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Mi sono astenuto dal commentare l’andamento degli eventi nella guerra israelo-iraniana appena iniziata. In una situazione militare come questa, è sempre meglio aspettare almeno quattro giorni – 3 giorni + 1 – per risolvere la situazione. Detto questo, farò qualche commento.
Gli israeliani stanno certamente esagerando i loro successi e minimizzando gli effetti della rappresaglia iraniana, sfruttando al meglio i media occidentali compiacenti. Quindi, non prestate troppa attenzione ai media tradizionali, o ai media alternativi che si basano sui media tradizionali. Finora, ci sono semplicemente troppe contraddizioni, soprattutto se si esaminano attentamente le prove visive. Le mie fonti in Medio Oriente mi raccontano una storia diversa.
È ovvio che, nonostante gli israeliani abbiano causato molti danni con il loro attacco a sorpresa, ciò non è stato sufficiente a prevenire i massicci attacchi di rappresaglia che sono seguiti e che ora continuano giorno dopo giorno.
A questo punto, oserei dire che l’attacco è stato un grave errore da parte di israeliani e americani. Disperato e suicida. Semplicemente non ponderato.
Una strategia più intelligente per Israele sarebbe stata quella di continuare a usare il Mossad per fomentare disordini interni in Iraq. Il Mossad è intelligente e ha decenni di esperienza in trucchi sporchi.
In ogni caso, questo attacco palese e illegale ha unito l’Iraq. Improvvisamente, c’è chiarezza .
Anche chi normalmente si oppone al governo iraniano ora si sta radunando attorno alla bandiera. Questa donna non indossa l’hijab e normalmente non sosterrebbe il governo.
Il sabotaggio diretto dal Mossad da parte di vari gruppi in Iraq provoca rabbia, non contro il governo iraniano, ma contro le comunità e i gruppi etnici che ospitano terroristi. Saranno sotto pressione perché dimostrino la loro lealtà, o se ne vadano.
In altre parole, l’attacco israeliano ha avuto un effetto polarizzante, il che significa un maggiore sostegno alle Guardie della Rivoluzione islamica. Ricordate come hanno reagito gli Stati Uniti all’11 settembre?
È ovvio che l’Iran si sta preparando da molto tempo alla guerra con Israele.
Mentre gli israeliani hackeravano i loro sistemi di comunicazione elettronica, essenziali per la difesa aerea, che avrebbero dovuto rimanere fuori uso per 3 giorni, questi furono riparati in meno di 10 ore, apparentemente con l’aiuto russo. Persero comandanti esperti, ma avevano un gruppo di comando “ombra” che prese immediatamente il controllo. I loro sistemi missilistici e di difesa aerea erano per lo più mobili e rimasero intatti. Finora, gli israeliani hanno perso diversi dei loro costosi F35 “invisibili”, come avevo previsto se li avessero fatti volare nel raggio d’azione dei sistemi S400.
Gli iraniani non hanno mai voluto combattere, ma erano pronti e ora sono i sionisti a pagarne il prezzo.
Forse quando Tel Aviv assomiglierà a Gaza capiranno il messaggio.
L’Iran ha le risorse per sopravvivere a israeliani e americani, e ha appena iniziato a contrattaccare: sta solo ora iniziando a utilizzare i suoi missili più avanzati. Specialisti russi in EW e EA (attacco elettronico) sono già in Iran. La Corea del Nord offrirà sicuramente missili se l’Iran dovesse iniziare a scarseggiare. Hanno margine per migliorare il loro gioco.
Se questi attacchi continueranno per più di una settimana, Israele perderà i missili intercettori. Gli yemeniti si sono già uniti. E se lo facesse anche Hezbollah? I gruppi iracheni di Hezbollah hanno minacciato di attaccare le basi statunitensi. Poi, i libanesi.
E se l’Iran chiudesse Hormuz?
Trump ordinerà un attacco ai B52? I B52 sono obiettivi succulenti.
Pubblicherò di nuovo un articolo più dettagliato con un’analisi strategica migliore.
Chi dei due? Khamenei o Netanyahu? ………O entrambi?_Giuseppe Germinario
Negli ultimi 35 anni, l’uomo forte dell’Iran si è gradualmente affermato come un decisore chiave nella regione. Fino a quando la guerra che stava conducendo indirettamente con Israele si è riversata sul suo territorio. E ha minacciato apertamente il suo regno.
