Stati Uniti. Gli obiettivi cinesi sembrano piuttosto tradizionali: acquisire influenza, sviluppare amici e clienti, senza essere particolarmente preoccupati in un modo o nell’altro del loro standard di libertà. A differenza dell’Unione Sovietica negli anni ’20 e ’30, la Cina non sta difendendo una rete internazionale di movimenti comunisti. Quando si tratta di prevaricare i vicini, in particolare nel Mar Cinese Meridionale e oltre, Pechino fa poca distinzione tra paesi relativamente democratici come le Filippine e quelli autocratici come il Vietnam. Nonostante la sfida comune che devono affrontare dagli Stati Uniti, Pechino e Mosca rimangono riluttanti a concludere un’alleanza politica o militare formale. La loro effettiva cooperazione militare va poco al di là di manovre militari in gran parte simboliche e scambi limitati di informazioni militari. Entrambi i paesi sottolineano di essere allineati contro gli Stati Uniti e, in una certa misura, l’Unione europea, ma non hanno formato alcuna alleanza significativa. La Cina, ad esempio, non ha riconosciuto l’annessione russa della Crimea ed è persino diventata il partner commerciale numero uno dell’avversario russo, l’Ucraina. Anche la Russia è raramente riluttante a vendere hardware militare avanzato al rivale della Cina, l’India. Resta quindi un interesse fondamentale americano non creare una profezia che si autoavvera che avvicini Cina e Russia.

ANCHE NEL relativamente stabile sistema politico statunitense, dove le tutele istituzionali hanno solitamente funzionato nelle circostanze più difficili, dal Watergate alla transizione Trump-Biden, è ampiamente riconosciuto che l’ingerenza straniera è inaccettabile. Perché allora i funzionari e i politici statunitensi si aspettano che Cina e Russia, senza una simile legittimità democratica e senza garanzie legali per proteggere le loro élite in caso di sconfitta, siano pronti ad accettare l’interferenza straniera nei loro fondamentali accordi interni? Cina e Russia non sono alleati naturali, ma questo fatto non significa che la creazione di un’assertiva “alleanza delle democrazie” non spingerebbe insieme un riluttante Xi e Putin. La percezione di un’imminente minaccia comune potrebbe costringere entrambi i leader a concludere che, qualunque siano le loro differenze di tattica, cultura politica, e gli interessi a lungo termine, almeno nel breve periodo, devono collaborare per contrastare il pericolo dell’egemonia democratica. Se Xi Jinping e Vladimir Putin raggiungeranno questa conclusione, sarà sempre più difficile per loro parlare agli Stati Uniti con voci diverse, anche su questioni in cui sarebbe perfettamente logico in termini di interessi sostanziali farlo.

In modo abbastanza appropriato, oggi gli Stati Uniti vedono Cina e Russia come avversari, ma c’è poco appetito per esaminare le radici dei disaccordi americani con loro. Mettendo da parte il disgusto degli Stati Uniti per le pratiche autoritarie cinesi e russe, nel campo della politica estera, la democrazia non è certo la questione chiave. Infatti, dal crollo sovietico, Mosca non ha mai usato la forza militare contro nessuna nazione per sopprimere la democrazia. Nel 2008, la Russia ha invaso la Georgia, ma solo dopo che le forze georgiane avevano attaccato l’Ossezia del Sud, che era protetta dalle forze di pace russe. Nel 2014, la Russia ha usato la forza per annettere la Crimea e per sostenere i separatisti nel Donbass, ma solo dopo una ribellione filo-occidentale a Kiev che ha rimosso dal potere il presidente corrotto, ma legittimamente eletto, Viktor Yanukovich. In ogni caso, con il presidente Mikheil Saakashvili in Georgia e il nuovo governo ucraino, la Russia si è trovata di fronte a forze ostili desiderose di aderire alla NATO, intente a sfruttare la loro appartenenza come scudo protettivo contro Mosca. La lotta ebbe origine da dispute territoriali e rimostranze sull’eredità sovietica. La stessa democrazia ha svolto, nel migliore dei casi, un ruolo marginale, tranne che per un aspetto molto importante. Come avvertì George F. Kennan nel 1997, l’espansione della NATO nelle ex repubbliche sovietiche minacciava di “infiammare le tendenze nazionalistiche, anti-occidentali e militariste dell’opinione pubblica russa” e di “avere un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa”. La Russia stessa deve assumersi la responsabilità primaria della sua deriva dalla democrazia e del suo movimento in una direzione autocratica. Ma il modo in cui la NATO e l’Unione Europea hanno gestito la Russia negli anni ’90 ha contribuito fortemente alla sua successiva disillusione nei confronti della democrazia. Non è stato difficile discernere che l’approfondimento del confronto con la Russia non l’avrebbe resa più tollerante o pluralista ma, al contrario, avrebbe screditato gli elementi filo-occidentali e fornito più autorità alle forze di sicurezza. La politica occidentale di ampie sanzioni ha fornito a Putin una giustificazione patriottica per consolidare il controllo politico e portare molte persone istruite e di successo – persone che altrimenti sarebbero state desiderose di una maggiore libertà politica ed economica – nel suo campo. screditare gli elementi filo-occidentali e fornire più autorità alle forze di sicurezza. La politica occidentale di ampie sanzioni ha fornito a Putin una giustificazione patriottica per consolidare il controllo politico e portare molte persone istruite e di successo – persone che altrimenti sarebbero state desiderose di una maggiore libertà politica ed economica – nel suo campo. screditare gli elementi filo-occidentali e fornire più autorità alle forze di sicurezza. La politica occidentale di ampie sanzioni ha fornito a Putin una giustificazione patriottica per consolidare il controllo politico e portare molte persone istruite e di successo – persone che altrimenti sarebbero state desiderose di una maggiore libertà politica ed economica – nel suo campo.

