IL CONGELAMENTO DI AGOSTO e strategia USA, di pierluigi fagan

IL CONGELAMENTO DI AGOSTO.

Raccolgo qui una serie di informazioni, articoli, opinioni lette in questi giorni sulla stampa internazionale, per tentare la risposta alla domanda su quanto manchi alla fine del conflitto russo-ucraino. Sviluppiamo il ragionamento in forma ovviamente ipotetica, sebbene riteniamo di aver solide ragioni che limitano il campo delle ipotesi. E la risposta alla domanda è simile a quella data, se ben ricordo, poco tempo fa da un generale ucraino ed altri analisti che indicava agosto come termine dello scontro armato. Perché?

Chiariamo innanzitutto che con “termine del conflitto” intendiamo non la pace, ma la sospensione delle operazioni sul campo, quello che chiamano “congelamento del conflitto”, il conflitto rimane, diventa diplomatico o prende altre forme politiche ed economiche e perde quelle militari. Agosto è la stima del tempo che i russi potrebbero impiegare per prendere territorio dell’est fino ai confini amministrativi pieni dei due oblast del Donbass. Quasi raggiunto l’obiettivo per il Lugansk, manca ancora un bel po’ per il Donestsk. A quel punto, i russi potrebbero vantare appunto tutto il Donbass, la striscia sud fino all’antistante di terra della Crimea, il Mar d’Azov trasformato in un lago russo, la Crimea che già avevano annessa, il blocco navale completo nell’antistante Odessa, Kherson, la centrale di Zaporizhzhia (la più grande d’Europa) e altri annessi.

I russi avevano dato gli obiettivi dell’operazione militare speciale già il 7 marzo in una intervista Reuters a Peskov e da allora sono stati ribaditi ogni volta che ne hanno avuto occasione. Che fossero i veri obiettivi o gli obiettivi di minima qui non ci interessa, ci interessa fossero la versione ufficiale perché è rispetto a questa che il Cremlino chiederà alla propria opinione pubblica e quella internazionale, di esser giudicato.

Il pacchetto prevedeva 3+2 punti. 1) De-militarizzazione. Si potrà dire che le strutture militari ucraine sono state in buona parte degradate anche se il bilancio reale nessuno lo potrà fare anche perché l’obiettivo così espresso era sufficientemente vago. Vedremo se effettivamente ci saranno prove dei fatidici laboratori biologici o delle temute manipolazioni di materiale atomico per bombe sporche. In più, se le strutture logistiche e le dotazioni originarie sono state senz’altro colpite, i grandi trasferimenti d’arma dalla NATO ed in particolare UK ed USA, non erano previsti e non possono entrare nel bilancio; 2) de-nazificazione. Obiettivo semmai anche più vago del precedente. Senz’altro la fine dell’epica di Azovstal (non ancora del tutto conclusa), gli interrogatori, le foto, i processi, le condanne dei superstiti dell’Azov e tutto l’intorno, daranno dimostrazione che tale obiettivo è stato raggiunto o almeno così si potrà sostenere all’ingrosso; 3) dopodiché, che l’Ucraina non possa entrare dalla porta d’ingresso nella NATO rimarrà proprio nella misura in cui il conflitto non terminerà formalmente forse per anni, lo vieta un articolo del regolamento di accettazione nell’organizzazione, 4) che la Crimea non sarà riconosciuta legittimamente russa non è un problema tanto la richiesta aveva come fine farsi togliere le sanzioni relative e s’è capito che quelle sanzioni rimangono ben poca cosa dopo quelle comminate in questi tre mesi; 5) il punto chiave ovvero il riconoscimento delle due repubbliche popolari, verrà superato dal fatto che avranno ottenuto il doppio di territorio originario, più tutto ciò che va dal Donbass alla Crimea, con un bel po’ di materie prime ed industrie con le quali pagarsi le spese per il conflitto. Con prigionieri e prove di malefatte, da una parte e dell’altra, più il blocco navale, discussioni sui confini da provvisori a definitivi, c’è materia per almeno dieci anni di inconcludenti trattative. Ecco il perché della stima di agosto manca ancora il pieno controllo soprattutto dell’oblast di Donetsk. Infine, i russi potranno sempre dire che Zelensky si dovrà politicamente accollare tutti i morti e la distruzione materiale dell’Ucraina perché tanto alla fine ha perso anche più di quanto non avrebbe perso trattando il 7 marzo. Zelensky ed alleati potranno sempre dire “visto? se non ci battevamo avremmo preso ben di più”.

Si renderà anche chiara la logica del conflitto almeno sul piano militare e del perché è stata definita “operazione militare” e non guerra. Ripetiamo, non ci interessa quanto di tutto ciò fosse o sia vero o meno, va valutata la sostenibilità pubblica del discorso ed il discorso (che è stato così preparato strategicamente sin dall’inizio) così messo sta più che in piedi, piaccia o meno. Soprattutto a coloro che in questi mesi hanno scambiato i fatti con la fog-of-war propagandistica che ha lungamente vaneggiato di blitzkrieg, annessione di tutta l’Ucraina, cavalli russi che si abbeverano alle fontane del Vaticano ed eliminazione di Capitan Ucraina, tutta narrazione quale si conviene in casi del genere. Per altro speculare a quelle russe che hanno minacciato Armageddon un giorno sì e l’altro pure.

Tutto ciò, sarà la base su cui trattare, per anni. Un giorno gli ucraini apriranno al riconoscimento delle due repubbliche ma poi si ritrarranno, allora i russi diranno che stanno valutando l’annessione dell’intero Donbass nella Federazione rendendo il possesso del territorio irreversibile. Un giorno qualcuno farà qualche azione militare al confine per forzare la mano nelle trattative, poi la farà l’altro. Si tenga però conto che la piena perdita del Mar d’Azov ed il blocco navale di fatto nell’antistante Odessa, sono mani stringenti intorno al collo economico di ciò che resta dell’Ucraina. Aprire un po’ e poi richiudere il blocco sarà la tattica negoziale principale. Nei fatti, entrambi potrebbero aver interesse a non finire mai davvero la tenzone ufficialmente poiché il conflitto sottostante, rimane. Interesse della Russia tenere l’Ucraina per il collo, interesse degli ucraini andare a piangere dagli occidentali, interesse degli americani per sgridare gli europei sul fatto che non fanno abbastanza (svenandosi ancora di più ed a lungo, il che li renderà viepiù docili ed impegnati dal divide et impera di Washington), interesse di nuovo dei russi che vogliono vedere se e quando gli europei occidentali troveranno forza e coraggio di ribellarsi. Inoltre, né i russi, né gli ucraini sono politicamente in grado di giustificare internamente l’eventuale compromesso che ogni trattato di pace comporta.

Vediamo un po’ di saggiare la logica dell’ipotesi da entrambe le parti, partiamo dai russi. Che i russi volessero effettivamente più o meno questo e non altro, si deduce in chiarezza dalle poche truppe schierate in campo. Nell’est del fronte, sino ad oggi, si son visti più ceceni e repubblicani locali che russi veri e propri. Le dichiarazioni pubbliche di Putin da dopo il 9 maggio, si sono fatte meno urlate ed aggressive. Il supporto interno è ai massimi, quindi da qui in poi può solo scendere. Khodaryhonok, l’esperto militare russo che parla alla trasmissione di punta del primo canale russo, voce che ha l’aria di parlare con la voce più propria del Cremlino presentata però come opinione personale, giorni fa ha escluso la mobilitazione generale per chiari motivi di opportunità e sostenibilità che qualcuno invocava anche in Russia e l’altro giorno ha fatto una impietosa disamina della situazione motivazionale sul campo che vede senz’altro favoriti gli ucraini. Viepiù con l’arrivo dei nuovi sistemi d’arma americani. Più passa il tempo più le sanzioni faranno effetto. Si deve presumere, come poi verificheremo dall’altra parte, che tutta la comunità internazionale se non a favore, non contraria a Mosca, spinga alla cessazione delle operazioni, il disordine mondiale (soprattutto economico) è già oltre i livelli di sopportabilità. Così per la carestia alimentare e la turbolenza sul mercato delle materie prime. Ricordo che l’obiettivo reale dell’iniziativa russa travalica le questioni ucraine e se tale motivo era più che sufficiente per Putin, non lo è come possibile ed aperta condivisione sia interna, che esterna, più passa il tempo e si alzano i costi politici, economici, diplomatici. Quindi, fin qui va bene, ora basta.

Vediamo nell’altro campo. L’altro campo va diviso quantomeno in tre. C’è Zelensky e la sua banda che vuole un futuro per sé ed il proprio paese, l’asse anglosassone ed europei orientali, gli europei occidentali che hanno visioni diverse da quelli orientali.

Partiamo dagli ucraini. Gli ucraini hanno sin qui ottenuto grande visibilità e prestigio internazionale, molte promesse, armi, hanno contenuto i russi sul campo o almeno così si è percepito, si sono uniti come un solo uomo (non lo erano affatto). Ora debbono gestire la seconda fase. Ieri un ministro ucraino ha detto che lì c’è da sminare un territorio pari all’Italia, ogni giorno in più di guerra sono 30 giorni di sminamento ulteriore. Hanno fatto stime sulla necessità iniziale di un piano di ricostruzione di almeno 600 miliardi, più 5 di mero funzionamento amministrativo mensile, più le armi. Il Paese è nullo come attività economica, Pil, tassazione, insomma è a terra, completamente, manca pure la benzina. Hanno la questione del grano dove se non si sbrigano a svuotare i silos, non potranno riempirli col nuovo raccolto. Problemi con le altre esportazioni che sostenevano la magra economia ucraina. Hanno perso quasi 6 milioni di abitanti e la natalità già bassissima, si sarà ulteriormente bloccata. Si può immaginare che le precedenti élite economiche (oligarchi o meno), siano in fermento per non dire di peggio. Col tempo, gran parte della popolazione rimasta che è lontana dal fronte attivo, sentirà viepiù i morsi della crisi profonda e sempre meno lo spirito di patria compenserà la manca di pane e companatico, lavoro, requisiti minimi di normalità di esistenza.

Si apre così la partita con l’Europa occidentale. È l’Europa occidentale che dovrà contribuire più di ogni altro al futuro piano Marshall ed è la stessa che dovrà trovare il modo di inglobare l’Ucraina (paese che non era definito “democratico” prima delle guerra, corrotto a livelli stratosferici, privo di effettivo stato di diritto, con un Pil pro-capite a livello di repubblica centro-americana -133° posto-, senza politiche di genere e tratta delle donne giovani avviate alla prostituzione industriale della loro ampia malavita organizzata in affari con la ndrangheta, primo hub europeo per traffico d’armi e droga, con livelli di garanzia democratica e per i partiti e per la stampa inesistenti e da ultimo pure peggiorati) non certo pienamente nell’UE (impossibile per via dei parametri e del tempo richiesto per adeguarvisi, decenni su decenni, ma con l’opzione “Confederazione” che però è tutta da sviluppare). Ecco allora che il governo ucraino dipende dall’Europa occidentale per due ottimi motivi: a) il riconoscimento come candidato, obiettivo da vantare sul piano interno per le prossime elezioni in cui Zelensky rischia la testa (se non la rischia prima per altre ragioni); b) i soldi. È l’Europa occidentale che imporrà all’Ucraina di adeguarsi al congelamento del conflitto. Le armi debbono tacere, le luci si debbono spegnere, l’attenzione deve scemare per poter gestire il complesso dopoguerra. Crisi alimentare, commodities, milioni di esuli che già si lamentano, in attesa si comincino a lamentare le popolazioni che li ospitano una volta terminata la fase Eurovision, impossibile rinuncia sia al petrolio per non parlare del gas, inflazione ai massimi, migranti afro-arabi affamati, relazioni commerciali sovvertite, investimenti persi, catene logistiche da ristrutturare, mercato finanziario in contrazione mondiale, costo delle sanzioni, cisti del riarmo, un vero disastro.

Così dopo un certo allineamento delle intenzioni tra russi, europei occidentali che costringeranno gli ucraini ad adeguarsi, rimarrà l’asse anglosassone. Qui la situazione Biden in vista delle elezioni di mid-term (dall’inflazione agli effetti del terremoto economico-finanziario) è molto critica. Molte le altre cose da fare. Dal gestire il bottino NATO con i nuovi candidati scandinavi (al di là delle impuntature truche, ci vorrà ancora un anno prima di ottenere tutte le approvazioni e la strada potrebbe non esser così piana come ad alcuni sembra), alla ripresa dell’offensiva diplomatica soprattutto in Asia. In fondo, lo sfregio di reputazione russa si è ottenuto almeno per le platee occidentali, il declassamento d’immagine come superpotenza in parte, l’Europa che si riarma e stacca i legami con Mosca è forse il bottino più succoso, le sanzioni faranno il loro corso ed anzi ci sarà da tenere a bada gli europei che tenteranno qualche reversibilità e compromesso come stanno già facendo col fatidico pagamento in rubli a Gazprom.