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Un manifestante regge una foto della Guida Suprema iraniana, l’Ayatollah Ali Khamenei, durante una manifestazione a Teheran in solidarietà con il governo contro gli attacchi israeliani, 14 giugno 2025. Atta Kenare/AFP
12 aprile 1980. La storia è una cavalcata veloce. La rivoluzione islamica in Iran, gli accordi di Camp David e l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’URSS hanno accelerato il ritmo. Ma per i diplomatici americani tenuti in ostaggio a Teheran per cinque mesi, la vita si è fermata. L’operazione Eagle Claw, lanciata dal presidente americano Jimmy Carter per cercare di liberare i prigionieri, non aveva ancora avuto luogo. John Limbert, trentenne, era in isolamento. In questo giorno di primavera, riceve la visita mattutina di due rappresentanti svizzeri del Comitato Internazionale della Croce Rossa. Più tardi, arriva una figura sconosciuta, accompagnata da una piccola squadra di cameraman. Sembra fragile, con una barba nera. Come il suo turbante. Il religioso è l’inviato di un regime ancora agli inizi. La scena è filmata. Sembra un’operazione di seduzione rivolta alla comunità internazionale.
La persona con cui John Limbert parlò era un certo Ali Khamenei. “Non si è presentato, ma sembrava avere una posizione nella difesa”, ricorda l’ex diplomatico.
Tra i due uomini si svolge un curioso dialogo in persiano. La forma è cortese. Il contenuto, invece, è tagliente. John Limbert conosce a fondo il paese. Decide quindi di “decapitare” il chierico “con il cotone”, come recita un vecchio adagio locale. Per farlo, coinvolge il visitatore in un gioco di ruolo in cui il galateo – il “taarof” iraniano – viene rielaborato. Normalmente, il galateo prevede che il padrone di casa insista affinché l’ospite rimanga quando quest’ultimo deve andarsene. Voi iraniani siete così ospitali”, ha scherzato il diplomatico. Una volta che hai un ospite, non puoi lasciarlo andare”. Ma nel chiuso della stanza, John Limbert decise di cambiare le carte in tavola. “Gli chiesi gentilmente di sedersi e mi scusai per non avere nulla da offrirgli”, ricorda.
All’epoca, nessuno immaginava nemmeno per un secondo il destino che attendeva l’impiegato. “Non mi vedevo affatto a parlare con un politico di primo piano. Non l’avevo mai sentito nominare”, dice John Limbert.
A prima vista, l’Ayatollah Ali Khamenei è un enigma. Non molto popolare, non ha né il carisma né la profonda erudizione religiosa del suo predecessore, l’ayatollah Ruhollah Khomeiny, l’uomo che a suo tempo ha cambiato il volto del Medio Oriente. Eppure, in più di tre decenni, ha saputo navigare astutamente nelle acque agitate della regione, mettendo fuori gioco i suoi rivali interni, reprimendo senza vergogna le ondate di dissenso ed estendendo l’influenza iraniana nel vicinato arabo, trasformando queste nuove “province” in luoghi di conflitto indiretto con il suo nemico giurato, gli Stati Uniti.
Ma oggi, all’età di 86 anni, Ali Khamenei sembra essere sulla sedia elettrica. Al crepuscolo della sua vita, la guerra che da anni conduce indirettamente con Israele si sta estendendo sul suo territorio e sta mettendo a rischio il suo regime. Dal 7 ottobre, l’uomo forte dell’Iran ha assistito al crollo fulmineo della sua “eredità”. Un’eredità pazientemente costruita che, in pochi mesi, è andata in frantumi. La dottrina della piovra di Israele ha raggiunto il suo stadio finale. Prima è stato necessario tagliare le braccia all’animale. Hezbollah – il “gioiello della corona” – è stato decapitato. La presenza dell’Iran in Siria è stata notevolmente ridotta. La caduta del regime sanguinario di Bashar al-Assad ha portato Damasco all’interno degli Stati arabi del Golfo, alleati di Washington. I gruppi armati iracheni affiliati alla Repubblica islamica sono sempre più isolati. E Hamas – i cui legami con l’Iran sono complessi e non organici – governa ora la Striscia di Gaza, dove Tel Aviv non nasconde più le sue ambizioni: la pulizia etnica. D’ora in poi, lo Stato ebraico vuole attaccare la testa. Con un obiettivo dichiarato: la distruzione del programma nucleare e delle capacità militari dell’Iran. E un altro obiettivo, meno chiaro: il cambio di regime. Ali Khamenei sarà assassinato? E la sua morte in tali circostanze significherebbe necessariamente la fine della Repubblica islamica? Oppure Israele intende indebolire il più possibile un regime che sa essere maledetto da gran parte della sua popolazione, per incoraggiarla a sollevarsi? Al momento in cui scriviamo, tutti gli scenari sono possibili. Ma nessuno di essi prevede un’uscita vittoriosa della Guida suprema.
