Alessandro Campi, Il fantasma della Nazione. Per una critica del sovranismo, Marsilio Editore, Venezia 2023, pp. 205, € 15,00.
Diversamente da quanto più frequentemente si legge, questo saggio formula una critica al sovranismo, che è scientifica e lungimirante. Al contrario, per l’appunto di quanto raccontato nei media maenstream, dove a parlare di Nazione è regola pronunciare formule (e termini) esorcizzanti, e ancor più fare una gran confusione: tra Cavour e Mazzini da una parte e Alfredo Rocco e Enrico Corradini dall’altra (per non parlare di Mussolini). Ovvero tra il sentimento patriottico del risorgimento e quello dei nazionalisti e del fascismo.
Il primo – tra i non pochi pregi del libro – è così rimettere a posto significati, definizioni (e appartenenze). Tanto per fare un esempio il sentimento (nazionale) risorgimentale era quello di una Nazione che voleva costituirsi in Stato, di guisa da non dipendere dagli altri Stati, di gran lunga superiori agli Stati pre-unitari per popolazione, territorio, risorse, per cui era una rivendicazione di indipendenza ed autonomia. Mentre il nazionalismo dei Rocco e Corradini era una rivendicazione di potenza nei confronti di altri popoli – coloniali soprattutto. Il primo era difensivo, il secondo d’aggressione: distinzione essenziale che ancora gli ideologi del pensiero unico non riescono (o non vogliono) afferrare.
Particolarmente interessante è il pensiero di Campi sul rapporto tra destre e nazione, visto (anche) i diversi – e talvolta opposti – modi di declinarlo. In Italia, scrive Campi “quello tra destre (al plurale) e nazione è stato un rapporto per certi versi ambiguo e controverso, discontinuo e accidentato, fortemente rivendicato sul piano ideale quanto scarsamente produttivo su quello politico, che ha finito per generare un nazionalismo-patriottismo più che altro sentimentalistico e retorico, letterario, estetizzante e occasionalistico, come tale incapace di definire una chiara visione degli interessi nazionali dell’Italia… Potremmo dire che la nazione-mito, facile da invocare sul piano della propaganda e in chiave di mobilitazione politica, ha prevalso a destra sulla nazione-progetto, intesa come realizzazione nel concreto della storia di un disegno politico collettivo o comunitario”. Onde la destra italiana, non sembra “sia mai riuscita a elaborare una dottrina nazionalistica coerente e organica in grado di saldare il richiamo all’idea di nazione con un forte senso dello Stato e di tradurre quel richiamo sul terreno della progettualità politica”. A intenzioni “buone” hanno corrisposto spesso risultati modesti o addirittura pessimi. Tralasciando, per ragioni di spazio, tutte le interessanti analisi di Campi sul rapporto con la Nazione delle varie destre (risorgimentale, nazionalista, fascista, della prima repubblica, della seconda), veniamo all’attualità.
Nel presente la concezione di destra della Nazione, o meglio dello Stato nazionale “è la forma politica che assume l’identità collettiva di una comunità interessata a mantenere la propria integrità contro chi la insidia”. In effetti, scrive l’autore “la prima cosa che colpisce nel sovranismo populista, nelle diverse declinazioni che ne sono state offerte dalla politica italiana recente, è il suo carattere meramente difensivo e reattivo”. Se questo costituisce un pregio rispetto alle declinazioni “aggressive” del nazionalismo, ha il difetto di suggerire “un ripiegamento a difesa di ciò che si ha e di ciò che si è, soprattutto di ciò che si teme di perdere. Il sovranismo, in altre parole, è una dottrina della decadenza, è il nazionalismo dei popoli stanchi”. Oltre che l’altro difetto di commettere imprudenze in politica estera. Per cui “Più che una dottrina politica o un progetto ideologico, il sovranismo, come spesso viene declinato soprattutto dalla nuova destra di Salvini e Meloni, può dunque essere considerato un espediente politico-psicologico, grazie al quale si offre un antidoto momentaneo e provvisorio alla paura e all’incertezza in cui oggi si trovano molti individui e interi strati sociali”. Infatti manca il progetto che costituisca una realistica visione del domani. Malgrado la Nazione, sostiene Campi nelle ultime pagine, sia tutt’altro che “obsoleta” e superata. Lo dimostra come possa coniugarsi con la democrazia e il pluralismo “L’unità della nazione, assunta come presupposto del pluralismo, è dunque ciò che consente agli attori di una democrazia di dividersi senza il timore che la comunità si disgreghi o scivoli sul terreno di un conflitto aperto e letale. Questa connessione tra democrazia e nazione viene spesso sottovalutata dai critici di quest’ultima. Mentre invece rappresenta una interessante scommessa per il futuro”.
Due note a conclusione. È inutile ricordare come il saggio, come in genere, l’opera di Campi sia ispirata al pensiero politico realista, molto spesso rigettato (o demonizzato) dal “pensiero amico”.
Secondariamente se è vero che la Nazione nelle “vecchie” concezioni delle varie destre italiane si è per lo più manifestata in declamazioni roboanti e risultati modesti, onde non è confortante per il futuro, è anche vero da un lato che i sovranisti-populisti praticamente non sono mai andati al governo se non con il Conte 1 nel 2018 e poi da qualche mese con la Meloni, onde si può sperare che col tempo possano realizzare, almeno in parte, quanto promesso.
Anche perché, purtroppo, la situazione italiana ha raggiunto il fondo del barile nel decennio trascorso (il peggiore della pur cattiva “seconda Repubblica”). Il che da ai sovranisti un compito assai difficile, simile a quello descritto da Machiavelli nell’ultimo capitolo del Principe: di risollevare un popolo impoverito (e così anche indebolito) da élite politiche (e istituzioni) decadenti. E che soprattutto per questo da quasi dieci anni da un consenso maggioritario (intorno al 55-60% dei voti espressi nelle elezioni succedutesi) agli avversari di quelle élite. Operare meglio delle quali non è impossibile, fare un miracolo sì.
La Georgia è bersaglio di un cambio di regime per il suo rifiuto di aprire un “secondo fronte” contro la Russia
Andrew Korybko
8 marzo
L’Occidente vuole punire il primo ministro Irakli Garibashvili per il suo pragmatico rifiuto di aprire un “secondo fronte” nella guerra per procura degli Stati Uniti contro la Russia, dopo che all’inizio di dicembre aveva pubblicamente denunciato questo complotto, impegnandosi al contempo a non armare mai nemmeno Kiev. Il furore artificialmente prodotto sulla legge sugli agenti stranieri della Georgia, ispirata dagli Stati Uniti, non è altro che una cortina di fumo per nascondere la vera ragione alla base dei disordini di martedì.
L’ex Repubblica sovietica della Georgia ha subito un grave tentativo di rivoluzione colorata martedì sera, dopo che i rivoltosi radicali filo-occidentali hanno cercato di prendere d’assalto il Parlamento in risposta all’approvazione di una legge che impone a tutte le organizzazioni con almeno il 20% di finanziamenti stranieri di registrarsi presso le autorità. I media occidentali guidati dagli Stati Uniti (MSM) hanno artificialmente fabbricato una falsa narrativa nel periodo precedente agli eventi, sostenendo che la legge si basa sul sistema di registrazione della Russia, anche se è esplicitamente ispirata a quella degli Stati Uniti.
Questo tentativo ben intenzionato di proteggere la nascente e certo imperfetta democrazia georgiana da ingerenze straniere, come suo diritto sovrano, è stato poi sfruttato come pretesto per organizzare un violento cambio di regime contro il primo ministro Irakli Garibashvili. L’Occidente vuole punirlo per il suo pragmatico rifiuto di aprire un “secondo fronte” nella guerra per procura degli Stati Uniti contro la Russia, dopo che all’inizio di dicembre aveva pubblicamente smascherato questo complotto, impegnandosi a non armare nemmeno Kiev.
La presidente Salome Zurabishvili, che era in visita all’ONU a New York durante il fallito cambio di regime contro Garibashvili martedì sera, ha dato il suo pieno appoggio ai disordini in un video che riproponeva la falsa narrativa di guerra informativa dell’Occidente, secondo la quale il progetto di legge è sostenuto dalla Russia. I lettori dovrebbero sapere che ha svolto la maggior parte della sua carriera come diplomatica francese, dopo esservi nata, ed è stata in precedenza ambasciatrice di quel Paese in Georgia fino al 2004.
A quel punto ha ricevuto la cittadinanza georgiana solo grazie a un accordo tra i due governi, proposto da Mikhail Saakashvili dopo il successo della sua rivoluzione colorata l’anno precedente, affinché diventasse ministro degli Esteri. Da allora, a tutti gli effetti, Zurabishvili è uno dei principali “agenti di influenza” del Miliardo d’oro in Georgia. Nonostante il Primo Ministro abbia oggi più potere grazie alle riforme precedenti, la Presidenza le conferisce ancora una certa influenza sulla società.
È in questo contesto che è stata tentata la violenta presa di potere di martedì sera contro Garibashvili, anche se la Russia era già preparata a questo scenario dopo che il Ministro degli Esteri Sergey Lavrov aveva avvertito all’inizio di febbraio che qualcosa di losco era in atto nell’ex Repubblica Sovietica. In quell’occasione ha dichiarato a un popolare conduttore televisivo: “Il fatto che vorrebbero trasformare la Georgia in un’altra fonte di irritazione, per riportare la situazione alla condizione aggressiva dell’era Saakashvili, è fuori dubbio”.
Va anche detto che l’ultimo tentativo di rivoluzione cromatica dell’Occidente nella regione ha avuto luogo in mezzo ai continui guadagni russi intorno ad Artyomovsk/”Bakhmut”, che hanno spinto il presidente ucraino Vladimir Zelensky ad avvertire che la Russia potrebbe attraversare il resto del Donbass se catturasse quella città. All’inizio dello stesso giorno e poche ore prima del tentativo di assalto al parlamento di Tbilisi, il ministro della Difesa russo Sergey Shoigu ha confermato che una vittoria in quella regione avrebbe distrutto le difese regionali di Kiev.
Per riassumere le dinamiche strategiche alla vigilia del fallito cambio di regime di martedì sera in Georgia, i mass media avevano già prodotto una falsa narrativa prima che il parlamento votasse la legge sugli agenti stranieri ispirata dagli Stati Uniti, sostenendo che essa simboleggiasse l’inclinazione del Paese verso la Russia. Questa campagna di guerra informativa è condotta contro il suo premier per il suo rifiuto, all’inizio di dicembre, di aprire un “secondo fronte” contro la Grande Potenza eurasiatica per alleviare la pressione sui proxy ucraini degli Stati Uniti.
La Presidente georgiana, che probabilmente è sempre stata uno dei principali “agenti d’influenza” del Miliardo d’oro, si trovava a New York quando tutto si è svolto e ha dato il suo pieno appoggio ai disordini del cambio di regime. All’inizio dello stesso giorno, sia il Ministro della Difesa Shoigu che Zelensky avevano informato tutti che la Russia avrebbe potuto attraversare il resto del Donbass se avesse catturato Artyomovsk/”Bakhmut”. Le premesse per il tentativo di rovesciare violentemente Zurabishvili martedì sera erano quindi pronte.
Sarebbe prematuro dichiarare che Zurabishvili è sicuro della sua posizione, nonostante i servizi di sicurezza siano riusciti a difendere il parlamento dai rivoltosi, poiché molto potrebbe ancora accadere per far avanzare l’agenda degli Stati Uniti sul cambio di regime. La Georgia è un Paese profondamente diviso che è stato sotto l’immensa influenza dell’Occidente negli ultimi due decenni, durante i quali il Miliardo d’oro è riuscito a manipolare una parte consistente della popolazione per indurla a fare i suoi interessi geopolitici.
Non mancano gli “utili idioti” che, grazie alla loro ideologia liberal-globalista, possono essere facilmente indotti a destabilizzare il Paese a scapito dei suoi interessi nazionali oggettivi. Questo significa che la Georgia è destinata a diventare l’ultimo fronte della Nuova Guerra Fredda, visto che è improbabile che la sua ultima crisi si risolva a breve. La situazione è estremamente grave e l’esito della guerra ibrida non dichiarata degli Stati Uniti contro la Georgia potrebbe influenzare direttamente gli sviluppi nel Donbass.
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Vista la gravità dell’episodio di questi giorni a Berlino (più ci si pensa più ne diventa nitida la gravità estrema), ripubblico una vecchia serie di riflessioni in merito all’identità dello stato tedesco nell’ultimo secolo, che scrissi svariati anni fa in coincidenza dei festeggiamenti per la fine del conflitto mondiale :”IL CICLO DEI VINTI” in 7 parti.
Dato che la crisi dell’ultimo anno ha costituito una prova del 9, gettando luce sulle identità e sulle fedeltà di ognuno di noi e di ogni stato (i periodi di crisi hanno questo effetto) e in generale sull’ASSENZA di una comunità europea realmente indipendente ed efficace……..suggerisco di ripassarne i fondamentali iniziando proprio dal suo tassello più importante che è la GERMANIA contemporanea.
Buona (ri)lettura.
IL CICLO DEI VINTI – 9 maggio 1945. [cap. 1 di 7]
Identità, ieri e oggi (riflessioni sparse sul caso tedesco. Da leggere ma senza impegno)
Antichissimo buon senso orientale ci ricorda che ad ogni evento che determini un guadagno da una parte, sempre ed inevitabilmente corrisponde una perdita di analoga entità da un’altra : quest’ultima, la perdente, può essere più vicina a noi e quindi immediatamente percepibile, oppure – al contrario – meno prossima o addirittura remota, tanto da sfuggirci e darci l’illusoria impressione che il nostro successo si sia verificato senza danno, senza vittime. Di pia illusione si tratta naturalmente…..poichè per legge empirica (diciamo), ad un surplus aritmeticamente quantificabile in un determinato luogo, DEVE corrispondere un deficit altrove : possiamo infischiarcene di questo “altrove” certamente, concludere sulla base dei nostri valori e priorità che non ci riguardi (è a tutti gli effetti un diritto), ma decidere che non esista e far finta di nulla…..è una comodità che qualsiasi rigore intellettuale non consente (per dire : un governante può anche lavarsi le mani del fatto che milioni di suoi sudditi siano scalzi o soffrano carestie, ma NON può difendersi affermando di ignorare la situazione. Nel caso che veramente la ignori, mal gliene incolga – ogni riferimento all’ultimo tsar non è casuale).
La letteratura moderna ribadisce il concetto con la “teoria della somma zero” di Marx.
Mi duole prendere le cose troppo alla lontana, ma quanto avete appena letto costituisce la premessa filosofica, il senso di fondo, di quanto cercherò di esprimere in quanti capitoli sgorgheranno dalla mia tastiera da qui in avanti…….è a questo incipit che mi riallaccerò al momento dell’epilogo, chiudendo il cerchio.
Dunque…la storia – nella sua totalità – non si ferma mai, nel senso che laddove una storyline finisce, ipso facto ne nasce un’altra che prosegue (semplicemente si sostituiscono gli attori) : è la dinamica convenzionale considerando che tutto è correlato e che molto spesso una vicenda nasce dalle ceneri o dall’esaurimento di una ad essa anteriore. Orbene, questo perenne passaggio di testimone dalle alterne fortune genera naturalmente memorie differenti : tutto ciò che simboleggia gaudio e stimolo per la parte vincente in entrata -una data ad esempio – corrisponde, all’inverso, a triste epilogo per quella che soccombe, in uscita (elementare questione di prospettiva). Nel nostro caso si parla della GERMANIA, intesa come stato nazionale tanto per andare al punto senza tirarla avanti con altri fronzoli.
Il 9 maggio tutti cannoni – virtuali – di Russia (mio secondo paese), nonché di un’altra mezza dozzina di paesi del suo “commonwealth” culturale post-sovietico, sparano in commemorazione delle 75 estati trascorse dal momento in cui le forze armate germaniche firmano la capitolazione davanti al comando sovietico, concludendo il conflitto mondiale in Europa.
Il 9 maggio NESSUN cannone spara in Germania e mai lo farà. Indifferenza, un giorno come qualsiasi altro….anche in questo la tragedia del vinto : a prescindere dal tributo di sangue versato o dal valore dimostrato, lo attende l’oblio. In quanto sconfitto, diventa “male” secondo il metro di giustizia del nuovo contesto plasmato dai suoi vincitori, al punto che l’opzione più conveniente è la dimenticanza per l’appunto.
Da generazioni ogni 9 maggio milioni di adolescenti di Mosca, Leningrado, Ekaterinburg dilagano per le strade e i corsi principali contribuendo all’oceanico pubblico che segue la parata in un turbine variopinto di drappi, bandiere, striscioni, nastri, fiocchi medaglie, e qualsiasi cosa possa luccicare sotto il sole della tarda primavera, in ricordo di nonni e bisnonni.