Insomma, del Grande Conflitto per o contro l’Ordine Multipolare, che è la ragione propria di tutto questo macello, si potrà chiudere la prima fase, aprendo la seconda che si dovrà gestire a livello economico, finanziario, monetario, diplomatico e di alleanze, gestendo la complessa fase post-bellica, trasferendone il fulcro in Asia mentre si prepara la nuova puntata dell’Artico che è poi ciò che ha mosso al repentino assorbimento dei due scandinavi. Svezia e Finlandia hanno decenni di pacifica convivenza coi russi, nessun contenzioso, nessuna enclave russofona, nessuna ricchezza da disputarsi, la Svezia non ha neanche un confine di terra con la Russia. La Finlandia ce l’ha ma è esageratamente lungo, pianeggiante, disabitato e freddo, sostanzialmente indifendibile. Ma non si capisce cosa della Finlandia possa mai attrarre i russi. La loro frettolosa e sin troppo festeggiata adesione, non può che riferirsi a ben altro conflitto quale quello che si sta approntando per le risorse e la viabilità dell’Artico.

Il seguito di questo conflitto a scala planetaria non è facilmente ipotizzabile. Se lo è sul piano delle strategie generali, manca chiarezza sulla forza del suo soggetto ovvero l’attuale presidenza Biden. Quasi certa la perdita del Senato alle prossime mid-term, potrebbe perdere anche la Camera ed i due anni che, a quel punto, separeranno dalle presidenziali sarebbero una ghiotta occasione per i repubblicani per fargli perdere più punti di quanto ne potrebbe acquisire. Il tutto, in un contesto mondiale ormai disordinato irreversibilmente, con prospettive economiche plumbee. Di contro, potrebbe esser allora intenzione proprio dell’”anatra zoppa” drammatizzare il conflitto internazionale, specie se a quel punto diretto anche contro la Cina. Un richiamo a cui non potrebbero resistere neanche i repubblicani. L’enorme elargizione di dollari al complesso militare-industriale ha sempre affetti bipartisan.

Sin dall’inizio delle nostre cronache sul conflitto ucraino, ci siamo posti il problema tra l’estrema ambizione del piano americano e la sua forza relativa nel poterlo dispiegare nel tempo contro le avversità da esso stesso generate. Schematicamente, delle due l’una: o il piano è frutto di un entusiasmo poco avveduto strategicamente e realisticamente o si è prevista la necessità di alzare continuamente la posta per imporlo come unico schema di riferimento, forzando tutte le incertezze e contrarietà crescenti. Questo secondo caso sarebbe davvero preoccupante ed allora le continue uscite russe sull’opzione nucleare, passerebbero dal novero della semplice propaganda alla risposta a minacce strategiche che le opinioni pubbliche ancora non vedono con chiarezza.

https://pierluigifagan.wordpress.com/2022/05/19/il-congelamento-di-agosto/

STRATEGIA USA.
Continuiamo la nostra ricerca intorno al problema più volte qui segnalato ovvero l’apparente sproporzione tra l’ambizione che traspare nei piani americani e la forza effettiva dell’amministrazione Biden.
Quanto all’ambizione, non v’è dubbio che l’attuale amministrazione si sia data compito strategico di ampia portata ovvero fare i conti col destino apparentemente inevitabile di un ordine multipolare che annullerebbe ogni vantaggio sistemico per gli Stati Uniti. Fin qui nulla di particolarmente nuovo, il nuovo potrebbe essere nel modo di perseguire l’obiettivo o forse un nuovo molto antico. Nell’ambito del pensiero strategico americano, si è a lungo ritenuto la Cina il competitor a cui gli USA dovevano guardare. Alcuni realisti hanno anche prospettato come utile una “strategia Kissinger” che riproponesse il vecchio “divide et impera” applicato al tempo di Nixon, quando uno dei più conservatori presidenti americani venne portato a Beijing a stringere la mano addirittura a Mao Zedong, pur di separare comunisti cinesi da quelli russi che ai tempi erano il nemico principale. Secondo questa linea di pensiero, si sarebbe dovuto quindi cercare di staccare gli interessi russi da quelli cinesi. Ricordiamo che la Russia è una potenza armata non economica, la Cina il contrario, a grana grossa. Ha destato quindi un certo stupore verificare la foga e l’impegno materiale e politico straordinario con il quale Biden (qui come nome di una strategia collettiva di gruppi di potere di Washington) ha affrontato la, a lungo coltivata e poi scoppiata, guerra in Ucraina. Perché la Russia quando l’avversario strategico è la Cina?
Le strategie rispondono a problemi molteplici, quindi hanno ragioni molteplici ed applicazioni molteplici. La domanda semplice, quindi, non può non avere che una risposta complessa. Ma qui non abbiamo spazio e tempo per indagare questo campo di analisi. Diremo solo che ci sembra importante quanto dichiarato dal Segretario alla Difesa Lloyd Austin il 25 aprile scorso ovvero che il fine dell’impegno USA nel conflitto ucraino ha come obiettivo “vedere la Russia indebolita” strutturalmente, cioè a lungo. “A lungo” va oltre il conflitto ucraino, si riferisce al conflitto multipolare che durerà anni, non mesi. Tre gli assi dell’agognato indebolimento: a) quello strettamente militare ovvero distruzione prolungata dei materiali bellici russi che richiedono anni per il rimpiazzo; 2) quello economico agito tramite sanzioni ed isolamento economico e finanziario, se non altro con il sistema occidentale, comunque, ancora ben al di sopra del 50% di ricchezza mondiale; 3) quello diplomatico che s’accompagna al secondo obiettivo. Come disegnato dal nuovo strategist della Casa Bianca, quel T. J. Wright ex direttore del Brookings Institute nel suo “All Measures Short of War” (2017), gli USA non possono recedere dalla prioritaria difesa dell’ordine “liberale” globale, senza arretrare di un millimetro nonostante la crescita dei problemi, dei concorrenti, del disordine del mondo sempre più complesso.
Solo che Wright proponeva una strategia complessa che non usasse più di tanto a leva bellica mentre ciò a cui assistiamo ed in conseguenza di ciò che ha detto Austin, va in senso contrario. Non si può fare i conti col desiderio strategico di voler vedere la Russia indebolita senza fare i conti con le questioni belliche poiché la forza della Russia è bellica, non economica. La loro stessa forza diplomatica che vediamo penetrare lentamente in Africa agisce tramite armi non investimenti come fanno i cinesi. Va qui precisato che la strategia generale di un sistema come gli USA, non è mai pensata e decisa da un solo attore, è vano cercare l’Autore originario in quanto non c’è, ci sarà un gruppo con molti attori neanche noti o visibili, di cui il presidente o il suo più stretto entourage politico, fa sintesi. Tra l’altro ciò permette il fatto che la strategia generale resti ignota nel suo disegno complessivo, poiché pochissimi ne condividono l’intera architettura. Quindi Wright va benissimo quando si tratta di sanzioni e diplomazia, ma non è affatto detto che si prenda sul serio la sua “Short of War”.
Torniamo allora al 14 aprile quando Biden convoca alla Casa Bianca i vertici degli otto maggiori produttori d’arma americani per un briefing generale. Ufficialmente, l’incontro è stato messo in relazione con i continui sforzi americani di armare gli ucraini. Pochi giorni prima, un think tank militare di Washington (CSIS) aveva sfornato un report in cui si diceva che già allora, gli americani avevano consumato un terzo delle proprie riserve di Javelin e Stinger e che ci sarebbero voluti tre-quattro anni per ripristinare le scorte per i Javelin, cinque per gli Stinger. Ma una fonte anonima della Casa Bianca ripresa dalla stampa americana, aggiungeva che non era solo per quello che s’era indetta la riunione. In effetti, se fosse stato solo per quello ce la si cavava con un paio di telefonate a Raytheon e Lockheed-Martin. La fonte faceva capire che: a) la prospettiva di fornitura e consumo d’armi sarebbe stata molto prolungata nel tempo; b) la questione non riguardava solo gli Stati Uniti e l’Ucraina, ma anche gli alleati.
Non passa giorno, incluso ieri, che Stoltenberg non ribadisca che il conflitto sarà molto, molto lungo. Ma non è questa la piega che sta prendendo il conflitto sul campo, gli ucraini non sono in grado per uomini e sostenibilità economica e psicologica di reggere un conflitto per “anni ed anni”. Né lo vogliono gli europei che poi son quelli che debbono mettere i soldi per la ricostruzione di cui tra l’altro Zelensky parla sempre più spesso come di cosa ormai anche più importante delle armi stesse. Altresì, la recente conversione armaiola di Germania, Europa e presto Giappone oltre ad Australia, Canada oltre a Gran Bretagna che sull’argomento fa da sé e si è già organizzata per tempo a riguardo (dichiarazioni Johnson già da molto prima del 24 febbraio ), chiama ad un impressionante incremento produttivo proprio americano poiché è l’unico competitivo sul mercato ad oggi e tale rimarrà almeno per i prossimi cinque-dieci anni o forse più visto il vantaggio tecnologico che ha su ogni altro tentativo di esplorare competitivamente questo particolare mercato.
Sono così andato a verificare cosa realmente producono non solo Raytheon e Lockheed-Martin, ma anche gli altri convocati alla famosa riunione, cioè: Boeing; Northrop Grumman; General Dynamics e L3Harris Technologies. Molti di questi non producono nulla che possa servire alla guerra in Ucraina, ad esempio forze aeree, spaziali, navali. Così, se a livello di radar, missili, droni e carri si poteva trattare la faccenda al telefono o a livello di singoli responsabili di approvvigionamento-produzione, per una grande stagione di riarmo generale, non solo americana ma occidentale in senso più ampio e tenuto conto se il riarmo occidentale trainerà il riarmo globale, la faccenda diventerà sistemica e quindi la riunione ci stava tutta.
Abbiamo qui già presentato la prossima puntata conflittuale dell’Artico che è poi quella che ha mosso la altrimenti inspiegabile entrata nella NATO dei due scandinavi (in pacifica convivenza coi russi da sempre, privi di contenziosi, di allettanti risorse, di russofoni maltrattati o di rilevanza strategica generale che la Scandinavia non ha mai avuto in nessun modo e quanto alla Svezia, addirittura di confini comuni coi russi). Riprendendo le analisi di un numero dedicato a suo tempo da Limes, Fabbri stesso l’altro giorno ricordava la base russa di Murmansk, l’unica libera dai ghiacci tutto l’anno, ad un tiro di schioppo dal confine finlandese, ma volendo anche svedese. Ma nell’incontro tra il turco Cavasoglu e Blinken, si è parlato anche di Caucaso (dove è in subbuglio l’Armenia, storico alleato di Mosca) e del centro-Asia i cui presidenti facenti parte della piccola NATO russa (CSTO) si sono di recente incontrati a Mosca, preoccupata dello scarso entusiasmo che gli alleati hanno sin qui mostrato per l’avventura russa in Ucraina. Pare in aumento anche il contingente americano in Siria, in Somalia, e si può sempre prevedere qualche ripresa delle dispute russo-giapponesi su Sakhalin (nientemeno che oro, argento, titanio, ferro, carbone e tra i più grossi giacimenti del mondo di gas e petrolio ancora non estratti) o la famosa disputa della Isole Curili in cui i russi hanno strategiche basi di navi e sottomarini.
Letti gli azionisti dei top-eight produttori d’arma ovvero il gotha finanziario dei grandi fondi di Wall Street che da mesi sta uscendo dalle posizioni sul hi-tech, si può riconsiderare il famoso sistema centrale del potere americano indicato da Eisenhower nel 1961 come oggi diventato: complesso militare-industriale-congressuale-finanziario. Il Congresso a cui Biden aveva chiesto da ultimo 30 mld per l’Ucraina, ha deciso invece di dargliene 40, sua sponte bipartisan poiché il sistema beneficia tutti e due i partiti. Il Congresso immette la liquidità, i militari chiedono all’industria di produrre per poi usare in proprio o vendere agli alleati ora avidi di armi che non sanno produrre in proprio. La finanza banchetta e così sono tutti felici. Industria e finanza, poi tornano parte del bottino in finanziamento dei partiti e dei singoli rappresentanti, anche col sistema delle porte girevoli, posti di lavoro per le corti di amici/amiche ed assistenti, think tank et varia. Le armi verranno regolarmente usate nella collana di perle di ferro dei mille conflitti che oscureranno la collana di perle di seta cinese. La Russia sarà sfiancata in attriti multipli, sotto sanzioni, punita diplomaticamente. Gli alleati non avranno scelta che seguire il capo branco anche perché non hanno forza, strategia ed intenzione alternative comparabili.
La forza del sistema denunciato più di settanta anni fa da un presidente che però era anche un generale ed anche repubblicano sebbene il suo famoso discorso d’addio vene scritto da un sociologo democratico (democratico ideologicamente, alla Dewey), può forse garantire la strategia anche dopo l’aspettata sconfitta alle prossime mid-term. Rimane una strategia ambiziosa, ma è calcolata. Bene o male lo vedremo. Chissà che alle prossime presidenziali americane non si sospenda il voto se gli USA, nel frattempo, saranno entrati in guerra in prima persona.
In questi giorni le frastornate opinioni pubbliche scoprono il problema alimentare globale noto già dai primi giorni di guerra ma inadatto ad esser allora posto vista l’urgenza della pressione comportamentista alla Watson-Skinner a base di “aggressore-aggredito”. Per questo, come per quello ecologico-climatico, come per quello geopolitico-economico-valutario-finanziario, gli USA hanno la soluzione, non è nuova ma funziona da cinquemila anni ed è obiettivamente forse l’ultimo loro esclusivo vantaggio comparato. Sempre che non sfugga di mano e non trascenda nell’atomico. Rischioso? Ce lo disse Ulrich Beck già nel 1986, la nostra è l’Età del rischio.