Sayyid Qutb
Nato nel 1939 a Machhad, nel nord-est dell’Iran, da un chierico, Javad Khamenei, e dalla figlia di un chierico, Khadija Mirdamadi, il giovane Ali cresce in una famiglia modesta. Ben presto si è distinto per il suo profilo atipico. “Fin da piccolo amava la letteratura più della teologia e passava più tempo alla biblioteca Astan-e Qods-e Razavi – la più grande collezione di libri in Iran – che alla moschea”, spiega Ali Alfoneh, ricercatore dell’Arab Gulf States Institute con sede a Washington.
Alla fine degli anni Cinquanta, questa passione lo introdusse nei salotti letterari di Mashhad, dove fece la conoscenza di scrittori locali, molti dei quali di sinistra. “Rimase particolarmente colpito da due personaggi: Ali Shariati, un intellettuale di Mashhad che nelle sue opere polemiche mescolava sciismo e marxismo, e il romanziere Jalal Al-e Ahmad, che imputava l’arretratezza e il sottosviluppo dell’Iran all’emulazione dell’Occidente da parte del regime Pahlavi”, racconta Ali Alfoneh. Il giovane si trasferì quindi a Qom, dove visse dal 1958 al 1964. Si tratta di un periodo decisivo, perché qui incontra l’ayatollah Ruhollah Khomeini, la cui opposizione alla modernizzazione dell’Iran sotto il regime dello Scià – ritenuta contraria all’Islam – avrà su di lui un’innegabile influenza.
Ali Khamenei durante la Rivoluzione islamica. Wikicommons. https://khamenei.ir/
Influenzato dal movimento Fadayan-e Islam – un gruppo fondamentalista sciita fondato alla fine degli anni Quaranta da Navab Safavi – Ali Khamenei abbracciò pienamente l’ideologia rivoluzionaria dell’Ayatollah Khomeini e contribuì a reclutare nuovi militanti per sostenere il progetto del suo maestro. Tornò quindi a Mashhad, dove rimase fino allo scoppio della Rivoluzione islamica. Questo periodo fu intervallato da esperienze di detenzione a Teheran e di esilio per dissidenza politica.
Soprattutto, nel 1967, traduce in persiano l’opera del fratello musulmano Sayyid Qutb “al-Mustaqbal li-hadha al-din” (Il futuro di questa religione), in cui l’autore difende la supremazia politica dell’Islam. Nella prefazione alla sua traduzione, Ali Khamenei sostiene che l’Islam deve modernizzare il suo messaggio se vuole attrarre le giovani generazioni.
Secondo lui, la maggior parte dei musulmani limita la religione ai rituali. È una visione quietista che trascura la sua forza rivoluzionaria, non sconvolge l’ordine sociale e politico ed è perfettamente accettabile per le potenze imperialiste occidentali. Questo rifiuto dell’Occidente ha avuto luogo nel contesto internazionale di un’epoca in cui il Terzo Mondo stava guadagnando terreno in ogni angolo del pianeta. Ma si rifà anche alla dolorosa storia dell’ingerenza britannica e americana nel Paese, dal monopolio del tabacco concesso dallo scià agli inglesi nel 1890 all’Operazione Ajax del 1953 e all’alleanza tra gli Stati Uniti e la dittatura Pahlavi.
“Ali Khamenei è un prodotto del suo tempo. Si è fatto le ossa in politica negli anni ’60 e ’70, in un periodo di sperimentazione rivoluzionaria e di immaginazione politica su scala globale, anche nella sua città natale, Mashhad”, sottolinea lo storico Arash Azizi. “Era anche un’epoca segnata dall’estremismo in politica. La sua visione è stata plasmata dal fervore di un periodo in cui la sfida al potere comprendeva imprigionamenti, attentati e assassinii, non solo in Iran ma in tutto il mondo, anche in Germania e in Italia con la Fazione dell’Armata Rossa e le Brigate Rosse, ad esempio.