Nel medesimo giorno i loro coetanei di Francoforte, Berlino e Amburgo sono a casa dopo un normale giorno di lezioni tra i banchi : loro nemmeno SANNO (non tutti) cosa sia stato o cosa abbia fatto il nonno o il bisnonno. E’ quasi come se non li avessero o almeno non li hanno per quanto concerne quella capsula temporale che segue l’anno 1933 e precede il 1945…pazienza per quanti di questi nonni e bis. sopravvissero e si costruirono un’esistenza nella generazione a venire, ma per coloro che ebbero sventura di cadere sul campo di battaglia la faccenda si fa problematica dato che la finestra temporale 33-45 come si è detto è zona morta.
Ecco, siamo di fronte a un triangolo delle Bermuda della memoria collettiva tedesca (come ben si sa), un buco nero che inghiotte e dissolve visi e voci, dissolvendoli riducendoli a un nebbioso e remoto mare di sagome che emette un lamento confuso : zona morta anche per i morti – scusate il gioco di parole – dove non muoiono esattamente, ma piuttosto vengono discretamente rimossi dalla linea temporale. Sì perché una morte eroica fa frastuono, attira l’attenzione pubblica…. è problematica ! L’autorità tedesca post-bellica NON poteva parlar bene dei propri uomini in uniforme, ma nemmeno male (perché aldilà del bene o del male, l’atto stesso del parlare, tiene in vita la cosa) ragion per cui si opta per la soluzione meno compromettente ed efficace : miniaturizzazione, compressione, vaporizzazione (passatemi qualche verbo originale) del soggetto tabù.
E allora ?? Quel golia chiamato “Wehrmacht” ha ancora da lamentarsi ?! Un conflitto convenzionale non demolisce demograficamente mezza dozzina di nazionalità diverse al passare di un singolo esercito ! Dire che si è passato il segno è limitativo, imbarazzante. Una dirigenza politica come quella del reich e coloro che maggiormente la sostennero (tra cui le forze armate) lanciatasi in un progetto di ambizione e incognite fuori scala, deve accettare le leggi dell’azzardo il che prevede ritrovarsi obliterati dal tavolo da gioco se qualcosa va male, le scuse non esistono nemmeno se si vede il gioco dal loro stesso punto di vista (…).
Il nodo – alla base del dibattito sull’identità tedesca dal dopoguerra in avanti – è questo, la posta in gioco : ci si è giocati integralmente il proprio paese come in una partita e quando questo accade, non soltanto la frazione più direttamente responsabile, ma tutto e tutti ne subiranno il peso…sarà la patria nella sua totalità – il concetto di essa – a pagare un tributo. La Germania non è solo nel novero dei paesi sconfitti dalla guerra, ma in quello dei paesi SCOMPARSI a seguito della guerra dal momento che le statualità post-conflitto non saranno la continuazione del paese “tradizionale” nato nel XIX° secolo : in questo senso è proprio la Germania tradizionale ad essere la prima vittima del nazionalsocialismo.
Il 9 maggio si aprono le porte al sorgere della “patria – superpotenza” diretta da Mosca, mentre conversamente, il medesimo giorno muore la “vecchia patria” in Germania.
(CONTINUA…)
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Così Elly Schlein, a sorpresa, almeno per chi ama farsi sorprendere, è la nuova segretaria del Partito Democratico.
Niente di originale. Una clonazione, un pollo da batteria come tanti altri, tutti identici, che avrebbero potuto emergere dal brodo di coltura sorosiano ormai coltivato da anni in quegli ambienti progressisti e nella sua città di adozione. Elly avrebbe potuto assurgere indifferentemente a Primo Ministro in Finlandia e Moldova, Ministro degli Esteri in Germania; le è capitato invece di conquistare il posto di segretario di partito in una fase a dir poco avventurosa di quella realtà politica.
Un possibile trampolino di lancio per lei a futura gloria e soddisfazione; molto probabilmente, il contestuale de profundis di un partito dalle lontane radici gloriose ormai disperse.
Una nemesi amara per il vecchio gruppo dirigente dalle lontane origini approssimativamente comuniste, in realtà in buona parte socialdemocratiche, impersonate per ultimo dal buon Stefano Bonaccini.
Agli “illuminati sulla via di Damasco” l’elettorato più o meno interessato, non si sa bene se alla resurrezione o alla dipartita, delle primarie ha preferito le certezze dell’originale, mi si perdoni l’ossimoro, clonato nel laboratorio filantropico di grandi propositi e inconfessabili misfatti.
In tempi così incerti e smarriti, l’alea del buon governo non è evidentemente più sufficiente a conservare e nemmeno a rimanere aggrappati alle leve.
Ad una lettura anche superficiale delle mozioni congressuali, gli argomenti del documento del neosegretario sono i più conformi allo spirito della carta dei valori del partito da poco resa pubblica. Ne pare di fatto una scopiazzatura più estesa della quale si tratterà a margine a parte una anticipazione irrefrenabile di tre amenità difficili da concettualizzare pur con ogni buona volontà:
la nozione di “giustizia climatica” se non associandola a quella biblica di “diluvio universale”
l’asserzione del nesso causale diretto e univoco tra la crisi climatica e la disuguaglianza sociale, quando in realtà, se proprio si vuol sottilizzare, è da una concezione elitaria e di ceto della crisi climatica, confusa per altro con quella ambientale, che si dipana il nesso causale diretto con le disuguaglianze
l’asserzione della formazione sociale italiana retta da un regime patriarcale.
L’aspetto dirimente di questa fase politica di quel partito è un altro.
Elly Schlein è stata eletta segretario in piena fase costituente del partito.
L’avvio di una fase “costituente” o “ricostituente” dovrebbe quantomeno prevedere una analisi rigorosa, se non proprio una revisione impietosa dell’approccio culturale, delle scelte politiche fondamentali adottate a partire almeno dagli anni ‘90 e delle ragioni della attuale condizione del paese e della nazione.
Nella carta e nelle mozioni congressuali non c’è niente di tutto questo se non qualche rara riga di adesione fideistica alla Unione Europea, di sostegno a scatola chiusa alla resistenza ucraina, di rappresentazione dello scontro geopolitico tra una democrazia assediata e un autoritarismo prevalente, di auspicio di un ritorno ad un multilateralismo a trazione statunitense.
Una rigidità dogmatica e una superficialità che fa apparire le prese di posizione dell’attuale leadership statunitense un esempio di flessibilità.
Sarebbe improprio pretendere dal Partito Democratico un ripensamento radicale o un ribaltamento delle sue ragioni costitutive. Trasformerebbe la lenta e soporifera agonia che sta percorrendo in un trauma esistenziale esiziale.
Un atto di lucidità ed onestà compatibile con le ragioni fondative del partito sarebbe però una carta dei valori che tracciasse degli orientamenti di fondo e ponesse degli interrogativi da offrire alle mozioni come traccia per risposte che giustificassero le diverse candidature.
La Carta avrebbe dovuto quindi contenere una riflessione critica sulla narrazione agiografica del processo di globalizzazione, sull’interpretazione del ruolo degli stati nazionali in esso, sulla funzione di collante delle dinamiche esercitata dalla condizione egemonica emersa con l’implosione del blocco sovietico e indurre quindi i candidati, con le rispettive mozioni di tentare almeno di tracciare quantomeno obbiettivi e comportamenti autonomi ed attivi, sia pure in una logica “entrista” propria della natura di quel partito. Del resto l’azione di classi dirigenti di un numero sempre maggiore di paesi, a cominciare dalla Turchia e dall’Ungheria, ma anche a modo loro della Polonia, ha evidenziato l’agibilità all’interno delle logiche di schieramento. Cosa è, del resto, alla fine, il perseguimento di obbiettivi politici interni alla Unione Europea, più ancora che nella NATO, se non una continua contrattazione e un continuo aspro confronto e conflitto tra centri decisori nazionali e statuali in una dinamica di asservimento alla forza egemone! Se sono reali l’intenzione e l’obbiettivo politico, ammesso e non concesso che sia realizzabile, di una politica estera e di difesa europea autonome, le mozioni dovrebbero essere indotte a delimitare quantomeno i livelli massimi compatibili di integrazione degli eserciti della NATO e dei complessi militari-industriali.
A scalare la Carta avrebbe dovuto spingere a riflettere sul trentennio di politica interna a cominciare dalle privatizzazioni e dismissioni o quantomeno nelle loro modalità di esecuzione, per poi risalire alla atavica incapacità del capitale privato di sostenere il peso politico ed organizzativo di una grande industria ed impresa strategica e sul ruolo conseguente del capitale pubblico, magari a gestione privatistica nelle sue varie modalità e possibilità; come pure a giustificare e, quindi, porre rimedio al fatto che l’ancora importante saldo attivo del risparmio nazionale non riesca ad essere reinvestito in gran parte nel territorio e a tutela e sviluppo dell’industria e delle attività nazionali. Potrebbe finalmente emergere qualche seria considerazione sulla necessità di ripristino di una serie di agenzie di supporto tecnico allo sviluppo di attività di produzione ed infrastrutturali completamente distrutto in quei decenni fatali e della cui mancanza si sente persino nella attuazione del cavallo di battaglia, di nome PNRR, del fronte più ottusamente europeista. In pratica la Carta dei Valori avrebbe dovuto porre il quesito fondamentale sui motivi del progressivo stallo e degrado del paese e della nazione negli ultimi quarant’anni, coincisi con la trasformazione del PCI e della DC e la fondazione del PD.
Ci sarebbe da sindacare sulla adeguatezza della Carta ad avviare una seria fase costituente su altri temi: la gestione manipolatoria ed arru(a)ffona della crisi pandemica come pure la tematica fondativa legata al cosiddetto transumanesimo. Quest’ultima introdotta in ritardo ed in forma puramente imitativa e parodistica, ma con la possibilità di arrecare altrettanti, se non peggio, danni di quanto indotti negli Stati Uniti. Un culto della singolarità, del determinismo culturale rispetto alle leggi della natura, della tecnocrazia scientifica che meriterebbero assoluta attenzione e precauzione, ma che si vedono introdotte di soppiatto nella Carta e nelle mozioni, probabilmente anche in maniera scontata ed inconsapevole. Sarebbe, forse, pretendere troppo ad una classe dirigente di questo livello.
La sorprendente incapacità di impostare correttamente, quantomeno, un percorso congressuale non è, quindi, un mero incidente in un partito dalle gloriose tradizioni organizzative.
È la conseguenza della cieca miseria intellettuale di una intera classe dirigente; della sua autoreferenzialità e della sua incapacità a porsi a rappresentare un qualsiasi modello di blocco sociale in grado di garantira una minima coesione ed una minima capacità di pesare nelle dinamiche geopolitiche per quanto deleterie e limitative.
Più che una fase costituente, si sta rivelando sempre più una sua parodia, destinata rapidamente a spegnersi nella continuità e nell’esaurimento di un processo iniziato almeno quaranta anni fa, ma dall’esito allora non interamente segnato.
Non è un caso che gli aneliti di rinnovamento e di allargamento della platea dai quali attingere i futuri gruppi dirigenti si riducano alla fine, leggendo attentamente le mozioni, ad attingere al serbatoio degli amministratori locali.
Una parodia dall’esito scontato ma attraverso un processo che richiederà, paradossalmente, il sacrificio della componente più pragmatica, ma culturalmente del tutto omologata o passiva, la quale ha saputo, nelle proprie esperienze di gestione amministrativa, almeno approfittare di qualche margine di azione consentito da questo appiattimento ed allineamento.
La sconfitta di Bonaccini rappresenta esattamente questo.
Non sarà l’unico fìo da pagare e nemmeno il più pesante.
La mozione di Elly, più delle altre, è soprattutto l’appello che con più fervore urla alla riduzione e al superamento delle disuguaglianze, al raggiungimento dell’equità fiscale, alla rivendicazione dei diritti.
Una enfasi che ha indotto gran parte dei commentatori ad attribuirle audacemente una impronta “socialdemocratica” più che “radical chic”.
Nell’economia di questo scritto si deve purtroppo glissare sull’approfondimento sulle varie accezioni attribuibili al termine di lotta alle disuguaglianze e al conseguimento dei diritti; come pur sulla mancata associazione del termine di equità fiscale a quello di vessazione, attraverso il quale il sistema fiscale colpisce indistintamente dipendenti ed autonomi e sulla mancata associazione al problema della tutela dei salari più bassi di quello dell’appiattimento dei livelli salariali normati e del basso livello di quasi tutte le retribuzioni.
Una connotazione socialdemocratica storicamente più attendibile ad un documento e ad una formazione politica dovrebbe avere il carattere specifico di un nesso stretto e inscindibile tra una politica di normazione dei diritti sociali ed il sostegno ad una politica economica in generale, industriale in particolare, fondata sulla impresa, in particolare la grande impresa e sul ruolo pubblico diretto in economia sul quale plasmare la coesione e il dinamismo di una formazione sociale. Un indirizzo, ma con modalità diverse, riconducibile anche alla connotazione comunista di un movimento.
Nelle mozioni congressuali, in particolare in quello della Schlein, non c’è niente di tutto questo, non ostante le crepe all’ortodossia liberista aperti nella fase trumpiana ed anche nel recente documento sulla sicurezza strategica (NSS) varato da Biden e trattato recentemente su questo blog.
Niente se non la caricatura dell’aperto ed acritico sostegno al piano di riconversione ecologica ed energetica e digitale che si risolve in realtà, nel suo dogmatismo e catastrofismo, in un vero e proprio programma di destrutturazione ed indebolimento non solo del residuo apparato industriale e tecnologico avanzato europeo, ma anche di altri ambiti strategici come l’agricoltura.
Tutta l’enfasi che ammanta le parole d’ordine della redistribuzione, del lavoro sicuro, dell’equità fiscale non porteranno a niente di buono; nel migliore e improbabile dei casi a qualche successo temporaneo, tipico del rivendicazionismo sindacale radicale o sedicente tale.
Si potranno regolare più rigidamente i contratti individuali di lavoro, stabilire per legge i livelli minimi salariali e magari gli standard sanitari, rendere ancora più draconiane, sulla lettera, le normative e le sanzioni fiscali, ma le dinamiche socio-economiche, la struttura economico-industriale e dei servizi, il sistema politico-amministrativo troveranno innumerevoli e fantasiose nuove vie per perpetuare una condizione di sottosalario, di basso reddito e di mercato nero, magari in una condizione di apparente legalità. Potrei citarne io stesso decine di modalità.
Rimarrà l’enorme implicazione politica di una simile impostazione. In mancanza di una questione nazionale e, soprattutto, di una politica di difesa di interesse nazionale unificante, nel migliore dei casi non farà che spingere singoli settori alla autotutela in una visione potenzialmente corporativa e intaccare ulteriormente il già precario tasso di interconfederalità delle politiche sindacali magari sotto la nobile veste di un radicalismo del quale abbiamo conosciuto già, assieme al collaborazionismo, gli esisti sterili e nefasti.
La dirigenza sindacale, con tutto il peggio di cui è capace, navigata com’è e desiderosa di non disperdere l’attuale principale legittimazione legata al riconoscimento reciproco con Confindustria, è in grado di cogliere il pericolo, ma non di contrastare efficacemente l’inerzia innescata da questi indirizzi; un ulteriore passo verso un sindacato compassionevole è ormai maturo.
L’unico aspetto positivo è che la gestione piddina della Schlein, dovesse durare, metterà a nudo l’imbroglio politico che è stato e si è rivelato il M5S (Movimento Cinque Stelle); al prezzo di portarsi, però, la serpe in casa, ma con minori infingimenti.
L’unico fattore che potrebbe prolungarne indefinitamente l’agonia, è il processo accellerato di omologazione del centrodestra ed il suo pericolosissimo avvicinamento politico e diplomatico all’ordine statunitense e all’avventurismo ottuso delle classi dirigenti polacche e baltiche.
Peggio dell’azzardo cialtrone della “buonanima”, ottanta anni fa.
