Sconforto, di Andrea Zhok

Il nostro giudizio sul M5S è ed è stato molto più drastico, sin dagli albori del movimento. La considerazione finale di Andrea Zhok appare del tutto condivisibile, ma con una chiosa: “ciò che si muove fuori è anche peggio”, ma semplicemente perché sono le schegge ed il derivato di ciò che è dentro. Il richiamo, sia pure ormai meramente semantico al passato, non aiuta a guardare queste fibrillazioni con giudizi definitivi che meritano_Giuseppe Germinario
In questi giorni, dopo gli esiti abbastanza catastrofici delle elezioni regionali in molti danno il M5S per spacciato.
Ci sono gli ennesimi segni di fronda interna, critiche feroci alla leadership, minacce di scissione.
Spira inoltre un vento nefasto, per cui molti, semplici elettori o personaggi prominenti, che avevano dato fiducia al movimento ad inizio legislatura, ora fanno a gara per sparargli addosso.
A ciò si aggiunge il giudizio perennemente liquidatorio da parte dei grandi giornali (con una nota eccezione) e dell’intero sistema di potere consolidato. Per quanto ora, nel nome della ‘stabilità’ garantita dall’alleanza col PD, il tasso di stroncature appare lievemente moderato, è sin troppo chiaro che il M5S continua ad essere percepito come un corpo estraneo, da espellere.
Ecco, viste queste condizioni, mi sento obbligato a fare un elogio del M5S.
Che il Movimento avesse problemi profondi e strutturali era chiaro dall’inizio a chiunque non fosse cieco.
Che mancasse di un ceto dirigente solido ed esperto, che avesse problemi nelle strategie di reclutamento, che avesse adottato una tattica ‘populista’ di raccolta a strascico del malcontento senza coerentizzarlo, che avesse fatto convivere senza risolverle contraddizioni tra posizioni stataliste e libertarie, ambientaliste e antiscientifiche, sovraniste e autorazziste, ecc. era evidente a chiunque avesse gli occhi per vedere.
E tuttavia, ora, arrivati a questo punto, non posso che chiedermi: il panorama politico italiano sarebbe migliore se il M5S scomparisse?
E la risposta che non posso che darmi (lo so, contro molti amici di lunga data) è che sarebbe una disgrazia.
Con tutte le sue inadeguatezze il M5S è l’unica realtà politica degli ultimi decenni che ha smosso problemi incancreniti, riportato a galla aspirazioni sociali rimosse, che ha almeno provato a dar voce a istanze che erano scomparse dal panorama italiano (come quelle ecologiste). E lo ha fatto cercando di trovare una posizione autonoma, irriducibile alla stantia, sclerotizzata dicotomia tra destra e sinistra.
Francamente non so se il M5S sopravviverà a questa legislatura, perché gli errori fatti sono molti e le risorse per rimediarvi sono scarse. Non lo so, ma le lo auguro di cuore, perché – anche con la complicità dell’improvvida riforma costituzionale promossa dal movimento stesso – lo scenario prossimo che si presenterebbe a fronte di un collasso del movimento è quello di un deserto politico, bloccato su forze e dinamiche degli anni ’90.
Come molti altri, personalmente avevo sperato che emergessero forze politiche capaci di approfondire, coerentizzare, chiarire e consolidare le istanze migliori del movimento.
L’ho sperato, ma al momento palesemente queste condizioni non ci sono, e ciò che si muove fuori dal Parlamento con realistiche ambizioni di entrarvi, è peggio di ciò che in parlamento c’è già.

https://www.facebook.com/andrea.zhok.5

Il Sovranismo dei vorrei ma non posso, di Max Bonelli

Il Sovranismo dei vorrei ma non posso

 

Ho sempre visto delle affinità tra l’idea Sovranista ed il Risorgimento italiano entrambi hanno trovato terreno fertile in una avanguardia-minoranza piccolo, medio borghese che si sentiva  e si sente soffocata

da una entità occupante e pervasiva. Allora era l’impero Austriaco oggi

è il “Giano Bifronte” USA-UE che ad una analisi superficiale possono apparire due entità distinte e talvolta in contrapposizione apparente, ma che in realtà sono due facce della stessa moneta.

Oggi come allora all’inizio del processo costitutivo, questa avanguardia minoritaria interpreta la diffusa e confusa richiesta nella società italiana

di un cambiamento. Allora nel senso di una unificazione della penisola, oggi nella applicazione dell’art.1 della costituzione “La sovranità appartiene al popolo”.

 

Questa prerogativa del popolo italiano è largamente disattesa e posso dimostrarlo rapidamente facendo una carrellata dei soprusi del mostro bifronte nei confronti della sopraddetta “Sovranità del popolo italiano”.

L’occupazione militare statunitense, “i liberatori”, ha prodotto negli ultimi 50 anni una serie di stragi senza colpevoli condannati che va dalle funivie abbattute da cowboy in divisa alla guida di aerei da guerra per passare ai carghi porta armi che causano la strage del traghetto Moby Prince per arrivare ai voli di linea abbattuti per errore, Ustica docet, e la conseguente strage di Bologna intesa a disinnescare l’attenzione dell’opinione pubblica.

L’attività dell’altra faccia dell’occupante è meno scoppiettante ma non meno assassina. Pensiamo al problema dei migranti, benedetto e incoraggiato dalla UE a conduzione tedesca a spese del Bel Paese e della sua cittadinanza.

L’arrembaggio alle nostre coste di una marea di uomini e donne spesso relativamente facoltosi (nei loro paesi) da avere in tasca i 3000 dollari per pagarsi un viaggio irto di pericoli per andare a formare l’esercito salariale di riserva concorrente con le fasce più esposte della nostra società. Naufragi, delitti comuni, scontri culturali sono all’ordine del giorno e per la prima volta l’italiano sente sulla propria pelle la mancanza di uno stato sovrano che sa far rispettare i propri confini.

 

L’avanguardia sovranista, quella militante, sente l’opportunità storica di poter trasmettere la sua intuizione politica alla maggioranza del paese.

Come accade spesso nei giorni più tragici della Storia dei grandi paesi,

l’Italia ha anche alcuni giovani intellettuali di talento impegnati a perorare le ragioni alla base dell’art.1 della costituzione, tra questi Diego Fusaro, Paolo Borgognone oppure uomini dal talento giornalistico ed imprenditoriale come Paolo Messora fondatore del polo multimediale ByoBlu.

 

Si formano movimenti politici, tanti, anche troppi, caratterizzati da una base militante di veri patrioti e da vertici molto egocentrici più interessati a prepararsi una carriera politica personale magari in parlamento a 10.000 euro al mese che a diffondere il verbo contro l’occupante.

 

Alle ultime elezioni amministrative abbiamo avuto una triste conferma di questa tesi. Possiamo rapidamente analizzare il voto delle Marche dove Vox Italia, il partito condotto dal giornalista Francesco Toscano e dall’avvocato Giuseppe Sottile, primeggia con uno 0,5% della loro lista

rispetto all’altra lista sovranista di Riconquistare l’Italia (FSI) fermo allo 0,1% a cui fa capo il professore Stefano D’Andrea.

La somma di entrambi è ampiamente sotto l’1% e parliamo dell’unica regione strappata al PD in questa tornata da un candidato di Fratelli D’Italia. Un partito che nell’ambito dell’arco costituzionale è sicuramente quello spostato più verso idee sovraniste.

Mi viene da domandarmi, come militante e patriota, a cosa è dovuto l’insuccesso politico e quindi mi accingo ad analizzarne le ragioni.

 

Siamo alle elezioni delle Marche, regione caratterizzata da un manifatturiero di qualità laddove l’esportazione verso la Russia, soprattutto nel settore calzaturiero, è stata colpita dalle infinite sanzioni che dal 2014 ad oggi vengono imposte dal nostro occupante americano.

Se guardiamo le pagine internet di questi due piccoli partiti espressione del “Sovranismo estremo” per cercare qualche attacco alle sanzioni imposte

al settore, rimaniamo delusi.

Non si menziona nemmeno il problema e tanto meno nella piccola ed agguerrita Vox Italia tv di Toscano, molto attenta alle guerre politiche tra democratici e repubblicani negli USA, ma  assente su questi problemi commerciali come dire ..casalinghi. Ad onor del vero anche FdI hanno posizioni elusive sull’argomento ma hanno scelto di giocare la loro carta sovranista sul piano identitario piuttosto che pestare i piedi al padrone.

 

La carta identitaria FdI l’ha giocata sul problema dell’immigrazione trovando un terreno fertile nella regione dove è stata uccisa e smembrata Pamela Mastropietro da tre “nuove risorse” nigeriane dedite allo spaccio e commerci simili.

Su questo argomento FdI è molto chiaro con la proposta del blocco navale e tocca la sensibilità dell’opinione pubblica che ha avvertito la censura nemmeno troppo velata dei media di regime su questo ed altri fatti di cronaca.

Sul tema immigrazione dal punto di vista teorico Vox Italia avrebbe anche un buon punto di partenza mutuando il pensiero di Diego Fusaro e la teoria

migranti=esercito salariale di riserva dei poteri finanziari.

Belle parole ma che rimangono tali se non accompagnate da una messa in evidenza costante e continua delle contraddizioni della politica migratoria a guida PD sui social e sull’immancabile Vox Italia TV che su questo argomento risulta “non pervenuta”.

Come non pervenuto è sul tema FSI di D’Andrea che si limita ad un fumoso punto programmatico che imita certe discussioni intellettualoidi del PCI degli anni settanta ma che è del tutto assente nel contesto odierno fatto di video virali sulle malefatte di questa politica migratoria.

Risultato, il centrodestra a guida Fratelli d’Italia strappa la vittoria nelle Marche regione storicamente di sinistra mentre i due partiti sovranisti d’ispirazione socialista si beccano un bell’articolo denigratorio sull’Espresso (1).

 

Per la cronaca entrambi questi  due partiti hanno dato il meglio di sé nella campagna referendaria contro il Sì sia sui social che sui loro siti mediatici nonché  nella piccola (e quando vuole )agguerrita Vox Italia TV di Toscano.

L’argomento gli stava molto a cuore; in effetti quando si hanno certi numeri in fase elettorale vedersi alzare la soglia per il parlamento fa male…molto male.

Personalmente penso che se una idea è forte non c’è sbarramento elettorale che la possa fermare; al contrario la mancanza di coraggio e la mediocrità quelli si possono essere sbarramenti insormontabili.

 

 

 

 

 

 

 

 

Un consiglio ai filosofi: attenti alle frequentazioni, si rischia di rimanere infangati per pochi baiocchi, la reputazione dovrebbe costare molto di più.

 

Max Bonelli

 

 

 

 

(1)

https://espresso.repubblica.it/palazzo/2020/09/22/news/partito-diego-fusaro-flop-1.353448?fbclid=IwAR1ef2H-A8e9aY8fGviiAS1hLqBJndGVf0WOTQm5rp-trUgce2I1klIqhZs

 

 

 

 

 

LE ELEZIONI DEL CAOS, di Gianfranco Campa

Con questo articolo di Gianfranco Campa inauguriamo la rubrica dedicata alle elezioni presidenziali americane di novembre 2020. Ci ripromettiamo di aggiornarla con informazioni ed analisi a costo di enormi sforzi condizionati dalle dimensioni del sito e dalla scarsa disponibilità di tempo degli estensori. Quella di novembre rappresenta una scadenza cruciale per il futuro degli Stati Uniti, per le dinamiche geopolitiche e purtroppo per il decorso preagonico della nostra stessa nazione. Qualunque sia l’esito Trump ha comunque lasciato un segno profondo dal quale l’eventuale successore non potrà completamente prescindere, né tanto meno rimuovere. A chi volesse ripercorrere il clima e le dinamiche convulse di quel paese non resta che ripercorrere le decine di podcast ed articoli pubblicati da questo sito con un piglio originale ed anticipatore. Non ostante l’apparente distacco con il quale si sta vivendo l’evento in Italia quella scadenza sarà fondamentale nello svelare definitivamente il carattere, l’indole, la collocazione e la direzione della gran parte del nostro ceto politico, per altro già facilmente percettibile. Una volta spente le luci della ribalta, a novembre oppure nel 2024, Trump meriterà sicuramente da parte degli storici un giudizio molto più attento ed obbiettivo che ne rivaluti nel bene e nel male il ruolo svolto. Molto più problematica la collocazione della quasi totalità del nostro pavoneggiante ceto politico. Il “sommo poeta”, fosse ancora qui tra noi, faticherebbe non poco ad assegnare loro uno dei tre luoghi di residenza ultraterrena e maggior ragione il girone. Ne dovrebbe creare probabilmente uno apposito: quello forse  degli insulsi_Giuseppe Germinario

 

Forse molti di voi non sanno che le elezioni presidenziali Americane del 2020 sono già ufficialmente iniziate. L’esercizio di voto anticipato e già in corso in Minnesota, Virginia, South Dakota e Wyoming. In questi Stati è già consentito votare di persona in specifici seggi designati. Negli Stati del Vermont, Virginia, Pennsylvania, New Jersey, Minnesota, Sud Dakota, Alabama, Arkansas, Georgia, Idaho, Illinois, Indiana, Kentucky, Louisiana, Michigan, Mississippi, Missouri, Nord Carolina, Nord Dakota, Oklahoma, Rhode Island, Tennessee, Virginia, West Virginia, Wisconsin e Wyoming è già possibile votare per posta. Altri Stati si aggiungeranno nei prossimi giorni alla lista del voto per posta.

