Fine del (primo?) Governo Conte_con Augusto Sinagra

Il (primo?) Governo Conte pare proprio essere giunto all’epilogo. Paradossalmente il più determinato a trarre le estreme conseguenze del gesto di Salvini appare proprio il Presidente del Consiglio. Una situazione che nel male che pare profilarsi costringerà quantomeno ad una demarcazione netta degli schieramenti tra i partiti prima e all’interno di essi dopo sulla base di orientamenti ed opzioni più nette e chiare. Potrebbe essere il prodromo al nascere di nuove formazioni dai programmi e dai proclami più corrispondenti al proprio orientamento di fondo. Buon ascolto _Giuseppe Germinario

IL FIGLIO DI BERNARDO MATTARELLA, di Augusto Sinagra
Il responsabile dell’attuale caos politico e istituzionale è solo lui, sempre lui: il figlio di Bernardo Mattarella il cui fragoroso silenzio si fa sentire in ogni circostanza. È lui che in tutti i modi cerca di deviare l’azione del governo dalla cura degli interessi nazionali alla difesa parossistica degli interessi delle oligarchie monetarie, del pareggio di bilancio, della finanza senza volto, dell’euro e di questa Unione europea.
Egli agisce attraverso i Ministri che lui ha imposto. Agisce attraverso inedite iniziative in alcun modo costituzionalmente compatibili come le aberranti interpretazioni che lui indica al governo a proposito dei provvedimenti del Ministero dell’Interno. Lui che è il Capo del CSM in questo modo ipoteca l’interpretazione da parte dei giudici, interpretazione da lui voluta di provvedimenti legislativi.
Io non ho capito se viviamo in un momento di crisi governativa, anche se ancora non parlamentarizzata, o meno. Quel che è certo è che l’azione del governo, indipendentemente dai giudizi che se ne danno, non potrà svolgersi compiutamente in conformità alla volontà popolare, se non verranno allontanati soggetti come Moavero Milanesi, Tria (Ministro perché amico del figlio del figlio di Bernardo Mattarella) e della Trenta che, in modo eccentrico, ha rifiutato la firma per il nuovo decreto di ingresso della Open Arms nelle acque territoriali italiane, e pare che abbia mandato navi militari italiane a scortarla con il suo carico di “naufraghi paganti” cioè di clandestini.
Non si capisce cosa sia capace di coordinare il giovanotto pugliese Giuseppe Conte.
La crisi è cominciata non l’altro giorno per volontà del Ministro Matteo Salvini, ma nel momento stesso in cui è nato questo governo.
I tempi prossimi saranno tempi duri: l’immigrazione clandestina continuerà sempre più massiccia. L’Italia sarà sempre più sbeffeggiata nel mondo.
Bisogna tenere i nervi saldi. Prima o poi si tornerà a votare e allora ci sarà la resa dei conti e sperabilmente il nuovo Presidente della Repubblica sarà espressione di una diversa maggioranza parlamentare.
Il peggio deve ancora venire ma, come diceva Eduardo De Filippo: “ha da passà ‘a nuttata”.
Perché una cosa è certa: l’Italia è immortale nonostante i piccoli e squalificati personaggi, falsari e traditori, che affollano la attualità.
Nonostante tutto, auguro un sereno ferragosto a tutti.

Navigazione a vista, di Roberto Buffagni

Navigazione a vista

 

 

navigare a vista

loc.v.

1. TS mar., aer. n. utilizzando punti di riferimento visibili, spec. per le condizioni atmosferiche favorevoli
2. CO fig., spec. nel linguaggio politico, cercare di destreggiarsi in determinate situazioni senza avere solide basi o validi punti di riferimento

Dizionario De Mauro

 

Il Capitano ha sciolto gli ormeggi, salpato l’ancora e si è avventurato in mare aperto. Perché proprio ora, perché in questo modo? E che cosa lo (e ci) aspetta)?

Perché proprio ora, perché in questo modo

La rottura non è stata preparata a dovere, il tema su cui si è consumata secondario, e sono alti i rischi di conseguenze infauste per la Lega, che si è assunta l’intera responsabilità della svolta politica. A mio avviso, le ipotesi sono due:

  1. a) E’ un errore. Impazienza, pressioni interne (insoddisfazione del Lombardo-Veneto per l’impaludamento delle autonomie), eccesso di fiducia nell’appoggio di Trump, logoramento dei rapporti tra alleati, sondaggi in crescita costante che danno alla testa, in breve: mossa tattica molto arrischiata.
  2. b) E’ una mossa obbligata. Salvini ha informazioni attendibili del prossimo arrivo di una grossa tegola che mette a rischio la sua sopravvivenza politica: per esempio, uno sviluppo molto serio e grave dell’inchiesta russa. Giudica l’alleato inaffidabile, anche soltanto per garantirgli in Parlamento protezione dai futuri provvedimenti giudiziari a suo carico. Ritiene che per lui, l’unica difesa efficace sia una rapida vittoria elettorale e l’incarico di Presidente del Consiglio, e rompe: sempre meno rischioso che attendere.

Tra le due ipotesi, ritengo più verisimile la b), “mossa obbligata”. Motivo: Salvini e la Lega non hanno una visione strategica, un personale politico e un orizzonte mentale  all’altezza della sfida a loro imposta dalle opposizioni interne e soprattutto esterne. Sono però politici esperti, e in particolare Salvini è un tattico molto abile.

Sottolineatura: non ho informazioni privilegiate dall’interno o dall’esterno della Lega. Avanzo ipotesi sulla base delle informazioni disponibili a chiunque.

 

Che cosa aspetta Salvini e noi

Tra le forze in campo, la più importante è il “partito istituzionale”, come lo definisce bene Giuseppe Germinario in questo articolo, http://italiaeilmondo.com/2019/08/09/conte-alla-rovescia/ .

Dagli indizi che raccolgo, ho l’impressione (l’impressione e basta) che il “partito istituzionale” stia esitando tra due possibili reazioni alla rottura di Salvini, queste:

1) Sollecitare un “rovesciamento delle alleanze” parlamentari da parte del M5*, in combinazione con una coalition of the willing che può assumere diverse forme e adottare diverse formule, ma che conclude alla formazione di un governo che ritardi di almeno sei-otto mesi le elezioni e consenta a) di condurre a fondo l’attacco, giudiziario o d’altro genere, a Salvini b) di rinforzare l’opposizione interna a Salvini c) di dare all’attuale opposizione il tempo di strutturarsi e di arrestare almeno provvisoriamente la frammentazione che la incapacita.

2) Promuovere la formazione di un governo di “centrodestra istituzionale”: Lega, Forza Italia, FdI. “Centrodestra istituzionale” significa: a) un governo “responsabile” nei confronti della UE e rispettoso degli attuali equilibri interni delle classi dirigenti italiane; ne sarebbe garanzia  la presenza di Silvio Berlusconi, che conta elettoralmente poco ma sin dal 2011 si è fatto tramite di forze importanti, sia interne alla UE, sia interne agli USA, e può appoggiare la linea “lombardo-veneta” dell’opposizione interna alla Lega b) un governo che ripropone la contrapposizione tradizionale destra/sinistra, e pertanto da un canto aiuta l’opposizione a ristrutturarsi su base identitaria, dall’altro costituisce di per sé una manovra diversiva rispetto alla linea di faglia principale del conflitto in corso, che NON è destra/sinistra ma mondialismo/nazionalismo, proUE/antiUE.

L’ipotesi 1, “rovesciamento delle alleanze”, presenta seri problemi e rischi, questi: a) l’attuale opposizione è frammentata e discorde, non è pronta per guidare l’operazione b) il Movimento 5* si caratterizza per il fatto, invero paradossale, di essere una forza politica che non designa un nemico (indica come nemico categorie impolitiche quali “i corrotti”, etc.); il che, in linea di principio, gli consentirebbe il “rovesciamento delle alleanze”. Nonostante ciò, neanche il M5* sfugge alle regolarità del Politico, e non può permettersi un simile voltafaccia a costo zero: un così brusco rovesciamento di fronte potrebbe causarne, in tempi brevi, la disgregazione. Si aggiunga che il centrodestra potrebbe condurre, in Parlamento, una campagna acquisti tra deputati e senatori 5*, intimoriti da una operazione politica spericolata e precaria c) l’operazione “rovesciamento delle alleanze” è MOLTO pericolosa per le istituzioni repubblicane, perché mette direttamente l’uno contro l’altro Parlamento e popolo. Una ripetizione pura e semplice dell’operazione Monti è sconsigliabile: è un film che gli italiani hanno già visto, e non hanno amato per nulla. Si aggiunga che Salvini, specialmente se davvero ha fondati motivi per ritenere a rischio la sua sopravvivenza politica, potrebbe reagire in due modi entrambi pericolosi: mobilitando le piazze, e facendo leva sulle regioni del Centro-Nord governate dalla Lega (alle quali si potrebbe associare, in autunno, anche l’Emilia-Romagna).

Anche l’ipotesi 2, “governo di centrodestra istituzionale”, presenta problemi e rischi. Il rischio maggiore, naturalmente, è l’insediamento alla Presidenza del Consiglio di Salvini. Non perché Salvini sia l’avatar di Cesare, Mussolini o Putin, ma perché avrebbe un’amplissima base elettorale personale che da un canto ne aumenterebbe il peso politico, dall’altro lo costringerebbe a non trascurarne le esigenze fondamentali (protezione identitaria e sociale). La soluzione presenterebbe però alcuni vantaggi non secondari: a) scaricare sulle spalle di Salvini l’intero peso del governo, e dei suoi errori e fallimenti, in una situazione per nulla facile b) intervenire nella formazione del governo, assicurandosi che i ministeri chiave vadano a personalità “istituzionali” c) contrattare con l’opposizione interna “lombardo-veneta” della Lega una via accettabile per l’adozione delle autonomie regionali, con il relativo contraccambio politico d) non soltanto eviterebbe la pericolosa contrapposizione Parlamento/popolo, ma rafforzerebbe le istituzioni; rafforzerebbe anche gli attuali equilibri interni delle classi dirigenti politici, nel caso (probabile) che il “governo di centrodestra istituzionale” operasse senza mai mettere seriamente a rischio l’assetto presente della UE.

Nel frattempo, la polarizzazione culturale continua ad accentuarsi, anche se non riesce a tradursi compiutamente in polarizzazione politica. I due campi, progressista-mondialista/antiprogressista-nazionalista (o sovranista) continuano la loro cristallizzazione identitaria. A dimostrazione del fatto che nessuno dei due campi è in condizione di pretendere ad una vera egemonia culturale, entrambi manifestano se stessi in forma di autoparodia inconsapevole. E’ autoparodia inconsapevole il disk-jockey Salvini del Papeete, che insieme al coro del pueblo e alle cubiste leopardate intona e stona l’Inno di Mameli; è autoparodia papa Francesco che si prostra a baciare le scarpe degli stupefatti diplomatici sudanesi, autoparodia i dignitari ecclesiastici che ignorano le Sacre Scritture (per esempio inventandosi il lieto fine per Sodoma e Gomorra) o mettono in dubbio i Vangeli “perché al tempo di Gesù non c’era il registratore”; autoparodia il sindaco di Milano Sala che saluta a pugno chiuso, eccetera.

L’autoparodia inconsapevole è un segnale d’allarme culturale inequivocabile, perché manifesta la vaporizzazione delle gerarchie interiori e dell’intima adesione a norme e valori, dei quali residuano soltanto i morti feticci, i gusci vuoti. Ciascuno dei due campi culturali tenta di definirsi evocando magicamente una identità perduta, dimenticata, irrecuperabile.