Cos’è la filosofia russa e perché è ancora importante? Una conversazione con la rivista russa Kultura, di Paul Grenier

Questa conversazione tra il quotidiano russo Kultura e Paul Grenier è stata originariamente pubblicata, in russo, con il titolo “La Russia non dovrebbe perdere tempo a bussare a una porta chiusa” ( Kultura , 28 aprile 2022, 8-9). La conversazione è stata condotta dall’editore e corrispondente di Kultura , Tikhon Sysoev.

 

 

 

Kultura:  La filosofia russa è regolarmente accusata di essere “derivata”. I filosofi russi, si dice, hanno preso in prestito il loro apparato concettuale dall’Occidente e si sono poi serviti di quell’apparato per trattare i problemi del giorno. In che misura ritiene giustificata una simile opinione? 

GRENIER:   Ho sentito molte volte questa accusa contro la filosofia russa, fin dai tempi della mia università e della mia scuola di specializzazione. Gli slavofili, presumibilmente, stavano semplicemente attingendo da Schelling e da altri idealisti tedeschi. La filosofia di Vladimir Solovyov si basa su Kant e Hegel e, naturalmente, su Platone. Nessuno negherebbe che tali influenze ci fossero e che fossero grandi. Indubbiamente Pisarev, Chernyvshevski, Dobroliubov e i marxisti durante tutto il periodo sovietico, hanno preso in prestito da fonti occidentali, spesso illuministiche, dal pensiero utilitaristico e materialista occidentale, per non parlare dell’importante influenza di Feuerbach.

C’è comunque qualcosa di strano per me in questo complesso di inferiorità tipicamente russo nella sua tradizione, una tradizione che è così ovviamente, per me, qualcosa  sui generis.  Tutta  la filosofia è una conversazione con il suo passato: per chi, e per quale paese, questa generalizzazione  non è  vera? Quando ho letto John Locke, che ha preceduto Kant, sono ancora sorpreso di quanto una tale lettura riveli quanto molte delle idee di Kant fossero davvero poco originali. Sono già lì nella noiosa epistemologia di Locke.

Sembra chiaro che anche tra pensatori russi secondari come Pisarev e Chernyshevsky, nonostante il loro orientamento occidentale per molti aspetti, siano ancora chiaramente russi. Non è vero che si preoccupavano solo di fornire buoni stivali ai contadini scalzi e se ne fregavano di Puskin [il grande poeta russo Alexander]. Hanno rifiutato di lasciare l’estetica a un piano astratto e “ideale” separato nelle nuvole dal mondo materiale. VV Zenkovsky ha affermato che, almeno a questo riguardo, condividevano qualcosa con Vladimir Solovyov, la cui teoria estetica insisteva sulla bellezza come compenetrazione del materiale e dello spirituale. Quello che vediamo qui, quindi, in tutti questi pensatori è l’interesse tipicamente russo per l’unità o, nei termini di Solovyov, “tutto-unità”. [1]

Per me personalmente, l’apice del pensiero filosofico russo si trova in primo luogo in Dostoevskij, ma anche in Solovyov, p. S. Bulgakov, e, in generale, in tutta quella scuola teologico-filosofica, di cui ci sono molti rappresentanti.

Kultura:  Perché questa scuola di pensiero russo in particolare? Cosa ti sembra più prezioso degli altri?

GRENIER: La mia risposta può essere solo molto parziale, ma prima di tutto perché, a differenza di quasi tutto il pensiero occidentale dai tempi di Rousseau, ciò che troviamo nel caso di tutti questi pensatori è in realtà ancora  la filosofia in una vita modulo. Il massimo interprete oggi della modernità liberale, Pierre Manent, ha notato che la tradizione liberale occidentale ha reso la filosofia in quanto tale non più possibile. La tradizione liberale ha consegnato al passato l’idea che lo studio dell’uomo sia da un lato lo studio di un mistero, e tuttavia sia anche, dall’altro, lo studio di qualcosa di dato. Per la tradizione, l’uomo ha una data natura, un determinato orientamento. Una volta che tutto ciò è stato consegnato al passato, alla “premodernità”, allora, secondo Manent – e qui sono pienamente d’accordo con lui – non c’è più un argomento per la filosofia. Nel pensiero russo di questa tradizione, la filosofia, al contrario, è ancora viva, è ancora  possibile .

Kultura:  Perché, a differenza dell’Occidente, ci sono stati così pochi filosofi accademici (“scientifici”) in Russia? La filosofia russa ha spesso una qualità giornalistica o letteraria. Perché pensi che i filosofi russi siano così spesso attratti da generi meno “scientifici” come questi?

GRENIER:   Devo dire che la mia opera preferita della filosofia russa è Tre conversazioni di Solovyov: la guerra, il progresso e la fine della storia . La qualità letteraria delle conversazioni è molto alta, ed è semplicemente un piacere leggerle sotto ogni aspetto. Quando ero alla scuola di specializzazione alla Columbia, un gruppo di amici si è riunito per leggerlo ad alta voce, ognuno di noi ha preso parte – solo per divertimento, nel nostro tempo libero. Era ovviamente intenzione di Solovyov, scrivendo in questo stile, rendere le sue idee accessibili e lette da un circolo che va oltre i circoli accademici. Naturalmente lo stesso si può dire per i dialoghi di Platone…

Kultura:  Ma questa stessa accessibilità non rivela qualcosa di ‘difettoso’ e secondario in tali opere? Sto parlando qui, ovviamente, non di Platone, le cui opere sono state prodotte per un pubblico diverso e in condizioni completamente diverse.

GRENIER: Qualcuno una volta ha detto che la  Repubblica di Platone , se scritta per la prima volta oggi come dottorato di ricerca. tesi in qualsiasi dipartimento di filosofia americano, che sarebbe stato immediatamente respinto come speculativo e del tutto non scientifico. (Presumibilmente, oggi, lo studente sarebbe anche inserito nella lista nera ed espulso dal dipartimento per aver sostenuto tali opinioni “di destra”.)

Mi sembra che le possibilità stilistiche aperte a chi tenta di descrivere ciò che è riconosciuto come un mistero debbano necessariamente differire dalle possibilità stilistiche aperte alla descrizione di un meccanismo pienamente conoscibile. Il pensiero che prima riduce le cose a ciò che è semplice, può poi descrivere con esattezza (‘scientificamente’) questa riduzione. Il pensiero che non si impegna in questa riduzione iniziale, ma resta aperto al tutto, deve trovare qualche altra metodologia con cui procedere.

Mi ritrovo a tornare al concetto di totalità (integrità, totalità). Se è corretto affermare che la ragione filosofica tenta di capire cosa sia una  cosa o  un  essere   – e di comprenderlo in un modo che abbracci il fenomeno nel suo insieme – allora la metodologia letteraria è, almeno in alcuni casi, chiaramente più adeguato a tale compito rispetto all’alternativa. Kant ci dice che non dobbiamo trattare una persona semplicemente come un oggetto. Questo è eccellente, ed è anche “vero”, fino a un certo punto, ma la  forma  del concetto così espresso è inadeguata alla sua sostanza.

I Demoni di Dostoevskij   ci dicono, per così dire, la stessa cosa, ma in una forma che raggiunge il tutto: il nostro intelletto, le nostre emozioni, la nostra anima e il nostro corpo, e in un modo che lascia qualcosa impresso nella nostra memoria per tutto il tempo in cui viviamo .

Kultura:    Molti hanno sottolineato l’enorme, forse anche eccessiva attenzione che il pensiero filosofico russo accorda ai problemi religiosi. Un’attenzione equivalente a tali questioni non è stata caratteristica del pensiero occidentale. Perché, dal tuo punto di vista, il pensiero russo si è concentrato a tal punto su queste questioni apparentemente non strettamente filosofiche? Perché i pensatori russi erano così disinteressati, ad esempio, alle questioni della teoria della conoscenza (epistemologia), un argomento che è stato centrale nella tradizione occidentale?

GRENIER:   Per me, tutto ciò che è più tipicamente russo nel pensiero russo, così come ciò che è più prezioso, è anche pensiero religioso. Un altro modo per dire la stessa cosa è che il pensiero russo non è riducibile al liberalismo, o al tipo di protestantesimo che pensa che il mondo, la ragione e la natura siano cose del tutto autonome – autonome nel senso di essere intelligibili senza alcun riferimento all’Essere o, se si preferisce, a un divenire orientato verticalmente (in opposizione a un divenire meramente storico o biologico).

Per quanto riguarda l’epistemologia, è vero che non si tratta di un argomento che ha attirato molta attenzione tra i migliori filosofi russi. Tra i pensatori che personalmente trovo interessanti, Nicholas Lossky ha dedicato molta attenzione all’argomento, ma è passato troppo tempo dall’ultima volta che l’ho letto per dire qualcosa di utile, tranne per aggiungere che penso che Lossky sia ingiustamente trascurato. È un pensatore originale e coraggioso; è umano; e, nonostante ciò che affermavano i suoi critici, era anche un filosofo cristiano , per quanto non ortodosso.

Allo stesso tempo, almeno per quanto riguarda la tradizione del pensiero occidentale che va da Bacon a Locke a Kant, lo stile epistemologico occidentale è orientato a non capire cosa sia, è orientato ad acquisire potere sulle cose. La filosofa francese Simone Weil lo vide con grande chiarezza e il suo amore per il pensiero e la cultura della Grecia antica derivava in gran parte dalla sua percezione che per loro la contemplazione fosse prima di tutto una sorta di attenzione orante. Vedo una linea diretta, rispetto alla logica interna dei loro approcci, tra Weil e il pensiero sophianico di Solovyov e Sergei Bulgakov. È un’area che sto ancora esplorando e imparando, non sono affatto un esperto di tutto ciò, ma intuitivamente penso che qui sia il punto di partenza più promettente per una rinascita della filosofia per domani.

I filosofi (dipinto di M. Nesterov raffigurante Pavel Florensky e Sergei Bulgakov)

Kultura:    Abbiamo già parlato di alcuni concetti e metodi specifici del pensiero filosofico russo. E il campo problematico? Lei ha menzionato più volte il concetto di ‘tutto-unità’ (vse-edinstvo). In che modo questo concetto ha influenzato lo sviluppo di problemi legati alla struttura sociale o politica, all’estetica e all’etica nella filosofia russa? Perché qualcosa come l’unità totale non è diventata una forma pensiero ideale in Occidente ? 

GRENIER:   Probabilmente non posso rendere giustizia a tutte le parti di questa interessante domanda, data la sua ampiezza. Cercherò, invece, di affrontare la questione dell'”unità totale” in relazione alla questione politica. La crisi della politica moderna è legata in primo luogo a una crisi di  autorità . Già Hannah Arendt aveva notato questa crisi nel suo saggio “Cos’è l’autorità”, scritto nel 1958. Inutile dire, suppongo, che l’indebolimento e, infine, il crollo dell’autorità sono inseparabili dalla critica mossa da Nietzsche contro Platonismo, e, allo stesso modo, contro la tradizione platonica cristiana.

Solovyov – che è, naturalmente, molto più un pensatore platonico di quanto non fosse un qualsiasi liberale – aveva solo una familiarità parziale con Nietzsche; e tuttavia la stessa Giustificazione del bene di Solovyov   è diretta, anche esplicitamente, contro e in risposta a Nietzsche, così come contro la civiltà occidentale secolarizzata in tutte le sue forme, compreso in particolare l’utilitarismo liberale di John Stuart Mill. Il ‘bene’, per Solovyov, è ciò che è  autorevole ; e il potere politico, per essere  potere politico legittimo  , non può fondare la sua autorità in altro che nel servizio al Bene in quanto tale; e il Bene è da Dio. L’ordine politico, per Solovyov, è “libera teocrazia”.