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Massimo Morigi (per chi non volesse rileggere l’introduzione passare direttamente al link da pag 72)
LO STATO DELLE COSE DELL’ULTIMA RELIGIONE POLITICA ITALIANA: IL MAZZINIANESIMO
UNA RIFLESSIONE TRANSPOLITICA PER IL SUO LEGITTIMO EREDE: IL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO. PRESENTAZIONE DI TRENT’ANNI DOPO ALLA DIALETTICA OLISTICO-ESPRESSIVA-STRATEGICA-CONFLITTUALE DEARNALDO GUERRINI. NOTE BIOGRAFICHE, DOCUMENTI E TESTIMONIANZE PER UNA STORIA DELL’ ANTIFASCISMO DEMOCRATICO ROMAGNOLO
INTRODUZIONE
Se accostiamo «Io sono una forza del Passato./Solo nella tradizione è il mio amore./Vengo dai ruderi, dalle chiese,/dalle pale d’altare, dai borghi/abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,/dove sono vissuti i fratelli.» che è la definizione della poetica e della Weltanschauung di Pier Paolo Pasolini con «Mi fanno male i capelli, gli occhi, la gola, la bocca… Dimmi se sto tremando!» criptica, surreale ma al tempo stesso lancinante e terribilmente espressiva dichiarazione del disagio del personaggio di Giuliana, interpretata da Monica Vitti, nel film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni e citazioni entrambe impiegate in questo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo. Una riflessione transpolitica per il suo legittimo erede: il Repubblicanesimo Geopolitico. Presentazione di trent’anni dopo alla dialettica olistico-espressiva-strategica-conflittuale de Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, abbiamo immediatamente l’immagine del particolare metodo dialettico impiegato da Massimo Morigi e di cui si aveva avuto una prova anche nello Stato delle Cose della Geopolitica. Presentazione di Quaranta, Trenta, Vent’anni dopo a le Relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista. Nascita estetico-emotiva del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico originando dall’eterotopia poetica, culturale e politica del Portogallo, anche questo pubblicato a puntate sull’ “Italia e il Mondo”, che è, oltre ad essere un metodo dialettico che, come più occasioni ribadito da Morigi, oltre a non riconoscere alcuna validità gnoseologico-epistemologica alla suddivisione fra c.d. scienze della natura e scienze umane storico-sociali, entrambe unificate, secondo Morigi, nel paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico, proprio in ragione del suo approccio olistico, non distingue nemmeno fra dato storico-sociale e fra il suo stesso dato biografico e cercando di capire, assieme ai destinatari dei suoi messaggi, come questo dato biografico lo abbia portato alle sue odierne elaborazioni teoriche. A questo punto si potrebbe obiettare che in Morigi prevale sull’analisi teorica una sorta di deteriore biografismo, dove il momento dell’analisi viene travolto da una non richiesto lirismo. Niente di più errato. Comunque si voglia giudicare il del tutto inedito paradigma dialettico del Nostro, e noi comunque lo giudichiamo come l’unico tentativo veramente serio compiuto dalla fine del grande idealismo italiano di Gentile e Croce di far rivivere in Italia e nel resto del mondo il metodo dialettico, la manifestazione lirica cui Morigi rende conto a sé stesso prima ancora che ai lettori non sono assolutamente le sue interiori ed intime inclinazioni che giustamente egli ritiene non debbano interessare a nessuno ma si tratta del rendere conto, anche pubblicamente, del suo culturale Bildungsroman, dove nello Stato delle Cose della Geopolitica veniva focalizzato nella cultura portoghese, nella saudade di questo paese e, infine nella filmografia di Wim Wenders, in specie in quella che aveva come sfondo il Portogallo, Lo Stato delle Cose e Lisbon Story, mentre ora, Nello Stato delle Cose dell’ultima religione politica: il Mazzinianesimo si tratta della filmografia d’autore degli anni Sessanta del secolo che ci ha lasciato, cioè di quella di Federico Fellini, di Michelangelo Antonioni e di Pier Paolo Pasolini. E se è vero, come è vero, che il ricorso a questo strumento per l’interpretazione della crisi politica non solo del movimento mazziniano e del partito che tuttora vuole presentarsi come la sua attuazione politica è stata anche indotta dal fatto che sulla crisi della religione politica del mazzinianesimo e del partito che ancora vuole esprimere ed intestarsi questa ideologia non è stato, in fondo, scritto praticamente alcunché di veramente interessante e significativo (e non è questa la sede per contestare questa definizione di identità politica del PRI ed anche Morigi, anche per una sorta di rispetto verso un partito politico in cui militò in un lontano passato – e di cui, fra l’altro, dimostra in questo saggio introduttivo di essere un profondissimo conoscitore e, quindi, inevitabilmente quasi un “appassionato”–, è tutt’altro che acido rispetto a questa autodefinizione identitaria) ma anche della crisi politico-sistemica più generale che ha investito il nostro paese è, sulla scorta della sua dialettica totalizzante del tutto giustificata e conseguente, a noi lettori appare chiaro – ma anche Morigi, ne siamo sicuri ne è pienamente consapevole – che la filmografia espressamente citata in questo scritto di Morigi è anch’essa una parte importante del romanzo di formazione culturale di Morigi che, proprio in virtù della particolare dialettica totalizzante da lui elaborata può essere impiegata per dare conto sia del suo metodo dialettico che della crisi politica del sistema politico Italia, filmografia italiana che, sottintende sempre è stato quindi anche decisiva, insieme alle suggestioni portoghesi e wendersiane, per la definizione del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico.
Un’ultima notazione. Come da sottotitolo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo è l’introduzione del saggio di Massimo Morigi, Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, edito nel 1989 e che oltre ad essere la biografia dell’antifascista repubblicano e mazziniano Arnaldo Guerrini, già più di trent’anni fa esprimeva, come ci dice il suo autore e come potranno vedere i lettori dell’ “Italia e il Mondo” la consapevolezza della crisi del sistema politico italiano che sarebbe esplosa con Mani pulite. Questa biografia, assieme ovviamente al suo scritto introduttivo sullo Stato delle cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo, su espresso desiderio dell’autore viene pubblicata in quattro puntate a partire da questo mese di gennaio del 2023, in una sorta di augurio di buon anno nuovo per l’acquisizione di una rinnovata consapevolezza politica per terminare con l’ultima puntata da pubblicarsi in occasione del IX Febbraio, data dell’anniversario della nascita della Repubblica Romana del 1849 e che per tutti i mazziniani, siano o no ancora facenti parte del Partito Repubblicano Italiano, è la ricorrenza più importante di tutto il calendario, ancora più importante, siano o no questi repubblicani credenti nelle varie denominazioni del cristianesimo, del Natale cristiano. Ci sarebbe così allora ancora molto da dire sulle religioni politiche e su come il Repubblicanesimo Geopolitico nel suo olismo dialettico, voglia essere, come dice espressamente Morigi, una prosecuzione ed evoluzione per i nostri tempi dei principi repubblicani di Giuseppe Mazzini…
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La guerra richiama le armi ma anche la legge. La qualificazione giuridica dei belligeranti nasce sempre per stabilire un ordine e le responsabilità di ciascuno. L’Ucraina non fa eccezione a questa regola: tra amico, nemico e cobelligerante è aperto un vero e proprio dibattito legale.
Il dibattito mediatico si è concentrato sulla nozione di “cobelligeranza”, in particolare a seguito delle consegne di armi all’Ucraina. Il dibattito è stato particolarmente aperto a seguito dell’invio dei fucili CAESAR, poi riemerso con acutezza grazie all’annuncio ufficiale di una consegna di veicoli AMX-10 RC. La disciplina giuridica dovrebbe essere in grado di qualificare fatti o atti politici in linguaggio teorico; e la guerra, nonostante il suo carattere trans o interstatale , non sfugge alla sua regola positiva .
Questioni legali
Tuttavia, il diritto internazionale, esso stesso frutto contemporaneo di un equilibrio tra grandi potenze, non può emanciparsi dallo stato di fatto delle relazioni internazionali. Tuttavia, questo consenso giuridico sembra essersi infranto sulle sponde della guerra russo-ucraina, lasciando lì un abissale vuoto qualificante, che le autorità politiche occidentali hanno rapidamente colmato, descrivendo Vladimir Putin come un “criminale di guerra”, responsabile di un “genocidio ” e anche di essere a capo di uno “Stato promotore del terrorismo”. Quanto allo stesso Vladimir Putin, ha ritenuto fondato drappeggiare l’invasione del territorio limitrofo di “legittima difesa”. [1]In realtà assistiamo, dietro queste beffe, ad uno spostamento sia morale del diritto di guerra, che però non ha più nulla di universale, e che i giuristi, irascibili su questi temi, tendono spesso ad accentuare in abstracto con irrimediabili consolidando l’incertezza generalizzata relativa allo stato di belligeranza.
In realtà, gli attuali dibattiti sulla cobelligeranza hanno un effetto positivo sul pensiero giuridico. Richiamano il diritto della guerra ai rapporti di inimicizia e di amicizia, senza dover trascrivere né la morale universale del giusto contro l’ingiusto, né la sola volontà degli Stati di definire essi stessi le proprie guerre – ad esempio come “operazione speciale” – o designarsi come belligeranti. Tuttavia, più la dottrina occidentale persiste nel perseguire il suo studio legalistico e depotenziante della guerra in Ucraina, più sprofonda in un groviglio di norma morale e norma giuridica, e finisce per essere solo uno scriba fuori terra. Tuttavia, lo studio legale avrebbe dovuto attenersi al principio che i poteri non hanno idee.– secondo l’adagio di Alain. La questione della (co-)belligeranza è quindi interessante nella misura in cui l’osservazione dei fatti internazionali mette nuovamente in discussione cosa significhi, in diritto, essere un belligerante. A questo proposito, spinge il giurista francese a riconoscere i lamenti del sorgere di nuovi rapporti interstatali, e a manifestare pirronismo, sia in merito alla definizione di belligeranza che in ordine alla validità del diritto internazionale. In breve, dovremmo evitare di concordare con noi stessi che andiamo d’accordo perfettamente, [2] e mettere in discussione la questione legale se non attraverso una lettura inappropriata.
La risposta penale alla guerra
Se è innegabile che la Russia abbia attaccato l’Ucraina e violato il diritto internazionale che intendeva rispettare, l’atteggiamento dei giuristi tende talvolta a condannare in globo l’ingiustizia sotto l’angolo penalista. Infatti, ogni considerazione giuridica sul tema di questa guerra non può che scaturire dall’unico reato di aggressione, spazzando via nel suo cammino le altre questioni giuridiche alla confluenza di guerra e rapporti politici – di cui il tema della belligeranza. Dobbiamo trovare l’origine di questo approccio nella sentenza del Tribunale di Norimberga del 1945, in cui si afferma che “iniziare una guerra di aggressione […] non è solo un crimine internazionale: è il supremo crimine internazionale, diverso dagli altri crimini di guerra solo in quanto li contiene tutti[3] ”. A questo proposito, alcuni accademici hanno già sentito parlare di piegare il caso condannando penalmente la Russia [4] , perché dal 1945, ricorda la dottrina, la guerra “in tutte le sue forme” è diventata “fuorilegge [5] ”. Secondo questo ragionamento, anche se i paesi occidentali passassero all’invio di truppe per combattere contro la Russia, alla fine sarebbero responsabili solo di una giusta legge contro il crimine. [6] Da questo punto di vista la guerra, e la belligeranza che se ne portava, non è più nemmeno una virgola; è esplicitamente bandito dalla ganga legale, che lo rifiuta come contraddizione in séa favore di una sussunzione al reato secondo i termini della Carta delle Nazioni Unite che richiama esclusivamente i termini “aggressione” e “legittima difesa” per designare situazioni di belligeranza.
Questa neutralizzazione assiologica della guerra e la vacuità giuridica che essa comporta dovette tuttavia confrontarsi con questioni realistiche relative alla cobelligeranza, provocando un certo disagio da parte dei giuristi nel darvi una risposta. Così, per il professore e accademico Serge Sur, la posizione giuridica della Francia si troverebbe in un percorso azzardato tra neutralità e cobelligeranza, [7] in una sorta di posizione mediana, precaria e provvisoria. Per altri, seguendo un’interpretazione giurisprudenziale del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, la cobelligeranza potrebbe essere osservata legalmente solo se le nostre truppe combattessero direttamente contro la Russia. [8]Quest’ultima giustificazione dimentica, però, che questa giustizia eccezionale – e quindi la validità delle sue decisioni – è stata approvata solo dopo un lento e laborioso compromesso politico, poi deciso dal Consiglio di Sicurezza.
La trappola legalistica della qualificazione di belligeranza
Rifiutando di mettere in discussione i fondamenti positivi del diritto di guerra, le tesi legaliste finiscono poi per sprofondare in un dedalo di ipotesi a volte stravaganti, come la volontà di condannare Vladimir Putin davanti alla Corte Penale Internazionale (CPI) o di ritirare la Federazione Russa come un membro permanente del Consiglio di sicurezza. Ricordiamo, a tutti gli effetti, che la giurisdizione della CPI, la cui giurisdizione la Russia non riconosce in alcun modo, non giudica in contumacia. Inoltre, la sanzione più pesante cercherebbe di impedire ai comandanti russi identificati di recarsi negli Stati firmatari dello Statuto di Roma. Da questa constatazione è nato il sogno di istituire un tribunale penale ad hoc e revocare l’immunità di Vladimir Putin. [9]Il legalista può ancora avvalersi delle misure provvisorie prescritte dalla Corte Internazionale di Giustizia nell’ordinanza del 16 marzo 2022, ma la giurisdizione della giurisdizione dipende anche qui dal principio cardine del consenso di ciascuna parte a che il conflitto sia risolto da i giudici. La criminalizzazione della guerra, nonostante l’iniqua aggressione, dipende soprattutto da un accordo tra le volontà dei poteri o più semplicemente dal diritto alla forza, fondamenti in gran parte dimenticati. Tuttavia, seguendo l’esempio di quanto pensava il famoso internazionalista Louis Renault, se dobbiamo cercare i principi volti a vincolare i belligeranti, non possiamo negare totalmente l’esistenza di questi ultimi in diritto, anche se fossero considerati criminali. [10]
In realtà, più il giurista si limita a leggere la legge senza ammetterne i fondamenti, più sprofonda in una dimensione speciosa e pubblicamente ossequiosa del proprio quadro di lettura della belligeranza. Questo spostamento morale si scontra però violentemente con la propria aporia, perché incapace di qualificare idealmente la permanente ridefinizione della cosa internazionale. Tuttavia, come scrive saggiamente Bossuet, «è difficile che le arti della pace si uniscano perfettamente con i vantaggi della guerra [11] ”, vale a dire che è improbabile che garantisca allo stesso tempo pace, polizia e sicurezza internazionale, negando le basi della guerra. Il diritto internazionale deve liberarsi dei suoi luoghi comuni se vuole rimanere rilevante di fronte al conflitto, di cui una delle parti non è uno Stato qualsiasi, ma la prima potenza nucleare: nessun punto giuridico valido al di fuori della realtà! Quanto al giurista, lungi dall’essere un travetto incastrato tra legalismo e giudizi di valore, ha a disposizione altri materiali per riflettere sulla belligeranza come concetto a sé stante, in particolare i criteri di amicizia, inimicizia e neutralità.
Difficile tornare alla dichiarazione di guerra come criterio di belligeranza
Innanzitutto, ci sembra essenziale sottoporre al tema della belligeranza la prima nozione che viene in mente a tutti: la dichiarazione di guerra. [12]È attraverso di esso, infatti, che uno Stato tradizionalmente fa sapere al suo nemico che sta entrando in uno stato di belligeranza. Alcuni hanno anche notato, senza molta più convinzione, che il mancato uso della dichiarazione di guerra equivaleva quindi di diritto all’assenza di belligeranza. Questa affermazione è pertinente? La domanda richiede una doppia risposta negativa. In primo luogo, dal punto di vista del diritto della Carta delle Nazioni Unite, questa dichiarazione non potrebbe bastare per la legalità della guerra, così come un’eventuale dichiarazione della Russia verrebbe immediatamente condannata come illegittima. In secondo luogo, dal solo punto di vista del diritto costituzionale francese, anche questa affermazione è diventata obsoleta, ma possiamo esprimerla in modo un po’ più prolisso.
