LA TRINCEA DEI CATARROSI, di Antonio de Martini

LA TRINCEA DEI CATARROSI
Oggi è il 28 marzo. Lo commemoro in esclusiva nazionale.
In questo giorno del 1947, l’Italia fu chiamata – assieme agli sconfitti – al tavolo dei vincitori a firmare il trattato di pace in cui ci tolsero anche le mutande e che pose la parola fine alla seconda guerra mondiale,
Tra un mese circa, il 25 Aprile
– festa nazionale- avremo la sfilata celebrativa di commemorazione della nostra vittoria della seconda guerra mondiale.
Due gruppi di italiani, entrambi stupidi e faziosi, celebreranno l’evento da opposti punti di vista, senza rendersi conto di perpetuare così il danno maggiore autoinfertoci che è quello della rottura spirituale dell’Unità nazionale.
La Germania fu divisa in due stati, ma rimase unita spiritualmente. Noi restanmo burocraticamente uniti, ma siamo ancora divisi.
Non è piu il caso di invocare la pacificazione o la concordia, come “ Nuova Repubblica” ha fatto dal giorno della fondazione unendo nell’appello insigni italiani delle due parti.
Si può solo sperare che il Covid faccia il suo lavoro e ci liberi degli ultimi rancorosi delle due parti, affidando le sorti d’Italia alle successive, smemorate, generazioni che credono che la guerra contro la Germania l’abbia vinta Tardelli.
Non so cosa sia peggio.
« GUERRINO SOL CONTRO TOSCANA TUTTA »
Il nuovo governo USA sta delineando la propria fisionomia, caratterizzandosi con una politica che può, al momento, definirsi quella « della suocera di Trump ».
Si guarda all’operato del predecessore e si cerca una rottura di continuità pur nella costanza degli atteggiamenti fondamentali.
Dopo aver dichiarato che non avrebbe brigato un secondo mandato, Biden ha fatto la dichiarazione opposta.
Non è impazzito, ha capito che l’amministrazione – il deep state – ha bisogno di credere che le scelte del presidente siano destinate a durare e ha promesso continuità.
Per ora l’attivismo della macchina di politica estera statunitense é frenetico e omnidirezionale.
Nell’arco di 72 ore gli USA hanno minacciato di sanzioni la Germania, la Russia, l’India e la Cina.
I tedeschi per il gasodotto nord stream, la Russia perché maltratta gli oppositori interni, l’India perché compra il sistema antiaereo russo e la Cina perche bistratta Uiguri e tibetani,due delle 54 minoranze del Celeste impero.
Se a questi si aggiungono i Turchi, l’Iran, lo Yemen, i somali, il Venezuela, il piccolo Libano, l’Afganistan , la Libia, la Siria, l’Irak, (con Myammar e Bielorussia in dirittura di arrivo nella lista dei sanzionandi), anche sottraendo il Sudan – arresosi di recente almeno a parole e l’Africa occidentale subappaltata ai francesi- siamo al contenzioso con quattro miliardi di abitanti del pianeta su sette.
Armatosi di buona volontà, Biden é già venuto a partecipare alla riunione UE per dare un tocco di bonomia personale alle minacce, ha stabilito di ripescare alcuni valori tradizionali della democrazia americana caduti in desuetudine e deciso di attendere gli esiti elettorali del 2022 previsti per una serie di paesi tra cui Italia, Libano, Irak e Turchia.
PRIORITÀ ALLA NATO ?
La seconda visita sarà alla NATO che sta per varare il suo nuovo assessment strategico .
L’organizzazione Nord Atlantica ha acquisito una valenza nuova da quando è ormai l’unico consesso – dopo la Brexit- in cui convivono gli europei continentali con i britannici .
Se si vuole fare la voce grossa coi russi, la NATO è lo strumento indispensabile e l’Italia ha il ruolo chiave.
Lo ha notato il generale Arpino – ex capo di SM della Difesa, della classe 1937 – che ha segnalato con un articolo su “ Formiche” l’interesse dell’Italia a restare nell’alleanza ( dice che chi la pensa diversamente è ingenuo o in malafede) e invita a sfruttare l’occasione per indirizzare l’attenzione verso il sud.
Arpino pensa certamente al fianco destro dell’alleanza che dalla fondazione ad oggi è stato sfondato: l’Iran e l’Irak sono inagibili, la Siria è ormai una caposaldo russo, la Turchia in pericolo e Libano e lo stesso Israele infiltrati.
Siamo destinati a subire il primo urto.
La strategia antirussa USA di sostegno alle repubbliche baltiche dove siamo stati “ costretti” a inviare dei nostri aerei,
cozza contro i nostri interessi strategici ( vigili sul fianco destro) economici ( energia da Egitto e Libia) commerciali ( i mercati del Levante) .
Il generale confida, con cortese incertezza, nella abilità manovriera dei nostri governanti agli incontri tra alleati per ottenere attenzione.
Forse è meglio usare parole brutali ma franche agli alleati: la volta scorsa in cui fummo centrali per l’alleanza, con De Gasperi e Pacciardi, l’Italia ebbe Manlio Brosio ( un politico) nominato segretario Generale dell’alleanza, aiuti militari a fondo perduto e qualche sostegno finanziario.
E rispetto.
Adesso, a parte qualche vaccino, cosa offrono?
Commenti
Alberto Del Buono

a mio parere il candidato ideale sarebbe

Vincenzo Camporini

. Ha l’esperienza e la grinta per fare bene e sottrarremmo un uomo ingenuo alle grinfie di partitanti che ne sfruttano l’onorabilità.

Renzi sarebbe un pericolo serio per l’integrità della lingua inglese e una scelta divisiva.
Antonio de Martini

Caro de Martini, la sua stima mi lusinga, compresa la definizione di ‘ingenuo’ che interpreto nel senso di chi è portato ad avere fiducia nel prossimo. Fortunatamente per me, la sua è un’idea isolata: si immagina lei le vesti strappate e gli alti lai nel caso un Generale venisse designato, o solo proposto per un tale incarico politico? Ce ne sarebbe per far cadere un governo! Grazie in ogni caso per la sua considerazione, che mi fa molto piacere, perché so essere sincera e profonda.

Vincenzo Camporini

caro generale. Apparentemente isolato ho chiesto a giorni alterni l’affidamento dell’epidemia allo Stato Maggiore per un intero anno. Hanno cooptato un generale – fino a ieri impensabile- e presto allargheranno le maglie eliminando …

Altro…
Antonio de Martini

Lei suggerisca l’idea come sa fare e vediamo se qualcuno ascolta.

Una buona notte.

BREXIT, AFFRONTO O REGALO PER L’EUROPA?_di Hajnalka Vincze

BREXIT, AFFRONTO O REGALO PER L’EUROPA?

Portfolio – 28 gennaio 2021
Nota di notizie

Dietro le infinite lamentele sulla “perdita” del Regno Unito, in realtà molti si rallegrano, chi per un motivo, chi per un altro. I sostenitori dell’Europa federale ritengono che la strada sia chiara ora che il nemico giurato di qualsiasi idea di pooling (approfondimento dell’integrazione) è definitivamente fuori gioco. I campioni di un’Europa indipendente – che dipenderebbe meno dall’America – sorridono alla partenza del “cavallo di Troia” degli Stati Uniti, credendo che il loro momento sia finalmente arrivato: senza Londra, l’eterna torpediniera di qualsiasi iniziativa politica dell’Unione, l’Europa potrebbe anche diventare uno dei poli del potere nel mondo. Tale ragionamento non è del tutto infondato, ma non tiene conto dei malumori interni dei restanti Ventisette.

Sempre presente nelle teste

La Gran Bretagna ha sempre avuto una visione molto particolare della costruzione europea. Ha preferito stare lontano dal suo lancio; non solo, ha creato un’area di libero scambio che dovrebbe competere con esso e renderlo obsoleto sin dal suo inizio. Rendendosi conto del loro fallimento, gli inglesi cambiarono strategia: entrarono per meglio silurare, questa volta dall’interno, tutto ciò che prometteva di diventare più di un semplice mercato aperto. Che si trattasse di tariffe protettive, diritti sociali, autonomia strategica o politica industriale, Londra è stata un freno. Di conseguenza, le lotte più dure e frequenti l’hanno opposta alla Francia, paladina di un’Europa politica e indipendente. Quindici anni fa Jean-Claude Juncker, l’allora primo ministro lussemburghese, ha giustamente osservato, dopo una battaglia franco-britannica particolarmente dura nell’UE: “Qui si confrontano due filosofie. Ho sempre saputo che un giorno o l’altro sarebbe venuto a galla ”.

(Credito fotografico: Reuters)

Non è un caso che ciò sia avvenuto proprio in questo momento. Londra è stata rafforzata dall’adesione, nel 2004, del primo gruppo di paesi dell’Europa centrale e orientale. Nel dilemma “allargare o approfondire” che ha definito i dibattiti per tutti gli anni ’90, la Gran Bretagna spingeva per l’allargamento dell’UE più rapido e più ampio possibile nella speranza di abbattere l’inclinazione politica diluendo il progetto in un gigantesco supermercato. Di fronte a ciò, i francesi – e di tanto in tanto i tedeschi – cercavano di salvare, se necessario sotto forma di un’Europa a più velocità, l’essenza politico-strategica del progetto. Un tentativo coronato da scarso successo. Dopo l’ingresso dei nuovi Stati membri, seguaci della visione britannica, tutto suggeriva che lo scenario di un’Europa dei supermercati addormentata nell’inesistenza geopolitica sotto l’ala protettrice della NATO avrebbe prevalso per sempre.

È vero che lo spirito dei tempi ha lavorato a favore di Londra. Durante i quindici anni trascorsi dal crollo dell’ordine bipolare, il modello globalista-neoliberista controllato a distanza da Washington ha innestato una marcia in più, mentre la NATO, invece di scomparire con la Guerra Fredda, si è adattata, rinvigorita e ha persino effettuato una vera mutazione. In queste circostanze, Londra non ha avuto troppe difficoltà a promuovere, nelle parole dell’ambasciatore Usa, “la posizione comune anglo-americano all’interno dell’UE”. In vista del referendum sulla Brexit, il presidente Obama ha messo in guardia gli elettori britannici: la presenza di Londra è la garanzia che l’UE rimanga economicamente aperta e militarmente attaccata all’America. Sarà interessante osservare, dopo la Brexit, come si comporteranno i paesi membri che fino ad ora, su questi due temi, si nascondevano comodamente dietro Londra.

Minare, dall’esterno

Allo stesso modo, saranno intriganti da osservare gli sforzi che gli inglesi dispiegheranno, d’ora in poi dall’esterno, per indebolire qualsiasi dimensione politica e strategica dell’Unione. Un esempio molto divertente è il caos intorno al sistema di navigazione satellitare, Galileo (“GPS europeo”). Londra è sconvolta dalla perdita, a seguito della Brexit, del suo accesso automatico al “servizio pubblico regolamentato” (PRS) crittografato e ultra sicuro, controllato dai governi e dalle istituzioni dell’UE e in gran parte dedicato agli usi militari. La Gran Bretagna ha giurato il giorno dopo il referendum sulla Brexit che avrebbe messo in atto un proprio sistema simile, dicendo: “la sicurezza dei nostri soldati non può dipendere da un sistema esterno, che non dipende da esso”. Curioso argomento del Paese che, al lancio del programma Galileo, aveva lottato con le unghie e con i denti per impedire ogni uso militare. Con il pretesto del GPS e della NATO, non aveva trovato nulla di imbarazzante nell’essere, insieme a tutti gli altri europei, dipendente da un sistema sotto il controllo esclusivo americano.