Nel caso della Cina, è altrettanto difficile dimostrare un caso in cui Pechino ha attaccato un vicino per rovesciare la democrazia. Hong Kong, che la Gran Bretagna ha restituito al dominio cinese nel 1997, è la notevole eccezione. Anche qui il giro di vite maggiore è arrivato solo dopo lunghi disordini. Certamente, la Cina è stata piuttosto pesante con molti dei suoi vicini, ma tali azioni non hanno mai riguardato la democrazia. Sono nati da controversie sul territorio, risorse minerarie ed energetiche e il più ampio desiderio di arginare il dominio americano nella regione. Come nel caso della Russia, nel periodo post-Mao gli interventi militari sono stati rari, solo una volta nel 1979, quando il Vietnam comunista invase la Cambogia comunista.

Questa storia mina l’idea che una sfida autoritaria globale ora provenga da Cina e Russia. Sono piuttosto gli Stati Uniti e l’Unione Europea che mirano a rendere il mondo “sicuro per la democrazia”, nella misura in cui anche grandi potenze come Cina e Russia dovrebbero abbandonare i loro sistemi politici prescelti.

LA RESTRIZIONE SENSIBILE non equivale alla pacificazione o alla resa; al contrario, deve diventare un elemento centrale della strategia globale degli Stati Uniti se l’America spera di continuare a svolgere un ruolo di primo piano nel mondo negli anni a venire. Un ruolo di primo piano non richiede egemonia o un atteggiamento del “nostro modo o dell’autostrada”, che offende la dignità di innumerevoli altre nazioni, anche perfettamente democratiche. Invece, richiede che gli Stati Uniti mantengano la loro superiorità militare, rafforzino le loro alleanze ed evitino inutili dispute con gli alleati, il tutto pur essendo sempre consapevoli del fatto che le alleanze sono strumenti della politica estera statunitense piuttosto che fini a se stesse. Il rafforzamento delle alleanze, in altre parole, non deve diventare un obiettivo fondamentale di politica estera che va a scapito dei maggiori interessi strategici statunitensi, come la preclusione di un condominio sino-russo. Nessun aiuto dall’Ucraina o dalla Georgia può compensare il fatto che l’America si trovi di fronte a una nuova e più pericolosa alleanza che domina l’Eurasia. Sia la Cina che la Russia dovrebbero inoltre essere fortemente ricordate agli impegni dell’America nei confronti dei suoi alleati, in particolare nei confronti dei membri della NATO protetti dall’articolo 5 e di Taiwan. Sulla questione del commercio, è perfettamente legittimo difendere con assertività gli interessi americani e respingere quando necessario. I cinesi, per inciso, capiscono che questo tipo di respingimento è una parte normale della conduzione degli affari globali. A differenza dell’area della promozione della democrazia, qui sono disposti a fare accordi. Pechino e Mosca preferirebbero sicuramente qualcosa di meglio di una fredda pace con Washington, ma dato il sistema democratico americano, è giusto ricordare loro chiaramente che la brutalità in casa non è compatibile con l’amicizia con gli Stati Uniti. Nella maggior parte dei casi, questa leva positiva può essere più efficace delle sanzioni.

Allo stesso tempo, la ricerca americana per l’egemonia democratica tende a dimenticare che molti governi in tutto il mondo hanno le proprie lamentele con Washington e non necessariamente si schiereranno dalla parte degli Stati Uniti in uno scontro con la Cina o la Russia. Facendo il punto sul fallimento della promozione della democrazia in Medio Oriente, Brent Scowcroft una volta ha giustamente osservato: “l’idea che all’interno di ogni essere umano batte questo istinto primordiale per la democrazia non mi è mai stata dimostrata”. Contrariamente al trionfalismo democratico americano, non esiste una legge ferrea nella storia che imponga che le democrazie prevarranno sempre sui loro avversari autocratici. L’Atene di Pericle lo ha imparato a proprie spese quando ha intrapreso la guerra contro Sparta e i suoi alleati e, nel processo, ha perso il suo dominio regionale e il suo governo democratico. La ricerca di un trionfo inutile, anche se attraente, a scapito degli interessi fondamentali di una nazione è controproducente.

https://nationalinterest.org/feature/dangerous-illusions-192078?page=0%2C1

L’Afghanistan irrompe all’interno della Casa Bianca; un resoconto_a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto un resoconto dettagliato dei momenti frenetici che hanno colto, per meglio dire travolto il Presidente Biden e lo staff della Casa Bianca al precipitare della crisi in Afghanistan. Si possono mettere certamente in conto le carenze delle modalità operative dei servizi di intelligence, ormai sempre più incentrate sugli strumenti digitali ed informatici e meno sull’uso degli strumenti classici di presenza, influenza e infiltrazione; si potrà parlare del distacco crescente dei più alti livelli decisionali dalla realtà concreta e delle modalità di selezione di questi; si potrà indugiare sullo spirito messianico che impregna l’azione politica americana, atteggiamento che collide spesso con il realismo nei comportamenti. Elementi però insufficienti a spiegare esaustivamente l’enormità di quanto successo a Kabul. La disfatta in Afghanistan sul terreno non è probabilmente così disastrosa ed irreversibile come potrebbe sembrare; rimane disastrosa per l’immagine e l’autorevolezza offerti con una buona dose di sprezzo del ridicolo dagli Stati Uniti agli avversari ed agli alleati, spingendo i primi probabilmente ad un maggiore dinamismo e i secondi ad una minore sicumera. Il rischi di passi più lunghi delle proprie gambe da parte dei vari attori si accentuano e con esso l’eventualità di un risveglio dal torpore del vecchio leone. E’ poco verosimile che settori e centri decisionali determinanti all’interno degli USA non fossero al corrente della reale situazione in Afghanistan, vista la presenza per altro di decine di migliaia di operatori ancora sul terreno. Forse la chiave di lettura principale va però ancora una volta individuata nella natura e nelle modalità dello scontro politico interno alla classe dirigente americana; conflitto che sta dividendo ed anche frammentando quella compagine sociale. E’ noto che lo scontro politico interno ad un paese egemone ha una grande influenza e condiziona pesantemente le dinamiche geopolitiche rispetto alle fibrillazioni fine a se stesse che travolgono la superficie politica di paesi ininfluenti come l’Italia.