Questo stesso tema della  teokratia  è ripreso da p. Sergei Bulgakov dopo la rivoluzione del 1917. Un mio caro amico sta scrivendo un libro proprio su questo argomento, e sto attingendo direttamente dal suo lavoro quando noto che, per Bulgakov, il tipo di regime ideale era quello le cui caratteristiche formali dipendono da uno standard di verità ( logos) che è esterno a se stesso (cioè esterno al regime). L’autorità, in un ordine politico di questo tipo, deve essere vista come risiedere in qualche persona la cui autorità “personale” è, per definizione, vista come derivata da ciò che è al di sopra di quella figura politica: la sua autorità deriva da “ciò che è al di sopra di questo mondo.’ Tale figura, per la Russia, era lo zar. Allo stesso tempo, all’indomani della rivoluzione russa, Bulgakov si rese conto che la storia non sarebbe tornata indietro, quindi la possibilità di un tale accordo era passata. Questo passaggio del più antico ordine (zarista) aveva per Bulgakov, quindi, un significato tragico, perché la sua morte rappresentava la morte del sacro in quanto tale – e non solo per la Russia, ma per l’Europa e l’Occidente nel suo insieme. Rappresentava la morte del sacro come qualcosa che è integrato nella vita del mondo , almeno nella misura in cui il sacro è connesso a Cristo e al cristianesimo.

In un certo senso, ciò che vediamo in Bulgakov è un’anticipazione di Heidegger e un’eco del “Dio è morto –  e noi lo abbiamo ucciso ” di Nietzsche. Non c’è ritorno all’autorità politica finché continuiamo a uccidere il sacro, o a considerarlo una questione meramente privata (così che ognuno ha il proprio   “assoluto” privato che ha “valore assoluto” – ma solo per me, in quanto Un individuo!).

L’unità totale si esprime qui nella forma di una relazione interiore tra il regno del politico e il regno del sacro. È un tema che è stato il  leitmotiv  di gran parte della filosofia e del pensiero russi.

Kultura:  Sei stato uno studente del pensiero filosofico russo per molti anni, anche se il russo, per quanto ho capito, non è la tua lingua madre. Quale ti è sembrato il più difficile della filosofia russa? 

GENIER:  Quando ho iniziato, in giovane età, a leggere Dostoevskij, è stato strano, nel senso che il suo mondo non aveva nulla in comune con il mondo che mi circondava nella periferia della California; ma comunque mi sono sentito a casa. Anni dopo, quando, da giovane, ho iniziato a sedermi ai tavoli di cucina con gli amici russi, in quella che allora era ancora Leningrado, fino alle 2 o alle 3 del mattino, qualcosa che era ancora possibile sotto il comunismo in un modo che ha avuto la tendenza a scomparire sotto il capitalismo — e sperimentare quel senso caratteristico di essere parte del ‘collettivo’ (nel senso russo colloquiale, non burocratico), cioè di appartenere a questo piccolo gruppo di amici per cui il tutto era primario, e le parti secondario, non mi sembrava estraneo; sembrava qualcosa che avrebbe dovuto già essere sempre lì. Fu l’individualismo occidentale che cominciò a sembrarmi strano. Mi resi conto per la prima volta che, negli Stati Uniti, andavamo in giro come dentro dei gusci duri. Le persone in Occidente, ho capito improvvisamente, sono sole a livello ontologico.

Un concetto con cui, a dire il vero, ho un po’ combattuto, è quello associato agli studi di Dostoevskij: vale a dire, il concetto di незавершимость, o ‘non finalizzabilità’. In altre parole, l’idea che una persona non possa mai essere considerata completamente conosciuta, non può essere ridotta a un giudizio finale – per esempio, “noi [pensiamo di] sapere così e così è un singhiozzo, e lo sarà sempre .’ La difficoltà qui non è intellettuale, ma spirituale.

Kultura: In  che modo l’eredità filosofica russa potrebbe essere utile per il mondo occidentale moderno, visti i problemi e le crisi che deve affrontare?

GRENIER:   È improbabile che l’Occidente, in qualsiasi senso istituzionale, sia in grado di imparare qualcosa da una civiltà che gira su principi diversi dai suoi. La Russia non dovrebbe quindi perdere tempo a pensare a cosa può portare in Occidente, oa bussare a una porta chiusa. A livello di conversazioni tra le persone, ovviamente, è una questione completamente diversa. Spero che tali conversazioni possano essere mantenute e persino ampliate. Ma le idee, lasciate solo sulla carta, o nei libri e negli articoli, di certo non cambieranno nulla, né in Occidente, né altrove.

Allo stesso tempo, se i russi prendessero più sul serio la propria eredità filosofico-teologica, c’è ogni possibilità per la Russia di diventare un esempio positivo di un modo di essere umano e non tecnocratico nel mondo. Sarei felicissimo di vederlo accadere un giorno. L’alternativa sembra essere una tecnocrazia globale post-umana, da cui nessuno di noi potrà sfuggire.

APPUNTI

[1] Per un’eccellente, sebbene non ancora terminata, monografia sul concetto di ‘unità’ (tselostnost’) nel pensiero russo, si veda Gordon Hahn, Tselostnost’ In Russian Thought, Culture, and Politics.  Gordon ha senza dubbio ragione quando scrive che la parola russa tselostnost” connota qualcosa di più di “unità”. Include anche concetti come integrità, integralità, monismo e termini simili. Il manoscritto di Hahn arricchisce le varie manifestazioni di questo concetto attraverso un’ampia gamma di fenomeni culturali e politici. Indica, nella sua introduzione, l’idea di simfonianei rapporti Chiesa-Stato, l’universalismo russo di Dostoevskij, l’“anima del mondo” di Nikolai Berdyaev e l’“unità totale” di Solovyov o il vseedinstvo della creazione. Nella versione russa di questa intervista, stampata da Kultura , ho erroneamente tradotto tselostnost’ come ‘tutto-unità’. La traduzione russa corretta del termine ‘tutta unità’, che è di Solovyov, è ovviamente vse-edinstvo.  L’errore è stato mio.

https://simoneweilcenter.org/publications/2022/5/10/what-is-russian-philosophy-and-why-is-it-still-importantnbsp-a-conversation-with-russias-kultura-magazine

Korybko: corridoio transcaucasico, un polo geoeconomico indipendente all’interno dell’Eurasia

Le dinamiche geopolitiche stanno assumendo caratteristiche sempre più convulse e meno controllabili. Ad ogni azione, ad esempio le sanzioni americane ed occidentali contro la Russia, corrisponde una reazione non solo dell’oggetto delle azioni, ma anche degli spettatori sempre più partecipi del gioco, spesso riesumando vecchie ambizioni sopite nella fase bipolare. Il mondo è ancora troppo grande per realizzare il sogno per alcuni e l’incubo per i più di un dominio unipolare. Rimane per i primi la consolazione della ricerca di una nuova condizione bipolare in grado di consentire una spartizione concordata e di dirottare la competizione e il conflitto endemico nelle terre di nessuno che inevitabilmente resisteranno. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Korybko: corridoio transcaucasico, un polo geoeconomico indipendente all’interno dell’Eurasia

Teheran (Bazaar): il proposto polo geoeconomico del corridoio commerciale Georgia-Ucraina-Azerbaigian-Moldavia (GUAM) diventerà più importante in Eurasia nei prossimi anni, aggiungendo i paesi del Caucaso e quelli al di là di esso nell’Asia occidentale e nell’Asia centrale saranno incoraggiati ad espandere le loro relazioni commerciali con esso, il che contribuirà alla formazione di nuovi corridoi commerciali, ha detto Andrew Korybko a Bazaar in un’intervista esclusiva.

Dice anche che Molto più importante è il ruolo crescente della Polonia, l’economia più forte dell’Europa centrale, che mira ad espandere la sua influenza sulla regione attraverso la “Three Seas Initiative” (3SI) per l’integrazione dei paesi tra l’Adriatico, il Baltico, e Mar Nero.

Bazar: gli sviluppi geopolitici e geoeconomici nella regione del Caucaso hanno portato l’Iran a prestare particolare attenzione ai corridoi commerciali di transito. In effetti, Teheran ha cercato di offrire nuove iniziative, diverse rotte commerciali e nazionali nella regione. In che misura il corridoio Iran-Azerbaigian-Georgia-Mar Nero-Europa contribuisce ad aumentare la posizione dell’Iran nella regione?

La sua posizione geostrategica gli consente di fungere da fulcro per facilitare il commercio nord-sud ed est-ovest. Il primo è promosso attraverso il corridoio di trasporto nord-sud (NSTC) con se stesso, l’Azerbaigian, la Russia e l’India, mentre il secondo può essere avanzato attraverso la connettività transcaucasica con la regione del Mar Nero. Questi progetti sono complementari e migliorano collettivamente la posizione geoeconomica della Repubblica islamica in Eurasia.

Bazaar: Quali sono gli importanti vantaggi del lancio di questo corridoio che collega il Golfo Persico al Mar Nero per questi paesi, in particolare l’Iran?

Il commercio transcontinentale attraverso la Russia non è possibile a causa del regime di sanzioni senza precedenti e pianificato contro l’Occidente guidato dagli Stati Uniti, ma rimane importante garantire che il commercio tra l’Eurasia occidentale (Europa) e l’Eurasia orientale (Cina) continui. Il corridoio transcaucasico può fungere da scorciatoia tra questi due. Può anche diventare un polo geoeconomico indipendente all’interno dell’Eurasia per migliorare tutti i loro potenziali di sviluppo e connettersi con altri corridoi.

Bazaar: l’istituzione di questo corridoio aumenterà l’importanza di transito della Repubblica dell’Azerbaigian e della Georgia, nonché l’espansione delle relazioni commerciali dell’Iran con il Caucaso e l’Europa orientale. Cosa ne pensi di questo?

È un risultato reciprocamente vantaggioso, in cui si spera possano essere coinvolte anche l’Armenia e le società russe attive nel Caucaso meridionale. Tutti i paesi circostanti possono avvicinarsi combinando il loro potenziale geoeconomico e trasformando questa regione in una piattaforma per il coordinamento del commercio nord-sud ed est-ovest attraverso l’Eurasia. Ciò potrebbe aiutare a garantire stabilità e creare nuove possibilità di sviluppo nel tempo.

Bazaar: Quali effetti ha avuto la guerra ucraina nella regione del Mar Nero su Turchia e Russia in termini di energia, commercio, sicurezza e molti altri aspetti?

Nonostante abbia votato contro la Russia all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la Turchia ha rifiutato di soddisfare le richieste degli Stati Uniti di sanzionarla. Ciò dimostra che i legami tra i due rimangono forti nonostante la loro rivalità transregionale in tutta l’Afro-Eurasia che i loro leader sono riusciti a regolare responsabilmente nel corso degli anni. I suoi interessi nazionali oggettivi sono serviti mantenendo la cooperazione economica strategica con la Russia e non diventando eccessivamente affidabili nei confronti dei suoi partner occidentali.

Bazar: nuovi ed emergenti collegamenti di trasporto tra il Mar Baltico, il Mar Nero e il Mar Caspio creeranno un’architettura di comunicazione diversa e nuova che offrirà opportunità a tutti i paesi lungo le rotte, incluso il corridoio di trasporto GUAM, che diventa parte integrante di questa nuova architettura. La componente più importante per l’attuazione del Corridoio GUAM è l’instaurazione della pace nelle due regioni del Mar Nero e del Caucaso meridionale, anche se queste due regioni hanno molte tensioni. Quanto è lontana l’attuazione di questo corridoio nel Mar Nero?

Il proposto corridoio commerciale Georgia-Ucraina-Azerbaigian-Moldavia (GUAM) è stato discusso a lungo ed è già in qualche modo in vigore, sebbene non sia un importante asse geoeconomico ed è per questo che non ha ricevuto molta attenzione. Molto più importante è il ruolo crescente della Polonia, l’economia più forte dell’Europa centrale, che mira ad espandere la sua influenza sulla regione attraverso la “Three Seas Initiative” (3SI) per l’integrazione dei paesi tra Adriatico, Mar Baltico e Mar Nero.

Ci sono già progetti di connettività in costruzione per aprire la strada a un nuovo corridoio nord-sud tra l’Artico scandinavo e il Mediterraneo greco attraverso questi paesi. Questo polo geoeconomico sempre più influente diventerà più importante in Eurasia nei prossimi anni. I paesi del Caucaso e quelli al di là dell’Asia occidentale e centrale saranno incoraggiati ad espandere le loro relazioni commerciali con esso, il che contribuirà alla formazione di nuovi corridoi commerciali.

Finlandia e Svezia si uniranno alla NATO a spese di tutto_di Anatol Lieven

C’è un’ironia triste e piuttosto patetica sulla prevista richiesta di Finlandia e Svezia di aderire alla NATO.

Durante la Guerra Fredda, l’Unione Sovietica è stata una superpotenza militare, ha occupato gran parte dell’Europa centrale, le sue truppe erano di stanza nel cuore della Germania e il comunismo sovietico, almeno per un po’, sembrava essere una vera minaccia alla democrazia capitalista occidentale . Per tutti quei decenni, tuttavia, Finlandia e Svezia rimasero ufficialmente neutrali.

