Intelligence strategica, geopolitica e guerra economica. Dagli anni ’50 ad oggi_di Giuseppe Gagliano

C’è chi fa, chi ci prova, chi lascia fare. La Francia potrebbe essere collocata in seconda fascia. Ha avuto nel dopoguerra il momento di maggior risolutezza nel periodo gaullista; in un contesto di decadenza e regressione ha conosciuto sussulti più che reazioni efficaci ad una politica di vera e propria colonizzazione ed espropriazione delle proprie capacità tecnologiche mascherate da una sterile prosopopea che non ha fatto altro che far perdere ulteriore credibilità alla classe dirigente. L’aspetto più interessante che differenzia quel paese dal nostro riguarda l’esistenza di un nucleo esplicito ancora in grado di porre la questione della sovranità e di condurre una battaglia politica. Su questo sito ne abbiamo parlato frequentemente. Buona Lettura, GIuseppe Germinario

Dall’affare Raytheon (1994) all’affare Alstom (iniziato nel 2014), la guerra economica ha colpito duramente le aziende francesi. Gli Stati, lontani dalle raccomandazioni liberali, sono attori costanti in questa guerra economica, in particolare paesi come il Regno Unito e gli Stati Uniti, che si dichiarano i più favorevoli alla libera impresa. Lungi dal fare il punto sulla posta in gioco strategica di questo terreno di scontro, la politica pubblica francese sull’intelligence economica è rimasta insufficiente poiché la caduta dell’URSS ha alzato la posta in gioco. La difesa delle imprese francesi contro acquisizioni estere che potrebbero portare al trasferimento di tecnologie sensibili, o mettere a rischio posti di lavoro, è rimasta quindi un aspetto dimenticato dell’azione pubblica.
Nella strategia economica come nell’arte militare, il successo di una politica pubblica richiede tanto iniziativa quanto anticipazione: questi sono i precetti che gli Stati Uniti applicarono all’indomani della seconda guerra mondiale. Al contrario, a partire dagli anni ’90, i governi francesi hanno reagito molto di più a shock che mettono in difficoltà le imprese nazionali, di quanto non abbiano sviluppato a priori elementi strategici di fronte alle nuove sfide della guerra economica.

Grazie alla Guerra Fredda, e alle competizioni militari, ma anche alle tecniche, economiche e scientifiche a cui ha dato origine, le politiche pubbliche americane hanno affrontato a testa alta la questione dell’intelligence economica alla fine della seconda guerra mondiale. Il primo passo è stato quello di fornire alle aziende americane il beneficio dell’informazione pubblica: negli anni Cinquanta sono state istituite agenzie federali come la National Science Foundation per trasmettere alle aziende strategiche le informazioni prodotte dalle amministrazioni. Poiché la prospettiva di uno scontro militare con la Russia sovietica si allontanava, l’intelligence economica divenne una preoccupazione centrale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, che in particolare mise in atto una strategia per finanziare e proteggere l’economia dell’innovazione. : il finanziamento della ricerca scientifica da parte del Dipartimento della Difesa , che salì bruscamente al 96% della R&S pubblica nel 1950, è stata mantenuta, ad esempio, al 63% della R&S nel 1987.

Questa precoce preoccupazione espressa dalla comunità dell’intelligence americana per questioni di strategia economica ha radicato potenti eredità e spiega, ancora oggi, la forza dei legami che uniscono le grandi imprese americane e servizi segreti. Alla fine della Guerra Fredda, parte delle risorse dell’intelligence americana furono, inoltre, dirottate, in mancanza di un nemico, verso l’intelligence economica; si è infatti inasprita la competizione tra attori nazionali per la conquista dei mercati. Tuttavia, questa cultura dell’intelligence economica non si è radicata nelle stesse condizioni in Francia, che fino agli anni ’90 è rimasta relativamente insensibile a questo concetto.Se la Francia era inizialmente interessata alle politiche di intelligence economica pubblica, è perché era obbligata a farlo dal contesto dell’affare Raytheon. Nel 1994, Thomson-CSF ha perso inaspettatamente il progetto brasiliano Sivam, un sistema di monitoraggio per la foresta pluviale amazzonica. E per una buona ragione: la NSA (National Security Agency) è intervenuta per intercettare le telefonate francesi e consegnare a Raytheon, concorrente americano di Thompson, informazioni strategiche che le hanno permesso di aggiudicarsi l’appalto.Nel contesto di una forte globalizzazione dei mercati, la Francia si è trovata male armata per parare questi colpi, che sono stati distribuiti tra gli alleati. I responsabili politici ora si sono resi conto che, lungi dall’idea di “concorrenza libera e non distorta”, gli Stati Uniti stavano realizzando in modo aggressivo coinvolgendo i propri servizi di intelligence nella conquista dei mercati internazionali da parte delle loro aziende.

In seguito all’affare Raytheon, alti funzionari, come l’ingegnere aeronautico Henri Martre, allora di stanza al Commissariat Général au Plan, erano convinti della necessità di colmare la “spartizione” tra aziende private e pubbliche amministrazioni per sostenere gli attori economici francesi. Grazie alla ricomposizione dell’ordine mondiale dopo la caduta dell’URSS, la “guerra economica”, intesa come la crescente importanza delle poste finanziarie nelle lotte globali tra le potenze, ha acquistato importanza, ed è stata finalmente considerata a pieno, in Francia, come una minaccia alla sicurezza nazionale.
Queste diagnosi hanno dato origine alla stesura del rapporto Martre, documento fondativo dell’intelligence economica francese, pubblicato nel febbraio 1994. Il rapporto definisce l’intelligence economica come “tutte le azioni coordinate di ricerca, elaborazione e distribuzione in vista del suo utilizzo, informazioni utili per gli attori economici.”Le proposte del rapporto hanno portato all’istituzionalizzazione di un ente pubblico dedicato all’intelligence economica, il Comitato per la competitività e la sicurezza economica (CCSE), che riferisce al presidente del Consiglio. Questo organismo, però, ha avuto le maggiori difficoltà a funzionare, abbandonato dal potere nel contesto delle elezioni presidenziali del 1995, e del fallito scioglimento del 1997. Il rapporto Martre aveva teorizzato l’intelligence economica francese, ma questa ebbe inizialmente molto poco seguito.
Contemporaneamente alla pubblicazione del rapporto Martre, negli anni ’90 la Francia si dotò di un arsenale legislativo più adatto alle minacce: fino al 1994 la tutela del patrimonio economico era disciplinata dall’ordinanza del 7 gennaio 1950, che poneva l’accento sulla regolamentare le carenze, lontano dagli imperativi della guerra economica. Solo nel 1994 la nuova versione del Codice penale incorporò, tra gli interessi fondamentali della nazione, “gli elementi essenziali del suo potenziale scientifico ed economico. Solo nel 2003 il sostegno del governo all’intelligence economica ha riscosso un rinnovato interesse.

Ciò è stato causato da un lato da un’altra vicenda di guerra economica, quella di Gemplus : nel 2003, la società francese Gemplus, leader mondiale nelle smart card, dopo aver accettato l’ingresso di Texas Pacific Group tra i suoi azionisti, non ha potuto impedire la nomina di Alex Mandl alla guida del suo consiglio di amministrazione… Alex Mandl era un direttore di In-Q Tel, un fondo di investimento creato dalla CIA, e supervisionava il trasferimento di queste tecnologie francesi negli Stati Uniti. Ancora una volta, un’impresa strategica francese fu vittima di intrighi americani in materia di guerra economica; ancora una volta, la Francia si è trovata politicamente male armata per rispondere a queste minacce. Gli avvisi dati al governo dalla Direzione della Sicurezza Territoriale (DST) non erano stati ascoltati, e i servizi segreti francesi non potevano impedire la distruzione di molti posti di lavoro alla Gemplus, né il trasferimento del brevetto dalla carta al chip al suolo americano .
Consapevoli di queste battute d’arresto, il primo ministro Jean-Pierre Raffarin e il parlamentare Bernard Carayon hanno spinto per la nomina di Alain Juillet, direttore dell’intelligence della DGSE, ad alto commissario per l’intelligence economica..
Tuttavia Tale organismo è poi entrato in concorrenza con il Servizio di coordinamento dell’informazione economica, che fa capo al Ministero delle finanze. Per evitare duplicazioni amministrative, i due organi sono stati accorpati per creare il Servizio di Informazione Strategica e Sicurezza Economica (SISSE), che costituisce il sistema esistente. Questa necessaria riforma non è stata completata fino al 2016: questa lentezza testimonia chiaramente la mancanza di considerazione da parte delle autorità pubbliche della politica di intelligence economica, in un contesto segnato dal passaggio del settore energetico del gruppo Alstom, nel 2014, sotto il controllo americano.

Come valutare oggi l’azione della SISSE, principale strumento delle politiche di sicurezza economica francesi? L’organizzazione sembra ridotta a reagire a posteriori alle minacce che incombono sulle aziende francesi, per due ragioni. In primo luogo, si occupa, come si evince dal suo titolo, solo di sicurezza economica: ciò significa che la Francia rinuncia a esercitare influenza e a sostenere in modo decisivo le sue imprese nella conquista dei mercati. In secondo luogo, come ha sottolineato Nicolas Moinet, specialista in intelligence economica,la struttura stessa della SISSE non è necessariamente la più adatta: di fronte a una minaccia multiforme che grava sulle aziende francesi , un organismo centralizzato all’interno della Direzione Generale delle Imprese (DGE) non è la forma più fluida che può assumere la politica di sicurezza economica. Al contrario, l’intelligence economica richiede adattamenti locali, che potrebbero passare in modo più deciso attraverso le prefetture, per raccogliere informazioni sul campo e contrastare più efficacemente le minacce. È vero che alle prefetture è stato affidato, da una direttiva del 2005, la conduzione delle politiche di sicurezza economica. Tuttavia, come già notato da Floran Vadillo e Nicolas Moinet nel 2012, questi servizi prefettizi non hanno raggiunto la dimensione critica che li renderebbe veramente efficaci.

L’intelligence economica francese soffre quindi della mancanza di risorse impiegate nei servizi statali decentralizzati. Mentre le iniziative stanno nascendo a livello di comunità, rimangono molto incerte e per molti insufficientemente operative: alcune regioni, come la regione dell’Alvernia Rhône-Alpes, producono così documenti destinati alle imprese per renderle consapevoli delle sfide della sicurezza economica , senza che il risultato di tali comunicazioni sia assicurato. La strategia di intelligence economica francese soffre quindi di due gravi carenze: da un lato, la SISSE, organismo specializzato in sicurezza economica, non è perfettamente idoneo a garantire la sicurezza delle imprese nazionali. D’altra parte, gli altri attori che intervengono sul campo sono troppo poco dotati finanziariamente, e troppo poco coordinati tra loro. Quali prospettive di sicurezza economica ci sono allora sul territorio francese? Gli strumenti di controllo degli investimenti esteri potrebbero dare i loro frutti se implementati: il caso Photonis ne è un esempio perfetto. Questa società con sede a Brive la Gaillarde, specializzata in sistemi di visione notturna – in particolare per uso militare – è stata oggetto di un’offerta di acquisto da parte del fondo di investimento Teledyne nel settembre 2020. Il Ministero delle Forze Armate si è poi opposto al suo veto alla vendita di questo azienda strategica. Alla fine, è stato il fondo europeo HLD ad acquisire questa azienda con 1.000 dipendenti.