Questa vicenda rappresenta visivamente qualcosa di molto più importante che già trapela da tempo nelle dinamiche politiche statunitensi e che questo sito sta costantemente rilevando ormai da anni. Lo scontro politico interno ha assunto livelli così distruttivi da arrivare a strumentalizzare e manipolare eventi rilevanti come quelli in Afghanistan, anche nelle sue pieghe negative, in funzione dell’ascesa e della caduta di uomini e settori politici. Quello odierno rappresenta probabilmente il punto di non ritorno del presidente americano in carica. Lo spirito umanitario, buonista e le feroci critiche sull’inettitudine operativa e previsionale che stanno pervadendo la campagna mediatica ai danni di Biden, promossa dai principali organi di informazione americani, in prima linea NYT, WP e CNN e portata avanti per riflesso condizionato dai corifei europei non deve ingannare. Contribuirà a far emergere definitivamente figure politiche, quali Kamala Harris, di fazioni opposte all’interno dello stesso gruppo dominante, ma talmente scialbe da essere del tutto inadeguate nella definizione ed attuazione delle scelte strategiche. Talmente insipide, appunto, che l’eventualità di un ritorno di vecchie, ma ancora potenti cariatidi è un’ipotesi niente affatto peregrina. Pare infatti che il Primo Ministro Canadese Justin Trudeau, in assenza di interlocutori affidabili, abbia avuto una lunga telefonata con Hillary Clinton, una ex con insopprimibili ambizioni di ritorno, ma ancora fuori dal giro degli incarichi ufficiali; il disastro della ritirata dall’Afghanistan metterà sicuramente in secondo piano il disastro dell’uccisione del console americano di Bengasi, la macchia che ha segnato le ambizioni politiche della Clinton. Occorreranno probabilmente eventi ancora più catastrofici per arrivare ad una condizione politica interna risolutiva e ad una definizione più coerente delle linee strategiche. Una situazione, quindi, al momento di probabile ulteriore progressiva decomposizione della quale continueremo a parlare appena possibile soprattutto con Gianfranco Campa. Nelle more più gli europei attenderanno, più precari saranno i relitti ai quali aggrapparsi al momento del naufragio_Buona lettura, Giuseppe Germinario

“Questo sta realmente accadendo”

Nei cinque giorni di affanno all’interno della squadra di Biden durante il crollo dell’Afghanistan.

President Joe Biden speaks at the White House. From left, Secretary of Defense Lloyd Austin, Vice President Kamala Harris, Biden, Secretary of State Antony Blinken and White House national security adviser Jake Sullivan.

Il presidente Joe Biden parla dell’evacuazione dei cittadini americani, dei richiedenti SIV e degli afghani vulnerabili nella Sala Est della Casa Bianca, venerdì 20 agosto 2021. Da sinistra, il segretario alla Difesa Lloyd Austin, il vicepresidente Kamala Harris, Biden, segretario dello Stato Antony Blinken e del consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan. | Manuel Balce Ceneta/AP Photo
Con l’aiuto di Oriana Pawlyk, Daniel Lippman e Lara Seligman

Benvenuti al National Security Daily , la newsletter di POLITICO sugli eventi globali che agitano Washington e tengono sveglia l’amministrazione di notte. Sono Alex Ward, la tua guida su ciò che sta accadendo all’interno del Pentagono, dell’NSC e della macchina della politica estera di Washington.

Il presidente Joe Biden e la sua cerchia ristretta erano di ottimo umore.

Era mercoledì mattina, 11 agosto, e si stavano crogiolando nel bagliore delle vittorie legislative consecutive. Il giorno prima, il Senato aveva approvato un disegno di legge bipartisan per le infrastrutture da 1,2 trilioni di dollari. E nelle prime ore di mercoledì mattina, hanno assistito all’avanzamento di un quadro da 3,5 trilioni di dollari per finanziare l’agenda sociale dei Democratici.

Guardando il conteggio dei voti del Senato davanti a uno schermo televisivo nella sala da pranzo privata del presidente , Biden e il vicepresidente Kamala Harris hanno alzato i pugni in segno di trionfo. Il fulcro della loro agenda interna aveva cominciato a prendere posto.

Biden non vedeva l’ora che le sue vacanze estive iniziassero tra pochi giorni, compresi alcuni periodi di inattività a Camp David e nella sua casa vicino alla spiaggia nel Delaware. Nel frattempo, anche molti membri dello staff senior e di medio livello dell’ala ovest si stavano preparando per un po’ di tempo libero, impostando le loro risposte via e-mail “fuori sede”. “È una città fantasma”, ha detto un funzionario della Casa Bianca, descrivendo la scena nell’ala ovest.

Ma mentre la Casa Bianca stava compiendo un gigantesco giro di vittoria sui suoi successi interni, un disastro incombeva dall’altra parte del mondo in Afghanistan.

Questo resoconto di cinque giorni caotici a metà agosto si basa su interviste con 33 funzionari e legislatori statunitensi, molti dei quali hanno parlato a condizione di anonimato per descrivere discussioni interne delicate.

Mercoledì mattina – crepuscolo in Asia centrale – il già fragile controllo del governo afghano sul paese devastato dalla guerra si stava rapidamente disfacendo di fronte a una rapida offensiva talebana in coincidenza con il ritiro quasi completo delle truppe statunitensi ordinato da Biden ad aprile.

Pochi giorni prima, il gruppo militante aveva occupato il capoluogo di provincia di Zaranj, il primo di molti a cadere in una guerra lampo che ha sbalordito i funzionari americani con la sua velocità e ferocia.