Risultato della contesa: oggi l’Europa ha un proprio sistema di navigazione satellitare globale, mentre Londra può solo sperare in una costellazione regionale attaccata al GPS. Per una volta, l’Europa non ha ceduto ai tentativi britannici di sbrogliare. Perché Londra aveva chiesto, al di là dell’accesso diretto, un posto e una voce nel corpo di “governo” e controllo di Galileo. Esattamente come chiede un accesso privilegiato al Fondo europeo per la difesa (FES) destinato ai programmi europei di armamento, dal bilancio dell’UE. Questo gli avrebbe permesso di prendere due piccioni con una fava. Perché la Gran Bretagna ha sempre fatto di tutto per rendere le istituzioni della politica di difesa dell’UE più “flessibili”, cioè permeabili agli alleati della NATO che non sono membri dell’Unione. Da ora in poi, proverà a continuare lo stesso lavoro di affondamento, ma questa volta dall’altra parte dell’uscio.

Faccia a faccia franco-tedesco

Il successo dei tentativi britannici dipende dal fatto che i restanti Stati membri vi cedano o meno. Innanzitutto la Germania, caratterizzata da un’eterna ambiguità ma che generalmente si trova (sulla questione del grande mercato transatlantico di libero scambio o sul primato dell’Alleanza atlantica) piuttosto vicina agli inglesi. Charles Grant, il direttore del Centre for European Reform con sede a Londra, ha avvertito i parlamentari di Sua Maestà all’inizio degli anni 2010: la Gran Bretagna non può permettersi di essere passiva all’interno dell’UE, perché la sua emarginazione rischierebbe di avvicinare le posizioni di Berlino su queste questioni a quelle francesi. Non è un caso che oggi, a seguito della Brexit, la meccanica interna del motore franco-tedesco sia sotto i riflettori.

Con la partenza di Londra, Parigi e Berlino hanno perso un forte alleato all’interno dell’UE, ovviamente su argomenti diversi. Per la Francia, la Gran Bretagna è stata utile nella misura in cui – a differenza della maggior parte dei paesi membri, Germania inclusa – comprendeva l’importanza cruciale di costruire capacità militari (anche se Londra lo considerava piuttosto all’interno della struttura della NATO) e che era ferocemente desiderosa di preservare il carattere intergovernativo delle politiche estere, di sicurezza e di difesa europee. Per i tedeschi, gli inglesi sono stati un prezioso freno, sempre pronti a bloccare qualsiasi iniziativa francese che mirasse ad emarginare la NATO o mettere in discussione i principi del libero scambio deregolamentato. A seguito della Brexit, questo comodo scudo scompare su entrambi i lati; Francia e Germania si trovano ora faccia a faccia.

È sempre più difficile negare che, dietro i grandi discorsi europeisti, i due cerchino di posizionarsi nel modo più vantaggioso possibile l’uno sull’altro. Parigi vorrebbe correggere la sopraffazione economica tedesca proponendo meccanismi di solidarietà finanziaria europea, sempre più collettivizzanti. Berlino, da parte sua, si sta sforzando di neutralizzare le risorse diplomatiche e militari francesi (come il seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o la superiorità nella tecnologia delle armi) spingendo, nell’UE, per una sempre maggiore integrazione in queste aree e sostenendo un passaggio delle decisioni a maggioranza qualificata. I due cercano di raccogliere intorno a loro quanti più alleati politici possibili, consapevoli delle rispettive debolezze.

La fine, ma la fine di cosa?

Chris Patten, ex commissario europeo per le relazioni esterne e rettore dell’Università di Oxford, ha prontamente ricordato un disegno della Chained Duck degli anni ’70 che mostrava un minuscolo Primo Ministro britannico, a letto, tra le braccia di una voluttuosa regina, Europa. Quest’ultimo, ovviamente seccato, gli disse: “Entra o esci, mio ​​caro Wilson. Ma smettila con questo ridicolo andirivieni ”. Con la Brexit, gli inglesi finalmente hanno obbedito e se ne sono andati, ma solo dopo più di quarant’anni. Inoltre, nel frattempo avevano in gran parte ridisegnato l’Europa striminzita. Come efficaci portatori dell’ideologia dominante degli ultimi decenni, sono riusciti a diluire il progetto al punto che, oggi, la stragrande maggioranza dei restanti Stati membri perseguirà la linea atlantista-neoliberista. O piuttosto lo avrebbero perseguito … se gli eventi non fossero stati di ostacolo.

Perché in questo periodo di cose ne stanno accadendo a livello internazionale. La pandemia del nuovo coronavirus ha inferto un colpo grave, persino fatale agli occhi di molti, a un dogma globalista-neoliberista che vacilla già da dieci anni. Chi meglio  nell’illustrarlo se non il prestigioso Financial Times di Londra, la Bibbia dei decisori europei, il cui giornale stesso nel suo editoriale dell’aprile 2020 ha sostenuto una rottura con gli orientamenti degli ultimi quattro decenni e ha chiesto un maggiore interventismo da parte dei governi, più ridistribuzione, più spesa statale a favore dei servizi pubblici. Sul fronte transatlantico, la presidenza di Donald Trump ha avuto un effetto rivelatore simile. Dietro i grandi consessi occidentali programmati a intervalli regolari, la realtà è sempre più evidente: alleanza o no, le relazioni sono principalmente determinate dai rapporti di forza tra gli Stati Uniti e l’Europa.

Ciò è generalmente vero anche per lo stato attuale delle relazioni internazionali. La riconfigurazione dei centri di gravità ha dissipato le illusioni sul trionfo universale, inevitabile, del modello liberale occidentale; ha riproposto il confronto tra grandi potenze. Ciò rivaluta, nell’Ue, “la dimensione politica” e “l’autonomia strategica”, le stesse caratteristiche che la concezione britannica avrebbe voluto scacciare una volta per tutte. È questa combinazione di sviluppi esterni (e non la Brexit) che probabilmente rimescolerà le carte in Europa. L’ex primo ministro britannico Harold Macmillan è stato intervistato da un giornalista alla fine degli anni ’50 su ciò che più influenza la politica del governo. La sua risposta: “Gli eventi, mio ​​caro ragazzo, gli eventi! “. Il dilemma dei 27 paesi dell’UE in questi giorni è se rispondere all’accelerazione degli eventi secondo il punto di vista dell’impasse britannico o preferire rilanciare il progetto dell’Europa politica. Ovviamente stanno facendo quello che sanno fare meglio: esitano.

Il testo completo, in ungherese, è disponibile sul sito Portfolio, cliccando qui .

https://hajnalka-vincze.com/list/notes_dactualite/591-le_brexit_camouflet_ou_cadeau_pour_leurope

fra  sprazzi di  strategia, nuovo Erostrato, vecchie ( e deleterie) fedeltà, di Massimo Morigi

 Governo Draghi e  lotta alla pandemia fra  sprazzi di  strategia, nuovo Erostrato, vecchie ( e deleterie) fedeltà e sottomissioni  e povertà dell’attuale sovranismo

 

Di Massimo Morigi

 

 