È vero che l’influenza del diritto internazionale condannava questa nozione di dichiarazione unilaterale dello Stato, ma, in Francia, questa influenza era tanto più conveniente in quanto escludeva la necessità del voto del Parlamento, prescritta dall’articolo 35 della Costituzione . Nell’ambito dell’operazione di coalizione Desert Storm , il primo ministro francese ha ricordato al riguardo che l’andare in guerra è inteso alla luce di “principi, che al vocabolario della guerra preferiscono quello dell’operazione di polizia internazionale [13]“. La dichiarazione è sempre rimasta lettera morta sotto la Quinta Repubblica e, a meno che l’Assemblea nazionale non si ricordi dei doveri che le sono conferiti da questo articolo, la Francia rimarrà costituzionalmente non belligerante fino a quando il suo capo degli eserciti non avrà dichiarato di impegnarsi in questo percorso – e la storia ha dimostrato che era del tutto possibile impegnarsi molto lontano nella belligeranza senza rivendicarla legalmente: durante la guerra d’Algeria, questo ragionamento è stato utilizzato, ad esempio, per giustificare il rifiuto dell’applicazione delle Convenzioni di Ginevra ai prigionieri davanti al aula della Corte di Cassazione. [14]Inutile, quindi, impantanarsi in un nonsenso giuridico del tutto insidioso del solo criterio della dichiarazione di guerra per determinare lo stato di belligeranza, perché si può essere nemico e belligerante senza aver dichiarato guerra. Basti ricordare che tale strumento, pur avendo una missione intrinseca di trasparenza, non ha più, allo stato di diritto, una risonanza positiva per identificare giuridicamente la belligeranza. Il realismo, e la sua parte di “empirismo abbastanza rozzo [15] ” come lo qualificava fatalmente la dottrina della fine dell’Ottocento [ 16] , riecheggia in ogni caso le eterne affermazioni di un eminente giureconsulto del Settecentosecolo, Cornelius van Bynkershoek, secondo il quale «una guerra può cominciare dalla dichiarazione, d’altra parte può anche nascere da un reciproco scambio di violenza [17] », ogni dichiarazione si riassume in una «solennità [… ] vuoto tra le nazioni . [19]
Una possibile ridefinizione teorica della (co-)belligeranza attraverso il prisma dei nuovi rapporti di stato
Occorre quindi considerare i rapporti di belligeranza diversi dalla sola carica ufficiale che uno Stato intende concedersi, senza per questo emanciparsi dall’esistenza positiva di una guerra e dei rapporti di belligeranza – a meno che non si possa qualificare tale da far sì che Vladimir Putin un pirata internazionale e di abolire una volta per tutte il termine guerra dal vocabolario giuridico; il dibattito filosofico è aperto. La dottrina internazionalista prebellica ha riflettuto su questo tema dei rapporti belligeranti dal punto di vista degli atteggiamenti di Stati terzi nei confronti di due parti dirette di un conflitto aperto. Questo ragionamento sembra più pertinente per stabilire un’analisi giuridica di un diritto di guerra “classico”. Infatti, oltre all’equilibrio internazionale sconvolto dall’azione di un membro permanente del Consiglio di Sicurezza, un certo numero di paesi cosiddetti “non allineati” ha scelto deliberatamente di non prendere parte al conflitto aiutando in modo significativo l’una o l’altra delle parti. Se è vero che il 2 marzo e il 12 ottobre 2022 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato a stragrande maggioranza — anche se le sue decisioni non sono vincolanti e non possono sostituirsi a quelle del Consiglio di sicurezza come alcuni hanno accennato — risoluzioni che condannano l’aggressione russa e l’annessione di Territori ucraini, trentacinque di questi paesi hanno taciuto, tra cui, tra gli altri e non meno importanti, Cina, Algeria e India. Questi stessi Stati, che peraltro hanno partecipato congiuntamente alle esercitazioni militari Se è vero che il 2 marzo e il 12 ottobre 2022 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato a stragrande maggioranza — anche se le sue decisioni non sono vincolanti e non possono sostituirsi a quelle del Consiglio di sicurezza come alcuni hanno accennato — risoluzioni che condannano l’aggressione russa e l’annessione di Territori ucraini, trentacinque di questi paesi hanno taciuto, tra cui, tra gli altri e non meno importanti, Cina, Algeria e India. Questi stessi Stati, che peraltro hanno partecipato congiuntamente alle esercitazioni militari Se è vero che il 2 marzo e il 12 ottobre 2022 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato a stragrande maggioranza — anche se le sue decisioni non sono vincolanti e non possono sostituirsi a quelle del Consiglio di sicurezza come alcuni hanno accennato — risoluzioni che condannano l’aggressione russa e l’annessione di Territori ucraini, trentacinque di questi paesi hanno taciuto, tra cui, tra gli altri e non meno importanti, Cina, Algeria e India. Questi stessi Stati, che peraltro hanno partecipato congiuntamente alle esercitazioni militari votato a stragrande maggioranza — anche se le sue decisioni non sono vincolanti e non possono sostituire quelle del Consiglio di sicurezza, come alcuni hanno suggerito — risoluzioni che condannano l’aggressione russa e l’annessione dei territori ucraini, trentacinque di questi paesi tacciono, compresi, tra gli altri e non ultime Cina, Algeria e India. Questi stessi Stati, che peraltro hanno partecipato congiuntamente alle esercitazioni militari votato a stragrande maggioranza — anche se le sue decisioni non sono vincolanti e non possono sostituire quelle del Consiglio di sicurezza, come alcuni hanno suggerito — risoluzioni che condannano l’aggressione russa e l’annessione dei territori ucraini, trentacinque di questi paesi tacciono, compresi, tra gli altri e non ultime Cina, Algeria e India. Questi stessi Stati, che peraltro hanno partecipato congiuntamente alle esercitazioni militariVostok nel settembre 2022, rimangono così positivamente e volontariamente neutrali rispetto al conflitto stesso, senza astenersi dal mantenere relazioni amichevoli con la Russia. Quanto ad altri astensionisti come il Marocco, l’Iraq o l’Iran, i rispettivi interessi regionali vietano loro di congelare i rapporti con Vladimir Putin. Anche gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita, dal canto loro, hanno mostrato la loro neutralità rifiutandosi di votare le risoluzioni dell’Assemblea Generale, approfittando al contempo di nuove e succose alleanze commerciali.
L’accentuato compiacimento e l’amicizia di questi “nuovi neutrali” nei confronti dello Stato russo non sono però sinonimo di affetto nei confronti di Vladimir Putin: l’ amicizia è qui intesa nel senso di conoscenza ; è meno a causa di uno stato emotivo di amicizia derivante dall’etimologia amo – “amare” – che per voler andare d’accordo – “legare” – con la Russia. Questa posizione non ha fatto uscire gli Stati dalla loro neutralità rispetto alla questione specifica della guerra in Ucraina. Infatti, la neutralità è intesa in senso classico come neutralità parziale ; lungi dall’essere un ossimoro, questa nozione è soprattutto un semplice atteggiamento negativo nei confronti di un conflitto, o, se si preferisce, la volontà positiva di non schierarsi direttamente. Grozio, nel capitolo XVII del libro III della Legge di guerra e di pace , fa risalire questo diritto all’antichità, dove Livio, Cicerone e Plutarco ne espressero l’estensione con sconcertante semplicità: una nazione può affermare di essere neutrale, ma perde il diritto di pace ed entra in belligeranza quando favorisce una delle parti in conflitto. In altre parole, tra nemici, il neutrale rischia sempre di essere un amico non dichiarato; Jean Bodin [20] nel XVI secolo e Bynkershoeck [21] nel XVIII secolosecolo perpetua questa concezione politica del neutrale, consacrando il suo status di parte interessata costante, agendo ora secondo la sua posizione di forza, ora a causa della sua posizione di debolezza. La prosecuzione del commercio, inoltre, è indicativa della posizione del neutrale interessato, che può mostrarsi pubblicamente in posizione di inimicizia con uno dei belligeranti pur rimanendo cauto nelle sue azioni; da qui l’adagio: “la veste del nemico non confisca quella dell’amico ” [22] – che si addiceva perfettamente agli importatori occidentali di petrolio russo, anche se avveniva attraverso la raffinazione al di fuori della giurisdizione territoriale di Mosca.
Della necessaria scelta tra neutralità e belligeranza
Qualsiasi parzialità rimane quindi ovviamente presente nei rapporti statali, ma quando scoppia una guerra tra due Stati, questa neutralità è sempre attenta a non ribaltarsi nell’aiutare l’uno o l’altro in vista della vittoria. La parzialità quindi non autorizza tutte le schivate. Al contrario, un palese aiuto militare a uno Stato terzo in conflitto porrebbe quest’ultimo in una certa posizione di belligeranza. L’apertura dei porti alle fregate, l’assicurazione del passaggio terrestre delle truppe, ecc. sono tutti criteri di belligeranza. [23] L’invio di armamenti, l’addestramento di soldati, i divieti di spazio aereo, gli attacchi informatici e le sanzioni economiche non apparterrebbero alla stessa categoria? Cos’altro possiamo dire sull’adesione alla NATO durante la guerra?[24] La dottrina rifiutò allora di immergere il diritto nell’oceano fittizio delle neutralità “imperfette” o “benevole”, per declinare sempre una serie infinitesimale di situazioni, l’una altrettanto astrusa dell’altra. [25] Riassumiamo con questa affermazione che “ neutrale ha il necessario correlativo bellicoso [26] ”.
Resta quindi difficile rivendicare l’unico “diritto naturale all’autodifesa” garantito dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. In primo luogo, tutte le parti lo rivendicano. Anche la Cina lo usa sulla questione di Taiwan. La giustizia naturale che ogni campo intende difendere con ardore ci riporta alle parole di Proudhon in Guerra e Pace : “La guerra non è l’insulto dell’uno che solleva la legittima difesa dell’altro. È un principio, un’istituzione, un credo. [27] » Poi, sebbene questa nozione sia un diritto naturale, rimane tuttavia soggetta alla verifica dei fatti. Se non avesse resistito così formidabile, [28]L’Ucraina avrebbe potuto ancora rivendicare il suo diritto naturale di fronte al giudizio positivo della Storia? Infine, l’autodifesa collettiva prevista dallo stesso articolo 51 richiede in ultima analisi , per essere ratificata e valida nei confronti dell’ONU, una decisione del Consiglio di sicurezza… [29] L’autodifesa collettiva non può essere spinta al parossismo di una giustificazione penale di una delle parti, fondata su un’obiettiva e giusta neutralità di un equilibrio internazionale, se questo supremo equilibrio viene infranto. Anche la neutralità oggettiva, storicamente riconosciuta in più aree geografiche [30] con l’intento di evitare radicalmente ogni conflitto nel tempo, [31] presuppone «un equilibrioStati, che impedisce ai forti di costringere i deboli. [32] La neutralità non ha quindi nulla a che fare con un diritto oggettivo o assoluto – nel senso di absolutus , “slegato” – e non esiste uno spazio giuridico indivisibile tra neutralità interessata e belligeranza. Gli Stati, per “articolato pragmatismo [33] “, hanno solo il tempo libero di muoversi su una linea di cresta legale che separa i due schieramenti di belligeranza durante una guerra, ma un passo verso l’amicizia decisiva verso l’uno li conduce irrimediabilmente all’inimicizia verso l’altro .
[1] Va detto che questa affermazione, portata dagli Stati Uniti davanti al tribunale delle Nazioni Unite durante l’invasione di Panama nel dicembre 1989, servì da piacevole precedente.
[2] La formula è mutuata da: P. VALERY, Lettere ad un amico , Gallimard, 1978
[3] Sentenza del Tribunale militare internazionale, in: Processo a grandi criminali di guerra davanti al Tribunale militare internazionale, Norimberga, 14 novembre 1945-1 ottobre 1946, t. io , pag. 197
[4] A. DE NANTEUIL, “Fate la legge, non la guerra. Quale quadro per la guerra secondo il diritto internazionale alla luce della situazione ucraina? », La Semaine Juridique , Edizione Generale n° 39, 3 ottobre 2022, dott. 1099, online: <https://www-lexis360intelligence-fr>
[5] I. PREZAS, “Fasc. 450: Delitto di aggressione”, JurisClasseur , 13 novembre 2014, online: <https://www-lexis360intelligence-fr>
[6] È d’altronde questa stessa speranza di giustizia universale che guidò i rivoluzionari francesi nel 1792 ad affermare che essi non facevano «la guerra di nazione in nazione, ma la giusta difesa di un popolo libero contro un’aggressione ingiusta»: A. Corvisier, Storia militare della Francia , t. 2, Parigi, University Press of France, 1992
[7] S. SUR, “La guerra del diritto nel conflitto ucraino”, La Semaine Juridique , Edizione Generale n° 20-21, 23 maggio 2022, dottr. 660., online: <https://www-lexis360intelligence-fr>
[8] J. GRIGNON, “Cobelligeranza” o quando uno Stato diventa parte di un conflitto armato? », Strategic brief , n° 39, 6 maggio 2022, online: < https://www.irsem.fr/>
[9] Questo desiderio è stato affermato in particolare dall’ex capo dell’Ufficio centrale contro i crimini contro l’umanità (OCLCH) Éric Émereaux.
[10] L. RENAULT, “L’applicazione del diritto penale agli atti di guerra”, Estratto dal Journal de Clunet 1915 ( anno 42 ) p. 313-344 , Parigi, Marchal e Godde, 1915, p. 6 e segg.
[11] J.-B. BOSSUET, Discorso sulla storia universale , Parigi, Librairie Hachette et Cie, 1877, p. 436
[12] Ciò che era o non era materia di guerra è sempre stato oggetto di qualificazione giuridica da parte del belligerante stesso: dall’Eneide alle lettere di sfida durante la terza e la settima crociata, e fino alla dichiarazione di guerra, il diritto di un partito promuoveva la sua funzione qualificante della cosa della guerra ponendo il proprio cursore di identificazione teorica.
[13] Dichiarazione di Michel Rocard del 15 gennaio 1991, online: <https://www.vie-publique.fr/>; Il Parlamento è rimasto senza parole; il discorso non si era avvalso dell’articolo 35 della Costituzione, ma si era basato sui commi 1 e 4 dell’articolo 49, cioè una dichiarazione che in pratica non impegna la responsabilità del Governo.
[14] Cass. Penale. 4 settembre 1961 Becetti e Henni , Boll. Delitto, pag. 706
[15] T. FUNCK-BRETANO; A. SOREL, Précis du droit des gens , 3a ed., Paris, Librairie Plon, 1900, p. 235
[16] Questo periodo è segnato dalle aggressioni spontanee e bellicose del Giappone, nel 1894 contro la Cina e nel 1904 contro la Russia.
[17] C. VAN BYNKERSHOEK, I due libri di questioni di diritto pubblico , Limoges, “Cahiers de l’Institut d’anthropologie juridique n. 25”, Pulim, 2010, p. 52
[18] Il Trattato di Vestfalia, che ha fondato il moderno diritto delle genti, egli afferma, che nasce dai conflitti tra le ribelli Province Unite e il Regno di Spagna, “è iniziato con violenza reciproca, senza alcuna dichiarazione. Dubiterai, perché non è stato dichiarato, il diritto alla vittoria, il diritto alla pace che seguì nel 1648? » ; Ibid ., p. 55-56
[19] Anche la dottrina inglese, come William Edward Hall, era dominata dall’idea che la guerra fosse legalmente scatenata dal primo atto di ostilità.
[20] J. BODIN, I sei libri della Repubblica , Parigi, Librairie Générale Française, 1991, in particolare capitolo VII, libro primo
[22] Cfr. E. SCHNAKENBOURG, Tra guerra e pace. Neutralità e relazioni internazionali, secoli XVII-XVIII , Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2003, p. 28
[23] P. FAUCHILLE, Trattato di diritto internazionale pubblico , t. 2, 8a ed., Parigi, A. Rousseau, 1921 p. 93
[24] Su tale questione, la dottrina prebellica riteneva che se le passate alleanze militari non innestassero direttamente uno stato di belligeranza ma riportassero le parti ad una semplice “neutralità imperfetta”, il fatto di aderirvi dopo l’inizio delle ostilità potrebbe , al contrario, servire come criterio di belligeranza: Ibid ., p. 642-643
[27] PROUDHON (P.-J.), Guerra e pace: ricerca sul principio e costruzione del diritto delle nazioni , “Opera completa di P.-J. Proudhon”, Lipsia Livorno: International Library A. Lacroix , Verboeckhoven & Cie, Parigi Bruxelles, 1869, p. 291
[28] Va detto che, come scrive Montaigne nei suoi Saggi , «rende pericoloso aggredire un uomo, al quale avete privato di ogni mezzo di fuga se non con le armi: perché è maestra violenta che necessità».
[29] Questa è la nostra interpretazione degli articoli 43§1, 48§1, 49 e 51 della Carta delle Nazioni Unite.
[30] Gli esempi più noti sono Venezia, la Confederazione Svizzera, Malta, le città di Liegi e Cracovia o anche il Ducato di Hanvore.
[31] S. SCHOPFER, Il principio giuridico della neutralità e il suo sviluppo nella storia del diritto di guerra , Losanna, Corbaz, 1894, p. 61 e segg.
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All’epoca – vent’anni fa, all’incirca – del fiorire di guerre per la pace, i diritti, la giustizia, era pubblicato su Palomar questo breve saggio, con una sintesi della concezione della guerra giusta.
Si ripropone il contributo, tenuto conto della persistenza, anzi dell’incremento di simili “sfide” giustificate, come prima, con la giustizia.
BREVE STORIA DELLA GUERRA GIUSTA
Ad analizzare il concetto di guerra giusta ci si deve guardare dal cadere nell’ovvietà, perché, prima facie, appare contraddittorio un aggettivo che attribuisce la giustizia ad un’attività la quale di per sé, mancando di un terzo superiore – e decisore – è priva del presupposto prioritario perché possa aversi una decisione, cioè una giustizia concreta ed imparziale. Per cui in sommaria analisi, e contrariamente a quanto possa scriversi sui rotocalchi, la guerra non può essere “giusta”[1]. Tuttavia dato che tale concetto si ripresenta nel pensiero occidentale, e nell’ultimo decennio è stato utilizzato ripetutamente dalla propaganda dei belligeranti, è necessario capire se possa esserci – al di là delle apparenze contrarie – una guerra se non “giusta”, quanto meno “legittima”.
La concezione criticata si fonda sul giudicare la guerra, di per sé fenomeno essenzialmente e squisitamente politico, in base a parametri non-politici, morali, religiosi o ideologici: dalle Crociate fino agli interventi nei Balcani degli anni ’90, la giustificazione delle guerre giuste è sempre stata la difesa di determinate idee o “valori”, fatti propri dai “giusti” combattenti e negati (o che si pretendevano negati) dai loro nemici. E’ evidente che valutare fenomeni e istituzioni politiche con criteri non pertinenti, e soprattutto con quei parametri ideologici e morali, è, a dir poco, destabilizzante e contrario a gran parte del pensiero politico moderno. Da Machiavelli a Croce è stato ripetutamente stigmatizzato come decidere tali questioni in base a canoni morali è non solo ipocrita e polemogenetico – perché serve, nel caso specifico, alla giustificazione della guerra diventando, con ciò, uno strumento di guerra psicologica – ma soprattutto è foriero di inconvenienti superiori ai benefici. Non solo sul piano internazionale, perché legittima e fa salire l’intensità della guerra, ma anche in politica “interna”, ove serva a consolidare dei mediocri governanti che hanno l’unico pregio di apparire “buoni” (per lo più solo quello di predicare bene), con scarse – o punte – capacità e risultati politici; d’altra parte, a seguire l’ironia di Croce, se qualcuno sceglie il chirurgo confidando nelle sue qualità morali – e non in quelle professionali, come si fa di solito – e poi muore sotto i ferri, in definitiva il proprio destino se l’è cercato.