In questo caso, lo stato è stato in grado di opporsi all’acquisizione di tecnologie sensibili da parte di investitori stranieri. Tuttavia, questo successo non deve essere un trionfo: mentre la natura strategica di Photonis non era in dubbio, viste le ovvie implicazioni militari delle tecnologie che stava sviluppando, lo stesso non vale per le altre azienda. La riflessione su cosa dovrebbe o non dovrebbe essere un asset strategico deve quindi essere avviata in modo sistematico e non occasionale : per esempio le fabbriche tessili di Gérardmer possono, ad esempio, essere considerate un asset strategico. La loro chiusura potrebbe causare un alto tasso di disoccupazione nel territorio, e pertanto devono essere messe in atto efficaci misure di tutela economica da parte delle autorità pubbliche per evitare acquisizioni che potrebbero mettere in pericolo l’attività, e per trovare, anticipando offerte di acquisto che mettano a rischio la sostenibilità dell’attività, acquirenti alternativi. Tuttavia, è improbabile che siano soggetti a un controllo sugli investimenti simile a quello applicato per Photonis.

Insomma Sostenere una politica di intelligence economica è un modo per la ripresa della Francia.E questo è una valutazione ampiamente condivisa non solo da Moinet,ma da Christian Harbulot e da Eric Denécé.
Il controllo degli investimenti esteri è quindi necessario, e nel caso Photonis ha dato risultati convincenti; non è però sufficiente definire un’adeguata politica di intelligence economica e tutelare le aziende in un contesto di guerra economica. Il disegno di legge portato da Marie-Noëlle Lienemann al Senato https://www.senat.fr/leg/ppl20-489.html
nella primavera del 2021 costituisce una buona risposta, oltre ai decreti Montebourghttps://www.legifrance.gouv.fr/loda/id/JORFTEXT000028933611/ e al necessario rafforzamento dell’arsenale giuridicohttps://www.economie.gouv.fr/extension-decret-2014-investissements-etrangers-entreprises-strategiques#
di fronte all’extraterritorialità del diritto americano.

https://www.iassp.org/2021/09/intelligence-strategica-geopolitica-e-guerra-economica-dagli-anni-50-ad-oggi/

A proposito di difesa comune europea_ a cura di Giuseppe Germinario

Proseguiamo il dibattito avviato con i due articoli su NATO e Unione Europea http://italiaeilmondo.com/2021/08/17/la-nato-riprende-il-vantaggio-nel-suo-braccio-di-ferro-con-lue-di-hajnalkavincze/ e http://italiaeilmondo.com/2021/08/12/stati-uniti-nato-e-unione-europea-lillusione-di-un-addio-il-miraggio-dellautonomia_di-giuseppe-germinario/prendendo spunto dall’ennesima riproposizione, ricorrente nei settanta anni trascorsi, della costituzione di un esercito europeo. E’ opportuno ricordare che la proposta partì in primo luogo e non a caso dagli Stati Uniti, negli anni ’50, con il tentativo di costituzione della CED (Comunità Europea di Difesa) in fase di costituzione della NATO, antecedente alla costituzione del Patto di Varsavia. Trovò l’opposizione diffusa di numerosi ambienti militari europei, in particolare della Francia; fu ridimensionato una volta compreso dagli ambienti francesi e britannici che il pallino era passato ormai definitivamente in mano americana, non ostante le velleità franco-britanniche naufragate definitivamente con il fallimento dell’intervento congiunto sa Suez nel ’56 e che il potenziamento industriale della Germania Federale era di supporto al successo delle mire egemoniche statunitensi e al contenimento delle ambizioni anglo-transalpine. Anche in questa occasione, come pure nel congresso di Le Havre, la rumorosa ma poco significativa opzione federalista europea, intrisa di lirismo e liturgie, si rivelò uno strumento, sino ad un certo punto inconsapevole, della costruzione egemonica americana. La CED, in realtà, non si limitava ad un progetto di mera alleanza militare. Prevedeva oltre  ad un livello spinto di integrazione delle strutture militari, un analogo livello spinto di integrazione del complesso industriale legato agli interessi della difesa atlantica. Il piano Marshall era essenzialmente propedeutico a questo progetto. L’esito del confronto portò alla fine all’accordo parziale sulla NATO e sulla CECA; come noto, non si fermò nel prosieguo a quello stadio.

L’equivoco, del tutto connaturato alla prosecuzione degli attuali legami, prosegue ancora oggi confondendo in un unico calderone i propositi di autonomia con quelli di rafforzamento del legame atlantico.

Sulla falsariga di un dibattito, per altro in Italia del tutto superficiale e parolaio, sia pure con le dovute eccezioni, proponiamo alcuni interessanti articoli di militari francesi apparsi sul sito www.theatrum-belli.com. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Far convergere le esigenze dei militari in un sistema di forze.
Per il GCA (2S) Jean-Tristan VERNA, l’acquisizione di attrezzature comuni può urtare con la necessaria conservazione di una parte essenziale della sovranità in difesa. Oltre i produttori, sta ai militari riunirsi per far convergere le proprie esigenze in un sistema di forze.

Esercito europeo: la via della sovranità attraverso i
materiali?

“Difesa europea”, “difesa dell’Europa” o ancora più “esercito europeo”: qualunque sia l’ampiezza e la profondità, dibattiti, opinioni e commenti portano sempre prima o poi alla questione dell’equipaggiamento delle forze e dell’organizzazione della difesa.

Quante volte abbiamo sentito critiche ai massimi livelli, l’aberrazione
rappresentata dalla quantità dei diversi tipi di veicoli corazzati, aeroplani di combattimento, di fregate che equipaggiano gli eserciti del continente. E le ingiunzioni per creare “Airbus” per veicoli navali e blindati, ecc. seguono di conseguenza.
È da dimenticare che questa situazione è il risultato di diversi secoli di guerre intra-europee, conclusasi solo da due generazioni di decisori politici! Le basi industriali della difesa nazionale sono l’impronta lasciata dalla necessità che la maggior parte degli stati europei ha avuto per garantire la propria autonomia industriale, per preservare la lpropria integrità territoriale, realizzare le proprie ambizioni, addirittura garantire la propria neutralità, su tutto la sovranità.
Questo articolo si propone di dare un contributo alla definizione dei contorni della sovranità sull’equipaggiamento delle forze armate. Questa definizione può anche consentire un vero inventario delle sovranità; leggi nazionali che tracciano il percorso che un giorno potrebbe permetterci di mostrare questa sovranità a livello sovranazionale.
In questo campo, il primo fondamento della sovranità è la libertà di progettazione dell’attrezzatura 50. Nasce dalla libertà di sviluppo partendo da esigenze militari e di capacità.
Nei nostri giorni felici di “Pax Europea”, prima ancora della dispersione industriale, è spesso la mancata condivisione di questa esigenza che porta alla grande diversità di materiali da un paese all’altro. Quello che qualcuno considera una semplice questione di abitudine o conservatorismo
riflette piuttosto il carattere fortemente culturale che attribuisce agli eserciti nazionale a causa del loro ruolo nella strategia nazionale, la storia della loro guerre, la natura del loro reclutamento, a volte molto antico e ancorato alla cultura nazionale.
Ci ritroviamo così con linee di forza la cui inflessione non è facile: popoli del mare e antiche tribù dell’entroterra, nazioni centrate sull’Europa e conquistatori di imperi dimenticati, non tutti si ritrovano spontaneamente sulla stessa concezione dei loro bisogni militari, nonostante sette decenni
di standardizzazione della NATO. Uno metterà i suoi elicotteri da trasporto nelle forze aeree, l’altro nelle forze di terra, con notevoli differenze nell’implementazione, si prenderà di mira l’aereo da caccia versatile mentre altri costituiranno sempre flotte diversificate; una giurerà per il cingolato quando la ruota avrà il favore del vicino. Non bisogna dimenticare gli interminabili dibattiti tra fanti intorno al numero dei combattenti del cellula di combattimento di base, che alla fine determina l’architettura del veicolo che li porta a bordo!
Questa necessità di padroneggiare la progettazione iniziale dei materiali è accompagnata dal problema di poterli far evolvere secondo gli insegnamenti operativi, adottati per l’integrazione di nuove tecnologie, ecc.
Rapidamente, un pezzo di attrezzatura può prendere una configurazione molto lontana da
quello originale. Un buon esempio è la progressiva divergenza di configurazione di TRANSALL francesi e tedeschi, il cui impiego a lungo termine era molto diverso.
Infine, un materiale non può essere progettato senza il suo sistema di supporto, vale a dire come sarà realizzato il suo mantenimento in condizioni operative. La visione del supporto ha un forte impatto sulla progettazione iniziale dell’attrezzatura: il motore di un veicolo blindato deve essere sostituibile rapidamente sul campo, oppure si sceglierà un supporto di tipo industriale su base logistica, con soluzioni tecniche più vicine a quelle utilizzate per le apparecchiature ad uso civile? Se i sensori integrati verranno utilizzati o meno per tutti i tipi di materiali? Anche in questo caso, le culture militari europee sono spesso incompatibili. Alcuni eserciti favoriscono ancora il supporto più vicino alla zona di combattimento, mentre altri ritengono che questo approccio non corrisponde più alle realtà operative e tecniche.
Mantenere il controllo sulla scelta delle funzionalità operative delle apparecchiature e soluzioni tecniche che consentano di raggiungerle, avendo la libertà di evolvere, decidere come sostenerlo durante il periodo d’uso, questa è la prima base di sovranità in materia di equipaggiamento militare.
Un secondo fondamento di sovranità, sul quale non è utile indugiare a lungo come è ovvio, è la libertà di utilizzo dei materiali.
Un insieme politico sovrano, nazionale o sovranazionale, deve poter dispiegare e utilizzare liberamente i propri mezzi militari ovunque se ne presenti la necessità fatto sentire, e senza altre restrizioni che quelle imposte dalla legge internazionale. Siamo ben consapevoli dei limiti posti alla distribuzione e all’uso operativo di materiali acquistati dagli Stati Uniti in adozione della procedura FMS51. Anche la Francia li ha sperimentati con il lancia missili JAVELIN; sta acquistando, e presto armerà, i droni REAPER nonostante questi ostacoli alla sua libertà di azione.
Dovremmo fare della libertà di esportare un altro fondamento di sovranità?