Il campo progressista-mondialista evoca la corrente messianica del progressismo, e adotta come sue icone  i segni che alludono allo sradicamento come liberazione: il pugno chiuso comunista, e soprattutto il migrante come icona dell’uomo senza radici, l’uomo tabula rasa da cui nascerà l’uomo nuovo.

Il campo antiprogressista-nazionalista evoca la “Religion santa di me vicc da ca’/che in mezz al tribuleri di passion/no te fett olter che tiratt in là,/in fond al coeur, scrusiada in d’on canton…” (Carlo Porta): ma che cosa resta, della religione del vecchi di casa? Che cosa resta, soprattutto, dei vecchi di casa, e della casa? Resta la serigrafia di Andy Warhol del Calendario di Frate Indovino a cui mi fa pensare Salvini quando ostende il rosario nei comizi, o invoca l’Immacolata Concezione. O fa cantare in spiaggia alle ragazze di coscia veloce il Canto degli italiani, che è un canto di battaglia (sanguinosa, coi morti veri).

Ed entrambi i campi insistono ad evocare quel che non sono, quel che gli manca: il campo progressista-mondialista, che raccoglie anzitutto i garantiti e i soddisfatti dello status quo, evoca la rivoluzione antropologica e sociale e l’eguaglianza; il campo antiprogressista-nazionalista, che raccoglie anzitutto gli sradicati e i socialmente precari, evoca il mos maiorum, la tradizione, la patria, la famiglia.

Prosegue così, in forma grottesca e sorprendente, la critica pratica alle tre parole d’ordine della rivoluzione francese: libertà, eguaglianza, fraternità. Hic Rhodus, hic salta.

 

 

 

Conte alla rovescia, di Giuseppe germinario

È iniziata la crisi di governo. Mi sarei aspettato ancora qualche mese di tregua. Non si sa ancora però da quale tetto partirà il conto alla rovescia; se da dieci o da quattrocento (giorni).Hanno pesato certamente le forzature istituzionali perpetrate continuamente da Matteo Salvini in questi mesi; come pure la sua progressiva attrazione verso la tradizionale componente associativa nel mondo economico e la sua enfasi retorica sempre più berlusconiana; come ancora i ritardi sulla autonomia differenziata. Due capi di Governo sono comunque troppi in un esecutivo. La sostanza delle cose è però ben altra. Dovesse precipitare in pochi giorni, entro il mese, lascerà diversi personaggi politici con il cerino acceso in mano.

  • Lascerebbe per strada i transfughi di Forza Italia, in particolare Toti e Carfagna, senza che siano riusciti a trovare un approdo certo o che abbiano il tempo necessario a costruirsi un naviglio da aggregare alla nave ammiraglia salviniana
  • Lascerebbe in mezzo al guado il M5S senza che abbia potuto costruire una strategia coerente tesa a contenere le perdite scegliendo con più chiarezza una delle sue due anime la convivenza delle quali avevano consentito il successo di appena diciotto mesi fa, stava logorando velocemente e inesorabilmente però il movimento, una volta salito al governo
  • Porrebbe definitivamente in un angolo la fazione democratica di Matteo Renzi, sino ad ora l’involontario ma più coerente sostenitore, pur dal campo avverso, del sodalizio gialloverde

Le modalità fratricide e violente di conduzione della campagna delle elezioni europee in seno al Governo, ad opera soprattutto del M5S e l’esito drammatico della competizione ai danni di quest’ultimo, sfavorevole indistintamente a tutto il variegato gruppo dirigente pentastellato, hanno dato l’avvio alle convulsioni. Volente o nolente stanno riducendo il M5S ad una delle componenti, probabilmente nemmeno la più importante, posizionate ad accerchiare e stringere nella morsa Salvini e la Lega. Una posizione scomoda che segnerà il carattere residuale se non la fine del movimento; un destino che lo accomuna a quello di Podemos in Spagna, France Insoumise in Francia e Syriza in Grecia. Non ostante i tardivi tentativi di recupero non pare in grado di mantenere i consensi nemmeno nella propria componente giustizialista e ambientalista.

Offre a Berlusconi la possibilità di compiere l’ultimo atto di raccolta dei cocci di Forza Italia, prima della sua definitiva estinzione. Un mero atto di testimonianza utile comunque a frenare il processo di rinnovamento del quadro politico italico

Se il M5S e Forza Italia si avviano al ruolo di comparse o di “utili idioti” lo scontro vero si concentrerà tra i due schieramenti principali.

La componente istituzionalista, impersonata dal Presidente della Repubblica Mattarella, dal Presidente del Consiglio uscente Giuseppe Conte, dal PD di Zingaretti da una parte e Lega e Fratelli d’Italia dall’altra. Tutti i passi di Giuseppe Conte, specie quelli in sede di Unione Europea, hanno operato nella direzione di questo movimento istituzionalista. Il frutto immediato sarà probabilmente un nuovo Governo Conte che porti, senza Salvini ministro, alle elezioni politiche. Lo schieramento opposto, però, più che il campo avverso si rivelerà il campo di battaglia dei due orientamenti opposti. La congiuntura internazionale, in particolare la permanenza almeno per un anno ancora di Trump alla Casa Bianca e la crisi violenta che dovrebbe colpire la Germania in Europa, potrebbe essere il grimaldello sufficiente a consentire il sopravvento della componente più “sovranista” nella compagine opposta e l’indebolimento delle componenti federaliste e veteroeuropeiste presenti in esso. Le accuse di filoputinismo rivolte a Salvini sono il classico richiamo alla moglie perché suocera (Trump) intenda. Elementi tutti da approfondire nei prossimi articoli

 

Lilli e il vagabondo, di Giuseppe Germinario

A scrutarlo con benevola accondiscendenza, gli occhi di Alessandro Di Battista rivelano la sua più grande aspirazione: poter riprendere le peregrinazioni alla scoperta del mondo. Una propensione sopita a fatica durante il suo intenso ciclo quinquennale di impegno parlamentare. Un logorio che a suo dire lo ha spinto a non sfruttare la seconda ed ultima opportunità di rielezione offerta dallo statuto del M5S. Un bisogno irrefrenabile di uscire da un ambiente, sempre a suo dire, del tutto avulso dalla realtà della vita quotidiana della gente comune. L’indole sarà senz’altro questa, ma la spinta ad assecondarla molto prosaicamente sarà venuta dall’impossibilità di gestire due galli nello stesso pollaio governativo e dalla necessità di tenersi un leader di riserva del movimento in caso di fallimento del predestinato e di svolte inopinate. Che sia questa la reale motivazione è stato lo stesso Dibba a riconoscerlo confessando pubblicamente il magone provato al momento dell’insediamento del suo amico Gigino e rivelando la sua ambizione pudicamente nascosta a ricoprire l’incarico nientemeno che di Ministro degli Esteri. Il buon Di Battista, evidentemente, deve ritenere più che sufficiente la sua formazione terzomondista maturata con le sue peregrinazioni “on the road” in America Latina e la sua vicinanza fisica a quei popoli come d’altro canto praticamente irrilevante la precaria conoscenza del peso delle dinamiche della diplomazia, delle relazioni tra stati, centri decisionali ed elite per ambire a quell’incarico. Lo spessore politico dell’attuale facente funzioni come della maggior parte dei predecessori, compresi i competenti, non deve certo averlo indotto a moderare le proprie ambizioni; sono però limiti tollerabili tuttalpiù nel perseguire politiche completamente afone e allineate a centri decisionali internazionali affermati ed incontrastati. Normalità d’altri tempi. In una fase di conflitto estremo e dichiarato tra centri decisionali all’interno della stessa nazione egemone e di multipolarismo acclarato diventano al contrario tare destinate a segnare l’esistenza stessa di un paese geopoliticamente importante come l’Italia. La realizzazione di quella aspirazione avrebbe quindi certamente consentito a Dibba di conciliare il suo impegno politico e la sua indole di girovago; quasi certamente la realtà delle cose lo avrebbe condotto più o meno consapevolmente e rapidamente nel solco globalista e dirittoumanitarista proprie di uno degli schieramenti, sia pure con eccezioni apparenti come quelle sul Venezuela, con grave e irrimediabile nocumento per il paese. Una ambizione, la sua, alimentata in realtà da velleità che rivelano per altro quanto meno una grave sottovalutazione del peso avuto dal Presidente Mattarella nel determinare la maggior parte degli incarichi fondamentali nel Governo Conte.

Qualche tarlo deve però aver roso la sua testa se la lunga immersione nei popoli d’America ha previsto l’eccezione significativa dei contatti con il mondo istituzionale e imprenditoriale statunitensi; la sua curiosità ed affinità elettiva si è limitata però allo stesso solco tracciato sei anni prima dall’odiato Matteo Renzi.

La cruda realtà alla fine ha riportato Dibba in Italia già l’inverno scorso. Da una parte il magro successo di vendite della sua opera editoriale ed i conseguenti scarsi introiti, dall’altra il timore di un insuccesso marcato alle elezioni europee lo hanno costretto al rientro forzato e al ritorno all’impegno politico diretto. Non è stato il guado del Rubicone di un novello Cesare. Il paventato insuccesso si è quasi trasformato in un tracollo elettorale e Di Battista si è rivelato un argine eroso dai fontanazzi. Cionondimeno il suo impegno ed attivismo non si è ridotto. Alle sue comparsate in televisione rese sostenibili e dignitose, sia pure a fatica, dall’utilizzo abile di luoghi comuni teso a sottolineare il suo allineamento alle posizioni ufficiali filogovernative, si avvicendano cinguettìi, comizi e manifestazioni pubbliche nelle quali la retorica polemica, in particolare verso l’alleato di governo, prende il sopravvento. Tra le prime ha brillato il confronto con una Lilli Gruber sempre più partigiana e sempre più dimentica di svolgere la professione di giornalista terminato con un eloquente sospiro di sollievo del nostro. Tra le seconde, l’uso sempre più frequente e ossessivo di locuzioni del tipo “credetemi” sono il segno involontario di una forzatura e del sentore che la presa del suo fervore si sta allentando tra gli stessi adepti più osservanti.

Il personaggio Di Battista, più che per il peso effettivo della sua azione, è importante perché rappresenta l’espressione più chiara delle tare e dei limiti di un movimento sempre più complice, volontario o meno, dell’opera di accerchiamento della Lega di Salvini da parte di forze ben più potenti e pervasive.

Il M5S ha sicuramente al proprio attivo alcuni meriti. L’eliminazione di alcuni degli aspetti efferati del Job Act varato da Renzi; l’intenzione di varare il salario minimo garantito di fronte ad una radicale perdita di rappresentanza dei sindacati e di polverizzazione del mercato del lavoro; il freno ad alcuni degli aspetti separatisti degli accordi incipienti di autonomia differenziata delle Regioni. Il secondo però è sminuito dal disconoscimento del valore della rappresentatività sindacale e della contrattazione nazionale del rapporto di lavoro; il terzo appare più che altro un atteggiamento strumentale teso a dilazionare a futura memoria le richieste di autonomia regionale con il solo scopo di paralizzare e dividere la Lega.

Al di là di questi successi tattici, il M5S soffre della contraddizione sempre più evidente tra un gruppo dirigente espressione in netta prevalenza della componente girotondina, giustizialista e dogmatico-ambientalista ed un elettorato sino a pochi mesi fa trasversale, ma in via di ridimensionamento nelle sue varie componenti, ma soprattutto in quella economicamente più attiva e politicamente più istituzionale, proprie del vecchio centrodestra.

