PARETO E IL M5S, di Teodoro Klitsche de la Grange

PARETO E IL M5S

Non è affatto strano che alcune vicende del Movimento 5 Stelle ricalchino le osservazioni di Pareto sulle élite, la loro circolazione e la teoria dei residui ma (soprattutto) delle derivazioni. Uno dei modi per notare le analogie è confrontare i principi e le promesse del primo M5S e quanto ne è praticato ora. Scriveva Pareto che ad una élite in ascesa è naturale accreditarsi come disinteressata alla conservazione del potere e omogenea al sentire popolare (soprattutto a carattere etico).

A ciò servivano sia certi slogan come “uno vale uno” e, ancor più, il divieto del terzo mandato. Quello a garanzia dell’eguaglianza, questo (anche) della non professionalità del personale dirigente (almeno di quello elettivo). Solo che ambedue si sono rivelate pure derivazioni (nel senso di Pareto). Il primo perché è vero che in una democrazia l’eguaglianza dei diritti e dei doveri è connotato essenziale, sul piano giuridico. Su quello fattuale tutti gli uomini sono diversi: quel che per lo più determina se faranno parte delle élite sono le caratteristiche individuali.

L’élite artistica è formata da persone che eccellono nella musica, nelle arti figurative: a decretarne il successo sono l’orecchio, l’occhio e anche l’abilità manuale: un cantante stonato o con una voce stridula è destinato a non farne parte: a poco serve l’uguaglianza giuridica (nella specie di accesso alle posizioni superiori) se mancano quelle qualità. Così in una società politica decadente è decisiva la capacità d’intrigo; nelle élite sportive le capacità fisiche.

Quanto al divieto di mandato, lo sviluppo del dibattito interno del movimento mostra come cambino gli orientamenti. Dal periodo di ascesa al potere (e accrescimento del consenso) alla fase di conservazione del medesimo, una volta conquistato, in cui si tende a farlo durare indefinitamente o, almeno più a lungo possibile.

Pareto, come tutti i pensatori ciclici (per i quali le élite sorgono e decadono) sa che per l’ascesa al potere delle élite nuove uno dei sistemi più usati è di fare compromessi con le élite decadenti; che la stabilità, è l’equilibrio nel movimento: talvolta più veloce, tal altra lento. Così fu per il fascismo che stipulò compromessi con la monarchia, la chiesa, la borghesia industriale e le élite relative che detenevano il potere. I 5 Stelle l’hanno ripetuto con il PD e le élite europee: ciò dopo aver accusato l’uno e le altre dei peggiori fatti (peraltro non senza ragione).

L’alternativa – o il completamento – del compromesso è la cooptazione. Questa ha varie forme: da quella più “tradizionale” che è di servirsi – specie per esercitare la forza – di personale reclutato nella classe governata (gli auxilia romani presi dai non-cittadini ad esempio) a quelli più raffinati come la concessione di posti e prebende pubbliche a elementi estranei all’élite, ma dotati e desiderosi di far carriera.

Un’altra considerazione di Pareto che appare confermata è quella sulle categorie “dei partiti nella classe governante. Possiamo in ciascuno di essi distinguere tre categorie, cioè: (A) Uomini che mirano risolutamente a fini ideali, che seguono rigidamente certe loro regole di condotta; (B) Uomini che hanno per scopo di approcciare il proprio bene e quello dei clienti. Si dividono in due categorie, cioè; (B-α) Uomini che si contentano dei godimenti del potere e degli onori, e che lasciano ai loro clienti gli utili materiali; (B-β) Uomini che ricercano per sé e pei clienti utili materiali, generalmente di quattrini”.

In effetti, anche se comportamenti simili sono ascrivibili, come scriveva Pareto, a tutte (o quasi) le élite di governo, il M5S con le sue realizzazioni si è confermato non diverso almeno per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, nonché il superbonus (ambedue riconducibili al paretiano gruppo B). Anche se la responsabilità politiche dei due provvedimenti vanno ricondotte – in parte – ai collaboratori di governo e non solo al M5S.

Tant’è: ma la fecondità delle considerazioni di Pareto anche per un movimento/partito sviluppatosi quasi un secolo dopo la morte del pensatore, mostra come il pensiero degli elitisti (non solo Pareto, ma anche Mosca e Michels) sia tuttora utile per interpretare la realtà attuale.

Curiosamente se c’è una costante, sottolineata da Michels: il fatto che i partiti rivoluzionari sono, nella modernità, guidati da intellettuali, che non ricorre nel M5S. Ma forse non perché non sia reale quello che afferma Michels (v. giacobini e bolscevichi) ma perché i grillini non sono mai stati realmente rivoluzionari.

Teodoro Klitsche de la Grange

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L’odiosa parabola del M5S, di Yari Lepre Marrani

L’odiosa parabola del M5S

  • Lo Stato, insegna Polibio di Megalopoli, conosce tre forme di governo: la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia. Nella sua evoluzione, uno Stato è destinato a conoscere questa triade nella quale ciascuna forma di Governo ha un carattere degenerativo: la monarchia degenera in tirannide; l’aristocrazia in oligarchia; la democrazia in oclocrazia, storicamente identificata come la più forma più estrema e perversa della demagogia. Ancorando il presente assunto all’Italia dei nostri giorni, balza agli di tutti quanto la parabola del M5S sia stata un’efficace quanto squallida dimostrazione di come sia possibile sfruttare il malessere sociale e antipolitico del popolo per creare un movimento di protesta che, però, la protesta l’ha incarnata con furbizia ma incapacità e,forse,malafede.
  • Parole dure e perentorie che non possono non tenere conto della concreta nascita,maturazione, evoluzione e cammino del Movimento che doveva aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno rivelandosi, infine, peggiore del Parlamento esecrato. Il 7 settembre 2007 si aprì ufficialmente l’iniziativa e l’era politica del V-Day(Vaffanculo-day): l’ira della gente verso la politica romana e nazionale aveva toccato i vertici,la rabbia sociale dilagava come lava ardente tra le strade delle città Si pensò e si pensa, allora come oggi, che il comico Grillo cercasse di “contenere” l’esuberante e dolente rabbia dei cittadini attraverso la creazione di una forza politica che,apparentemente,spaccasse la cattiva politica inaugurando un periodo di ricostruzione della politica stessa, ricostruzione sociale, morale e psicologica. Tutto si è rivelato il più grande bluff della storia repubblicana italiana, che non è minimamente paragonabile alla parabola ben più genuina e, a mio avviso, intellettualmente e politicamente onesta dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini. Il Movimento politico fondato nel 1944 da G. Giannini e facente capo al giornale “L’Uomo Qualunque”, voleva contrastare l’assetto politico-istituzionale uscito dalla Resistenza costruendo una visione puramente amministrativa della gestione dello Stato: esso si delineò, senza tanti giri di parole, in una critica ai meccanismi della democrazia parlamentare per come era nata nel secondo dopoguerra. A volte l’onestà di un movimento di protesta si manifesta anche nel suo insuccesso: il c.d. qualunquismo si esaurì rapidamente ed ebbe vita brevissima, svanendo in soli due anni.
  • I tempi dell’Uomo Qualunque e quelli del M5S sono così diversi da rendere difficile un raffronto di fatti, circostanze e malesseri ma un dato comune c’è: la gente, in entrambi i casi, ha iniziato a disprezzare odiosamente la politica e i politici. Nel caso del Movimento fondato da Grillo, il disprezzo del popolo verso la politica è stato abilmente manovrato dal comico genovese che ha utilizzato le idee più brillanti del suo mentore milanese Gianroberto Casaleggio non per creare un grande cambiamento, una Grande Riforma in senso riformista e, perché no, di craxiana memoria, ma per sfruttare l’emotività ferita della gente. Un dato di fatto comprovato dalle illusioni suscitate e tradite dal Movimento stesso e, soprattutto, da coloro che hanno approfittato “alla grande” del carro del vincitore antipolitico per costruirsi lucrose carriere senza la ben che minima visione politica che non si riassumesse nell’egoistica e opportunistica volontà di entrare in quel Palazzo che essi volevano combattere assieme al loro capo.