A proposito del voto per posta: Con l’avvento del Coronavirus, il numero di votanti per posta è aumentato esponenzialmente; stati che non adottavano un tale sistema di voto si sono affrettati a mettere in piedi l’organizzazione e la struttura  necessaria per consentirne l’esercizio. Per la prima volta nella storia della politica a stelle e strisce il numero dei votanti per posta si quantifica approssimativamente in circa il 40% degli aventi diritto al voto; stiamo parlando di circa 80 milioni di schede elettorali, un record storico.

Se il buon giorno si vede dal mattino queste saranno le elezioni più importanti ma più contestate  della storia americana. Le file di persone che attendono direttamente ai seggi negli stati dove sono ora aperte le operazioni sono imponenti. Nelle ultime presidenziali, quelle del 2016, il 55.5% degli aventi diritto al voto si sono presentati ai seggi. Su oltre 250 milioni di aventi diritto, quasi 140 milioni si sono recati allora ai seggi. Cento milioni sono quindi rimasti a casa; un numero abbastanza consistente. Se anche una piccola percentuale degli assenti cronici dovesse presentarsi ai seggi, potrebbe fare la differenza  in queste presidenziali del 2020. I dati fino da ora, in base a chi ha già votato e a chi ha richiesto la scheda per posta, indica che il numero dei votanti, nonostante il Coronavirus, nel 2020 dovrebbe essere più alto rispetto alle elezioni del 2016.

Fare una previsione in base ai sondaggi su chi vincerà le elezioni è praticamente impossibile;  specialmente su queste presidenziali del 2020. E allora, invece di cercare di interpretare i sondaggi vogliamo concentrarci sui singoli stati per cercare di interpretare l’esito del collegio elettorale ed arrivare a fare una previsione più attendibile rispetto ai sondaggi, su chi tra Biden e Trump ha più possibilità di essere nominato prossimo presidente. Ricordo che non è il voto popolare a decidere le presidenziali bensì la quantità di collegi elettorali conseguiti. Ogni singolo stato contribuisce con un numero specifico di collegi elettorali; la somma di essi determina il vincitore delle presidenziali. Per vincere le elezioni sono necessari 270 seggi elettorali.

Partiamo prima dagli stati dove è assolutamente certo che i seggi elettorali sono al sicuro per un partito o per un altro. In altre parole  sono stati tradizionalmente e storicamente parlando appannaggio di uno specifico partito. Grazie ad una mappa interattiva offerta dalla ABC abbiamo fatto il nostro calcolo sulla ipotesi più plausibile del conto finale dei seggi elettorali. Al momento secondo le nostre previsioni Biden dovrebbe vincere con 308 seggi elettorali; Trump riuscirebbe a conquistare solamente 230 seggi. Comunque sia la forbice elettorale  si è accorciata fra i due candidati. Trump ha recuperato molti punti di percentuale su Biden, ma non ancora a sufficienza per chiudere il gap. Comunque sia il trend per Trump è positivo. Continuando così non si esclude la possibilta che Trump riesca a raggiungere Biden nelle preferenze elettorali

Gli stati in rosso rappresentano quelli che dovrebbero andare a favore di Trump, quelli in Blu rappresentano quelli che dovrebbero andare a favore di Biden. L’azzurro rappresenta il colore degli stati che pendono verso i democratici ma senza certezze. Le nostre proiezioni sono state modificate a nostro piacimento secondo una analisi basata sul voto storico, sui sondaggi, sulle testimonianze di persone direttamente coinvolte nelle due campagne elettorali, sulle notizie locali che riflettono il sentimento dei cittadini del posto, testimonianze sul “campo” di comuni cittadini e sulle reazioni sui social media alle politiche e alle performance di entrambi i candidati. Sotto troverete la mappa del collegio elettorale con le nostre previsioni. Sotto i nomi degli stati si trova il numero dei collegi elettorali a disposizione generato da quel particolare stato. Cercheremo di aggiornare la mappa ogni settimana, applicando la nostra griglia di analisi menzionata prima.

https://abcnews.go.com/Politics/2020-Electoral-Interactive-Map?mapId=MjAyMDA0MTAyNjEwMTYwMTA3NDI3NDE2MTAwqUORTBgmSUhKSSNSTBiRSRKSUUgmCQ

Comunque vada i risultati delle elezioni non saranno disponibile la notte del 3 di Novembre. I numeri dei votati tramite posta fa si che il conteggio si estende passata la soglia del 3 di Novembre. Probabilmente durerà per giorni se non per settimane e sarà un conteggio costellato da battaglie a colpi di proteste di strada e battaglie legali nelle corti locali e federali. Si potrebbe addirittura ipotizzare uno scenario dave Trump sembra vincere le elezioni la notte del 3 di Novembre per poi gradualmente perderle via via che vengono contati i voti per posta. Questo perché alcuni sondaggi ci dicono che il 60% degli aventi diritto al voto iscritti al partito democratico sostengono che voteranno per posta (paura del Covid19) mentre l’opposto e` per gli iscritti al partito repubblicano dove il 60% dichiara, che non fidandosi del voto per posta, si presenterà direttamente ai seggi votando di persona. Comunque sia è ormai certo che la battaglia su i risultati delle presidenziali si prolunghera molto più in là del 3 Novembre. Tenete presente fra l’altro che tra il 2012 e il 2018, secondo i dati della Commissione federale di assistenza elettorale, sono andate perse 28,3 milioni di schede per corrispondenza. Le schede mancanti ammontano a quasi uno su cinque di tutte le schede inviate per posta agli elettori residenti negli Stati che partecipano  alle elezioni esclusivamente per posta. Tenendo presente questo dato, in queste presidenziali del 2020, dove si prevede che 80 milioni di schede per posta verranno spedite agli americani e facile immaginarsi una elezione a dir poco caotica, da repubblica delle banane

I contenziosi delle elezioni apriranno scenari da guerra civile, non escludo che lo scontro si trasformi da politico ad armato. D’altronde Hillary Clinton a categoricamente ordinato a zio Joe di non concedere vittoria a Trump qualunque sia il risultato delle elezioni la notte del 3 Novembre. Quando apre bocca Hillary Clinton non ne esce niente di buono se non morte, disordine e caos…

 

 

LA SOTTILE LINEA ROSSA. IL CASO BRITANNICO, di Pierluigi Fagan

LA SOTTILE LINEA ROSSA. IL CASO BRITANNICO. Cosa sta accadendo nell’Isola? B. Johnson ha detto che farà di tutto per evitare il lockdown ma richiama i concittadini a comportamenti auto-controllati più seri. Poiché sa che tale auto-controllo mancherà, ha avanzato la possibilità dell’uso di polizia ed addirittura esercito per contenere chi non si auto-contiene. E’ un passare la sottile linea rossa delle regole di convivenza civile e democratica, nel paese che poco più di tre secoli fa pose il Parlamento al posto del Re, inaugurando quella forma poi detta “democrazia liberale”. Il fatto quindi merita attenzione. Partiamo dall’inizio.
B. Johnson, nell’anno della transizione che doveva portare all’effettiva uscita dalla Unione europea, prende in considerazione il virus SC2 tardi. Ne minimizza la portata per evitare -in tutti i modi- di turbare il normale andamento economico della sesta potenza economica del mondo da poco superata dall’India (ripeto: India) per dimensione di Pil. Il normale andamento economico si temeva già venisse perturbato dalla transizione alla Brexit.
Sulla Brexit, va ricordato che il referendum relativo, si tenne nel 2016 ed il quadro geopolitico e geostrategico di allora era molto diverso dal successivo segnato dall’arrivo di Trump alla Casa Bianca. Sebbene qui molti abbiano letto la Brexit in chiave spiccatamente anti-europeista, il senso strategico della mossa condivisa da una parte delle élite che contano nel Paese britannico, era volto a posizionare UK come riferimento banco-finanziario per molti paesi ex Commonwealth e più in generale, come “consulente tecnico” (in virtù dell’obiettivo know how e capacità operativa banco-fianziaria-valutaria-assicurativa) per molti paesi afro-asiatici. Per ragioni giuridiche, tale ruolo libero da vincoli, certo non si poteva svolgere stando nell’UE. La Brexit cioè, presupponeva una globalizzazione attiva e crescente.
Johnson minimizza a forza i rischi connessi all’epidemia, nel senso che la comunità scientifica britannica che quanto a biologia e medicina, è forse la prima al mondo e lo è anche per tradizione storica, è visibilmente dissonante col leader britannico. Presto Johnson si accorge di aver sbagliato clamorosamente diagnosi. Gli effetti del SC2 come ancora molti si ostinano a non voler capire, non si conta in morti (non molti, sempre “relativamente” perché il concetto di morte ha una sua gravità intrinseca), ma in termini di quel 15%-20% tra i contagiati che rischia di richiedere assistenza ospedaliera. Ospedali che in UK risentono di anni ed anni di cura conservatrice-liberale in termini di fondi tagliati ed affiancamento del privato al pubblico. Unica forma di comunicazione pubblica al mondo, lo slogan del governo per comunicare al popolo le notizie della SC2, invita a “stare a casa” per “proteggere il National Health System”, quindi “salvare vite”. Della serie, non affollate gli ospedali o facciamo bancarotta sanitaria.
Qui occorre una nota di colore per cogliere il surrealismo dei tempi. Un vecchietto di 99 anni (il capitano Tom Moore), lancia un suo privato TELETHON promettendo di girare in tondo nel suo giardinetto col deambulatore fino a raccogliere mille sterline per aiutare la sanità pubblica. Ne ha poi raccolti 33 milioni di sterline, la gente può esser meravigliosa ma l’assurdità dell’evento non è stato colto per niente. Va bene votare tagliatori della spesa pubblica, poi quando servono soldi si va in beneficienza, ovviamente fatta dalla povera gente. Il collasso comunque ci sarà e ci sarà il geronticidio nelle case di cura, fino a che il Governo decide di non dare più i dati (fatto che ricordo distintamente comunicato con un certo sconcerto dall’inviata di Sky).
Ne viene fuori, il dato “sottostimato volutamente” di 615 morti per milione di abitanti, solo l’altro ieri superato dall’America di Trump e qualche giorno prima, dal Brasile di Bolsonaro. Una catastrofe. Ma UK è anche il Paese tra i “grandi” col peggiore dato di crollo di Pil nel secondo trimestre, oltre -20%. Nel frattempo, giunge recentemente dall’Isola, la notizia che i britannici hanno 185.000 tamponi fatti che però non riescono ad analizzare. Pare abbiamo chiesto aiuto a Germania ed Italia, ma se fai il tampone e ottieni i risultati 15 giorni dopo, è come se non li avessi fatto, gli infetti sono in giro da giorni comunque.
Nel frattempo, un Johnson duramente provato dal Covid dal quale pare non essersi pienamente ripreso, oltre che da fatti personali che anche la non pettegola stampa britannica, anche quella conservatrice, agita a minare la credibilità nel leader, alza la posta sulla Brexit. Vuole andare ad una Brexit ruvida, andar oltre financo i limiti giuridici del patti concordati a procedura del processo di scioglimento dei vincoli. Viene il dubbio voglia agitare la bandiera identitaria per compattare un Paese che secondo alcuni sondaggi, non gli darebbe più del tutto la maggioranza nel Paese. Ma chissà che una parte di quelle élite che contano, quelle brexiters non quelle europeiste comunque da sempre contropelo, non si stiano domandando cosa fare.
A parte la tenuta psicofisica del ragazzo, il quadro geopolitico del mondo è molto mutato dal referendum del 2016 e il SC2 ed il come è stato gestito, stanno dissipando la potenza britannica dalle fondamenta. Ci sono molti nodi giuridici nella Brexit che comportano innumerevoli problemi per aziende e privati, questo lo si sapeva anche prima, ma oggi tale prezzo rischia di esser pagato non proprio utilmente, soprattutto se ci saranno altri quattro anni di Trump.
Negli ultimi giorni, la curva dei contagi ricomincia prepotentemente a ricrescere. Un nuovo lockdown, prima viene decisamente escluso perché affonderebbe l’economia britannica per anni, oggi sono pochi coloro che lo escludono da qui a qualche settimana. L’NHS non è stato certo potenziato nel frattempo. Prima del 4 novembre, cosa sarà il mondo dei prossimi quattro anni nessuno lo sa, ma forse non lo si saprà neanche dopo se dovesse vincere Biden. Molti analisti pensano che molte delle strategie di Trump riguardo Cina e globalizzazione delle merci (non quella dei capitali che né Trump, né nessun altro si sogna di moderare, ovviamente), saranno perseguite, magari con diverso look ma identica sostanza, anche da Biden. Se gli americani ci ordinano di fare “West vs the Rest”, una UK che da isolana diventa isolata, che senso ha?
Giù nei sondaggi e con un Labour non più in mano al socialista Crobyn, con la brace secessionista in casa sempre accesa, con una economia devastata, con il salvifico vaccino lontano, pressato da Trump nella guerra all’Asia che invece era la terra promessa della strategia Brexit, col servizio sanitario a pezzi, con malumori nel suo campo già uso a regicidio (vedi Cameron, May etc.), stanco e provato, Boris minaccia l’esercito per le strade.
Stiamo parlando del Regno Unito, la madre del sistema occidentale delle società ordinate dall’economico e regolate dal politico espresso dagli interessi economici che chiamiamo “democrazia liberale”. Vale la pena seguire come andrà a finire. Tra minacce di guerra civile in USA e l’esercito per le strade di Londra, i tempi si fanno problematici, il rischio del “momento Weimar”, cresce?