C’è un dibattito sulla realtà dell’imperativo economico dell’esportazione che consentirebbe di contenere i costi di acquisizione delle attrezzature e di compensare il basso volume di serie “nazionali”. L’armonizzazione dei bisogni a livello sovranazionale sarebbe forse un argomento imperativoper superarlo.
Ma esportare non è solo una leva economica. È uno strumento di politica estera, di influenza sulla scena geopolitica, un consolidamento dei legami con gli alleati. Essere in grado di esportare o distribuire l’equipaggiamento militare secondo gli interessi strategici è quindi legato alla nozione di sovranità, ed è rilevante porre sistematicamente la questione della sua “esportabilità” quando un materiale entra nel design, quindi in produzione.
Libertà di progettazione, supporto ed evoluzione, libertà di utilizzo operativo, libertà di esportare, queste sono le basi che possono essere considerate nel definire la sovranità applicata all’equipaggiamento di un esercito, nazionale o sovranazionale che sia.
Ovviamente, ogni tipo di materiale apre sfide e difficoltà specifiche che sarebbe tedioso sviluppare: per non parlare dei mezzi di deterrenza nucleare, i materiali convenzionali innumerevoli che non presentano gli stessi problemi dei sistemi di comando e dei sistemi informativi integrati, o anche complessi sistemi di sistemi, molto in voga nel ristretto club delle nazioni tecno-connesse.
Ma ci sono abilità successive comuni a tutti i tipi di materiali: competenze umane, politiche e risorse per la ricerca e tecnologia, ormai strettamente legata alla R&T nel mondo civile, il controllo
dei diritti di proprietà intellettuale, autonomia di regolamentazione e fissazione di standard tecnici e ambientali, la decisione sulla politica di investimento e sulle procedure amministrative per allocazione dei budget e gestione del progetto di armamento, ecc.; tutte aree in cui lo sforzo complessivo è stato messo in atto in qualche decennio per costruire i mezzi di deterrenza francese
autonoma è un buon esempio storico. Cambiamento culturale di strategia che fu imposta agli eserciti francesi in quel momento oltre la celebrazione.
L’accettazione di questi fondamenti porta, in linea di principio, a tenerne conto e considerazione nella definizione della politica per l’acquisizione e la fabbricazione di materiale, se questa politica è completa o si applica a una famiglia di attrezzature, o anche ad attrezzature personalizzate.

La Francia ha provato questo esercizio con la teoria dei tre cerchi, ripresa nei suoi libri bianchi del 2008 e del 2013.
Ad un primo cerchio chiamato “della sovranità”, definendo le capacità critiche da padroneggiare a livello nazionale, si aggiunge un circolo di “interdipendenza”europeo” che presuppone una convergenza di specifiche tecniche e operative e una equilibrata condivisione industriale. Finalmente arriva il cerchio di “Ricorso al mercato mondiale”, per i mezzi la cui fornitura può essere garantita senza rotture o restrizioni.
Conosciamo le difficoltà sollevate da questa categorizzazione delle acquisizioni.
L’ambizione di sovranità portata dal “primo cerchio” passa attraverso la capacità di liberare le risorse umane ed economiche necessarie alla sua messa in opera. Se consideriamo che queste capacità di sovranità includono piattaforme complesse nucleari e le correlate spazio,
sistemi di intelligence, il dominio “cyber” e alcune altre molto sofisticate come i missili, le capacità tecnologiche per coordinare e i bilanci da mobilitare saturano abbastanza rapidamente le capacità nazionali.
Al di là delle disposizioni procedurali che esso presuppone (ad esempio, specifiche procedure di acquisizione), interdipendenza (europea) definita attraverso il secondo cerchio, è tanto più critico
rendersi conto che si tratta di attaccare due posizioni in cui è difficile irrompere: le culture degli
interessi militari e industriali, con la loro componente sociale. È da notare la forza che queste realtà impongono sul desiderio di armonizzazione e cooperazione, passata e presente.
Per quanto riguarda l’uso del mercato globale, attenzione a considerarlo come garanzia assoluta. Lo sfortunato episodio delle munizioni di piccolo calibro conosciuto dalla Francia qualche anno fa non va dimenticato. Cosa succede quando una crisi generalizzata fa precipitare tutti i poveri clienti
verso un numero limitato di produttori? La rapida saturazione di trasporto strategico durante l’ascesa o la fine delle grandi operazioni è un esempio di questi potenziali colli di bottiglia.
Tradurre il desiderio di costruire punti di forza in materiali comuni sovranazionali efficaci dal punto di vista operativo e alla portata delle capacità richiede quindi il superamento di queste difficoltà in termini di acquisizione: verso quale ambizione strategica e sovrana dobbiamo guidare la definizione delle capacità critiche? Che corpus condiviso di dottrine militari funge da riferimento per la definizione tecnica di hardware, gestione della configurazione e sistema di supporto?
Come organizzare la produzione industriale e le attività di supporto in servizio? Su quali basi politiche possiamo costruire flussi con il resto del mondo, sia per la fornitura che per l’esportazione?
Avvertimento !

La mancanza di una politica estera e di una catena di Comando europeo che si impone ai paesi membri, l’appetito per alcuni di questi verso le principali apparecchiature di origine americana, le difficoltà ricorrenti nell’organizzare un’industria delle armi a livello continentale in gran parte private e in parte di proprietà di fondi americani, sono tutti temi da trattare a livello politico in via preliminare ad ogni lancio di grandi idee relative al campo militare ben detto !
Per quanto riguarda i militari, cosa possono fare?
In primo luogo, richiamare l’imperativo del realismo: a livello nazionale, garantire che non lasciamo andare la preda delle capacità sovrane esistenti per l’ombra della costituzione delle capacità comuni dai contorni e dai metodi di attuazione mal definiti o mal concepiti. Allora, nella misura in cui il
processo politico sarebbe impegnato a condurre verso questo “esercito europeo”che periodicamente torna all’ordine del giorno, rivendicare un posto importante da far valere alle precauzioni da prendere sul campo della tecnica e dell’attrezzatura; un argomento che è facilmente assente dalle preoccupazioni dei diplomatici.
Seconda azione possibile, concentrarsi sulla proposta di soluzioni tecniche transitorie e affidabili, partendo dall’esistente. Questa azione può essere basata su una pratica antica; quella della convivenza di eserciti nazionali all’interno della NATO, anche quando la loro integrazione non è completa, come è stato il caso degli eserciti francesi per quarant’anni. Ed esistono già esempi in Europa, come il trasporto aereo europeo Comando (EATC) creato nel 2010.
Infine, senza negare le forti radici culturali di ogni esercito nazionale e senza sottovalutare l’impatto degli specifici interessi strategici di certe nazioni, i militari avranno interesse a sviluppare la condivisione dei loro approcci tecnici, tattici e logistici.
Ogni nazione imprime un marchio specifico sul proprio esercito, a seconda che si sia scelto di costruire un modello di esercito completo e autonomo, o ci si accontenti di alcune “nicchie di eccellenza”; a seconda che si chieda loro di preservare o non una capacità di “nazione quadro”.

La cultura di un esercito è ispirata con la stessa forza dalle scadenze di impegno fissate dalle
decisioni politiche, dal suo approccio nei rapporti con le popolazioni presenti in lontani teatri operativi, dalla sua capacità di comprendere le operazioni a lungo termine, il livello di integrazione di fattori umani nello sviluppo e nell’uso dei suoi materiali.
Avere una visione realistica e condivisa di questi aspetti culturali è l’unico modo per arrivare a specifiche tecnico-operative convergenti.
Occorre quindi un forum ufficiale di discussione e riflessione su questi temi, che possa apparire tecnico e militare-centrico. Infatti, se i militari hanno il loro posto nei dibattiti europei a livello politico-militare e strategico, sarà altrettanto importante fornire loro un quadro formale per
riflettere e discutere sulla preparazione di sistemi di forze condivisi tra nazioni.

50 Il termine “materiali” è comodo da usare ma è riduttivo. Tieni presente che copre anche
molti materiali numerabili, di varia complessità, sistemi d’arma la cui efficacia non può essere
solo attraverso le loro connessioni con il loro ambiente, i sistemi informativi, ecc.

https://theatrum-belli.com/wp-content/uploads/2019/06/G2S-Dossier-24-Europe-et-D%C3%A9fense-Juin-2019.pdf