I fatti racchiusi nel cammino ultradecennale del M5S comprovano la falsità di intenti e il grande tradimento di questa forza politica verso gli elettori: Grillo ha aperto le porte dei palazzi del potere a persone che assommavano all’incapacità personale la mancanza di visione politica e sociale, all’opportunismo nudo e crudo la volontà di “mescolarsi” a quelle forze politiche di destra e sinistra che loro stessi volevano eliminare dalla scena politica italiana. I pentastellati sono nati per contrastare i danni del berlusconismo, della sinistra doppiogiochista e malata,della politica corrotta e corruttrice. Alla fine dei giochi quel movimento si è avidamente mescolato a quel sistema politico pregresso, ha sfruttato i sentimenti di speranza degli elettori sino a diventare una forza di “occupazione delle poltrone” addirittura capace di allearsi con destra e sinistra senza vergogne, rinnegando gli ideali della prima ora.

Il M5S è politicamente morto ma i suoi ipocriti attori ancora politicamente vivi. Tornando all’iniziale riflessione polibiana, forse neanche un grande storico come Polibio saprebbe dare una definizione di questo fenomeno: parlerebbe di oclocrazia cioè squallida demagogia? No. Probabilmente si arrenderebbe innanzi allo squallore di questa triste forza politica nata sulle strade delle città per cambiare in meglio l’Italia sofferente e diventata peggio delle forze politiche che voleva combattere.

 

Giuseppe Conte vuole ora ricostruire un movimento perduto con l’aiuto dell’Assemblea costituente del Movimento: ha estromesso Grillo dal ruolo di Garante del Movimento stesso, vuole trasformare il M5S in un partito, dichiara che Grillo ne sta “cancellando la storia e schiaffeggiando così palesemente tutti gli iscritti e tutto ciò per cui si è battuto in tanti anni”. Grillo ribatte chiedendo una nuova votazione sui quesiti della Costituente M5S che si terrà dal 5 all’8 Dicembre per riappropriarsi del suo ruolo, prerogative e annessi introiti economici. La tensione tra i due rimane alta ma, in realtà, entrambi sono figli del fallimento che rappresentano. Conte non salverà l’Italia come non l’ha fatto Grillo: si limiterà come il secondo a mantenere vivo un furbo giochetto di successo che ha contribuito a tante poltrone e tanti disastri, primo tra tutti il tradimento del popolo.

 

Se ci fosse Polibio oggi, forse parlerebbe di una contravvenzione prevista dal nostro codice penale e rispondente al nome di “Abuso della credulità popolare”,sì forse si aggrapperebbe a questo testo per spiegare la parabola del “Movimento del Nuovo Rinascimento”. E ha ragione il figlio del visionario cofondatore del Movimento Gianroberto Casaleggio, Davide Casaleggio, quando afferma che tra Conte e Grillo c’è poca differenza perché “hanno perso entrambi”. Le ultime, vere parole.

Yari Lepre Marrani

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LA DIS-INTEGRAZIONE DELLE STELLE, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA DIS-INTEGRAZIONE DELLE STELLE

Le ultime vicende del Movimento 5 stelle, ridotto, da quel che risulta, a meno di un quarto dei suffragi conseguiti nel 2018 e afflitto da una continua emorragia di parlamentari (ormai rimasti a circa la metà degli eletti alle ultime politiche) in tutte le forme (dimissioni, scissioni, allontanamenti, ecc.), induce a fare qualche considerazione, che non ha l’ambizione di essere esauriente, ma piuttosto di evidenziarne (qualche) concausa. Questo partendo da alcune regolarità e costanti della politica. A cominciare da Machiavelli, il quale, nel Principe, scrive delle difficoltà dei principi “nuovi”, che più per fortuna che per virtù hanno ottenuto il potere “non sanno e non possano tenere quel grado: non sanno, perché, se non è uomo di grande ingegno e virtù, non è ragionevole che, sendo sempre vissuto in privata fortuna, sappi comandare; non possano, perché non hanno forze che gli possino essere amiche e fedeli”. E che i governanti 5 Stelle fossero degli inesperti era vanto degli stessi ed occasione d’ironia dei loro (tanti) avversari. Parimenti è vero che nella loro ascesa al potere vi sia stata più fortuna che virtù, perché insistere sulla crisi che attanagliava e attanaglia l’Italia, governata da una classe dirigente decadente, è facile: si attacca chi è poco difendibile.

La lunga serie di “no” esibiti dal movimento prima del 2018 era corroborato dalla contraria opinione e pratica delle élite, le quali né autorevoli né legittime proprio per tali loro qualità asseveravano a contrario i “no”, spesso contraddittori o ingiustificati, dei grillini. Ma tale vantaggio è venuto meno – più che altro si è ridotto – una volta andati al governo: la necessità di scelte ha costretto a ridimensionare radicalmente il dissenso, e quindi il consenso che ne conseguiva.

Ma in particolare occorre valutare il giudizio di Machiavelli sulla “forze amiche e fedeli” che (non) sostengono il principe nuovo (e “fortunato”). Il genio di Machiavelli individua così i limiti dei politici – e governanti – improvvisati, spinti su dalle circostanze, più che da una reale capacità e applicazione, nell’ “inesperienza” e nella mancanza di “seguito” da intendersi nel senso weberiano del rapporto tra capo e “fedeli” (“forze amiche e fedeli”)”.

E tra le forze amiche e fedeli occorre distinguere due categorie: gli aiutanti, cioè i collaboratori del vertice politico, e gli elettori. All’uopo può servire quanto sosteneva, per gli Stati, ma applicabile (in larga parte) a tutti i gruppi politici, un acuto giurista come Rudolf Smend. Questi sosteneva “l’integrazione è un processo di vita fondamentale per ogni formazione sociale nel senso più lato. Questa, in prima analisi, consiste nella produzione o formazione di unità o totalità a partire dagli elementi singoli, cosicché l’unità ottenuta è qualcosa di più della somma delle parti unificate”, ogni gruppo politico realizza necessariamente attraverso l’unione delle volontà dei componenti, l’integrazione; la quale, secondo Smend, può distinguersi in materiale, funzionale o personale; e in genere è, in proporzione diversa tra loro, tutte e tre le cose insieme. Se si riscontra la rilevanza e l’esistenza delle suddette forme d’integrazione nel M5S, se ne avverte la carenza.

L’integrazione personale è quella suscitata dalla forte considerazione della personalità del capo. Ma a concedere che il capo fosse uno (è dubbio) è chiaro che il M5S ne ha cambiati diversi, da Casaleggio a Di Maio, da Crimi (??) a Conte. Fermo sullo sfondo Grillo.

Al contrario di Forza Italia, fondata sul forte (un tempo) richiamo aggregante di Berlusconi e della sua storia di successo, nessuno dei “capi” 5S ha costituito un forte elemento di integrazione personale.

Né è migliore l’impressione che si può ricavare dall’integrazione funzionale, la quale consiste nelle attività e procedure di partecipazione alla decisione – e alla direzione – politica: elezioni, referendum, congressi, manifestazioni, assemblee “Nella vita di ogni struttura le procedure di decisione e discussione sono – come scriveva Smend – prevalentemente indirizzate alla formazione della volontà comune: così il gruppo realizza la propria unità come unità di volontà, indirizzata a scopi comuni… la partecipazione, anche meramente consultiva, al processo decisionale permette sia di sondare gli umori della base sia, soprattutto, di coinvolgerla nella decisione e nell’azione”. Nei partiti “tradizionali” con prevalente organizzazione territoriale (per lo più a carattere democratico) sono l’elezione dei dirigenti e la discussione nei vari organi a rivestire il ruolo maggiore.

Nel movimento si è parlato spesso di piattaforma digitale, d’iscritti, , ma a parte la non chiarezza del tutto, è sicuro che:

  1. a) le procedure suddette sono da millenni di competenza di assemblee: dall’Agorà ateniese ai Soviet della rivoluzione d’ottobre, a decidere era un insieme di partecipanti riunito collettivamente, e non un singolo davanti ad un computer.
  2. b) Per quanto ci riguarda c’è l’interrogativo: può produrre – e quanta – integrazione nel gruppo un iscritto che a casa sua decida se Caio deve fare il Ministro e Sempronio l’assessore? Probabilmente se il giudizio è rispettato qualche effetto integrativo lo può avere, ma assai modesto rispetto alla decisione in praesentia. In secondo luogo diverse sentenze hanno giudicato non democratiche o poco democratiche norme e pratiche interne del M5S. Non è il caso di insistervi, ma occorre prenderne atto.