I richiami assillanti ed univoci all’onestà e l’ossequio conclamato all’azione qualsivoglia dei giudici ne fanno una cassa di risonanza della crescente manipolazione giudiziaria dello scontro politico. Dalla vicenda dei 49milioni di euro della Lega dei tempi di Bossi e Maroni addebitati al nuovo gruppo dirigente, a differenza degli analoghi del vecchio PDS, al caso delle dimissioni del Sottosegretario Siri, le cui indagini sono immediatamente cadute nel dimenticatoio, al vero e proprio fumo persecutorio dell’affare russo Metropol, le cui dinamiche tutt’altro che interrotte, sembrano una parodia del bluff del Russiagate che ha paralizzato per anni la Presidenza Trump, il gruppo dirigente del M5S ha pensato di lucrare ai danni della Lega sino a concedere, con il progetto di riforma del Ministro Bonafede, ai centri di potere della Magistratura, cristallizzati nel Consiglio Superiore, ulteriori poteri di determinazione delle politiche giudiziarie, proprie del potere legislativo e di controllo dei singoli magistrati.

L’attacco all’affarismo nella gestione della spesa pubblica e di una concezione regressiva della difesa ambientale stanno portando ad una contrapposizione antagonistica le esigenze di tutela ambientale e la difesa e sviluppo della residua industria strategica e delle infrastrutture di rilevanza nazionale. Il caso dell’ILVA di Taranto è probabilmente il più emblematico. I pifferai del M5S sono il supporto di forze politiche ben più incisive, del peso del Presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, a favore di interessi militari atlantisti, economici europei tesi a ridurre le quote europee di produzione dell’acciaio a spese dell’Italia e di mire di ulteriore subordinazione geoeconomica della struttura economica del paese con la distruzione completa della propria industria di base, tutti coalizzati nell’obbiettivo di chiusura dello stabilimento. Un ritorno ai temi dello scontro politico di settant’anni fa, ma con un esito opposto, nefasto.

La stessa difesa dei diritti del lavoro e di livelli minimi di reddito si riducono ad una scatola vuota utile tuttalpiù a creare delle nicchie assistenzialistiche e di privilegio e tutela corporativa senza una politica economica di espansione della base produttiva e di potenziamento dei settori strategici nonché di riconoscimento delle competenze professionali.

Il M5S si sta rivelando sempre più come una delle forze di normalizzazione, anche se non l’esclusiva e nemmeno la più importante, della anomalia politica italiana. Parte di una vera e propria manovra a tenaglia che cerca di mettere a tacere qualsiasi velleità minimamente autonomistica nelle scelte politiche del paese; una azione rivelatasi al momento in tre aspetti ed episodi, ma suscettibile di allargarsi ad altri ambiti ancora più dirompenti: l’affare Metropol di presunti fondi russi alla Lega, la guerra per bande nel CSM, la gestione delle nomine in sede UE (Unione Europea).

L’affare Metropol di Mosca affiora cinque mesi fa, grazie ad un servizio del settimanale Espresso, ed esplode grazie al contributo di un sito legato agli ambienti democratici americani. Prende corpo dopo l’esito delle elezioni europee ancora favorevole alla vecchia guardia europeista ma minacciata dal successo leghista in Italia e da altre forze in Europa; dopo il viaggio di Salvini negli Stati Uniti culminati con l’incontro con Pompeo e Pence, non ancora una consacrazione, quantomeno una nota di accredito al cospetto dell’attuale Presidenza; dopo le notizie del pesante coinvolgimento di importanti settori dell’intelligence italiana, degli apparati e di numerosi personaggi politici di area piddina nella costruzione di un ramo secondario del Russiagate americano e la probabile richiesta di pulizia ed epurazione pretesa dall’attuale governo americano. Di certo esistono le registrazioni di colloqui così compromettenti in un luogo così aperto ed accessibile ai curiosi di vario genere, l’improbabilità dei personaggi, in particolare italiani, coinvolti e l’impaccio e la goffagine almeno iniziale delle reazioni della vittima designata, il Ministro Salvini. Per il resto mancano la fonte e la certezza certificata delle registrazioni, la certezza dell’originalità dei documenti che stanno affiorando. Il sospetto è che i bersagli siano più di uno, ivi compresa l’attuale dirigenza dell’ENI; la certezza pressoché acquisita è che più che l’iter giudiziario, sia importante lo stillicidio di informazioni tale da paralizzare l’azione politica di Salvini. Gli indizi di pretestuosità e strumentalità nella gestione dell’affare poggiano sulla base solida del prosciugamento delle risorse finanziarie della Lega legate alla vicenda del recupero dei 49 milioni di euro truffati dalla gestione precedente del partito e sulla capziosità della tesi dell’infedeltà e dell’inaffidabilità di Salvini nel garantire la stretta osservanza atlantista. Con questo i detrattori sembrano rimuovere il fatto che attualmente le politiche estere americane sono almeno due; una delle quali prevede il riconoscimento di un ruolo specifico della Russia in antitesi alla crescita di potenza della Cina. Puntano a delegittimare Salvini, come fautore e paladino degli interessi nazionali.

Nella vicenda della gestione del CSM curiosamente nessuno ha avuto da ridire sulla fuga “incontrollata” delle intercettazioni. I garantisti a corrente alternata questa volta hanno scelto di spegnere la luce. Eppure la Procura di Perugia è di piccole dimensioni e non dovrebbe essere particolarmente difficile individuare la fonte delle fughe, la gola profonda. Pochissimi hanno considerato il fatto fisiologico che le decisioni formali di politiche di varia natura presuppongono sempre una attività di tipo informale. La costituzione di una “banda organizzata” tesa a preparare e predeterminare le decisioni presuppone necessariamente l’esistenza di “bande alternative”, colluse e/o antagoniste. L’attenzione si è concentrata su una di esse con il risultato di riportare in auge, nell’occupazione degli incarichi, componenti ridimensionate nelle recenti elezioni al CSM, probabilmente quelle più interessate a concentrarsi sui nuovi filoni di indagine e sul bersaglio grosso. Un interesse che richiede il sacrificio delle componenti renziane, di quelle incidentalmente contrarie a qualsiasi accordo tra PD e M5S. Il progetto di riforma del Ministro grillino Bonafede contribuisce a determinare questa svolta e ad accentrare in mano alle correnti di potere dei magistrati la determinazione delle politiche giudiziarie e dei poteri di controllo dell’azione giudiziaria dei singoli giudici. Una tangentopoli all’ennesima potenza in una situazione nella quale la stessa autorevolezza dell’azione giudiziaria è pesantemente lesa dalla commistione di ruoli ed incarichi e dall’emergere di scandali interni all’ordine. Una condizione diversa da quella di trenta anni fa e molto meno gestibile nella costruzione di una opinione pubblica favorevole.

La gestione delle nomine in sede UE rappresenta plasticamente il crescente sodalizio tra la componente tecnica e quirinalizia e quella grillina del Governo, sintetizzata dal ruolo crescente da protagonista assunto da Giuseppe Conte. La conferma del sodalizio franco-tedesco, avvallata dai grillini e dal Capo di Governo italiano è culminata con la conferma del duo Lagarde-von der Leyen con il voto determinante dei 5stelle. La sintesi tra il più classico filoatlantismo fondato sull’asse francotedesco e le politiche del FMI, laddove la maschera del globalismo individualistico non riuscirà a nascondere il conflitto tra interessi nazionali. La beffa riservata ai neofiti italioti è arrivata appena il giorno dopo con l’annuncio dei Verdi a sostegno delle nuove nomine e la probabile negazione del misero piatto di lenticchie riservato agli ultimi convertiti alla causa della vecchia UE. Ad esso fa seguito l’inedito attivismo del Ministro Moavero in materia di politiche comunitarie sull’immigrazione. Tutto lascia presagire una serie di provvedimenti di facciata tesi a concedere qualche contentino e a togliere l’iniziativa a Salvini sul suo al momento unico cavallo di battaglia vincente. Per il resto, lo conferma il recente accordo europeo con i paesi del Sudamerica, prosegue la politica di drenaggio di risorse dal Sudeuropa e di stretta dipendenza e subordinazione delle loro economie.

La definizione di questi tre ambiti di azione può indurre però ad una rappresentazione fuorviante delle dinamiche politiche nostrane fatta di schieramenti nitidi e delineati. La ridefinizione degli schieramenti in corso nel PD e il cuneo inserito nel M5S che sta portando, al prezzo di un pesante sacrificio elettorale, a far corrispondere i resti del movimento alle affinità elettive del suo gruppo dirigente potrà agire ancora più pesantemente all’interno della stessa Lega.

In essa il cuneo potrà agire su due aspetti consustanziali alla formazione ed esistenza di quel partito. La presenza, nel nocciolo duro lombardo-veneto, di una base sociale costituita da piccoli imprenditori e professionisti ancora convinte delle virtù di questa Unione Europea e la forza di posizioni federaliste che vedono nell’indebolimento delle competenze dello stato centrale, piuttosto che nella loro ridefinizione, le possibilità di sviluppo e progresso locali, comprese le istanze democratiche.

La prima nasconde la realtà di una dipendenza preoccupante della residua struttura industriale e finanziaria nazionale dalle scelte economiche, di marketing e tecnologiche operate in Germania in un contesto del tutto diverso dagli anni ’80 in cui erano assenti i paesi dell’Europa Orientale e la merceologia di prodotti finiti in Italia era più ampia.

La seconda di fatto fonda la propria ragione su più convinzioni maldestre:

  • sulla funzione regolatrice ed equilibratrice dell’Unione Europea delle politiche regionali. Una funzione smentita dalle dinamiche degli ultimi quasi quaranta anni
  • sulla capacità tutt’altro che dimostrata della capacità di amministrazioni regionali di concepire e mettere in opera strutture di valenza strategica tali da poter contrastare gli squilibri, in assenza di uno stato nazionale forte e dotato tecnicamente
  • sul disconoscimento del fatto che un vero stato federale poggia su ferrei ed adeguati strumenti controllo, di riequilibrio e di compensazione tali da garantire forza ed unitarietà all’intera formazione e standard di prestazioni tendenzialmente uniformi verso l’apice
  • sull’elusione del mantenimento di prerogative fondamentali compresa quella della politica estera e delle condizioni di base di esistenza della formazione sociale

Il paese, attualmente, presenta una situazione di tale frammentazione da rendere inderogabile un processo di autonomia decisionale e gestionale regolati

Se l’azione del M5S avesse finalità serie e non strumentali alla contingenza politica dovrebbe prevedere una azione di sostegno di tali istanze accompagnati da processi di modificazione della Costituzione e degli apparati istituzionali tesi a regolare competenze, controlli e compensazioni. Una azione che per retaggi storici la Lega non pare in grado di affrontare coerentemente e che la cosiddetta sinistra ha già dimostrato di poter barattare allegramente in nome di un europeismo lirico. Nemmeno la retorica dei popoli di Italia appare sufficiente a superare tale lascito. La classe dirigente grillina non pare in grado di concepire nemmeno il senso di tale operazione, semplicemente perché anch’essa è vittima del pregiudizio che più l’azione politica è decentrata, più è scevra dai particolarismi e dalle tentazioni elitarie e soggetta al controllo democratico.

Potrebbe essere invece la funzione di una possibile formazione di stampo socialdemocratico piccola al momento, ma coesa e con precisi riferimenti sociali tra i ceti professionalizzati e con funzioni gestionali.

Sono queste le due crepe entro le quali potrà insinuarsi l’azione di restaurazione e di debilitazione dell’attuale gruppo dirigente leghista sino a ricondurlo alle origini oppure di una azione apertamente scissionista.

La situazione è tragica ma probabilmente non del tutto compromessa, più per le condizioni esterne che interne al paese.