Molti dei migliori diplomatici e generali americani stavano ancora operando con il presupposto di avere tutto il tempo per prepararsi a un’acquisizione del paese da parte dei talebani: potrebbero passare anche un paio d’anni prima che il gruppo sia in grado di riconquistare il potere, molti pensavano. Sebbene alcuni funzionari militari e agenzie di intelligence avessero intensificato i loro avvertimenti sulla possibilità di un crollo del governo, i funzionari si sentivano fiduciosi nella strategia delle forze di sicurezza afghane di consolidarsi nelle città per difendere i centri abitati urbani.

E poche ore prima, Biden aveva espresso pubblicamente la speranza che i talebani sarebbero stati tenuti a bada dall’esercito afghano. “Penso che ci sia ancora una possibilità”, ha detto ai giornalisti alla Casa Bianca martedì. (Un mese prima, Biden aveva affermato che un’acquisizione completa dei talebani era “altamente improbabile”.)

Poi, mercoledì, le forze di sicurezza afghane hanno in gran parte abbandonato le province di Badakhshan, Baghlan e Farah all’esercito guerrigliero dei talebani. Mentre altre aree del paese erano già cadute, era chiaro che il ritmo stava accelerando.

Il presidente e i suoi migliori collaboratori avevano ancora un’altra riunione in programma per mercoledì sera, una sessione pre-programmata su una questione di sicurezza nazionale classificata. Quando la notizia del deterioramento della situazione è giunta allo Studio Ovale quella mattina, Biden ha ordinato che l’incontro in prima serata si concentrasse sull’Afghanistan.

La squadra di sicurezza nazionale di Biden aveva già tenuto dozzine di incontri sull’Afghanistan. Ma questo incontro segreto, tenuto nella Situation Room della Casa Bianca, il centro operativo sicuro nel seminterrato dell’ala ovest, stava arrivando in un momento cruciale.

Seduti intorno al grande tavolo da conferenza c’erano Harris; il segretario alla Difesa Lloyd Austin; il presidente dei capi congiunti, il generale Mark Milley; Vicepresidente dei capi congiunti Gen. John Hyten; il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan e il suo vice Jon Finer; Direttore dell’Intelligence Nazionale Avril Haines; capo del personale Ron Klain; il vicedirettore della CIA David Cohen; Liz Sherwood Randall, consigliere per la sicurezza interna del presidente; e altro personale della Casa Bianca e della sicurezza nazionale. Il segretario di Stato Antony Blinken ha partecipato per telefono.

L’atmosfera era drammaticamente diversa dallo spirito celebrativo mostrato poche ore prima nella sala da pranzo. “È stato un momento serio”, ha ricordato un alto funzionario.

Gli eventi stavano diventando così disastrosi che il presidente ordinò ad Austin e Milley di preparare un piano per schierare truppe aggiuntive nella regione, dove avrebbero rinforzato quelle messe in attesa mesi prima per evacuare il personale americano.

Austin era diventato così allarmato che aveva già convocato il primo di quelli che sarebbero diventati incontri due volte al giorno sull’Afghanistan nella sala di videoconferenza sicura al terzo piano del Pentagono, nota come “cavi” del segretario. Erano presenti i massimi dirigenti civili e militari del dipartimento; altri pezzi grossi, come il generale Frank McKenzie, il capo del comando centrale degli Stati Uniti, e il contrammiraglio Pete Vasely, il comandante delle forze sul campo in Afghanistan, hanno chiamato tramite video protetto.

Nella Situation Room, Biden ha anche ordinato al Dipartimento di Stato di espandere l’evacuazione degli alleati afgani – quelli che avevano lavorato con gli americani e ora erano in pericolo di morte – per includere l’uso di aerei militari, non solo aerei civili noleggiati. Il presidente era già stato oggetto di pesanti controlli al Congresso per la lentezza delle evacuazioni per gli afgani che hanno prestato servizio come interpreti e traduttori per le forze armate statunitensi durante i 20 anni di conflitto.

Biden ha anche chiesto ai suoi funzionari dell’intelligence di preparare una valutazione aggiornata sulla situazione in Afghanistan entro la mattina seguente.

Dopo lo scioglimento della riunione, è stata inviata un’e-mail riservata ai membri dello staff competenti per la convocazione alle 7:30 del giorno successivo. L’e-mail è stata inviata così tardi che anche il personale della Situation Room ha iniziato a chiamare quegli assistenti per assicurarsi che fossero puntuali giovedì mattina.

“Ricordo come sembravano tutti intontiti”, ha ricordato un funzionario mentre il gabinetto di sicurezza nazionale di Biden si è riunito giovedì mattina presto. Il sole era sorto solo un’ora prima, ma la Situation Room, il centro operativo senza finestre situato nelle profondità dell’ala ovest, era già brulicante di attività.

Sullivan, il consigliere per la sicurezza nazionale, era lì con altro personale della Casa Bianca, mentre i membri del governo hanno partecipato tramite collegamenti sicuri.

La riunione dei dirigenti è iniziata con un briefing dell’intelligence concludendo che la situazione era così “fluida” che la sede del potere del governo afghano a Kabul potrebbe cadere “entro settimane o giorni”, ha osservato il funzionario.

Questo era molto diverso dalle valutazioni su cui si basavano i funzionari pochi giorni prima che stimavano che un’acquisizione talebana avrebbe richiesto mesi, o anche fino a due anni, dopo il ritiro delle truppe americane e della NATO. Di recente, l’8 agosto, McKenzie ha inviato ad Austin una nuova stima più pessimistica: che Kabul potrebbe essere isolata entro 30 giorni.

“È stato un incontro piuttosto deludente”, ha detto il funzionario. “Pensavamo di avere mesi davanti a noi per abbattere l’ambasciata e fare l’elaborazione e il trasferimento”.

Ma giovedì mattina a Washington, più centri abitati stavano cadendo in mano ai talebani di ora in ora, compresi i capoluoghi di provincia di Ghazni e Badghis.