Nel caso della Finlandia, la neutralità è stata una condizione del trattato con Mosca che ha concluso le guerre con l’URSS. Nel caso della Svezia, diciamo solo che c’erano grandi vantaggi pratici nell’essere in effetti sotto l’ombrello della sicurezza americana senza dover dare alcun contributo ad essa o correre alcun rischio per essa. C’erano anche grandi vantaggi psicologici nel godere di questa protezione de facto degli Stati Uniti pur rimanendo liberi in ogni occasione di sfoggiare la presunta superiorità morale della Svezia all’America imperialista e razzista.

Dalla fine della Guerra Fredda, la Russia si è ritirata mille miglia a est mentre la NATO e l’UE si sono espanse enormemente. Oggi le forze di terra russe stanno dimostrando in Ucraina di non essere in grado di rappresentare una seria minaccia per la NATO o la Scandinavia. Né lo facevano davvero in precedenza. Per arrivare in Svezia, la Russia dovrebbe attraversare la Finlandia o il Mar Baltico. E sia durante che dopo la Guerra Fredda, Mosca non ha mai minacciato la Finlandia. L’Unione Sovietica ha rigorosamente rispettato i termini del suo trattato con la Finlandia. Si ritirò persino da una base militare lì che per trattato avrebbe potuto reggere per altri quarant’anni.

Uno dei motivi era che, come l’Ucraina (ma in netto contrasto con la Svezia), l’eroica lotta della Finlandia contro l’esercito sovietico aveva convinto Mosca che la Finlandia era una persona troppo dura per cercare di schiacciare. Lo è ancora e rimarrebbe tale senza l’adesione alla NATO, perché, ancora una volta come l’Ucraina, i finlandesi sono determinati a difendere il loro paese.

Non c’era alcun motivo per pensare che la Russia avrebbe cambiato questa politica e avrebbe attaccato la Finlandia. Considerando che — per quanto si possa condannare fermamente l’invasione russa dell’Ucraina e le sue atrocità che l’accompagnano — le ragioni per cui Mosca l’ha attaccata sono ovvie. Da quando è iniziata l’espansione della NATO negli anni ’90, sia i funzionari russi che una serie di esperti occidentali, inclusi tre ex ambasciatori statunitensi a Mosca e l’attuale capo della CIA, hanno avvertito che era probabile la prospettiva che l’Ucraina si unisse a un’alleanza anti-russa per scatenare la guerra.

L’adesione alla NATO di Svezia e Finlandia non è quindi necessaria per la loro sicurezza. Da parte loro, non portano nulla alla NATO. Se – Dio non voglia – la guerra in Ucraina provoca un’escalation della guerra tra Stati Uniti e Russia, loro saranno comunque in disparte. Per quanto riguarda gli impegni della NATO al di fuori dell’Europa, uno dei motivi per cui i membri europei della NATO hanno accolto così entusiasticamente il nuovo confronto con la Russia è che offre loro la scusa per evitare di inviare truppe in qualsiasi area (come l’Africa occidentale) dove potrebbero effettivamente dover combattere e muori; e dove la minaccia dell’estremismo islamista e della migrazione di massa crea vere minacce alla sicurezza interna europea e scandinava.

Aderendo alla NATO, la Finlandia sta buttando via qualsiasi remota possibilità esistente di svolgere un ruolo di mediazione tra Russia e Occidente, non solo per contribuire a porre fine alla guerra in Ucraina, ma in futuro per promuovere una più ampia riconciliazione. Invece, la Finlandia finirà di costruire l’ultima sezione di un nuovo confine della Guerra Fredda attraverso l’Europa, che probabilmente sopravviverà a qualsiasi tipo di regime alla fine succederà a quello di Putin in Russia.

L’adesione della Finlandia e della Svezia alla NATO può anche essere considerata come il momento simbolico in cui i paesi europei nel loro insieme hanno abbandonato ogni sogno di assumersi la responsabilità del proprio continente e si sono rassegnati alla completa dipendenza da Washington. Tuttavia, (come con la Svezia durante la Guerra Fredda) questa dipendenza sarà senza dubbio mascherata da lamenti e ringhi europei impotenti quando un nuovo presidente simile a Trump dimenticherà la necessaria sottile pretesa di cortesia e consultazione.

Alla fine di un editoriale del Financial Times pieno di sentimenti aspramente anti-russi (basati in parte su una conoscenza estremamente e forse intenzionalmente scarsa dei fatti), l’ex primo ministro finlandese Alexander Stubb ha scritto:

“La sicurezza non è un gioco a somma zero. Spero che un giorno anche il regime russo capirà questo. Questo ci permetterà di ristabilire buone relazioni con la Russia. Nel frattempo, aiuteremo a massimizzare la sicurezza in Europa aderendo alla NATO. Non è contro nessuno, ma per noi. Tutti noi.”

Questa è la stessa ipocrisia compiaciuta che ha infastidito la politica occidentale nei confronti della Russia e quella statunitense nei confronti della maggior parte del mondo. Dalla fine della Guerra Fredda, la politica degli Stati Uniti e della NATO nei confronti della Russia è stata in effetti a somma schiacciante zero, e i paesi europei sono rimasti obbedienti. La Finlandia ora si unirà a questo entourage zoppicante e codardo. È improbabile che le buone relazioni con la Russia vengano mai ristabilite, qualunque sia il regime che salga al potere a Mosca.

D’altra parte, la completa espulsione della Russia dalle strutture europee – per così tanto tempo obiettivo aperto dell’America e della NATO – potrebbe, a lungo termine, rendere la Russia completamente strategicamente dipendente dalla Cina e portare la superpotenza cinese ai confini più orientali dell’Europa. Sarebbe una ricompensa ironica ma non immeritata per la fatuità strategica europea. Si potrebbe persino trovarlo divertente, se non si fosse europei.

https://responsiblestatecraft.org/2022/05/13/finland-and-sweden-will-join-nato-at-the-expense-of-everything/

Ucraina, il conflitto militare, 4a parte_con Max Bonelli

Il fronte in Ucraina assume sempre più la dinamica di un elastico. Ad un allentamento nella parte Nord corrisponde una tensione crescente al centro ed una pressione stazionaria nella parte sud. Una situazione che dovrebbe protrarsi nella sua forma accesa sino a questa estate. Non mancano i segni di cedimento e di logoramento. L’aspetto epico di questo confronto lo hanno offerto l’assedio di Mariupol. Ben presto la realtà e la scoperta degli antefatti assopiranno gli effetti della retorica eroica, mettendo allo scoperto le nefandezze e i retaggi che hanno obbligato alla resistenza estrema le milizie della Azov assieme alla risolutezza di altri reparti regolari dell’esercito ucraino. Saranno i punti di partenza di un confronto e di una trattativa destinati a protrarsi per anni. Oltre al video nel commento due link riguardanti il trattamento “popolare” riservato ai militi arresisi dell’Azov e un episodio bellico ai danni degli ucraini nella zona di zaporigia https://vk.com/al_im.php?sel=309467818&z=video-61716737_456250943%2F1f03590fe413ba255a%2Fpl_post_-61716737_419568
https://vk.com/al_im.php?sel=309467818&z=video-61716737_456250952%2Fd300b433a1b1393105%2Fpl_post_-61716737_419825
https://vk.com/al_im.php?sel=309467818&z=video555711071_456242310%2F4574b8657bae9f6708%2Fpl_post_555711071_39870

Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v156d5m-ucraina-il-confronto-militare-4a-parte-con-max-bonelli.html

Cos’è il Putinismo? di JEAN-ROBERT RAVIOT

Il giorno dopo il lancio dell’offensiva russa contro l’Ucraina, il 24 febbraio 2022, è stata sollevata la questione del sostegno della società russa, e più in particolare delle élite – anche ai vertici – per una guerra di portata senza precedenti sul suolo europeo dalla seconda guerra mondiale, che è più probabile che in Russia sia percepito come fratricidio. Fin dall’inizio, questa offensiva si presenta come una prova per il Putinismo. Studi sociologici indicano che il suo ruolo di signore della guerra avrebbe consentito a Vladimir Putin di estendere e persino rafforzare la base della sua legittimità politica [1] . Tuttavia, l’estensione delle operazioni, anche la sua evoluzione in guerriglia, potrebbe cambiare il punto di vista dei russi, e delle élite russe, sulla strategia scelta dal presidente russo.

Ufficialmente la Russia sta portando avanti un’operazione di liberazione dell’Ucraina, posta sotto il giogo di leader qualificati come “cricca di usurpatori” . Questa operazione è scandita da misure presentate come un’eliminazione mirata occasionale delle forze nazionaliste ucraine più radicali, qualificate come “naziste”.. Finora la propaganda ufficiale russa che accompagna le operazioni sembra dare i suoi frutti, nel senso che la dimensione offensiva di questa guerra resta nascosta agli occhi dei russi. L’uso della forza attinge dalle fonti del Putinismo. Non è quindi illogico che agisca, inizialmente, come un bagno di giovinezza. Perché il Putinismo non è né un’ideologia (conservatrice, nazionalista, eurasista), né un progetto politico (vendetta sulla storia, neoimperialismo, neosovietismo). Il Putinismo si presenta dapprima come una strategia politica volta a mostrare la propria forza, e talvolta a farne uso, al fine di rafforzare un potere cremlinocentrico [2] e cremlinocentripeto .con un obiettivo principale, che non cambia mai: difendere lo Stato russo dalle forze ostili che lo minacciano, dall’interno e dall’esterno. Il Putinismo è figlio della perestrojka e del crollo dell’URSS e del pronipote della rivoluzione russa e del crollo dell’Impero russo.

Il cesarismo di Putin

L’immagine ha fatto il giro del mondo. La scena si svolge a Mosca il 21 agosto 1991. Boris Eltsin, eletto presidente della Russia due mesi prima a suffragio universale, raggiante, è appollaiato su un carro armato, con sullo sfondo la bandiera tricolore russa. Annuncia trionfante il fallimento del golpe contro Gorbaciov. Imponendo la sua autorità ai ministeri sovrani dell’URSS, il primo presidente russo ha accelerato la cacciata di Gorbaciov e la caduta dell’URSS, avvenuta quattro mesi dopo. Due anni dopo, nell’ottobre 1993, Eltsin sciolse il Parlamento. Ordina alle forze di sicurezza interna di prendere d’assalto l’edificio, in cui si sono rifugiati alcuni oppositori armati. L’offensiva uccide 150 persone. Eltsin dichiara lo stato di emergenza, sospende le istituzioni e convoca un referendum per adottare, poche settimane dopo, la prima Costituzione liberale e democratica nella storia della Russia. Il liberalismo e la democrazia, nella nuova Russia, sono dunque segnati dal sigillo indelebile del cesarismo.

 

Erede designato da Boris Eltsin prima di essere consacrato a suffragio universale, Vladimir Putin si impossessa della torcia delle origini Cesariste. L’attacco va poi contro i focolai terroristici del Caucaso settentrionale. Questa seconda guerra interna in Cecenia (dopo quella del 1994-1996) ha fondato il Putinismo. Pone l’immagine mediatica del nuovo presidente, allora del tutto sconosciuto ai russi, come un signore della guerra a cui attribuiamo l’intenzione di ristabilire l’ordine, l’autorità dello Stato, il potere della Russia. Sostenuto, a differenza del suo predecessore, da una forte maggioranza parlamentare, Vladimir Putin consolidò la sua autorità. Se la Costituzione russa rimane essenzialmente liberale, la pratica del potere assume una svolta autoritaria sempre più assertiva. Il cesarismo di Vladimir Putin combina una forma democratica di legittimità con una realtà monarchica di potere. Il gioco democratico è limitato dall’ultra-maggioranza detenuta dal partito al governo, Russia Unita, in Parlamento e in quasi tutte le regioni dal 2004. Le forze di opposizione devono accettare di limitare le loro critiche solo alla politica economica e sociale, in mancanza della quale sono escluse il gioco elettorale e dallo spazio pubblico. Oggi l’opposizione non di sistema non ha più visibilità in Russia. in mancanza sono esclusi dal gioco elettorale e dallo spazio pubblico. Oggi l’opposizione non di sistema non ha più visibilità in Russia. in mancanza sono esclusi dal gioco elettorale e dallo spazio pubblico. Oggi l’opposizione non di sistema non ha più visibilità in Russia.