Infine l’integrazione materiale, intesa come fede comune in determinate idee e valori, in una visione condivisa del mondo. Ma il cartello di “no” del M5S serviva bene ad identificare il nemico ma assai male a fidelizzare l’amico. Oltretutto una volta al governo è stato costretto a compiere scelte destinate a scontentare parte dei “no”. Ancor più se a partire dal governo Conte bis, il M5S si alleava col PD, maggiore espressione dell’establishment destinatario dei “no”.

Se è vero quanto scriveva Smend, che l’unità politica è un processo, un divenire dinamico (Schmitt) realizzata in un’unione di volontà, non c’è da stupirsi che l’unione di volontà non vi sia né tra vertice e base né all’interno del vertice. Con la conseguenza di scissioni, dimissioni, ecc. Dei vecchi partiti ideologici della Prima Repubblica si è detto tutto il male possibile (e anche di più) ma fenomeni di decomposizione erano eccezionali e limitati per lo più a reali differenze ideali e politiche, come quelle tra seconda e terza internazionale.

Ma se il “collante” delle idee è tenue o inesistente, l’unione di volontà non si realizza o se si realizza lo è in modo debole e transitorio. Non era solo la disciplina a generare il partito “classico”, fino all’ “Ordine dei Portaspada” di Stalin, ma ancor di più la comunanza di ideali (ed obiettivi).

Attorno a quel che resta del M5S si aggirano i (soliti) megafoni delle élite. Con la logica che li contraddistingue qualcuno proclama la crisi del populismo basandosi sull’equazione Populista=M5S ergo crisi dei M5S=crisi dei populisti. Dimenticando che, a parte quel che succede all’estero, dal 2018 (al più tardi) l’elettorato anti establishment italiano è largamente e costantemente superiore al 50% dei suffragi espressi e che la crisi del M5S non ha giovato ai partiti di regime (PD in primis) ma ha solo trasferito gran parte dell’elettorato anti-élite ad altri due partiti anti-establishment come la Lega e FdI.

Onde il calo del M5S non è dovuto al tramonto del populismo, ma, in larga parte, al dissolversi dell’ “unione di volontà” tra vertice e base elettorale e l’evaporazione a tous azimouts dell’(irrisolta e tenue) identità del movimento.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

MACHIAVELLI SU CONTE E I 5 STELLE, di Teodoro Klitsche de la Grange

MACHIAVELLI SU CONTE E I 5 STELLE

Siamo tornati a chiedere lumi a Machiavelli sulla crisi dei 5 stelle e il contrasto Conte-Grillo e ce l’ha gentilmente concesso.

Cosa ne pensa della vicenda Conte e del Movimento 5 Stelle?

Il Conte non era un politico ma un privato onde “Coloro e quali solamente per fortuna diventano di privati principi, com poca fatica diventano, ma assai si mantengono; e non hanno alcuna difficultà fra via, perché vi volano: ma tutte le difficultà nascono quando e’ sono posti”.

Infatti una volta insediato, a comandare è stato qualcun altro: Conte al massimo pesava per metà. Perchè questi governanti si reggono “sulla volontà e fortuna di chi lo ha concesso loro, che sono dua cose volubilissime et instabili, e non sanno e non possono tenere quello grado: non sanno: perché, s’e’ non è un uomo di grande ingegno e virtù, non è ragionevole che, sendo vissuto sempre in privata fortuna, sappia comandare; non possono perché non hanno forze che gli possino essere amiche e fedele”. Con buona pace dell’ “uno vale uno” (tale quando voti, non quando governi).

Quindi la caduta del governo Conte 1…

È la conseguenza di quanto ho appena ripetuto. Conte era la “testa di legno” di Salvini e Grillo. Durava finchè lo volevano loro.

Ma c’è un sistema per consolidarsi, o almeno conservare il potere conseguito “per arme altrui”?

Conte sapeva di non avere i voti, che sono per voi quello che per me erano i soldati.

Dato che non l’aveva, doveva procurarsene di propri, perché coloro che “così di repente sono diventati principi”, per conservare il potere debbono creare, una volta insediati al potere “quelli fondamenti” cioè ai tempi vostri, voti. Ma quando stava al governo, sia con la Lega che con il PD, poco ha potuto fare.

Ora che è fuori dal governo è assai difficile.

Scrissi che è meglio preparare i “fondamenti”, ossia i mezzi e condizioni per esercitare il potere, prima; nel caso di nomina per fortuna, almeno quando il governante s’è insediato; ma quando l’ha perso non l’ho considerato, perché raro anzi rarissimo.

Quindi fuori dal governo?

Può promettere ma poco, a meno che non trovi tanti sprovveduti, dei Messer Nicia, per capirci. Con i quali si può essere “larghi a promettere ma nell’attender corti”. Invece i suoi possibili seguaci, anche se digiuni di Stato (e di politica) quanto agli affari propri, sono dei Licurghi. Capiscono subito che può mantenere poco, e quindi poco (al massimo) manterrà. Ancor più per aver ridotto il numero dei parlamentari. Come scrissi al principe nuovo occorre assicurarsi dei nemici, procurarsi amici, punire i traditori, farsi amare e temere dal popolo: il tutto presuppone di stare al potere. E Conte ora non ci sta.

Ma potrebbe avere ancora il consenso degli elettori?

Che non aveva quando fu nominato al potere. E perché? Quando se l’è guadagnato? Se lo ottiene sarà sempre poco per tornare al posto di prima. Se invece lo consegue per “arme altrui” cosa tanto rara, di tornare al comando sempre per volontà degli stessi – il problema si ripropone comunque. Guarda un po cosa successe al vostro Monti: perse il governo, conseguendo poi alle elezioni europee con la propria lista, meno dell’1%: chi lo aveva designato pochi anni prima l’ha lasciato in naftalina, a scrivere articoli. Non crediate che siano più generosi col Conte. In politica la gratitudine, anche se talvolta necessaria, è merce rara.

Teodoro Klitsche de la Grange

Tre piani a confronto….e il bluff, di Giuseppe Germinario

Ad una rilettura il mio articolo del 23 dicembre scorso “tre piani a confronto…” http://italiaeilmondo.com/2020/12/23/piani-a-confronto-da-recovery-di-giuseppe-germinario/ mi era apparso eccessivamente livoroso. I contenuti li ho ritenuti validi, ma il tono troppo spietato per una partita tutto sommato ancora in buona parte da giocare. Colpa probabilmente della claustrofobia sedimentata in settimane di reclusione in una stanza d’ospedale.

Devo ricredermi! La realtà delle cose sta assumendo aspetti ancora più irrealistici e prosaici, mi si perdoni il gioco di parole.

Un giallo che sta assumendo i tratti multicolori di una farsa, elevando con ciò la compagine di governo, in particolare la triade Conte, Gualtieri, Di Maio e con un paio di rare eccezioni ridotte ormai al ruolo di mera testimonianza, la stessa riservata nel Conte I a Luciano Barra Caracciolo, al rango di giocatori delle tre carte.

In quell’articolo avevo sottolineato con forza che il piano di investimenti, il pezzo forte del PNNR (NGEU) italiano, sarebbe rifluito progressivamente in un recupero di investimenti in realtà già programmati e finanziati. Avevo specificato per altro che il documento prevedeva questa possibilità, ma di fatto avevo attribuito ai condizionamenti politici esterni, in particolare quelli dei ventriloqui della Commissione Europea, alla mancanza di ambizione e strategia del piano, al dissesto istituzionale e alla inadeguatezza dell’apparato tecnico-amministrativo centrale l’inesorabilità di quell’inerzia. Invito chi non lo avesse fatto, a leggerlo con una buona dose di pazienza.