le buone intenzioni, di Pierluigi Fagan

DALLA POLEMICA ALLA POLITICA.
La politica è anche polemos, indubbiamente, ma prima occorrerebbe passare dai contenuti. Io promuovo dei contenuti, tu altri, si discute e si combatte (polemos). Mi sembra invece che, troppo spesso, si saltino i contenuti e si vada direttamente alla polemica.
Ora, ci troviamo in questa situazione: col voto di ieri abbiamo una certezza, per 30 mesi (due anni e mezzo), abbiamo un governo inamovibile. Il risultato del referendum impone tutta una serie di adempimenti (dal ridisegnare i collegi ad una nuova legge elettorale) senza i quali non si può votare. Inoltre, come molti notano, andandosi a restringere i seggi, gli attuali parlamentari tutto faranno tranne che correre ansiosi verso il vaglio elettorale. Viepiù, non sembra voglia andare ad elezioni il popolo italiano visto che ha per lo più confermato giunte uscenti, tranne in un caso, con percentuali bielorusse, seguendo per due terzi, anche l’indicazione di voto per il SI data, con maggior o minor convinzione, da tutti i partiti. La gente (in tutti gli strati in cui si compone la popolazione), da una parte è alle prese con i problemi psichici e pratici dell’epidemia, dall’altra con quelli socio-economici financo più gravi. I vertici dell’Unione europea, faranno di tutto per non destabilizzare l’Italia favorendo spinte ad essi contrarie.
Nell’opposizione, Forza Italia non ha ancora capito se avrà un futuro post-berlusconiano, forse si aspetta l’ora fatale. Fratelli d’Italia sembra voler seguire una crescita cauta poiché -storia insegna che- partiti che passano dal 6% al 16% in pochi anni, altrettanto poco impiegano a sgonfiarsi se non costruiscono con attenzione la propria classe dirigente e relativo e concreto progetto politico. La Lega è in un dilemma tra il ritorno alla dimensione nordico autonomista e quella nazional-populista-antieuropeista. Quest’ultima, è un po’ contro lo spirito dei tempi poiché i tempi sono difficili, le gente ha preoccupazioni e timori concreti, l’agitazione polemica e chiacchierona alza semmai l’ansia, non favorisce certo soluzioni ponderate e concrete.
Ad inizio 2022 ci sarà l’elezione del Presidente della Repubblica.
Quanto al fronte di governo, Italia Viva dovrà meditare sulla consistenza del suo progetto politico (ammesso ne abbia uno oltre a quello egoico del suo leader) ed i suoi parlamentari, più di altri, sanno che rischiano in toto di perdere il seggio consigliando moderazione. Il M5S ha perso almeno la metà della sua consistenza dalle ultime elezioni, cambiando anche posizionamento politico, dovrà quindi rivedere progetto politico e declinazione concreta, nonché forme della sua organizzazione interna. Il PD procede lento ma costante nel recupero di peso politico, eleggerà probabilmente un Presidente più o meno d’area, ha due anni a mezzo per chiarirsi idee, programmi e persone, ma sembra avviato al recupero della posizione di primo partito nazionale.
Financo in Confindustria si segnalano malumori per la recente gestione molto ideologica e poco pragmatica.
Sul piano pratico, ci sono da destinare e gestire circa 80 mld di sussidi e 120 mld di prestiti europei (più o meno). Macron ha già presentato il suo piano basato su tre pilastri: transizione green (edifici, trasporti, agricoltura, de-carbonizzazione) – competitività ed innovazione delle imprese – occupazione giovanile, enti locali, servizio sanitario. Sul “servizio sanitario”, in Italia, grava anche l’ipoteca del MES. A riguardo, segnalo che il segretario della CGIL ha aperto all’utilizzo del MES, forse il centro studi e l’ufficio legale della CGIL che mi risultano ben seri e preparati, ignorano la trappola neo-liberista-troikista che molti sostengono esser collegata all’utilizzo del fondo?
Insomma, ci sono tempi e condizioni obbligate (ovvero prive di alternativa) nonché fattive urgenze, per tornare a parlare di politica, di strategie-Paese, di idee e progetti. Abbiamo un servizio sanitario sottodimensionato alla esigenze standard di un paese sempre più anziano, viepiù alle prese con la fastidiosa epidemia che ricovera tra il 15% ed il 20% dei contagiati con sintomi e che fino ad oggi sono stati molto, ma molto meno del ritenuto da alcuni. Ciononstante, ad aprile, abbiamo sfiorato e in alcuni casi subito, il collasso sanitario in alcuni ospedali del pur ricco e ben organizzato “nord”. Abbiamo indici di disoccupazione giovanile insopportabili. Abbiamo il più bel Paese del mondo per natura e cultura (almeno quella ereditata) da curare. Siamo in una difficile congiuntura economica generale e particolare. Abbiamo da recuperare standard sulle nuove tecnologie. Da sanare indici di diseguaglianza molto peggiori di altri paesi europei. C’è un articolato problema fiscale. Abbiamo pezzi di Paese corrotti da forme di delinquenza organizzata che per il nostro benessere generale sono peggio di un virus. C’è da ripensare il lavoro e la produzione. C’è da fare un nuovo contratto sociale. C’è da rilanciare cultura media perché gli ultimi mesi ci hanno reso evidente lo stato pietoso delle mentalità diffusa. Per non parlare dei capitoli scuola, informazione, cultura adatta ai tempi sia a livello istituzionale, sia a livello popolare E molto, molto altro.
La politica chiama, direi di fare una moratoria sulla polemica fino a quando non si svilupperà un dibattito sul concreto da farsi. E’ ora di tornare seri, se si è in grado.

Lavrov: “Siamo pronti a dialogare con tutti”_ intervista al Ministro degli Esteri Russo, Lavrov

L’informazione in Italia sta assumendo toni sempre più propagandistici e scioccamente unilaterali, specie sui temi di politica estera. Proprio quando con l’affermazione del multipolarismo i punti di vista e le campane tendono a diversificarsi e a divergere. Qui sotto una intervista al Ministro Lavrov pubblicata da https://it.sputniknews.com/intervista/202009189544338-esclusiva-lavrov-siamo-pronti-a-dialogare-con-tutti/

Essendo un alto dirigente politico e un fine diplomatico, il suo pensiero va letto soprattutto tra le righe.

Giuseppe Germinario

Per fare il punto della situazione attuale nelle relazioni internazionali, nelle prospettive nella risoluzione delle crisi in corso nel mondo e nelle relazioni bilaterali, Sputnik ha intervistato in esclusiva il ministro degli Esteri della Federazione Russa Sergey Lavrov.

— È con noi in collegamento il ministro degli Esteri della Federazione Russa Sergey Lavrov. Buongiorno, signor ministro!

— Buongiorno! Vi ringrazio per l’invito.

— Vorrei cominciare il nostro incontro parlando dei rapporti bilaterali russo-americani e, se non ha nulla in contrario, avrei una domanda in merito alle elezioni che attendono gli USA tra meno di 2 mesi. L’élite statunitense, indipendentemente dal suo colore politico, parla spesso del ruolo esclusivo del proprio Paese in qualità di leader assoluto a livello mondiale. Qual è la portata dell’impatto che questa agenda di politica interna ha sulla politica estera degli USA e sui rapporti con alleati e partner, nonché sui rapporti bilaterali con la Russia? In che modo, a Suo avviso, il principio statunitense di esclusività influisce sui processi a livello internazionale?

— Probabilmente tutti hanno già tratto le proprie conclusioni e con tutti intendo chi segue in maniera attenta e professionale il corso degli scontri politici interni al Paese. Tali scontri, infatti, sono sempre stati il pretesto delle posizioni assunte sia da democratici sia da repubblicani. Quello che succede oggi non fa eccezione. La cosa più importante è raccogliere il maggior numero possibile di argomentazioni per battere l’avversario sul piano retorico, informativo e polemico. Presto si terranno i dibattiti tra i principali candidati democratici e repubblicani alle presidenziali e già ora una posizione di rilievo la ricoprono temi come la questione russa, ossia la questione dell’ingerenza della Russia (ormai questa teoria si è imposta come cliché) negli affari interni degli Stati Uniti.

In verità, nelle ultime settimane o comunque negli ultimi 2 mesi si è aggiunta a noi la Cina che ora occupa una posizione d’onore di spicco tra i nemici dell’America che starebbero tentando in tutti in modo di far accadere eventi catastrofici in America. A questo in fin dei conti noi siamo già abituati da anni. È un processo cominciato non con la presente amministrazione, ma già con Obama. Proprio quest’ultimo dichiarava, tra l’altro anche pubblicamente, che i dirigenti russi stessero consciamente operando per rovinare le relazioni tra Mosca e Washington.

Inoltre, dichiarava che la Russia si sarebbe intromessa nelle elezioni del 2016 e con questo pretesto ha introdotto sanzioni senza precedenti, inclusa la confisca di proprietà russe sul suolo statunitense, l’espulsione di decine di nostri diplomatici e delle loro famiglie e molto altro. Poi, quanto alla teoria dell’esclusività statunitense, si tratta di una tesi condivisa sia da democratici sia da repubblicani, ma anche da tutte le altre correnti politiche degli USA. Abbiamo commentato più volte che già in passato nella storia vi sono stati tentativi di chi ha voluto presentarsi come infallibile e onnisciente fautore del destino dell’intera umanità. Questi tentativi, però, non hanno portato a nulla di buono. Pertanto, noi confermiamo il nostro approccio: qualsivoglia evento di politica interna a un Paese è un affare di quel Paese.

È un peccato che facciano un uso spregiudicato di retorica nei propri affari interni e, tra l’altro, di una retorica che non riflette la reale situazione a livello internazionale. È altresì un peccato che, per conquistare il maggior numero di preferenze in questa campagna elettorale, senza alcun dubbio o vergogna, introducano con o senza pretesto ingiuste sanzioni contro chi sullo scacchiere internazionale dica anche solo qualcosa non perfettamente in linea con gli Stati Uniti.

Questo istinto sanzionatorio che è stato implementato anzitutto durante la presente amministrazione (ma, lo ribadisco, anche Obama ne ha fatto ampia prova) sta contagiando purtroppo anche il continente europeo: anche l’Unione europea, infatti, ricorre sempre più spesso all’applicazione delle sanzioni. Pertanto, la conclusione che traggo è assai semplice. Lavoreremo naturalmente con qualsivoglia governo che il dato Paese sceglierà e questo vale anche per gli Stati Uniti. Ma dialogheremo con gli Stati Uniti su qualunque questione di interesse solamente sulla base di principi quali la parità, il reciproco vantaggio e la ricerca di un equilibrio di interessi. Dialogare con noi proclamando ultimatum è inutile e insensato. Chi non lo capisce, non è un buon politico.

— Lei ha menzionato la pressione sanzionatoria che in molti casi non nasce direttamente nei circoli politici, ma viene prefigurata dai media. Negli USA, in Gran Bretagna e in Europa questo succede assai spesso. La stampa statunitense ha accusato la Russia di aver cospirato con i tabloid contro i militari statunitensi in Afghanistan, il Ministero britannico degli Esteri ha confermato che la Russia si sarebbe quasi certamente intromessa nelle elezioni parlamentari del 2019, questa settimana gli Stati membri dell’UE stanno discutendo l’ennesimo pacchetto di sanzioni da comminare alla Russia in relazione a presunte violazioni dei diritti umani. Lei crede che questo approccio, ossia la politica di demonizzazione di Mosca, possa in qualche modo cambiare in futuro oppure non farà che crescere?

— Al momento non vediamo segnali di futuri cambiamenti a livello politico. Purtroppo questa inclinazione all’applicazione di sanzioni non farà che aumentare. Stando a ciò che abbiamo visto ultimamente vogliono punirci anche per ciò che sta accadendo in Bielorussia e anche per l’incidente di Navalny, sebbene si rifiutino categoricamente di mantenere gli impegni presi nell’ambito della Convenzione europea di assistenza giudiziaria e di rispondere alle istanze ufficiali della Procura generale. Sono state accampate scuse del tutto fittizie. La Germania sostiene: “non vi possiamo dire niente, rivolgetevi alla Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche”. Noi ci siamo andati più volte e ci hanno detto di rivolgerci a Berlino.