Sotto un diverso profilo il concetto di guerra giusta – intesa secondo tali criteri – implica una contraddizione e una conseguenza. La contraddizione, già ricordata, è che, in teoria, ambo le parti belligeranti credono di avere giuste ragioni, ed in tal caso non c’è un terzo che possa giudicare: alla giustizia manca, cioè, il giudice.
La seconda è di tendere a criminalizzare il nemico, come sottolineato ripetutamente da Carl Schmitt: al nemico “ingiusto” diventa naturale – anzi “giusto” – riservare un trattamento da criminale. Il fatto che sia uno justus hostis, cioè in termini moderni uno Stato sovrano, non serve: lo “justum bellum” finisce per annichilire così lo “justus hostis” cioè il (primo) requisito con cui i tardoscolastici (che tanto hanno contribuito al diritto internazionale moderno), avevano elaborato la concezione dello jus belli (la quale, nel loro pensiero è, in primo luogo, una guerra limitata, nei soggetti, nei motivi, nei modi e nell’intenzione)[2].
D’altra parte, come noto, è proprio lo justus hostis il binario (principale) di legittimazione della guerra su cui hanno proceduto il diritto (e le relazioni) internazionali moderne.
Questo è, come sopra scritto, un concetto limitativo, strettamente (ancorché non esclusivamente) connesso alla nascita (e allo sviluppo) dello Stato moderno, col conseguimento progressivo – e rapido – da parte di questo del monopolio della violenza legittima, di cui la guerra è l’aspetto “esterno”. Il che significava negare legittimità alle guerre non statali, alle guerre “feudali” tra Comuni, vassalli, signorotti e vescovi-conti, tutti subordinati all’autorità del Sovrano (nascente) e quindi privati dello jus bellandi. Tale concezione rappresentava un indubbio progresso, perché limitava il numero dei soggetti giustamente belligeranti e così delle guerre “lecite”. I conflitti nati all’interno dell’unità politica erano riservati e risolti dalla giustizia dello (Stato) sovrano.
E’ noto a tale proposito, che il primo – e quasi esclusivo carattere che connota il concetto di justus hostis – è quello, negativo, di non avere un superiore. È justus hostis – scrive Francisco Suarez – quel principe, che, non avendo un superiore, non ha i mezzi, né la possibilità di avere giustizia da questi: e quindi può conseguirla solo facendosela da solo. Si noti come nella concezione della Tarda Scolastica, conseguente a quella di S. Tommaso, la guerra è strettamente correlata alla giustizia, sia come aspetti di una medesima funzione, di tutela e/o protezione (contro i malviventi all’interno; contro i nemici all’esterno), sia come mezzo per ripristinare il diritto leso. Di converso, non è justus hostis, scrive Suarez (anche qui, derivandolo dalla distinzione tomista tra persona “privata” e principe) colui il quale, vassallo, ha il “diritto” che sia il sovrano a fare giustizia o decidendo – se superiore a entrambi i contendenti – la controversia; ovvero dichiarando guerra per la tutela delle giuste pretese della comunità e dei sudditi. Per il sovrano, fare la guerra nel caso di violazione dei diritti della comunità o dei sudditi, è un dovere. Con la conseguenza, apparentemente sorprendente, ma logica in un gesuita spagnolo del “Siglo de Oro” che nel caso il principe non difenda i sudditi, sia cioè trascurato “in vindicanda et defendenda republica” allora può “tota respublica se vindicare, et privare ea auctoritate principem,…si princeps officio suo desit”[3]: che è l’eccezione alla regola. Il concetto di justus hostis è dunque correlato e presuppone l’assenza del terzo “superiore” e quindi la parità tra i contendenti. Senza questa non c’è né justus hostis né justum bellum.
La guerra del suddito contro il sovrano è rivoluzione o ribellione; quella del superiore verso il suddito è un’operazione di polizia. In ogni caso non è “guerra” nel senso del diritto interstatale. Col tramonto del feudalesimo viene meno anche il “diritto di resistenza”.
La parità comporta – e presuppone – il riconoscimento del nemico e l’assenza di un’autorità temporale universale, o quanto meno, sovrastatale. Non a caso la Relectio de Indis di de Vitoria inizia la trattazione dei “titoli” con la negazione dei poteri “universali” del Papa e dell’Imperatore. Con ciò era riconosciuto quel carattere del mondo politico per cui questo costituisce un pluriverso e non un universo. E, parità, riconoscimento e assenza di terzo superiore, comportano altresì che il giusto nemico non possa essere confuso col criminale.
D’altra parte, tutti tali caratteri si rovesciano specularmente nei rapporti interni all’unità politica: lo Stato sovrano non è “pari” ai sudditi, non “riconosce” nemici interni (ma solo criminali o, tutt’al più, ribelli, cioè criminali politici); è il “terzo superiore”. Il che contribuisce a determinare la prima delle caratteristiche dello Stato moderno, che lo differenziano da altre forme politiche, in particolare quelle feudali-medievali: la distinzione rigida, e per così dire, l’impermeabilità, tra interno ed esterno, e quella, contigua, tra potere pubblico (che è, in linea di principio, unico e monopolizzato) ed altri poteri, generalmente, non riconosciuti come pubblici. Tra questi, un particolare riguardo, nella forzata “privatizzazione” del medesimo, era rivolto al “potere spirituale”, specificamente a quello ecclesiastico. Dalla plenitudo potestatis medievale si passava alla negazione di qualsiasi intromissione di quello nel potere temporale: la stessa dottrina dei cattolici più intransigenti diventava quella della potestas indirecta, che, avversata da Hobbes, è comunque la negazione – quasi totale – delle teorie sul potere papale, correnti nel Medioevo. L’ impermeabilità dello Stato moderno, rivolta doppiamente sia verso lo justus hostis, cioè il nemico possibile ma pari come soggetto politico, sia verso coloro cui non è riconosciuto lo status di “pari”, è uno dei caratteri che più lo differenziano dalle concezioni medievali: secondo le quali i poteri erano diffusi, spesso confusi e permeabili. Rigida delimitazione riflessa anche sulla guerra. Non solo nel senso della monopolizzazione dello jus belli, ma anche nella non interferenza nell’ordinamento interno degli Stati, ancorché belligeranti (o sconfitti). Nelle guerre “in merletti” dell’Ancièn règime, istituzioni, diritto, classi dirigenti dei paesi in guerra, e perfino, in larga misura, di quelli conquistati, erano completamente e reciprocamente indifferenti ai belligeranti. Situazione che cambiò, notoriamente, con la Rivoluzione francese. Già Brissot affermava “non potremo essere al sicuro se non quando l’Europa, e tutta l’Europa, sarà in fiamme” (le fiamme della rivoluzione che si voleva esportare); per cui un giacobino come Chaumette auspicava “Il territorio che separa Parigi da Pietroburgo e da Mosca sarà presto francesizzato, municipalizzato, giacobinizzato”. Con l’approvazione nel dicembre 1792 da parte della Convenzione della mozione di Cambon, all’indifferenza si sostituiva l’opposto principio dell’ingerenza sulle istituzioni e (le classi dirigenti) delle popolazioni “liberate”. Come corollario della “giusta guerra”, trasformatasi in guerra rivoluzionaria, si aveva che la justa causa belli era costituita (almeno in linea teorica) dalla diversità dell’ordinamento del nemico dai principi rivoluzionari. Con ciò tale concetto, richiamato pure nelle recenti vicende, era rivitalizzato (mutando i caratteri) da nuova linfa. Quella che dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo arriva ai “diritti umani” nostri contemporanei: e, per la quale, di conseguenza, nemico è chi viola i “diritti” proclamati in qualche dichiarazione, e contro il quale, pertanto, la guerra è giusta.
Carl Schmitt ritiene che nel ritorno dalla discriminante degli justi hostes a quella della justa causa vi sia il riemergere di una dottrina pre-statale.
Occorre aggiungere a ciò che, comunque, ancorchè precursori-fondatori del diritto internazionale moderno (cioè interstatale) come de Vitoria, non si svincolassero dalla “justa causa”, avevano ragioni in qualche misura da considerarsi ancora valide. Teologi-giuristi come de Vitoria o Suarez, partivano da una visione tomista, da un concetto di diritto come ordinamento concreto, come “istituzione”. Il diritto che deve essere ripristinato nel caso di guerra giusta offensiva non è quello astratto contenuto in dichiarazioni solenni, ma quello prodotto dall’esistenza politica (e giuridica) di entità statali e dai loro rapporti. Suarez scrive che occorre una “gravis iniuria” come motivo di guerra; e nel classificarne le specie, ricorda: l’appropriazione di “cose” d’altri; la lesione dei “communa jura gentium” (come il diritto di transito o di libero commercio), e infine la grave lesione nella reputazione o nell’onore. Cioè diritti in larga misura verificabili, consuetudinari e consolidati nel tempo e dai fatti, tutti caratteri di cui è privo, per lo più, un “diritto” come quello delle solenni dichiarazioni. Il che ridimensiona, senza eliminarlo, il problema reale – e principale – che consiste nel quis judicabit? ovvero del chi decide sulla giustizia della guerra. In uno schema come quello sotteso alla teoria criticata della “guerra giusta” sarebbe, di converso, sufficiente redigere una dichiarazione colma di principi edificanti, accusare il proprio confinante di violarla, giudicarlo di conseguenza, ed eseguire la “sentenza” con aerei e carri armati: con ciò divenendo il legislatore, il giudice e l’esecutore del “teoricamente” pari. Il quale è pari, per l’appunto, proprio perché leggi, sentenze e atti esecutivi del vicino non costituiscono obblighi per il medesimo.
Non è quindi possibile derivare il concetto di guerra giusta da norme morali e giuridiche (secondo una concezione normativista del diritto, neppure supportata dalla “positività” di un ordinamento statale), né derivarne allo stesso modo i concetti – e le applicazioni – che ne conseguono, come colpevolezza, pena e condanna: è la mancanza di uno justus judex a costituire l’ostacolo principale: moltiplicato, nel caso, dal far appello a un diritto normativisticamente fondato.
Tuttavia, a cambiare prospettiva, partendo cioè dalla concretezza storico-politica degli ordinamenti, invece che dalle astrattezze “morali” di certe norme, è possibile costruire un concetto di guerra giusta che sia meno estraneo al diritto internazionale “tradizionale”.
Il diritto si caratterizza, anzi è tale, perché è (richiede di essere) effettivamente applicato. E’ la possibilità concreta d’applicazione e coazione, ovvero in termini weberiani (di definizione della potenza) quella di far valere con successo i propri comandi in un gruppo sociale, a costituire il criterio, di gran lunga più importante, della legittimità di un ordinamento (o, in diversi termini, del potere). Santi Romano, con la sua concezione desunta dal diritto sia interno che internazionale, ne ha data una formulazione, a un tempo, decisiva e coerente ai tempi. Secondo il giurista siciliano “esistente e per conseguenza legittimo è solo quell’ordinamento cui non fa difetto non solo la vita attuale ma altresì la vitalità. La trasformazione del fatto in uno stato giuridico si fonda sulla sua necessità, sulla sua corrispondenza ai bisogni ed alle esigenze sociali. Il segno sicuro che questa corrispondenza esista, che non sia un’illusione o qualcosa di artificialmente provocato, si rinviene nella suscettibilità del nuovo regime ad acquistare la stabilità, a perpetuarsi per un tempo indefinito”. In altre parole, secondo Santi Romano, legittimo è l’ordinamento vitale. La vitalità deriva dalla corrispondenza dello stesso ai bisogni, alle aspettative, ai “valori” condivisi; prova ne è la durata.
Di fronte a ciò ha importanza secondaria la corrispondenza del regime politico ad una formula “ideale” (o ad un insieme di norme) astratte. D’altra parte nel diritto internazionale è riconosciuto uno Stato, non perché conforme a norme (neanche alle proprie, altrimenti non sarebbero riconosciuti gli Stati sorti da una rivoluzione), ma perché dimostra di spiegare un potere efficace sul territorio. Tale concezione si può dire, in qualche misura, tributaria del pensiero di Hobbes. Secondo il filosofo di Malmesbury la ragion d’essere dello Stato è giustificata (e già quindi legittimata) attraverso la capacità del sovrano e dell’organizzazione statale a mantenere la pace all’interno e difendere la comunità dai nemici esterni. L’autorità politica si legittima, nel pensiero di Hobbes, per la capacità di assolvere tale funzione. L’unico dovere del Sovrano è di osservare la regola “salus populi suprema lex esto”[4]. Il dovere di obbedienza dei sudditi viene meno non quando il sovrano non è quello “legittimo” (absque titulo) e tanto meno se prende delle decisioni difformi dalle leges fundamentales (dato che è fonte della legge); cessa solo quando l’autorità non è più in grado di offrire protezione. Il protego ergo obligo è così la sostanza del rapporto politico, il primo fondamento del diritto di comandare e quindi di una legittimità svincolata da valori e tradizioni, e ricondotta ad un nesso funzionalistico.
Solo l’incapacità del sovrano a difendere i sudditi – l’inadempienza al dovere di protezione – fa venir meno quello d’obbedienza. Legittimo così in buona sostanza è l’ordinamento vitale ed efficace; lo Stato moderno è tale, in primo luogo, in quanto esplica il proprio potere (esclusivo) su una determinata popolazione (e territorio); corrispettivo di ciò è il dovere di protezione; potere, protezione, (consenso) creano e mantengono la situazione di pace all’interno dell’unità politica. Come scriveva Hauriou , l’obbligo di protezione è il fondamento della “idea direttiva” dell’istituzione – Stato, che così definiva “attività protettiva di una società nazionale svolta da un potere pubblico a base territoriale”. Quando uno Stato non riesce più ad assolvere tale funzione, come nel caso di guerra civile, non protegge più la comunità, e anzi diviene anch’esso “parte” di una guerra contro i propri cittadini, possono riprendere vigore le norme internazionali. Come scriveva Santi Romano, sulla prassi di riferire tali diritti agli insorti, la ragione ne era “l’impotenza dello Stato nel quale scoppia l’insurrezione a dominare col suo ordinamento gli autori di essa, per cui lo stesso Stato sente il bisogno, per mitigare la lotta, di condurla secondo le norme internazionali, purché anche gli insorti adottino uguale comportamento”[5]. Per cui le norme internazionali divengono, spesso, vigenti all’interno del territorio statale, quando il rapporto protezione/obbedienza e il potere di comandare vengono meno di fatto. È il caso di notare che nessuno dei concetti impiegati in situazioni simili ha carattere normativo. Non serve la “legalità” del potere (come procedimento/i di deduzione/applicazione di norme), perché porterebbe inevitabilmente alla negazione di tali diritti a una delle parti in causa. Di converso, concetti come ordinamento, unità politica, effettività del potere e del comando e “normalità” servono a discriminare in modo opportuno la sussistenza delle condizioni per considerare finiti (o “sospesi”) potere statale ed unità politica. A seguire il pensiero di Kant, sopra ricordato, erano “legittimi” sia l’intervento sovietico che, in particolare, quello nazi-fascista nella Spagna del 1936, subito dopo l’alzamiento, perché dato il controllo di buona parte del territorio spagnolo dei generali golpisti, erano venuti meno sia l’unità politica che il potere statale repubblicano (quest’ultimo nelle zone dominate dalla junta)[6]. Resta il fatto che concetti come effettività del potere statale o unità politica non possono essere deducibili o rapportabili a norme, statali o internazionali che siano, perché attengono alle concrete condizioni di esistenza, politica e sociale, di gruppi umani (al sein) e non alla validità di comandi legalmente statuiti e correttamente applicati (al sollen).
Lo Stato è il “defensor pacis” – di una pace concreta. Forza e consenso sono gli strumenti (e i presupposti) per mantenerlo. Non un qualsiasi potere statale è quindi legittimo; ma solo quello che, in qualche misura accettato dai sudditi, fa valere la propria volontà spiegando la forza sufficiente.