Stratega
Il 16 gennaio 1979, l’ultimo scià dell’Iran, Mohammad Reza Pahlavi, lasciò Teheran per sempre. Una pagina è stata voltata, un’altra è stata aperta. Il 1° febbraio, l’ayatollah Rouhollah Khomeyni è tornato trionfalmente dopo 14 anni di esilio. Ma l’insediamento del nuovo regime fu presto minacciato dal vicino Iraq. Nel 1980, l’esercito di Saddam Hussein invase il Paese. Questo segnò l’inizio di una guerra durata otto anni che avrebbe causato centinaia di migliaia di vittime. All’interno, i gruppi di sinistra che in precedenza avevano combattuto a fianco degli islamisti furono esclusi dal governo. Il governo raddoppiò la violenza contro qualsiasi forma di opposizione. Era il momento di consolidare l’apparato repressivo del nascente regime.
Nel giugno 1981, mentre si accingeva a tenere un sermone nella moschea Abouzar di Teheran, Ali Khamenei sfuggì a un attentato. Perse l’uso della mano destra e parte dell’udito. Pochi mesi dopo, fu nominato Presidente della Repubblica islamica. “All’epoca, la carica non era molto importante. Il Primo Ministro, Mir Hossein Moussavi, e il Presidente del Parlamento, Akbar Hashemi Rafsanjani, avevano più potere”, osserva Arash Azizi. Durante la guerra Iran-Iraq, Ali Khamenei non ha avuto un ruolo di primo piano, se non quello di contribuire a stabilire le relazioni internazionali del regime, come dimostrano il suo viaggio a New York, presso la sede delle Nazioni Unite, nel 1987, e la sua visita in Corea del Nord nel 1989.
Da allora non ha mai messo piede all’estero.
Gli anni ’80 sono stati un periodo di brutalità senza precedenti, culminato nell’esecuzione di decine di migliaia di oppositori politici nel 1988. Ma all’epoca Ali Khamenei era solo un anello della catena. Le sue prerogative erano limitate.
Ma dietro la sua facciata austera si nasconde uno stratega impareggiabile. Il suo amico di lunga data, Akbar Hashemi Rafsanjani, lo avrebbe imparato a sue spese. Quando Khomeini morì nel giugno 1989, l’Assemblea degli Esperti dovette eleggere il suo successore. Rafsanjani era all’epoca una figura influente nella Repubblica islamica e convinse i cauti membri di questo organo costituzionale a scegliere Ali Khamenei. Nella sua mente, la futura Guida Suprema – o “rahbar” – sarebbe stata l’uomo di punta del regime, mentre lui stesso avrebbe governato dietro le quinte. È stato quindi necessario modificare la Costituzione per consentire l’elezione di un leader con qualifiche religiose insufficienti. All’epoca, Ali Khamenei era solo un chierico di medio livello, un “hojatolislam”.
Tutti i rami del governo e le istituzioni associate sono sotto il controllo del velayat-e-faqih, cioè del “rahbar”. La carica di Primo Ministro è stata abolita, mentre la presidenza è stata affidata all’autorità esecutiva. Rafsanjani bramava questa posizione, pensando di poterla usare per controllare Ali Khamenei. I suoi calcoli si sono rivelati sbagliati: sebbene Khamenei abbia corso con successo alle elezioni per due volte, l’ascesa al potere del suo “protetto” – a cui aveva aperto tutte le porte – lo ha messo da parte.