L’élite del potere e l’oligarchia di stato

Il Putinismo non si limita a un modo autoritario di esercitare il potere, a un discorso politico conservatore o all’espressione del desiderio di ripristinare il potere della Russia sulla scena internazionale. È anche un sistema di potere che si basa su una leale élite di potere, uno zoccolo duro ristretto attorno a una Guardia Pretoriana [3] composta da uomini che, per molti di loro, provengono dal municipio. Pietroburgo dove Vladimir Putin ha compiuto l’inizio della sua carriera politica negli anni 1990-1996. Troviamo questo nocciolo duro oggi ai vertici dello stato russo, in posizioni sovrane chiave (sicurezza, interni, difesa, giustizia e procura generale) così come in posizioni chiave nella korpokratura, questi nuovi grandi capi dell’apparato statale, posti dal presidente a capo di grandi gruppi e conglomerati statali (o controllati dallo stato) per orientare al meglio i settori strategici dell’economia (energia, tecnologie d’avanguardia, armamenti , infrastrutture e filiere, ecc.). La nascita di questa nuova oligarchia di Stato, verso la fine degli anni 2000, testimonia il fatto che Vladimir Putin è riuscito a capovolgere l’equilibrio di potere tra lo Stato russo e gli oligarchi che si era instaurato negli anni ’90. , nel contesto della Russia debolezza ed elevato indebitamento esterno, molto a favore di quest’ultimo.

Il ritorno del potere russo

 

Negli anni 2000, il “ripristino della verticale del potere” di Putin ha coinciso internamente con un’impennata del prezzo degli idrocarburi sul mercato mondiale, che ha consentito alla Russia di operare un vero decollo economico e di considerare, al di là della riduzione del debito, una strategia di modernizzazione e sviluppo economico. Il benessere economico consente un netto miglioramento del tenore di vita medio della popolazione, con il quale l’ascesa politica di Putin coincide con il potere d’acquisto e l’accesso ai consumi. Per molti russi, il Putinismo è sinonimo di una vita quotidiana migliorata e di uno stile di vita che si avvicina agli standard occidentali. Nel complesso, questo boom economico offre alla Russia e ai russi vendetta per le umiliazioni subite negli anni ’90,

 

Il discorso pronunciato da Vladimir Putin nel febbraio 2007 a Monaco di Baviera ha segnato una svolta nella politica estera russa. Il presidente russo afferma una volontà di potere e utilizza un vocabolario offensivo senza precedenti, che solo successivamente verrà rafforzato. Si tratta di opporsi al mondo unipolare (dominato da Washington) del dopo Guerra Fredda e di fare della Russia uno dei maggiori poli in divenire del mondo multipolare. Mosca aveva già contestato la pretesa americana di consolidare il proprio dominio unipolare, nel 1999 – opposizione agli attacchi della NATO contro la Serbia – e nel 2003 – veto contro la guerra americano-britannica in Iraq. Dopo Monaco, la Russia fa un passo avanti. Durante il vertice della NATO a Bucarest (2008), Mosca ha protestato contro la possibile adesione della Georgia e/o dell’Ucraina alla NATO, percepito come una minaccia alla sicurezza nazionale. Adattando l’azione alla parola, la Russia interviene militarmente in Georgia per sostenere la repubblica secessionista dell’Ossezia del Sud contro Tbilisi. Nel 2014, la destituzione del presidente ucraino Yanukovich è stata analizzata, a Mosca, come un colpo di stato non frutto di una rivolta popolare, ma di un lavoro approfondito delle ONG che erano state a lungo utilizzate dagli stati occidentali per far cadere l’Ucraina nella loro campo. Dopo questo cambio di potere, ritenuto illegittimo, a kyiv Mosca annesse la Crimea, dopo un inequivocabile referendum favorevole all’annessione della penisola alla Federazione Russa, poi sostenne, per otto anni, la ribellione armata delle repubbliche secessioniste di Donetsk e Lugansk nell’Ucraina orientale,

Il consenso di Putin ha un futuro?

Il consenso della società russa attorno al Putinismo è stato costruito su un rapporto di fedeltà, piuttosto che di adesione al potere. Se l’entrata in guerra contro l’Ucraina sembra, all’inizio di questa, provocare il consolidamento di questo consenso, molti elementi portano a interrogarsi sulla sostenibilità nel lungo periodo di questo consenso putiniano. Va ricordato che la fase ascendente del putinismo ha corrisposto a un periodo di forte sviluppo economico: tra il 2000 e il 2020 il PIL russo è triplicato e il PIL pro capite, che nel 2000 rappresentava appena un terzo di quello francese, sale oggi a più di metà di quella della Francia [4]. Questo benessere economico è stato accompagnato da un forte aumento del prestigio internazionale della Russia, in particolare agli occhi dei russi stessi. Tuttavia, oggi gli indicatori socioeconomici sono molto peggiori. Sebbene sia ancora presto per misurare l’impatto delle sanzioni occidentali sulla popolazione russa, sembra indiscutibile che provocherà almeno una stagnazione del tenore di vita e un calo dei consumi. Questa crisi prevedibile sarà percepita come un ulteriore deterioramento nel contesto di un tenore di vita in costante calo, per la maggior parte dei russi, dalla metà degli anni 2010. percepito? Il ”  Volta a oriente “, cioè verso la Cina, della politica estera russa, evoluzione che dovrebbe accelerare a causa della guerra in Ucraina, riuscirà a produrre dividendi economici palpabili per la popolazione? Riusciremo, in una società dei consumi come quella russa, a fare a meno dei marchi occidentali e ad accontentarci dei marchi cinesi? Che dire di una Russia, anche prospera, totalmente riorientata verso l’Asia? Quali sono i limiti di un autoritarismo politico che, grazie a questa “operazione speciale”, si è rafforzato fino a bandire dalla scena pubblica tutte le voci dissidenti? Che dire di un gruppo d’élite consolidato attorno alla testa del Cremlino, ma che invecchia, e che ora deve organizzare imperativamente la sua successione?

Anche da leggere

Putin, il gas e l’Europa

[1] Cfr. studio del Centro Levada, 30 marzo 2022: https://www.levada.ru/2022/03/30/odobrenie-institutov-rejtingi-partij-i-politikov/

[2] Jean-Robert Raviot, Chi gestisce la Russia? , Linee di riferimento, 2007.

[3] Jean-Robert Raviot, “Il pretorismo russo: l’esercizio del potere secondo Vladimir Poutine”, Hérodote , n . 166/167 , 2017.

[4] Dati della Banca Mondiale, in PPP. Vedi https://data.worldbank.org

https://www.revueconflits.com/quest-ce-que-le-poutinisme/

Quando il tuo tassista è un ufficiale dei servizi segreti esteri russi in pensione… di gilbertdoctorow

Diversi mesi fa, parlando del modo in cui tutti in Russia hanno affrontato difficoltà economiche subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica, il presidente Vladimir Putin ha parlato per la prima volta di come questo lo abbia colpito: per diversi mesi ha dovuto accettare lavoro come tassista solo per poter sfamare la sua famiglia e pagare le bollette.

Quei giorni di indigenza generalizzata nella popolazione russa all’inizio degli anni ’90 sono ormai lontani. Ma gli ufficiali in precedenza ben posizionati nella comunità dell’intelligence sovietica e in altri rami del siloviki si dedicano ancora alla guida dei taxi per guadagnare un reddito supplementare e per riempire le loro giornate con conversazioni interessanti. Lo so per esperienza diretta, come quello che sto per condividere con te.

Ho osservato molto tempo fa che per me i tassisti sono sempre stati una fonte importante di informazioni su come le persone vivono davvero qui. Questo vale per i nostri “normali”, ovvero i conducenti individuali che possono lavorare per flotte di taxi ma si affezionano a noi quando siamo qui per diverse settimane e ci portano nei nostri viaggi più lunghi, nel centro di Pietroburgo o nella dacia. È tanto più vero per gli autisti che ci vengono inviati dagli spedizionieri automatizzati delle grandi flotte quando siamo in giro per Pietroburgo. In un contesto di completo anonimato, dato che non ci incontreremo mai più, questi conducenti sono spesso particolarmente loquaci e informativi.

Ieri è stato un esempio calzante.

Il nostro autista della flotta in “livrea verde”, Taksovichkoff, si è rivelato essere un ufficiale in pensione dell’intelligence estera sovietica/russa (GRU), come ci ha detto verso la fine del viaggio. Ci è venuto a prendere nelle ore di punta. Il traffico del centro è stato rallentato dai colli di bottiglia e abbiamo trascorso quasi 40 minuti nella sua macchina in una conversazione che almeno inizialmente era intrigante.

Ha aperto dicendo che è molto preoccupato che la guerra nucleare sia ora una vera minaccia e possa porre fine alla civiltà. Ma se ciò accadrà dipenderà da chi colpisce per primo. Se gli americani si lanciano per primi, allora davvero tutto andrà all’inferno a livello globale. Ma se i russi colpiscono per primi, credono di poter contenere i rischi e l’umanità andrà avanti. Dice che i consiglieri di Putin lo stanno esortando a considerare un primo attacco ma che il presidente si sta trattenendo. “Non vuole passare alla storia come colui che l’ha fatto”. L’ultimo punto suona molto come una battuta della conversazione nella War Room tra Peter Sellars come Presidente degli Stati Uniti e il suo generale senior nel film sempre rilevante, Il dottor Stranamore .

In caso contrario, anche l'”operazione militare speciale” in Ucraina è stata un argomento del nostro scambio. Mantiene i contatti con gli ex compagni di servizio e quindi prendo la sua storia con un alto grado di fiducia.

Il nostro ufficiale del GRU in pensione ha affermato che i primi cinque giorni di “operazione militare speciale” sono stati un disastro, con pesanti perdite di vite umane da parte russa. Tutto era dovuto, disse, all’incompetenza dei maggiori generali di Mosca che erano incaricati dell’invasione. Considerata la debacle, li accusa di tradimento. In effetti, furono rimossi dal comando giorni dopo e deviati da un lato. Ma il nostro autista insiste che avrebbero dovuto sparare a tutti loro.

Perché erano incompetenti? Perché dovevano il loro lavoro alla corruzione, non al merito. I maggiori generali erano esperti da poltrona, mentre le forze armate russe avevano molti generali semplici che si erano dimostrati sul campo d’azione. Inoltre, gli esperti dell’intelligence sono stati tenuti fuori dall’operazione, il che spiega il suo inizio con false premesse sul nemico.

Ho cercato di confortarlo osservando che l’incompetenza e la corruzione nei ranghi più alti del governo e dell’esercito sono problemi che esistono anche in molti paesi, compresi gli Stati Uniti. Non stava ascoltando: “avrebbero dovuto essere fucilati tutti”, ha ripetuto.

La mia domanda su come stanno andando le cose ora è stata accolta dal silenzio.

Dopo aver condiviso queste osservazioni e opinioni, il nostro autista ha deciso che era ora di andare avanti e ha indirizzato la conversazione su un argomento completamente diverso, le sue preoccupazioni per il riscaldamento globale, dicendoci che i suoi amici esperti nelle alte sfere credono che il cambiamento climatico sia ormai irreversibile qualunque sia noi facciamo. Le emissioni di metano dagli oceani sono in aumento e travolgeranno i migliori sforzi dell’umanità per fermare il processo. Poi si è rivolto alla speculazione sull’intervento divino che avrebbe portato la Russia fuori da situazioni disperate, anche sul campo di battaglia, in passato, risalendo alla battaglia di Borodino durante la guerra con Napoleone. A questo punto, ho spento il mio registratore mentale.

“Le labbra sciolte affondano le navi” come si diceva negli States. Nonostante il Terrore, in epoca sovietica i russi blateravano parecchio. Nell’era di Putin, questo è stato in gran parte tagliato alla fonte. Il Boss prende tutte le grandi decisioni da solo, in modo da escludere la possibilità di fughe di notizie.

Le chiacchiere dei tassisti possono raccontare ciò che sentono dagli amici in alto. Queste élite, ovviamente, non sono in pieno accordo tra loro. Ma le loro opinioni stabiliscono i limiti a ciò che il Boss può fare in entrambi i modi.

Prima di concludere, riconosco che non tutti i tassisti sono patrioti. L’altro giorno, un pilota della stessa “flotta in livrea verde” ha detto poco prima di lasciarmi in un hotel: “Spero davvero che gli americani vincano in Ucraina”. Forse pensava che si sarebbe ingraziato con me, un evidente straniero. Forse è quello in cui crede veramente. Ma ero perplesso all’idea di come la sconfitta del suo paese potesse servire i suoi interessi, finanziari o meno.

©Gilbert Doctorow, 2022

CRISI RUSSO-UCRAINA: TRA I 27 DELLA UE, OGGI IL VERO STATISTA È ORBAN_di Marco Giuliani

CRISI RUSSO-UCRAINA: TRA I 27 DELLA UE, OGGI IL VERO STATISTA È ORBAN

 

Da più di due mesi a questa parte stiamo prendendo atto, a margine della tragedia in corso tra Russia e Ucraina, che quelle poche voci dissenzienti circa l’utilità di peggiorare un’escalation pericolosissima, non fanno parte dell’universo riformista o liberaldemocratico, titoli platonici di cui si sono fregiati molti leaders europei. Senza scomodare il farneticante Johnson, al quale la risposta l’hanno già data gli elettori inglesi alle amministrative del 5 maggio (una delle sue ultime uscite è stata quella di «armare l’Ucraina per poter colpire Mosca entro il suo territorio»), si rende necessario discernere su ciò che sta emergendo, sul piano politico, in merito al conflitto in atto nell’Est europeo.