Spesso si sente dire “fare a scaricabarile”: ecco più o meno è il modo in cui i nostri partner occidentali, mi si conceda l’espressione, stanno reagendo alla nostra linea e stanno dichiarando a gran voce che “l’avvelenamento è ormai conclamato, nessuno se non la Russia avrebbe potuto farlo, ammettetelo”. È successo lo stesso con Skripal e, tra l’altro, sono convinto che, se non ci fosse stato questo caso Navalny, se ne sarebbero inventati un altro. Tutto ha finalizzato a minare il più possibile le relazioni tra Russia e UE. Nell’Unione europea vi sono Paesi che capiscono questa logica, ma da loro continua a prevalere il principio del consenso, la cosiddetta solidarietà. Questo principio è largamente sfruttato da quei Paesi che rappresentano una minoranza russofobica e aggressiva.

Oggi l’Unione europea sta valutando la possibilità, da quello che ho capito sulla base della presentazione del rapporto del presidente della Commissione europea, di assumere decisioni relative a determinati temi non in base al consenso, ma al voto. Questo cambiamento sarà interessante perché potremo vedere chi desidera sfruttare a proprio favore il diritto internazionale e chi invece predilige una politica ragionata e bilanciata, basata sul pragmatismo. Ricordo, però, che quando ci accusavano di aver stretto relazioni con i talebani per indurli previa ricompensa in denaro a condurre operazioni speciali contro i soldati americani, i talebani combattevano però per i propri interessi e le proprie convinzioni. Pensare che noi potremmo essere in grado di fare cose del genere, cose da fuorilegge, è una caduta di stile persino per gli alti funzionari statunitensi. Tra l’altro, il Pentagono è stato costretto a smentire riflessioni di questo tipo poiché non ne ha trovato alcuna riprova.

Intervista del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ai corrispondenti di Sputnik
© SPUTNIK . ALEKSEY KUDENKO
Intervista del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ai corrispondenti di Sputnik

Gli stessi talebani hanno dichiarato che si tratta di una menzogna bella e buona. Ma nell’epoca delle reti sociali, della disinformazione e dei comunicati fake, tanto vale dare in pasto ai media qualsiasi trovata perché poi nessuno si preoccupa di leggere le smentite. Il primo clamore che si viene a creare con questa sorta di sensazionalismi è ciò su cui fanno affidamento i loro autori. Pertanto, noi abbiamo detto più volte sia agli americani sia ai britannici: “se avete richieste nei nostri confronti, siete pregati di attivare le procedure diplomatiche ufficiali di dialogo che si devono basare su fatti reali”. Poiché la maggior parte delle richieste in merito all’ingerenza riguarda lo spazio cibernetico (ci accusano, infatti, di hackeraggio di enti pubblici e di intrusione in qualsivoglia sistema strategico dei nostri colleghi occidentali), abbiamo proposto di rinnovare il dialogo in materia di sicurezza informatica anche internazionale in tutti i suoi aspetti e hanno risposto di essere pronti a valutare le preoccupazioni in capo ad ambo le parti.

Anche noi, infatti, abbiamo registrato diversi casi che ci inducono a sospettare di avvenute ingerenze da parte di hacker occidentali all’interno di nostre risorse strategiche. In merito abbiamo ricevuto un secco no. E sa qual è stata la risposta? “Ci esortate a instaurare un dialogo sulla sicurezza informatica, ossia sullo stesso settore che voi sfruttate per intromettervi nei nostri affari interni”. Questo è quanto. Ed è di fatto quello che è emerso con Navalny, le stesse argomentazioni: “perché non ci credete, forse?”. Quando Rex Tillerson era segretario di Stato, dichiarò ufficialmente in un’occasione di essere in possesso di prove inconfutabili dell’ingerenza russa nelle elezioni americane. Non mi diedi pena di interessarmi in merito: “se vi fossero simili prove inconfutabili, le condivideresti, no? Saremmo noi poi i primi a fare in modo di capire di cosa si tratta perché non sarebbe nei nostri interessi inventare falsità”. Sa cosa mi disse? Mi rispose: “Sergey, non ti darò niente. I vostri servizi segreti hanno organizzato tutto questo e conoscono perfettamente la situazione. Rivolgiti a loro, te lo devono dire loro”.

Questo fu il nostro dibattito sul tema che è diventato probabilmente il principale elemento di discussione nelle nostre relazioni bilaterali. Pertanto siamo convinti che un giorno si dovrà comunque rispondere a domande concrete e presentare i fatti reali non solo in questo caso, ma anche con Navalny o ancora con l’avvelenamento di Salisbury. A tal proposito, in merito a Salisbury, due anni fa quando è accaduto il fatto e quando ci hanno additato come unico produttore di novichok, abbiamo risposto argomentando la nostra posizione. Tutti possono prendere conoscenza dei fatti: alcuni Paesi occidentali hanno messo a punto sostanze simili al novichok che tra l’altro negli USA sono state brevettate anche per uso bellico.

E tra quei Paesi in cui sono state condotte operazioni di questo tipo possiamo menzionare ad esempio la Svezia. Due anni fa ci hanno detto: “non osate annoverarci fra questi Paesi, non ci siamo mai occupati di novichok”. Ma adesso, come ben sapete, uno dei Paesi a cui si sono rivolti i tedeschi per riconfermare le loro conclusioni oltre alla prima conferma francese è stata proprio la Svezia. E gli svedesi hanno dichiarato che effettivamente confermavano l’esattezza dei risultati delle indagini condotte presso il laboratorio dell’esercito tedesco e che si trattava proprio di novichok. Ma se 2 anni fa la Svezia non disponeva delle competenze per capire se fosse novichok o meno e dopo 2 anni ne è capace, significa che qualcosa dev’essere accaduto. E se è accaduto ciò che ha permesso alla Svezia di capirne di novichok, probabilmente andrebbe considerato una violazione della Convenzione sulle armi chimiche. Concludo la mia risposta alla Sua domanda dicendo che siamo pronti a dialogare con tutti. Basta che non ci obblighino a giustificarci senza nemmeno presentare dei fatti reali. Saremo sempre pronti al dialogo professionale sulla base di questioni concrete e chiaramente formulate.

— Oltre alle controversie che stanno sorgendo tra di noi e i nostri partner occidentali in merito agli ultimi eventi all’ordine del giorno, si registra la presenza di dissensi in merito a visioni diverse della storia. Al momento le grandi manifestazioni che hanno avuto luogo negli USA hanno innescato cambiamenti radicali. In sostanza, ha preso avvio un processo di riesame di buona parte della storia e della cultura internazionale di stampo americano: si profanano i monumenti e si cerca di cambiare l’assetto degli eventi. In tal senso, ci sono stati e continuano ad esserci tentativi finalizzati a rivedere la Seconda guerra mondiale e il ruolo in essa rivestito dall’Unione Sovietica. A Suo avviso, a quali conseguenze per gli USA possono portare questi tentativi di revisionismo storico e quali invece saranno le conseguenze a livello globale?

— Lei ha assolutamente ragione. Siamo molto preoccupati per le sorti della storia europea e mondiale. Stiamo vivendo, per essere franchi, una aggressione storica finalizzata a riscrivere le fondamenta contemporanee del diritto internazionale posate dopo la Seconda guerra mondiale mediante l’operato dell’ONU e i principi del suo statuto. Oggi sono proprio queste fondamenta che si cercano di minare. Si ricorre anzitutto a un’argomentazione che non è altro se non un tentativo di porre sullo stesso piano l’Unione Sovietica e la Germania nazista, ossia gli aggressori e i vincitori degli aggressori, i vincitori di coloro che hanno tentato di asservire l’Europa e rendere schiava la maggior parte dei popoli del nostro continente.

Ci offendono dichiarando senza mezzi termini che l’Unione Sovietica ha persino più colpe della Germania di Hitler per aver provocato la Seconda guerra mondiale. Tuttavia, nascondono accuratamente sotto al tappeto i fatti: ossia, che tutto era cominciato già nel ’38, che prima di quel momento erano le nazioni occidentali a condurre una politica di appeasement nei confronti di Hitler (in particolare, Francia e Gran Bretagna). Non mi dilungherò troppo su questo tema, perché molto è già stato detto. In merito rimando al noto articolo del presidente Vladimir Putin che tratta tutti gli elementi salienti della vicenda e, sulla base di diverse fonti, dimostra in maniera convincente quanto siano insensati, controproducenti e distruttivi i tentativi di minare i risultati conseguiti in esito alla Seconda guerra mondiale. Ricordo comunque che noi siamo supportati dalla stragrande maggioranza della comunità internazionale in questo senso.

Ogni anno in occasione delle sedute dell’Assemblea generale dell’ONU proponiamo ai voti la risoluzione sull’inammissibilità della glorificazione del nazismo. Solo 2 Paesi votano contro (USA e Ucraina) e l’intera Unione europea si astiene, con mio profondo rammarico. Si astiene perché, come ci spiegano loro stessi, a chiedere di non supportare questa risoluzione sono anzitutto i Paesi baltici. Ma, come si suol dire, hanno la coda di paglia: in questa risoluzione non vi è alcuna menzione specifica ad alcun Paese o governo. Semplicemente si invita l’intera comunità mondiale a non consentire che vi siano tentativi di glorificazione del nazismo. Ma, dunque, i Paesi che chiedono all’UE di non supportare questa chiara risoluzione, la quale non ha alcun doppio fine, sentono di non poter accettare questi principi. E alla fine è proprio quello che succede: assistiamo alle marce di nuove SS e alla distruzione dei monumenti. I nostri vicini polacchi sono molto attivi su questo fronte e anche in Repubblica Ceca si sono verificati casi simili. È inaccettabile.

Tra l’altro, oltre al fatto che così si minano i risultati della Seconda guerra mondiale sanciti nello statuto dell’ONU, si tratta anche di gravi violazioni dei trattati bilaterali stretti tra questi Paesi e altri Paesi che invece si preoccupano di tutelare le sepolture dei soldati e i monumenti eretti in Europa in memoria delle vittime della Seconda guerra mondiale e degli eroi che hanno liberato i loro rispettivi Paesi. Pertanto, continueremo a lavorare in questo senso e, a mio avviso, è importante assicurarsi che chi è contro l’abolizione della glorificazione del nazismo si muova effettivamente in linea con i diritti umani.

Dopotutto, la libertà di pensiero e di espressione che esistono negli USA e in altri Paesi occidentali non sono sottoposte ad alcun tipo di censura. Se questa libertà viene limitata dall’inammissibilità della glorificazione del nazismo, si andrebbe contro la data legge. Ma voglio dirlo chiaramente: ciò che sta accadendo oggi negli USA è probabilmente legato in qualche modo a ciò di cui stiamo parlando in merito all’inammissibilità di rivedere i traguardi raggiunti dopo la Seconda guerra mondiale. Una rabbia generalizzata a sfondo razzista è ovviamente presente negli USA e vi sono forze politiche che stanno tentando di fomentare questi sentimenti razzisti a proprio vantaggio. Di fatto è ciò che accade ogni giorno. Poc’anzi lei ha citato altri fatti o monumenti storici che sono oggetto di politiche effimere.

Tra le grinfie di chi negli USA intende distruggere la sua stessa storia perché in passato erano schiavisti è finito il monumento al primo governatore dell’Alaska Baranov che si trovava nella città di Sitka e ha sempre suscitato profondo rispetto sia negli abitanti del luogo sia nei turisti. Ci è giunta notizia che il governatore dell’Alaska e le autorità di Sitka non intendono distruggere il monumento ma riposizionarlo in un museo di storia, come ci hanno assicurato. E qualora questo dovesse realmente accadere, come ci hanno promesso, penso che dovremmo apprezzare questo gesto delle autorità di Sitka nei confronti della nostra storia comune e spero che il riposizionamento del monumento a Baranov in un museo di storia stimoli anche all’organizzazione di una mostra dedicata alla storia dell’America russa.

— Avrei alcune domande in merito all’ordine del giorno su Francia e Africa. Iniziamo dalla Francia. Emmanuel Macron è al potere da 3 anni e il suo primo invito ufficiale al capo di un altro Stato è stato rivolto a Vladimir Putin con il fine di migliorare le relazioni russo-francesi. Ci sa dire quali sono stati i veri cambiamenti avvenuti da allora a livello diplomatico nella collaborazione con la Francia e potrebbe confermare o smentire se la riunione del 16 settembre a Parigi è stata rinviata per via del caso Navalny? Per quanto ne so, ieri a Parigi doveva esserci un incontro che non ha però avuto luogo…

— Non ieri. Avrebbe dovuto avvenire qualche giorno prima, ma questo non cambia le cose. In primo luogo, la Francia è uno dei nostri principali partner internazionali. Da tempo abbiamo identificato la nostra cooperazione bilaterale alla stregua di partenariato strategico. E subito dopo la sua elezione, il presidente Macron ha invitato il presidente russo come una delle sue prime mosse di politica estera. E come risultato di questa visita, che ebbe luogo nel maggio 2017 a Versailles, furono confermate le intenzioni e la disponibilità di entrambi i Paesi e dei loro leader a coltivare il partenariato nell’ambito della cooperazione bilaterale delle relazioni internazionali, nonché a livello regionale e globale.