Dopo la sua nomina, la Guida Suprema fu elevata al rango di “ayatollah” – un titolo indebitamente attribuitogli per gli scopi della sua carica – e iniziò a ristrutturare la Repubblica in un ambiente trasformato. La guerra Iran-Iraq scosse i miti rivoluzionari. “Sebbene l’Iran sia riuscito a spodestare l’Iraq nel 1983, la Repubblica islamica voleva continuare la guerra per estendere la rivoluzione e si era posta l’obiettivo di rovesciare Saddam Hussein”, sottolinea Arash Azizi. “Ma ha fallito miseramente. Gli ideali islamici devono cedere il passo alla realtà: un Paese devastato che deve essere ricostruito; uno Stato senza alleati che deve imparare a negoziare e a ripensare la propria sicurezza. “Nel 1980, l’Iran è stato invaso dall’Iraq, ma il mondo intero, e in particolare i vicini arabi di Teheran, che percepivano l’Iran rivoluzionario come una minaccia maggiore del regime baathista, hanno sostenuto Baghdad”, afferma Ali Alfoneh. Questo è il motivo principale per cui la Repubblica islamica sta cercando di ottenere armi nucleari come deterrente finale contro gli avversari stranieri”. È anche sulle rovine di questo conflitto che è nato il progetto di Teheran basato sulla combinazione di missili e milizie. Non si dovevano più combattere battaglie in territorio iraniano. Ed è al di fuori dei suoi confini che la Repubblica islamica sta pazientemente costruendo le sue linee di difesa.
Buone pratiche
Consapevole delle sue carenze, Ali Khamenei si è affidato fin dall’inizio all’alleanza con le Guardie Rivoluzionarie per sviluppare il suo potere. Se prima della guerra i pasdaran avevano una legittimità costituzionale, il conflitto li ha trasformati nella principale forza militare del Paese. Grazie a questo “scambio di cortesie” con la Guida suprema, sono riusciti anche a costruire un impero economico che sfugge ai controlli del governo. Oggi controllano fino al 60% del PIL e traggono profitto da ogni tipo di traffico, in particolare quello di droga.
Ali Khamenei, da parte sua, può contare sui Pasdaran – e in particolare sulla milizia Bassidj, passata sotto l’autorità formale del comandante dell’IRGC nel 2007 – per sedare le varie ondate di protesta che hanno segnato il suo regno, dal movimento studentesco del 1999, al movimento Donne, Vita, Libertà del 2022, passando per il movimento verde del 2009 e la serie di rivolte guidate principalmente da richieste socio-economiche che hanno caratterizzato il periodo 2017-2021. La Guida suprema ricorda inoltre a ogni presidente che è l’unico a comandare. Negli anni ’90, la priorità di Khamenei era quella di preservare lo status quo, resistendo ai tentativi di Rafsanjani di sbarazzarsi delle istituzioni “rivoluzionarie”, ad esempio fondendo le Guardie rivoluzionarie con l’esercito regolare, e di riformare l’economia iraniana”, spiega Ali Alfoneh. In seguito, durante i due mandati del presidente riformista Mohammad Khatami (1997-2005), la Guida Suprema ha usato la sua onnipotenza per ostacolare i piani di una figura del sistema troppo liberale per i suoi gusti. Era un momento propizio per l’ascesa dei Guardiani della Rivoluzione nell’arena politica, come contrappeso alle ambizioni della presidenza. “Ali Khamenei aveva una legittimità religiosa, mentre Mohammad Khatami aveva una legittimità popolare”, afferma Tarek Mitri, vice primo ministro del Libano. “Non appena mi sono recato in Iran, da una visita all’altra, il Presidente ha perso parte del suo territorio. In un’occasione mi ha confidato di non avere più alcuna autorità sul Ministero dell’Istruzione. E la volta successiva, sentiva di non avere più alcuna influenza sul sistema giudiziario”, ricorda.
Mir-Hossein Mousavi e Mohammad Khatami nel 1985. Il primo era allora Primo Ministro (1981-1989) e il secondo Ministro della Cultura (1982-1992) della Repubblica Islamica. Wikicommons
La caduta dell’Unione Sovietica nel 1991 ossessiona il “rahbar”. Ci pensa costantemente, considerandola la conseguenza delle riforme avviate sotto Gorbaciov. A suo avviso, la liberalizzazione economica e politica del potere aveva indebolito il controllo dello Stato sulla società, rendendola più ricettiva alle riforme e portando, in ultima analisi, alla disgregazione dell’Impero Rosso. Il destino dell’URSS ha alimentato la paranoia della Guida Suprema, anche tra coloro che erano ideologicamente più legati a lui.
Quando il presidente Mahmoud Ahmadinejad divenne presidente, Ali Khamenei continuò la sua fagocitazione delle istituzioni. All’apparenza, l’ultraconservatorismo del nuovo capo del governo aveva tutto per piacere. Infatti, il “rahbar” lo ha sostenuto con tutte le sue forze, fino a truccare le elezioni del 2009 a suo favore. Eppure. L’uomo stesso ha finito per cadere in disgrazia durante il suo secondo mandato. Populista schietto, il piantagrane iraniano moltiplicava le provocazioni e cercava di affermare la propria autonomia, fino a bruciarsi le dita.