Le fibrillazioni politiche interne allo schieramento politico che sostiene il governo hanno portato alla luce intanto uno degli aspetti cruciali di un piano mantenuto nella riservatezza e nel mistero, possibilmente sino al suo varo: i 4/5 di quel piano di investimenti sono già il recupero di opere già programmate e finanziate.

https://www.agi.it/estero/news/2020-12-31/discorso-fine-anno-angela-merkel-10867389/

Così recita il Ministro Gualtieri: “L’unico momento in cui la discussione si e’ accesa e’ stato quando il ministro Gualtieri ha ribadito che l’Italia non si puo’ permettere di puntare tutti i prestiti europei su progetti aggiuntivi perche’ questo farebbe schizzare il debito e rischierebbe di far saltare il percorso di rientro approvato in Parlamento. “

Quello che sarebbe stato l’esito di una inerzia delle cose, è in realtà una scelta politica ex ante del Governo.

Se si aggiunge il fatto che già dal 2023, non alla scadenza decennale del piano di azione, è già previsto un programma di rientro del deficit pubblico intorno al 2,5% medio annuo, di fatto una massa finanziaria all’incirca equivalente ai finanziamenti europei, il quadro diventa leggibile e trasparente, non ostante l’evasività mistificatoria dei nostri saltimbanchi; il Recovery Fund (NGEU-PNNR), almeno per l’Italia, si sta rivelando una mera partita di giro o poco più.

È l’evidenza che un accordo politico, magari di massima, con i ventriloqui della Commissione Europea c’è già, di fatto se non ancora formalizzato; un accordo frutto di una presa d’atto piuttosto che di una trattativa vera e propria.

Le fibrillazioni politiche non devono ingannare. I sussulti che scuotono il governo sono tutti interni a questa logica e se la tentazione di esasperare una strumentalizzazione a fini di bottega dovesse alla fine prevalere, gli efficaci strumenti di persuasione, trasformismo o di annichilimento non mancheranno di certo. Né del resto dalla parte dell’opposizione politica appaiono forze credibili, di una certa consistenza, capaci ed realmente intenzionate a sostenere uno scontro ed un confronto politico così arduo.

https://www.facebook.com/watch/?ref=search&v=394576961851749&external_log_id=0989f68c-cfe2-4d54-8bf2-12a64db07927&q=matteo%20renzi

I portatori di questa dinamica sono nel PD, le mosche nocchiere sono in Italia Viva, gli insulsi, gli inconsapevoli e gli opportunisti di basso rango nel M5S.

Forze che trovano lì, a Parigi, a Bruxelles, a Berlino, dire anche a Washington sarebbe forse una sopravalutazione, la propria legittimazione e la propria ragione d’esistenza.

Qualche beneficio d’inventario, con qualche buona volontà, lo si potrà pur concedere: il trasferimento possibile dalle spese ordinarie agli investimenti, sia pure sempre meno strategici, può rientrare nel ventaglio dei margini operativi; gli stessi investimenti già previsti, programmati e finanziati, senza il Recovery Fund rischierebbero di essere quantomeno dilazionate; la stessa consistenza effettiva dei piani di rientro del deficit dipendono molto dall’accondiscendenza politica verso i ventriloqui della C.E., dalle dinamiche geopolitiche ad essa legate e dai rischi politici interni al paese. Tutti fattori che potrebbero agire quantomeno nella funzione di moltiplicatore keynesiano del piano, almeno nell’immediato; non nella futura posizione strategica del paese.

Qualche beneficio d’inventario in meno, in verità uno spreco criminale alla luce del futuro che si sta profilando, si stanno rivelando la pletora di bonus elargiti allegramente e meschinamente nella fase iniziale di emergenza.

Ma ormai nelle dinamiche della UE le opzioni di politica economica dell’Italia sono strette non in una, bensì in due morse: quello del principio di austerità che deve regolare il rientro del deficit pubblico; quello della rimessa in discussione, per inadeguatezza del piano, dello stanziamento dei fondi di NGEU. Due ganasce che sottendono dinamiche geoeconomiche e geopolitiche interne alla UE e soprattutto esterne ad essa che vanno bel oltre le capacità di comprensione e di azione del nostro ceto politico e della nostra classe dirigente; limiti che stanno portando questi ultimi ad un livello di connivenza e complicità a titolo sempre più gratuito.

Lo stellone, le competenze sempre più disperse e il genio italico, sia pure appannati, purtuttavia rimangono e covano sotto le ceneri; emergono qua e là, capaci di disegnare gioielli come l’ultima portaerei varata a Trieste. Sono strumenti però utili, tra i tanti possibili, a chi li sa e li vuole utilizzare.

Già in altre fasi storiche il genio e lo stellone italici hanno tratto il classico coniglio dal cappello nelle situazioni più complicate e disperate, a partire dal conseguimento stesso dell’Unità d’Italia e dalla fondazione della Repubblica. Lo hanno potuto fare nei momenti più traumatici e drammatici. Oggi la situazione è, almeno per il momento, diversa. Viviamo in una fase nella quale la rana, cioè noi, si trova immersa ancora in una pentola ravvivata a fuoco lento. Più sarà lenta la fase di ebollizione, meno la rana capirà in tempo utile o in extremis in quale gioco nefasto, ma inizialmente confortevole è andata a cacciarsi.

IL REICH DEL DECENNIO VENTURO, di Antonio de Martini

Guardiamo in faccia la realtà: non abbiamo programmi per il nuovo anno.
L’incertezza prevale.
Gennaio incombe e tra i pochi che hanno progetti, troneggia Urbano Cairo.
Si tratta di un imprenditore-venditore di spazi e tempi pubblicitari che speculando sul cash-flow e l’ignavia generale, si è appropriato prima della catena TV “ La7” (creata come “ la uomo TV “ da Carlo Puri negli anni 70 ) di cui Telecom era ansiosa di sbarazzarsi e poi de “ Il Corriere della sera”.
Due suoi clienti che non macinavano utili per gli azionisti, ma fatturato per lui.
Sapeva che prima o poi gli strumenti sarebbero tornati utili a qualcuno.
E così è stato, evidentemente.
Entro gennaio il “ Corriere della sera” cambierà direttore editoriale e direttore responsabile.
La novità consiste nei nomi dei personaggi che qualcuno ha designato a quesi posti:
Valter Veltroni, il becchino de “l’Unita” ( e di Roma, nonché del PDS) sarà il direttore editoriale e Aldo Cazzullo occuperà il posto che fu di Albertini e Spadolini.
Con questi nomi, è evidente che non si punta sulla diffusione e il rilancio, ma si cerca di patrocinare una operazione politica di quelle che piacevano a Eugenio Scalfari.
A Scalfari non riuscì di creare connubi, figuriamoci a Cairo.
Vogliono fare una fusione tra il movimento 5 stelle e il PD che nelle menti degli architetti dovrebbe creare il reich del decennio prossimo venturo.
Naturalmente si dovrebbe cominciare col sacrificio di Conte – come tutti i mezzani non piu necessario- e si baserebbe sull’utilizzo degli avanzi come sempre accade dopo le feste.
Per timore che Conte impegni rapidamente il malloppo, l’operazione é stata anticipata a gennaio.
Gli unici effetti che certamente produrrà , saranno la fine della carriera di Paolo Mieli ( che non è un male, anzi) e la consapevolezza generale, anche tra i sordo-ciechi, che in Italia vige un regime slabbrato, indecente e privo di senso della realtà ( e anche questo non è un male, anzi).
Il vantaggio principe è rappresentato comunque dal fatto che nel paese dell’ambiguità ci sarà qualche equivoco in meno e qualche spazio in più.
Utilizziamolo per abbattere il regime che, dopo questa brillante pensata, sarà evidente agli occhi di tutti.
NB_ con due piccole chiose: la forza finanziaria di Cairo non è così solida come appare. Dietro c’è Soros; nel disegno entra anche l’acquisizione del Sole 24 ore. Lee trattative sono in corso_Giuseppe Germinario

 