Per verificare la misura di tale consenso – e quindi dell’effettività del potere – non basta che vi sia un esercito, dei Tribunali, una polizia. Occorre anche che l’impiego della “violenza legittima” sia limitato, proporzionato ed “episodico”; quando questo diviene eccessivo, costituisce la più evidente (e decisiva) prova che il potere non è accettato; e che tale “Stato” non corrisponde alla propria “idea direttiva”. Lo Stato, prodotto del razionalismo occidentale, non è Ubu né Attila, e neppure l’Imperatore Teodosio a Tessalonica : si serve della forza, ma con misura. Se lo fa, all’inverso, a dismisura, significa che non è accettato e comunque non assolve al compito di proteggere l’esistenza e i diritti della comunità e degli individui. In tal caso può essere definito “Stato” nel senso indicato da Hobbes, e dal pensiero politico moderno? O non piuttosto, e richiamandoci a S. Agostino, mancando la “justitia” (nel significato, per così dire, “hobbesiano”) apparati di potere siffatti non sono che “magna latrocinia”? In questi termini, e non ricorrendo a giudizi morali o a normativismi vari, ma basandosi sull’effettività, la vitalità ed il consenso di un ordinamento e su una situazione concreta – si può rivisitare il concetto di “justa causa belli”. Non nel senso della violazione di norme astratte – anche se condivisibili – ma perché la comunità non accetta la violazione di certi diritti, e l’apparato statale, che li viola, diventa così uno strumento di coazione violenta, privo di consenso. Oltretutto legittimare la guerra in base al mero illecito, alla meccanica violazione di norme, significa moltiplicare – e non ridurre – i possibili casus belli, per tutte le disposizioni contenute nei trattati internazionali (o sancite da consuetudini, ma queste sono molto meno numerose). Significherebbe fare guerre “giuste” per la secchia rapita.
Nel caso specifico, l’ultimo che ci si è posto, cioè la guerra del Kosovo – la quale da un altro angolo visuale, non è altro che una guerra aggressiva contro uno Stato sovrano -, secondo i criteri esposti, ispirati al realismo politico (e giuridico), è assai dubbio che il regime di Milosevic possedesse quei caratteri, almeno nel territorio Kosovaro.
Non solo c’era una situazione di aperta volontà secessionista della stragrande maggioranza albanese della popolazione, non solo una repressione massiccia, con massacri e stupri di massa, ma anche l’esodo di buona parte della popolazione di etnia albanese. In tale situazione il despota di Belgrado appariva ed appare non come il “difensore della pace” (e del diritto) ma l’attizzatore della guerra (contro i sudditi). Cioè di quel mezzo, di per se – e in diverso contesto – legittimo, che comunque un ordinamento internazionale deve cercare di contenere.
E in questo senso, la guerra della Nato alla Serbia può anche considerarsi giusta.
Teodoro Klitsche de la Grange
Teodoro Klitsche de la Grange, giurista, politologo, direttore del trimestrale di cultura politica Behemoth e collaboratore di riviste di politica e di diritto (tra le quali Nuovi studi politici, Il Consiglio di Stato, Il Foro Amministrativo, Cattolica, Ciudad de los Césares, La Gironda).
Ha pubblicato di recente con altri autori Lo specchio infranto (Roma 1998); Il salto di Rodi (Roma 1999); Il doppio Stato (Soneria Mannelli 2001).
[1] Com’è noto, la guerra è stata spesso considerata uno strumento di giustizia, di realizzazione di diritti e riparazione dei torti (v. S. Tommaso, Summa Theol. II, II, q. 40 art. 1, anche citando S. Agostino; F. Suarez De charitate, disp. 13: De Bello; S. Roberto Bellarmino, v. nota seguente; Lutero Sull’autorità Temporale in Oeuvres Tomo IV, p. 23 ss, Ginevra 1975 e I soldati possono essere in stato di grazia? ivi pp. 231-233; Calvino L’institution chrétienne, lib. IV, cap XX, 11); ma oltre alla funzione di realizzazione e tutela del diritto, la guerra può avere, con questo, un’altra analogia. Quella che risulta dalla prima definizione della guerra di Clausewitz secondo il quale “La guerra è un atto di forza che ha per scopo di costringere il nemico a fare la nostra volontà”. Tale definizione non è inutile a chi vada alla ricerca dei fondamenti del diritto, pubblico in particolare. Ad un giurista è naturale ricordare che diritto e Stato sono necessari “ne cives ad arma ruant”; onde chi voglia connotarli secondo la funzione difficilmente può prescindere dallo scopo di regolazione e pacificazione dell’uno e dell’altro (sul che ci permettiamo rinviare alla più diffusa trattazione di chi scrive nel saggio “Guerra e diritto” ora ne “Il salto di Rodi”, Roma 1999 p. 57 ss.).
[2] v. S. Roberto Bellarmino, ora in Scritti politici, Bologna 1950, p. 259; rispetto a S. Tommaso, ciò che abbonda è il modus, dato che l’Aquinate poneva solo tre condizioni allo justum bellum – Summa Theol. II, II,q. 40, art. 1.
[3] F. Suarez “De charitate” disp. 13: De Bello; Josè Lois Estevez ricorda come la tesi che ricorrere alle armi nelle lotte intestine non è mai ammesso trova non pochi sostenitori; ma è contrastata dal pensiero teologico e giuridico classico da Sant’Agostino e San Tommaso fino a Molina e Soto, per non ricordare i monarcomachi sia cattolici che riformisti, “cuyo peso especifico està incomparablemente por encima de los que hoy se les oponen” (v. Josè Lois Estevez in Razon española n. 101 mayo – junio 2000 p. 267).
[4] v. Th. Hobbes, De Cive trad. it., Roma 1981, p. 193
[5] v. Corso di diritto internazionale, Padova 1935, p. 73; è da notare che Kant, in “Per la pace perpetua”, ha una posizione a questa coerente, perché mentre ritiene che “Nessuno Stato deve intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato”; giudica che è ben diverso il caso di guerre intestine; nel qual caso l’aiuto prestato a uno degli “Stati” “non potrebbe considerarsi come ingerenza nella costituzione di un altro Stato, perché non di Stati si tratta, ma di anarchia” v. Antologia degli scritti politici a cura di G. Sasso, Bologna 1961, p. 110.
[6] Carl Schmitt in Theorie des Partisanen (trad. It. Milano 1981) sostiene che il carattere politico del partigiano e la presenza, a fianco e/o alle spalle di un terzo interessato (uno Stato, cioè una potenza “regolare”), che aiuta il movimento partigiano, sono connotati peculiari dei movimenti di resistenza e li distingono dai tipi “criminali”, cioè non politici, di combattenti come i pirati (v. op. cit. p. 16 ss. e 57 ss.). Sotto un altro profilo, tale connotato è speculare alle considerazioni di Kant (v. sopra): come la perdita dell’unità politica e la guerra civile legittimano l’intervento di una terza potenza, così conferiscono lo status di soggetto politico all’organizzazione di resistenza
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Massimo Morigi (per chi non volesse rileggere l’introduzione passare direttamente al link da pag 73)
LO STATO DELLE COSE DELL’ULTIMA RELIGIONE POLITICA ITALIANA: IL MAZZINIANESIMO
UNA RIFLESSIONE TRANSPOLITICA PER IL SUO LEGITTIMO EREDE: IL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO. PRESENTAZIONE DI TRENT’ANNI DOPO ALLA DIALETTICA OLISTICO-ESPRESSIVA-STRATEGICA-CONFLITTUALE DEARNALDO GUERRINI. NOTE BIOGRAFICHE, DOCUMENTI E TESTIMONIANZE PER UNA STORIA DELL’ ANTIFASCISMO DEMOCRATICO ROMAGNOLO
INTRODUZIONE
Se accostiamo «Io sono una forza del Passato./Solo nella tradizione è il mio amore./Vengo dai ruderi, dalle chiese,/dalle pale d’altare, dai borghi/abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,/dove sono vissuti i fratelli.» che è la definizione della poetica e della Weltanschauung di Pier Paolo Pasolini con «Mi fanno male i capelli, gli occhi, la gola, la bocca… Dimmi se sto tremando!» criptica, surreale ma al tempo stesso lancinante e terribilmente espressiva dichiarazione del disagio del personaggio di Giuliana, interpretata da Monica Vitti, nel film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni e citazioni entrambe impiegate in questo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo. Una riflessione transpolitica per il suo legittimo erede: il Repubblicanesimo Geopolitico. Presentazione di trent’anni dopo alla dialettica olistico-espressiva-strategica-conflittuale de Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, abbiamo immediatamente l’immagine del particolare metodo dialettico impiegato da Massimo Morigi e di cui si aveva avuto una prova anche nello Stato delle Cose della Geopolitica. Presentazione di Quaranta, Trenta, Vent’anni dopo a le Relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista. Nascita estetico-emotiva del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico originando dall’eterotopia poetica, culturale e politica del Portogallo, anche questo pubblicato a puntate sull’ “Italia e il Mondo”, che è, oltre ad essere un metodo dialettico che, come più occasioni ribadito da Morigi, oltre a non riconoscere alcuna validità gnoseologico-epistemologica alla suddivisione fra c.d. scienze della natura e scienze umane storico-sociali, entrambe unificate, secondo Morigi, nel paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico, proprio in ragione del suo approccio olistico, non distingue nemmeno fra dato storico-sociale e fra il suo stesso dato biografico e cercando di capire, assieme ai destinatari dei suoi messaggi, come questo dato biografico lo abbia portato alle sue odierne elaborazioni teoriche. A questo punto si potrebbe obiettare che in Morigi prevale sull’analisi teorica una sorta di deteriore biografismo, dove il momento dell’analisi viene travolto da una non richiesto lirismo. Niente di più errato. Comunque si voglia giudicare il del tutto inedito paradigma dialettico del Nostro, e noi comunque lo giudichiamo come l’unico tentativo veramente serio compiuto dalla fine del grande idealismo italiano di Gentile e Croce di far rivivere in Italia e nel resto del mondo il metodo dialettico, la manifestazione lirica cui Morigi rende conto a sé stesso prima ancora che ai lettori non sono assolutamente le sue interiori ed intime inclinazioni che giustamente egli ritiene non debbano interessare a nessuno ma si tratta del rendere conto, anche pubblicamente, del suo culturale Bildungsroman, dove nello Stato delle Cose della Geopolitica veniva focalizzato nella cultura portoghese, nella saudade di questo paese e, infine nella filmografia di Wim Wenders, in specie in quella che aveva come sfondo il Portogallo, Lo Stato delle Cose e Lisbon Story, mentre ora, Nello Stato delle Cose dell’ultima religione politica: il Mazzinianesimo si tratta della filmografia d’autore degli anni Sessanta del secolo che ci ha lasciato, cioè di quella di Federico Fellini, di Michelangelo Antonioni e di Pier Paolo Pasolini. E se è vero, come è vero, che il ricorso a questo strumento per l’interpretazione della crisi politica non solo del movimento mazziniano e del partito che tuttora vuole presentarsi come la sua attuazione politica è stata anche indotta dal fatto che sulla crisi della religione politica del mazzinianesimo e del partito che ancora vuole esprimere ed intestarsi questa ideologia non è stato, in fondo, scritto praticamente alcunché di veramente interessante e significativo (e non è questa la sede per contestare questa definizione di identità politica del PRI ed anche Morigi, anche per una sorta di rispetto verso un partito politico in cui militò in un lontano passato – e di cui, fra l’altro, dimostra in questo saggio introduttivo di essere un profondissimo conoscitore e, quindi, inevitabilmente quasi un “appassionato”–, è tutt’altro che acido rispetto a questa autodefinizione identitaria) ma anche della crisi politico-sistemica più generale che ha investito il nostro paese è, sulla scorta della sua dialettica totalizzante del tutto giustificata e conseguente, a noi lettori appare chiaro – ma anche Morigi, ne siamo sicuri ne è pienamente consapevole – che la filmografia espressamente citata in questo scritto di Morigi è anch’essa una parte importante del romanzo di formazione culturale di Morigi che, proprio in virtù della particolare dialettica totalizzante da lui elaborata può essere impiegata per dare conto sia del suo metodo dialettico che della crisi politica del sistema politico Italia, filmografia italiana che, sottintende sempre è stato quindi anche decisiva, insieme alle suggestioni portoghesi e wendersiane, per la definizione del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico.
Un’ultima notazione. Come da sottotitolo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo è l’introduzione del saggio di Massimo Morigi, Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, edito nel 1989 e che oltre ad essere la biografia dell’antifascista repubblicano e mazziniano Arnaldo Guerrini, già più di trent’anni fa esprimeva, come ci dice il suo autore e come potranno vedere i lettori dell’ “Italia e il Mondo” la consapevolezza della crisi del sistema politico italiano che sarebbe esplosa con Mani pulite. Questa biografia, assieme ovviamente al suo scritto introduttivo sullo Stato delle cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo, su espresso desiderio dell’autore viene pubblicata in quattro puntate a partire da questo mese di gennaio del 2023, in una sorta di augurio di buon anno nuovo per l’acquisizione di una rinnovata consapevolezza politica per terminare con l’ultima puntata da pubblicarsi in occasione del IX Febbraio, data dell’anniversario della nascita della Repubblica Romana del 1849 e che per tutti i mazziniani, siano o no ancora facenti parte del Partito Repubblicano Italiano, è la ricorrenza più importante di tutto il calendario, ancora più importante, siano o no questi repubblicani credenti nelle varie denominazioni del cristianesimo, del Natale cristiano. Ci sarebbe così allora ancora molto da dire sulle religioni politiche e su come il Repubblicanesimo Geopolitico nel suo olismo dialettico, voglia essere, come dice espressamente Morigi, una prosecuzione ed evoluzione per i nostri tempi dei principi repubblicani di Giuseppe Mazzini…
Buona lettura
Giuseppe Germinario
Segue sul link sottostante a partire da pag 73 (per chi ha già letto la prima parte)
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Dalla decisione a sorpresa della Russia di ritirarsi volontariamente dalla sponda occidentale di Kherson nella prima settimana di novembre, ci sono stati pochi cambiamenti drammatici nelle linee del fronte in Ucraina. In parte, ciò riflette il prevedibile clima del tardo autunno nell’Europa orientale, che lascia i campi di battaglia impregnati d’acqua e intasati di fango e inibisce notevolmente la mobilità. Per centinaia di anni, novembre è stato un brutto mese per tentare di spostare gli eserciti su qualsiasi distanza significativa, e come un orologio abbiamo iniziato a vedere video di veicoli bloccati nel fango in Ucraina.
Il ritorno della guerra posizionale statica, tuttavia, riflette anche l’effetto sinergico dell’aumento dell’esaurimento ucraino insieme all’impegno russo a logorare e privare pazientemente la restante capacità di combattimento dell’Ucraina. Hanno trovato un luogo ideale per raggiungere questo obiettivo nel Donbas.
È diventato gradualmente evidente che la Russia è impegnata in una guerra di logoramento posizionale, poiché ciò massimizza l’asimmetria del loro vantaggio nei fuochi a distanza. C’è un continuo degrado della capacità bellica dell’Ucraina che sta permettendo alla Russia di mantenere pazientemente il ritmo attuale, mentre organizza le sue forze appena mobilitate per l’azione offensiva nel prossimo anno, ponendo le basi per perdite ucraine a cascata e insostenibili.
Nel romanzo di Ernest Hemingway, The Sun Also Rises , a un personaggio un tempo ricco, ora sfortunato, viene chiesto come sia andato in bancarotta. “Due modi”, risponde, “gradualmente e poi all’improvviso”. Un giorno potremmo chiedere come l’Ucraina ha perso la guerra e ricevere più o meno la stessa risposta.
Verdun Redux
È lecito affermare che i media del regime occidentale hanno fissato uno standard molto basso per i reportage sulla guerra in Ucraina, data la misura in cui la narrativa mainstream è disconnessa dalla realtà. Nonostante questi standard bassi, il modo in cui la battaglia in corso a Bakhmut viene presentata alla popolazione è davvero ridicolo. L’asse Bakhmut viene presentato al pubblico occidentale come una perfetta sintesi di tutti i tropi del fallimento russo: in poche parole, la Russia sta subendo perdite orribili mentre lotta per catturare una piccola città con un’importanza operativa trascurabile. I funzionari britannici, in particolare, sono stati molto espliciti nelle ultime settimane insistendo sul fatto che Bakhmut ha poco o nessun valore operativo .
La verità è letteralmente l’opposto di questa storia: Bakhmut è una posizione chiave di volta operativamente critica nella difesa ucraina, e la Russia l’ha trasformata in una fossa mortale che costringe gli ucraini a sacrificare un numero esorbitante di uomini per mantenere la posizione fino a quando possibile. In effetti, l’insistenza sul fatto che Bakhmut non sia operativamente significativo è leggermente offensivo per il pubblico, sia perché una rapida occhiata a una mappa lo mostra chiaramente nel cuore della rete stradale regionale, sia perché l’Ucraina ha gettato un numero enorme di unità nel lì davanti.
Facciamo un passo indietro e consideriamo Bakhmut nel contesto della posizione complessiva dell’Ucraina a est. L’Ucraina ha iniziato la guerra con quattro linee difensive operabili nel Donbass, costruite negli ultimi 8 anni sia come parte integrante della guerra in ebollizione con LNR e DNR, ma anche in preparazione di una potenziale guerra con la Russia. Queste linee sono strutturate attorno ad agglomerati urbani con collegamenti stradali e ferroviari tra loro e possono essere approssimativamente enumerate come segue:
Il Donbas è un luogo particolarmente adatto per costruire formidabili difese. È altamente urbanizzata e industriale (Donetsk era l’oblast più urbano dell’Ucraina prima del 2014, con oltre il 90% della popolazione che viveva nelle aree urbane), con città e paesi dominati dai tipici robusti edifici sovietici, insieme a prolifici complessi industriali. L’Ucraina ha trascorso gran parte dell’ultimo decennio a migliorare queste posizioni e gli insediamenti in prima linea sono pieni di trincee e postazioni di fuoco chiaramente visibili nelle immagini satellitari. Un recente video dall’asse Avdiivka dimostra l’estensione delle fortificazioni ucraine.