In data 15 marzo 2020 sul nostro blog veniva pubblicato  Emergenza Coronavirus. Un appello (http://italiaeilmondo.com/2020/03/15/emergenza-coronavirus_un-appello/, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20210109122918/http://italiaeilmondo.com/2020/03/15/emergenza-coronavirus_un-appello/), un manifesto programmatico rivolto alle migliori e più consapevoli forze del paese, inteso non solo ad individuare le contromisure specifiche per uscire dall’attuale emergenza pandemica ma anche a precisare quelle contromosse strategiche per eliminare gli atavici problemi strutturali del nostro paese e che la pandemia non aveva fatto altro che acuire. Così concludeva l’ Appello: «Il coronavirus stesso è diventato un veicolo ed uno strumento di confronto e conflitto geopolitico. Gli aiuti sono estemporanei, limitati al momento al contributo della sola Cina, per altro in apparenza responsabile della diffusione del virus, interessati e soprattutto del tutto inadeguati alla necessità. Occorrono una autorità decisionale, una gerarchia, un coordinamento di sforzi che possano garantire non solo l’assistenza sanitaria, la limitazione della diffusione di un virus ancora di fatto sconosciuto, l’ordine pubblico. Non basta. Devono provvedere a rappresentare realisticamente la situazione, a ricostruire un tessuto economico con promozioni, sollecitazioni, incentivi ed interventi diretti a ricostruire le filiere produttive necessarie a garantire nel miglior modo possibile le forniture di sussistenza e i materiali sanitari minimi necessari ad affrontare l’emergenza. La nazione è ancora ricca delle capacità e competenze professionali ed imprenditoriali necessarie; sono da motivare, incentivare e coordinare. Il Governo e buona parte dei vertici istituzionali purtroppo stanno rivelando, pur in una condizione di straordinaria emergenza, la loro inadeguatezza e la loro scarsa autonomia decisionale, la loro permeabilità alle pressioni esterne. Una incertezza deleteria solo in parte comprensibile in una condizione di emergenza inusuale. Una condizione suscettibile di sviluppi e tentazioni inquietanti e dirompenti se non corretta da una attribuzione chiara di responsabilità ed obbiettivi ad organismi direttamente preposti alla gestione della crisi e sotto la diretta responsabilità politica della massima autorità dello Stato. Ai giuristi il compito di definire l’ambito di intervento compatibile e alla massima istituzione di porre in atto le decisioni e le strutture organizzative.». Ora le prime mosse del governo Draghi che è subentrato  al governo degli scappati di casa nel combattere la pandemia sembrano prendere la direzione indicata un anno fa dal nostro appello. Vediamo succintamente di articolare il giudizio che allo stato non può che rimanere sospeso e che disegna uno scenario illuminato da sprazzi di strategia ma ottenebrato dalle ombre  di vecchie e deleterie fedeltà e sudditanze. Ovviamente ottimo che si voglia far intraprendere alla campagna vaccinale un radicale cambio di passo irrorando col più micidiale diserbante le ridicole e truffaldine primule e  affidando il compito a chi professionalmente è formato a gestire le emergenze (protezione civile ed esercito), e ancor meglio che  si abbia avuto il coraggio di licenziare anche brutalmente chi, nelle migliori delle ipotesi, si è dimostrato incapace, pasticcione ed arrogante (non si fa il nome non tanto per paura di querele ma perché il magliaro in questione, fosse solo per la sua incredibile pasticcioneria e supponenza,  meriterebbe la pena di Erostrato, che noi, in mancanza di meglio, siamo i primi ad irrogare). Bene anche che, contro il parere dei vari virologi da pollaio e/o da salotto televiso, si sia presa la decisione di guerra di “sparare” nell’immediato, un immediato che ha tutte le terribili potenzialità di un annichilimento totale delle residue capacità economico-sociali della nazione, tutti i vaccini Pfizer disponibili per riservarsi poi solo in un secondo tempo ancora da definire ma, vista la scarsità delle scorte di questo vaccino, non i tempi indicati nel protocollo di somministrazione, la seconda dose. Insomma, la guerra si fa con i soldati che si hanno a disposizione e che devono essere tutti impiegati in una mobilitazione totale nella presente situazione di incombente disastro e non con quelli sognati nei propri deliri di onnipotenza (o di supponenza o di vera e propria cialtrona e predatoria malafede) e l’irrorazione col diserbante agente arancio dei virtuali campi di primule non è altro che, come si sta vedendo, l’inizio di una vera e propria campagna militare che mobilita tutte le forze dello Stato e della società contro l’agente patogeno. Bene anche che si minacci le case farmaceutiche di produrre in proprio i vaccini, anche se queste minacce di per sé non rimediano nell’immediato alla carenza di vaccini (nell’immediato, perché in una tempistica appena un po’ più dilatata è evidente che la faccenda potrà essere risolta solo con una produzione vaccinale nazionale dei vaccini  e quindi in questa dimensione temporale la minaccia è tutt’altro che insensata) ma male che non si affermi espressamente che in questo caso, come per altro in tutti i casi dove è implicata la sicurezza nazionale, i diritti sui brevetti devono valere meno di niente  (lo ha detto  invece la Chiesa cattolica, vedi Avvenire all’URL https://www.avvenire.it/mondo/pagine/vaccini-e-brevetti, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20210227080751/https://www.avvenire.it/mondo/pagine/vaccini-e-brevetti, qualche volta la Chiesa cattolica, anche perché negli ultimi anni vilmente attaccata dalle massime organizzazioni internazionali che la vorrebbero annullare politicamente e spiritualmente in nome di un degradato dirittoumanismo e criminale e geneticamente modificato multiculturalismo da laboratorio, sembra trovare, anche se solo reattivamente e rapsodicamente,  il vecchio smalto temporalista…). Ma, infine, male, anzi malissimo, che non si voglia ricorrere a vaccini, come il russo Sputnik in primo luogo ed anche il Sinovac cinese, che possano anche dare solo l’impressione che l’Italia abbia anche seppur timidamente  intrapreso una nuova politica estera informata alla consapevolezza che la realtà  dello scenario internazionale è improntata ad un sempre maggiore (e conflittuale) multipolarismo e che quindi le vecchie appartenenze  ed alleanze se interpretate meccanicamente e non tenendo presente la nuova dinamica multipolare sono la sicura ricetta verso il disastro. E se da questo punto di vista, il nuovo governo non dà proprio alcuna rassicurazione (meglio non irritare il buon zio Biden …), basti vedere non solo il discorso alla Camera del nuovo presidente del Consiglio di una così stretta ortodossia europeista e filoatlantica da denotare una sorta di vera e propria volontaria rimozione dal suo orizzonte di senso degli scenari post ’89 ma anche tutto il suo curriculum che proprio su questa rimozione è stato con successo costruito, danno ancor meno fiducia le c.d. forze sovraniste italiane, le quali quelle rappresentate in Parlamento o hanno de facto abbonato i vecchi scenografici furori o non riescono, pur mantenendoli, di animarli con contenuti adeguati mentre quelle non rappresentate in Parlamento, pur non avendo formalmente retoricamente abbandonato la loro causa, in quanto a mancanza di concrete linee operative alla luce del nuovo governo e della rinnovata lotta antipandemica non hanno ugualmente saputo elaborare una adeguata strategia di risposta  e a livello politico e a livello tecnico-operativo sul fronte delle realistiche e militarmente conformate proposte per combattere il virus. Insomma si è sentita da parte di costoro, dentro o fuori dal Palazzo, esalare la pur minima idea in merito alla necessità di sospendere l’efficacia dei brevetti e/o della dotazione e/o formazione di un nuovo complesso  politico-militare-industrale autonomo e veramente sovranista, ci si passi il termine tutt’altro in sé spregevole ma molto meno apprezzabile nella versione dei suoi aedi,  per combattere non solo la presente pandemia e anche le future, ma anche tutte le terribili sfide che ci presenta il presente mondo multipolare, un mondo dove le vecchie appartenenze e soggezioni rischiano di essere letali per il nostro paese? Il nuovo governo ci dischiude, quindi, inediti e dinamici scenari, caratterizzati dall’inizio di nuovi ed efficaci approcci strategici che convivono con la riconferma, rese semmai ancora più dure e tetragone visto il curriculum e le alte capacità del nuovo presidente del Consiglio, delle vecchie fedeltà e sottomissioni. Un quadro altamente contraddittorio dove, purtroppo, il morente e già vecchio sovranismo italiano non ha più assolutamente nulla da dire. E se per ora la tesi e l’antitesi sembrano politicamente  affidate solo all’abile e capace  (ma anche pericolosissimo, in ultima istanza) nuovo venuto alla politique politicienne (ovviamente non alla politica intesa nel senso del vero e reale esercizio del potere, a meno che non si sia tanto babbei da ritenere che un protagonista per tanti anni delle maggiori istituzioni finanziarie italiane ed internazionali possa essere definito con la ridicola parola di tecnico), per l’antitesi dobbiamo ritornare al nostro Emergenza Coronavirus. Un appello  di cui si è detto  all’inizio. Forse non è molto, forse dal punto di vista di una coerente filosofia della prassi, ai bei concetti e alle giuste parole manca la carne  viva di quelle che un tempo si sarebbero dette le masse. Ma vogliamo solo ricordare che nella politica le cose vanno un po’ come in biologia. In entrambi i casi si tratta di dialettiche dai tempi molto lunghi e similmente alla dialettica pandemica (che fra l’altro una ingenua mentalità vorrebbe  ora risolta in pochi mesi dagli iniziali giusti provvedimenti del governo mentre si tratterà di una vicenda di ben più lunga pezza e ci auguriamo di tutto  cuore che il nuovo presidente del Consiglio sia perfettamente consapevole di questa elementare verità, anzi ne siamo sicuri: anche  da qui l’efficacia ed anche la pericolosità del nuovo capace inquilino di Palazzo Chigi) anche quella politica, ora rinnovata e resa ancor più tumultuosa e contraddittoria dalla prima, dispiegherà le sue evoluzioni su tempi molto lunghi e del tutto imprevedibili nei loro drammatici frutti. E noi in tutte queste future evoluzioni contiamo di esserci e non solo da spettatori e proprio per questo rinnoviamo con ancor maggior forza e determinazione  l’appello già fatto un anno or sono.

POPOLO, ELITE, DEMOCRAZIA, di Pierluigi Fagan

POPOLO, ELITE, DEMOCRAZIA. (Post pensante, quindi pesante) Il “populismo” era una espressione politica manifestatasi a cavallo tra XIX e XX secolo in Russia, negli Stati Uniti d’America e in periodi relativamente più recenti in Sud America. Le prime due manifestazioni politiche fotografavano una opposizione tra una vasta porzione di popolo, agricolo, contro i poteri dominanti del tempo, tempi in cu la composizione sociale era molto semplificata. Leggermente diversa la composizione sociale in Sud America, figlia del diverso corso storico di quel continente. Papa Francesco (che è argentino), ebbe a ricordare che secondo lui, populismo era anche quello di Hitler e del suo partito-movimento che s’impose durante le convulsioni finali della Repubblica di Weimar.
Ho sempre nutrito una infastidita diffidenza verso l’utilizzo recente di questa categoria, in quanto democratico radicale non ho mai capito la differenza tra populismo e demagogia, stante che un democratico sa molto bene cos’è la demagogia in quanto storica malattia degenerativa proprio della democrazia. Non solo la categoria è incerta ma la sua applicazione mi è sembrata molto a casaccio. AfD, FN, Vox, FdI, ad esempio, mi sembrano legittimi partiti di destra, non vedo cosa c’entri il populismo. Avranno la loro percentuale di inclinazione demagogica, ma in comune a molte altre forze politiche in questi tempi di “democrazia spettatoriale”. Non ho neanche mai capito cosa c’entrasse la Brexit col populismo. E’ stata una etichetta intrisa di giudizio negativo, applicata appunto un po’ a casaccio per delegittimare posizione politiche avversarie. Forse se ne può accettare l’utilizzo descrittivo nel caso polacco, ungherese e di Trump, in buona parte per la forma di qualche tempo fa nel caso M5S e Lega, ma sono tutti casi da meglio precisare.
Non è un caso che questa categoria politica nasca come fenomeno politico concreto tra fine XIX ed inizi XX secolo, assieme al suo riflesso teorico. Questa è la “Teoria delle élite” di Mosca-Pareto-Michels. Ma la teoria era descrittiva, il suo utilizzo in chiave prescrittiva che cioè preveda politicamente che possa esistere una possibile contrapposizione secca tra élite e popolo inteso come il 99% di Occupy Wall Street (non a caso fenomeno americano), è un passaggio non compreso in quella teoria. Forse compresa da Michels quando da socialdemocratico tedesco diventò simpatizzante del fascismo italiano della prima ora, ma il caso individuale non è riflesso nella teoria in quanto tale.
Se la contrapposizione élite vs popolo esiste in descrizione, vale anche in prescrizione? Cioè esiste una via politica concreta che opponga le élite al popolo? Direi proprio di no, tranne in un caso. Il caso che prevede questa contrapposizione è quello vagamente oppositivo, ma una opposizione che non sviluppa una sua visione alternativa del potere, solo di interpreti, è movimento di opinione non movimento politico. Quando da movimento di vaga opinione diventa movimento concretamente politico, rischia solo di sostituire una élite ad un’altra, una élite sfidante “buona” fintanto che si contrappone a quella cattiva, ma destinata a trasformarsi inevitabilmente in “cattiva” quando prenderà il ruolo di élite dominante a sua volta. Come faccia una intenzione populista a riportare il potere al popolo, non è mai detto perché diventerebbe una teoria della democrazia che nessuno si sogna minimamente di promuovere davvero.
Sono cinque i fattori che hanno favorito l’affermarsi di questa partizione “popolo vs élite”. Il primo è la torsione globalista-finanziaria del modo economico occidentale, un nuovo modo che di sua natura intrinseca premia moltissimo pochissimi e pochissimo moltissimi. Il secondo è il fondo di impotenza che questa partizione induce, chi sa oggi come contrastare e riformulare il sistema in modo che non produca questa asimmetria di poteri? Il terzo è il collasso del pensiero politico di sinistra occorso all’indomani del ’91. Questo ha lasciato il campo a due fazioni di destra, populiste si sono manifestate le destre conservatrici finalmente in grado di assurgere al ruolo di difendenti il “popolo” considerato un omogeneo post-classista (il concetto di classe, a destra, fa l’effetto che l’aglio fa ai vampiri), in opposizione a quelle liberal-globaliste tacciate di progressismo-elitista, ma non meno di destra anch’esse. Anche parti una volta di sinistra si sono accodate a questa “furia del dileguare” della dicotomia destra-sinistra propagandata dalle destre. Del resto quando il cervello va in pappa l’indistinto della “notte in cui tutte le vacche sono nere” diventa l’unico modo di far funzionare l’apparato interpretativo. Il quarto fattore è la sempre più pronunciata divergenza tra complessità obiettiva del mondo e nostre facoltà di interpretarla. Sintomo di questa divergenza è la fioritura di teorie del complotto che antropomorfizzano e semplificano processi impersonali complessi. Il quinto e più importante, è la crisi ormai decennale della democrazia rappresentativa occidentale. Se in origine la democrazia altro non è che l’assemblea decisionale di individui facenti parte della forma di vita associata, la democrazia rappresentativa ha aggruppato questi individui in partiti e la degenerazione populista ha ulteriormente aggruppato i comunque plurali partiti in una massa indistinta, il popolo. Quest’ultimo passaggio, oltre per la coazione degli altri quattro fattori, si è creato per degenerazione democratica decennale in favore della democrazia spettatoriale. Da spettatori a consumatori il passo è stato breve, la politica diventa una faccenda di marketing, il politico è diventato il prodotto, il voto l’atto d’acquisto. Questo filone degenerativo origina delle specifiche teorie elitiste attive sulla “maggioranza silenziosa” nate in America negli anni ’60.
Il tutto prospera oltreché sui fenomeni nel mondo, da un totale abbandono della teoria politica democratica. Una forma detta “democrazia” ce la siamo trovata fatta quando siamo nati, ormai la generazione che ha vissuto la non democrazia sta scomparendo fisicamente e con lei almeno il ricordo del prima. Se quella forma meritasse o meno il titolo di democrazia non l’abbiamo mai discusso davvero e fino in fondo, perché poco chiaro cosa s’intendesse per “democrazia” in quanto tale. In teoria politica occidentale abbiamo Machiavelli, Bodin, Hobbes, Locke, Montesquieu, il “popolo” sotto forma di Terzo Stato di Sieyès, Tocqueville, vari conservatori à la Burke, Marx, Lenin, a parte Rousseau e pur coi suoi limiti, nessuno era democratico. Le origini del sistema parlamentare sono elitiste, dalla Gloriosa rivoluzione inglese di fine XVII secolo che affonda le sue radici nelle assemblee baronali dei tempi della Magna Charta (inizio XIII secolo). Un sistema nato elitista non diventa democratico solo perché si amplia la base elettorale, è un problema strutturale. C’è anche chi con somma impudenza epistemica usa con nonchalance l’ossimoro della “democrazia di mercato” come fosse un concetto. Da quando un ossimoro può diventare un concetto? qui siamo alla bancarotta logica. Quel sistema è stato usato di malavoglia dai seguici del marxismo-leninismo, tacciato di “democrazia borghese” è stato usato in attesa di fare un qualche salto rivoluzionario. Dove il fatto rivoluzionario s’è compiuto come in Russia, la fase dei soviet è durata lo spazio di un mattino, la fretta rivoluzionaria e le pressioni anti-rivoluzionarie, hanno portato a forme oligarchiche teorizzate già nel concetto di avanguardia del popolo (autonominata tale come tutte le élite).
Insomma, ci siamo dichiarati democratici senza sapere bene cosa significasse, quindi abbiamo accettato il lungo e costante processo di degenerazione attiva della democrazia condotto da élite sapienti, ci siamo ritrovati in assetti sociali descrivibili come élite vs popolo, abbiamo preso una descrizione e l’abbiamo fatta diventare una prescrizione stabilendo che è il popolo a dover dominare e non l’élite, abbiamo aspiranti nuove élite che in nome del popolo vogliono soppiantare quelle vigenti come già successe dalla Rivoluzione francese in poi.
Noi non siamo mai stati democratici, inutile piangere ciò che non c’è mai stato, piangiamo una vaga e romantica intenzione mai diventata pratica politica.