Nella Situation Room, Austin stava ora raccomandando a Biden di inviare truppe per evacuare l’ambasciata e proteggere il principale aeroporto internazionale di Kabul. Sullivan ha chiesto a ciascun membro del gabinetto durante la riunione di intervenire. Hanno concordato all’unanimità.

Quello era il momento “oh, merda”, ha detto il funzionario americano. Ormai era ufficialmente una crisi.

Sullivan è entrato nello Studio Ovale poco prima delle 10 per fare rapporto al presidente. Biden prese il telefono e disse ad Austin di inviare le truppe preposizionate.

Anche in tutta Washington, il Congresso stava diventando sempre più allarmato dal deterioramento della situazione. In alcuni casi, i legislatori si sono presi la responsabilità di saperne di più su ciò che stava accadendo, in assenza di una guida da parte dell’amministrazione Biden.

Il giorno prima, mentre il Senato passava a una serie di voti della durata di un’ora e durante la notte su uno dei principali punti dell’agenda interna di Biden, i senatori che guidavano lo sforzo sono stati ritirati dalle riunioni e dall’aula del Senato dove sono stati informati sui rapporti inquietanti in arrivo fuori dall’Afghanistan. Alcune di quelle storie e immagini terrificanti hanno cominciato a emergere nelle prime ore di mercoledì mattina, quando i senatori sono rimasti a terra dopo le 4 del mattino.

Uno dei pochi legislatori che parlavano attivamente degli sviluppi in Afghanistan all’epoca era il senatore democratico Chris Murphy del Connecticut, un sostenitore di lunga data del ritiro delle truppe statunitensi. Martedì era andato in Senato per difendere preventivamente Biden e affermare che l’ondata dei talebani era in effetti un motivo per mantenere la rotta con il ritiro.

“Il completo, totale fallimento dell’esercito nazionale afghano, in assenza della nostra mano nella mano, per difendere il loro paese è un’accusa feroce di una strategia ventennale fallita basata sulla convinzione che miliardi di dollari dei contribuenti statunitensi potrebbero creare una centrale efficace e democratica governo in una nazione che non ne ha mai avuto uno”, ha detto Murphy.

I legislatori hanno iniziato a discutere tra di loro delle conquiste dei talebani al Senato fino a mercoledì, ma nessuna delle parti ha permesso di mettere in ombra i loro sforzi di politica economica.

Il rappresentante Michael Waltz (R-Fla.), il primo berretto verde a servire al Congresso e una delle prime e più forti voci che spingono per l’evacuazione degli alleati afghani, era in costante comunicazione con i funzionari legati al presidente afghano Ashraf Ghani. Anche se mercoledì i talebani stavano conquistando vaste aree di territorio, Waltz ha affermato che le forze afgane credevano di “poter capovolgere la situazione” finché gli Stati Uniti avessero continuato a fornire supporto aereo.

Quel sostegno non è stato sufficiente quando l’esercito afghano ha deposto le armi in massa. In un’intervista, Waltz ha descritto il supporto aereo tiepido come “mettere un cerotto su una ferita al petto risucchiante”.

Più tardi giovedì, verso l’ora di pranzo, un funzionario della Casa Bianca ha chiamato il rappresentante Jason Crow (D-Colo.), un membro dei comitati dei servizi armati e dell’intelligence, per fornire un aggiornamento sul deterioramento della situazione.

Crow, un ex ranger dell’esercito che ha prestato servizio in Afghanistan, faceva parte di un gruppo bipartisan di legislatori che da mesi sollecitavano l’amministrazione Biden a muoversi più velocemente per evacuare gli afgani che hanno aiutato lo sforzo bellico degli Stati Uniti.

Sia Crow che Waltz credevano ormai che, in assenza di una drammatica accelerazione delle evacuazioni, era improbabile che gli Stati Uniti sarebbero stati in grado di portare in sicurezza tutti gli alleati americani e afghani fuori dal paese prima della scadenza del 31 agosto di Biden.

Giovedì sera, il Pentagono ha annunciato che altre 3.000 truppe sarebbero state portate d’urgenza per mettere in sicurezza l’aeroporto internazionale Hamid Karzai di Kabul e aiutare a far uscire in sicurezza dal paese i restanti americani, così come gli alleati afghani e della NATO.

“Kabul non è in questo momento in un ambiente di minaccia imminente, ma chiaramente … se guardi solo a ciò che i talebani hanno fatto, puoi vedere che stanno cercando di isolare”, ha detto ai giornalisti il ​​portavoce del Pentagono John Kirby.

Biden settimane prima aveva approvato tutte le raccomandazioni di Austin per posizionare risorse navali e migliaia di truppe nella regione in caso di evacuazione, inclusa la portaerei USS Ronald Reagan e tre battaglioni di fanteria.

Ma quasi subito, è diventato chiaro che non sarebbe bastato.

Brad Israel, un ex berretto verde che ha servito più tour in Afghanistan, giovedì sera ha ricevuto un’e-mail frenetica dal suo ex interprete afghano.

Il giorno prima, l’uomo è stato costretto a fuggire da Kandahar dopo che i talebani hanno bruciato la sua casa – inclusa la distruzione delle prove documentali della sua domanda di asilo negli Stati Uniti – e hanno giustiziato suo fratello.

Israele ha inviato un’e-mail all’indirizzo elencato sul sito Web del Dipartimento di Stato per scoprire come il suo amico potrebbe inviare nuovamente la sua domanda di visto, solo per il messaggio di rimbalzo: “La casella di posta del destinatario è piena e non può accettare messaggi ora”. Un portavoce del Dipartimento di Stato non ha risposto alla richiesta di spiegare il motivo.

Anche lo sforzo diplomatico degli Stati Uniti per gestire un ritiro ordinato dall’Afghanistan stava andando in pezzi.

I funzionari dell’ambasciata degli Stati Uniti a Kabul avevano concluso venerdì che non avevano altra scelta che chiudere l’avamposto diplomatico americano. Hanno ordinato al personale di iniziare immediatamente la “distruzione di emergenza” di tutti i documenti e materiali sensibili.