Quindi, rivediamo lo stato di queste cinture difensive. La prima cintura, che correva all’incirca da Severodonetsk e Lysychansk a Popasna, è stata spezzata in estate dalle forze russe. La Russia ha ottenuto un importante passo avanti a Popasna ed è stata in grado di iniziare il rollup completo di questa linea, con la caduta di Lysychansk all’inizio di luglio.
A questo punto, la linea del fronte si trova direttamente su quella che ho etichettato come la 2a e la 3a cintura difensiva ucraina, ed entrambe queste cinture ora sanguinano pesantemente.
La cattura di Soledar da parte delle forze di Wagner ha interrotto il collegamento tra Bakhmut e Siversk, mentre intorno a Donetsk, il sobborgo fortemente fortificato di Marinka è stato quasi completamente ripulito dalle truppe ucraine, e la famigerata posizione chiave di volta ucraina ad Avdiivka (il luogo da cui bombardano la popolazione civile della città di Donetsk) viene fiancheggiata da entrambe le direzioni.
Queste posizioni sono assolutamente fondamentali per l’Ucraina. La perdita di Bakhmut significherà il crollo dell’ultima linea difensiva che ostacola Slavyansk e Kramatorsk, il che significa che la posizione orientale dell’Ucraina si contrarrà rapidamente fino alla sua quarta (e più debole) cintura difensiva.
L’agglomerato di Slavyansk è una posizione di gran lunga peggiore da difendere per l’Ucraina rispetto alle altre cinture, per diversi motivi. Innanzitutto, essendo la cintura più a ovest (e quindi la più lontana dalle linee di partenza di febbraio 2022), è la meno migliorata e meno fortificata delle cinture. In secondo luogo, molte delle “cose buone” intorno a Slavyansk si trovano a est della città, comprese sia le alture dominanti che le principali autostrade.
Tutto questo per dire che l’Ucraina è stata molto ansiosa di mantenere la linea Bakhmut, poiché questa è una posizione di gran lunga preferibile da mantenere, e di conseguenza ha riversato unità nel settore. I livelli assurdi dell’impegno delle forze ucraine in quest’area sono stati ben notati, ma proprio come un rapido ripasso, fonti ucraine pubblicamente disponibili individuano almeno 34 brigate o unità equivalenti che sono state schierate nell’area di Bakhmut. Molti di questi sono stati schierati mesi fa e sono già distrutti, ma per l’intero arco della battaglia in corso questo rappresenta un impegno sorprendente.
Le forze russe, principalmente le unità Wagner PMC e LNR, stanno lentamente ma inesorabilmente facendo crollare questa roccaforte ucraina facendo un uso liberale dell’artiglieria. A novembre, l’ex consigliere di Zelensky Oleksiy Arestovych ha ammesso che l’artiglieria russa sull’asse Bakhmut godeva di un vantaggio di circa 9 a 1 sul tubo, il che sta trasformando Bakhmut in una fossa mortale.
La battaglia viene presentata in occidente come quella in cui i russi – solitamente stereotipati come soldati detenuti impiegati da Wagner – lanciano assalti frontali alle difese ucraine e subiscono perdite orribili nel tentativo di sopraffare la difesa con numeri puri. Il contrario è molto più vicino alla verità. La Russia si sta muovendo lentamente perché appiana le difese ucraine con l’artiglieria, poi si spinge avanti con cautela in queste difese polverizzate.
L’Ucraina, nel frattempo, continua a incanalare unità per riempire più o meno le trincee con nuovi difensori. Un pezzo del Wall Street Journal sulla battaglia, mentre cercava di presentare una storia di incompetenza russa, includeva accidentalmente un’ammissione di un comandante ucraino sul campo che diceva: “Finora, il tasso di cambio delle nostre vite per le loro favorisce i russi. Se continua così, potremmo esaurirci”.
I paragoni sono stati fatti liberamente (e non posso prendermene il merito) con una delle battaglie più infami della prima guerra mondiale: la sanguinosa catastrofe di Verdun. Sebbene non sia il caso di esagerare il valore predittivo della storia militare (nel senso che una conoscenza approfondita della prima guerra mondiale non consente di prevedere gli eventi in Ucraina), sono comunque un grande appassionato di storia come analogia, e lo schema tedesco di Verdun è un’utile analogia per ciò che sta accadendo a Bakhmut.
La battaglia di Verdun fu concepita dall’alto comando tedesco come un modo per paralizzare l’esercito francese attirandolo in un tritacarne preconfigurato. L’idea era di attaccare e conquistare un’altura difensiva cruciale, un terreno così importante che la Francia sarebbe stata costretta a contrattaccare e tentare di riconquistarla. I tedeschi speravano che la Francia impegnasse le proprie riserve strategiche in questo contrattacco in modo che potessero essere distrutte. Sebbene Verdun non sia riuscito a indebolire completamente la potenza di combattimento francese, è diventata una delle battaglie più sanguinose della storia del mondo. Una moneta tedesca che commemorava la battaglia raffigurava uno scheletro che pompava sangue dalla terra: una metafora visiva agghiacciante ma appropriata.
Qualcosa di simile si è effettivamente verificato a Bakhmut, nel senso che la Russia sta premendo su uno dei punti più sensibili della linea del fronte, attirando unità ucraine da uccidere. Pochi mesi fa, sulla scia del ritiro della Russia dalla Cisgiordania Kherson, gli ucraini hanno parlato con entusiasmo di continuare i loro sforzi offensivi con un attacco a sud in Zaparozhia per tagliare il ponte di terra verso la Crimea, insieme ai continui sforzi per sfondare nel nord di Lugansk. Invece, le forze di entrambi questi assi sono state reindirizzate a Bakhmut, al punto che questo asse sta prosciugando attivamente la forza di combattimento ucraina in altre aree. Fonti ucraine, precedentemente piene di ottimismo, ora concordano inequivocabilmente sul fatto che non ci saranno offensive ucraine nel prossimo futuro. Mentre parliamo,L’Ucraina continua a incanalare forze nell’asse Bakhmut .
Al momento, la posizione dell’Ucraina intorno a Bakhmut si è gravemente deteriorata, con le forze russe (in gran parte fanteria Wagner supportata dall’artiglieria dell’esercito russo) che stanno facendo progressi sostanziali su entrambi i fianchi della città. Sul fianco settentrionale, la cattura di Soledar ha spinto le linee russe a una distanza ravvicinata dalle autostrade nord-sud, mentre la cattura quasi simultanea di Klishchiivka sul fianco meridionale ha spinto le linee del fronte alle porte di Chasiv Yar (saldamente nella retroguardia operativa di Bakhmut ).
Gli ucraini non sono attualmente accerchiati, ma è facilmente distinguibile il continuo strisciare delle posizioni russe sempre più vicine alle rimanenti autostrade. Attualmente, le forze russe hanno posizioni entro due miglia da tutte le restanti autostrade. Ancora più importante, la Russia ora controlla le alture sia a nord che a sud di Bakhmut (la città stessa si trova in una depressione circondata da colline) dando alla Russia il controllo del fuoco su gran parte dello spazio di battaglia.
Attualmente sto anticipando che la Russia libererà la linea difensiva Bakhmut-Siversk entro la fine di marzo. Nel frattempo, la messa a nudo delle forze ucraine su altri assi aumenta la prospettiva di decisive offensive russe altrove.
Al momento, il fronte è costituito grosso modo da quattro assi principali (il plurale di asse, non l’attrezzo a lama), con consistenti agglomerati di truppe ucraine. Questi consistono, da sud a nord, degli assi Zaporozhia, Donetsk, Bakhmut e Svatove (vedi mappa sotto). Lo sforzo per rafforzare il settore Bakhmut ha notevolmente diluito la forza ucraina su questi altri settori. Sul fronte Zaporozhia, ad esempio, al momento ci sono potenzialmente solo cinque brigate ucraine in linea.
Al momento, la maggior parte della potenza di combattimento russa è disponibile, e sia le fonti occidentali che quelle ucraine sono (in ritardo) sempre più allarmate per la prospettiva di un’offensiva russa nelle prossime settimane. Attualmente, l’intera posizione ucraina a est è vulnerabile perché è, in effetti, un enorme saliente, vulnerabile agli attacchi da tre direzioni.
Due obiettivi di profondità operativa in particolare hanno il potenziale per distruggere la logistica e il sostegno ucraini. Questi sono, rispettivamente, Izyum nel nord e Pavlograd nel sud. Una spinta russa lungo la sponda occidentale del fiume Oskil verso Izyum minaccerebbe contemporaneamente di tagliare e distruggere il raggruppamento ucraino sull’asse Svatove (S sulla mappa) e recidere la vitale autostrada M03 da Kharkov. Raggiungere Pavlograd, d’altra parte, isolerebbe completamente le forze ucraine intorno a Donetsk e interromperebbe gran parte del transito dell’Ucraina attraverso il Dneiper.
Sia Izyum che Pavlograd si trovano a circa 70 miglia dalle linee di partenza di una potenziale offensiva russa, e offrono quindi una combinazione molto allettante, essendo sia operativamente significative che relativamente gestibili. A partire da ieri, abbiamo iniziato a vedere progressi russi sull’asse Zaporozhia. Mentre questi consistono, al momento, principalmente in ricognizioni in forze che spingono nella “zona grigia” (quell’ambiguo fronte interstiziale), RUMoD ha rivendicato diversi insediamenti presi, che potrebbero presagire una vera spinta offensiva in questa direzione. Il indizio chiave sarebbe un assalto russo a Orikhiv, che è una grande città con una vera guarnigione ucraina. Un attacco russo qui indicherebbe che è in corso qualcosa di più di un attacco di indagine.
A volte è difficile analizzare la differenza tra ciò che prevediamo accadrà e ciò che vogliamo che accada. Questo, certamente, è ciò che sceglierei se fossi responsabile della pianificazione russa: un viaggio verso sud lungo la riva occidentale del fiume Oskil sull’asse Kupyansk-Izyum e un attacco simultaneo verso nord oltre Zaporozhia verso Pavlograd. In questo caso, credo che limitarsi a schermare Zaporozhia a breve termine sia preferibile piuttosto che impantanarsi in una battaglia urbana lì.
Non sappiamo se la Russia tenterà davvero di farlo. La sicurezza operativa russa è molto migliore di quella dell’Ucraina o delle sue forze per procura (Wagner e la milizia LNR/DNR), quindi sappiamo molto meno sugli schieramenti della Russia che su quelli dell’Ucraina. Indipendentemente da ciò, sappiamo che la Russia gode di una forte preponderanza della potenza di combattimento, lo sappiamo bene, e ci sono succosi obiettivi operativi a portata di mano.
Per favore, signore, ne voglio ancora
La vista a volo d’uccello di questo conflitto rivela un’affascinante meta-struttura della guerra. Nella sezione precedente, sostengo una visione del fronte strutturato attorno alla Russia che sfonda progressivamente le cinture difensive ucraine in sequenza. Penso che un simile tipo di struttura narrativa progressiva si applichi all’aspetto della generazione della forza di questa guerra, con la Russia che distrugge una sequenza di eserciti ucraini.
Permettetemi di essere un po’ più concreto. Sebbene l’esercito ucraino esista almeno in parte come un’istituzione continua, il suo potere di combattimento è stato distrutto e ricostruito più volte a questo punto attraverso l’assistenza occidentale. Molteplici fasi – cicli di vita, se vuoi – possono essere identificate:
Nei primi mesi della guerra, l’esercito ucraino esistente fu per lo più spazzato via. I russi hanno distrutto gran parte delle forniture indigene di armi pesanti dell’Ucraina e hanno distrutto molti quadri al centro dell’esercito professionale ucraino.
Sulla scia di questa prima frantumazione, la forza di combattimento ucraina è stata rafforzata trasferendo praticamente tutte le armi d’epoca sovietiche nelle scorte dei paesi dell’ex Patto di Varsavia. Questo ha trasferito veicoli e munizioni sovietici, compatibili con le capacità ucraine esistenti, da paesi come la Polonia e la Repubblica Ceca, ed è stato per lo più completato entro la fine della primavera del 2022. All’inizio di giugno, ad esempio, fonti occidentali hanno ammesso che le scorte sovietiche erano state prosciugate .
Con l’esaurimento delle scorte del Patto di Varsavia, la NATO ha iniziato a sostituire le capacità ucraine distrutte con equivalenti occidentali in un processo iniziato durante l’estate. Di particolare rilievo erano gli obici come l’americano M777 e il francese Caesar.
La Russia ha essenzialmente combattuto molteplici iterazioni dell’esercito ucraino – distruggendo la forza prebellica nei primi mesi, poi combattendo unità che sono state rifornite dalle scorte del Patto di Varsavia, e ora sta degradando una forza che dipende in gran parte dai sistemi occidentali.
Ciò ha portato all’ormai famosa intervista del generale Zaluzhny con l’economista in cui ha chiesto molte centinaia di carri armati principali, veicoli da combattimento di fanteria e pezzi di artiglieria. In effetti, ha chiesto un altro esercito, dato che i russi sembrano continuare a distruggere quelli che ha.
Voglio sottolineare alcune aree particolari in cui le capacità dell’Ucraina sono chiaramente degradate oltre i livelli accettabili, e osservare come ciò si colleghi allo sforzo della NATO per sostenere lo sforzo bellico ucraino.
Primo, artiglieria.
La Russia ha dato la priorità all’azione di controbatteria ormai da molte settimane e sembra avere un grande successo nel cacciare e distruggere l’artiglieria ucraina.
Sembra che ciò coincida in parte con il dispiegamento di nuovi sistemi di rilevamento della controbatteria “penicillin” . Questo è un nuovo strumento piuttosto pulito nell’arsenale russo. La guerra di controbatteria consiste generalmente in un pericoloso tango di pistole e sistemi radar. Il radar di controbatteria ha il compito di rilevare e localizzare le armi del nemico, in modo che possano essere distrutte dai propri tubi – il gioco è più o meno analogo a squadre nemiche di cecchini (l’artiglieria) e osservatori (il radar) che tentano di darsi la caccia a vicenda – e di ovviamente, ha senso sparare anche ai sistemi radar dell’altra parte, per accecarli, per così dire.
Il sistema Penicillin offre nuove potenti capacità alla campagna di controbatteria della Russia perché rileva le batterie di artiglieria nemiche non con il radar, ma con la localizzazione acustica. Emette un boom di ascolto che, in coordinamento con alcuni componenti del terreno, è in grado di localizzare i cannoni nemici attraverso il rilevamento sismico e acustico. Il vantaggio di questo sistema è che, a differenza di un radar a controbatteria, che emette onde radio che rivelano la sua posizione, il sistema Penicillin è passivo: sta semplicemente fermo e ascolta, il che significa che non offre al nemico un modo semplice per localizzarlo. esso. Di conseguenza, nella guerra di controbatteria, l’Ucraina attualmente non dispone di un buon modo per accecare (o meglio, assordare) i russi. Inoltre, le capacità di controbatteria russe sono state potenziate grazie all’aumento dell’uso del drone Lancet contro le armi pesanti.
Tutto questo per dire che ultimamente la Russia ha distrutto un bel po’ di artiglieria ucraina. il Ministero della Difesa russo ha sottolineato il successo della controbatteria. Ora, so che a questo punto stai pensando: “perché dovresti fidarti del Ministero della Difesa russo?” Abbastanza giusto: fidiamoci ma verifichiamo.
Il 20 gennaio, la NATO ha convocato una riunione presso la base aerea di Ramstein in Germania, sullo sfondo di un nuovo massiccio pacchetto di aiuti messo insieme per l’Ucraina. Questo pacchetto di aiuti contiene, guarda caso, un’enorme quantità di pezzi di artiglieria. Secondo i miei calcoli, gli aiuti annunciati questa settimana includono quasi 200 tubi di artiglieria. Diversi paesi, tra cui Danimarca ed Estonia, stanno inviando all’Ucraina letteralmente tutti i loro obici . Chiamami pazzo, ma dubito seriamente che diversi paesi deciderebbero spontaneamente, esattamente nello stesso momento, di inviare all’Ucraina il loro intero inventario di pezzi di artiglieria se l’Ucraina non dovesse affrontare livelli di crisi di perdite di artiglieria.
Rivediamo le prove qui e vediamo se possiamo trarre una conclusione ragionevole:
I funzionari ucraini ammettono che la loro artiglieria è superata di 9 a 1 nei settori critici del fronte.
La Russia schiera un sistema di controbatteria all’avanguardia e aumenta il numero di droni Lancet.