SAPERE E’ POTERE, di Pierluigi Fagan

SAPERE E’ POTERE. «Il sapere è potere, ma è potere piccolo, perché il sapere che conta è raro, non si mostra se non pochissimo, e in pochissime cose. La natura del sapere [autentico] è infatti tale che non può essere afferrato se non da chi vi sia predisposto.». Così Thomas Hobbes nel De Homine del 1658, quell’Hobbes che era stato in gioventù segretario di quel Francis Bacon che a sua volta aveva scritto “poiché la scienza (conoscenza) è di per sé una potenza”. Il tutto pare risalga ancora più indietro alla Bibbia o magari a qualcosa di ancorpiù precedente che la Bibbia stessa ha rilanciato. Di per sé, infatti, il concetto è abbastanza banale ma il segreto dei vari poteri è renderlo mimetico al punto che nessuno vi presti attenzione davvero, a lui ed alle sue conseguenze.
Ricorre oggi l’anniversario dell’11/09, il ventesimo. Qualche giorno fa Biden ha firmato l’ordine esecutivo che finalmente, dopo venti anni, invita l’intelligence americana a render pubblico il famoso stralcio delle 28 pagine contenute nell’originale rapporto redatto dalla Commissione bicamerale del Congresso sui famosi attentati. Adesso ci sono sei mesi di tempo per rendere pubbliche le 28 paginette. In questi anni, ripetutamente, sia NYT che WaPo che altri sempre rimanendo nell’alveo del mainstream di più alto ed accreditato livello (e con la consueta eccezione della stampa italiana), imbeccati da singoli deputati e senatori, hanno spifferato il cosa contengono quelle famose 28 paginette. Si tratterebbe di tracce evidenti ed inquietanti del coinvolgimento di funzionari delle rappresentanze diplomatiche saudite in USA nella preparazione e gestione degli attentati. Tutto ciò è ben noto a chi ha seguito in questi anni quella vicenda. Tralascio quindi i particolari, i nomi dei coinvolti, il loro evidentemente legame con le rappresentanze diplomatiche saudite al tempo nelle mani del “principe nero” di casa Saud. Quel Bandar bin Sultan che, poco noto ai più, è forse uno dei personaggi più inquietanti degli ultimi venti anni, incluso il parto pilotato dell’ISIS e molto altro.
Donald Trump, ai tempi della sua campagna elettorale del 2016, aveva usato parole di fuoco contro i sauditi, dando per promessa la pubblicazione delle 28 pagine non appena eletto. Saprete poi com’è andata. La minaccia evidentemente serviva a contrattare qualcosa sottobanco nei rapporti di forza tra USA ed AS, tant’è che alla fine si sono messi d’accordo e si sono immortalati, fraterni amici, nella famosa foto della Santa Alleanza che imponeva le proprie mani sul globo. Anche perché alla minaccia avvenuta cinque anni fa di portare effettivamente il decreto di de-secretazione al Congresso, il Ministro degli Esteri saudita aveva gentilmente fatto sapere che un secondo dopo l’AS avrebbe riversato sui mercati tutti gli asset americani in suo possesso, qualcosa come 750 mld di US$ che avrebbero fatto crollare altro che due grattaceli. Ma dopo venti anni, stante che ormai molti attori di quella vicenda o sono morti o sono spariti e stante che quelle 28 pagine diranno solo cose a loro volta di superficie perché nessuno ha mai condotto una vera e propria approfondita indagine sui fatti specifici, la liberalità americana ha deciso di far uscire lo spiffero, portandolo a notizia. Magari per gettare un po’ di velato sospetto su tutta l’operazione che portò gli USA e gli alleati (tra cui noi) in Afghanistan, giusto ora che gli americani hanno deciso di chiudere quel penoso capitolo.
Se, come parrebbe ed a molti noto, i sauditi a livello governativo e di servizi di intelligence, erano in qualche modo coinvolti in quella operazione in terra americana, dovremmo pensare che gli israeliani -sempre molto ben informati su ciò che accade in M.O.- non ne sapessero niente? Dovremmo pensare che le ben 17 (diciasette!) differenti agenzie della mitica United States Intelligence Community non ne sapessero niente? Dovremmo supporre che nessuno mai ha mandato -per tempo- un rapporto informativo su questi argomenti alla presidenza? O che chi lo ha ricevuto lo ha trattato con consapevole e voluta negligenza per lasciar fare ciò che andava fatto? Cosa dovremmo pensare allora degli ultimi venti anni di storia recente incluso il comportamento di esperti e giornalisti che dovrebbero intermediare la comprensione della realtà? Quale realtà abbiamo percepito e commentato?
A chi scrive, l’intera vicenda sollecita una riflessione forse scontata, ma mai dar qualcosa per scontato di questi tempi. A chi segue faccende geopolitiche, attuali o anche reperite negli annali storici come il tranello operato con una manipolazione intenzionale (Dispaccio di Ems 1870) e pilotando una fuga di notizie riservate poggiandosi sul The Times, entrambi orditi da Bismarck per spingere i francesi ad invadere la Germania di modo che i riottosi principi tedeschi invocassero a gran voce l’intervento prussiano, risolvendo così l’annoso problema dell’unificazione tedesca, tali questioni appaiono “normali”. Che le faccende dello scontro di interessi tra nazioni e dei realistici rapporti tra élite ed “opinioni pubbliche” siano hobbesiani ovvero sporchi, brutti, falsi ed immorali etc. è noto e convenuto. Non lo sono invece per le opinioni pubbliche convinte di vivere nel migliore dei mondi possibili, fatto di buoni, cattivi, enti ed entità morali, concetti ideali.
Il sapere è potere nella misura in cui il potere sa della sporca complessità della realtà e con quel registro vi agisce di conseguenza, mentre le opinioni pubbliche, della sporca realtà, hanno un’immagine ideale, fiabesca, teatrale, cioè una “rappresentazione”. Non sono cioè “predisposte” a sapere, come notava Hobbes. Quindi se la democrazia è il potere della cittadinanza, una cittadinanza che non sa o peggio non sa di non sapere e pensa pure di sapere, non può avere alcun potere. La cittadinanza è il pubblico davanti al quale si inscenano le rappresentazioni del potere, rigorosamente emendate dei lati più crudi e realistici. La cittadinanza non è in contatto con la realtà, è esposta ad una sua versione manipolata, edulcorata ed estetizzante.
Sapere è necessario per decidere le cose politiche della nostra forma di vita associata, quindi l’ignoranza vasta ed a molti livelli, la conoscenza distorta ad arte, scientemente coltivate, son ciò che impediscono si possa riconoscere lo statuto di “democrazia” alle nostre forme politiche. Noi non viviamo in “democrazie”, è giusto saperlo, almeno questo …
[Nella famosa foto, Bandar bin Sultan, per 22 anni ambasciatore saudita in USA in amichevoli chiacchiere nel salotto di casa del ranch texano del presidente americano G.W.Bush. La foto è del 2002. BbS poi torna in AS nel 2005 per occupare il posto prima di Segretario Generale del Consiglio di Sicurezza Nazionale e poi di Direttore Generale dell’Intelligence saudita]
NB_Tratto da facebook

IL VOLTO DI DIO NEI PRESSI DI KANDAHAR*, di Daniele Lanza

IL VOLTO DI DIO NEI PRESSI DI KANDAHAR*
(*note storiche aggiuntive sull’areale AFGANO antico anteriore all’islamizzazione)
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(PREMESSA) Nei nostri fondamenti di storia dell’Afganistan altro non ho tratteggiato che la gestazione, la nascita dello stato nazionale che vediamo oggi sulle mappe, traversando tutte le sue forme intermedie di sviluppo. In realtà per semplicità di esposizione sono partito dalla tarda età moderna, coprendo cioè solo gli ultimi 300 anni di evoluzione geopolitica per intendersi e non quanto vi era prima : per semplicità ed anche per correttezza dal momento che intendevo illustrare molto velocemente la nascita di questo stato nazionale – con i confini come li vediamo grossomodo -nel marasma che lo circonda………… se si decidesse di andare a ritroso verso ere più remote (corrispondenti al nostro medioevo o era antica) l’operazione avrebbe progressivamente perso senso, andando ad affrontare un qualcosa che nulla ha a che fare con l’Afganistan in evoluzione nell’età moderno/contemporanea, bensì un aggregato territoriale che porta altro nome e che non ha praticamente confini né un’identità che possa definirsi nazionale.
L’esposizione dei 4 capitoli che tanti di voi hanno sfogliato, prende in considerazione un’entità etno-territoriale (Pashtun) già da lungo tempo islamizzata, tanto per cominciare : un potentato/o stato nazione che emerge entro l’ecumene musulmano.
Se tuttavia vogliamo spingerci un po più in là e scavare in una memoria ancor più lontana e perduta per vedere le cose da una prospettiva storica ancora (troppo) più ampia che ci permetta di cogliere l’avvicendarsi delle civilizzazione sulla crosta terrestre, allora possiamo dare una spiegazione del perché in areale afgano troviamo residui di qualcosa di estraneo all’Islam e che porta le sembianze del BUDDA.
La cosa può descriversi in questo modo : l’ingresso tumultuoso dell’Islam corrisponde al 7° secolo dopo Cristo, esattamente in concomitanza con la caduta e l’islamizzazione della Persia sasanide ad opera dei califfati arabi (…). L’areale pashtun – analogamente alla Persia – sarà convertito alla fede di Maometto nel giro di 3-4 secoli, risvegliandosi musulmano per i primi secolo dopo l’anno 1000. “Conversione” sta tuttavia ad indicare che l’elemento umano che abitava la zona era già portatore di un suo sistema religioso che lentamente verrà rimpiazzato : di cosa si trattava ? Abbiamo a che fare con qualcosa che arriva dal sub-continente indiano…..e che si estende alla gole afgane molto prima di Cristo. Affrontiamo la parola del BUDDA.
Quando l’onda d’urto arabo/islamica investe i territori che oggi corrispondono all’Afganistan, essi non mostrano -malgrado la natura remota del luogo – un qualche rozzo credo barbarico, ma sono già da tempo immemore un’areale di diffusione del buddismo che filtra da sud, dagli imperi indiani limitrofi. Tutto inizia al tempo di ALESSANDRO IL MACEDONE : la titanica conquista di quest’ultimo e il sorgere dei regni ellenistici lungo tutta la linea dell’avanzata che fu è la chiave di volta della storia del vicino oriente……un evento non del tutto descrivibile come portata che mette in congiunzione le sponde orientali del Mediterraneo con l’area tra l’INDO e il GANGE (…). Se la vita di Alessandro è un battito di ciglia, sappiamo bene tuttavia che l’era ellenistica con le sue dinastie (nate dai generali che lo seguivano) fiorirà per centinaia di anni a venire, dando alla luce miracoli di sincretismo culturale impensabili nel mondo di allora. Ora, per arrivare al punto, ricordiamo che i più orientali tra questi regni ellenistici – un tempo le satrapie persiane più orientali, ora governate da satrapi macedoni – si trovavano geograficamente a ridosso dell’INDIA……oscuro e misterioso colosso geografico/demografico (già all’epoca) che lo stesso Alessandro non aveva potuto attaccare fino in fondo, complice la diserzione dei suoi stessi uomini (…). L’INDIA di allora era, politicamente parlando, rappresentata da imperi che portavano il nome delle dinastie del momento o perlomeno che sono ricordati così sui manuali di oggi.
Si da il caso – volere della sorte – che proprio negli anni immediatamente successivi la morte di Alessandro il grande, un ALTRO EVENTO (non noto alla storiografia occidentale) avviene in Asia : un capovolgimento politico nell’impero indiano che porta al potere la dinastia MAURYA (ricordare tale nome) che riesce nell’impresa di unificare quasi totalmente il continente indiano. L’impero MAURYA di fatto è la maggiore manifestazione di potenza geopolitica indiana nell’era antica, arrivando a estendere il proprio controllo su quasi 60 milioni di individui nel III° secolo avanti Cristo (in pratica mentre Alessandro il macedone creava un universo culturale e cosmopolita nell’Asia occidentale, parallelamente prendevano forma le fondamenta culturali di una grande potenza nell’Asia centrale hindu. Non tutti lo realizzano). L’unità dell’intero sub-continente indiano è raggiunta ad un alto prezzo in termini di vite umane a distruzioni nonché rischio di future rivolte : tali considerazioni (pratiche quanto spirituali) portano il nuovo sovrano – ASHOKA – ad un’ulteriore rivoluzione….non militare, ma religiosa.
ASHOKA, probabilmente consapevole dell’insufficienza della coercizione nel tenere insieme un ampio dominio, arrivò alla svolta morale che lo porta a superare la sua fede tradizionale (il bramensimo hindù, religione dei padri) per abbracciare un più universale e benevolo buddismo (realtà presente da tempo, ma vista come alternativa ed eversiva dalla tradizione induista, benchè culturalmente ne provenga). Re Ashoka spezza con la tradizione immemore per promuovere la pratica buddista nel suo regno, convinto che la forza benevola del convincimento possa portare maggiori frutti che le armi. L’operazione – di ampio respiro e coraggio – raccoglie un certo successo, determinando una certa diffusione del buddismo entro i confini dell’impero…….nonchè delle sue frange più periferiche : queste ultime corrispondono ai regni ellenistici di cui abbiamo parlato (quello della BACTRIANA è quello che maggiormente coincide – relativamente – con la sagoma dell’Afganistan moderno). I monarchi di origine macedone col tempo diventano tributari del sovrano indiano, ma in modo non conflittuale tramite un’accorta politica matrimoniale e non opponendosi alla diffusione del buddismo nelle proprie provincie : si potrebbe dire che una genuina sinergia si instauri tra l’impero indiano Maurya e la fascia ellenistica di confine ad esso.
Dopo meno di 150 la dinastia Maurya viene a sua volta travolta dal corso degli eventi……..ma tuttavia lasciando dietro di sé la preziosa eredità di buon vicinato con la tradizione ellenistica della Bactriana ed altri potentati rimasti in buoni rapporti per tutto quel tempo, i quali tendevano a vedere proprio nel BUDDISMO la chiave di una coesistenza pacifica (o più pragmaticamente di equilibrio geopolitico e comunicazione culturale) con gli indiani. Se dunque i discendenti di ASHOKA cadono nell’oblio…..i semi da lui gettati quando inaugurò l’era buddista sopravvivono : se da un lato le dinastie indiane successive tenteranno di rovesciare l’opera culturale di Ashoka, ritornando integralmente all’ordine religioso hindu e perseguitando i buddisti, dall’altro i potentati ellenistici si ribellano al vetero-ordine induista di ritorno, PROTEGGENDO quel buddismo che oramai avevano acquisito.
In particolare proprio il regno della Bactriana (sotto re Menandro) alla fine della dinastia Maurya e prima di essere invaso da altre dinastie indiane, entra vittoriosamente in conflitto con esse fondando quella potenza che sui manuali di storia indiana viene oggi definito come “REGNO GRECO-INDIANO” che di fatto copre la fascia nord-occidentale indiana + il Pakistan attuale + una parte considerevole dell’Afganistan moderno. Le conseguenze culturali cono significative : il buddismo in altre parole, sotto l’ombrello benevolo e protettivo del regno ellenistico-indiano si PRESERVA dalla reazione tradizionalista hindu, permettendo una sopravvivenza del buddismo di quasi un millennio nell’area in questione.
Per descrivere il processo in corso in altro modo mettiamola così : l’areale che poi verrà chiamato AFGANISTAN in era moderna (risultato di una scissione dall’impero persiano) si trovava ad essere – in era antica – un’espansione culturale INDIANA. Del tutto particolare per i tempi, a causa di 2 fattori : 1 – l’indianità che si afferma nella zona (quella in sembianza buddista cioè) è sicuramente alternativa rispetto al “core” culturale indiano (conservatore e bramanico). 2 – tale influsso culturale dall’India è accolto e mediato dal prisma ELLENISTICO che controlla il territorio……..e che da vita tra l’altro ad una nuova espressione del buddismo stesso il cui impatto è INCALCOLABILE.
Pochi sanno che l’arte figurativa indiana dell’era antichissima (antecedente ad Alessandro) era in buona parte NON-ICONICA : la simbologia c’era, ma quasi mai compariva un viso umano. L’arte buddista NON era (pare) antropomorfizzata. A partire dal contatto con la cultura greco/ellenistica il BUDDA inizia ad assumere sembianze decisamente umane, in statue di pietra che nella sagoma ricordano quelle dell’arte Mediterranea. Benchè vi siano pensieri discordi sul punto, una parte consistente del meinstream scientifico ritiene che i lineamenti fondamentali dei Budda indiani che iniziano a comparire nei secoli immediatamente precedenti a Cristo e da lì in avanti saranno la regola nel mondo indiano…….siano quelli delle divinità del Pantheon greco (a partire da Apollo in persona), cui vengono adattati costumi, pose e acconciature locali in un processo di adattamento estetico (…). Il discorso è lungo e potrei essere impreciso : se un esperto di arte e storia indian è nei paraggi, lo prego di venirmi in soccorso.
Ecco la ragione di innumerevoli siti archeologici buddisti nell’areale Afgano : quest’ultimo era la Bactriana ellenistica che accolse il Budda e gli diede il proprio volto di pietra (dall’Acropoli al Gange….visione suggestiva, ma va provata del tutto ancora).
Solo un’onda sismica come l’ISLAM avrà il potere di invertire il processo culturale instauratosi nel millennio precedente, portando nella dimensione musulmana l’antica e sepolta Bactriana (ora Afganistan)