Gli Stati Uniti appaiono sempre meno interessati a mantenere questa Unione Europea

In secondo luogo e in subordine perché il fulcro di tale azione, la Germania, è destinata a subire in modo drammatico i contraccolpi di tali scelte e a non poter garantire le condizioni minime di sussistenza di tale proposito di restaurazione. I segnali sono sempre più manifesti.

È una finestra che non potrà rimanere aperta per molto tempo. L’accordo di due anni fa tra Trump e la Merkel, per interposta Commissione Europea, per una dilazione delle sanzioni doganali a scapito dell’agricoltura italiana sono un avvertimento eloquente che il futuro del paese non può dipendere dalla benevolenza degli “amici”. Qualche segnale positivo di consapevolezza inizia ad emergere in alcuni settori fondamentali degli apparati. Sta al ceto politico sensibile a queste istanze cercare di raccoglierlo e dare prospettive. In caso contrario una svolta nel paese dovrà passare ancora una volta da una nuova scomposizione delle forze.

 

VIP E CICISBEI, di Giuseppe Germinario

La settimana ormai all’epilogo è stata caratterizzata dal via vai. È iniziata con il viaggio di Matteo Salvini negli Stati Uniti; si è conclusa con l’arrivo di Obama a casa Clooney, sulle rive del Lario. Nel mezzo il soggiorno del Presidente del Consiglio Conte a Bruxelles, al Consiglio Europeo.

Una coincidenza di eventi, probabilmente casuale, comunque sorprendente dal punto di vista simbolico. Sembra offrire, sotto traccia, qualche barlume di verità su alcune dinamiche nello scacchiere geopolitico europeo e mediterraneo.

La gran parte degli addetti all’informazione però sembra sempre più attratta, se non accecata, dagli aspetti mondani di questi appuntamenti. Da produttori e portatori di informazione si stanno trasformando irreversibilmente in moderni cicisbei, maestri di colore, di costumi e di pettegolezzi.

Tra i tre, paradossalmente, chi ci ha rimesso in efficacia di immagine è stato Giuseppe Conte, notoriamente maestro in bon ton e passi felpati. In un Consiglio Europeo impegnato a concordare le nomine della Commissione Europea, della Presidenza del Consiglio Europeo e della BCE, si è trovato nella condizione di dover rintuzzare la procedura di infrazione annunciata proditoriamente dalla Commissione Europea uscente. Tra le due opzioni opposte di una reazione d’orgoglio a un atto strumentale e provocatorio e un atteggiamento pragmatico teso a contenere i danni accettando logica e spirito della lettera, ha prevalso la seconda e con esso qualche atteggiamento di troppo da questuante verso i pari grado più potenti, pur se ormai sempre meno autorevoli. Non lo ha certo aiutato una consuetudine pluridecennale di totale accondiscendenza e complicità di un ceto politico ed una classe dirigente nazionale; accondiscendenza che ha disabituato a trattative serie le varie élites europee. Peggio ancora, come insegna il mercimonio truffaldino operato dal “rottamatore” Renzi tra la resa sottobanco sull’approdo in Italia di immigrati (Operazione Triton) e la concessione di pochi decimi di deficit, le ha incoraggiate ad operazioni di vera e propria corruttela utile ad alimentare un sottobosco di attività assistenziali e parassitarie necessarie a garantire la sopravvivenza politica del sistema. Non lo ha sostenuto in autorevolezza, per altro, il suo comportamento deludente e rinunciatario seguito al promettente avvio e alla conclusione della Conferenza sulla Libia, tenutasi a Palermo l’autunno scorso. Un appuntamento organizzato con il beneplacito del Presidente Americano, accettato a denti stretti da Francia e Germania e conclusosi addirittura trionfalmente, con l’investitura di Conte a mediatore ad opera del Ministro degli Esteri russo, Lavrov. In quel momento Conte avrebbe dovuto comprendere l’insostenibilità della figura di al Serraji come Presidente capace di unire le varie tribù della Libia, in quanto privo di forza propria e mantenuto a galla da una delle tre principali fazioni in lotta. Avrebbe dovuto puntellare la sua sopravvivenza per impedire il pieno successo del Generale Haftar, espressione delle tribù di Cirenaica e nel contempo favorire l’emersione di una figura terza, capace di mediare e riunire il paese. Questa figura può emergere con migliori possibilità, dalla tribù più numerosa e centrale di quel paese e non è escluso che, ad osservare i fatti, possa essere uno dei superstiti dei figli del colonnello Gheddafi. Una operazione certamente ardua e complessa, che richiederebbe grandi capacità diplomatiche e sufficienti coperture militari. Ipotizzabile sotto la Presidenza di Trump, ma decisamente più traumatica se il rospo dovesse essere offerto ad eventuali epigoni di Obama, Sarkozy e Macron. Con l’offensiva in corso di Haftar, fortunatamente esauritasi, l’atto più significativo di Conte è stato la sua richiesta di aiuto americano, evitando così il disastro ma perdendo così ogni parvenza di autonomia verso i vari contendenti libici ed esterni e gran parte della credibilità verso il suo stesso principale estimatore, Trump. Alla luce di ciò, il memorandum con la Cina e la posizione sul Venezuela, di per sé poco rilevanti nell’agone geopolitico, hanno assunto un significato dirimente per l’amministrazione statunitense. Il cerchio si è chiuso quasi del tutto con il suo progressivo avvicinamento a Mattarella e la gestione partigiana, piuttosto che calmieratrice, del conflitto giallo-verde durante l’ultima campagna elettorale.

Di queste difficoltà sembra approfittare a piene mani Matteo Salvini. Il suo viaggio a Washington ha assunto l’aspetto di una vera e propria investitura a leader. L’incontro con Mike Pompeo, Segretario di Stato e Pence, Vicepresidente sono un riconoscimento che va certamente oltre lo status proprio di un Ministro dell’Interno. È un lustro che, se prematuro ed improprio, espone il personaggio ad un rischio da non sottovalutare. Quello di apparire come uno dei tanti pellegrini che hanno dovuto recarsi a Washington per ottenere una investitura che dovrebbe essere in realtà prerogativa esclusiva delle istituzioni e del popolo italiano; viandante dotato magari di una aura più fulgida e lucente, ma sempre di luce riflessa più che propria. L’intero sistema mediatico ha indugiato sulle dichiarazioni di Salvini, tanto su quelle di politica economica, quanto soprattutto quelle in politica estera, riguardanti il Venezuela e il memorandum con la Cina. Queste ultime sono di fatto una sconfessione delle posizioni ufficiali del Governo Conte ed un allineamento pedissequo e a buon mercato alle posizioni dell’Amministrazione Trump. Pedissequo, perché acriticamente allineate, a buon mercato perché esulano dalle competenze del suo ministero. Risulta quindi evidente l’apparente e impropria investitura di leader politico da parte di esponenti di un governo straniero. Il mancato incontro con il Presidente Trump non è solo la residua cautela sulle esigenze di etichetta e di correttezza istituzionale. Rivela soprattutto una persistente diffidenza di Trump verso una forza politica che non ha superato del tutto i retaggi delle proprie origini secessioniste; poco importa se sia una diffidenza di tipo culturale e/o di mero interesse politico, legato a possibili ritorni di fiamma filobavaresi, nemmeno filotedeschi nel prossimo futuro. Visto lo spessore e le funzioni di uno degli ospiti e del pellegrino è probabile che la parte più succosa e pertinente, prosaica dei colloqui riguardi l’implicazione, pur in filoni secondari, di tanta parte del ceto politico e dei funzionari di settori nevralgici dello Stato Italiano nella costruzione del Russiagate. Nei blog e in numerose testate americane circolano da tempo apertamente numerosi nomi di politici ed alti funzionari italiani. Segno di insofferenza e volontà di rivalsa verso gli artefici di una caccia alle streghe congelata malamente al prezzo però di paralisi politica e di numerose vittime. A questo riguardo le prossime elezioni presidenziali americane potrebbero essere il prodromo ad una definitiva resa dei conti nella quale Trump non avrebbe più l’esclusiva della figura di vittima designata.

Il soggiorno di Obama, famiglia e seguito similpresidenziale, presso la sontuosa residenza sul lago di Como, ospite del suo amico e attore George Clooney, sembra assecondare la bramosia dei cicisbei più accaniti; non ha in realtà, probabilmente, un esclusivo carattere mondano e godereccio. Accecati dal gossip e dalla vacuità, i nostri pennuti cicisbei si sono dilettati sulle frivolezze le più varie del soggiorno, compresi i fuochi d’artificio di borbonica memoria. In realtà Obama, abbandonata a malincuore la Casa Bianca e il suo orto, già altre volte ha pedinato e tampinato, sovrapponendosi con appuntamenti ed itinerari paralleli, il proprio odiato successore. Poiché uno dei bersagli grossi di un possibile ribaltamento della direzione delle inchieste sul Russiagate potrebbe essere, ancor più della Clinton, proprio lui, quanto meno come responsabile politico, il suo interesse per l’Italia si arricchirebbe di ulteriori aspetti, questa volta più politici. Alcuni giornali italiani sussurrano di un incontro con Matteo Renzi, ma solo per affinità elettiva. Alcuni giornali inglesi, invece, più smaliziati, ipotizzano una investitura di Clooney a prossimo candidato democratico Presidente. Non si conosce il grado di superstizione di Obama. Tenuto conto che l’ultima consumazione alla Casa Bianca tra i due, Renzi e Obama, da sanzione di investitura reciproca si è risolta repentinamente in una sorta di “ultima cena” con scarse possibilità di resurrezione, si presume che gli incontri politici, quantunque riservati, riguarderanno personaggi più titolati e meno predisposti a naufragi fragorosi.

Ipotizzando temerariamente cotante intenzioni, a Matteo Salvini si presenterebbe una occasione d’oro, per quanto rischiosa, per garantirsi un futuro da leader riconosciuto.

La concomitanza di interessi con l’attuale inquilino d’oltreatlantico potrebbe rendere più praticabile una azione di riforma istituzionale, a cominciare dal ruolo e dalle competenze della magistratura e una operazione di rinnovamento del personale, specie dirigenziale, degli apparati di sicurezza. Se e come riuscirà a portarla avanti, potrà fare di lui un personaggio politico di statura, capace di sostenere alla pari un confronto con alleati ed avversari o piuttosto, in caso di sopravvivenza, l’ennesimo emissario di una delle fazioni in lotta nei centri decisionali che contano; uno dei tanti che con valigia o borsello, vuoti o pieni che fossero al ritorno, hanno costellato le vicende italiche dal dopoguerra.

Il contesto è proibitivo, le qualità soggettive, se esistono, appaiono dissimulate sin troppo bene, lo scetticismo prevale, ma………………….chissà!?

Le elezioni e gli Eletti, di Roberto Buffagni

 

 

Che cosa ci insegnano, o almeno suggeriscono, le elezioni europee testé concluse?

Anzitutto, direi che ci confermano un fatto noto ma sempre rilevante: le elezioni europee non cambiano l’Unione Europea, che conforme la sua natura e l’intenzione profonda – anche filosofica e spirituale – che la costituisce è (quasi) impermeabile al voto popolare, diciamo almost ballotsproof, salvo un vero e proprio diluvio o maremoto di voti ad essa contrari o favorevoli che non si verificherà, molto probabilmente, mai. L’Unione Europea sta o cade per l’azione degli Stati-nazione che la compongono, e/o per un evento esogeno o endogeno che ne faccia precipitare le gravi disfunzionalità.