Sconforto, di Andrea Zhok

Il nostro giudizio sul M5S è ed è stato molto più drastico, sin dagli albori del movimento. La considerazione finale di Andrea Zhok appare del tutto condivisibile, ma con una chiosa: “ciò che si muove fuori è anche peggio”, ma semplicemente perché sono le schegge ed il derivato di ciò che è dentro. Il richiamo, sia pure ormai meramente semantico al passato, non aiuta a guardare queste fibrillazioni con giudizi definitivi che meritano_Giuseppe Germinario
In questi giorni, dopo gli esiti abbastanza catastrofici delle elezioni regionali in molti danno il M5S per spacciato.
Ci sono gli ennesimi segni di fronda interna, critiche feroci alla leadership, minacce di scissione.
Spira inoltre un vento nefasto, per cui molti, semplici elettori o personaggi prominenti, che avevano dato fiducia al movimento ad inizio legislatura, ora fanno a gara per sparargli addosso.
A ciò si aggiunge il giudizio perennemente liquidatorio da parte dei grandi giornali (con una nota eccezione) e dell’intero sistema di potere consolidato. Per quanto ora, nel nome della ‘stabilità’ garantita dall’alleanza col PD, il tasso di stroncature appare lievemente moderato, è sin troppo chiaro che il M5S continua ad essere percepito come un corpo estraneo, da espellere.
Ecco, viste queste condizioni, mi sento obbligato a fare un elogio del M5S.
Che il Movimento avesse problemi profondi e strutturali era chiaro dall’inizio a chiunque non fosse cieco.
Che mancasse di un ceto dirigente solido ed esperto, che avesse problemi nelle strategie di reclutamento, che avesse adottato una tattica ‘populista’ di raccolta a strascico del malcontento senza coerentizzarlo, che avesse fatto convivere senza risolverle contraddizioni tra posizioni stataliste e libertarie, ambientaliste e antiscientifiche, sovraniste e autorazziste, ecc. era evidente a chiunque avesse gli occhi per vedere.
E tuttavia, ora, arrivati a questo punto, non posso che chiedermi: il panorama politico italiano sarebbe migliore se il M5S scomparisse?
E la risposta che non posso che darmi (lo so, contro molti amici di lunga data) è che sarebbe una disgrazia.
Con tutte le sue inadeguatezze il M5S è l’unica realtà politica degli ultimi decenni che ha smosso problemi incancreniti, riportato a galla aspirazioni sociali rimosse, che ha almeno provato a dar voce a istanze che erano scomparse dal panorama italiano (come quelle ecologiste). E lo ha fatto cercando di trovare una posizione autonoma, irriducibile alla stantia, sclerotizzata dicotomia tra destra e sinistra.
Francamente non so se il M5S sopravviverà a questa legislatura, perché gli errori fatti sono molti e le risorse per rimediarvi sono scarse. Non lo so, ma le lo auguro di cuore, perché – anche con la complicità dell’improvvida riforma costituzionale promossa dal movimento stesso – lo scenario prossimo che si presenterebbe a fronte di un collasso del movimento è quello di un deserto politico, bloccato su forze e dinamiche degli anni ’90.
Come molti altri, personalmente avevo sperato che emergessero forze politiche capaci di approfondire, coerentizzare, chiarire e consolidare le istanze migliori del movimento.
L’ho sperato, ma al momento palesemente queste condizioni non ci sono, e ciò che si muove fuori dal Parlamento con realistiche ambizioni di entrarvi, è peggio di ciò che in parlamento c’è già.

https://www.facebook.com/andrea.zhok.5

GLI STATI GENERALI, LO STATO DELLA POCHETTE, di Giuseppe Germinario

Capita raramente di assistere ad un assoluto “non sense” delle dimensioni degli Stati Generali convocati a giugno scorso da Giuseppe Conte. Il nostro Presidente del Consiglio è riuscito in questa impresa del nulla costruendo la parodia grottesca di un consesso che ha assunto ubiquamente la veste di un convegno declamato da interventi dal contenuto letteralmente inaccessibile e di un seminario dagli interventi dovuti e scontati. Ha finito ovviamente per non essere né l’uno, né l’altro, non avendo lanciato nessuna incisiva indicazione necessaria a motivare, né avendo tracciato almeno le linee base che consentissero di canalizzare analisi e proposte; ha finito quindi per spegnersi quindi nelle sue conclusioni senza avere brillato di una qualche fiammella. Più che un buco nero inquietante per la sua potenza attrattiva, una nebulosa impercettibile. L’unico ad apparire con certosina costanza è solo Lui, Giuseppe Conte, ma nelle esclusive vesti di dimesso cerimoniere di una seduta spiritica tutta particolare. La riuscita anodina dell’iniziativa sarà stata pure la conseguenza delle pressioni del PD tese a smorzare gli ardori del premier per una iniziativa propagandistica raffazzonata che rischiava di rivelare il vuoto pneumatico più che “le magnifiche sorti e progressive”. Un barlume di superstite buon senso piddino, frutto di antiche reminiscenze non del tutto sopite. Il vuoto in politica però non esiste; la sua apparenza assume comunque il significato e il peso di movimenti carsici per quanto inconsapevole possa essere. Non sarà certo un caso che gli unici ad essere evocati e ad apparire legittimamente, sia pure nella forma di ologrammi, in quella seduta per proferire il verbo siano stati Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione Europea, David Sassoli, Presidente del Parlamento Europeo, Paolo Gentiloni, commissario europeo, Charles Michel, Presidente del Consiglio Europeo. Il messaggio è chiaro: gli indirizzi e i vincoli proverranno da quella sede e in quella sede si dovrà trattare, in realtà attendere a regime di cottura lenta. http://www.governo.it/it/progettiamoilrilancio

Qualcun altro si è visto riconoscere tutt’al più un posto in seconda fila: il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, il Segretario Generale dell’OCSE, Ángel Gurría, la Direttrice Operativa del Fondo Monetario Internazionale, Kristalina Georgieva ma solo per il tramite, in gentile concessione, della pubblicazione della rispettiva trascrizione degli interventi. Un chiaro indice delle graduatorie di credito ed autorevolezza riconosciute dal nostro Giuseppi. Per il resto un asfittico elenco degli invitati, privo di ogni merito dei vari contenuti. Lo stesso Colao, pur a capo della nutrita e roboante squadra di esperti di quistioni socio-economiche messa in piedi dallo stesso Conte, ha paradossalmente vissuto l’onta censoria dell’anonimato senza alcun apparente motivo; una sorta di silenzioso ripudio. Alcuni visibilmente non hanno gradito il trattamento e hanno reagito sgomitando, sfruttando però i propri spazi in mancanza di quelli pubblici del Governo. Lo hanno fatto i leader di alcuni sindacati autonomi e di base; lo ha fatto soprattutto e con veemenza il Presidente di Confindustria, Carlo Bonomi , di fresca nomina.

https://www.confindustria.it/notizie/dettaglio-notizie/confindustria-agli-stati-generali-economia-intervento-presidente-bonomi . Tutti gli altri, a cominciare dai Segretari dei tre Sindacati Confederali per passare alle varie associazioni professionali e umanitarie, hanno accettato senza colpo ferire e senza il minimo amor proprio il bavaglio imposto.

Si direbbe una pesante e inopinata caduta di stile dell’apprezzato maestro di buone maniere insediato a Palazzo Chigi.

L’affettata e curiale furbizia del nostro lascia sospettare che non si tratti di una semplice distrazione da parvenu.

Sarà per il suo irrefrenabile narcisismo, sarà per la sua propensione a rifulgere spegnendo la luce di possibili pericolosi comprimari, sarà che la sua caratura non gli consente un ruolo più significativo di quello del cerimoniere, sta di fatto che il nostro è riuscito pienamente nell’impresa.