La UE ha dato l’ennesima prova della sua debolezza e della grave carenza di iniziativa diplomatica per porre un argine al disastro (non solo materiale, ma anche umanitario, energetico ed economico)) che sta coinvolgendo in primis la stessa Ucraina. Non sono bastati due anni di pandemia e le enormi difficoltà accusate per rinsavire i cosiddetti “traini” dell’unione, i quali, anzi, sembrano depauperati da qualsivoglia intervento migliorativo e appaiono quindi molto logori, specie sotto l’aspetto politico. I vari Macron, Sholtz e Borrell, solo per citarne alcuni, eccetto timidissimi segnali di perplessità rispetto all’ipotesi di un ulteriore accerchiamento di Putin, hanno mostrato la totale subalternità alle pretese degli Usa, e di conseguenza della Nato. La Casa Bianca, come sappiamo, sta facendo di tutto per creare uno scontro frontale con il Cremlino, il quale provocherebbe senza dubbio una drammatica condizione di non ritorno. Il problema vero (e grave) è che questo processo lo si sta perpetrando proprio ai danni dell’Europa in quanto istituzione, ovvero un soggetto giuridico di una diversità abissale dagli interessi finanziari e guerrafondai dell’ormai anziano e claudicante Biden.

C’è tuttavia chi si è fermamente sottratto a questo gioco pericoloso – vedi Victor Orban – mostrando di curare gli interessi della propria nazione, di chi lo ha votato e anche dell’Europa stessa, dichiarandosi incondizionatamente favorevole alla pace e contrario al fitto smercio di armi che transitano verso Kiev. Lo sappiamo, non si tratta di un fautore del sinistrismo idiomatico che si professa a favore di riforme pseudo-moderniste spesso formali e poco sostanziali, ma di un conservatore puro. Ciò non toglie che sul piatto della bilancia, nel momento in cui l’unione sembra essere giunta a un bivio epocale, le carte migliori in politica interna vengono poggiate proprio dal premier ungherese. Essere statisti significa non solo assolvere il mandato secondo l’impegno preso con la propria gente e nel rispetto del proprio elettorato, bensì anche (e soprattutto) ispirarsi a una profonda condanna per ogni soluzione non pacifica delle contese internazionali, opponendosi a qualsiasi modello di propaganda bellicista a protezione dei propri (e altrui) interessi. Essere statisti significa rifiutarsi di seguire la linea piatta delle sanzioni – o meglio dell’embargo – da e verso Mosca, che sta mettendo in ginocchio l’economia europea; significa non seguire il livellamento verso il basso di Draghi (volutamente non menzionato tra i “traini dell’unione” poiché l’Italia è oggi uno dei paesi a non aver alcun peso in relazione alla ipotetica soluzione della crisi), che da due mesi non risponde neanche al Parlamento. Ripudiare l’idea di una guerra a tutti i costi significa dissociarsi da Von der Leyen e Stoltemberg, che appaiono chiusi a qualsiasi forma di dialogo e anzi, forse per sincera incapacità o per secondi fini, stanno inibendo le residue chances di stemperare la tensione.

Per fortuna si è manifestato, nel nostro paese, quel fenomeno positivo che la scienza pedagogica definisce “vicarianza”, ovvero il ricorso, qualora un meccanismo funzioni male, a un mezzo ausiliario che svolga le stesse funzioni e sopperisca alle carenze evidenziate. Detto fenomeno è riferito al paese reale, ovvero a quella maggioranza degli italiani che si sta rifiutando di seguire il Presidente del Consiglio nel suo atono percorso di fedeltà a Washington. Una maggioranza che, come molti sondaggi hanno certificato, ha espresso un netto rifiuto nei confronti dell’invio di armi a Zelensky e della recrudescenza della guerra. Orban, che poche settimane fa ha stravinto le nuove elezioni nazionali, è stato tacciato, ma solo dalla stampa più asservita, di essere un ostruzionista; è un aggettivo inappropriato, se si è in buona fede. Domanda: essere ostruzionisti significa opporsi al colossale passaggio di armi (per un valore di decine di miliardi di euro) sul proprio territorio e dichiararsi contrario all’embargo del petrolio russo quando l’Ungheria dipende per gran parte dalle forniture di Mosca? Altra domanda: ostruzionismo significa dissociarsi da una malaugurata espansione della guerra?

Budapest ha mostrato, negli anni, una maggiore attenzione per i suoi cittadini e di essere in grado di dare luogo a un robusto rilancio delle sue attività produttive. Si è trattato di un cambiamento iniziato a partire dagli anni immediatamente successivi al clima di guerra fredda, durante i quali le società dell’Europa orientale uscite dall’esperienza sovietica dovettero attuare quei cambiamenti adatti a raggiungere un’economia di mercato che potesse sviluppare benessere. Le difficoltà affrontate nel nuovo percorso, oltre a provocare una frammentazione politica molto accentuata, comportarono il varo di numerose riforme inerenti a diverse liberalizzazioni di mercato, compresa l’adesione, nel marzo 1999, alla Nato. Orban, già leader del partito Fidesz, , divenne Primo ministro dal 1998 al 2002, e fu da subito al centro dell’attenzione internazionale per via della sua politica conservatrice; il suo governo impose infatti una serie di restrizioni le quali scoraggiarono, in parte, maggiori investimenti di capitali esteri. In ogni modo, se da un lato la leadership ungherese ha applicato alcuni divieti di carattere religioso ed etico, dall’altro, nello stabilire il tetto massimo del debito pubblico e nel deliberare norme contenitive in materia di immigrazione, ha di fatto inibito un’eccedenza delle uscite e posto uno stop all’incontrollato traffico di esseri umani che interessa l’Europa da almeno un trentennio.

All’insegna del cuius regio eius religio, nonostante l’applicazione all’Ungheria dell’articolo 7 del Trattato di Lisbona che sanziona i casi di violazione dello stato di diritto, il premier magiaro è andato avanti per la sua strada eludendo i contraccolpi delle misure a suo danno (per inciso: la UE sembra ormai diventata più una fucina di punizioni disciplinari che un soggetto giuridico rappresentativo) con un ulteriore accentramento dei poteri. Oltre al progressivo abbandono delle politiche liberiste e il ricorso al rafforzamento strutturale del settore pubblico, sono stati nazionalizzati i fondi d’investimento restituendo una parte dei proventi ai creditori ungheresi. La tassazione diretta sui profitti privati e l’introduzione della fiscalità sui redditi bancari e sulle telecomunicazioni hanno fatto il resto. D’altronde, restando ininterrottamente al governo dal 2010 con un netto scarto sulle opposizioni (alle politiche dell’aprile 2022 Orban ha ottenuto il 54% dei consensi), Fidesz ha continuato a dare un’immagine di compattezza. Ciò sta succedendo anche nel momento più difficile, cioè da quando la guerra si è affacciata alle porte dell’Europa e ne ha fiaccato l’economia comunitaria, creando dissidi tra i membri e gravi contrasti di ordine ideologico che rischiano di lacerarne la ormai ultrasessantenne identità. L’Ungheria, per ora, si tiene fuori dalla mischia.

 

                       MG

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

G.Giardina – G. Sabbatucci – V. Vidotto, L’età contemporanea, Roma/Bari, Laterza, 2000 –

ISPI, sondaggi del 6 aprile 2022 reperibili su www.ispionline.it, sezione Guerra in Ucraina: cosa pensano gli italiani?

Enciclopedia Treccani, biografia di Victor Orban reperibile su www.treccani.it al link https://www.treccani.it/enciclopedia/viktor-orban/

  1. Hosbawn, Il secolo breve 1914-1991, Milano, Bur, 2000 –

Wall Street Italia, sondaggio del 28 marzo 2022 reperibile su www.wallstreetitalia.com, sezione Sondaggio Mikaline: italiani contrari (57%) all’invio di armi in Ucraina –

 

L’apoteosi di Draghi in sintesi_a cura di Elio Paoloni

Travaglio magistrale. Sta dando il meglio di sé anche come scrittura giornalistica. Editoriale da incorniciare

L’ASSE NIENTE-NULLA
(di Marco Travaglio, “Il Fatto Quotidiano”)
Abituata a un presidente che stringe la mano a nessuno, la stampa americana non s’è accorta della visita di Draghi a Biden, spacciata da quella italiana come un evento storico. Repubblica: “Il patto della Casa Bianca”, “L’Italia ponte sull’Oceano” (non si sa quale, visto che ci affacciamo più modestamente sul Mediterraneo). Stampa: “Draghi-Biden: patto per Kiev. Il vertice rafforza l’asse transatlantico”. Sole 24 Ore: “Asse di ferro. Biden e Draghi: uniti sull’Ucraina”. Foglio: “Successo dell’incontro”, “Formidabile allineamento”. Dei contenuti si sa poco: ne ha parlato solo Draghi nella solita conferenza stampa senza domande, tipo Lavrov, mentre Biden gli ha negato quella congiunta (concessa a Scholz e persino al premier greco). Ma Palazzo Chigi ha diffuso le migliori perle dei due Grandi nella sala ovale. Tenetevi forte.
Draghi: “Molti in Europa si chiedono anche: come possiamo mettere fine a queste atrocità? Come possiamo arrivare a un cessate il fuoco? Come possiamo promuovere dei negoziati credibili per costruire una pace duratura? Al momento è difficile avere risposte, ma dobbiamo interrogarci seriamente su queste domande”. Biden: silenzio (forse non si interroga seriamente, forse dorme, forse parla con l’altro amico invisibile, forse è in coma). Draghi: “La pace sarà quello che vorranno gli ucraini, non quello che vorranno altri” (tipo i russi: dunque la pace la fa Zelensky da solo). Biden (tornato vigile per un istante): “Sono d’accordo!”. Seguono altri brevi cenni sull’universo. Draghi: “La Libia può essere un enorme fornitore di gas e petrolio, non solo per l’Italia, ma per tutta Europa”. Biden (testuale): “Tu cosa faresti?”. Draghi: “Dobbiamo lavorare insieme per stabilizzare il Paese”. Perbacco. Draghi: “Dobbiamo chiedere alla Russia di sbloccare il grano bloccato nei porti ucraini”. Biden: “Ci sono milioni di tonnellate. Rischiamo una crisi alimentare in Africa”. Ma non mi dire. Da questi pensierini da scuola elementare, il nulla mischiato col niente, le gazzette arguiscono che Draghi ha messo alle strette Biden cantandogliele chiare. Corriere: “Draghi: ‘L’Ue vuole la pace’” (come le girl di Miss Italia). Giornale: “Draghi avverte Biden: ‘L’Ue chiede pace’”. Stampa: “Il premier preme per il negoziato” (poi SuperMario confida a SuperJoe che “Putin pensava di dividerci”, quindi Putin ha invaso l’Ucraina per dividere Draghi da Biden). Libero: “Draghi chiede a Biden di fare la pace con Putin”. Messaggero: “Draghi in Usa, spinta per la pace”. Una spinta irresistibile: infatti partono altri miliardi di armi per Kiev e dal comunicato congiunto scompare la parola “negoziato”. Resta l’“asse” che, da Cartesio in poi, è sempre a 90 gradi.

Eric Denécé: “La Francia si piega sistematicamente ai diktat americani…”

Su questo sito abbiamo pubblicato spesso articoli, documenti e prese di posizioni francesi sulle più varie questioni di geopolitica, nella fattispecie sul conflitto russo-ucraino. Non è certamente un caso. La Francia è l’unico paese dell’Europa Occidentale  nel quale sono presenti gruppi strutturati e ben radicati negli apparati e nelle istituzioni con posizioni e politiche apertamente critiche rispetto alla deriva atlantista e liberista-mondialista presa dai propri centri dominanti maggioritari. Gruppi che hanno tentato un paio di volte di dare espressione e forza politica a tali posizioni. Tra le varie, naufragato miseramente l’esperimento della candidatura Fillon, hanno provato entrando e cercando di condizionare il Fronte Nazionale di Marine Le Pen. Tentativo rientrato rapidamente nel giro di un anno, vista la natura minoritaria e opportunista, da eterno oppositore di quel partito. Una seconda volta ci hanno provato con Erich Zemmour, con un esito al di sotto delle aspettative, non ostante la evidente profusione di mezzi e di capacità organizzative. In tutti questi casi è mancata la capacità di legare le tematiche della indipendenza politica, della potenza e della sovranità di uno stato a quella degli interessi degli strati popolari e delle nuove classi dirigenti del tutto diverse da quelle che hanno alimentato il gaullismo negli anni ’60. Limiti, solo superati i quali, possono offrire maggiori probabilità di successo ai futuri tentativi di Zemmour o equivalenti. Centri decisori i quali persistono e riescono comunque ad esprimere una forza tale da condizionare pesantemente le scelte di Macron e delle forze che lo esprimono. Da qui la relativa schizofrenia e la perversa ambiguità che contraddistingue l’operato di un presidente comunque debole politicamente. Un panorama, comunque e purtroppo, del tutto inesistente, in forme strutturate, in Italia non ostante la diffusa sensazione di inadeguatezza dei decisori politici e la diffusa presenza di personalità di spessore. Sia in Francia che in Italia, una decina di anni fa, in concomitanza con l’emergere negli Stati Uniti del “fenomeno Trump” partirono alcune iniziative con aspirazioni analoghe. In Italia si risolsero sin dal sorgere in un disastro; in Francia l’esito fu più promettente, ma comunque limitato. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Eric Denécé, direttore del Centro francese per la ricerca sull’intelligence (CF2R) fornisce un’analisi sul Putsch che è molto diversa da quelle ascoltate qua e là dai media mainstream e dalla bocca del governo o di alcuni esperti. Dopo gli attacchi che accusavano il CF2R di “propaganda pro Putin”, Eric Denécé desidera ricordare esattamente qual è il ruolo di questo centro e mette in luce il prestigio dei suoi membri. Un’intervista affascinante.