Le elezioni europee e il voto popolare cambiano invece gli equilibri politici nazionali, come d’altronde è naturale, visto che l’unico contesto in cui la democrazia rappresentativa sia possibile e vitale è – oggi come ieri – la nazione. Cambiano gli equilibri politici nazionali, anche se le elezioni europee vanno per così dire “fuori tema”, visto che il voto europeo non muta gli equilibri parlamentari nazionali; ma il sistema elettorale proporzionalistico che adottano, e l’emergere sempre più chiaro del consenso/dissenso rispetto alla UE come clivage politico principale, le trasformano in un fattore politico e simbolico di prima grandezza.

Le elezioni europee testé concluse infatti ci insegnano, o almeno ci suggeriscono, che il consenso/dissenso riguardo la UE e alle sue logiche premesse, implicazioni e conseguenze – il mondialismo, l’individualismo, il progressismo, il costruttivismo sociale, l’universalismo politico  – emerge con sempre maggiore chiarezza come il principale clivage politico, non solo in Europa ma in tutto l’Occidente.

Chi non si schiera di qua o di là, chi esita, chi tiene il piede in due staffe, chi azzarda dei “sì, ma” o dei “ni” è perduto. Il più antico partito d’Europa, il partito conservatore britannico, ha patito la più cocente disfatta di sempre per le sue esitazioni, compromessi e retropensieri in merito alla Brexit; il suo storico rivale, il Labour, ha subito una punizione elettorale meno siderante ma pur sempre grave; e molto probabilmente il suo leader, Jeremy Corbyn, tra breve sarà costretto a prendere posizione per il Remain, come il prossimo leader Tory sarà senz’altro costretto a schierarsi per il Leave, e a consegnare la Brexit. In Italia, nonostante limiti e incertezze del governo gialloverde e suoi propri, la Lega ha raddoppiato i voti guadagnati alle politiche 2018 in virtù della sua recisa posizione contraria all’immigrazione di massa, l’aspetto simbolicamente e politicamente più manifesto della UE; come per le ragioni opposte e complementari è stato severamente punito dagli elettori il Movimento 5*. Ha tenuto invece il PD, e proprio perché si è schierato senza esitazioni nel campo favorevole alla UE, così rastrellando quasi tutti i voti della ex sinistra massimalista e di alcuni transfughi verso i Cinque Stelle.

Di questo colossale, inaggirabile iceberg – lo schieramento in merito alla UE come clivage politico principale – emerge, sinora, soltanto la proverbiale cima. Per ragioni d’ordine tattico, ma più ancora per ragioni d’ordine culturale profondo, nessuna tra le forze rilevanti situate nel campo avverso alla UE ne propone tout court l’abbattimento, come nessuna tra le forze rilevanti situate nel campo ad essa favorevole ne celebra tout court la compiuta perfezione, “attimo fermati, sei bello!”. In entrambi i campi, se ne dà per scontata la permanenza, la si accetta come contesto culturale e politico, e si propongono vari e più o meno credibili progetti di riforma del Mostro Buono, come definì la UE l’intelligente crudeltà di H.M. Enzensberger. Ma la UE, e soprattutto la cultura dominante in Occidente che l’ha prodotta e la sorregge – mondialismo, individualismo, progressismo, costruttivismo sociale, universalismo politico – restano per tutti l’orizzonte visibile in cui pensare e operare: per tutti, comprese le forze politiche avverse alla UE.

Esse, infatti, alla UE ed alla sua cultura cominciano, balbettando, a muovere critiche, anche forti e precise, ma senza saper  passare dalla critica alla proposta credibile e praticabile; così che l’alterità da esse espressa oscilla tra la repulsione emotiva, la nostalgia per un passato idealizzato, la giusta ma limitata rivendicazione politica di interessi, e il bricolage culturale che vi corrisponde; e si cristallizza in un possente, ma ancor cieco, bisogno “di fare una vita normale”: sapere chi si è, imparare un mestiere, trovare un lavoro e procurarsi un reddito decente, farsi una famiglia e una casa, veder  crescere i figli, essere ricordati da una lapide sulla tomba. Un obiettivo minimo, a prima vista, ma contro il quale paiono congiurare – ed effettivamente congiurano – forze esteriori ed interiori incontrollabili, che è molto difficile identificare e nominare: figuriamoci combatterle.

Intanto, sotto la superficie del pensiero, sotto la lettera delle dichiarazioni e dei propositi, in quello che in un dramma si chiamerebbe “sottotesto”, dove agiscono le intenzioni profonde – consapevoli, semiconsapevoli, inconsapevoli – dei personaggi, si precisa e progredisce lentamente ma inesorabilmente la polarizzazione politica e culturale, o meglio: politica perché culturale.

Per farla breve e chiara: contro la UE ci sono solo le destre europee, a favore solo le sinistre, e in mezzo non ci sono ponti o sentieri praticabili: c’è solo il deserto politico. Chi provenga da una cultura politica di destra (ad esempio, i liberal-conservatori) e si schieri a favore dell’Unione Europea è costretto ad allearsi politicamente con la sinistra. Chi provenga da una cultura politica di sinistra (ad esempio, una parte dei comunisti marxisti) e si schieri contro la UE è costretto ad allearsi politicamente con la destra. La stessa identica polarizzazione è in corso nelle Chiese cristiane, manifestandosi come scisma virtuale nella Chiesa cattolica.

La dinamica irresistibile di questa progressiva polarizzazione dipende, a mio avviso, da una logica anzitutto culturale, tutta interna al più profondo conflitto interiore alla civiltà europea, e dunque anche al cristianesimo e ai suoi avatar politico-culturali; conflitto che si è manifestato prima con le guerre di religione del XVI e XVII secolo, e poi con le Rivoluzioni francese e russa.

Per farla di nuovo breve e chiara: è il conflitto in merito all’universalismo, nella sua duplice accezione di universalismo spirituale e valoriale, e di universalismo politico.

L’Unione Europea, che è un progetto massonico cioè liberale e umanistico al 100%, è stata creata, e dopo la caduta del Muro di Berlino potenziata, dalle classi dirigenti europee e statunitensi: liberals wilsoniani, cattolici e protestanti europei democristiani, socialdemocratici; gli eredi legittimi delle classi dirigenti antifasciste che hanno vinto, sul campo di battaglia o nelle urne elettorali, la Seconda Guerra Mondiale e il dopoguerra. Dalla grande alleanza antifascista mancano solo i comunisti sovietici, ma sono rappresentati dai loro eredi: eredi legittimi anche loro, anche se dopo l’estinzione del ramo principale è un ramo cadetto (i maligni dicono, un ramo bastardo) a portare il titolo. Dopo la grande vittoria comune di settant’anni fa, queste grandi forze politiche si sono aspramente combattute per decenni. Oggi governano insieme l’Unione Europea. Come hanno fatto ad accordarsi? Per il potere, si dirà. Certo, per il potere: ma questa risposta, che è sempre vera, non spiega tutto, e anzi forse non spiega niente. Qual è il minimo comun denominatore che ha consentito a queste grandi forze e culture politiche, un tempo in lotta per il potere, di trovare un durevole accordo?

Il minimo comun denominatore delle grandi Casate americane ed europee che sostengono l’Unione Europea è l’universalismo politico.

L’universalismo è una cosa sul piano delle idee, dei valori, della spiritualità (nella cristianità europea, l’istituzione delegata a incarnarlo era la Chiesa, il primo “sole” del De Monarchia dantesco). Se tradotto sul piano politico, però, l’universalismo non può che incarnarsi in forze inevitabilmente particolaristiche: perché esistono solo quelle, nella realtà effettuale.

Volendo, chiunque se ne senta all’altezza può parlare in nome dell’universale umanità; ma non può agire politicamente in nome dell’universale umanità senza incorrere in una contraddizione insolubile, perché l’azione politica implica sempre il conflitto con un nemico/avversario.

Senza conflitto, senza nemico/avversario non c’è alcun bisogno di politica, basta l’amministrazione: “la casalinga” può dirigere lo Stato, come Lenin diceva sarebbe accaduto nell’utopia comunista. A questa contraddizione insolubile si può (credere di) sfuggire solo postulando come certo e autoevidente l’accordo universale, se non presente almeno futuro, di tutta l’umanità: “Su, lottiamo! l’ideale/ nostro alfine sarà/l’internazionale/ futura umanità!” (il “governo mondiale” è un surrogato o avatar della “futura umanità” dell’inno comunista).

Lenin, e in generale il movimento comunista (o anarchico) rivoluzionario, vuole risolvere la contraddizione con la forza. Nella classificazione machiavelliana, Lenin è un “leone”.

L’universalismo politico delle grandi forze politiche nordamericane ed europee che sostengono l’UE non è meno radicato di quello leniniano, perché discende dalla stessa radice illuminista. Esse però vogliono/devono risolvere la contraddizione con l’astuzia; Machiavelli le definirebbe “volpi”. Scrivo “devono”, perché a prescindere dalle intenzioni soggettive, esse non potrebbero essere altro che “volpi”: entrambi i “federatori a metà” della UE, USA e Germania, non possono portare a compimento con la forza la loro opera.

Come l’URSS comunista, anche l’UE postula l’accordo universale, se non presente almeno futuro: accordo anzitutto in merito a se medesima, e in secondo luogo in merito al governo mondiale legittimato dall’umanità universale, che ne costituisce lo sviluppo logico, e giustifica eticamente sin d’ora l’obbligo di accogliere un numero indeterminato di stranieri, da dovunque provenienti, sul suolo europeo. Per questa ragione è impossibile definire una volta per tutte i confini territoriali dell’Unione Europea, che al tempo degli entusiasmi europeisti qualcuno pretendeva di estendere alla Turchia, e persino a Israele: perché ha diritto di far parte dell’UE chi ne condivide i valori universali (cioè virtualmente tutti, dal Samoiedo al Gurkha al Masai), non chi ne condivide i confini storici e geografici.

Il passaggio tra il momento t1 in cui l’accordo universale è soltanto virtuale, e il momento t2 in cui l’accordo universale sarà effettuale, non avviene con il ferro e il fuoco della “volontà rivoluzionaria”. Le volpi oligarchiche UE introducono invece nel corpo degli Stati europei, il più possibile surrettiziamente, dispositivi economici e amministrativi – anzitutto la moneta unica – che funzionano, secondo la celebre definizione di Mario Draghi, come “piloti automatici”. Questi piloti automatici provocano crisi politiche e sociali, previste e premeditate, all’interno degli Stati e delle nazioni, ai quali impongono o di insorgere in aperto conflitto contro la UE, o di addivenire a un accordo universale in merito al “sogno europeo”: per il bene degli europei e dell’umanità, naturalmente, come per il bene dei russi e dell’umanità Lenin ricorreva al terrore di Stato, alle condanne degli oppositori per via amministrativa, etc.

A quest’opera va associata, inevitabilmente, una manipolazione pedagogica minuziosa e su vasta scala, in altri termini una lunghissima campagna di guerra psicologica. La dirigenza UE conduce questa campagna di guerra psicologica da una posizione di ipocrisia strutturale formalmente identica a quella della dirigenza sovietica, perché non è bene e vero quel che è bene e vero, è bene e vero quel che serve alla UE o alla rivoluzione comunista: in quanto Bene e Verità = accordo dell’intera umanità, fine dei conflitti, pace e concordia universali. Le élites, necessariamente ristrette, di “pneumatici” e di “psichici” che conoscono questo arcano della Storia, hanno il diritto e anzi il dovere morale di ingannare e manipolare, per il loro bene, le masse di “ilici” che invece lo ignorano.