Molto interessante, grazie

Pierluigi

. Noterella brevissima: il potere (qualsiasi potere) è sempre un differenziale di potenza, + potente/ – potente. Il potere ugualmente distribuito tra tutti non esiste né può esistere, e l “uno vale uno” del M5* ne è la dimostrazione empirica. Sintesi, le élites ci sono sempre state e ci saranno sempre. Di qui sorgono le questioni a) legittimazione delle – b) ampiezza delle – c) ricambio delle – d) inclusività delle – e) efficacia nella leadership/capacità di competere con altre – f) coesione valoriale tra – e popolo eccetera.

Roberto Buffagni

Dalla nascita delle società complesse cinquemila anni fa, le élite ci sono sempre state. Che da ciò tu tragga certezza che sempre ci saranno è un “non sequitur”.

Pierluigi Fagan

E’ una argomentazione probabilistica + una di logica formale che si basa sul fatto che il potere è sempre un differenziale di potenza, + potente/ – potente

Roberto Buffagni

L’induzione è sempre probabilistica. Ma le probabilità lasciano spazio a possibilità contrarie

Pierluigi Fagan

Infatti non dico che sia impossibile, mai dire mai. Mi sembra molto, molto improbabile, ma io sono un reazionario

Roberto Buffagni

A me interessava solo fa notare che una cosa storicamente rarissima e legata a condizioni molto speciali, non diventa probabile se nessuno si applica a pensarla per poi provarla a farla diventare possibile.

NB_Tratto da facebook

 

DA “IL COSTRUTTORE” , di Massimo Morigi

DA “IL COSTRUTTORE” DI GIUSEPPE GERMINARIO: FRA CORSI E RICORSI (SALAZARISTI) GOVERNO DRAGHI, POVERTÀ DEL SOVRANISMO E NUOVE PROSPETTIVE

 Di Massimo Morigi

 

        Scrive in data 17 febbraio 2021 Giuseppe Germinario sull’ “Italia e il Mondo” in Il costruttore (all’URL https://italiaeilmondo.com/2021/02/17/il-costruttore-di-giuseppe-germinario/, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20210220074947/https://italiaeilmondo.com/2021/02/17/il-costruttore-di-giuseppe-germinario/): «L’avvento di Mario Draghi sancisce il fallimento del movimento sovranista così come lo si è conosciuto e declamato in questi anni. Alla mancanza di una visione complessiva e di un programma credibile, all’assenza di una prospettiva tale da configurare nuovi schieramenti e nuovi sistemi di relazione in particolare tra i paesi europei che portassero ad una maggiore autonomia ed indipendenza politica, ha corrisposto il sopravvento surrettizio dell’opportunismo e del trasformismo, l’accodamento acritico all’atlantismo più codino. Di fatto una via obbligata per non scomparire o perire sotto i colpi della reazione. Del resto anche i movimenti “sovranisti” di riferimento in Europa Orientale hanno come riferimento nemmeno la NATO, ma l’americanismo più allineato condito con una dipendenza dai fondi europei tale da rendere fragili i loro aneliti, almeno sino a quando continueranno a coltivare la loro russofobia. È esattamente il contesto che ha determinato la situazione in cui si è cacciata la Lega, un partito sempre più espressione dei gruppi che rappresenta piuttosto che capace di sintesi e di indirizzo di una comunità.» Fra i vari e tutti ampiamente condivisibili ragionamenti sviluppati dall’articolo di Germinario (in estrema sintesi: governo Draghi come definitivo sigillo della tragica minorità culturale, geopolitica ed economica dell’Italia, classi dirigenti del paese del tutto inadeguate  non tanto a mostrare un minimo di autonomia rispetto ad input di eterodirezione provenienti dall’estero e in particolare dagli Stati uniti ma, appunto, ad essere funzionali a questi input e quindi necessità della loro sostituzione iniziando questo processo con Draghi, appunto) è proprio sulla minorità culturale e strategica della c.d. area sovranista che si impernia tutto il ragionamento complessivo svolto in Il costruttore, ed è su questa base che dovrà poggiare qualsiasi futuro discorso non diciamo ‘sovranista’ (parola ora che alla luce delle reazioni scomposte e non lucide dei ‘sovranisti’ alla grande novità politica del governo Draghi è ampiamente, ci si passi il termine, sputtanata, e non ci riferiamo soltanto ai “sovranisti” rappresentati in parlamento…) ma, diciamo, semplicemente strategico,  intendendo per ‘strategico’ tutto quel campo semantico e di azione politico-sociale ed  etico-politico del  grande realismo politico dei  pensatori italiani della filosofia della prassi che prende il via da Niccolò Machiavelli e che, riassunto  nell’Ottocento da Giuseppe Mazzini, sfocia nel Novecento in Giovanni Gentile ed Antonio Gramsci. Ad onor del vero, Giuseppe Germinario non è certo nuovo ad appassionate ma soprattutto lucide analisi sulle possibilità dell’Italia di una politica autonoma o, perlomeno, non servile. Da  Per un recupero delle prerogative dello stato nazionale italiano, per la salvaguardia dell’integrità del paese, verso una posizione di neutralità vigile (“L’Italia e il Mondo” in data 2 febbraio 2018, all’URL https://italiaeilmondo.com/2018/02/02/per-un-recupero-delle-prerogative-dello-stato-nazionale-italiano-per-la-salvaguardia-della-integrita-del-paese-verso-una-posizione-di-neutralita-vigile, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20210220113443/https://italiaeilmondo.com/2018/02/02/per-un-recupero-delle-prerogative-dello-stato-nazionale-italiano-per-la-salvaguardia-della-integrita-del-paese-verso-una-posizione-di-neutralita-vigile/ ), a Sovranità, sovranismo e sovranismi (“L’Italia e il Mondo”  in data 23 settembre 2018, all’URL https://italiaeilmondo.com/2018/09/23/sovranita-sovranismo-e-sovranismi-di-giuseppe-germinario, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20210215214828/https://italiaeilmondo.com/2018/09/23/sovranita-sovranismo-e-sovranismi-di-giuseppe-germinario/), a  Sovranismi limitati (in “L’Italia e il Mondo”, in data  25 novembre 2019, all’URL https://italiaeilmondo.com/2019/11/25/sovranismi-limitati-di-giuseppe-germinario/, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20210201090624/http://italiaeilmondo.com/2019/11/25/sovranismi-limitati-di-giuseppe-germinario/), per finire, appunto, con il contributo oggetto della presente comunicazione, tutto il pensiero di Germinario si snoda lungo una linea di saldo realismo, dove le critiche, sempre  asprissime e tranchant, sulle responsabilità delle condizioni del nostro paese, sono dirette, ancor prima che alle classi dirigenti espressamente deputate a mantenere lo stato di servilismo in qui versa l’Italia, contro coloro che dovrebbero rappresentare una credibile alternativa a questo stato di cose ma che, o per loro inguaribile insipienza o per volgare e scientemente praticata vuota demagogia, sono i principali nemici per cominciare ad uscire dal vile stato di soggezione e sottomissione dell’Italia iniziato nel secondo dopoguerra e ora giunto a completa e razionale maturazione attraverso il governo Draghi (un drastico salto di qualità  nell’esecuzione dei compiti di servilismo che fra l’altro, ci dice Germinario e noi condividiamo completamente, è un cambiamento che  sta per essere messo in atto  da una persona seria e capace, Mario Draghi appunto, e quindi,  per Germinario ed anche per  noi marxianamente ragionando, del tutto positivo perché potenzialmente foriero di esplosione di contraddizioni che il precedenti governanti fantoccio  sono riusciti, questo il loro grande “merito” storico,  a sopire ed imbastardire,  un sopimento ed imbastardimento dove la vittima sacrificale è il popolo italiano che culturalmente ed antropologicamente  ha perso, come s’è visto anche nell’ultima emergenza del Coronavirus, ogni qualsivoglia élan vitale, strategico e confllittuale).