 

Il Centro francese per la ricerca sull’intelligence ha pubblicato un comunicato stampa al vetriolo per denunciare gli attacchi che riceve in merito al trattamento della guerra in Ucraina. Perché hai deciso di parlare pubblicamente?
Per due ragioni. Il primo è che la stragrande maggioranza dei ricercatori CF2R sono ex membri dei vari servizi di intelligence e sicurezza francesi che hanno prestato servizio durante la Guerra Fredda e che abbiamo diversi ex direttori dei servizi tra i membri del nostro Comitato Strategico. Inoltre, è sia offensivo che del tutto inappropriato accusarci di aver trasmesso la “propaganda di Putin”. Non siamo né filorussi né antirussi, analizziamo il conflitto in Ucraina con la massima indipendenza e imparzialità possibile.
Le nostre analisi si basano poi su fatti precisi, solide fonti e su una lunga esperienza di intelligence. Controlliamo tutto e non facciamo lo stupido presupposto che quando la NATO o Zelensky dice una cosa, è vera… e quando Putin ne dice un’altra, è necessariamente sbagliata. Tali atteggiamenti sono basati sulla malafede o sulla stupidità.
Non è perché la maggioranza degli osservatori spaccia una visione di questo conflitto che ci sembra orientata, o addirittura falsa, che adotteremo questo punto di vista mainstream. La nostra analisi è diversa e cerchiamo di spiegarne il perché mettendo in evidenza elementi che spesso vengono volutamente trascurati.

Interroga anche alcuni media e giornalisti, scrivendo che “dimenticano” la loro etica oltre che “nello sfruttamento di informazioni non verificate e spesso imprecise”. Alcuni dei principali media svolgono un ruolo dannoso nella popolazione francese in questo conflitto?
In effetti, alcuni ricercatori sono noti relè di comunicazione della NATO in Francia (1 e 2). Che difendano il loro punto di vista mi sembra legittimo. Ma si screditano cercando di imporre la “loro” verità, che non è in alcun modo il risultato del processo di analisi scientifica che dovrebbero produrre, ma piuttosto di un’azione propagandistica. E che giornalisti senza scrupoli con un’etica discutibile fanno eco a tali affermazioni false e parziali non onora la professione e sollevi la questione della loro onestà intellettuale. Fortunatamente, non tutti sono così guidati e orientati nelle loro indagini.

Denuncia anche “una versione dei fatti che gli americani volevano imporre a tutti i membri della Nato”. Puoi dirci qualche parola a riguardo?
Sì, la politica di espansione verso est della NATO, iniziata alla fine della Guerra Fredda, è proseguita nonostante le promesse fatte ai leader russi, come dimostrano le abbondanti prove ora disponibili. Dal 2014 l’obiettivo degli Stati Uniti è quello di integrare l’Ucraina nella NATO, nonostante i severi avvertimenti formulati da Vladimir Putin a partire dal 2008.
Per raggiungere i suoi scopi, Washington fornisce ai suoi docili alleati della NATO informazioni sulla “minaccia russa” per ottenere il loro sostegno. Ricordiamo di sfuggita che il budget per la difesa di Mosca è dieci volte inferiore a quello degli Stati Uniti e persino inferiore a quello di Francia e Germania messe insieme. Dalla fine del 2021, l’intelligence americana ha gridato al lupo per un attacco russo in Ucraina. Tuttavia, fino a metà febbraio 2022, questo non è rilevabile (l’esercito russo non ha adottato disposizioni di combattimento, non ha logistica offensiva o ospedali da campo, ecc.) perché Putin non lo voleva. Quindi gli “annunci” americani sono quindi privi di seri fondamenti.

Ricorderete anche la posta in gioco di questi conflitti che si sono radicati da diversi anni tra i due paesi e in particolare sul mancato rispetto, in particolare da parte di Kiev, degli accordi di Minsk. Come si spiega questa visione brutale e manichea e questa isteria antirussa che si è diffusa in Europa?
Come ho appena accennato, questo conflitto risale a tre decenni fa ed è principalmente legato al mancato rispetto dei propri impegni da parte della NATO. È possibile paragonare questa situazione a quella della fine della prima guerra mondiale dove le riparazioni imposte alla Germania furono una delle cause dell’ascesa al potere di Hitler e della seconda guerra mondiale. Allo stesso modo, l’Occidente ha continuato a disprezzare e deridere la Russia dopo la dissoluzione dell’URSS. Ciò ha portato all’ascesa del nazionalismo russo e a una profonda sfiducia negli Stati Uniti e in Europa. Abbiamo continuato a giocare con il fuoco. Mosca ha avvertito che l’installazione di missili NATO in Polonia e l’integrazione dell’Ucraina nell’Alleanza sono minacce esistenziali ai suoi occhi. Ma non ne abbiamo tenuto conto. Abbiamo persino chiuso un occhio sulla guerra che Kiev stava conducendo contro le popolazioni di lingua russa del Donbass, nonostante gli accordi di Minsk che non furono mai applicati. Era quindi difficile per i russi non reagire…

“Riteniamo che l’interesse del nostro Paese sia avere un’analisi indipendente per condurre una politica estera sovrana e non quella dettata dalla Nato”. Credi che il governo e la nostra classe politica nella sua stragrande maggioranza siano consapevoli di questa imperativa necessità geostrategica?
Sfortunatamente no. Dal reinserimento della Francia nella struttura integrata della Nato nel 2007 voluta da Nicolas Sarkozy, e soprattutto con la politica guidata da Emmanuel Macron, non si può più parlare di indipendenza strategica e sempre meno sovranità. Ci inchiniamo sistematicamente ai diktat americani (affare BNP/Paribas, annullamento della vendita di navi Mistral alla Russia, affare ALSTOM, contestazione dell’accordo 5+1 con l’Iran, affare sottomarino australiano, trasferimento di dati elettronici, ecc.) quando non lo siamo interpretando gli zelanti servitori di Washington. Siamo totalmente allineati con la politica statunitense, che è vista molto chiaramente in tutto il mondo. Non esiste più una “terza via” francese, l’eredità gollista è sepolta.

Questa guerra potrebbe cambiare profondamente il continente europeo e le relazioni tra la Russia e gli altri paesi? Dove si può sperare in un ritorno alla de-escalation e alla normalizzazione nel medio o lungo termine delle relazioni con la Russia?
Le relazioni della Francia con la Russia saranno permanentemente alterate. Naturalmente, Mosca è l’aggressore in questo conflitto. Ma tutti i torti non sono dalla sua parte. Le responsabilità di questa guerra che non avrebbe mai dovuto aver luogo sono condivise: gli Stati Uniti, la NATO e il regime di Zelensky hanno svolto un ruolo importante nel loro deliberato desiderio di spingere la Russia nelle sue trincee, sperando che pieghi o scateni questo conflitto che screditerebbe e tagliarlo definitivamente fuori dal mondo occidentale. Le loro provocazioni hanno dato i loro frutti, ma la situazione non si svolge esattamente come avevano immaginato gli apprendisti stregoni americani. A parte l’Europa, che stringe i ranghi intorno a loro, il resto del mondo non è solidale con la loro politica, il che annuncia un grande cambiamento nella geopolitica (nuova compartimentazione del mondo, dedollarizzazione, ecc.).

TRIBUNA APERTA N°108 / APRILE 2022

COMUNICATO STAMPA DEL 20 APRILE 2022

CENTRO FRANCESE PER LA RICERCA SULL’INTELLIGENCE (COLLETTIVA)

 

 

 

Di fronte agli attacchi infondati e diretti provenienti da individui le cui funzioni dovrebbero indurli alla moderazione e all’obiettività [1] , e da giornalisti che dimenticano la propria etica per godersi lo sfruttamento di informazioni non verificate e spesso imprecise [2] , il CF2R ribadisce che manterrà l’indipendenza della sua analisi della guerra in Ucraina.

Nel contesto di un conflitto non solo militare ma mediatico, mentre la stragrande maggioranza dei commentatori riprende la narrativa elaborata da ucraini e anglosassoni, il CF2R si sforza di mantenere la linea di onestà, neutralità e obiettività. Rifiuta di partecipare alle battute unilaterali e all’impresa di distorcere la realtà orchestrate da attori prevenuti che non hanno sempre mostrato la stessa combattività quando l’aggressore apparteneva alle loro fila.

È legittimo interrogarsi sulle motivazioni di coloro che cercano di imporre questa lettura e di impedire ogni riflessione ragionata e indipendente. Siamo tentati di chiamarli teorici della cospirazione – per loro è tutto sistematicamente colpa della Russia e tutti coloro che non sono d’accordo con le loro analisi sono agenti di influenza di Putin – e negazionisti dell’Olocausto – perché non tengono conto solo degli elementi serviti dall’ucraino e Narrativa anglosassone, escludendo sistematicamente qualsiasi informazione da altra fonte.

In questa logica si inserisce il licenziamento del comandante generale del DRM, perché questo servizio di qualità non ha aderito né voluto riprodurre la versione dei fatti che gli americani volevano imporre a tutti i membri della NATO. La critica che gli è stata rivolta è quindi del tutto infondata e ingiusta [3] .

In questo conflitto, nessuno nega che la Russia sia l’aggressore e la CF2R ha chiaramente condannato questa invasione. Ma condanna anche il rifiuto del regime di Kiev di applicare gli accordi di Minsk che ha comunque firmato. Riteniamo, inoltre, che l’isteria antirussa sia sproporzionata in considerazione del silenzio complice seguito all’aggressione della Serbia da parte della NATO nel 1999, a quella dell’Iraq da parte degli Stati Uniti nel 2003, violando altrettanto il diritto internazionale e la Carta dell’ONU – la legalizzazione della tortura da parte del Dipartimento di Giustizia e l’istituzione di prigioni segrete da parte di Washington nell’ambito della guerra al terrorismo.

Per questo il CF2R non aderisce all’analisi parziale e parziale che domina e che rifiuta di prendere in considerazione le ragioni storiche che hanno portato a questa tragedia, perché mettono in luce, piaccia o no, il ruolo e la responsabilità della NATO e il governo ucraino in questo conflitto che non avrebbe mai dovuto aver luogo.

Crediamo che l’interesse del nostro Paese sia avere un’analisi indipendente per condurre una politica estera sovrana e non quella dettata dalla NATO. Ciò è tanto più necessario in quanto prima o poi saremo portati a riallacciare i rapporti con la Russia per ricostruire un sistema di sicurezza europeo che assicuri la stabilità e la protezione delle popolazioni del nostro continente.

Il CF2R, di cui la maggior parte dei ricercatori e dei membri del comitato strategico proviene dalla comunità dell’intelligence e ha servito la Francia – in particolare durante la Guerra Fredda – non può prendere lezioni di patriottismo da individui appartenenti ai circoli atlantisti o che non hanno mai prestato servizio sotto le bandiere.

Li invitiamo cordialmente a riscoprire la via del buon senso e ad analizzare questa crisi senza i paraocchi e soprattutto l’emozione che limita significativamente la qualità e l’obiettività del loro giudizio o delle loro produzioni.

 

 


[1] Cfr. Bruno Tertrais, vicedirettore della Foundation for Strategic Research (FRS), noto come staffetta dell’opinione atlantista in Francia e che, tra l’altro, ha sostenuto l’illegale invasione americana dell’Iraq nel 2003.

https://putsch.media/20220505/interviews/interviews-societe/eric-denece-la-france-plie-systematiquement-devant-les-diktats-americains-quand-nous-ne-jouons-pas-les-serviteurs-zeles-de-washington/

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