Il leone Lenin accetta solo provvisoriamente il conflitto politico, e anzi lo spinge a terrificanti estremi di violenza, in vista dell’accordo universale futuro: dopo la “fine della preistoria”, quando diventerà reale il “sogno di una cosa” comunista e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in URSS poi nel mondo intero. Le volpi UE celano l’esistenza effettuale del conflitto (in linguaggio lacaniano lo forcludono), e da parte loro lo conducono, solo provvisoriamente, con mezzi il più possibile clandestini, in vista dell’accordo universale futuro, quando diventerà reale il “sogno europeo” e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in Europa poi nel mondo intero.

In questo grande affresco romantico proposto alla nostra ammirazione con la colonna sonora dell’Inno alla Gioia (forse non è un caso che il Beethoven delle grandi sinfonie fosse anche il compositore preferito di Lenin) c’è solo una scrostatura: che nella realtà, l’accordo universale di tutta l’umanità non si dà effettualmente mai. Ripeto e sottolineo due volte: mai, never, jamais, niemals, jamàs, etc.

* * *

Ecco. Le recenti elezioni europee hanno certificato questa semplice, persino banale verità: che molti, troppi europei non sono d’accordo. Non sono d’accordo per un’infinità di ragioni, buone e meno buone, nobili e ignobili, serie e frivole, meditate o istintive: ma fatto sta che non sono d’accordo. Questo fatterello elementare, che bastava il buonsenso per prevedere, diventa una pietra d’inciampo grande come l’Himalaya per una cultura politica e filosofica come quella che informa la UE, che del buonsenso non è per nulla amica. Perché il buonsenso, che certo non può dire l’ultima parola sul mondo, né lo pretende, presuppone però che il mondo, e l’azione politica in esso, siano governati dal limite: infatti, uno dei suoi detti preferiti è “c’è un limite a tutto”; mentre l’universalismo politico, il progressismo, l’individualismo, il costruttivismo sociale vedono i limiti solo come sfida a superarli.

Proprio ieri ho letto una conversazione tra due persone intelligenti e preparate, i docenti di filosofia Andrea Zhok e Roberta de Monticelli[1], che mi è parsa esemplare. La professoressa de Monticelli ha pubblicato su “Il Manifesto” un articolo intitolato Stati uniti d’Europa, un edificio politico architettato dalla filosofia, al centro del quale troviamo due argomenti di fondo: che la UE sia  “il vero e proprio cantiere di un edificio politico architettato dalla filosofia: cioè dall’anima universalistica del pensiero politico, che è almeno tendenzialmente cosmopolitica” e che “Cosmopolitica è (…) la forma di una civiltà fondata nella ragione (…). La domanda di ragione e giustificazione è quanto di più universale ci sia. (…) Esser nato in un deserto, o in una contrada afflitta da massacri e guerra, è un accidente: l’accidente della nascita. (…) Ogni ingiustizia si lega all’accidente della nascita.”

Il professor Zhok critica “l’equivalenza tra universalismo e cosmopolitismo”, perché “una volta che la si guardi da vicino” essa “risulta subito destituita di ogni fondamento”, e richiama l’attenzione della de Monticelli sul fatto empiricamente verissimo che “il ‘cosmopolita’, il ‘cittadino del mondo’ di cui qui si parla, è semplicemente un membro di quei ceti economicamente, socialmente, e talvolta anche culturalmente privilegiati, che scelgono di passare periodi della propria vita, per lavoro o per diletto, in più o meno prestigiose sedi estere.” Egli poi passa alla critica filosofica della posizione della de Monticelli, così riformulandola: “Io, che sono un soggetto razionale come te, sono però consegnato alla contingenza di una nascita localmente determinata, che limita la mia aspirazione all’universalità. – Tale contingenza contrasta con la mia natura di soggetto razionale ed è razionalmente ingiustificabile; essa perciò, a causa della sua natura ingiustificata, arbitraria, va corretta.” Le segnala poi l’errore teorico ivi contenuto: “Nella proposizione di cui sopra troviamo presentato come ovvio un contrasto tra universalità e contingenza. Lungi dall’essere un’ovvietà condivisa, l’idea di ‘ragione’ o di ‘universalità’ presupposta da questo ragionamento è assai discutibile. Si tratta infatti di una visione dove la ragione e la sua universalità per essere tali devono appartenere ad una sfera astorica e smaterializzata.” E prosegue citando autori, cari a entrambi gli interlocutori, come Wittgenstein e Husserl, che “hanno attraversato nel corso della loro vita l’intero percorso da una iniziale concezione di razionalità astorica e svincolata dalla materialità, dalle prassi, dalla corporeità, ad una matura concezione in cui la razionalità trovava una sua necessaria collocazione proprio nella sfera della storia, della materia, delle prassi e del corpo vivente.

L’intelligente e interessante conversazione, che invito il lettore a leggere per intero, prosegue poi con una replica della de Monticelli, e una controreplica di Zhok.

Ma quel che più mi sembra interessante e rivelatore, nel dialogo filosofico-politico tra Zhok e la de Monticelli, è che entrambi per così dire “passano a lato” del punto centrale, invero sbalorditivo, del programma filosofico-politico enunciato dalla de Monticelli: “correggere le ingiustizie legate all’accidente della nascita.”

Intesa come programma politico – e così la de Monticelli lo intende, addirittura chiamando in causa l’art. 3 della Costituzione italiana che a suo dire lo implica –  la “correzione delle ingiustizie legate all’accidente della nascita” supera e si lascia indietro di parecchi anni luce tutte le utopie a me note, tutti i programmi politici più massimalisti dell’anarchismo e del comunismo, quello implementato da Pol Pot in Cambogia non escluso; e che a propugnarlo sia una persona di grande intelligenza e cultura, animata dalle migliori intenzioni e certo aliena dalla violenza, fa una notevole impressione.

La professoressa de Monticelli, infatti, proponendo all’Unione Europea l’obiettivo strategico di correggere le ingiustizie legate alla nascita, non si limita ad assumere “il punto di vista di Dio sul mondo”, come le ribatte Zhok. Ella si propone, o meglio propone alla UE, l’ istituzione politica a cui dà il suo sostegno, di prendere il posto di Dio nel mondo, e di agirvi come supplente di una Provvidenza divina assente o difettosa: né più, né meno. (Curioso che la de Monticelli sia curatrice di una bella edizione delle Confessioni di Sant’Agostino, tra i Padri della Chiesa il più attento al tema del peccato originale, che come ognun sa fu occasionato dalla tentazione diabolica ad essere sicut dii, scientes bonum et malum).

Perché è chiaro a tutti che “dall’accidente della nascita” nascono, oltre che tutti gli esseri umani, anche infinite diseguaglianze e ingiustizie. Non è altrettanto chiaro, però, come sia possibile correggerle, fino a qual punto, a quale prezzo, e ad opera di chi. Chi nasce ricco e chi povero, chi bello e chi brutto, chi uomo e chi donna, chi sano e chi malato, chi intelligente e chi stupido, chi africano e chi europeo, chi amato e chi disamato, chi desiderato e chi no, chi destinato a lunga vita, chi a brevissima, eccetera. Che ciò costituisca un enigma, lungamente interrogato dagli uomini nel corso della storia e probabilmente anche prima, non c’è dubbio. A me però pare un enigma anche più grande che qualcuno seriamente programmi di affidare a un’ istituzione politica il compito di correggerlo. Il modesto buonsenso suggerirebbe immediatamente la domanda: “E come si fa?”, ma la maestosa follia universalista, il kantismo turbocompresso della professoressa de Monticelli la scarta con una scrollata di spalle, si rimbocca le maniche e si mette all’opera.

Mettersi politicamente all’opera con questo obiettivo  significa mettersi all’opera nella realtà effettuale, e dunque, tanto per cominciare dal più facile e immediato, spalancare le frontiere all’immigrazione: perché l’accidente della nascita ghanese o afghana non deve privare ingiustamente nessuno dell’opportunità di accedere al tenore di vita, materiale e culturale, dei paesi europei. A chi poi nascesse (o diventasse, ancora non è chiaro) omosessuale, transessuale, *sessuale e in ogni caso non potesse avere figli come gli eterosessuali, privilegiati dall’accidente della nascita, dovrebbe essere garantita (gratis) la possibilità di ricorrere alla maternità surrogata. A chi nascesse stupido, e/o magari, sempre a causa dell’accidente della nascita, appartenesse a un gruppo sociale svantaggiato, dovrebbe essere garantito l’accesso facilitato agli studi, e il loro fruttuoso completamento. A chi nascesse brutto e indesiderabile dovrebbe essere garantito, se non il desiderio altrui (almeno per ora: in seguito, grazie alle psicotecniche, chissà…), il divieto legale di definirlo tale, con relative sanzioni per chi lo violasse. A chi nascesse donna e liberamente decidesse di esercitare una professione tradizionalmente maschile quale, ad esempio, il servizio nei reparti militari d’élite, dovrebbe essere garantita una selezione facilitata, anche se poi sul campo il reparto così selezionato fa fiasco. A chi fosse sul punto di subire “l’accidente della nascita” senza che le condizioni emotive, psicologiche e sociali della madre fossero le ideali per accoglierlo, dovrebbe essere garantito, fino all’ultimo istante, il diritto di non nascere affatto, così risparmiandosi infiniti fastidi, dolori, diseguaglianze e ingiustizie. Per chi nasce povero, poi, le correzioni possibili sono due: o farlo diventare almeno benestante dopo la nascita, mediante provvidenze statali, oppure non farlo nascere affatto (v. punto precedente); come d’altronde proponeva un’altra degnissima e benintenzionata persona, John Maynard Keynes, direttore della Eugenics Society dal 1937 al 1944. Superfluo poi segnalare che il primissimo bersaglio della correzione dell’accidente della nascita dovrà essere la famiglia, nel cui contesto il suddetto sciagurato accidente si verifica con frequenza allarmante, e alla quale dunque sarà opportuno sostituire apposite istituzioni scientificamente validate, che garantiscano risultati statisticamente più omogenei sotto il profilo genetico e sociale.

E chi si incaricherebbe dell’opera di “correzione dell’accidente della nascita”? Be’, naturalmente gli Eletti, i Correttori al timone dell’Unione Europea e dei suoi successivi, logici sviluppi sino al coronamento del progetto di Correzione: il Governo Mondiale.

Che il precedente elenco di maestose follie metafisiche degli Eletti Correttori coincida con posizioni culturali, pratiche sociali e programmi politici attualmente in corso nella realtà effettuale dell’Occidente contemporaneo – posizioni, pratiche e programmi che vanno sotto il nome collettivo di “politically correct” – non è un caso. Non è un caso perché l’Unione Europea, il progressismo, il mondialismo, l’individualismo, etc., condividono lo stesso “accidente della nascita”: è più che vero infatti che, come dice la professoressa de Monticelli, gli Stati Uniti d’Europa sono un edificio politico architettato dalla filosofia.

Peccato che questa filosofia, se politicamente implementata, conduca per direttissima a un dispotismo politico, culturale, psicologico e spirituale senza precedenti nella storia umana; e che se adesso non fa direttamente e intenzionalmente versare un mare di sangue,  probabilmente in futuro ne farà versare un oceano indirettamente e involontariamente, perché sta assiduamente costruendo le condizioni per più guerre civili su base etnico/religiosa, a temperature variabili dal freddo all’incandescente, in tutto l’Occidente.

Secondo Julien Freund, “compito della politica è antivedere il peggio, e sventarlo” (Sociologie du conflit, 1983). Secondo gli Eletti Correttori, compito della politica è produrre una versione riveduta, corretta e migliorata del mondo: fiat iustitia, si correggano gli accidenti della nascita, ed entrino in scena il Mondo e l’Uomo Nuovo.