Quello che sorprende è la pressoché generale accondiscendenza di gran parte dei convitati al proprio ruolo di muti etcoplasmi. Un po’ perché i più avveduti hanno compreso la vacuità dell’evento e l’opportunità di non contrariare il possibile elargitore delle future prebende e di non compromettere la partecipazione ad un futuro banchetto pur privo al momento del necessario menu; un po’ per la cautela di dover dissimulare, come nel caso dei tre segretari confederali, il proprio vergognoso e imbarazzante sostegno politico ad un Governo in gran parte responsabile del pesante fardello autunnale e del tutto incapace di offrire una qualche prospettiva realistica e politicamente autonoma, sta di fatto che la quasi totalità dei convitati ha accettato l’invito dalla porta di servizio in cambio di qualche convenevole. Come già sottolineato solo gli esponenti di alcuni sindacati di base hanno ardito contestare, ma solo da un punto di vista rivendicativo e senza alcuna prospettiva di difesa dell’interesse nazionale. Qualche sorpresa l’ha destata invece la veemenza delle critiche del Presidente di Confindustria. Le ragioni contingenti di tanta animosità ci sono tutte: dalle anticipazioni di cassa integrazione ancora lungi dall’essere compensate da INPS e Governo alla esiguità di agevolazioni e contributi rispetto alla miriade di bonus e biscottini che Presidente e Ministri, colti da indomito furore, stanno elargendo a piene mani, quasi fosse il presagio dell’Ultima Cena. Qualche perplessità e sorpresa suscita il fervore della critica alle strategie di politica economica del povero Conte. Non dovrebbe rientrare alcun caso di risentimento personale. L’imprenditore Carlo Bonomi appare già molto ben inserito in cariche ed incarichi pubblici di gestione. A ben vedere le sue critiche hanno il sapore e la bonomia dei realisti più realisti del re. La sua massima preoccupazione è che la pubblica amministrazione acquisisca gli standard di qualità operativa e di progettazione richiesti dall’utilizzo dei fondi strutturali europei. Dal punto di vista funzionale una sacrosanta rivendicazione viste la di gran lunga migliore efficienza e trasparenza di quei criteri rispetto alla farraginosa amministrazione italica. Il nostro ovviamente non si pone, o finge di non conoscere il motivo di tanta degenerazione della macchina amministrativa, non a caso proceduta paradossalmente a passi più spediti a partire dagli anni ‘90. Quel che gli preme, a nome della categoria, è di poter attingere all’integralità dei futuri fondi europei, sia quelli a fondo perduto (perduto a beneficio dei fruitori privati, non delle casse statali e della collettività) che quelli a credito. Bonomi, a nome di Confindustria, confessa con la compulsione di questo atteggiamento due orientamenti chiarissimi: la bontà e l’utilità dei prossimi finanziamenti europei nonché la loro scontata deliberazione nella loro modalità a fondo perduto; l’adesione acritica e fideistica, oltranzista al disegno corrente di integrazione europea. Sulla loro bontà e utilità tutto dipende dal punto di vista e di partenza da cui si parte (tra i tanti testi http://italiaeilmondo.com/2020/06/02/attenti-a-quei-due-di-giuseppe-germinario/ ); sull’esito scontato della trattativa in corso, Carlo Bonomi, pur in buona compagnia, sembra dotato di capacità predittive sconosciute a gran parte degli osservatori ma tali da consentirgli di vendere la pelle dell’orso prima dell’abbattimento. Quanto alla adesione fideistica, sino alla declamazione della propria totale assonanza con le associazioni europee sorelle, al disegno europeista non c’è da meravigliarsi più di tanto. Confindustria costitutivamente non può assolvere, proprio per i suoi assetti di potere e per la composizione prevalente degli associati, ad un ruolo di difesa dell’interesse nazionale, ad una funzione di trasformazione dell’economia industriale verso la produzione di prodotti finiti piuttosto che di componentistica e verso attività più strategiche. Costitutivamente deve trattare di criteri, di condizioni e di regole generali di conduzione delle aziende. Non è in grado quindi di partecipare fattivamente alle trattative, ai maneggi e alle azioni lobbistiche tese alla fusione in grandi gruppi e all’avvio di attività strategiche. Tutt’al più può servire da trampolino surrettizio e per vie traverse di singoli gruppi e personaggi. La storia stessa di Confindustria è tutta lì a recitare della sua ostilità al processo di costruzione dell’industria pesante di base nel dopoguerra, a personaggi della statura di Mattei e Olivetti e della sua connivenza ai processi di trasformazione di buona parte degli imprenditori e dei manager italiani in appendici e portavoce di gruppi esteri e in percettori di rendite da concessioni anche a costo di sacrificare e cedere le proprie attività originarie ben avviate. Del resto è lo stesso Colao a confermare indirettamente questa prevalente tendenza conservatrice e a volte liquidatoria. Tra il centinaio di schede elaborate buone a tanti usi ve ne sono alcune particolarmente significative. In una propone di superare le difficoltà di accesso a finanziamenti e crediti delle aziende italiane mediamente troppo piccole assegnando alle aziende leader della catena di valore il ruolo di garanti ed eventualmente di redistributori del credito. Con una struttura produttiva sempre più vocata alla componentistica piuttosto che al prodotto finito e con aziende leader sempre più situate all’estero non si farebbe che accentuare ulteriormente la dipendenza della nostra economia dalle scelte di prodotto e dagli indirizzi politico-economici di altri paesi. Lo stesso dicasi riguardo allo snellimento delle procedure di fallimento e liquidazione delle aziende proposto dall’ex manager di Vodafone. Tutto sembra congiurare quindi perché la terribile mistura di attendismo fideistico di un intervento europeo risolutivo, di fiducia cieca nelle virtù e nella prospettiva europeista, nel mantenimento conservativo di un apparato industriale magari appena ammodernato, di galleggiamento ed immobilismo governativo aggrappato alle momentanee prebende assistenzialistiche trascini ormai irreversibilmente il paese verso il declino e la polverizzazione, sempre più alla mercè non solo della grande potenza ma anche delle insolenze di forze minori. Giusto per completare la disposizione dei tasselli che hanno composto la kermesse giuseppina non si riesce a comprendere il motivo della fredda e sorda ostilità intercorsa tra Colao e Conte. Nelle schede prodotte dal manager c’è un perfetto equilibrio, in sintonia con il sentimento europeista e politicamente corretto prevalente nel Governo. L’emancipazione femminile, il peso della Cultura e del turismo, la svolta ecologica e la digitalizzazione; un pot pourri informe buono per tutti i palati e adatto alle varie circostanze. A ciascuno degli spettatori è riservato un coniglio; l’impegno di spesa corrisponde, guarda caso, al contributo europeo evidentemente dato per certo. Gli stessi imprenditori vengono lasciati nel loro cortile allettati al massimo da incentivi fiscali. Per il resto devono essere loro a districarsi e decidere la collocazione geoeconomica del paese. A dire il vero ci sarebbero un paio di cosette che potrebbero aver turbato gli animi nella compagine governativa: la proposta di accentrare e riorganizzare le centrali di acquisto dei beni necessari alle amministrazioni e il cambiamento dei criteri di selezione dei quadri dirigenziali intermedi. Due ambiti nevralgici che hanno contribuito alla ripartizione dei centri di potere, alla creazione di sistemi di consenso e di drenaggio di risorse, alla definizione del rapporto delicato e cruciale tra ceto politico-amministrativo e macchina operativa dello Stato centrale e periferico. Due nervi scoperti, sufficienti a mettere in discussione le dinamiche profonde di potere e la potenziale armonia tra i due.

Tutta l’operazione in realtà affoga in questa sommatoria di pie intenzioni e di attese ingiustificate i nodi essenziali da sciogliere: la necessità in tempi rapidi di un piano B nel caso più che probabile di fallimento o di condizioni sfavorevoli di accordo in sede europea; le modalità con le quali l’imprenditoria nostrana, al di là della retorica del libero mercato, deve trovare una diversa collocazione e partecipare ai processi di concentrazione, di fusione e di sviluppo di nuovi settori, la capacità di leadership dell’imprenditoria privata nazionale, tenuto conto che nei momenti cruciali di svolta questa si è rivelata un fattore frenante piuttosto che propulsivo. Per non parlare degli appuntamenti mancati nelle dinamiche e nei conflitti geopolitici, così determinanti ormai nel favorire ed indirizzare le scelte economiche. Le velleità geopolitiche di autonomia della Germania, poste alla sua maniera, rientrano a pieno titolo nella gamma di interrogativi fondamentali a cui rispondere. Ma è veramente chiedere troppo a questo ceto politico.

Una cosa è certa. Una svolta positiva nel paese non può passare attraverso il rapporto istituzionale con le associazioni e i rituali stantii che ne conseguono. Un ceto politico ambizioso e capace deve riuscire ad individuare singole figure e precisi settori suscettibili di aggregarsi e di fungere da traino. Altre vie per formare una classe dirigente all’altezza della situazione non se ne vedono. Persino Conte deve averlo subodorato, se durante la kermesse aveva previsto una giornata di incontri con singole personalità rappresentative della loro attività. È riuscito malauguratamente a trasformare anche questa fugace occasione in una innocua e frivola passerella. Una leggerezza dell’essere ormai insostenibile per il paese. Intanto aspettiamo di conoscere il   frutto documentale degli stati generali. Che siano resi pubblici almeno questi.