Ciò includeva l’incenerimento di bandiere americane e altri loghi del governo degli Stati Uniti “che potrebbero essere utilizzati in modo improprio negli sforzi di propaganda”, secondo un promemoria rilasciato al personale dell’ambasciata. E, secondo il rappresentante Andy Kim (DN.J.), tra i documenti bruciati c’erano i passaporti dei cittadini afgani che avevano richiesto i visti americani, rendendo quasi impossibile identificarli mentre cercano di lasciare il paese nei prossimi giorni.

Tornato a Washington, Tracy Jacobson, capo della Task Force Afghanistan del Dipartimento di Stato, ha informato Crow per telefono sulla risposta pianificata dell’amministrazione.

Crow si diresse verso una struttura di informazioni compartimentata sensibile situata nel seminterrato del Campidoglio, dove rivedeva gli ultimi rapporti dell’intelligence segreta da Kabul.

Anche i leader del Congresso stavano tenendo sotto stretto controllo la situazione. Il leader della minoranza al Senato Mitch McConnell (R-Ky.) ha detto al conduttore radiofonico Hugh Hewitt questa settimana che era in contatto con i leader militari che erano “accecati”.

Settimane prima, l’esercito americano aveva abbandonato la base aerea di Bagram, a lungo il cuore pulsante delle operazioni americane in Afghanistan. Con solo poche migliaia di soldati rimasti indietro, i funzionari del Pentagono hanno deciso che non potevano tenere al sicuro la struttura tentacolare mentre difendevano l’ambasciata e l’aeroporto di Kabul.

I piani prevedevano invece l’uso di elicotteri per trasportare gli americani dal complesso dell’ambasciata nel centro di Kabul all’aeroporto internazionale di Hamid Karzai, a poche miglia di distanza, piuttosto che rischiare di rimanere impantanati o tendere un’imboscata nel traffico intasato della capitale afgana. Significherebbe rischiare esattamente il tipo di scene caotiche che Biden aveva promesso che non sarebbe accaduto: immagini indelebili, in stile Saigon, dell’America in ritirata.

“Venerdì pomeriggio mi era chiaro che stavamo rapidamente perdendo il controllo della situazione nella capitale, nell’aeroporto, e che l’operazione di evacuazione era a rischio”, ha detto Crow.

Gli è stato anche detto che il Pentagono “avrebbe accelerato rapidamente l’evacuazione in termini di quantità di persone, ma anche di chi stavano cercando di evacuare”.

Ma questo significava decidere quali americani e alleati afgani rimasti bloccati a Kabul dovessero essere evacuati per primi.

Il Pentagono non aveva un elenco completo degli afgani che hanno lavorato a fianco degli Stati Uniti durante la guerra. I funzionari stavano ancora compilando una “lista di priorità” di interpreti da evacuare.

Ciò è avvenuto nonostante i ripetuti avvertimenti, incluso un appello bipartisan a Biden all’inizio di giugno che esprimeva crescente preoccupazione “che non hai ancora ordinato che il Dipartimento della Difesa sia mobilitato come parte di un piano di governo completo e attuabile per proteggere i nostri partner afghani. “

Nel frattempo, sul campo in Afghanistan, Vasely era in contatto diretto con Ghani o il suo staff quasi ogni giorno. Anche Austin e Blinken hanno parlato con Ghani, ma non ha dato alcuna indicazione che avrebbe lasciato bruscamente il paese.

“Si è presentato come disposto a rimanere e combattere”, ha detto un funzionario della difesa.

Quella promessa si è rivelata di breve durata.

Sabato, il National Military Command Center, il centro operativo globale altamente sicuro sotto il Pentagono, è stato bloccato dal traffico di messaggi.

L’ultimo domino caduto nelle mani dei talebani è stato il centro commerciale settentrionale di Mazar-e-Sharif. Stava diventando chiaro che Kabul sarebbe stata la prossima. Ufficiali militari esperti hanno espresso incredulità sul fatto che le forze afghane sembravano pronte a rinunciare alla loro capitale senza combattere.

“L’e-mail stava esplodendo a destra e a manca [con la gente che diceva] ‘Wow, sta succedendo proprio ora’”, ha detto un funzionario della difesa. “Questa cosa è appena andata in pezzi durante il fine settimana.”

I funzionari del Pentagono si sono resi conto troppo tardi che i talebani avevano condotto un’efficace campagna di influenza oltre a quella fisica, sfruttando le dinamiche tribali per costruire legami con gli anziani del villaggio e altri che hanno svolto ruoli chiave nella marcia per lo più incruenta del gruppo attraverso il paese.

Allo stesso tempo, l’esercito americano aveva meno di 2.500 soldati rimasti – non abbastanza per capire quanto velocemente il morale e la coesione dell’esercito nazionale afghano si stessero sgretolando.

“Nessuno è rimasto sorpreso dal fatto che si siano piegati come un mazzo di carte, ma solo per la velocità: è semplicemente evaporato”, ha detto il funzionario.

Un altro funzionario della difesa ha scritto in cima al suo taccuino per la giornata: “Caduta di Kabul”.

Alla luce del deterioramento della situazione, quella mattina Biden aveva approvato la raccomandazione di Austin di inviare altri 1.000 soldati dell’82a divisione aviotrasportata per aiutare a evacuare il personale da Kabul. Altri due battaglioni erano in viaggio verso la regione per schierarsi in Kuwait come riserva pronta.

Biden era ancora a Camp David, vestito con pantaloni color cachi e una polo e accompagnato solo da alcuni aiutanti più giovani. In una lunga dichiarazione, ha annunciato i movimenti delle truppe e altri passi che l’amministrazione si stava affrettando a compiere, quindi ha fatto perno su una strenua difesa della sua decisione di ritiro.

“Sono stato il quarto presidente a presiedere una presenza di truppe americane in Afghanistan: due repubblicani, due democratici”, ha detto. “Non vorrei, e non lo farò, passare questa guerra a un quinto.”