        Recupero, quindi, di spirito e slancio combattivo favorito dalle esplosioni delle contraddizioni colpevolmente sopite ed avvelenate dalle classi dirigenti ormai messe da parte con l’ultima operazione di palazzo suggellata dalla definitiva intronizzazione di  Mario Draghi (operazione che, fra l’altro,  richiama nelle sue dinamiche, più che la miserrima vicenda dell’assunzione del ruolo di primo ministro del “tecnico” Mario Monti,   la chiamata al potere del dittatore portoghese António de Oliveira Salazar, anch’esso uomo come Draghi di grandissima qualità e chiamato al capezzale di una repubblica portoghese morente e alla quale il futuro dittatore diede il  giusto ed inevitabile colpo di grazia. Come si dice, corsi e ricorsi …) sono le possibilità che ci offre questa nuova fase politica, possibilità non solo analizzate nell’articolo di Germinario ma per le quali viene offerto nel suo articolo la via per renderle effettivamente possibili ed operative, il rifiuto cioè antropologico e  culturale di tutti quei vecchi (o meglio: precocemente invecchiati) tromboni che fino ad oggi hanno  preteso di interpretare il rifiuto a questo stato di cose ma che,  lo ripetiamo, per insipienza culturale o per lucido calcolo (ad ognuno attribuire l’una o l’altro tipo di  colpa ai propri passati beniamini, ognuno è amante tradito da un proprio specifico incantatore di serpenti e si lascia ad ognuno  la libertà di pubblicamente comminare loro  il tipo di giudizio che in cuor proprio si sente di formulare) hanno fatto fallire clamorosamente. Giusta la via indicata da Germinario e come si dice, il dibattito è aperto (ma, ancor meglio, parafrasando il titolo di quest’ultimo contributo di Germinario, da ora è aperta l’azione per nuove azioni di costruzione cultural-politiche), permettendosi lo scrivente di aggiungere che per le nuove idee e linee d’azione non bisogna immaginare futuri salvatori ma risalire, anche se occhio criticamente educato, a quanto la storia del nostro paese ha saputo egregiamente – anche se tragicamente ed anche contradditoriamente  – produrre. Ed è appunto questa mia considerazione finale, il mio contributo sul percorso di (ri)costruzione ora  come sempre brillantemente  indicato da Germinario.

 

LE MANI SPORCHE E LA LEGA, di Teodoro Klitsche de la Grange

LE MANI SPORCHE E LA LEGA

Le recenti vicende della crisi politica hanno provocato il solito rosario di spiegazioni basate su ideali, coerenza, ecc. ecc., aventi tutte in comune: a) la funzione propagandistica, di favorire gli amici (globalsinistri) e denigrare i nemici (sovrandestri) b) ciò che più interessa, usando argomenti di contorno, secondari, ed eliminando (perché scomodi e spesso estranei al loro modo di pensare) quelli principali.

Utilizzando la “cassetta degli attrezzi” del realismo politico l’interpretazione delle mosse degli attori in gioco è diversa.

Il primo caso è la “conversione” europeista di Salvini onde – secondo i media mainstream lo stesso sarebbe: un voltagabbana traditore e/o sconfitto da Draghi e dalle panzerdivisionen europee.

In realtà la prima regolarità della politica è la ricerca del potere (e del dominio), e la conversione della Lega deve valutarsi alla luce di quella regolarità assai più della quantità (e qualità) degli improperi anti-europei lanciati da Salvini e rilanciati dagli euroglobalisti (per lo più dai loro araldi); anche perché i nemici sono sì quelli con cui si conduce la guerra, ma anche coloro con cui si fa la pace.

All’uopo è bene ricordare il dramma di Sartre “les Mains sales”, in cui il protagonista, estremista dissidente uccide il segretario del partito comunista Hoederer perché ha realizzato un accordo con il regime collaborazionista filotedesco, contro il quale comunisti e i loro alleati conducevano una guerra civile. La scena del negoziato tra i leaders è un insieme di topos realistici a favore del capovolgimento di fronte, la spartizione del potere e i fattori di potenza.

Senza alcun problema Hoederer propone un accordo – accettato dal nemico, il capo dei filonazisti, ma rifiutato dal leader degli alleati borghesi – nel quale il partito comunista ha un ruolo preponderante nel nuovo organo di governo (3 membri su 6); la ragione di ciò è l’avanzata delle armate sovietiche, e la necessità dei conservatori d’ingraziarseli, nonché quella di tutti di far cessare le lotte interne e la guerra (esterna). Come dice il Principe, capo dei filonazisti “è necessaria una visione realistica della situazione”; Karsky, il capo degli antinazisti non comunisti, che ricorre (anche) ad argomenti moralistici, rimane isolato e perdente.

Di accordi come quello rappresentato nel dramma da Sartre, nella storia ne sono stati realizzati infiniti, anche in una guerra fortemente “ideologizzata” come la seconda guerra mondiale.

Ma perché in un contesto istituzionale come quello italiano, la partecipazione al governo, anche con forze opposte, ha tale importanza, tenuto conto che la Lega rischia di pagare un prezzo in termini elettorali alla coerenza della Meloni? Qua occorre ricorrere a due pensatori del ‘900. Il primo, Carl Schmitt sostiene che in una Repubblica parlamentare (com’è l’Italia) “Chi detiene la maggioranza fa anche le leggi ed inoltre è in grado di far rispettare le leggi che esso stesso ha fatto. Ma la cosa più importante è che il monopolio di far valere le leggi in vigore gli conferisce il possesso legale degli strumenti di potere statali e di conseguenza anche un potere politico assai più ampio della semplice «validità» delle norme”. Il giurista di Plettemberg chiama ciò “un plusvalore politico addizionale che si aggiunge al potere meramente normativistico-legale: un premio super legale al possesso legale del potere legale ed alla conquista della maggioranza”.

Entrando nel governo la Lega (e Forza Italia) ottengono due vantaggi: fruire di detto “plusvalore” e sottrarne (una parte) agli avversari.

E qua occorre ricordare Gramsci, per cui “lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catene di fortezze e casematte”: ma in uno Stato amministrativo, “sociale”, distributivo e soprattutto ben più esteso di quello liberale di un secolo fa, una parte di quelle casematte, che il pensatore sardo vedeva nella società civile, sono ora collocate (e dirette) nel e dal settore pubblico. Occupare – almeno in parte – la direzione di (gran parte) di quelle casematte è un passo – più che notevole – verso il potere.

D’altra parte anche se Draghi è, per storia e curriculum personale tutt’altro che un sovran-popul-identitario, ma un euroglobalista, lo stesso realismo consiglia: a) di tener conto che la maggioranza del popolo italiano è dall’altra parte b) che seguire una politica che non ne tenga conto è indebolire il governo sia in termini di consenso che di potenza. I cattivi risultati ottenuti dai governi italiani degli ultimi dieci anni con l’Europa (e non solo) sono stati determinati – in buona parte – dal fatto che i poteri “forti” (statali e non) sapevano di avere a che fare con governanti deboli, carenti di consenso e anche perciò poco affidabili. Utilizzabili nell’immediato, ma controproducenti per gli sponsor nel futuro.

Il governo Monti, con l’enorme e rapido aumento dell’opposizione anti-sistema, l’ha provato.

Pensare che Draghi (e i leaders europei) voglia ripetere quel colossale errore, è far torto alla prudenza e alle indubbie capacità dell’ex capo della BCE. Certo, il futuro è incerto e, come sempre, saranno i risultati a dire se la manovra è riuscita o meno. Ma è sicuramente un errore giudicare vinta o persa la partita prima che l’arbitro ne fischi l’inizio, sulla base, magari, del colore delle magliette dei giocatori. Così si fa tifo da stadio, non analisi politica.

Teodoro Klitsche de la Grange

Inascoltabile, di Vincenzo Cucinotta

C’è in questo mondo di politicanti e di media che volentieri li assecondano qualcosa che proprio non si può stare a sentire.
L’ultima indegnità che dobbiamo sopportarci da costoro è adesso il confronto tra il presente e i governi del primissimo dopoguerra.
Costoro dicono che essi stanno assieme nel governo Draghi in fieri come DC, liberali socialisti e comunisti stavano assieme nel governo guidato da De Gasperi.
Sarebbe lo stesso che io dicessi di essere come Claudia Schiffer perchè ho due occhi come lei, dite voi se non suona osceno questo confronto.
Draghi è venuto a commissionarli, possibile che ci sia chi non l’abbia ancora capito, per questo non credo, a differenza di persone che in genere la pensano similmente a me, che il problema sia Draghi, basti riflettere a cosa fosse il governo Conte.
Il primo governo Conte, quello gialloverde, costituiva un esperimento politico con caratteri interessanti in sé se non altro perchè permetteva di vedere quale svolta Salvini avesse impresso alla Lega, e nello stesso tempo permetteva di gettare luce su una realtà misteriosa come i 5S che nel frattempo erano diventati la forza politica di maggioranza relativa. Per quelli come me che vedevano nella falsa dicotomia destra-sinistra del ventennio che potremmo chiamare berlusconiano la pietosa menzogna coltivata per monopolizzare la politica da parte di due schieramenti che sui punti fondamentali camminavano invece gomito a gomito, si intravedeva una via per uscire da questa gabbia con questa inedita e a quel tempo imprevedibile alleanza.
La infausta svolta dell’agosto 2019 normalizza la politica italiana e rimette al centro del quadro politico italiano il PD che decide di allearsi con i 5S ma ancora una volta di rimessa.
Se voi ci pensate, a partire dalla discesa in campo di Berlusconi, il PD si è fatto concretamente veicolo passivo della UE, dei suoi paesi leader, e di tutta l’aggregato di potere sovranazionale che essa esprime. Per diventare appetibile agli elettori, il PD sfrutta abilmente un antiberlusconismo molto ostentato ma di fatto inconsistente.
Oggi, similmente, il PD prende ancora ordini da Bruxelles, e decide di cedere il ruolo di protagonista a quello stesso Conte che come dicevo altrove rappresenta la personificazione del trasformismo. Non è una scelta politica che può fruttare al PD, ma come si fa ad inventarsi una linea politica di cui si è scelto di fare a meno ormai da un quarto di secolo? Così, la strategia diventa quella di creare un super-PD inglobando nel suo corpaccione i 5S ormai allo sbando, in corso avanzato di balcanizzazione, e ciò che resta di LEU, sempre più inutile, soprattutto dopo la scissione di Renzi che ha tolto dal PD l’elemento più indigesto a quell’area.
Salvini è da una parte un politico sprovveduto per l’infausta svolta del Papeete, ma anche scalognato perchè è incappato nella pandemia. La pandemia ha colpito al cuore la Lega mettendone a nudo la sostanziale divisone interna e la provvisorietà di ogni segno di opposizione, vuoi verso la UE che verso i temi fondamentali, vuoi verso le misure anti-COVID sollevavano e che hanno valenza ben più ampia della contingente vicenda di tipo sanitario.
Incapaci di costruire un percorso di uscita dalla UE, incapaci di resistere alla narrazione mediatica della vicenda COVID, tutti i partiti sono stati messi a nudo nella loro funzione ormai marginale di copertura formale delle decisioni prese altrove e di strumenti ormai di convogliamento del consenso elettorale attraverso più o meno abili slogan, senza essere più portatori di reali alternative né politiche, né tanto meno ideologiche, uno strumento come tanti altri attraverso i quali un potere sempre più anonimo e oligarchico sta uccidendo ogni parvenza di democrazia nel nostro paese.
Chi oggi si allarma per Draghi, scambia insomma il segnale ormai visibile della crisi profonda e forse irreversibile della democrazia con la stessa crisi che data da ben più tempo e che lungo il 2020 si è assestata fermamente con la vicenda COVID. Dico irreversibile perchè quella crisi si basa su una scelta anch’essa ormai consolidatasi di superamento della costituzione, cioè della sua messa da parte ormai ridotta a un valore puramente simbolico. L’afasia del sistema politico italiano, aggravata dall’incapacità dell’organizzazione di nuove forze e di nuovi progetti politici, è la vera conferma che la democrazia è ormai in stato avanzato di coma.
Per capire come Draghi non sia il punto dirimente, basti riflettere sul fatto che egli è chiamato a sostituire Conte: davvero è questo passaggio che ci allarma, Conte quindi ci garantiva?
Tornando al tema iniziale, come si fa a confrontare una situazione di dichiarazione di morte del sistema politico italiano, con lo sforzo di lavorare assieme a un comune progetto partendo da ipotesi politiche in sé divergenti?
La situazione è esattamente opposta, allora il governo comune serviva a mettere da parte le differenze che costituivano la fonte dei problemi, oggi la fonte die problemi è la conformità totale, l’assenza di progetti e la pura e semplice funzione di gestione al servizio di poteri altri e lontani.
NB_tratto da facebook