Vittorie perdute, di Roberto Buffagni

Vittorie perdute[1]

 

Cari Amici vicini & lontani,

proviamo a fare il punto della situazione dopo le elezioni regionali del 26 gennaio. Vi propongo una ipotesi di lavoro, questa.

Per uscire dall’angolo morto in cui si è ridotta provocando, in agosto, la crisi del governo gialloverde, la Nuova Lega nazionale di Matteo Salvini ha trasformato le elezioni regionali in Emilia Romagna in un referendum sul proprio progetto, sul governo giallorosa, e sulla persona, o meglio sul personaggio del “Capitano”.

Obiettivo politico, il medesimo perseguito e fallito con l’apertura agostana della crisi: delegittimando il governo in carica e disgregandone la coesione, costringere il Presidente della Repubblica a indire le elezioni politiche,  per trasformare i vasti consensi a proprio favore in voti politicamente efficaci e conquistare maggioranza relativa parlamentare e governo della nazione.

Nonostante un successo elettorale ragguardevolissimo in territorio tradizionalmente sfavorevole al centrodestra, per la seconda volta la Nuova Lega ha fallito l’obiettivo politico che s’era proposto, e ha probabilmente raggiunto il punto culminante della vittoria: il momento in cui l’attaccante, procedendo nell’avanzata, “si trova ad aver perso la propria superiorità iniziale, stabilendosi un equilibrio tra le sue capacità offensive e quelle difensive del difensore. Oltre il punto culminante della vittoria, i rapporti di forza divengono favorevoli al difensore[2] e quest’ultimo acquista una capacità offensiva sufficiente ad annientare l’attaccante.[3]

E’ un’ipotesi di lavoro che mi pare valga la pena di esser presa in considerazione, se si pensa che:

  1. Con il successo difensivo in Emilia Romagna, il PD e il “partito delle istituzioni” hanno guadagnato tempo preziosissimo (almeno un anno) per riconfigurare le proprie forze, migliorarne la coesione, logorare l’avversario Salvini, dividere la coalizione di centrodestra; e soprattutto, si sono garantiti la possibilità di decidere le nomine delle partecipate ed eleggere il regista della politica italiana, il Presidente della Repubblica: vale a dire, la possibilità di determinare l’orientamento di fondo della politica italiana nei prossimi anni, persino nel caso di una vittoria del centrodestra alle prossime elezioni politiche.
  2. Per la seconda volta consecutiva nel giro di pochi mesi Salvini ha perseguito lo stesso obiettivo con gli stessi metodi, l’ accumulazione del consenso per mezzo di una instancabile attività di propaganda, e per la seconda volta consecutiva ha fallito; mentre il suo avversario principale (PD + “partito delle istituzioni”) ha dato prova di un’apprezzabile capacità di imparare dai propri errori, adattare e rinnovare le proprie tattiche, cercare nuove alleanze, profittare degli errori dell’avversario.

Salvini, insomma, ha per due volte ceduto l’iniziativa all’avversario: la prima volta, in agosto, facendogliene un vero e proprio insperato regalo quando esso era debole, diviso, disorientato, scosso da una seria crisi intestina; la seconda volta, in gennaio, provocandolo a battaglia campale anche simbolicamente decisiva sul terreno a lui più favorevole, e perdendola dopo aver condotto molto male le operazioni.

Perché Salvini ha condotto molto male le operazioni nella battaglia per l’Emilia Romagna? Qui elenco solo alcuni tra i più vistosi errori tattici del “Capitano”.

  1. Delegittimare la candidata Lucia Borgonzoni accompagnandola ovunque come il papà accompagna una bambina timida e ansiosa il primo giorno di scuola elementare (errore direttamente conseguente alla scelta di trasformare le elezioni emiliano-romagnole in un referendum Salvini Sì/Salvini No, nel quale i candidati leghisti, Borgonzoni in testa, erano solo comparse)
  2. Annunciare a gran voce che il Capitano veniva da via Bellerio, Milano, “a liberare” l’Emilia Romagna dall’oppressione della sinistra e/o, a seconda delle versioni, “dei comunisti”, programma senz’altro gradito ai molti elettori ex-comunisti che già avevano votato Lega, o che ci stavano facendo un pensierino; e che si parva licet, ha incontrato lo stesso successo dell’esportazione della libertà e della democrazia in Iraq o in Afghanistan da parte degli USA.
  3. Espiantare dalla propaganda ogni parvenza di argomentazione razionale e progettazione politica, locale e nazionale, sostituendovi mozioni dei sentimenti, buoni e cattivi, e bagni di folla corredati di digressioni foto-gastronomiche (errore direttamente conseguente alla rinuncia ad affrontare seriamente il tema dei rapporti con la UE, cioè la fondazione razionale della protesta che ha valso a Salvini la moltiplicazione dei consensi)
  4. Millantare un atteggiamento di aggressività popolaresco-squadrista: capolavoro, la citofonata minacciosa in favore di telecamere al presunto spacciatore tunisino del quartiere Pilastro, a Bologna; quando (per fortuna) la Lega non ha né la voglia, né la capacità di fare sul serio dello squadrismo o del vigilantismo.
  5. Far candidamente annunciare alla candidata Borgonzoni la privatizzazione del 50% della sanità pubblica emiliano-romagnola, una delle migliori se non la migliore d’Italia; un annuncio senz’altro gradito dai ceti sociali a basso reddito, gli “esclusi dalla globalizzazione” che sono i principali sostenitori della protesta leghista.
  6. Costellare la campagna regionale con esternazioni a margine quali “Gerusalemme capitale d’Israele”; “Soleimani terrorista, giusto ucciderlo”; “chi odia Israele è un criminale che va prima curato poi messo in galera”; perle di saggezza da grande statista, consapevole di quali siano gli interessi vitali d’Italia nel Mediterraneo, che gli hanno certamente conquistato le più vive simpatie degli elettori emiliano-romagnoli cresciuti nelle culture politiche del PCI, del PSI e della DC.
  7. Insomma, aver provocato a battaglia decisiva l’avversario sul terreno a lui più favorevole senza darsi la pena di studiare né l’avversario, né il terreno. Per riassumere, non aver capito che in Emilia-Romagna c’è un solido sistema di potere sorretto da una metapolitica ben strutturata, e che se non si capisce e non si sa contrastare efficacemente la metapolitica, il sistema di potere non si abbatte neanche vincendo le elezioni: al massimo, vi si può ritagliare un posticino anche per sé.

A quanto fanno prevedere le dichiarazioni a caldo di Salvini – “Dovrete aspettare vent’anni perché mi stanchi”, “Rifarei tutto daccapo citofonata compresa”, “Le elezioni politiche? sono nelle mani del buon Dio” – la Nuova Lega e il suo Capitano continueranno a battere la stessa via, un’elezione locale dopo l’altra, e probabilmente con il medesimo successo, nella speranza che “il buon Dio”, che sarebbe poi il Presidente Mattarella, indica le elezioni politiche, e l’elettorato italiano continui a premiare il Capitano.

Non è detto che ciò accada, perché il tempo, che è “il santo protettore della difesa[4] logora la speranza; e nella sua infaticabile, efficacissima azione di propaganda, che ha fatto passare la Lega dal 3% al 30% e oltre dei consensi, il Capitano da tre anni vende speranza al popolo italiano. Speranza di protezione, speranza di una via d’uscita praticabile dalla crisi sociale, morale, politica in cui versiamo; speranza di riconoscimento per chi si sente escluso e scoraggiato. Il Capitano vende speranza, ma per ora – un “per ora” che comincia a farsi lungo – non riesce a consegnare la merce sperata; e “più la vittoria si fa attendere e più le armi si arrugginiscono[5].

Andrebbe qui affrontato anche il tema più importante e più serio, vale a dire: che cos’è “la merce sperata”, in concreto? Ottenuta la vittoria elettorale politica, che cosa dovrebbe e potrebbe fare, in concreto, un governo guidato dal Capitano? Quali sarebbero, gli obiettivi raggiunti i quali si potrebbe dichiarare “vittoria”? E con quali mezzi, provvedimenti, alleati raggiungerla?

Per ora, mi limito a osservare che alla Nuova Lega e il suo Capitano Matteo Salvini va riconosciuto il merito insigne d’ aver suscitato un vasto movimento popolare di protesta; constatando però che purtroppo, non sembra sapere come e dove guidarlo.