NIENTE SCUSE: INCAPACI TOTALI, di Antonio de Martini

NIENTE SCUSE: INCAPACI TOTALI
Arriva l’8 settembre col suo solito ributtante strascico di lamenti e giustificazioni a posteriori. Precedo e chiudo.
A pagina 51 della biografia del Maresciallo Gustav Mannerheim scritta da Steven J Zaloga, ( Bloomsbury plc) leggo il testo di una dichiarazione del capo di SM tedesco Maresciallo Alfred Jodl – poi impiccato a Norimberga- così presentata dall’autore: “ both Mannerheim and Jodl were candid about Finland desire to extricate itself from the conflict, and Jodl remarked :
“ No nation has a higher duty than that which is dictated by the concern for the existence of the Homeland. All other considerations must take second place and no one has the right to demand that a nation shall go to its death for another”. ( ottobre 1943) .
Certo, c’era appena stato il trauma italiano, ma resta il fatto che Casa Savoia, lo Stato Maggiore italiano, Mussolini, Ciano e compagnia non seppero cercare altro che la salvezza personale, tranne qualche depresso grave che non seppe cercare nemmeno quella.
Non si parli di tragedie o manifesta inferiorità o guerra non sentita.
Si trattò di servilismo mellifluo da tutte le parti, mentre persino il capo di SM tedesco avrebbe capito e trattato decorosamente come avvenne con la Finlandia.
Abbiamo meritato tutto. Come riaccadrà nuovamente.

Gianluca Magi Goebbels, 11 tattiche di manipolazione oscura, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Gianluca Magi Goebbels, 11 tattiche di manipolazione oscura, Piano B Edizioni, 2021, pp. 193, € 15,00

A considerare quanto affermato (da quasi tutti) i mass-media, il nazismo sarebbe morto e sepolto, come tutti i suoi capi – tra cui Goebbels – nel 1945. Probabilmente è vero (per lo più) per le idee, assai meno per i mezzi di cui si servì per conquistare e mantenere il potere. Soprattutto la propaganda di cui Goebbels fu un vero maestro, e le cui tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica sono tuttora praticate dalle élite dirigenti per esercitare e accrescere il proprio potere. E quindi d’attualità. Anche se si può affermare che, essendo la retorica – parente nobile della propaganda – già praticata e studiata dall’antichità, molte di quelle tecniche sono attualizzazioni/adattamenti ai mezzi moderni (stampa, radio, televisione ecc.) di modelli di persuasione già praticati da Demostene e Cicerone. L’autore lo afferma dall’introduzione “La volontà di dominio dell’uomo sull’uomo, le strategie di manipolazione , il controllo sociale e l’arte dell’inganno sono antiche quanto la storia dell’umanità”, oggi poi “se consideriamo che passiamo oltre un terzo della vita immersi nei media (tra TV, web, film, quotidiani e riviste), possiamo comprendere come la nostra capacità di parlare, pensare, costruire rapporti con gli altri, i nostri desideri i nostri sogni e il nostro stesso senso d’identità siano plasmati dai media”; dato ciò – e l’importanza decisiva che ha la persuasione nell’esercizio del dominio – scrive l’autore “ Perché non usare le 11 tattiche di manipolazione oscura per illuminare chi, secondo le intenzioni, dovrebbe esserne il bersaglio?”. E per l’appunto dopo una breve biografia di Goebbels, Magi passa ad esporre le 11 tecniche (principi tattici) usate dal ministro nazista per garantirsi il controllo dell’opinione pubblica, soprattutto interna. E così il potere sul “seguito”. Questi principi si fondano sul disprezzo per la capacità di giudizio – razionale o almeno ragionevole – delle masse e per lo sfruttamento dei pre-giudizi, luoghi comuni, idola più condivisi, basati su emozioni (e non su ragionamenti). Così la creazione del nemico, utilissimo per la polarizzazione e il consolidamento del seguito (lo aveva già compreso Eschilo), anche se poi il nemico non è tale; l’affermazione dell’unanimità anche se creata fittiziamente; la semplificazione del messaggio; l’orchestrazione (lo stesso messaggio è ripetuto all’infinito e da tutti (o quasi) i media; l’occultamento delle notizie in contrasto con la tesi che si sostiene; la disinformazione, con la creazione di falsi bersagli, o comunque che abbiano l’effetto di distrarre l’opinione pubblica. È impressionante come tali principi siano utilizzati dalle élite contemporanee allo stesso scopo della dirigenza nazista. Tattiche come il silenziamento, la disinformazione, lo sviamento ecc. ecc. sono identificabili facilmente in gran parte dalla comunicazione odierna. C’è tuttavia un carattere principale che rende differenti la propaganda della NSDAP e quelli delle élite, soprattutto italiane, contemporanee. Mentre quella era rivolta alla conquista del potere (prima nazionale, poi internazionale) cioè era accrescitiva e implementativa, quella delle élite della (seconda) Repubblica e molto più limitatamente, indirizzata a mantenere (parte del) potere gestito. Ha cioè un’ambizione enormemente ridotta. E dati i più che mediocri risultati dei governi della (seconda) Repubblica, sarebbe stato troppo difficile sostenere derivazioni (in senso paretiano) diverse.