Sulla base del vertice di Versailles fu istituito il Forum di dialogo della società civile, il Dialogo di Trianon, che ad oggi funziona piuttosto bene, anche se per via delle restrizioni legate al coronavirus non è ancora possibile organizzare eventi in presenza. Da allora vi sono state più visite del presidente Macron in Russia e visite del presidente Putin in Francia. L’ultima visita tenutasi nell’agosto dello scorso anno è stata la visita del presidente Putin e le relative trattative con il presidente Macron presso la residenza Fort de Brégançon. Era agosto dello scorso anno, come ho detto. Si è tenuta una discussione molto produttiva e profonda in merito alla necessità di instaurare relazioni strategiche finalizzate ad affrontare i temi chiave del mondo moderno, anzitutto, naturalmente, in Europa, nell’Euro-Atlantico.

L’obiettivo è rafforzare la sicurezza in queste aree. All’epoca i due presidenti si sono accordati per creare meccanismi di interazione ramificati sia attraverso i Ministeri degli Esteri che quelli della Difesa. Si osservi anche la ripresa del formato 2+2 che, sebbene di lunga data, aveva registrato una pausa nel suo utilizzo. Lo scorso settembre si è tenuta a Mosca una seduta in formato 2+2. Oltre a questi due Ministeri, le questioni strategiche di stabilità vengono discusse anche dai consulenti di politica estera dei due presidenti. Con il loro benestare, con il benestare del presidente Putin e del presidente Macron, sono stati istituiti più di 10 gruppi di lavoro su temi diversi legati alla cooperazione in questo ambito: controllo sugli armamenti, non proliferazione delle armi di distruzione di massa, ecc.

E nel complesso la maggior parte di questi meccanismi funziona bene ed è finalizzata a far sì che noi possiamo congiuntamente ai colleghi francesi creare iniziative volte a stabilizzare le relazioni in Europa e a normalizzare l’attuale situazione. In particolare, quando si acuiscono le divisioni, quando la NATO incrementa le proprie infrastrutture militari sul territorio dei nuovi membri violando il patto Russia-NATO firmato già negli anni ’90 e considerato alla base della nostra collaborazione. Al momento sono diverse le tendenze che preoccupano: uno di questi fattori destabilizzanti è il ritiro degli USA dal Trattato INF e l’intenzione ufficialmente dichiarata di dispiegare tali missili non solo in Asia, ma apparentemente anche in Europa.

I lanciatori antimissilistici attualmente dispiegati in Romania e in fase di dispiegamento in Polonia possono essere utilizzati non solo per il lancio contro i missili, non solo dunque a scopo difensivo, ma anche offensivo, perché dagli stessi lanciatori possono partire missili da crociera d’assalto. L’uso di questi ultimi era vietato dal Trattato INF, ma ora il trattato non c’è più e gli americani non hanno più vincoli. Circa un anno fa (fra poco ricorrerà un anno da quell’occasione) il presidente Putin si è rivolto a tutte le autorità dei Paesi europei, di USA, Canada e di altre nazioni in merito al ritiro degli USA dal Trattato INF.

Il presidente ha esortato a non scatenare una corsa agli armamenti, ma a dichiarare una moratoria reciproca e volontaria su quegli stessi mezzi d’assalto vietati dal Trattato. Nessuno dei leader ha di fatto dato seguito a questa proposta, tranne il presidente Macron. E questo l’abbiamo apprezzato. Questo è sintomo del fatto che il leader francese è sinceramente interessato a sfruttare qualsivoglia spazio di dialogo con la Federazione Russa. E senza questo dialogo è impossibile garantire la sicurezza in Europa. Pertanto, abbiamo previsto degli incontri 2+2, ma in forza di ragioni che sono avvolte dal mistero, i colleghi francesi hanno chiesto di posticipare i nostri incontri. Dunque, il nostro prossimo incontro ministeriale 2+2 con i ministri di Difesa ed Esteri è stato rimandato a data da destinarsi. Non mi esprimerò in merito alle ragioni addotte, ma evidentemente il clima generale dell’UE nei confronti della Russia sta influenzando anche la cadenza degli incontri. Tuttavia, si sono da pochissimo tenute le consultazioni su tutta una serie di questioni importanti: lotta al terrorismo, problemi di sicurezza informatica. Sono tutti questi progetti che erano stati previsti e approvati dai presidenti Putin e Macron.

— Come ha di recente osservato Aleksandr Lukashevic, rappresentante permanente della Russia all’OSCE, la situazione dell’agenzia Sputnik in Francia non è affatto migliorata. I nostri giornalisti continuano a non essere ammessi alle conferenze stampa e a qualsivoglia evento dell’Eliseo. Vorrei sapere in che modo questa situazione può essere risolta e se il problema è stato affrontato con la parte francese.

— Ovviamente questo problema è stato affrontato. Riteniamo inaccettabile che i corrispondenti di Sputnik e di Russia Today (RT) vengano apertamente discriminati in Francia e nei Paesi baltici, com’è noto. Il fatto che negli ultimi anni (dal 2017) né RT né Sputnik vengano accreditati nell’Eliseo è ovviamente vergognoso. Ma a sorprendere ancor di più è il fatto che i nostri colleghi francesi confermino che non concederanno l’accreditamento in futuro perché RT e Sputnik “non sono media, ma strumenti di propaganda”.

A mio avviso, non vale la pena di commentare l’assurdità di tali dichiarazioni dato che RT e Sputnik godono di ampio successo. In tutti i Paesi aumenta il pubblico target, ho consultato io stesso le statistiche. Questo potrebbe semplicemente essere l’ennesima manifestazione di timori nei confronti della concorrenza di coloro che fino a poco tempo fa ricoprivano una posizione di spicco nel mercato globale dell’informazione. Vogliamo che la questione venga affrontata dai francesi e chiediamo loro di far cessare le discriminazioni nei confronti di media registrati in Russia. Se ci rispondono con la storia dei finanziamenti pubblici, allora ricordiamo loro che a godere di finanziamenti pubblici sono anche molte agenzie di stampa considerate fari della democrazia.

Sia Radio Free Europe sia la BBC godono di questi fondi ma per qualche motivo nei loro confronti non vengono adottate misure restrittive, nemmeno lato Internet dove al momento si opera un certo grado di censura. Google, YouTube e Facebook stanno prendendo decisioni, evidentemente su pressione delle autorità statunitensi che discriminano i media russi, in merito alla pubblicazione di materiali sulle loro piattaforme. La questione dev’essere affrontata non solo a livello bilaterale, ma a livello dell’OSCE dove è presente un rappresentante speciale per la libertà di stampa, nonché a livello dell’UNESCO che è chiamata a supportare il giornalismo libero e la libertà di espressione.

Infine esortiamo anche il Consiglio d’Europa a occuparsene. Interessante è che a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, durante la fase della ricostruzione che permise alla Russia di aprirsi al mondo come si è soliti dire, nell’ambito dell’OSCE i nostri partner occidentali stavano avanzando proposte per garantire accesso libero a qualsivoglia informazione sia basata su fonti interne sia proveniente dall’estero. Questo fu evidentemente pensato per rafforzare la spinta all’apertura della società sovietica al mondo esterno. Dunque, oggi, quando ricordiamo loro queste proposte e richiediamo che l’accesso alle informazioni venga garantito a Sputnik e RT in Francia, i nostri partner occidentali sono poco inclini a confermare quelle stesse decisioni assunte su loro iniziativa 30 anni fa. Il doppio standard è un comportamento ipocrita. Ad ogni modo a dicembre si terrà l’ennesimo vertice ministeriale dell’OSCE. La questione non verrà cancellata per nessun motivo dall’ordine del giorno e i nostri colleghi occidentali avranno molte domande a cui rispondere.

Intervista del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ai corrispondenti di Sputnik
© SPUTNIK . ALEKSEY KUDENKO
Intervista del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ai corrispondenti di Sputnik

— Passiamo ora all’agenda sull’Africa. Al vertice di Sochi sono stati siglati più di 90 accordi di collaborazione con i Paesi africani. Vorrei sapere con quali ritmi la Russia sta tornando dopo la pandemia all’esecuzione degli accordi siglati e quali di questi sono prioritari e in quali Paesi africani.

— Dopo il vertice tenutosi lo scorso ottobre a Sochi abbiamo conseguito l’ennesimo successo della nostra politica estera, come testimoniano tutti i nostri ospiti africani. Non abbiamo fatto nessuna pausa. La pandemia ha imposto di prevedere alcuni correttivi nelle modalità di comunicazione, ma continuiamo a lavorare da remoto, come si dice. Anche in politica estera e in diplomazia è possibile. Il presidente Putin si è più volte messo in contatto per telefono con i leader africani, con i presidenti di Sudafrica, Congo, Etiopia. Ci sono state videoconferenze tra i ministri degli Esteri di Russia e della Triade africana (ossia, i presidenti precedente, in carica e futuro dell’Unione africana), ovverosia Sudafrica, Egitto e Repubblica Democratica del Congo.

All’interno del nostro Ministero è stato istituito un segretariato speciale denominato Forum Russia-Africa. La decisione di istituire questo ente è stata assunta a Sochi. Il segretariato è già operativo, proprio l’altro giorno ci siamo incontrati con il direttore di una delle commissioni regionali sul continente africano, la IGAD. L’ex ministro degli Esteri etiope ne è il segretario generale. Nello specifico, abbiamo discusso dei piani concreti di cooperazione nell’ambito del progetto Russia-IGAD. Abbiamo piani simili sia con l’Africa meridionale sia occidentale, nonché con tutte le organizzazioni a livello regionale e con l’Unione africana che è la struttura panafricana per eccellenza. La nostra operatività consiste in consultazioni su questioni di importanza per il continente africano, quali la normalizzazione di conflitti, lo svolgimento di eventi congiunti in ambito culturale e didattico, lo sviluppo della cooperazione economica, il supporto alla collaborazione in materia di politica estera, il sostegno all’attività delle imprese russe in Africa e dei loro partner.

Abbiamo molti progetti e il nostro operato è molto apprezzato dai colleghi africani. Per quanto riguarda la pandemia, decine di Paesi africani hanno ricevuto aiuti da noi per risolvere la questione dell’approvvigionamento di tamponi, dispositivi di protezione individuale, farmaci. La collaborazione su questo fronte continua ancora oggi. I Paesi africani come anche quelli asiatici e latinoamericani stanno manifestando il loro interesse per avviare sul proprio territorio la produzione del nostro vaccino Sputnik V e al momento i nostri organi competenti preposti alla risoluzione di tali questioni stanno valutando i potenziali candidati per avviare nuove linee di produzione. Infatti, servono grandi quantità di dosi. Abbiamo ottime esperienze in Guinea e Sierra Leone: quando vi fu l’Ebola, i nostri medici installarono un ospedale da campo e avviarono in Guinea la produzione del vaccino specifico.

L’esperienza dell’Ebola ha aiutato molto i nostri esperti a elaborare il vaccino contro l’infezione da coronavirus impiegando una piattaforma creata già per contrastare l’Ebola. Pertanto, a mio avviso, abbiamo all’attivo molti progetti interessanti. Ci siamo, tra l’altro, accordati per incrementare il numero di borse di studio che renderemo disponibili ai Paesi africani. Quanto al tema della cooperazione economica, poche settimane fa abbiamo creato l’Associazione per la cooperazione economica della Federazione Russa con i Paesi africani. Dunque, non appena saranno rimosse le restrizioni legate al coronavirus, sono sicuro che tutti questi progetti saranno realizzati con più entusiasmo che mai. Per adesso continuiamo a lavorare da remoto.

— Abbiamo parlato di USA e di Europa. Veniamo ora al mondo arabo. Non posso non partire dalla questione siriana. Che voto darebbe al Ceasar Act statunitense che ha interessato non solo la Siria ma anche i più prossimi partner di Damasco? Quali nuove soluzioni possono essere implementate per migliorare la situazione umanitaria del Paese in relazione anche alle difficili condizioni economiche?

— Il piano Ceasar Act prevede in sostanza l’introduzione di sanzioni considerate uno strumento per inibire la leadership della Repubblica araba siriana. In realtà queste sanzioni, così come i precedenti pacchetti di sanzioni, partono da USA, UE e diversi altri alleati statunitensi e colpiscono chiaramente i comuni cittadini siriani. Proprio ieri a New York il Consiglio di sicurezza ha discusso di come migliorare la situazione umanitaria in Siria e i nostri colleghi occidentali hanno insistito in maniera estremamente compiaciuta di essere nel giusto dichiarando che le sanzioni servono esclusivamente a limitare l’operato di funzionari e rappresentanti di quello che loro definiscono “regime” e che i comuni cittadini non ne soffrono perché le sanzioni non sono comminate su materiale umanitario quale i farmaci, il cibo e altri generi di prima necessità.