Governo Draghi, sintesi_di Roberto Buffagni

Governo Draghi, sintesi.
Il campo anti-sistemico (populista/sovranista/nazionalista) ha tentato e fallito il superamento della contrapposizione destra/sinistra (governo gialloverde) in conformità alla comune designazione della UE come “nemico principale”.
Oggi riesce a superare la contrapposizione destra/sinistra il campo sistemico (euroatlantico/mondialista), e ottiene una vittoria strategica di prima grandezza: integra in forma subalterna la principale forza politica anti-sistemica italiana (Nuova Lega) e predispone un contenitore/ghetto per le lunatic fringes anti-sistemiche (Fd’I). Fd’I è il contenitore/ghetto ideale delle forze anti-sistemiche perché è una forza politica erede del fascismo, che con il suo semplice rifiuto di integrarsi nella maggioranza sistemica la definisce e legittima, sul piano dei valori, quale riedizione/riattivazione dell’ arco costituzionale antifascista.
Qualcosa di analogo era già avvenuto in Francia con la riuscita dell’esperimento Macron, brillantemente improvvisato per scongiurare il pericolo Front national nelle presidenziali 2016; ma il governo Draghi ne è la forma compiuta e integrale.
Come sempre avviene, la vittoria del campo sistemico consegue agli errori (catastrofici) e alle insufficienze anzitutto culturali (gravi) del campo anti-sistemico; e ovviamente alla bravura degli strateghi del campo vittorioso.
I problemi che hanno portato alla nascita di un campo anti-sistemico in tutto l’Occidente, però, non spariscono, sebbene per ora non trovino una sintesi culturale e politica adeguata.

POPOLO VS. DEMOCRAZIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

POPOLO VS. DEMOCRAZIA

L’“insorgenza” del 6 gennaio a Washington ripropone una questione sui poteri del popolo in una democrazia.

Problema antico. Già Tucidide nel riportare il celebre discorso di Pericle per i caduti della guerra del Peloponneso, narra che il demagogo fa un elenco di diritti, doveri, funzioni e sul modo in cui il “popolo” ateniese le esercita, per connotare il concetto di democrazia dell’Atene di (circa) duemilacinquecento anni fa: la democrazia ha tale nome – diceva Pericle “perché la città è affidata non a una oligarchia, ma a una più vasta cerchia di cittadini; le leggi sono uguali per tutti (isonomia); tutti hanno diritto di esercitare le cariche pubbliche (accesso); la povertà non è un limite a ciò”. La difesa di tutti (la guerra) è dovere di ogni cittadino; morire in guerra rivela il valore dell’uomo1.

Così Polibio, evidenziando l’elemento democratico della Costituzione romana (repubblicana) ne elencava i poteri esercitati dal popolo2.

Cosa succede quando è introdotto il concetto di sovrano? Bodin riferendosi al sovrano (per un francese del ‘500, il re), ne delinea due connotati decisivi: che il sovrano è tale perché la sua volontà non dipende da altri e perché è sopra il diritto, almeno nel caso d’eccezione. Nella situazione eccezionale il sovrano decide se e come infrangere il diritto, vigente in quella normale. Poi elenca i poteri che competono al sovrano per essere tale anche nei frangenti normali. Il giurista francese li denomina “les vraies marques de la souvreraineté” (nominare le alte cariche, decidere la pace e la guerra, dare la grazia e così via)3; e ritiene essere i connotati che servono ad identificare, tra gli organi pubblici, quello sovrano4.

Gli elementi decisivi (indipendenza da altri e potere non limitato dal diritto) indicati da Bodin successivamente erano spesso ripetuti. Anche Thomas Hobbes, dopo aver argomentato sulla istituzione del corpo politico – e così del Sovrano – enumerava i poteri che allo stesso competono per esercitare la funzione (di protezione), in modo simile a quanto scriveva Bodin5.

Carré de Malberg scriveva che la nozione della sovranità non ha che un significato negativo: e questa negatività è soprattutto data dalla possibilità per il sovrano di non essere obbligato a dover riconoscere volontà allo stesso superiori né limiti inderogabili6.

Max von Seydel sottolinea in particolar modo che per il concetto di Stato uno dei requisiti essenziali è d’esser “dominato da un supremo volere… lo Stato non è affatto il volere sovrano, né possiede il volere sovrano, anzi, è diverso da esso. Il volere sovrano è sopra lo Stato, e la soggezione ad esso dà al territorio e al popolo la qualità di Stato7. Onde è un errore logico confondere dominatore e dominato, concepirlo come da von Stein quale “tutto unico, come risultante dell’oggetto del dominio (Stato) e dell’investito del dominio. Quest’ultimo concetto si trova del resto già in Grozio: Imperium, quod in rege ut in capite, in populo manet ut in toto, cuius pars est caput. E questo è erroneo per ciò, che il sovrano essendo quello che effettua l’unità, non può esso stesso insieme con lo Stato formare l’unità”. Ne consegue che “Il volere sovrano è quindi sempre un volere sopra lo Stato, non un volere dello Stato, e nel disconoscimento di questo rapporto sta l’errore di rappresentare lo Stato come personalità”. D’altra parte nella rivoluzione francese Sieyès aveva già collegato il sovrano alla volontà assoluta, creatrice di forme politiche: il pouvoir constituant, dove il rapporto tra volontà nazionale e diritto costituito corrisponde a quello che avrebbe, circa un secolo dopo (della sovranità), scritto von Seydel «“La nazione – scrive infatti Sieyès – è preesistente a tutto, è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre conforme alla legge, è la legge stessa. Prima e sopra di essa non c’è che il diritto naturale”. Poco più avanti prosegue: “Sarebbe ridicolo supporre la nazione vincolata anch’essa dalle modalità e dalla Costituzione cui ha assoggettato i propri mandatari. Se per diventare una nazione le fosse stata necessaria una forma positiva essa non sarebbe diritto naturale […]. La nazione è tutto ciò che è in grado di essere per il solo fatto di esistere. Non dipende dalla sua volontà attribuirsi più diritti di quanti ne abbia […]. Alla volontà nazionale basta (invece) soltanto la propria realtà per essere sempre legittima. Essa è la fonte di ogni legalità8.

Con questo, l’abate confermava e sviluppava quanto scriveva Rousseau che “Il Sovrano, per il solo fatto di essere, è sempre tutto ciò che deve essere9

Tuttavia, quale conseguenza del dominio sullo Stato, il Sovrano esercita un’attività nello Stato: legislazione, amministrazione, giurisdizione sono le branche (i poteri costituiti) in cui si articola (e si esercita) la sovranità attraverso decisioni e nomine.

Anche Carl Schmitt distingue il popolo “davanti” e “al di sopra” della Costituzione e il popolo “entro” la Costituzione nell’esercizio dei poteri regolati con leggi costituzionali10.

Senza voler ripetere quel che è affermato da tanti, è necessario ricordare che, se pure il concetto di sovrano è stato per così dire spersonalizzato, in particolare nella formula della sovranità dello Stato, è sempre esistita l’opinione che il popolo abbia, quanto meno laddove eserciti il pouvoir constituant, il potere di fare tutto, perché è “ciò che deve essere per il solo fatto di esistere”: e ciò anche per creare, modificare, trasformare la forma politica (Sieyès). Accanto al popolo che elegge, vota ai referendum, esercita l’iniziativa legislativa popolare, esiste un popolo sovrano perché sovrasta l’ordinamento. Ossia che è potere costituente, e non solo partecipazione/esercizio a e di poteri costituiti.

Il problema è come il popolo possa agire se non è potere costituito “in forma”. Scrive Matteucci a tale proposito che “il potere costituente del popolo conosce ormai consolidate procedure (assemblee ad hoc, ratifiche attraverso un referendum), capaci di garantire che il nuovo ordine corrisponda alla volontà popolare…il potere costituente del popolo è una sintesi di potere e diritto, di essere e dover essere, di azione e consenso, perché basa la creazione della nuova società sul iuris consensu11. Al contrario di tanti, lo studioso scomparso non vede nel potere costituente del popolo una negazione della democrazia ma, a determinate condizioni, la sua espressione culminante. Va da se che la contraria opinione non spiega la trasformazione (di fatto) dell’ordinamento e, al limite, finisce anche per contestarne il carattere democratico, pur se rispettoso delle procedure sì straordinarie (extra legem) ma rispettose della volontà popolare.

Accanto a queste c’è anche il carattere pubblico, sempre connesso al popolo12, e che ne fa, se riunito, una “grandezza politica”13; ma la cui disamina eccede i limiti di questo breve scritto14.

4. Limitandoci quindi al popolo dentro” la Costituzione, occorre concludere valutando quale sia la pratica “democratica” di coloro che sostengono il popolo solo come agente “in forma”, titolare della sovranità ma che la deve esercitare “nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Quanto all’essere il popolo “al di sopra” della costituzione nelle dichiarazioni di esponenti politici e culturali dell’establishment non se ne parla se non per lanciare anatemi; sulla base (prevalente) che tale concezione è contraria alla democrazia liberale. I media mainstream, disciplinati e allineati (come l’intendenza) seguono.

Resterebbe al popolo, per essere considerato (rispettosamente) costituzionale, legalitario e disciplinato, almeno di agire “dentro” la Costituzione ad esercitare quei poteri, e determinare così coerenti comportamenti degli organi pubblici, che la Costituzione gli attribuisce.

Ma anche questo pare, ai “democratici” (anti-populisti) eccessivo e inopportuno.

Alcuni (tra i tanti esempi che si potrebbero fare) lo provano.

Quando il popolo inglese stava per votare nel referendum consultivo sulla Brexit, i commenti dei demo-globalisti erano prossimi al razzismo bio-etico: il popolo è inferiore, culturalmente, intellettualmente e moralmente e quindi non deve votare su argomenti che solo i “tecnici” (leggi le èlite) possono capire e valutare.