Teodoro Klitsche de la Grange

FONDAMENTI DI STORIA AFGANA (EPILOGO*), di Daniele Lanza

Dǝ Afġānistān wākmanān – د افغانستان واکمنان (ovvero REGNO DELL’AFGANISTAN…..)
Ghazi Amanullah Khan : questo è il suo primo re.
Emerge da quella fucina di idee che è il congresso post prima guerra mondiale (preceduto da fermenti nella decina di anni che la precedono) e a seguito di una brevissimo conflitto sul campo, il regno afgano contemporaneo.
Non si tratta più dell’emirato o altre forme di stato pre-moderne, ma si prefigge l’obiettivo di essere un moderno stato-nazionale, di forma monarchica, il cui cammino va nella direzione dei più efficienti regni europei, almeno idealmente. Da questa premessa generano 7 anni di intensa riforma (nel corso della quale ci si dota di una vera bandiera) che danno alla luce perlomeno le fondamenta del nuovo stato che si vorrebbe : i suoi monarchi saranno TRE in tutto e i loro regni spaziano per buona parte del 900. La strada della modernizzazione in un contesto autoctono e remoto come quello afgano è lunga è difficile…….sin dal principio vi sono tentativi di ribellione : il nuovo regno di stampo occidentale voluto dalla dinastia (ancora la Barkazai) NON rappresenta in realtà fasce del paese profondo che tentano già al momento dell’abdicazione del primo sovrano la strada della rivolta vera e propria. Anche quando quest’ultima sarà domata rimarrà sempre una ribellione strisciante, un pervasivo malcontento del paese profondo la cui vocazione sarebbe ripristinare il vecchio – e più tradizionale – EMIRATO……più consono alla mentalità conservatrice afgana. Che dire, per certi versi una situazione analoga a quella che si sviluppa nella vicina PERSIA filobritannica : stati nazionali in via di sviluppo economico, per natura riformisti e tendenzialmente rivolti verso l’occidente pur senza averne la tradizione democratica e le istituzioni. Entrambe – per un verso o per un altro – pur superando la fase del secondo conflitto mondiale e dell’inserimento nell’ordine mondiale che ne segue, non riusciranno a superare lo scoglio dei vorticosi anni 70, densi di contestazione e rivoluzioni……..
Per quanto riguarda il regno afgano, questo dura una quarantina d’anni dalla sua istituzione ufficiale : le riforme si susseguono con difficoltà (un vero sistema di monarchia parlamentare solo a partire dal 1964) e in generale il paese profondo non riesce a metabolizzare la modernità che gli si vorrebbe dare, tra l’altro dimostrandosi non all’altezza di gestire gravi crisi interne.
E’ il 1973 quando si verifica il primo colpo di stato militare : evento molto veloce e quasi senza spargere sangue….più che la violenza del golpista (per dire) pare che l’assenza di supporto per la corrotta monarchia abbia giocato il ruolo maggiore. Il regno si è dissolto da solo per la propria inadeguatezza. Il leader del golpe – tra l’altro membro della famiglia reale – non si autonomia regnante, ma al contrario proclama la repubblica dell’Afganistan come nuova fase (più trasparente ed efficiente) della modernizzazione nazionale. In pratica il processo continua, ma su basi moralmente più solide o così si vorrebbe……perché in realtà non lo sarà.
In sintesi : la rivoluzione repubblicana del 1973 pone fine ad un’inefficiente monarchia, proponendosi di procedere in modo assai più spedito verso la modernizzazione. Quest’ultima tuttavia è proprio quanto la parte conservatrice della nazione afgana NON VUOLE : se la vecchia monarchia era filoccidentale, il regime repubblicano nato dal golpe lo è ancora di più ! E’ avvenuta una rivoluzione sì….ma non quella che il popolo conservatore voleva (e si apre la strada della rivolta). Nel contesto descritto chi coglie la palla al balzo è a questo punto è il PDPA ovvero il partito di matrice marxista leninista del paese, allineato all’Unione Sovietica.
Quest’ultimo di propria iniziativa – approfittando del momento propizio e della ancora scarsa solidità del governo repubblicano – danno inizio ad un rapido confronto militare che li porta a prendere il potere nel 1978 (si chiamerà la rivoluzione del SAUR…o rivoluzione d’aprile). Insomma, gli anni 70 in Afganistan vedono DUE rivoluzioni : quella repubblicana del 1973 e poi quella socialista del 1978. Ricorda quanto accadde nella Russia zarista del 1917 : nel medesimo anno si verificarono due rivoluzioni (la prima “generale” e la seconda specificamente socialista e bolscevica. La seconda è conseguenza inevitabile della prima) solo che nel caso russo l’intervallo tra i due eventi è di 10 mesi, mentre in quello afgano sarà di 5 anni….si potrebbe vedere forse il 1973-78 come un’unica vorticosa fase rivoluzionaria paragonabile al 1917 ?(..mah).
Quanto è certo è che il PDPA dopo aver sfruttato il malcontento ed aver preso il controllo, si trovano da subito nella linea di fuoco : per un anno e mezzo governano seguendo un programma riformista di stampo socialista che è ancor più radicale di quello precedente, mettendosi contro il nerbo della popolazione rurale. Forse coscienti di questo fatto, il governo in carica firma lo stesso anno un trattato di “soccorso” con l’Unione Sovietica che dia un fondamento legale a quest’ultima per intervenire in caso di pericolo per il governo amico.  Il momento previsto dal trattato si presenterà assai presto, manco a dirlo………ora lo spazio a disposizione impedisce di trattare con dovizia di dettaglio le circostanze che portano all’intervento sovietico, ma si tenga a mente questo : le massime sfere sovietiche sono inizialmente RILUTTANTI a intervenire in forze, considerato il costo dell’operazione e la ricaduta negativa d’immagine che ne comporterà (a partire da Gromyko e Andropov rispettivamente ministro degli esteri e capo dei servizi segreti) : ciò che risulterà DETERMINANTE nell’innescare l’intervento di Mosca non sarà la fratellanza ideologica coi marxisti leninisti del PDPA, ma più concrete considerazioni geopolitiche quali il sospetto che il governo in carica (pur teoricamente affine) si distanzi dal Cremlino per creare rapporti più stretti con rivali come USA e CINA. Nel momento in cui tale timore (corroborato dai rapporti del KGB, dove si evidenzia come il PDPA la cui dirigenza è stata sostituita con un leader assai meno allineato a Mosca colpisca svariati suoi esponenti filosovietici) si fa più reale allora tutta la gerarchia sostiene compatta l’intervento immediato : d’altro canto al momento in cui Brezhnev da l’assenso il territorio afgano è GIA’ largamente fuori controllo governativo ed in mano ai guerriglieri mujeidin.
Nel dicembre del 1979 oltre 100’000 soldati di prima linea (cui si aggiungono altri della logistica per un totale di oltre mezzo milione di militari) varcano il confine sovietico-afgano, mentre un corpo scelto abbatte letteralmente tutte la massime cariche politiche in una notte nel palazzo governativo, reinstallando alla guida del PDPA una dirigenza filocremlino. Osservando la storia nel suo lungo corso, qualcuno potrebbe osservare che la Russia – nella sua incarnazione socialista – ha finalmente ottenuto nel 1980 quanto non aveva raggiunto in sembianze imperialiste esattamente 100 anni prima, ostacolata dall’impero britannico. E’ un successo tuttavia pirrico come si vedrà.
E’ l’esordio di una decina di anni di presenza sovietica sul territorio a difesa e sostegno di quella che ora è la repubblica POPOLARE afgana : l’armata rossa si ritira nei primi mesi del 1989 (hanno ben altro cui pensare al Cremlino) lasciando che la storia faccia il suo corso. Questo corso successivo non starò a rinvangarlo che immagino anche gran parte del pubblico lo rammenti………..fine del governo in carica nel 1992 e quindi immediatamente inizio di una guerra civile che vede il movimento musulmano afgano (temprato da anni ed anni di guerra contro l’invasore) all’attacco e in netto vantaggio : in pratica nei primi anni 90 si ritorna indietro a quella situazione di emergenza che vi era a fine anni 70……con la differenza che ora non c’è più l’URSS a puntellare la situazione (potremmo dire che l’intervento di Mosca ritardò di circa 15 anni l’avvento al potere dei TALEBANI (che sarebbero prevalsi attorno al 1980 anziché nel 1996 come nel corso reale delle cose). Il resto è ancor più chiaro……l’EMIRATO ISLAMICO dell’Afganistan (sì, in mano ai talebani torna ad esser quello) diventa un hub del terrorismo internazionale sino al drammatico settembre del 2001 : consideriamo gli anni 90 come una lunga transizione – dopo il presidio sovietico degli anni 80 – che ci conduce dritti alle torri gemelle.
Occupazione USA (loro turno), 20 anni di presenza a costi stellari e epilogo nei giorni che corrono (…).
Dunque vediamo di concludere questo lungo ciclo di capitoli affermando qualcosa, anziché riportando nozioni (esponiamoci, sì)
Ricapitoliamo nell’estrema essenza, ma con LOGICA, il rapporto storico di questo popolo col mondo circostante con cui interagisce (l’occidente) da 200 anni. Nel corso del secolo XIX lo si voleva privo di una politica estera autonoma perché poteva essere pericoloso (ci pensò la Gran Bretagna) ; nel corso del XX si andò oltre non limitandosi a sdentare la tigre, ma con l’ambizione di trasformarla in un’altra specie…….si abolisce l’EMIRATO e si punta a stati secolarizzati di modello occidentale rimediando una lunga serie di insuccessi : prima la monarchia filoccidentale (FALLISCE), poi la repubblica progressista (FALLISCE), quindi la repubblica popolare socialista (FALLISCE). In extremis quest’ultima ricorre all’aiuto esterno supplicando Brezhnev (….e anche questo FALLISCE). La libertà dalle catene della guerra fredda conferisce loro la libertà di tornare all’Emirato che desideravano, quello stato pre-secolare tradito cui auspicavano da generazioni. Passata la parentesi ventennale statunitense sono TORNATI a quell’emirato (che è una categoria filosofico spirituale, una dimensione, prima che politica come tutti avranno inteso a questo punto), senza colpo ferire. Chiunque abbia tentato di esportare la propria forma di democrazia (socialista, liberista) violando la loro dimensione ideale è stato severamente respinto al mittente (la busta nemmeno aperta, per intenderci).
In tantissimi – come ho sottolineato sin dall’incipit di questo mini ciclo – si mettono a commentare la crisi di questi giorni. Beh, alla luce della serie di fatti riportati sopra, forse di considerazioni ne bastano di meno : si potrebbe iniziare con anche solo una…………ed è che la democrazia NON si esporta. Parliamo di una contraddizione in termini, un paradosso che non sta in piedi quanto costringere un sentimento (che si suppone essere spontaneo).