A cosa serve la carica di Presidente se il suo titolare è legato mani e piedi? In realtà, la carica è preziosa agli occhi della Guida suprema. Gli permette di monopolizzare il potere senza mai essere chiamato a risponderne. E di delegare la responsabilità ai suoi successivi capi di governo… senza un briciolo di potere.
In quasi trentacinque anni di carriera, Ali Khamenei ha gradualmente sviluppato una presa quasi assoluta su tutto il funzionamento dello Stato e trae la sua legittimità anche dal suo status di “reggente”. Questo perché, secondo la dottrina del velayet-e faqih sviluppata dal suo predecessore, è proprio il “fakih”, la Guida Suprema, che dovrebbe avere il potere fino al ritorno del vero detentore, il dodicesimo e ultimo Imam o “maestro dei tempi”.
Ali Khamenei ora controlla il governo, comanda le forze armate e supervisiona il sistema giudiziario. Le istituzioni elette sono sfruttate in modo tale da rendere futile qualsiasi sfida al suo dominio. E per neutralizzare gli appetiti di alcuni e di altri, ha ingegnosamente costruito un’istituzione parallela per ogni ministero. Le decisioni vengono prese all’interno di una cerchia estremamente ristretta. Ma è lui ad avere l’ultima parola e non esita a mettere una parte contro l’altra, a seconda delle circostanze.
Una donna passa davanti a un murale che celebra Ali Khamenei. Teheran, 9 marzo 2022. Atta Kenare/AFP
Come se non bastasse, è a capo di un vasto impero economico che, secondo un’inchiesta della Reuters del 2013, ha un valore di 95 miliardi di dollari. Questa somma sbalorditiva proviene da un’entità opaca chiamata Setad. Il Setad è stato fondato da Ruhollah Khomeini poco prima della sua morte per gestire e vendere le proprietà abbandonate durante i disordini degli anni post-rivoluzionari. Sebbene il suo scopo fosse quello di aiutare i più poveri, nel corso del tempo si è trasformato in un gigantesco conglomerato con partecipazioni in molti settori dell’economia. Naturalmente, nulla indica che Ali Khamenei attinga direttamente ai fondi dell’organizzazione per arricchimento personale. Resta il fatto che nessun organismo può impedirgli di farlo e che questa fortuna gli fornisce risorse finanziarie particolarmente consistenti.
Ossessioni
In oltre quarant’anni, le promesse economiche, sociali e politiche del 1979 sono state tradite. La rivoluzione si è trasformata in una lunga controrivoluzione, con la sua parte di contraddizioni, che a loro volta hanno dato origine a impulsi rivoluzionari. In oltre quarant’anni, i tassi di istruzione e alfabetizzazione delle donne sono aumentati considerevolmente. Ma i loro diritti sono stati sempre più limitati. All’interno dell’Assemblea degli esperti – l’organo responsabile del controllo e dell’eventuale destituzione della Guida suprema, ma anche della nomina del suo successore alla sua morte – l’età media è di 65 anni. Degli 88 esperti, 52 sono nati negli anni ’50 o prima, come ha ricordato Arash Azizi in un articolo pubblicato nel giugno 2024. Per riprendere una frase dell’analista iraniano Karim Sadjadpour: “L’età mediana è morta”. Al contrario, l’età mediana della popolazione è di 33 anni.