Ecco perché la polarizzazione in corso non si arresterà, ed ecco perché sono gli antichi involucri delle culture politiche di destra e di sinistra, che si contrapponevano, sino a ieri, intorno a un diverso clivage politico principale, ad accogliere oggi le forze politiche e culturali che si schierano pro o contro l’Unione Europea. A schierarsi contro l’Unione Europea sono tutte le forze che, per motivi anche diversissimi e inconciliabili, rifiutano l’universalismo politico: sia le puramente identitarie e tribali, sia le nazionalistiche, sia quelle che, riferendosi alla “corrente ateniese” del cristianesimo, continuino a distinguere tra universalismo dei valori e universalismo politico, tra spirituale e temporale. A schierarsi a favore dell’Unione Europea, sono tutte le forze che accettano l’universalismo politico: sia le liberali pure, sia le progressiste, sia quelle che, riferendosi alla “corrente ierosolimitana” del cristianesimo, ne mutuano il messianismo e cortocircuitano dimensione escatologica e storicità immanente.

Terreno comune culturale e politico tra le due posizioni ce ne sarà sempre meno; a meno che non nasca una terza forza, una riedizione del partito dei “politiques” che uscì vincitore e conciliatore dalle guerre di religione in terra di Francia, cinque secoli fa. Sarebbe una gran bella cosa, e una riedizione del Trattato di Westfalia il migliore degli esiti e dei compromessi desiderabili. Difficile? Difficile. Chissà.

[1] http://antropologiafilosofica.altervista.org/cosmopolitismo-universalismo-e-lunione-europea-una-risposta-a-roberta-de-monticelli/?doing_wp_cron=1559203478.2017359733581542968750

Considerazioni disincantate, di Fabio Falchi

Brevissima considerazione sul comizio di Salvini a Milano.
Il “Capitano del Popolo”, consapevole della forte ostilità della chiesa nei suoi confronti, ha chiaramente cercato il consenso dei cattolici. Insomma, ha cercato di guadagnare voti rivolgendosi a quella parte dell’elettorato che può avere dei dubbi sulla Lega solo per la posizione della chiesa verso la Lega. Sorvoliamo sull’affondo contro l’islam (eppure bastava distinguere tra l’Islam moderato e gli islamisti, per ottenere lo stesso effetto). Altro punto saliente è che ha evitato di polemizzare con il M5S ma non ha risparmiato critiche durissime all’UE e ha ribadito che sull’immigrazione non ha intenzione di cedere. Il problema adesso è ovviamente il rapporto con il M5S. Difficile fare previsioni ma il nuovo corso politico del M5S non garantisce che il governo giallo-verde possa essere capace di sfruttare una vittoria dei “sovranisti” per aumentare il peso dell’Italia in Europa.

Ancora sul comizio di Salvini a Milano.
Inutile negarlo, a Milano sono emerse tutte le lacune politico-culturali della Lega (e il fatto che gli altri siano messi perfino peggio non è che sia confortante). A parte il linguaggio da oratorio, in pratica Salvini ha proposto lo “scontro di civiltà”:
da un lato l’Europa (giudaico) cristiana (che è scomparsa da qualche secolo…), dall’altro l’Islam.
Nessuna distinzione quindi tra islamismo e Islam, come nessuna distinzione tra comunismo (che è “storia passata” ma importante) e sinistra progressista (che con il comunismo, in specie quello “orientale” , non ha proprio nulla a che fare).
Di positivo, la critica durissima dell’UE neoliberale, ma impossibile capire quale dovrebbe essere la strategia politica ed economica per mutare questa Europa. La stessa flat tax proposta come soluzione di tutti i problemi economici dell’Italia, senza un piano economico per rilanciare i settori produttivi e l’ammodernamento delle infrastrutture, è tutt’altro che convincente.
Un altro fattore positivo, tuttavia, è lo scontro tra “sovranisti” e neoliberali. Il punto da capire è che i neoliberali temono non tanto il numero di seggi che i “sovranisti” possono conquistare al P. E. (forse il 20%), quanto piuttosto, tenendo conto delle procedure della elezione dei commissari europei, che i “sovranisti” possano mutare l’indirizzo politico della commissione europea.
Inoltre, lo scontro tra neoliberali e “sovranisti” (che qualche bischero semicolto definisce sciovinisti dimostrando di non conoscere neppure il significato dei termini che usa) ha anche portato alla luce il disordine mentale – o la malafede – di vari gruppi politici che di fatto si sono schierati con il PD , con Macron e con la Clinton.
In definitiva, si conferma che anche il “sovranismo” della Lega è l’effetto della crisi del sistema neoliberale (in quanto del tutto incapace di risolvere i problemi che esso stesso genera) , ma di per sé non è in grado di costruire una “reale alternativa” al sistema neoliberale.
E’ questa differenza dunque che dovrebbe costituire il punto di partenza di una analisi politico-culturale, sapendo che in questa particolare fase storica si può solo cercare di “usare” tutto ciò che può portare il sistema neoliberale al collasso e favorire, sia pure indirettamente, l’inizio di un nuovo corso (geo)politico.

Svolte

Che i cosiddetti “sovranisti” possano conquistare la maggioranza nel Parlamento europeo è estremamente difficile. Tuttavia, i commissari (per la nomina del Presidente della Commissione la procedura è diversa) sono scelti dal Consiglio ossia dai singoli Stati, mentre le commissioni parlamentari valutano se i candidati hanno le competenze necessarie per svolgere il proprio incarico. Infine l’intera Commissione deve essere approvata dal P. E. con una sola votazione.
In pratica, un Paese “sovranista” può scegliere un commissario “sovranista”. Questo significa che un’Italia “sovranista” avrebbe un certo peso nella Commissione europea.
Capite allora perché la svolta politica “antisovranista” del M5S è così importante per gli eurocrati?

NB Tratti da facebook

rebus da decifrare, a cura di Giuseppe Germinario

 

DALLA FINZIONE ALLA FARSA di Piero Visani

Siamo nel pieno delle “Tempeste d’acciaio” di Juengeriana memoria: “Avanti, ragazzi!: INCLUSIONEEE…!!!”

Dalla battaglia di Farsalo a quella di Farsaccia. Suggerirei un aggiornamento dei portati “teorici” del M5S: da “uno vale uno” a “a zero vale zero”. Un aggiornamento necessario e più consono, specie se autoriferito…
Ma chiudere per manifesto fallimento, anche ideologico, non sarebbe opportuno, risparmiando paccate di miliardi?

 

SMOTTAMENTI, di Fabio Falchi

In relazione al post precedente (in cui ho indicato i difetti della Lega e degli altri partiti), vorrei precisare che le elezioni del prossimo 26 maggio sono elezioni europee. Invece il M5S che fa? Parla di UE, di trattati da rivedere, di una politica europea funzionale agli interessi della Germania e della Francia o dell’austerity?
Nulla di tutto questo e perfino i “gilet gialli” sono scomparsi dall’agenda politica del M5S, che invece fa solo politica contro Salvini e la Lega. E si badi non in una stanza chiusa, come si conviene tra alleati, ma alla luce del sole.
All’inizio si poteva pensare che fosse solo politica di “bassa lega” per guadagnare un po’ di voti, ma adesso è chiaro che Di Maio, che non è che un burattino nelle mani di Grillo e Casaleggio, ha cambiato strategia e mira a far cadere il governo. La questione del sindaco di Legnano è solo un pretesto (se è corrotto ovviamente pagherà). Difatti, l’attacco contro l’alleato è a 360 gradi e l’importante è non parlare di Europa. Evidentemente l’UE “paga” bene. Che altro aggiungere?

Il difetto peggiore della Lega è certo quello di condividere gli stessi principi e valori di quelli che vorrebbe combattere. Incapace, per mancanza di cultura politica e di senso dello Stato, da un lato di fare una critica seria del neoimperialismo americano e pure di una critica seria ed equilibrata della politica di Israele , dall’altro di proporre una alternativa al neoliberismo, non si distingue dai suoi nemici o avversari che siano. Ma è proprio questo il problema ossia che i suoi avversari o nemici, oltre a questi gravi difetti, ne hanno di peggiori!

 

CON I PIEDI NEL PIATTO, di Vincenzo Cucinotta

Ma a voi sembra normale che il magistrato competente convochi una conferenza stampa per illustrare il procedimento che ha aperto proprio a ridosso delle elezioni (tralasciando di soffermarsi sulla mise apparentemente più adatta a una sfilata di moda)?
Poichè tale conferenza non ha funzioni processuali, è inevitabile dedurne che il fine sia politico.
Anche su questo aspetto, non trovo tuttavia nessun appunto, ma ormai siamo abituati a questa forma sofisticata di censura.

 

REGOLE AUREE, di Giuseppe Masala

  • Premesso che la Regola Aurea per vaticinare sul governo è la seguente: il governo dura fino a quando ha l’appoggio degli USA. Quando manca questo il governo finisce in un’ora di orologio.

Siamo arrivati alla fase delle litigate. Semplice campagna elettorale o c’è di più?

Fino ad ora i momenti salienti sono stati

(1) L’uscita di scena di Paolo Savona dalla compagine governativa che sostanzialmente significa accettazione della dottrina Monti. Certo con qualche possibile aggiustamento per non perdere consenso ma questo è quanto.

(2) La firma del Trattato sulla Via della Seta con Pechino. Anche questo trattato ci avvicina molto a Berlino stante la politica di sganciamento di Berlino da Washington.

Dunque questo governo nasce ostile a Berlino e filoamericano ma cammin facendo si ritrova molto vicino a Berlino e un po’ si allontana da Washington. Comunque siano andate le cose tra i due contraenti questo è quanto.

Dunque c’è molta sostanza nei litigi di questi giorni: i due contraenti devono scegliere il da farsi.

Le cose sono molto complesse per come la vedo io anche in relazione al fatto che c’è un tentativo di riavvicinamento tra Washington e Parigi. E dunque forse c’è una frizione tra la Francia e la Germania.

Comunque in questo difficile puzzle si gioca la durata del Governo. Chi rischia di più è Salvini. Parere mio. Piddi non pervenuto: a parole sono filo europoidi (il che vuol dire filo tedeschi) ma quando erano al governo pure loro hanno subito schiaffi ingiusti da Berlino e hanno sempre tentato di riequilibrare con gli USA (all’epoca guidati da Obama solo che ora c’è Trump con il quale non sono ideologicamente affini). Berlusconi? Lui è al sic transit gloria mundi.

Dietro le scintille degli ultimi giorni c’è un rebus difficilmente leggibile.

  • Può esistere un’Europa sostenibile? Certo che può esistere:

– Mercato comune;
– Libera circolazione delle persone e delle merci;
– Moneta Unica (tanto ormai c’è se non ci fosse stata sarebbe stato meglio) + Emissione di Eurobond
– Sanatoria dei disequilibri di Partite Correnti tramite spostamento di aziende produttive dai paesi il surplus verso quelli in deficit
– Progressiva costruzione di un Welfare Unico Europeo
– Costruzione di una Scuola Europea
– Uniformazione dei sistemi tributari (no al dumping fiscale)
– Salario Minimo orario europeo
– Politica estera Unica solo sui diritti umani e sulla cooperazione transfrontaliera (per il resto ognuno per sé e Dio per tutti)

NO ALL’ESERCITO UNICO EUROPEO.

Praticamente stanno facendo quello che non andrebbe fatto perché è impossibile fare ciò che andrebbe fatto per salvare l’Europa. Io dico che sono in un vicolo cieco: difficilissimo tornare indietro e difficilissimo andare avanti. Traete voi le conclusioni su come andrà a finire.