Il sen. Monti si distinse (pochi giorni prima che gli inglesi dessero la (decisa) delusione ai globalisti), sia per aver rimproverato duramente Cameron per aver indetto il referendum, sia per essersi rallegrato che la costituzione italiana sottraesse alla decisione popolare la materia dei trattati internazionali. Bisogna dar atto al sen. Monti di essere coerente nella vita e nelle idee: in effetti non risulta sia stato mai eletto dal popolo (quindi dal basso) né in Parlamento né altrove; ogni incarico l’ha ottenuto per nomina (dall’alto). Per cui si capisce il motivo della considerazione che nutre dei cittadini elettori.

Del pari non fu chiesto affatto agli elettori italiani nel 2011 se gradivano che il governo Berlusconi, il quale aveva ottenuto nel 2008 la maggioranza degli eletti in Parlamento, dovesse essere sostituito, come fu, dal Governo Monti, così nuovo Premier, sponsorizzato (anche) da leaders stranieri, e mai eletto, forse neppure in un condominio. Si disse (e poi si ripeté) che la fiducia “la davano i mercati”. Ma in una democrazia consenso e fiducia (non tanto in senso tecnico-parlamentare, quanto d’integrazione, consonanza, corrispondenza tra governanti e governati) devono esistere tra popolo e governo indipendentemente dai mercati. E non solo formalmente: perché formalmente il Governo Monti ebbe la fiducia del Parlamento: ma il seguito con i “flop” elettorali di qualsiasi cosa (coalizione, partito, lista) richiamasse Monti e il suo governo, ne ha sempre confermato i livelli modestissimi di gradimento.

Anche i governi successivi a quello di Monti (tranne – in parte – il Conte 1) non hanno rispettato il nesso, anche indiretto, tra decisione dei cittadini e formazione del governo. All’alba della seconda repubblica si sosteneva che la legge elettorale maggioritaria a quello (soprattutto) serviva. Il seguito della storia dimostra che non era(è) sufficiente. Comunque nessun Presidente del consiglio, da Monti in poi, è quello plebiscitato (e quindi gradito) dagli elettori. Quello che non doveva essere, o al massimo essere eccezione, è diventata la regola, una “convenzione costituzionale”. Neppure la conformità all’orientamento dell’opinione pubblica, che è, in qualche misura (anche se modesta) il surrogato dell’Agorà è stata osservata. Ad esempio il Governo Conte-bis, nato dal patto tra due partiti aventi la maggioranza parlamentare, e teoricamente la maggiormente dei suffragi dei votanti alle elezioni politiche del 2018 (circa il 20% il PD e oltre il 30% il M5S), l’aveva persa, già prima di nascere (v. elezioni europee 2019). Più che i numeri dei sondaggi (comunque registranti un consenso ai partiti di governo intorno al 40%, mentre l’opposizione di centrodestra è di circa 8-10 punti superiore) contano gli esiti delle elezioni regionali, per lo più perse dai partiti di governo, Ma la nuova situazione non ha cambiato alcunché: con la votazione di fiducia al Senato del 19 gennaio 2021 l’ultima delle preoccupazioni dell’establishment è stata lo iato tra volontà popolare da un lato e maggioranza parlamentare e governo, dall’altro. Quanto al rispetto della volontà popolare nei referendum, c’è una letteratura sulla di essa “elusione” con la legislazione sostitutiva di quella abrogata.

L’idem sentire de re publica, il consenso, la legittimità, l’integrazione sono necessari per produrre e mantenere l’unità e la capacità di agire e durare di qualsiasi regime politico. Come scriveva Smend, a proposito della costituzione “La costituzione non è semplicemente uno statuto organizzativo… Essa è nello stesso tempo un ordine vitale che comprende anche il processo di vita politico fondamentale dello Stato, in cui esso diviene reale attraverso l’inclusione continua e dinamica del singolo”; che si realizza anche attraverso diversi “processi della vita costituzionale” il cui senso è anche “stimolare il processo di vita politico, la formazione di opinioni, partiti e maggioranze, la coscienza politica complessiva, l’opinione pubblica, la realtà politica attiva della comunità in generale”15.

Smend vede una “crisi di realtà” dove venga meno l’adesione dei governati e la loro partecipazione al “gioco politico costituzionale”; questo in qualsiasi regime politico. A ratione majus in una democrazia, dove la sovranità del popolo è già nel nome (potere del popolo). Se poi nei fatti questo non c’è, non significa che perciò il popolo è governato da sofarchi, santi, angeli, oggi da tecnici, ma solo che non lo è – o non lo è abbastanza – dalla volontà popolare. Non vuol dire che c’è qualità, cultura, intelligenza al governo, ma solo che c’è maggiore ipocrisia. A decretare che un governo è capace sono i risultati non i titoli (o presunti tali). Purtroppo i risultati, ancorché mediaticamente manipolati anch’essi, hanno comunque l’handicap di poter essere giudicati solo a posteriori.

Come il suddetto governo tecnico italiano, che nato manifestando l’intenzione di ridurre il debito, è stato quello che più l’ha aumentato. Con la logica conclusione che il popolo italiano ne ha tratto in termini di consenso (a posteriori). Non avendo interpellato il popolo prima di fare il governo, questo ne ha almeno tenuto conto dopo.

In conclusione – e in termini di realismo politico, il popolo può sbagliare, come possono sbagliare i governi: l’infallibilità è un attributo del Papa (e solo se parla ex cathedra). Così come scritto nel Federalista, nei governati sono angeli, né lo sono i governanti. Quel che tuttavia è sicuro è che per aversi un governo in grado di governare, e al minor costo possibile16 è necessario che abbia (quanto più possibile) consenso e fiducia dei governati.

Cosa quanto mai difficile se i comportamenti dei governanti non sono conformi alle opinioni dei governati.

Se invece, questo non c’è, l’èlite di governo diventa un’ “isola” socio-politica17, con un solco orizzontale che la divide dal resto della comunità, rendendo difficile, un rapporto che non sia quello di mero comando/obbedienza.

Quello di cui scriveva il citato R. Smend e tanti altri. Ma un governo che si regge solo sul comando e sulla legalità delle procedure è un governo che cammina su una gamba sola: è un governo debole. Alla prima seria crisi rischia di andare all’aria. Ancor più e come gli italiani hanno potuto constatare soprattutto negli ultimi decenni, ma poche possibilità di far valere la propria volontà, ma tante di dover subire quella degli altri, poteri forti o Stati che siano. Ai quali perciò i governi deboli sono i più graditi.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 Oltre a molte altre consuetudini, di carattere sociale più che politico v. La guerra nel Peloponneso, II 35-46.

2 V. Le storie, Lib. VI, cap. 14, anche se l’elenco dello storico non è esauriente.

3 v. Six livres de la Rèpublique, I, cap. X.

4 Op. cit., trad. it, di M. Isnardi Parenti, Torino rist. 1988, p. 480.

5 v. Elements of law natural and politics, trad. it. di A. Pacchi, Firenze 1968, pp. 169 ss.; De cive trad. it. di T. Magri, Roma 1981, pp 132 ss.

6 v. R. Carré de Malberg Contribution à la théorie général de l’État, Paris 1920, Tome 1, p. 70 ss.

7 E prosegue: “Essi si chiamano Stato soltanto se sono dominati, analogamente come si chiama proprietà la cosa solo quando ha un padrone. È quindi un modo di esprimersi affatto riprovevole scientificamente quello che pone alla pari lo Stato e il volere sovrano, e attribuisce allo Stato un volere. Stato e sovrano sono diversi, così come proprietà e proprietario…”

8 I corsivi sono miei.

9 v. Du contrat social, Lib. I, cap. 7 (il corsivo è mio).

10 v. «Il popolo è, nella democrazia, soggetto del potere costituente. Secondo la concezione democratica ogni costituzione, anche nel suo elemento proprio dello Stato di diritto, si basa sulla concreta decisione politica del popolo capace di agire politicamente. Ogni costituzione democratica presuppone un simile popolo capace di agire» e subito dopo «Il popolo “entro” la costituzione nell’esercizio dei poteri regolati con legge costituzionale. Nel quadro e sulla base di una costituzione il popolo come elettorato o cittadinanza con diritto di voto può esercitare determinate competenze disciplinate con legge costituzionale» Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1984, p. 313.

11 Dizionario di politica voce Sovranità.

12 “Questa grandezza determinata negativamente, il popolo è nonostante la negatività della sua determinazione, non meno significativa per la vita pubblica. Popolo è un concetto che diventa esistente solo nella sfera della pubblicità. Il popolo appare solo nella pubblicità, esso produce anzi la pubblicità. Popolo e pubblicità coesistono; nessun popolo senza pubblicità e nessuna pubblicità senza popolo”, v. C. Schmitt, op. cit., p. 319.

13 “Appena il popolo è effettivamente riunito, non importa a quale scopo, purché non appaia come gruppo di interessi organizzati, press’a poco come nelle dimostrazioni di strada, nelle feste pubbliche, nei teatri, all’ippodromo o allo stadio, questo popolo acclamante è presente ed è almeno potenzialmente una grandezza politica”, C. Schmitt, op. cit., p. 320.

14 Una delle espressioni più chiare e decise della concezione “immanente” del popolo (e anche la prima, che mi risulti) è quella espressa da Thomas Müntzer nella “Confutazione ben fondata” (delle tesi di Martin Lutero). Scrive Müntzer, parlando dell’amministrazione della giustizia (sempre “in cima” alle preoccupazioni dei teorici politici, almeno fino a metà del XVI secolo): “l’intero popolo deve avere il potere della spada, il potere di legare e di sciogliere, come dice il testo di…; i principi non sono i signori ma i servitori della spada; essi non devono fare ciò che gli aggrada… ma ciò che è giusto. Perciò bisogna, secondo l’antica e buona consuetudine, che il popolo sia presente quando si giudica secondo la legge di Dio… E perché? Qualora le autorità intendessero pervertire il giudizio, allora i cristiani che le stanno intorno devono impedirlo e non tollerarlo, poiché si dovrà rendere conto a Dio del sangue innocente” v. Scritti politici pp. 192-193, Torino 1978 (il corsivo è mio) il popolo quindi controlla ed esegue. Poche righe dopo il capo della rivolta dei contadini prosegue adducendo anche un’altra ragione “i signori e i principi sono l’origine di ogni usura, d’ogni ladrocinio e rapina; essi si appropriano di tutte le creature: dei pesci dell’acqua, degli uccelli dell’aria, degli alberi della terra… E poi fanno divulgare tra i poveri il comandamento di Dio: «Non rubare». Ma questo non vale per loro. Riducono in miseria tutti gli uomini, pelano e scorticano contadini e artigiani e ogni essere vivente”. Così Müntzer esprime in modo estremista la diffidenza verso chi esercita il potere politico, tipica del pensiero politico borghese. Questo troverà una formulazione altrettanto estremista nel progetto di Costituzione giacobina (poi non approvato). Tuttavia anche il testo approvato dalla Convenzione con l’atto costituzionale del 24/06/1793 (notoriamente la Costituzione “dell’anno I” non è mai andato in vigore a causa dello stato di guerra) è pieno di affermazioni riconducibili, in diversa misura, a una concezione “estremista” delle funzioni del popolo in una democrazia. Ad esempio l’art. 26 (volontà del popolo riunito); l’art. 27 (pena di morte per gli individui usurpatori); art. 31 (delitti dei “governanti”); artt. 33-34 (diritto di resistenza); art. 35 (diritto d’insurrezione del popolo).