Entro domenica 15 agosto, Austin, Milley e il loro staff hanno tenuto telefonate frettolosamente organizzate con i legislatori per discutere della situazione.

Durante una di queste telefonate, i funzionari militari hanno riferito che un alleato chiave di Ghani, il vicepresidente del parlamento afghano, aveva disertato per diventare capo della polizia dei talebani a Kabul.

“È stato allora che abbiamo capito che era davvero FUBAR”, ha detto un anziano aiutante democratico , usando l’acronimo militare per “incasinato oltre ogni riconoscimento”.

Milley ha anche avvertito i legislatori che con l’ascesa dei talebani, c’era anche la minaccia che al Qaeda, lo Stato Islamico e altri gruppi terroristici che cercavano di attaccare gli Stati Uniti potessero essere ancora una volta in grado di complottare dal territorio afghano.

Nel frattempo, Austin aveva autorizzato altri due battaglioni dell’82a divisione aviotrasportata a dirigersi direttamente a Kabul invece di fare scalo in Kuwait, portando il totale ordinato di confluire nella capitale a circa 6.000 soldati.

Ma per molti versi era troppo tardi. I combattenti talebani avevano già preso la città orientale di Jalalabad senza combattere, circondando efficacemente Kabul, e stavano iniziando ad entrare nella capitale con poca resistenza.

In rapida successione domenica, Ghani è fuggito dal Paese, i talebani sono entrati nel palazzo presidenziale e hanno posato per dei selfie nel suo ufficio. L’aeroporto si stava rapidamente trasformando in un campo profughi, invaso da migliaia di frenetici afgani che chiedevano a gran voce di fuggire, alcuni addirittura disposti ad aggrapparsi agli aerei in rullaggio sulla pista. Le immagini satellitari hanno mostrato minuscoli punti raggruppati attorno all’asfalto, simboli viventi di disperazione e disperazione.

Alla fine della giornata, la bandiera americana non sventolava più sull’ambasciata degli Stati Uniti. Diplomatici stranieri hanno pubblicato selfie online dall’interno degli elicotteri Chinook, mentre i fotografi hanno catturato lo spettacolo da lontano. E le truppe americane fresche in viaggio verso Kabul avrebbero protetto un aeroporto nel caos.

I membri del gabinetto di Biden e i loro vice avevano tenuto circa tre dozzine di riunioni di “pianificazione dello scenario” dopo l’annuncio del presidente di aprile che le truppe statunitensi sarebbero state fuori dall’Afghanistan entro l’11 settembre.

Hanno trattato di tutto, da come proteggere l’ambasciata degli Stati Uniti e gestire i rifugiati afgani a come posizionare al meglio l’esercito americano nella regione nel caso in cui le cose andassero fuori controllo Molte altre sessioni si sono tenute presso il Pentagono, il Comando Centrale degli Stati Uniti a Tampa, il Dipartimento di Stato e altre agenzie.

Ma non era ancora abbastanza per prepararsi al crollo totale, nel giro di pochi giorni, dello sforzo americano di due decenni, da 2 trilioni di dollari, progettato per sostenere il governo afghano. Biden aveva insistito che l’esercito afghano avrebbe combattuto; in gran parte no. Blinken aveva deriso l’idea che Kabul sarebbe caduta durante un fine settimana; eppure lo ha fatto. Il “momento Saigon” che Biden temeva fosse arrivato.

Anche se migliaia di truppe americane si affrettano a salvare il personale statunitense e gli afghani frenetici che temono per la propria vita, le domande su come il governo degli Stati Uniti sia stato colto così alla sprovvista stanno crescendo. Per anni, i rapporti delle autorità di vigilanza avevano avvertito che l’esercito afghano era pieno di corruzione, morale basso e cattiva leadership. Ma pochi hanno apprezzato quanto fosse grave.

Il Dipartimento della Difesa ha dichiarato di aver condotto un’esercitazione al Pentagono diverse settimane fa che includeva scenari di evacuazione dall’aeroporto di Kabul. Ancor prima, il 28 aprile, Austin convocò un’esercitazione nel centro di comando del Pentagono per provare le varie fasi del ritiro, inclusa la possibilità di evacuare i non combattenti. Ma i militari sono rimasti sorpresi dalla velocità con cui i talebani si sono impossessati della capitale.

“Non c’era niente che io o chiunque altro abbiamo visto che indicasse un crollo di questo esercito e di questo governo in 11 giorni”, ha detto Milley ai giornalisti mercoledì.

Il caos all’aeroporto di Kabul durante il fine settimana e all’inizio di questa settimana, con le operazioni di volo temporaneamente sospese dopo che i disperati afgani si sono precipitati sulla pista, ha sollevato dubbi sulla pianificazione dell’amministrazione Biden per il ritiro, incluso se sia stato un errore chiudere la base aerea di Bagram.

Milley ha difeso la decisione dell’esercito di chiudere Bagram, che ha due piste per l’aeroporto di Kabul, ma dista quasi 40 miglia dall’ambasciata. Con meno di 2.500 soldati rimasti a terra in quel momento, ha detto Milley, i funzionari hanno dovuto scegliere tra mettere in sicurezza Bagram e l’aeroporto commerciale.

“Abbiamo dovuto far crollare l’uno o l’altro, ed è stata presa una decisione”, ha detto Milley. Biden, in un suo discorso questa settimana, ha espresso una difesa a tutto tondo delle sue azioni, dicendo: “Sono fermamente dietro la mia decisione”.

“Dopo 20 anni”, ha aggiunto, “ho imparato a mie spese che non c’era mai un buon momento per ritirare le forze statunitensi”.

È in arrivo un resoconto completo di ciò che molti altri a Washington vedono come una debacle. Repubblicani e Democratici arrabbiati al Congresso hanno promesso di condurre una serie di udienze di supervisione, esaminando potenziali fallimenti dell’intelligence e precedenti valutazioni delle capacità dell’esercito afghano.