Una donna senza velo si trova sul tetto di un veicolo mentre i manifestanti si dirigono verso il cimitero di Aichi a Saqez, luogo di nascita di Mahsa Amini, la cui morte dopo l’arresto da parte della polizia morale per “aver indossato un velo inappropriato” è stata il punto di partenza del movimento Donne, Vita, Libertà. 26 ottobre 2022. Foto AFP
Oggi la Repubblica islamica è una gerontocrazia bigotta che deve governare una società sempre più secolarizzata, con un’ampia fetta di giovani assetati di apertura. In 35 anni, il volto del Paese si è trasformato. Ma Ali Khamenei non si è mai liberato delle sue ossessioni. Il controllo del corpo delle donne e l’odio per l’America – per il quale è molto riconoscente – plasmano l’identità del regime. La copertura morale è la strumentalizzazione della causa palestinese. “Morte a Israele” rimane lo slogan operativo, insieme al sostegno a ciò che resta dell'”asse della resistenza””, sottolinea Barbara Slavin, ricercatrice senior presso lo Stimson Center. In realtà, però, l’ascesa al potere di Teheran nella regione non ha prodotto alcun guadagno politico sostanziale per i palestinesi. Israele è più forte che mai. L’eredità di Khamenei è costituita da rovine arabe e prigioni iraniane;
L’obiettivo è strutturale: smantellare il nucleo di potere dell’Iran. Scopri perché la retorica nucleare è una copertura per una più ampia strategia di logoramento del regime.
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Geopolitics Brief si fa strada tra la confusione con riflessioni spontanee e stimolanti sugli sviluppi globali. Libero dalla routine e guidato dalla pertinenza, emerge al momento giusto: evidenziando ciò che è significativo, sorprendente o semplicemente degno di essere analizzato più attentamente.
Nell’intensificarsi dello stallo tra Israele e Iran , non è la preoccupazione visibile per l’arricchimento dell’uranio a definire la logica strategica di fondo, quanto piuttosto un più profondo confronto strutturale tra sistemi statali. Ciò che apparentemente si presenta come una disputa sulla tecnologia nucleare è, in sostanza, uno scontro tra due imperativi strategici inconciliabili: la ricerca di preminenza regionale e sicurezza del regime da parte di Israele, e la ricerca di deterrenza e autonomia geopolitica da parte dell’Iran. Il dossier nucleare funge meno da vero e proprio vettore di minaccia e più da quadro di legittimazione: uno strumento narrativo utilizzato per giustificare azioni militari e politiche che servono obiettivi più ampi e non dichiarati. Questa disgiunzione tra obiettivi proclamati e comportamento operativo sottolinea quanto la moderna arte di governare, in particolare nei dilemmi di sicurezza ad alto rischio, sia governata non dalla retorica politica, ma da vincoli e pressioni strutturali persistenti.
Al centro di questo scontro si trova una contraddizione fondamentale radicata nella percezione che Israele ha del regime iraniano. Sotto il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, il pensiero strategico israeliano non tratta la Repubblica Islamica semplicemente come uno Stato rivale con capacità problematiche; al contrario, considera la natura stessa del regime clerico-militare iraniano come una minaccia permanente ed esistenziale alla sicurezza nazionale israeliana. Questa percezione non è semplicemente ideologica, ma si fonda su una valutazione a lungo termine che considera inaccettabile qualsiasi regime a Teheran con ambizioni regionali e capacità militare-industriale autonoma. Di conseguenza, l’apparato di sicurezza israeliano ha elevato l’imperativo del contenimento del regime (se non della sua destabilizzazione) a pilastro centrale della propria dottrina. La questione nucleare, in questo contesto, non è trattata come un fine in sé, ma come un flessibile strumento di giustificazione. Fornisce copertura politica e diplomatica a operazioni militari che mirano fondamentalmente a indebolire o smantellare la capacità statale dell’Iran.
Questa logica strategica è una conseguenza diretta della Dottrina Begin , formulata per la prima volta nei primi anni ’80, che afferma che Israele non permetterà agli stati ostili nella regione di acquisire armi nucleari. Inizialmente applicata in operazioni chirurgiche specifiche (come l’attacco aereo del 1981 al reattore iracheno di Osirak e il bombardamento del 2007 dell’impianto siriano di Al-Kibar), la dottrina si è evoluta, sotto Netanyahu, in un quadro molto più ampio. Quella che un tempo era una linea guida operativa per prevenire la capacità nucleare tecnica è diventata un approccio programmatico alla negazione strategica; ora si concentra non solo sulla distruzione delle infrastrutture, ma anche sul minare la continuità istituzionale dei regimi avversari. Il passaggio operativo da attacchi limitati ai reattori ad attacchi ad ampio spettro contro la struttura di comando iraniana riflette questa portata ampliata. Che questa strategia possa avere successo o meno è irrilevante; ciò che conta è che, strutturalmente, Israele non sta cercando di impedire una bomba: sta cercando di far crollare il sistema che potrebbe ordinarne la costruzione.