15 v. voce Integrazione in Costituzione e diritto Costituzionale, Milano 1988, p. 285; in effetti continua ricordando, ciò che è concezione ricorrente nella distinzione tra tipi di istituzioni: mentre molte “dispongono tuttavia di garanzie di stabilità del tutto differenti da quelle statali. Quelle comunità e associazioni vengono garantite dalla dissoluzione interna per lo più mediante poteri esterni” lo Stato, sovrano, per definizione non vi può ricorrere (altrimenti non è sovrano, ma tutt’al più un protettorato) “esso riposa in ultima istanza non sul suo diritto o sul suo potere di fatto, ma sulla sempre nuova e volontaria adesione dei suoi appartenenti; e cade nella più profonda crisi di realtà se questi cessano di sorreggerlo” (il corsivo è mio) op. cit., p. 286.

16 Intendendo costo come comprendente tutti i vari costi: politico, sociale, economico, presente, futuro.

17 Ci si riferisce alla terminologia di Christopher Lasch nel suo ben noto saggio “La ribellione delle masse”; trad. it. II ed. Milano 2009.

Conte 2 e 1/2…quasi 3, di Giuseppe Germinario

Ad un Matteo che langue e che rischia di fermarsi sulla soglia del traguardo o tuttalpiù di giungere alla meta vincitore, ma spossato, da alcuni anni nello scenario politico italiano si avvicenda un altro Matteo pronto a risorgere improvvisamente dalle ceneri. Entrambi amano l’azzardo e il colpo di scena, in particolare l’abbandono ostentato del palcoscenico.

Matteo I soprattutto perché è un istintivo. Diciotto mesi fa ha abbandonato la scialuppa di Giuseppi, sicuro di poter raccogliere a giorni il frutto elettorale della sua azione politica e fiducioso delle rassicurazioni del suo alter ego, Matteo II. Mal gliene incolse. Aveva sottovalutato la spregiudicatezza del suo clone e il trasformismo ecumenico e senza patemi e remore di Giuseppe Conte. Tutto sommato, però, gli è andata bene. Ha potuto conservare ancora per tempo in un unico consesso le due anime poco armoniche che ormai costituiscono il suo partito eludendo quelle scelte obbligate e dirimenti che di lì a poco la contingenza politica lo avrebbe costretto a prendere; le due anime essendo quella storica, localistica, fornita di radici territoriali e sociali ben delimitate e di una classe dirigente con una qualche esperienza amministrativa; quella nazionale tanto appariscente e conclamata, quanto priva di contenuti solidi e di portatori all’altezza della situazione sino a rischiare di scivolare ripetutamente nell’effimero.

Matteo II soprattutto perché è un beffardo. Il suo azzardo è molto più calcolato e cinico, ma non sufficientemente mimetizzato; ostentato, al contrario, attraverso la sua insopprimibile e compiaciuta fisiognomica. Una caratteristica che lo ha costretto dalle stelle alle stalle in una parabola strettissima e fulminante di appena quattro anni. Il suo è sembrato un epilogo dal sapore definitivo, corroborato dallo scarso proselitismo ottenuto dalla scelta di abbandonare il PD. La scelta di abbandonare la compagine governativa di Giuseppe II senza determinarne la rumorosa caduta è parso ai più come il classico salto della chimera, tanto effimero da far ripiombare nel giro di poche ore il nostro nell’anonimato. E i più hanno avvallato la tesi di una clamorosa sconfitta di Matteo Renzi, confortati tanto più dai sondaggi impietosi ai danni di Italia Viva.

A ben vedere la similitudine potrebbe però indurre ad un giudizio troppo frettoloso.

La scelta di abbandonare i tre ministeri si è compiuta dopo almeno sette mesi di confronto interno al Governo la cui virulenza è stata percepita solo grazie ai continui rinvii ai quali ci ha adusi il buon Giuseppe. L’argomentazione della scelta è stata per altro particolarmente articolata e scandita da frequenti preavvisi, senza la sicumera e l’arroganza manifestata dal protagonista durante le altrettanto rapide ascesa e caduta di quattro anni fa. Una volta registrata la chiusura di Giuseppe Conte ad una riapertura del confronto, la scelta dell’astensione è stata interpretata come una manifestazione di debolezza dovuta alla scarsa compattezza del gruppo parlamentare; una ragione dal peso piuttosto relativo rispetto al vantaggio offerto da una tattica di logoramento degli schieramenti e dei partiti la quale richiede tempi più appropriati.

Matteo Renzi ha messo in conto la possibile perdita di una parte del suo gruppo parlamentare esterno allo zoccolo duro dei fedeli. Matteo Renzi sa benissimo che per almeno ancora qualche anno ha scarsissime possibilità di conseguire un qualche incarico da Presidente, da ministro o da capo di partito grazie alla sua rovinosa caduta ancora troppo recente e all’impopolarità della quale è vittima. Ha al suo attivo la possibilità e l’obbligo di ricambiare il favore e il riconoscimento esclusivo di una cena offerta in suo onore alla Casa Bianca da quello stesso establishment che ha appena ripreso il sopravvento negli Stati Uniti. Può puntare quindi ad incarichi di apparato di alto livello e di prestigio e puntare o prestarsi a condurre o essere compartecipe nel frattempo di strategie di medio periodo senza l’ossessione della difesa quotidiana delle posizioni di potere.

L’obbiettivo di fondo di Renzi è quello di promuovere e pervenire al dissolvimento finale del M5S e ad una scomposizione e ricomposizione delle restanti forze politiche, ad eccezione probabilmente di Fratelli d’Italia, tale da creare da una parte una forza politica dichiaratamente, apertamente e coerentemente europeista nella sua attuale configurazione e nel suo attuale indirizzo politico, ossequiosa alla NATO con un blocco sociale composto dalle forze più integrate ed efficentiste in esse e corroborate dalla forza d’urto e di consenso di gran parte del terzo settore contrapposta eventualmente a forze sterilmente protestatarie; componente quest’ultima, della cui formazione non può ovviamente farsi carico.

Da questo punto di vista la forza degli argomenti da lui esibiti nel criticare l’azione di governo è tutta dalla sua parte. I sessantadue punti correttivi del Recovery Fund https://www.italiaviva.it/le_62_considerazioni_di_italia_viva_sulla_proposta_italiana_per_il_recovery_fund da lui presentati sono senz’altro un notevole passo avanti dal punto di vista dell’efficacia intrinseca dell’intervento rispetto all’ipotesi originaria ufficiosa fatta circolare da Conte; è però una efficacia tutta interna alla logica delle politiche comunitarie così come illustrate in almeno un paio di articoli su questo blog. http://italiaeilmondo.com/2020/12/31/tre-piani-a-confronto-e-il-bluff-di-giuseppe-germinario/Una logica che non garantisce assolutamente una politica economica ed industriale tale da garantire autonomia e peso strategico al paese; http://italiaeilmondo.com/2020/12/23/piani-a-confronto-da-recovery-di-giuseppe-germinario/ che è propedeutica ad un ulteriore pedissequo allineamento alle future scelte interventiste della nuova amministrazione americana condotte con la copertura del multilateralismo, della difesa dei diritti umani, del catastrofismo ambientalista e della cooperazione internazionale attraverso il sistema di alleanze rinvigorito dopo quattro anni di condotte alterne.

Su questo Renzi ha buon gioco nell’asfaltare Giuseppe Conte; come ha buon gioco nell’accusarlo apertamente di essere del tutto inadeguato a svolgere il proprio compito di Capo di Governo.

Giuseppe Conte, dal canto suo, ha fatto di tutto per confortare l’azione di Matteo II.

La qualità penosa dei suoi quattro interventi alla Camera e al Senato di lunedì e martedì, conditi con il suo patetico appello finale culminato con il pietoso grido di angoscia “aiutateci”, non ha fatto che rinforzare questo suo giudizio. Un giudizio già suffragato dalla evidente carenza di capacità programmatica e dalla incapacità di controllo e indirizzo della macchina amministrativa; un limite quest’ultimo, per la verità caratteristico di gran parte delle compagini governative succedutesi. Interventi, quindi che hanno evidenziato la sua totale incapacità di indirizzo ed autorevolezza che potesse giustificare e coprire in qualche maniere le nefandezze in corso per raggiungere entro poche settimane una incerta maggioranza assoluta; la sua ingenuità e il suo provincialismo nel prestarsi ostentatamente ad operazioni di sottogoverno; l’inesistenza e l’insulsaggine della principale forza politica, il M5S, ormai principale responsabile della condizione di paralisi ed inadeguatezza politica. Un atteggiamento tipico, ben coltivato negli ambienti più gretti della curia romana della quale è espressione il nostro avvocato del popolo.

L’obbiettivo di fondo della residua compagine di governo, impersonata da Conte, in realtà non è sostanzialmente diverso da quello dichiarato da Renzi.

Cambia nella qualità di presentazione, più abborracciata, e nella credibilità del protagonista ormai avvitato nella terza operazione trasformistica della sua breve ma intensa carriera di Capo di Governo dallo scarso pedigree e dalla “inesistente gavetta”; cambia nei tempi più lunghi richiesti dal processo di trasformazione e di assorbimento, eventualmente sotto altre spoglie, del M5S nell’alveo conformista; cambia nell’entità dei costi richiesti in termini di assistenzialismo e di dispendio insensato di risorse da tale politica trasformista; cambia nell’entità dei rischi di contaminazione che il PD corre, nel suo impegno di traghettamento del M5S, grazie all’immagine scialba di figure della levatura di Gualtieri, Orlando e Zingaretti e al bagaglio culturale del loro mentore Bettini.

L’uno, Matteo II, foriero quindi di una esibizione aperta di obbiettivi capace magari inizialmente di mobilitare ed accelerare le scelte, salvo poi esibire rapidamente la vacuità dei vantaggi che queste scelte così allineate possono offrire ad un blocco sociale sufficientemente coeso ed esteso che possa garantire la sopravvivenza sia pure ulteriormente subordinata del paese.

L’altro, Giuseppi 2 e ½..quasi 3, più attendista e mimetizzato, probabilmente anche più annebbiato nel perseguimento delle stesse scelte di fondo ma più spalleggiato nei corridoi.

L’uno alfiere, paladino e combattente in tutto simile ai patrioti, o presunti tali, della disfida di Barletta, i quali per difendere l’onore degli italiani contro gli spagnoli non trovano di meglio che assumere armi e difesa al soldo dei francesi.

L’altro impegnato, con la complicità di élites sempre più compiacenti ed un relativo favore popolare masochistico, nel predisporre e trasformare ulteriormente in un acquitrino, in una palude un territorio ormai sempre più ben disposto alle incursioni e ai saccheggi.

A noi la scelta in una battaglia talmente feroce da nascondere probabilmente una posta in palio ben più rilevante sotto la pressione di fazioni che vanno al di là dei confini europei e attraversano l’Atlantico. Quando l’oggetto del contendere arriva ad investire apertamente i servizi di intelligence vuol dire che ci si sta avvicinando ad un livello di scontro simile a quello statunitense, con qualche vena parodistica in più ma con un desiderio di regolare i conti per interposta persona analogo. Su questo ha ragione a chiedere lumi il senatore Adolfo d’Urso, voce nel deserto.

Chissà se alla fine la tenzone tra i due si potrà concludere su chi dovrà offrire all’osteria. Possibile, ma poco probabile.

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