Attacco aereo della coalizione in Siria (foto d'archivio)
© AFP 2020 / ARIS MESSINIS

Tuttavia, sono menzogne perché nessuna spedizione di questi prodotti viene inviata in Siria da questi Paesi, ad eccezione di piccoli lotti. La Siria tratta principalmente con Russia, Iran, Cina, alcuni Paesi arabi e altri Paesi che comprendono quanto sia fondamentale superare la presente situazione di difficoltà e ripristinare le relazioni con la Repubblica araba siriana. Sempre più Paesi, anche del Golfo Persico, stanno decidendo di riavviare l’attività diplomatica in Siria e sempre più Paesi comprendono che è inaccettabile in ottica di diritti umani continuare con queste sanzioni.

Le sanzioni sono state annunciate in via unilaterale e sono illegittime. Proprio ieri o l’altroieri il segretario generale dell’ONU António Guterres ha rinnovato a questi Paesi che hanno annunciato sanzioni in via unilaterale contro uno determinato Paese in via di sviluppo il proprio invito (che già aveva espresso 6 mesi fa) a interrompere le sanzioni almeno durante l’emergenza sanitaria. L’Occidente rimane cieco di fronte a queste esortazioni sebbene la stragrande maggioranza dei Paesi membri dell’ONU abbia supportato questi inviti. Cercheremo di trattare ulteriormente questo tema. All’ONU si approvano speciali risoluzioni che dichiarano le sanzioni unilaterali illegittime e si conferma che solo le sanzioni in linea con il Consiglio di sicurezza debbono essere seguite poiché costituiscono l’unico strumento legale fondato sul diritto internazionale. Nel complesso sulla regolamentazione della questione siriana stiamo lavorando attivamente nell’ambito del “formato di Astana” con i partner turchi e iraniani. Di recente con il primo ministro russo Yury Borisov ci siamo recati in visita a Damasco. Il presidente Assad e i suoi ministri ci hanno confermato il loro impegno a mantenere quegli impegni che sono stati raggiunti tra governo e opposizione ad Astana.

A Ginevra è ripreso il lavoro del comitato costituzionale, si è tenuta la seduta della commissione redazionale. Le parti stanno giungendo a un accordo di intenti sul futuro della Siria: questo garantirà di avviare il lavoro per la riforma della Costituzione. Si restringe gradualmente lo spazio controllato dai terroristi: oramai è limitato alla zona di de-escalation di Idlib. In fase di graduale implementazione, anche se non tanto rapidamente quanto previsto, sono gli accordi russo-turchi in merito alla necessità di distinguere i comuni oppositori aperti al dialogo con il governo dai terroristi ritenuti tali dal Consiglio di sicurezza. Ma i nostri colleghi turchi si sono impegnati e noi collaboriamo con loro.

Preoccupa la situazione sulla sponda orientale dell’Eufrate dove sono dislocati in maniera illecita dei soldati americani i quali fomentano le tendenze separatiste dei turchi contenendo invece la naturale predisposizione dei curdi di dialogare con il governo. E chiaramente questo preoccupa sia in ottica di integrità territoriale della Repubblica araba siriana sia per la rischiosità che le azioni degli USA rappresentano in relazione alla questione curda. Come sapete, la questione è all’ordine del giorno non solo per la Siria, ma anche per Iran, Iraq, Turchia. Dunque, è un tema delicato per l’intera regione.

Gli americani sono abituati a ricorrere a questi espedienti per creare il caos che, sperano, si riuscirà a gestire. Loro non se ne interessano, ma le conseguenze per la regione possono essere catastrofiche se continuano a promuovere queste idee separatiste. Nell’ultimo periodo hanno annunciato alcune decisioni prese da questo gruppo illegittimo americano dislocato nella Siria orientale: il gruppo avrebbe siglato con i dirigenti curdi un accordo che consente a una società petrolifera americana di estrarre idrocarburi dal territorio della sovrana nazione siriana. Si tratta di una gravissima violazione di tutti i principi di diritto internazionale. Pertanto, i problemi nella Repubblica araba siriana sono davvero tanti.

Tuttavia, la situazione è stata significativamente normalizzata rispetto a qualche anno fa e l’operato del formato di Astana e le nostre iniziative hanno ovviamente svolto un ruolo decisivo. All’ordine del giorno ora vi sono la risoluzione dei cogenti problemi umanitari e la ripresa delle attività economiche interrotte per via della guerra. In queste direzioni ci impegneremo per mantenere il dialogo con gli altri Paesi, fra cui Cina, Iran e India. Crediamo sia importante coinvolgere organizzazioni ed enti dell’ONU agli eventi finalizzati a smobilitare in un primo luogo gli aiuti umanitari per la Siria e in seconda battuta aiuti internazionali per il risanamento di economia e infrastrutture. Il lavoro da fare non è poco, ma almeno ora sappiamo in che direzione muoverci.

Intervista del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ai corrispondenti di Sputnik
© SPUTNIK . ALEKSEY KUDENKO
Intervista del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ai corrispondenti di Sputnik

— L’ambasciata russa in Libia ha ripreso a operare poche settimane fa. Questa rappresentanza potrebbe diventare in qualche modo una piattaforma di dialogo tra l’Esercito nazionale libico e il governo di accordo nazionale?

— La nostra ambasciata continua come prima a lavorare dalla Tunisia. A Tripoli la nostra ambasciata tornerà, spero, presto, non appena ci garantiranno un grado basilare di sicurezza. Nella città vi è una serie di ambasciate che continua a operare come prima, ma la sicurezza lì è molto instabile, pertanto è stato deciso che i nostri diplomatici per ora lavoreranno dalla Tunisia. In merito alla intermediazione tra l’Esercito nazionale libico e il governo di accordo nazionale come primo avamposto in Libia l’ambasciata intrattiene chiaramente contatti con tutte le parti libiche.

La questione qui è però ben più ampia e di gettare ponti tra parti in conflitto se ne occupa attivamente Mosca. I Ministeri di Esteri e Difesa stanno tentando di far convergere gli sforzi per trovare soluzioni di compromesso che consentano di risolvere la crisi libica. Non è un lavoro facile. Ricordo che tutti i problemi della Libia di oggi cominciarono nel 2011 quando la NATO, nonostante quanto disposto dal Consiglio di sicurezza dell’ONU, commise una gravissima violazione della risoluzione ONU e attaccò militarmente la Libia per deporre il regime di Gheddafi. Quest’ultimo fu macabramente ucciso sotto gli applausi di approvazione dell’allora segretario di Stato Hillary Clinton, scena che fu trasmessa in diretta. Fu terribile.

Da allora noi, ossia chiunque voglia ripristinare ciò che è stato distrutto dalla NATO, stiamo tentando di rendere possibile l’attuazione di un qualche processo internazionale. I tentativi sono già stati diversi: si sono tenute conferenze a Parigi, Palermo e Abu Dhabi; è stato siglato l’accordo di Skhirat nel 2015, ecc. nel corso di un lungo periodo la maggior parte dei player esterni hanno puntato a collaborare con una delle forze politiche su cui avevano puntato. Noi sin dall’inizio abbiamo rifiutato questo approccio e, considerati i nostri contatti preesistenti e le relazioni di lunga data, abbiamo iniziato a collaborare con tutti senza distinzione di colore politico sia a Tripoli (dove si trova il Consiglio presidenziale e il Governo di accordo nazionale) sia a Tobruk (dove sono siti il parlamento e il Palazzo dei rappresentanti).

Più volte tutti i leader dei vari gruppi si sono recati in visita in Russia. Abbiamo tentato anche di organizzare incontri privati tra il comandante dell’Esercito nazionale libico Haftar e il capo del governo di accordo nazionale Sarraj. Sono stati a Mosca a inizio di quest’anno prima della Conferenza di Berlino. In gran parte grazie a questi sforzi che abbiamo profuso insieme ai colleghi turchi, egiziani ed emiratini siamo riusciti ad avanzare proposte che hanno determinato il successo della Conferenza di Berlino. Il cui esito è stata l’adozione di un’importante dichiarazione in seguito approvata dal Consiglio di sicurezza dell’ONU. Purtroppo, in questa fase è stata prestata poca attenzione al fatto che le idee proposte dalla comunità internazionale venissero approvate dalle parti libiche.

La crisi in Libia
© SPUTNIK . ANDREY STENIN

Alcuni nostri partner sono partiti dal presupposto che, non appena la comunità internazionale avesse preso una qualche decisione, sarebbe poi rimasto solo da convincere i player interni alla Libia per trovare un accordo. Oggi capiamo che avevamo ragione quando rifiutavamo questo approccio perché è risultato che questi accordi adottati a Berlino non sono stati pienamente elaborati dalle parti libiche. In sostanza, Berlino ha creato una buona base, ma ora bisogna rifinire i dettagli. E in tal senso vi sono diverse opportunità positive: il capo del parlamento di Tobruk, il signore Saleh, e il presidente del governo di accordo nazionale Saraj sono a favore del cessate il fuoco, della pace duratura e della ripresa dei lavori nel formato 5+5 che consente la risoluzione delle questioni di carattere militare e la ripresa dei negoziati sugli affari economici, anzitutto in merito alla risoluzione equa dello sfruttamento delle risorse naturali libiche. Una importante iniziativa è stata proposta da Saleh: il suo intento è far sì che vengano considerati gli interessi non solo di Tripolitania e Cirenaica, ma anche del Fezzan, l’area meridionale della Libia che non è stata spesso menzionata nelle precedenti discussioni.

Pertanto, ci sono già idee sul tavolo che devono essere validate mediante il confronto tra le parti. Una certa importanza l’ha rivestita l’incontro convocato in Marocco tra le parti libiche coinvolte. Adesso con i nostri colleghi siamo continuando a contribuire a questi sforzi congiunti. Pochi giorni fa ad Anakra si sono tenute le consultazioni con i nostri colleghi turchi. Continuiamo a sforzarci in questo senso, parliamo con Egitto e Marocco. Contatto per telefono i miei colleghi marocchino ed egiziano. Di recente ho parlato anche con il ministro italiano degli Esteri il quale per evidenti ragioni è altamente interessato a contribuire alla risoluzione della questione libica. A mio avviso, al momento si sono venute a creare condizioni favorevoli, cercheremo di sostenere questo processo virtuoso e di dare il nostro contributo.

Riteniamo di fondamentale importanza porre fine il prima possibile alla pausa che dura da più di 6 mesi con la nomina di un rappresentante speciale del segretario generale dell’ONU per la questione libica. Il rappresentante precedente a febbraio è andato in pensione e da allora António Guterres non è riuscito per qualche motivo a risolvere la questione della nomina del successore. Vi è motivo di credere che alcuni Paesi occidentali stiano tentando di favorire i propri candidati, ma la nostra posizione è molto semplice: è necessario che il rappresentante venga concordato in linea con l’Unione africana. È una cosa evidente: la Libia è un membro attivo dell’Unione africana e quest’ultima vuole contribuire alla risoluzione del problema. Ho descritto in maniera diffusa la situazione. Vi è comunque modo di essere cautamente ottimisti.

REFERENDUM E RAPPRESENTANZA, di Teodoro Klitsche de la Grange

REFERENDUM E RAPPRESENTANZA

Il dibattito sul referendum d’approvazione del taglio del numero dei parlamentari mi ha indotto a pubblicare nuovamente un mio lungo articolo sulla rappresentanza politica, apparso nel 1984 su “IlConsiglio di Stato”.

In effetti il dibattito attuale, complici anche alcune (meno recenti) affermazioni degli esponenti dei “5 Stelle” sulla sostituzione della democrazia rappresentativa con quella diretta (grazie alla rete) ha riportato l’attenzione e la polemica sulla funzione e il carattere della rappresentanza politica, come sul vario significato attribuito al termine – a seconda non solo delle convinzioni oggettive, ma dell’angolo visuale e dal campo da cui (e in cui) lo si esamina.

È stato ripetutamente affermato ad esempio che la riduzione del numero dei parlamentari ridimensiona la rappresentanza (meglio sarebbe dire che rende più difficile la rappresentatività).

Ma, dato che rappresentante politico può essere anche un organo monocratico (il Re o il Presidente della Repubblica), e che il carattere rappresentativo dei Capi di Stato è riconosciuto dalla dottrina e – esplicitamente – dalle costituzioni degli Stati, in particolare borghesi (v. articolo) non si capisce come ridurre il numero dei parlamentari possa ridimensionare la rappresentanza politica. La quale nella sua (prima) formulazione moderna – che è di Thomas Hobbes – si riferisce (anche se non esclusivamente) proprio al monarca, cioè a un organo monocratico.

È vero che meno sono i rappresentanti nelle assemblee, più difficile garantire non la rappresentanza ma la rappresentatività cioè in qualche modo, la “carta geografica” di Mirabeau. Ma è arduo affermare che una riduzione di un terzo possa compromettere la rappresentatività: in fondo ci sono grandi Stati – gli USA in primo luogo, che hanno meno di seicento parlamentari per trecento milioni di abitanti, e non sembra che la capacità decisionale e l’influenza del Congresso ne risenta.