 

Stati Uniti! Dalla farsa alle comiche verso il dramma_ Con Gianfranco Campa

La tentazione di ridurre la storia a grandi trame o all’inconsapevolezza dei protagonisti è sempre ricorrente. La vicenda disatrosa della ritirata statunitense e della NATO dall’Afghanistan ci dice qualcosa di più. La volontà di piegare a qualche scadenza simbolica il corso degli eventi per trarne un qualche beneficio immediato in termini di immagine può ritorcersi pesantemente ed accelerare inesorabilmente la crisi e la resa dei conti.. E’ quanto è successo a Joe Biden; è l’epilogo di un lungo processo che a portato all’emersione di un ceto politico mediocre circondato da un gruppo dirigente accondiscendente a prescindere. Così la rovina politica di un uomo, la sua evidente decadenza fisica rischiano di portarsi dietro una intera classe dirigente e con esso il loro paese. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vlzriz-stati-uniti-biden-dalla-farsa-al-dramma-con-gianfranco-campa.html

 

 

Stati Uniti! In Afghanistan strategia e tattica stridono_con Gianfranco Campa

La gran parte vede la ritirata statunitense come un disastro epocale tale da compromettere irrimediabilmente l’egemonia americana; altri, la minoranza, come una mossa tattica tesa ad incastrare in quel pantano le forze emergenti nello scenario geopolitico. Quello che sta avvenendo è il combinato disposto tra le spinte esterne nello scenario geopolitico e i contrasti interni ai centri decisionali americani che ne determinano la direzione. Le carte in mano agli americani sono tante; la qualità dei giocatori sul campo lascia sempre più a desiderare; non è ancora in vista un allenatore in grado di amalgamare una realtà così complessa e disarmonica come quella statunitense. Non sono i soli ovviamente ad avere questo tipo di problemi; sono quelli che li manifestano con una particolare gravità ed in una fase discendente della loro storia. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vlub8q-stati-uniti-e-afghanistan-con-gianfranco-campa.html

Cosa vogliono veramente i talebani?_di Cheryl Benard

L’articolo qui tradotto è particolarmente significativo. E’ una prima metabolizzazione della svolta americana. Le tesi sostenute sono certamente condizionate dagli interessi, dai punti di vista acquisiti e dalle inerzie della pletora di apparati di organizzazioni umanitarie e culturali collaterali agli strumenti più coercitivi e diretti in azione nelle dinamiche geopolitiche. Poggiano tuttavia su di un importante fondamento di realtà che ne sostiene l’autorevolezza:

  • i tempi e gli strumenti di sedimentazione di un bagaglio culturale e di visione del mondo, del “mondo vitale” direbbe Habermas, necessari a garantire solidità ed autorevolezza ad una condizione egemonica sono diversi da quelli propri dell’azione politica diretta dei centri decisionali in un particolare contesto. Sono importanti per garantire solidità ed autorevolezza agli imperi; non sono in grado di impedire contrasti aspri e distruttivi nelle dinamiche politiche e geopolitiche, come insegna la storia europea. Quelli dettati dai centri americani iniziano a stridere visibilmente in modo preoccupante e a confliggere apertamente;
  • la realtà afghana non si può ridurre allo stereotipo contrabbandato in questi anni nella narrazione occidentale. In essa vi è una componente più laica e modernizzatrice sedimentata negli anni della monarchia e soprattutto dei regimi giacobini sostenuti dall’Unione Sovietica, ma che godevano di un certo radicamento andatosi via via esaurendo politicamente, grazie anche alle faide interne, senza però estinguersi.
  • Le componenti più tradizionaliste non sono rappresentate solo dai talebani, ma anche in quelle componenti claniche e tribali all’occasione presentati opportunisticamente come paladini della libertà. I talebani, se proprio si vuole, rappresentano il tentativo di costruzione nazionale di queste istanze, distinguendosi in questo dall’ISIS nelle sue varie sembianze.
  • è in questo contesto che si inseriscono in maniere determinante le dinamiche geopolitiche e l’azione di tre attori globali, Stati Uniti, Cina e Russia, di almeno quattro attori regionali, Iran, Turchia, Pakistan e India e numerosi locali. L’intervento militare statunitense, paradossalmente e probabilmente al di là delle intenzioni, ha favorito di fatto questa realtà di competizione e cooperazione ad alto rischio conflittuale. In questa fase, i centri decisionali prevalenti, hanno semplicemente scelto di scaricare assieme ai benefici almeno i costi e i rischi di questa competizione sui nuovi attori cercando di riservarsi comunque il ruolo di arbitro-giocatore. Le modalità di svolgimento di questa operazione comporterà un prezzo pesante in termini di immagine, di autorevolezza e credibilità degli Stati Uniti, grazie anche alla qualità al ribasso della sua classe dirigente e all’asprezza dello scontro politico interno. Rimangono per altro ancora tante carte importanti da giocare su più tavoli, compresa, probabilmente, la presenza nella compagine provvisoria talebana di numerosi ministri ospiti delle carceri occidentali e sui quali realisticamente sarà stata compiuta una qualche efficace operazione di addomesticamento. Nel repertorio sono compresi ovviamente lasciti generosi ai talebani ed avvertimenti (ISIS). Una condizione della quale i talebani sembrano consapevoli e della quale vogliono essere parte attiva. Parte insulsa, destinata a pagare un caro prezzo, ancora una volta gli europei. Non è detto per altro che quest’ultimo sia un semplice corollario involontario delle scelte americane.

Buona lettura_Giuseppe Germinario

Cosa vogliono veramente i talebani?

Dobbiamo ricordare cosa stavamo cercando di ottenere in Afghanistan: tutte le persone che abbiamo istruito e tutte le cose che abbiamo fatto per raggiungere tale obiettivo, e non portare il capitale umano risultante, i valori incorporati e le opportunità economiche fuori da quel paese con il carico aereo, su ali di paura.

Prevedo che tra cinque o dieci anni saranno condotti studi e scritti libri sulla Great American Afghanistan Hysteria del 2021.

Come è stato possibile, ci chiederemo in retrospettiva, che una superpotenza abbia messo a freno i fatti, la ragione, il proprio interesse nazionale, la ricerca della pace, le considerazioni geopolitiche e il semplice buon senso? E invece impegnato in azioni sconsiderate e perfettamente controproducenti mentre sguazzava nel panico e nelle voci.

Mentre scrivo, leggo che “i talebani danno da mangiare ai cani i corpi delle donne” e guardo un video di una donna che si riprende mentre scappa dal nulla in una zona deserta mentre urla “Le donne afghane stanno correndo per salvarsi la vita”. Sto leggendo che “i talebani stanno sparando tra la folla.” L’ex presidente George W. Bush è in TV a parlare di stupro. Il generale David Petraeus, che non è riuscito a intaccare i talebani quando era al comando, è sul Wall Street Journal che chiede all’esercito americano di rientrare. La ragione è fuggita e i fatti non contano.

Ma proviamo. Proviamo a guardare alcuni fatti.

In passato, per la cronaca, sono stato un deciso oppositore dei talebani. E io non sono il loro fan club ora. Mi riservo il giudizio, ma il giudizio richiede fatti, e finora i fatti supportano la loro affermazione che sono cambiati. Ecco alcuni fatti, elencati per argomento di interesse. Tutto ciò l’ho verificato personalmente parlando con le persone colpite o da materiale originale.
minoranze religiose

I talebani hanno affermato che chiunque di una religione diversa potrà praticarlo indisturbato. Che cosa hanno fatto? Secondo i leader sciiti, gli individui locali sciiti e il vitigno sciita internazionale, di fatto hanno reso possibile la celebrazione sicura della principale festa religiosa sciita dell’Ashura , a Mazar-i-Sharif, con la partecipazione delle donne, per la prima volta dopo molti anni. In passato il governo di Ghani non è stato in grado di garantire protezione agli sciiti che sono stati regolarmente attaccati , con vittime, da estremisti sunniti o dall’ISIS.

Allo stesso modo, la minoranza indù è stata visitata e rassicurata da una delegazione talebana che sarà al sicuro e dovrebbe restare.

Donne

A questo proposito, abbiamo avuto una serie di preoccupazioni principali: il loro diritto all’istruzione, il loro diritto di essere in pubblico e di partecipare alla vita pubblica, il loro diritto al lavoro e la loro protezione contro stupri, matrimoni forzati e abusi. I talebani sono registrati su alcuni di questi con dichiarazioni, su altri con le loro azioni finora ad ora compiute, e su altri ancora, è troppo presto per dirlo. In materia di istruzione, si sono rivolti in modo specifico alle studentesse e le hanno incoraggiate a proseguire gli studi. Sul lavoro, hanno inviato delegazioni negli ospedali e hanno incontrato medici e personale femminile, lodandoli per il loro lavoro e chiedendo loro di continuare. Nella vita pubblica, non hanno interferito con le giornaliste, comprese le conduttrici di telegiornali, che sono in onda e riferiscono e intervistano Taleb. Sul matrimonio forzato e lo stupro, molte di noi hanno contattato i gruppi di donne nel paese, e queste storie non hanno fondamento. Un mio amico è associato a un’organizzazione che gestisce rifugi proprio per queste vittime in tutto il paese: non ne hanno visto nessuno. Il matrimonio forzato è fortemente proibito dal Corano, così come lo stupro. Il comportamento scorretto sessuale è stato rigorosamente sanzionato dai talebani in passato e non c’è motivo di credere che le loro opinioni siano cambiate. Sarei ancora preoccupato per le loro opinioni sull’adulterio, che in precedenza punivano come prescrive il Corano, cioè con la fustigazione nel caso dei non sposati e la morte nel caso dei sposati. Non è ancora successo questa volta, ma potrebbe. Questo, insieme a tutte le altre cose che speriamo di evitare, è molto più probabile che accada se perdiamo la nostra influenza su di loro o se concludono che non importa se si comportano bene, perché li condanneremo e faremo pace storie su di loro comunque.

Eredità culturale

Paura e panico

Tutti sul campo in Afghanistan hanno buone ragioni per essere molto nervosi. I talebani si sono impegnati in quella che la stampa definisce un'”offensiva di fascino” e hanno rilasciato molteplici dichiarazioni rassicuranti. Metto queste ultime perché sono solo parole, ma le includo perché finora i talebani le hanno onorate. Hanno chiesto a tutti i burocrati del governo di rimanere al lavoro e hanno promesso che non ci sarebbero state rappresaglie contro chiunque avesse sostenuto il precedente governo o lavorato per il regime di Ghani o per gli americani. Non ci sono notizie credibili di rappresaglie. Hanno fatto appello alla folla di giovani all’aeroporto perché tornassero a casa e restassero e aiutassero a costruire il loro paese, invece di “implorare di essere caricati sugli aerei americani come pecore” e spingersi verso terre straniere. Hanno istituito un numero e una procedura di denuncia, che trasmettono per le strade e nei mercati tramite altoparlanti, incoraggiando le persone a segnalare qualsiasi comportamento scorretto da parte dei taleb per ricevere assistenza. Questo è progettato per affrontare due probabili problemi: singoli taleb indisciplinati che si comportano male e impostori criminali che coglieranno le opportunità insite nel caos. Conosco almeno un’organizzazione di donne che ha chiamato con successo la “linea diretta” dei talebani quando qualcuno che affermava di essere talebano ha richiesto il loro veicolo. È vero che molte persone riferiscono che le loro auto sono state sequestrate. I talebani dicono che non sono loro, perché hanno un sacco di auto – e SUV e carri armati del resto – dell’esercito afghano in fuga per gentile concessione dei contribuenti statunitensi.

Facciamo un passo indietro e valutiamo. Avevamo messo tutte le nostre carte sul governo afghano, le cui elezioni abbiamo finanziato, curato e organizzato. Abbiamo costruito un costoso esercito e aeronautica che si è voltato ed è fuggito alla prima sfida. Abbiamo formato, istruito e finanziato una rete di attivisti e “leader” della società civile che si sono rivelati, come il loro esercito, dei corridori, senza nemmeno tentare di prendere posizione per i loro valori e presunte missioni, ma correndo invece verso l’aeroporto.