 

RITORNANO, di Gianfranco La Grassa

Stiamo andando di nuovo verso la piena politicizzazione della “giustizia” come già in altra epoca che ben ricordiamo e che ha avviato il paese ad una netta decadenza. Queste operazioni si accentuano nel momento in cui i “5 stelle” stanno riaprendo quello che fu il “primo forno”, fatto fallire da Renzi a “Porta a Porta”, favorendo così la formazione dell’attuale coalizione governativa. All’improvviso Di Maio si mette a dire cretinate (come il Pd) sullo spread provocato per riportare in auge pienamente l’austerità della UE (soprattutto nei nostri confronti). Ripeto che siamo in mano a prekeynesiani, seguaci del più balordo e fallimentare liberismo (diciamo “alla Pigou”). Sempre più è chiaro che sarebbe necessaria una definitiva resa dei conti con queste forze reazionarie. Se si continua a ricercare il compromesso, si arriva solo alle decisioni ormai “di parte” del premier Conte, infine smascheratosi per quello che è; adesso si capisce perché è stato scelto. La Lega forse sperava di riuscire a condizionare finti alleati e il premier nominato in seguito all’opposizione fin troppo brusca del presdelarep ad un Savona, decisione che suscitava infatti una serie di sospetti. Anche l’improvvida e sgangherata richiesta di impeachment di detto presdelarep da parte del leader pentastellato – d’altra parte ritirata subito in modo altrettanto inconsulto – suscita adesso domande. Era forse una copertura di certi rapporti che intercorrono tra ambienti veteroeuropeisti e questi “ultramoderni” grillini con l’intenzione di ingannare e quindi paralizzare gli ambienti che si dicono sovranisti? PD e “5 stelle” si affannano a dichiarare che mai potrebbero mettersi insieme, che si odiano o giù di lì. Intanto, però, stanno progressivamente rendendo paralleli i loro piani e le loro dichiarazioni sempre più balorde e reazionarie, del più piatto e vetusto liberismo. Si sta ormai giocando sporchissimo come all’epoca della liquidazione della prima Repubblica e del rapido indebolimento del nostro paese.

Salvini, Di Maio e il Terzo_di Giuseppe Germinario

La conferenza stampa del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte con oggetto il caso Armando Siri è stata un piccolo capolavoro di sottili argomentazioni tese a giustificare la decisione di dimissionamento del sottosegretario. http://www.governo.it/articolo/conferenza-stampa-del-presidente-conte/11474La prevedibile accalorata reazione dei due esponenti politici maggiormente interessati alle implicazioni dell’affare, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, non ha colto e centrato il punto focale di quella prolusione. Nella costruzione logica del discorso l’effetto scatenante sono state ovviamente le indagini giudiziarie, ma il motivo della defenestrazione riguarda il comportamento politico di un esponente di governo impegnato a difendere retroattivamente, consapevolmente o meno che fosse, interessi particolari piuttosto che l’interesse generale, non tanto il suo coinvolgimento giudiziario.

Il merito degli argomenti è però tanto efficace nella rappresentazione mediatica, quanto debole nella consistenza.

La gestione degli incentivi e delle agevolazioni ai consumi, atori e soprattutto alle imprese impegnate nel settore delle energie alternative, in particolare eolica e solare, è il frutto avvelenato del fondamentalismo ambientalista delle politiche energetiche perpetuate negli ultimi due decenni soprattutto dai governi di centrosinistra, parallelamente alla liberalizzazione del settore e bruscamente interrotte da un paio di anni.

Una mole spropositata di incentivi, introdotti repentinamente che hanno indotto enormi investimenti su tecnologie ancora poco efficienti, suscettibili solo nel tempo di migliorie significative; un ambito nel quale era del tutto assente sia l’industria di produzione degli utensili che l’artigianato competente nell’installazione e manutenzione. Il risultato ottenuto fu un notevole incremento della quota di energia verde prodotta al prezzo però di massicce importazioni di pannelli e tecnologie dalla Cina e installatori dalla Spagna. In poco tempo si assistette alla fioritura di numerose aziende di produzione e distribuzione nonché di intermediari nell’acquisizione di terreni per i parchi di produzione; attività rese profittevoli esclusivamente dall’entità degli incentivi, ma entrate immediatamente in crisi con l’altrettanto repentino scemare degli stessi. Attività di tipo speculativo nelle quali sono implicate, oltre alle scontate cosche mafiose, figure imprenditoriali ben più importanti dei tal Arata, ben ammanicate con il vecchio establishment.

Deve essere stato evidentemente uno dei servizi resi al paese e all’umanità, tra i tanti, del verde Pecoraro Scanio; servizi che gli hanno garantito un posto in prima fila alle europee in quota M5S; ma anche una scelta che ha creato l’humus adatto alla proliferazione di corruzione, parassitismo ed assistenzialismo da una parte e a interventi riparatori dall’altro.

Con questa puntualizzazione l’intervento di Conte assume ben altra caratteristica e ben altra durezza, se non proditorietà, stando almeno allo stato attuale delle indagini e della posizione giudiziaria di Siri.

Giuseppe Conte è diventato Presidente del Consiglio in quota 5Stelle, ma in virtù del contratto di governo e del protagonismo dei due vice ha potuto assumere, almeno in apparenza, la figura di terzo.

Come Schmitt, Freund e pochi altri hanno insegnato, quella del terzo è una posizione fondamentale ed indispensabile nel gioco politico. Può assumere di volta in volta la veste di mediatore, di arbitro e giudice pur essendo il più delle volte parte in causa.

Nella fattispecie Giuseppe Conte ha assunto, nell’ordinaria amministrazione, la funzione di mediatore. Nella ripartizione dei beni disponibili, quindi, l’onore della prima fila spetta ai beneficiari Salvini e Di Maio. In almeno un paio di occasioni, in questi dieci mesi, la figura di Conte si è però elevata al rango di arbitro: la gestione delle trattative con la Commissione Europea sulla Finanziaria e la gestione della conferenza internazionale sulla Libia. Si tratta però ancora di una funzione il cui esercizio è possibile grazie al riconoscimento delle parti in causa. Quando esso manca, lo vediamo nelle partite di calcio, all’arbitro non resta che la fuga e il riparo in luogo sicuro.

Con il caso Siri si è verificato il salto di qualità. Non ostante le esortazioni salomoniche alla calma rivolta ai due contendenti l’avvocato Giuseppe Conte ha assunto la veste di giudice. Di fatto un intervento a gamba tesa col fine di ripristinare e mantenere un equilibrio, un rapporto di forze in via di alterazione.

Il Presidente rischia di cadere nella tentazione ricorrente al quale cede il terzo. Quella di diventare esplicitamente parte in causa del conflitto e di trarne il massimo vantaggio specie nel momento di debolezza di entrambe i contendenti. Per il momento il bersaglio designato è Salvini. Il varco che si è cercato invano di aprire con il caso Diciotti, potrà determinarsi sfruttando la crepa del caso Siri entro la quale ancora una volta potrà agire la magistratura, parti di essa, per delimitare l’agone politico. Il moltiplicarsi delle azioni giudiziarie lasciano intravedere che sarà ancora una volta questa la modalità per tentare di ridisegnare e ripristinare lo scenario politico. Per il resto, ad alimentare i dissidi e il senso di impotenza, ci penserà la risicatezza del bottino disponibile grazie ai vincoli-capestro sottoscritti da tutti in sede comunitaria.

A Giuseppe Conte, però, manca una referenza fondamentale per esercitare compiutamente questa ultima funzione di terzo: la disponibilità delle leve di potere e di una forza propria, giacché la forza è un atout imprescindibile in politica. Lo ha dimostrato nel prosieguo delle due occasioni nelle quali ha potuto emergere: in Libia con il chiaro ridimensionamento della funzione mediatrice del Governo Italiano, in Europa con l’intangibilità dei parametri che regolano le politiche economiche degli stati europei.

L’ambiguità e la opacità di questo suo ruolo deriva dalla discrepanza netta tra la rappresentazione del conflitto e delle divisioni sullo scenario pubblico e le divisioni e i contrasti effettivi che agiscono nell’ombra e dietro le quinte. Lo scenario ci offre la contrapposizione tra Salvini e Dimaio, la Lega e i Cinque stelle.

Il Governo in realtà è composto da tre attori, una delle quali, la componente “tecnica”, rappresenta il vero giudice. Una componente composta in parte da figure autonome, in parte da figure cooptate nel seno dei due partiti, specie dai 5Stelle, per mancanza di una propria classe dirigente. È pervaso, altresì, da due anime, queste sì in fondamentale conflitto tra di esse. Una apertamente europeista, pedissequamente atlantista, ben disposta verso l’umanitarismo e il politicamente corretto; ben salda nel controllo delle leve di potere, ma incapace di offrire una prospettiva accettabile per quanto ingannevole. L’altra con aspirazioni di indipendenza politica, incapace però di tradurle in strategie e tattiche politiche adeguate con il risultato di ricadere continuamente nel trasformismo più becero. Due anime che attraversano entrambe i partiti al governo anche se sotto mentite spoglie di diversa foggia. Quella restauratrice in uno si manifesta con il progressismo dei diritti, nell’altro con quello della persistenza di una classe dirigente più preparata e navigata, addestrata da venti anni di esperienza amministrativa, ma legata ad una visione localistica e regionalista sostanzialmente compatibile con le attuali opzioni europeiste e con la attuale insignificanza nell’agone geopolitico. Una mistura particolarmente deleteria e mistificante per il paese. Il resto, comprese le migrazioni incontrollate di adepti nei partiti, di fatto nel partito, è un corollario per quanto rischioso

In questo contesto e con queste dinamiche la funzione di Giuseppe Conte rischia di apparire inesorabilmente più che di Terzo per “conto terzi”. Una funzione che potrà portare al drastico ridimensionamento, se non al dissolvimento di uno, dell’ultimo arrivato quindi tra i partiti e al pieno rientro nei ranghi dell’altro. Gli osanna mediatici a Mario Draghi e la posizione di attesa del PD lasciano intendere questi propositi. Tra il dire e il fare, fortunatamente, c’è di mezzo un vecchio ceto politico troppo screditato ed incapace e un contesto geopolitico, compreso il presunto asse franco-tedesco, sempre più mutevole e meno stabile nella stessa Europa. Per ora può essere ancora una opportunità; tra non molto potrà rivelarsi, se procrastinata, una vera e propria iattura e catastrofe per l’intera Europa e soprattutto per l’Italia; senza nemmeno il palliativo del declino languido conosciuto dall’Italia postrinascimentale.

 

i primi sette mesi di governo visti dal professor Antonio Maria Rinaldi

Sono passati ormai sette mesi dal varo del nuovo inatteso Governo. Una esperienza rappresentata perennemente in bilico, in realtà fondato su un equilibrio frutto di continui aggiustamenti ma non per questo sull’orlo perenne di una crisi. Una crisi (di nervi) che per altro sembra investire inesorabilmente il fronte variegato dell’opposizione vittima di un atteggiamento di ripicca e ritorsione tipico di gruppi dirigenti privi di una qualsiasi bussola. Smarrito il proprio vate sull’altra sponda dell’Atlantico, smarriti i principali ventriloqui sul continente, nella fattispecie Macron e Merkel, in piena discrasia tra il loro afflato universalistico e i loro indirizzi politici sempre più gretti e particolaristici, privi di autorevolezza e credibilità, non ostante i generosi sforzi di adulazione di stampa e tv, sembrano vivere una fase di regressione infantile fatta di ripicche e ritorsioni subalterne tipiche dei movimenti contestatari di qualche decennio or sono. Una parodia senza creatività. Il professor Rinaldi ci offre il suo vivace punto di vista su alcuni punti cruciali dell’azione politica. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

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