Altro argomento è che, riducendone il numero, lavorerebbero meglio (o peggio a seconda dei punti di vista). Pare anche in tal caso difficile sostenere che un taglio così limitato possa compromettere la “capacità di lavorare”. Forse se la qualità dei rappresentanti migliorasse, quella ne risentirebbe in positivo. Resta comunque plausibile l’argomento contrario – alle origini poi della rappresentanza politica moderna che proprio la limitazione del numero era un vantaggio per deliberare. Onde un grande Stato non si poteva governare se non mediante organi rappresentativi. E così via, non considerando che la rappresentanza è un principio di forma politica, la cui funzione è di dar capacità d’esistenza e azione alla comunità e all’istituzione in cui s’organizza.

Rispetto alla quale tutto il dibattere sulla riduzione appare come un’ “arma di distrazione di massa”: si dibatte su un problema piccolo piccolo e si evita di risolvere – e perfino di porre quelli grandi e decisivi. Per cui non vale la pena di rinunciare ad una scampagnata, e non solo per paura del Covid.

Teodoro Klitsche de la Grange

Note sulla rappresentanza politica

MEGLIO GLI EUROCATTIVI, di Teodoro Klitsche de la Grange

MEGLIO GLI EUROCATTIVI

È confermativa dell’andazzo (e delle “costanti”) del governo giallorosso e della sua componente piddina ciò che la stampa ha riportato come affermato da Gentiloni (e confermato da Conte), che la U.E. non gradisce che gli aiuti europei del c.d. “recovery fund” vadano in riduzioni fiscali. Lo è per due motivi principali: il primo è che Gentiloni è esponente di un partito il quale, da sempre, ha come programma elettorale credere, obbedire (ma soprattutto) pagare e ciò (anche e soprattutto) allo scopo di accrescere il potere di chi poi dovrà spendere quei quattrini.

La seconda, a sentire questi statolatri (non solo piddini, dato che – tra i tanti – lo disse, rapito, Padoa Schioppa “pagare le tasse è bellissimo”) perché gli aiuti dell’U.E. saranno usati per le cause più condivise e commoventi: per far del bene, perché il modello di società fiscobulimica è il migliore dei mondi possibili, i tecnici (o simili) sanno più del popolo, per realizzare la “giustizia sociale” (quale?) e via affabulando.

Senza chiarire perché – negli ultimi venticinque anni – alla stagnazione dell’economia italiana sia corrisposto un aumento della pressione fiscale. Per cui la percezione del volgo ignorante è che stagnazione e tassazione sono due gemelli siamesi: non possono vivere lontani.

La spiegazione che sempre più, anche il popolo, tende a darne è che da decenni gli statolatri non abbiano in testa un modello produttivo, bensì un modello distributivo. e che questo sia in funzione degli interessi di chi governa. Il quale ha il vantaggio di distribuire le carte (bonus, esenzioni, agevolazioni, ecc.) in funzione del proprio interesse di governante: durare. O andreottianamente tirare a campare.

Ma c’è un terzo motivo, meno evidente, delle parole di Gentiloni: che tutte le élite decadenti – e quella cui appartiene Gentiloni lo è da decenni – tendono a celarsi dietro un entità “terza” o anche “neutra”. In particolare, in questo frangente, la U.E. Quante volte abbiamo ascoltato il grave e solenne richiamo “ce lo chiede l’Europa?”. E invece, più che l’Europa, ce lo impongono le élite burocratico-governative nostrane. Un caso eclatante, tra i tanti, fu il chiarimento di Bolkestein, il quale, giustamente, alcuni anni fa fece notare (ma fu subito dimenticato) come la normativa che aveva generato in Italia tante agitazioni non c’era nella direttiva europea la quale dallo stesso prendeva il nome, ma era stata introdotta nella “attuazione” nazionale da qualche misteriosa “manina” ministeriale.

E questa volta un aiuto ce lo può dare (perfino) sua cattiveria la signora Merkel. All’inizio di luglio Frau Merkel disse che tra le misure per la ripresa tedesca dopo il Covid, avrebbe ridotto temporaneamente di tre punti l’IVA tedesca, la quale è già di tre punti inferiore a quella italiana. Così che per circa un anno i tedeschi pagheranno sei punti di imposta in meno degli italiani: uno stimolo enorme all’aumento della domanda interna, crollata – con la produzione – a seguito del lock down. A fronte del quale green economy, monopattini e bici elettriche fanno sorridere.

E che somiglia, anche se più “avanzata” alla proposta di tregua fiscale fatta, al momento, più di rinvii di scadenze che di riduzioni d’imposte, caldeggiata dai capi dell’opposizione di centrodestra, i cattivissimi Salvini, Meloni e Berlusconi. I quali così sono dei merkeliani nei fatti, almeno quanto gli statolatri nostrani dicono di esserlo a parole.

Gli è che, a guardare i comportamenti, i cattivissimi governanti europei da Juncker alla Merkel (ed altri) hanno badato sempre agli interessi dei loro paesi (e cittadini): sono stati i mediocri governanti nostrani, soprattutto quelli della seconda repubblica, a non sapere e voler fare i nostri, perché troppo indaffarati a curare i propri.

Teodoro Klitsche de la Grange

Eisenhower e il maccartismo, di George Friedman

A proposito di guerre intestine americane_Giuseppe Germinario

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Cosa stiamo leggendo: Eisenhower e il maccartismo

La vera pace non arriverà in Medio Oriente finché i pacificatori trascureranno questo problema.

Di: George Friedman

Ike: un eroe americano
Di Michael Korda

Il libro di Michael Korda è un eccellente studio di Dwight D. Eisenhower, sia come persona che come comandante supremo alleato della guerra contro la Germania, nonché del processo attraverso il quale divenne presidente. Avendo letto molto su Eisenhower, normalmente avrei poche novità da dire. Ma qualcosa mi ha veramente colpito in questo libro: l’affermazione che questo particolare eroe di guerra e forza politica fosse un devoto comunista.

L’accusa proveniva dalla fazione maccartista dei repubblicani che ha sostenuto Robert Taft per la nomina del loro partito. Volevano distruggere la reputazione di Ike. Nel 1952, Joseph McCarthy era una figura significativa nella politica e nella società americana. Ha terrorizzato tutte le aree della vita americana, distruggendo le vite dei cittadini e dei nemici politici allo stesso modo per migliorare la posizione politica della sua fazione. Era guidato dalla creazione di un sistema in base al quale chiunque poteva essere identificato come comunista. La paura di McCarthy significava la disponibilità a sottomettersi alla sua fazione.

Essere comunista nel 1952 era problematico, ovviamente. Un membro del Partito Comunista per definizione ha sostenuto il movimento comunista internazionale guidato dall’Unione Sovietica. Il capo dell’Unione Sovietica era un assassino di massa. Proprio come qualcuno guarderebbe un nazista americano con disgusto, guarderebbe un comunista allo stesso modo.

Ma McCarthy e i suoi seguaci non si sono concentrati sui membri dei partiti comunisti. Si sono concentrati sui comunisti chiaramente troppo intelligenti per essere membri. Eisenhower stava correndo contro Taft, e McCarthy non lo voleva. Credeva che dimostrare che Eisenhower era comunista lo avrebbe fermato. La prova, ovviamente, era sempre indiretta. In questo caso, era un’immagine di Ike che stringeva la mano al maresciallo sovietico Georgy Zhukov in una riunione tenuta poco dopo la resa tedesca. La cordiale stretta di mano indicava chiaramente amicizia. E poiché George Marshall, capo di stato maggiore dell’esercito, ha autorizzato l’incontro, chiaramente era lui stesso un comunista, ed entrambi erano conniventi per consegnare Berlino a Stalin.

Non ha funzionato contro Ike, ma ha funzionato contro tanti altri, ponendo fine alle carriere di persone così varie come gli scienziati e l’élite di Hollywood. (Oggi li chiameremmo “cancellati”.) C’erano, in effetti, agenti comunisti negli Stati Uniti, ma l’equipaggio di McCarthy non se ne preoccupava. McCarthy si preoccupava di spaventare i deboli e i potenti con la capacità di accusare, e quindi di condannare i cittadini per una parola pronunciata in un modo che fosse in sintonia con il comunismo. Sono stati accusati di qualcosa di cui pochi erano colpevoli e l’accusa è stata sufficiente per distruggerli. Ci è voluto un idiota per credere che Eisenhower fosse un comunista, ma ci sono voluti leader spietati e spietati per usare quegli idioti.

C’è una tradizione di evitamento che fa parte della storia americana. Diverse sette religiose evitavano o punivano coloro che avevano violato le loro regole. Nathaniel Hawthorne ne ha scritto magnificamente. È un passatempo americano, condiviso da tutte le convinzioni politiche e religiose, praticato anche da chi scenderà dal palco.

Predatori, sciacalli e saltimbanchi. Tre ritratti di famiglia, di Giuseppe Germinario

L’incalzante accelerazione delle dinamiche politiche sta scompaginando gli equilibri esterni tra le formazioni statuali e la coesione e il dinamismo stessi delle formazioni sociali; a prescindere dal loro esito metterà sempre più a nudo profilo e peculiarità delle classi dirigenti e delle élites. Viste le diverse loro dinamiche quelli positivi si potranno apprezzare ed individuare soprattutto nel tempo. I negativi, specie i più spregevoli, non richiedono l’attesa paziente; emergono in tempo reale, spontaneamente. Bolle d’aria tanto leggere ed effimere nell’aspetto, tanto leste a spargere la flatulenza a contatto con l’atmosfera. Nel presente immediato e fuggevole del nostro paese tornano in auge le figure delle iene ovvero, nello scalino inferiore della gerarchia, dello sciacallo e quella del funambolo. Tra i primi si vedono al momento primeggiare addirittura due famiglie storiche del paesaggio politico-economico della nazione, anche se il gruppo sarà sciaguratamente destinato ad infoltirsi appena emergerà la spessa coltre di polvere nascosta sotto i tappeti dei vari comitati di esperti e d’emergenza da covid. Dei primi si fatica, purtroppo, ad individuare la pressoché unica loro funzione positiva nel ciclo vitale: la detersione dell’ambiente dalle carogne e dai resti putrefatti. Del secondo si resta abbagliati dalla capacità di sopravvivenza alle giravolte le più disinvolte ed improbabili; circonvoluzioni la cui abilità risulta tanto difficile da valutare vista la nostra scarsa conoscenza dei suoi effettivi strumenti di lavoro e del suo ambiente operativo, non si sa se dotato quest’ultimo di forza di gravità naturalmente significativa o di vuoto cosmico, quanto indispensabile da soppesare per qualificare il nostro un funambolo o un saltimbanco.

Si sta parlando, pare ovvio, delle famiglie Agnelli e Benetton da una parte e di Giuseppi Conte dall’altra.

Ora una breve disamina delle due tipologie:

PREDATORI PARASSITI

la similarità della funzione attualmente svolta dalle due famiglie imprenditoriali non deve indurre ad una eccessiva omologazione di giudizio.

Intanto rimane la diversità di lignaggio. Degli Agnelli il retaggio delle generazioni non si perde certo nei millenni, ma ha raggiunto comunque una consistenza secolare sufficiente a far appannare il ricordo e le tracce del peccato originale dal quale spesso e volentieri nascono le fortune degli aristocratici. Quello dei Benetton risale appena agli anni ‘60.

I primi, ormai alla quarta generazione, grazie a sapienti combinazioni matrimoniali, riescono ad intravedere l’olimpo della finanza internazionale e ad occupare qualche posticino d’ascolto nei salotti buoni europei e newyorchesi; i secondi hanno gestito le proprie senza allargare significativamente gli orizzonti e i connubi se non per gustare il piacere un po’ grezzo del possidente nei grandi spazi della Pampa in particolare.

I primi hanno coltivato le proprie virtù imprenditoriali nella meccanica, un settore maturo ma di tutto rispetto, pur con qualche addentellato, per lo più con licenza per conto terzi, in alcuni settori strategici; cosa che ha loro consentito, grazie alla fedeltà atlantica in tempi non sospetti, qualche impertinenza come la produzione dei G91 con motori inglesi, non ostante la contrarietà americana e qualche balzo oltre la cortina di ferro.

I secondi hanno fondato la propria fortuna sul tessile, un settore non proprio di punta nel XX secolo.

I primi, grazie anche alle discrete benemerenze acquisite durante l’ultima guerra, hanno saputo mettere bene a frutto le connessioni d’oltreoceano e coltivare l’arte delle connivenze e delle influenze nei più diversi apparati dello Stato, compresi quelli militari e dell’ordine pubblico; i secondi hanno coltivato la stessa ambizione, ma a quanto pare non sono riusciti ad andare molto oltre le collusioni con i settori amministrativi e di controllo strettamente inerenti le loro attività.