Quando la consapevolezza che il nostro esperimento afghano non avrebbe avuto successo ha finalmente cominciato ad affondare, sotto l’amministrazione Trump, abbiamo preso la decisione di ritirare le nostre truppe da questa guerra senza fine e infruttuosa. Abbiamo trovato un accordo con i talebani: ci saremmo ritirati, non ci avrebbero interferito o attaccato, e avrebbero avviato colloqui di pace con il governo afghano per progettare un nuovo governo di transizione in cui sarebbero stati inclusi, con elezioni per un governo permanente da tenere lungo la strada. Per due anni hanno onorato la loro parte dell’accordo. Non un solo americano è stato ucciso, nemmeno una volta che siamo stati ridimensionati e vulnerabili. Hanno stilato una serie di proposte tecniche come spunti di confronto con i loro omologhi di governo, dai quali nulla ha avuto in cambio. Ci hanno consultato e ascoltato le nostre “linee rosse” riguardo ai diritti umani, ai diritti delle donne e ad altre questioni di interesse per la comunità internazionale. Erano completamente preparati a negoziare.

Chi non si è presentato? Il governo di Ghani. Ashraf Ghani credeva che se fosse rimasto intransigente, gli Stati Uniti avrebbero invertito la rotta e avrebbero accettato di continuare a combattere. Quando quel magico risultato non si è materializzato, ha riposto le sue speranze nelle elezioni statunitensi, sicuro che Joe Biden avrebbe annullato ciò che Donald Trump aveva iniziato e avrebbe rimandato indietro le truppe. di come non avesse bisogno degli americani perché l’esercito afghano avrebbe fatto poca attenzione ai talebani. Alla fine, mentre i talebani hanno invaso gran parte del suo paese incontrando una resistenza zero da parte di detto esercito, ha accettato un accordo. Si sarebbero astenuti dall’entrare a Kabul, ci sarebbe stato un cessate il fuoco di due settimane, durante quel periodo avrebbero negoziato un accordo di condivisione del potere con il governo – anche se non sarebbe più stato l’accordo 50/50 che Kabul avrebbe potuto ottenere due anni prima – e in cambio Ghani si sarebbe impegnato a dimettersi dal suo incarico alla fine di quel periodo . Ghani ha acconsentito. Poi di nascosto ha fatto le valigie ed è fuggito nella notte, facendo naufragare l’ultima possibilità di Kabul e del suo governo per una transizione ordinata.

Con il governo in tal modo piegato e con poche alternative, gli Stati Uniti hanno tollerato che i talebani prendessero il controllo della città.

E poi, per nessuna ragione che si possa identificare, nulla essendo accaduto per metterla in moto, l’amministrazione Biden ha intrapreso una serie di decisioni fatalmente sbagliate. Avevano già chiuso prematuramente Bagram , una delle basi più sicure al mondo, una risorsa che sarebbe stata perfetta per l’evacuazione e le operazioni di emergenza in corso dell’ambasciata, e la struttura che avrebbe dovuto chiudere per ultima. Ora hanno annunciato che stavano riducendo, e poco dopo che stavano chiudendo, l’ambasciata degli Stati Uniti. Annunciarono che avrebbero inviato 3.000, poi 4.000 soldati per aiutare questa evacuazione. Hanno annunciato due programmi di visto, il primo per le persone che avevano lavorato per noi come traduttori, presto esteso a chiunque avesse lavorato per l’ambasciata o un programma governativo o militare, poi un secondo per le persone associate ai media statunitensi o alle organizzazioni non governative (ONG). Per quest’ultimo è stata messa in atto una serie di regole completamente assurde: le persone non potevano fare domanda dall’interno dell’Afghanistan, non erano ammissibili fino a quando non avevano raggiunto un paese terzo, in altre parole, avevano bisogno di andare in Pakistan o Tagikistan o Uzbekistan , cosa già impossibile a quel punto poiché i talebani controllavano i confini. E solo per aggiungere un altro livello di impossibilità, il sito web dell’ambasciata ha avvertito che tali domande richiederebbero molto tempo per essere elaborate e non aspettarsi assistenza nel frattempo.

Senza un percorso ragionevole aperto ma un programma di visti che suggerisce che credevamo che queste persone fossero altamente vulnerabili, non c’è da stupirsi che siano andate nel panico. Nel frattempo, gli elicotteri statunitensi ronzavano avanti e indietro nel cielo, l’ ambasciata è stata sgomberata e la bandiera ammainata, altre truppe stavano arrivando all’aeroporto per spingere le persone fuori e il messaggio era chiaro: gli americani si aspettano un bagno di sangue. Social media hanno fatto la loro parte. Twitter e TikTok hanno detto a tutti che c’era semplicemente bisogno di raggiungere l’aeroporto, non erano necessari documenti o carte d’identità, e gli americani ti avrebbero portato a Parigi, in Canada o negli Stati Uniti. Google ha deciso di bloccare qualsiasi messaggio talebano o qualsiasi cosa favorevole ai talebani, comprese le loro assicurazioni che non stavano pianificando una punizione, che i dipendenti pubblici potevano presentarsi tranquillamente al lavoro e che era un nuovo giorno e tutto era perdonato. Persino gli ordini ai loro comandanti che ordinavano loro di non molestare nessuno e di non requisire proprietà delle persone, che molti uffici e ONG erano pronti a svolgere per qualsiasi talebano che si fosse presentato alla loro porta, sono stati rimossi.

Abbiamo visto tutti i risultati: una folla di giovani che si è scatenata sull’asfalto e alla fine ha raggiunto un tale culmine di follia da aggrapparsi agli aerei in partenza e, in alcuni casi, resistere così a lungo che quando alla fine sono caduti, sono morti. È stata una visione scioccante, così come le immagini di una donna che consegna il suo bambino a un soldato su barriere di filo spinato. Le cattive immagini sono cattive per la politica interna e la politica di parte è negativa per le decisioni intelligenti sul nostro comune interesse nazionale. I repubblicani hanno dimenticato che è stata la loro amministrazione a dare il via al ritiro e hanno colto l’occasione per sbattere la realtà contro i democratici. I Democratici hanno dimenticato che sono contro guerre senza fine e che intervengono in altre culture e hanno deciso che ogni singolo afghano deve essere portato in America. L’amministrazione Biden, abituata all’adulazione dei giornalisti e agitata dalla cattiva stampa, ordinò subito l’evacuazione di massa. Dei primi 8.500 volati senza controlli o documenti, solo 250 si sono rivelati qualificati. Gli altri si erano semplicemente precipitati nel ponte aereo. Quanto tempo pensi che ci vorrà prima che l’ISIS colga la porta aperta in America, se non l’hanno già fatto? I giornalisti che non si prendono nemmeno la briga di verificare i fatti, che sono sotto pressione per produrre reportage drammatici e foto strazianti, dovrebbero fare la politica estera americana? Le immagini e il panico dovrebbero dettare la nostra condotta?

A Kabul, i talebani stavano visitando le ambasciate straniere, offrendo di mettere delle guardie e chiedendo loro di restare. I francesi rimasero. I russi sono rimasti. I cinesi sono rimasti. Perché non l’abbiamo fatto? O come minimo, visto che i talebani non hanno un piano evidente per attaccarci, e non l’hanno fatto per due anni quando avrebbero potuto, perché non abbiamo rivalutato la nostra decisione e siamo tornati indietro? Nessuna ambasciata significa nessun trattamento per i rifugiati, il che significa nessun modo ordinato per le persone di cercare di uscire se sono così qualificate, il che significa caos in aeroporto.

I talebani devono trovare tutto questo così confuso. Già storditi dal loro stesso successo, e quasi certamente non pronti per questo, hanno cercato di rispettare le nostre aspettative ed evitare le cose che prima avevano indignato tutti, ma noi non glielo permettiamo. Non possiamo aspettare e vedere, almeno brevemente? So chi non sta aspettando: Cina, Iran e Russia. I diplomatici russi a Kabul, in conversazioni rilassate con i giornalisti, stanno già esprimendo ottimismo nel futuro del Paese e la fiducia che i talebani non stiano pianificando azioni punitive contro gli ex avversari. Mentre allontaniamo i talebani, altri sono più che felici di abbracciarli. E non chiederanno cose come i diritti umani o la libertà di stampa: se ci interessa qualcosa, non possiamo abbandonare il campo. La Cina ha già annunciato la costruzione di una ferrovia, che per pura coincidenza raggiunge le aree con maggiori giacimenti minerari. Stiamo per perdere il nostro enorme investimento; vedere i nostri avversari allontanarsi con i guadagni; far fallire la possibilità dell’Afghanistan di modernizzare e democratizzare, forse più lentamente di quanto avremmo voluto, ma invece in modo più organico e sostenibile; e perdere una regione geostrategicamente cruciale. I futuri analisti si chiederanno perché. La risposta: per pura stupidità.

Matteo 7 ci dice: dalle loro azioni li riconoscerete. Sembriamo sicuri che i talebani non siano cambiati e non possano e non lo faranno. Non dovremmo aspettare le loro azioni? Incoraggiamoli a formare un governo moderato, responsabile e inclusivo. Comprendiamo che stiamo rendendo impossibile un Afghanistan moderato e progressista rimuovendo, potenzialmente per un milione di persone, tutti i loro cittadini istruiti , i loro anglofoni, i loro giovani uomini forti, le loro giovani donne “svegliate” e le loro minoranze. Sappiamo che un giorno, guardando indietro, vedremo che abbiamo consentito non solo una fuga di cervelli ma anche un progetto di pulizia etnica, portando via gli indù e i sikh che storicamente hanno fatto parte di quel paese, cambiando definitivamente il volto di Afghanistan averso il suo impoverimento.

Dobbiamo congelare le evacuazioni finché non avremo un processo ordinato in atto. Questo potrebbe cambiare, ma attualmente non c’è assolutamente alcun motivo per la fretta e ogni motivo per la cautela. Dobbiamo riaprire l’ambasciata e rimanere in stretto contatto con i talebani non solo per monitorarli, ma anche per cercare di modellare il loro comportamento, a cui, finora, sembrano disponibili. Dobbiamo ricordare ciò che stavamo cercando di ottenere in Afghanistan: tutte le persone che abbiamo istruito e tutte le cose che abbiamo fatto per raggiungere tale obiettivo, e non portare il capitale umano risultante, i valori incorporati e le opportunità economiche fuori da quel paese con il carico aereo, su ali di paura.

La dott.ssa Cheryl Benard è stata direttrice del programma nella divisione di ricerca sulla sicurezza nazionale della RAND. È l’autrice di  Veiled Courage, Inside the Afghan Women’s Resistance; Afghanistan: Stato e società Democrazia e Islam nella Costituzione dell’Afghanistan ; e  Garantire la salute, lezioni dalle missioni di costruzione della nazione . Attualmente è il Direttore di ARCH International, un’organizzazione che protegge i siti del patrimonio culturale nelle zone di crisi.

https://nationalinterest.org/feature/what-do-taliban-really-want-192306?page=0%2C1

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