That’s all, folks.

 

 

 

[1] Riprendo il titolo, Verlorene Siege, di un bel libro uscito nel 1955 del Feldmaresciallo von Manstein, il miglior generale della Wehrmacht nella IIGM.

[2] Perché difendersi è molto più facile che attaccare, tant’è vero che nei manuali di tattica abitualmente si dice che l’attaccante, per avere buone probabilità di successo, deve garantirsi un rapporto di forze di almeno 3:1 sul difensore (nel punto dell’attacco, ovviamente).

[3] Gen. Carlo Jean, Manuale di studi strategici, Roma, Franco Angeli ed., 2004, p. 153. In questo passo e nei successivi Jean illustra il concetto clausewitziano di “punto culminante della vittoria”, al quale il grande teorico prussiano dedica il cap. XXII del libro VII nella sua opera maggiore, Della guerra. Il concetto di “punto culminante della vittoria” è il precipitato teorico dell’esperienza vissuta da Clausewitz nelle guerre napoleoniche, che combatté nell’esercito russo e studiò brillantemente nel suo Der Feldzug von 1812 in Rußland (La campagna del 1812 in Russia, non tradotto in italiano). Il “punto culminante della vittoria”, per Napoleone, fu la battaglia di Borodino, come la chiamarono i russi e, grazie alla celeberrima descrizione di Tolstoj in Guerra e pace, la chiamiamo anche noi; o la battaglia della Moskova, come la chiamarono i francesi. Borodino/Moskova, “la più terribile delle mie battaglie” nelle parole di Napoleone, fu uno spaventoso macello (250.000 soldati in campo, 35.000 perdite francesi, 44.000 perdite russe). Alla fine della giornata i francesi avevano conquistato le posizioni nemiche, e il gen. Kutuzov, comandante in capo delle armate russe, aveva ordinato la ritirata: ma le truppe russe, nonostante le terribili perdite subite, rimanevano in campo e non mostravano segni di collasso. L’obiettivo strategico di Napoleone (fiaccare la volontà di combattere del nemico, far sì che i suoi dirigenti politici si riconoscessero sconfitti, aprire una trattativa in posizione di forza) non era stato raggiunto. Da quel momento in poi, nell’interpretazione degli eventi bellici di Clausewitz (e di Tolstoj) inizia la sconfitta della Grande Armée napoleonica.

[4] Clausewitz.

[5] Sun Tzu.

Chi vince, chi perde, chi aspetta. di Giuseppe Germinario

Il responso delle elezioni regionali in Emilia/Romagna e in Calabria più che una sentenza rappresenta una sospensione di giudizio, tranne che per uno dei protagonisti

CHI HA VINTO

Ha vinto il PD, ma solo perché ha guadagnato tempo; non è comunque poco. Ha mantenuto sostanzialmente le posizioni delle elezioni europee non ostante le due mini scissioni di Calenda e Renzi; la presa sul sistema di potere ed amministrativo della regione emiliano-romagnola, il vero zoccolo duro del partito, presenta ormai delle crepe ormai durature e definitive. Per resistere ha dovuto addirittura fingere di negare se stesso. Le sue speranze di ripresa o quantomeno di galleggiamento sono riposte nel recupero del voto grillino avvenuto, al momento, solo in piccola parte non ostante i proclami della stampa; il fìo da pagare in termini di statura politica e autorevolezza di governo sarà pesante con i suoi legami con i corpi intermedi e i ceti produttivi, la vera ossatura del fu PCI, sempre più allentati. Riproporrà con un po’ più di coraggio una politica redistributiva ad uso elettorale, ma perderà sempre più la pur scarsa capacità di indirizzare i settori sempre più risicati legati agli interessi nazionali e con essa la velleità, anch’essa già scarsa di suo, di contrattazione in sede europea. Il suo modello è Corbyn, nel momento tardivo della amara sconfitta.

Ha perso Matteo Salvini, soprattutto nell’immediato perché ha puntato alla luna, al naufragio di Giuseppi, usando per sgabello le elezioni regionali; i precedenti infausti delle cadute di precedenti illustri leader politici, perché aggrappati a boe di salvataggio improprie non sono stati di monito; ha perso, soprattutto nel lungo termine, perché si è dimostrato solo un tribuno che crede a quello che fa e che dice; gli manca l’autorevolezza e l’intelligenza dello statista e del leader autorevole. Ha rivelato una propensione spiccata, specie in politica internazionale, ad un servilismo gratuito e compiacente, meno discreta ma del tutto speculare alla classe dirigente piddina e del tutto inutile, se non controproducente, ad ottenere la considerazione benevolente del potente della fazione avversa.

Galleggia la Lega. Ha il privilegio e la fortuna di essere, non ostante il recente congresso semiclandestino, ubiqua ed ambigua. E’ Lega Nazionale di nome, ma conserva saldamente gran parte dell’anima della Lega Nord. Non cresce, ma consolida i risultati eccezionali di questi ultimi due anni. Qualche scricchiolìo si intravede, specie nei nuovi terreni elettorali di caccia. Riesce a mantenere il consenso solido, anche nella composizione sociale del voto, nel Nord-Italia, consolida i varchi aperti nel Centro-Italia, annaspa nel Centro-Sud. Ha raccolto il massimo del voto di protesta e delle vittime della globalizzazione e dei ceti intermedi in crisi; di più non potrà se non arriva a formare una nuova classe dirigente e nuovi leader politici. Impresa improba ed improbabile. Dovrebbe avere chiara la propria idea di interesse nazionale, a cominciare dalla collocazione nella Unione Europea e nello schieramento atlantico e definire una tattica di apertura di contraddizioni e di rottura di questo cappio di relazioni. Piuttosto che verbosità roboanti che celano accettazioni e subordinazioni supine o obtorto collo, tattiche più discrete ma determinate. Su queste basi riuscire a convogliare gli interessi “forti” suscettibili di essere catturati, senza i quali difficilmente si potrà passare da un atteggiamento protestatario alla costruzione di un blocco di potere e sociale alternativi e patriottici. Il rischio permanente rimane un ritorno sotto mutate spoglie alle origini.

Vincono le sardine. Non sono una pura emanazione del PD. Sono qualcosa di molto più complesso e sofisticato, ispirate e mosse da centri ben più accorti. Sono nate con l’obbiettivo di delegittimare e ridicolizzare il loro avversario, Salvini; di proporre una visione tecnocratica ed aristocratica, sinonimo nella fattispecie di spocchiosa, di formazione e conferma di una classe dirigente; di riportare nell’alveo progressista quell’area movimentista e parolaia che ricondurrà all’ovile parte di quel bacino elettorale, ma che segnerà definitivamente le sorti e le caratteristiche del Partito Democratico. Una negazione e un negativismo caratteristico delle “open society” di matrice sorosiana, a prescindere dalla loro espressione diretta. Se e quando scompariranno non sarà una loro sconfitta; semplicemente il compimento di un servizio. Un ulteriore veleno instillato per garantire qualche tempo di sopravvivenza ad una classe dirigente marcia e decadente in un paese già in tragico ritardo rispetto alla complessità e drammaticità degli eventi. Un gioco al quale Salvini si è prestato involontariamente. Le Sardine hanno indotto Salvini ad esagerare; non gli ci è voluto molto.

Cresce, ma rimane nella nicchia, sia pure appena più larga, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. L’ambizione di essere un partito nazionale è grande, la vocazione di riportare il tutto nell’ambito del centrodestra prevale, i retaggi del passato e il peso dei resti berlusconiani al suo interno fanno il resto; sono la zavorra che impediscono di spiccare il volo.

Naufraga senza scampo il M5S. Alle europee ha conosciuto un esodo parziale verso Salvini ed un congelamento nell’astensione di una buona metà dell’elettorato. Con le lezioni regionali è iniziato un parziale travaso del voto restante nell’area progressista e una attesa generale del grosso dei votanti residui. Un gruppo dirigente allo sbando e un ceto di eletti destinati in gran parte all’anonimato. Una miscela esplosiva produttrice del peggior opportunismo e trasformismo. Prima si consumeranno, meglio sarà.

Intanto si attendono le prossime elezioni regionali.

Che ne sarà nel frattempo?

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