Il Ministero della Difesa russo afferma di aver cacciato e distrutto in gran numero i sistemi di artiglieria ucraini.
La NATO si è affrettata a mettere insieme un massiccio pacchetto di sistemi di artiglieria per l’Ucraina.
Gli Stati Uniti stanno facendo irruzione nelle scorte critiche schierate in avanti per rifornire l’Ucraina di proiettili.
Personalmente ritengo ragionevole, alla luce di tutto ciò, presumere che il braccio di artiglieria dell’Ucraina sia stato in gran parte distrutto e che la NATO stia tentando di ricostruirlo ancora una volta.
Il mio regno per un carro armato
Il principale punto di discussione nelle ultime settimane è stato se la NATO fornirà o meno all’Ucraina i principali carri armati. Zaluzhny ha accennato a un parco di carri armati ucraini gravemente impoverito nella sua intervista con l’Economist, in cui ha chiesto centinaia di MBT. La NATO ha tentato di fornire una soluzione di ripiego fornendo all’Ucraina vari veicoli corazzati come il Bradley IFV e lo Stryker, che ripristinano una certa mobilità, ma dobbiamo dire inequivocabilmente che questi non sono in alcun modo sostituti degli MBT, e sono di gran lunga inferiori in entrambi protezione e potenza di fuoco. Il tentativo di utilizzare Bradley, ad esempio, nel ruolo di MBT non funzionerà.
Finora, sembra che l’Ucraina riceverà una piccola manciata di carri armati Challenger dalla Gran Bretagna, ma si parla anche di donare Leopardi (di marca tedesca), Abrams (americani) e Leclercs (francesi). Come al solito, l’impatto sul campo di battaglia della ricezione dei carri armati da parte dell’Ucraina è stato ampiamente sopravvalutato (sia dagli scagnozzi ucraini che dai russi pessimisti) e minimizzato (dai trionfalisti russi). Suggerisco una via di mezzo.
Il numero di carri armati che può essere ragionevolmente fornito all’Ucraina è relativamente basso, semplicemente a causa dell’onere di addestramento e sostentamento. Tutti questi carri armati utilizzano munizioni diverse, parti speciali e richiedono un addestramento specializzato. Non sono il tipo di sistemi che possono essere semplicemente portati fuori dal lotto e direttamente in combattimento da un equipaggio non addestrato. La soluzione ideale per l’Ucraina sarebbe quella di ricevere solo Leopard A24, poiché questi potrebbero essere disponibili in quantità decenti (forse un paio di centinaia) e almeno sarebbero standardizzati.
Dovremmo anche notare, ovviamente, che è improbabile che questi carri armati occidentali cambino le regole del gioco sul campo di battaglia. Il Leopard ha già mostrato i suoi limiti in Siria sotto operazione turca. Nota la seguente citazione da questo articolo del 2018:
“Dato che i carri armati sono ampiamente gestiti dai membri della NATO – tra cui Canada, Paesi Bassi, Danimarca, Grecia e Norvegia – è particolarmente imbarazzante vederli distrutti così facilmente dai terroristi siriani quando dovrebbero eguagliare l’esercito russo”.
In definitiva, il Leopard è un MBT abbastanza banale progettato negli anni ’70 surclassato dal russo T-90. Non è un terribile pezzo di equipaggiamento, ma non è certo un terrore da campo di battaglia. Subiranno perdite e saranno logorati proprio come lo era il parco carri armati dell’Ucraina prima della guerra. Tuttavia, ciò non cambia il fatto che un esercito ucraino con poche compagnie di leopardi sarà più potente di uno senza di loro.
Penso che sia giusto dire che le seguenti tre affermazioni sono tutte vere:
Ricevere un miscuglio di carri armati occidentali creerà un difficile onere di addestramento, manutenzione e sostentamento per l’Ucraina.
I carri armati occidentali come il Leopard hanno un valore di combattimento limitato e verranno distrutti come qualsiasi altro carro armato.
I carri armati occidentali aumenteranno la potenza di combattimento dell’esercito ucraino fintanto che saranno sul campo.
Ora, detto questo, a questo punto non sembra che la NATO voglia dare all’Ucraina i principali carri armati. Inizialmente è stato suggerito che i carri armati dal deposito potessero essere rispolverati e consegnati a Kiev, ma il produttore ha dichiarato che questi veicoli non sono funzionanti e non saranno pronti per il combattimento fino al 2024 . Ciò lascia solo la possibilità di immergersi direttamente nei parchi carri armati della NATO, cosa che finora sono reticenti a fare.
Come mai? Il mio suggerimento sarebbe semplicemente che la NATO non crede nella vittoria ucraina. L’Ucraina non può nemmeno sognare di spostare la Russia dalla sua posizione senza un’adeguata forza di carri armati, e quindi la reticenza a consegnare i carri armati suggerisce che la NATO pensa che questo sia comunque solo un sogno. Invece, continuano a dare la priorità alle armi che sostengono la capacità dell’Ucraina di combattere una difesa statica (da qui le centinaia di pezzi di artiglieria) senza indulgere in voli di fantasia su una grande spinta corazzata ucraina in Crimea.
Tuttavia, data l’intensa febbre della guerra che si è accumulata in occidente, è possibile che lo slancio politico ci imponga la scelta. È possibile che abbiamo raggiunto il punto in cui la coda scodinzola, che la NATO sia intrappolata nella sua stessa retorica di sostegno inequivocabile fino a quando l’Ucraina non otterrà una vittoria totale, e potremmo ancora vedere i Leopard 2A4 bruciare nella steppa.
Sommario: La morte di uno Stato
L’esercito ucraino è estremamente degradato, avendo subito perdite esorbitanti sia di uomini che di armi pesanti. Credo che i KIA ucraini si stiano avvicinando a 150.000 a questo punto, ed è chiaro che le loro scorte di tubi di artiglieria, proiettili e veicoli corazzati sono in gran parte esaurite.
Mi aspetto che la linea difensiva Bakhmut-Siversk venga ripulita prima di aprile, dopodiché la Russia si spingerà verso l’ultima (e più debole) cintura difensiva intorno a Slavyansk. Nel frattempo, la Russia ha in riserva una notevole potenza di combattimento, che può essere utilizzata per riaprire il fronte settentrionale sulla riva occidentale dell’Oskil e riavviare le operazioni offensive a Zaporozhia, mettendo in grave pericolo la logistica ucraina.
Questa guerra sarà combattuta fino alla sua conclusione sul campo di battaglia e terminerà con una decisione favorevole per la Russia.
Coda: una nota sui colpi di stato
Sentiti libero di ignorare questo segmento, poiché è un po’ più nebuloso e non è concretamente correlato agli eventi in Ucraina o in Russia.
Abbiamo visto molte voci divertenti sui colpi di stato in entrambi i paesi: Putin ha il cancro al piede e il suo governo crollerà, Zelensky sta per essere sostituito con Zaluzhny, e così via. Patrioti in controllo e tutta quella roba buona.
In ogni caso, ho pensato di scrivere solo in generale sul perché i colpi di stato e le rivoluzioni non sembrano mai portare a regimi democratici carini e coccolosi, ma invece quasi sempre portano al passaggio del controllo politico ai servizi militari e di sicurezza.
La risposta, si potrebbe pensare, è semplicemente che questi uomini hanno le armi e il potere per accedere alle stanze importanti in cui vengono prese le decisioni, ma non è solo questo. Si riferisce anche a un concetto nella teoria dei giochi chiamato punti Schelling .
Un punto Schelling (dal nome del signore che ha introdotto il concetto, un economista di nome Thomas Schelling) si riferisce alla soluzione che le parti scelgono dato uno stato di incertezza e nessuna capacità di comunicare. Uno degli esempi classici per illustrare il concetto è un gioco di coordinazione. Supponiamo che a te e a un’altra persona vengano mostrati quattro quadrati ciascuno: tre sono blu e uno è rosso. A ciascuno di voi viene chiesto di scegliere un quadrato. Se scegliete entrambi la stessa casella, ricevete un premio in denaro, ma non potete parlarvi delle vostre scelte. Come scegli? Bene, la maggior parte delle persone sceglie razionalmente il quadrato rosso, semplicemente perché è ben visibile – risalta, e quindi presumi che anche il tuo partner sceglierà questo quadrato. Il quadrato rosso non è migliore, di per sé, è solo ovvio.
In uno stato di tumulto politico, o addirittura di anarchia, il sistema lavora verso i punti Schelling – figure e istituzioni ovvie che irradiano autorità, e sono quindi la scelta evidente per assumere il potere e impartire comandi.
I bolscevichi, ad esempio, lo capirono molto bene. Immediatamente dopo aver dichiarato il loro nuovo governo nel 1917, inviarono commissari nei vari edifici per uffici a San Pietroburgo dove avevano sede le burocrazie zariste. Trotsky notoriamente si presentò una mattina all’edificio del ministero degli Esteri e annunciò semplicemente di essere il nuovo ministro degli Esteri. I dipendenti lo deridevano: chi era? come ha fatto a presumere di essere al comando? – ma per Trotsky il punto era insinuarsi su un punto Schelling. Nello stato di anarchia che cominciava a diffondersi in Russia, le persone cercavano naturalmente qualche ovvio punto focale di autorità, ei bolscevichi si erano abilmente posizionati come tali rivendicando il controllo sulle cariche e sui titoli burocratici. Dall’altra parte del conflitto civile, l’opposizione politica ai bolscevichi si raggruppò attorno agli ufficiali dell’esercito zarista, perché anch’essi erano punti di Schelling, in quanto avevano già titoli e posizione all’interno di una gerarchia esistente.
Tutto questo per dire che in caso di colpo di stato o di collasso dello stato, praticamente non si formano mai nuovi governi sui generis, ma nascono sempre da istituzioni e gerarchie preesistenti. Perché, quando cadde l’Unione Sovietica, l’autorità politica passò alle Repubbliche? Perché queste Repubbliche erano punti Schelling, rami che si possono afferrare per mettersi al sicuro in un fiume caotico.
Lo dico semplicemente perché sono stanco di storie fantasmagoriche sulla liquidazione del regime in Russia e persino sulla dissoluzione territoriale. La caduta del governo di Putin non porterà e non può portare a un regime acquiescente, adiacente all’Occidente, perché non ci sono istituzioni di potere reale in Russia che siano così disposte. Il potere ricadrebbe sui servizi di sicurezza, perché sono punti Schelling, ed è lì che va il potere.
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LO STATO DELLE COSE DELL’ULTIMA RELIGIONE POLITICA ITALIANA: IL MAZZINIANESIMO
UNA RIFLESSIONE TRANSPOLITICA PER IL SUO LEGITTIMO EREDE: IL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO. PRESENTAZIONE DI TRENT’ANNI DOPO ALLA DIALETTICA OLISTICO-ESPRESSIVA-STRATEGICA-CONFLITTUALE DEARNALDO GUERRINI. NOTE BIOGRAFICHE, DOCUMENTI E TESTIMONIANZE PER UNA STORIA DELL’ ANTIFASCISMO DEMOCRATICO ROMAGNOLO
INTRODUZIONE
Se accostiamo «Io sono una forza del Passato./Solo nella tradizione è il mio amore./Vengo dai ruderi, dalle chiese,/dalle pale d’altare, dai borghi/abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,/dove sono vissuti i fratelli.» che è la definizione della poetica e della Weltanschauung di Pier Paolo Pasolini con «Mi fanno male i capelli, gli occhi, la gola, la bocca… Dimmi se sto tremando!» criptica, surreale ma al tempo stesso lancinante e terribilmente espressiva dichiarazione del disagio del personaggio di Giuliana, interpretata da Monica Vitti, nel film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni e citazioni entrambe impiegate in questo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo. Una riflessione transpolitica per il suo legittimo erede: il Repubblicanesimo Geopolitico. Presentazione di trent’anni dopo alla dialettica olistico-espressiva-strategica-conflittuale de Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, abbiamo immediatamente l’immagine del particolare metodo dialettico impiegato da Massimo Morigi e di cui si aveva avuto una prova anche nello Stato delle Cose della Geopolitica. Presentazione di Quaranta, Trenta, Vent’anni dopo a le Relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista. Nascita estetico-emotiva del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico originando dall’eterotopia poetica, culturale e politica del Portogallo, anche questo pubblicato a puntate sull’ “Italia e il Mondo”, che è, oltre ad essere un metodo dialettico che, come più occasioni ribadito da Morigi, oltre a non riconoscere alcuna validità gnoseologico-epistemologica alla suddivisione fra c.d. scienze della natura e scienze umane storico-sociali, entrambe unificate, secondo Morigi, nel paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico, proprio in ragione del suo approccio olistico, non distingue nemmeno fra dato storico-sociale e fra il suo stesso dato biografico e cercando di capire, assieme ai destinatari dei suoi messaggi, come questo dato biografico lo abbia portato alle sue odierne elaborazioni teoriche. A questo punto si potrebbe obiettare che in Morigi prevale sull’analisi teorica una sorta di deteriore biografismo, dove il momento dell’analisi viene travolto da una non richiesto lirismo. Niente di più errato. Comunque si voglia giudicare il del tutto inedito paradigma dialettico del Nostro, e noi comunque lo giudichiamo come l’unico tentativo veramente serio compiuto dalla fine del grande idealismo italiano di Gentile e Croce di far rivivere in Italia e nel resto del mondo il metodo dialettico, la manifestazione lirica cui Morigi rende conto a sé stesso prima ancora che ai lettori non sono assolutamente le sue interiori ed intime inclinazioni che giustamente egli ritiene non debbano interessare a nessuno ma si tratta del rendere conto, anche pubblicamente, del suo culturale Bildungsroman, dove nello Stato delle Cose della Geopolitica veniva focalizzato nella cultura portoghese, nella saudade di questo paese e, infine nella filmografia di Wim Wenders, in specie in quella che aveva come sfondo il Portogallo, Lo Stato delle Cose e Lisbon Story, mentre ora, Nello Stato delle Cose dell’ultima religione politica: il Mazzinianesimo si tratta della filmografia d’autore degli anni Sessanta del secolo che ci ha lasciato, cioè di quella di Federico Fellini, di Michelangelo Antonioni e di Pier Paolo Pasolini. E se è vero, come è vero, che il ricorso a questo strumento per l’interpretazione della crisi politica non solo del movimento mazziniano e del partito che tuttora vuole presentarsi come la sua attuazione politica è stata anche indotta dal fatto che sulla crisi della religione politica del mazzinianesimo e del partito che ancora vuole esprimere ed intestarsi questa ideologia non è stato, in fondo, scritto praticamente alcunché di veramente interessante e significativo (e non è questa la sede per contestare questa definizione di identità politica del PRI ed anche Morigi, anche per una sorta di rispetto verso un partito politico in cui militò in un lontano passato – e di cui, fra l’altro, dimostra in questo saggio introduttivo di essere un profondissimo conoscitore e, quindi, inevitabilmente quasi un “appassionato”–, è tutt’altro che acido rispetto a questa autodefinizione identitaria) ma anche della crisi politico-sistemica più generale che ha investito il nostro paese è, sulla scorta della sua dialettica totalizzante del tutto giustificata e conseguente, a noi lettori appare chiaro – ma anche Morigi, ne siamo sicuri ne è pienamente consapevole – che la filmografia espressamente citata in questo scritto di Morigi è anch’essa una parte importante del romanzo di formazione culturale di Morigi che, proprio in virtù della particolare dialettica totalizzante da lui elaborata può essere impiegata per dare conto sia del suo metodo dialettico che della crisi politica del sistema politico Italia, filmografia italiana che, sottintende sempre è stato quindi anche decisiva, insieme alle suggestioni portoghesi e wendersiane, per la definizione del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico.
Un’ultima notazione. Come da sottotitolo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo è l’introduzione del saggio di Massimo Morigi, Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, edito nel 1989 e che oltre ad essere la biografia dell’antifascista repubblicano e mazziniano Arnaldo Guerrini, già più di trent’anni fa esprimeva, come ci dice il suo autore e come potranno vedere i lettori dell’ “Italia e il Mondo” la consapevolezza della crisi del sistema politico italiano che sarebbe esplosa con Mani pulite. Questa biografia, assieme ovviamente al suo scritto introduttivo sullo Stato delle cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo, su espresso desiderio dell’autore viene pubblicata in quattro puntate a partire da questo mese di gennaio del 2023, in una sorta di augurio di buon anno nuovo per l’acquisizione di una rinnovata consapevolezza politica per terminare con l’ultima puntata da pubblicarsi in occasione del IX Febbraio, data dell’anniversario della nascita della Repubblica Romana del 1849 e che per tutti i mazziniani, siano o no ancora facenti parte del Partito Repubblicano Italiano, è la ricorrenza più importante di tutto il calendario, ancora più importante, siano o no questi repubblicani credenti nelle varie denominazioni del cristianesimo, del Natale cristiano. Ci sarebbe così allora ancora molto da dire sulle religioni politiche e su come il Repubblicanesimo Geopolitico nel suo olismo dialettico, voglia essere, come dice espressamente Morigi, una prosecuzione ed evoluzione per i nostri tempi dei principi repubblicani di Giuseppe Mazzini…
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