Gli Agnelli_Elkann hanno mantenuto con pervicacia il loro core-businness manifatturiero e ormai prevalentemente finanziario, a partire dalla scellerata gestione Romiti, relativamente autonomo dalle concessioni pubbliche. Si sono altresì rivelati diabolicamente abili nel calibrare quantità e qualità delle ricorrenti richieste di interventi pubblici: con gli attori politici di prima grandezza, nella fattispecie lo stato federale statunitente, hanno venduto la propria sopravvivenza con un ingente prestito pubblico restituito perfettamente nei tempi previsti in cambio della fusione con la Chrysler, un azienda ancora più agonizzante della FIAT, al prezzo della generosa cessione della propria tecnologia motoristica e di automazione industriale a quell’epoca ancora valide e del pagamento di lauti interessi sulle relative obbligazioni, talmente alti da compromettere le future possibilità di investimento in ricerca del gruppo. Il prezzo, evidentemente, per poter essere accolti anche formalmente al di là dell’Atlantico. Con gli attori politici di terza fila, in particolare lo Stato della natìa Italia, hanno saputo sfruttare la cieca prodigalità dei contribuenti e la benevolenza delle politiche infrastrutturali e normative, si badi bene, non per sviluppare l’Azienda e mantenerne il cuore e il cervello in Italia, ma per dilazionare tra gli osanna i tempi del drammatico ridimensionamento produttivo. Un miracolo di prestidigitazione assecondato dalla arrendevole suggestionabilità degli astanti. Una cecità cronica ed inguaribile di questi ultimi che ha impedito di cogliere i numerosi segnali legati al trasferimento dei centri decisionali e delle tecnologie, alla cessione, in esatta concomitanza delle mirabilie sul futuro dell’auto a trazione elettrica, della Magneti Marelli e probabilmente di COMAU sino al capolavoro odierno della concessione della garanzia pubblica sui prestiti appena una settimana prima della cancellazione di tutti gli ordini di componentistica dalle aziende italiane. Il segnale che l’accordo con il gruppo PSA non è altro che la cessione di un fardello in cambio del salvataggio della componentistica francese ai danni di quella italiana, attualmente più sviluppata ma meno tutelata politicamente. Almeno nel settore auto la famiglia pare destinata, a meno di sussulti, ad assumere il ruolo di controfigura buona ad introitare i finanziamenti a scatola chiusa degli stati più “distratti”. È la loro particolare visione e funzione della difesa degli interessi nazionali.

I Benetton non dispongono di una visuale così ampia e articolata. Nel giro di pochi mesi si sono visti offrire, senza competitori reali, la gestione della rete autostradale approfittando del disastro gestionale dell’ANAS, delle condizioni capestro a carico del cedente del contratto di concessione e dello smantellamento e della colpevole inefficienza dell’apparato di controllo per succhiare rendite da capogiro da ripartire tra alleati potenti a spese della corretta gestione e della sicurezza della rete. Il tessile e abbigliamento, a queste condizioni passano in secondo piano e con essi gran parte della rete di produttori e lavoratori nazionali sui quali avevano costruito credito, rispetto e prestigio in terra veneta.

Anche nel campo politico-culturale le due lasciano una impronta diversa, anche se ormai sempre più sbiadita. I primi hanno saputo promuovere ed alimentare alla bisogna gli orientamenti più diversi ed antitetici, spaziando da destra a sinistra. Hanno saputo accattivarsi e pugnalare i sindacati; hanno alimentato e fruito delle ideologie e delle correnti culturali più libertarie, come di quelle conservatrici e di quelle più retrive. Ne hanno curato in maniera certosina anche i risvolti editoriali. I Benetton no, sono rimasti molto più legati ad un particolare canovaccio fatto di un cosmopolitismo multicolore di una varietà pari a quella delle tonalità dei loro tessuti, ma tanto inconsistente culturalmente, quanto protervo nei fatti e nelle persone portatrici del loro messaggio; esaurito il quale non possono che mostrare nuda e cruda la loro protervia ed insensibilità. Lo si è visto anche nella mancata minimale di accortezza, quando hanno dovuto affidarsi a nuovi consulenti specializzati per riuscire a porre decentemente, anche se con colpevole ritardo, le opportune ed appropriate condoglianze alle vittime del crollo del ponte di Genova. Hanno dimenticato l’umanità dell’antica civiltà contadina, ma ne hanno conservato la rozzezza e la grettezza.

Le “sardine” potrebbero essere considerate il loro prodotto culturale conclusivo, sempre che riescano a durare più di un loro manifesto pubblicitario.

In un aspetto cruciale i primi si sono rivelati meno adeguati e più disarmati dei secondi: nella regolazione riservata delle proprie controversie familiari e in almeno un caso delle proprie tragedie personali. Segno dell’allentamento inesorabile del legame patriarcale.

Due famiglie che hanno avuto una iniziale funzione propulsiva, pur se accuratamente incanalata, ma che hanno inibito e poi apertamente contrastato il salto necessario al paese a partire dagli anni ‘70. La crescita delle dimensioni aziendali assimila sempre più l’attività imprenditoriale ad un gioco di strategia politica. La loro mutazione è stato lo specchio dell’involuzione del nostro paese.

Non sono gli unici responsabili di questa situazione e, probabilmente, nemmeno ormai i più determinanti. Fanno parte però a pieno e diverso titolo di quella classe dirigente e di quei centri di potere.

IL FUNAMBOLO

Occorre a questo punto qualche chiarimento su questa insolita associazione tra predatori_parassiti e giocolieri. L’evoluzione subita dalle due famiglie imprenditoriali rappresenta il classico esempio di come l’impoverimento progressivo e traumatico di una classe dirigente e di un ceto politico sufficientemente ambizioso, capace e sagace riesca a trasformare la natura e l’indole degli attori geoeconomici e politici. Le condizioni oggettive sono state certamente sfavorevoli, a cominciare dalla disastrosa gestione delle partecipazioni statali e dal contesto geopolitico sconvolto dall’implosione del blocco sovietico. A questo purtroppo ha corrisposto un ceto politico tanto furbo, quanto malaccorto e inadeguato da cadere senza resistenza ai richiami delle magnifiche sorti e progressive del globalismo senza stati e da darsi prontamente una giustificazione morale sufficiente ad accogliere i benefici personali connessi a quelle modalità di apertura.

Giuseppe Conte è un epigono di questa progenie con alcune peculiarità destinate a garantirgli probabilmente una sopravvivenza, non necessariamente sullo stesso scranno, più longeva rispetto alle tante meteore che si sono avvicendate negli ultimissimi anni.

Ha rivelato doti di furbizia e circospezione inediti tra le fila degli ultimi arrivati sul proscenio politico, merito senza dubbio delle sue frequentazioni curiali d’oltretevere; uno dei pochissimi ad evitare l’ostensione compiaciuta dei suoi pellegrinaggi negli Stati Uniti. Sarà per le mancate risposte che deve ancora sulle complicità italiane nella costruzione del Russiagate; sarà per l’incertezza sull’esito di uno scontro politico così cruento in quel di Washington; sarà soprattutto perché in quanto pupillo della Segreteria Vaticana, piuttosto che dei Boyscouts, non sente il bisogno e la necessità di investiture pubbliche, sta di fatto che è riuscito a costruirsi una immagine propria.

Ha rivelato doti di equilibrio e di adattamento miracolose. Più che di Giuseppe, tanti Giuseppi capaci ognuno di cogliere l’attimo per apparire e proferire secondo l’esigenza del momento, glissando sulle posizioni dei Giuseppi precedenti; tutti concordi però sullo speranzoso “andrà tutto bene”. Ha certo potuto contare sulla smemoratezza e accondiscendenza del sistema mediatico; ha potuto fondare la propria autonomia apparente e la propria funzione di contrappeso sul precario equilibrio di partiti ancora poco predisposti ad una alleanza e a schieramenti più definiti. Ha messo a frutto la posizione di commis di seconda fila; il serbatoio da cui di solito attingono forze politiche emergenti prive di personale all’altezza degli incarichi da occupare. Riesce a rosicchiare brillantemente e ricorrentemente nuovo tempo contrabbandando l’opportunità e l’utilità immediata di scelte strategiche disastrose per l’Italia. Non ha ancora superato due limiti comportamentali che gli impediscono di raggiungere definitivamente la postura se non la sostanza dell’uomo di stato; manchevolezze che potrebbero farlo scivolare sulla classica buccia di banana: la sua insopprimibile indole levantina e curiale a confortare ostentatamente con una pacca sulle spalle la vittima designata e ad affettare eccessivamente le proprie giustificazioni e coerenze di comportamento. L’antitesi di un ex-emergente ormai in ombra:Matteo Renzi.

Occorre scavare un po’ più a fondo per cogliere qualche tratto più netto della condotta di Giuseppe Conte e intravedere un possibile punto di arrivo. Una cartina di tornasole potrebbero essere i suoi legami con Angela Merkel e soprattutto Emmanuel Macron.

http://italiaeilmondo.com/2020/06/02/attenti-a-quei-due-di-giuseppe-germinario/

https://italiaeilmondo.com/2017/01/22/203/

Sulla Unione Europea Conte può giocarsi probabilmente le carte migliori. Le risorse del MES e soprattutto del Recovery Fund sono per il paese una trappola a medio termine in cambio di ossigeno nell’immediato, sempre che queste siano disponibili in tempi e nella consistenza ragionevoli. Sono una trappola perché condizioneranno e costringeranno il paese in una logica di degrado, squilibrio e dipendenza irreversibile per tre ordini di motivi: per la logica interna alle modalità di utilizzo dei fondi strutturali, per la dipendenza dai circuiti finanziari interni e l’isolamento politico dell’Italia in Europa, per la mancanza di risorse finanziarie aggiuntive, di una classe dirigente sufficientemente ambiziosa e di un apparato tecnico-amministrativo in grado di contrastare queste dinamiche in ambito comunitario e di condurre una politica di potenza e di forte coesione interna in senso lato in grado di ribaltare gli equilibri almeno europei. È probabile che quest’ultimo fattore spinga per inerzia il Governo nel tradizionale utilizzo delle risorse scivolando in una logica consolidata di spesa assistenziale e di investimenti dispersivi e casuali incapaci di modificare positivamente la struttura socio-economica del paese; renderebbero così superfluo e libererebbero dalla seccatura di una imposizione esplicita di un intervento autoritativo dei paesi egemoni per il tramite della UE. Le prime indicazioni confermano questa dinamica consolidata fatta di interventi neutri sulle infrastrutture, di incentivi generici alle aziende e di investimenti sulla ricerca sganciati dal consolidamento e dalla creazione di piattaforme industriali autoctone. La retorica sulla istruzione e sulla ricerca come volano autoreferenziale, sulla messa in sicurezza di un territorio in realtà ingestibile a costi ragionevoli se non ripopolato di gente e di attività, sull’economia verde e sulla stessa digitalizzazione priva del controllo dei dati e dei processi di comando diventano così il cappello ideologico e la cortina fumogena di un declino assolutamente infelice e malinconico che consentiranno comunque la sopravvivenza di una élite così miserabile. Nel Mediterraneo la posizione dell’Italia rischia invece di precipitare in tempi drammaticamente ravvicinati. La politica elusiva di Conte soprattutto in Libia ha rafforzato altri interlocutori ben più determinati a cogliere gli spazi offerti dal multipolarismo e dalla rinuncia e dalla delega offerta dagli Stati Uniti di Trump. L’Italia ha già perso con l’affossamento del South-Stream, grazie anche all’atlantismo peloso della Germania la quale in nome delle sanzioni contro la Russia e della fedeltà alle direttive americane sta rischiando di acquisire il controllo della rete dei metanodotti europei. L’estromissione dal TAP e dai giacimenti del Mediterraneo rischiano di stringere definitivamente il cerchio e con questo compromettere l’esistenza stessa dell’ENI e un minimo di autonomia delle forniture energetiche e di presenza geopolitica nel Mediterraneo. Nella stessa logistica interna, legata all’intermodalità dei porti e della rete stradale e ferroviaria, tutta la retorica progressista dell’Italia come hub europeo rischia di liquefarsi di fronte all’asse tedesco e sino-turco teso ad occupare i nodi nevralgici della rete italiana. La combinazione dell’eventuale assenza delle risorse europee e della precipitazione della crisi nel Mediterraneo sono i fattori che rischiano di far naufragare la proficua tattica dilatoria di Conte & Company fondata sull’emergenza sanitaria e sulla fratellanza europea. Un emergenzialismo sfruttato più per garantire la sopravvivenza di una élite e di un ceto arroccato che a perseguire un disegno totalitario ed autoritario fuori dalla portata di questi centri di potere. Nel qual caso Giuseppi da funambolo si rivelerebbe saltimbanco ed andrebbe ad infoltire la ormai fitta schiera di leader politici italiani improvvisati emersi e naufragati nel breve volger di un mattino. Già la gestione del cosiddetto “esproprio” dei soddisfatti Benetton ha offuscato, anche se non irrimediabilmente, la sua abilità di giocoliere. Le dinamiche politico-economiche di questi ultimi anni hanno messo in chiaro come l’assenza di strategie politiche autonome abbiano pregiudicato l’esistenza e la funzione della grande industria strategica; adesso sta arrivando il momento della piccola e media industria della componentistica. Quando arriverà il momento della media industria più intraprendente, le cosiddette multinazionali tascabili, allora forse sarà chiaro a tutto il paese e alla opposizione sovranista-liberista, un vero ossimoro politico e fors’anche al ceto politico e alla classe dirigente in pernne dipendenza dalla benevolenza europea il motivo dello scivolamento drammatico di questo paese e delle sue cause. Sarà troppo tardi e molto più doloroso un eventuale recupero.

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