“Sembra che tutti [il Pentagono] e la comunità dell’intelligence siano stati colti alla sprovvista dalla velocità dell’avanzata dei talebani su Kabul”, ha detto il rappresentante Seth Moulton (D-Mass.), membro del Comitato dei servizi armati e un Veterano della guerra in Iraq. “Come è possibile? È stata una mancanza di risorse focalizzate sul problema? Fallimento della pianificazione di emergenza? Altro?”

“Avremmo dovuto essere preparati per questa contingenza e chiaramente non lo eravamo”, ha aggiunto Moulton. “Se facessi i semplici calcoli non potresti eseguire questa operazione nell’arco di pochi giorni, nemmeno di qualche settimana. E non ci sono scuse per questo”.

Commento di Massimo Morigi su “USA/AFPAK: Secondo Tempo”, di Antonio de Martini

Commento di Massimo Morigi su “USA/AFPAK: Secondo Tempo”, di Antonio de Martini, articolo pubblicato sul “Corriere della Collera” (URL https://corrieredellacollera.com/2021/08/19/usa-afpak-secondo-tempo/#comment-69568, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20210819153327/https://corrieredellacollera.com/2021/08/19/usa-afpak-secondo-tempo/) e sull’ “Italia e il Mondo” (URL http://italiaeilmondo.com/2021/08/19/usa-afpak-secondo-tempo-di-antonio-de-martini/, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20210819163424/http://italiaeilmondo.com/2021/08/19/usa-afpak-secondo-tempo-di-antonio-de-martini/)

Qualche anno fa, sul “Corriere della Collera”, imperdibile ed unico blog nel desolante panorama dell’informazione italiana, a proposito dell’approccio geostrategico degli Stati Uniti, ebbi a scrivere “strategia del caos applicata caoticamente”. Purtroppo, dopo gli ultimi fatti afghani, sempre il sopraddetto sistema dell’informazione italiana ed anche internazionale, per sviare l’attenzione da questo permanente dato di fondo, comincia ora timidamente ad incolpare Biden del disastro afghano, la qual cosa altro non è che cominciare a propalare a mezza bocca una verità (Biden è tecnicamente e dal punto di vista sanitario un cerebroleso al quale un sistema politico sano, non importa se “democratico” o di altra natura, avrebbe dovuto impedire di esercitare la pur minima responsabilità politica) per nascondere, appunto, la più importante verità intorno alla persistente natura caotica della politica estera americana, che va ben oltre Biden e la sua sgangherata e truffaldina amministrazione (detto per inciso, Biden è stato eletto tramite elezioni truccate, e quello che sempre i sopraddetti organi di informazione se fossero degni di questo nome avrebbero dovuto fare, non doveva essere ridicolizzare come complottisti e QAnonisti coloro che, del resto senza nemmeno tante difficoltà, si erano resi conto di questa realtà, ma semmai, rendere edotto il povero popolo bue che a memoria d’uomo non c’è mai stata una singola elezione presidenziale americana che non sia stata profondamente truccata: sulla evidente truffa elettorale che ha permesso al cerebroleso Biden di divenire presidente degli Stati uniti, non si può che rinviare alle numerose formidabili videointerviste di Giuseppe Germinario a Gianfranco Campa pubblicate sull’ “Italia e il Mondo” a partire dall’autunno del 2020 e che, verosimilmente, saranno anche nei prossimi mesi da altre seguite). Termino il discorso, se non per ribadire per l’ennesima volta, l’assoluta necessità per l’Italia di svincolarsi da un padrone d’oltreoceano così erratico, imprevedibile e pericoloso. La qual cosa, è ovvio, sarà possibile solo attraverso la crescita (o sarebbe meglio dire, la nascita) di una diffusa e pervasiva cultura politica italiana che attraverso l’abbattimento degli idola politico-filosofici nati nel secondo dopoguerra possa portare all’annientamento politico e d’immagine con conseguente ridicolizzazione presso la più vasta massa dell’oggi popolo bue dei già citati prezzolati e sgangherati organi d’informazione. Ma anche questo è un mio (e, ovviamente, non solo mio, medesima impostazione seguita prima dal “Corriere della Collera” di Antonio De Martini e poi anche dall’ “Italia e il Mondo” di Giuseppe Germinario ) vecchio discorso e una delle cose positive della vittoria talebana in Afghanistan (bando ai piagnistei, i talebani che hanno vinto, oltre che il risultato della stupidaggine del c.d. Occidente, è anche il risultato del valore guerriero di costoro, e il non riconoscerlo da parte di tutti i “grandi” commentatori e canali di rimbambimento di massa dovrebbe insinuare anche nei più inebetiti il sospetto sulla natura manipolatoria di questa pseudoinformazione: non fosse che solo per questo, essi meritano il nostro più profondo rispetto e la loro reductio ad Hitlerum non è altro che il segno della vecchia mentalità coloniale che si serve dei soliti mezzucci per far prosperare le vecchie e nuove botteghe ideologiche, quelle nuove, per chi non l’avesse capito, sono quelle originariamente di sinistra, dirittoumanistiche, democraticistiche et similia – oggi addirittura condivise anche da una destra priva di identità e che ha abbandonato del tutto la grande tradizione del realismo politico), è che dovrebbe costituire una sorta di “segnalatore d’incendio” sul fatto che se continueremo ad adagiarci sui vecchi idola politico-filosofici la sopravvivenza dell’Italia sarà messa in gravissimo pericolo. Di tutto ciò non sarebbe male discuterne nei prossimi mesi, con l’obiettivo, ovviamente, di allargare con tutti i mezzi il nostro uditorio, perché la consapevolezza della gravità della situazione non è mai mancata in questi anni, mentre del tutto insufficiente (per usare un eufemismo) è stata la capacità di “sbovizzare” il sopraddetto popolo.

Massimo Morigi – 19 agosto 2021

 

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