L’Iran, da parte sua, ha mantenuto una posizione di deliberata ambiguità nucleare da quando ha interrotto il suo programma di armamenti palesi nel 2003, in seguito alle rivelazioni dell’intelligence internazionale. Questa posizione è stata caratterizzata da un attento equilibrio: progressi tecnici sufficienti a mantenere viva la leva negoziale, ma non sufficienti a giustificare una rappresaglia militare su vasta scala o l’applicazione universale di sanzioni. Questa strategia di latenza (preservare l’infrastruttura tecnica e la base di conoscenze necessarie per una rapida “evasione” senza effettivamente armare) è servita a contenere le minacce esterne, preservando al contempo la coesione interna del regime. All’interno dell’Iran, la strategia riflette un compromesso tra fazioni: i sostenitori della linea dura in materia di sicurezza che considerano essenziale la deterrenza nucleare e i tecnocrati moderati che danno priorità all’integrazione economica e all’alleggerimento delle sanzioni. Tuttavia, l’escalation di Israele minaccia di sconvolgere questo equilibrio. Prendendo di mira individui e istituzioni allineati alla moderazione, gli attacchi israeliani potrebbero rafforzare la posizione di coloro che sostengono una deterrenza nucleare palese.
La tempistica delle azioni di Israele è altrettanto istruttiva. Con Hezbollah temporaneamente indebolito dalle recenti operazioni israeliane e gli Stati Uniti sotto un’amministrazione poco incline a limitare l’azione israeliana, l’equilibrio di potere regionale si è spostato a favore di Israele. Netanyahu, incontrando scarsa resistenza istituzionale all’interno del suo governo o della gerarchia militare, ha colto questa finestra strategica permissiva per imporre un dilemma alla leadership iraniana: reagire e rischiare una guerra regionale devastante senza il supporto garantito di Russia o Cina, oppure astenersi e subire un crollo reputazionale che potrebbe mettere a repentaglio la stabilità interna del regime. Il punto non è semplicemente imporre una decisione tattica, ma mettere sotto pressione il regime strutturalmente (per esacerbare le contraddizioni tra le sue esigenze strategiche e i vincoli operativi).
In questo contesto, la narrazione nucleare funziona meno come un vero e proprio avvertimento e più come un facilitatore operativo. Le affermazioni di Netanyahu secondo cui l’Iran possiede abbastanza uranio arricchito per ” nove bombe atomiche ” sono tecnicamente errate ( l’Iran non ha arricchito l’uranio oltre il 60% di purezza , mentre l’arricchimento per uso militare inizia al 90%), ma politicamente efficaci. Queste esagerazioni servono a costruire un senso di minaccia imminente, autorizzando così un’azione militare prolungata in nome della difesa preventiva. Creano urgenza, mobilitano il sostegno pubblico e delegittimano l’impegno diplomatico, liberando così lo spazio politico necessario per l’escalation.
La risposta dell’Iran è stata cauta ma rivelatrice. Il regime continua a presentare ” Questionari Informativi di Progettazione ” all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) per i nuovi impianti di arricchimento, mantenendo una sottile corazza di cooperazione. Allo stesso tempo, ha ridotto la collaborazione sostanziale con gli ispettori dell’AIEA , limitando la visibilità sulle sue attività nucleari. Questa duplice strategia di segnalazione è progettata per tenere socchiusa la porta diplomatica e al contempo comunicare la propria determinazione al pubblico nazionale e internazionale. Ma la sua efficacia sta diminuendo. Quando gli avversari considerano l’esistenza stessa di un regime come il problema, un’adesione graduale non offre alcun sollievo.
In tali condizioni, la deterrenza inizia a invertire la sua funzione. Invece di dissuadere gli attacchi israeliani, l’attuale mancanza di un deterrente nucleare da parte dell’Iran li invita. Il regime, profondamente consapevole del destino dei leader privi di armi nucleari (da Saddam Hussein a Muammar Gheddafi), potrebbe considerare sempre più la militarizzazione non solo auspicabile, ma essenziale per la sopravvivenza del regime. Ciò segnerebbe un passaggio decisivo da una strategia di calcolata ambiguità a una di deterrenza palese, guidata non da zelo ideologico ma da necessità materiali. Questo potenziale cambiamento rispecchia la traiettoria nordcoreana: un programma un tempo ambiguo, consolidatosi in una capacità di deterrenza palese in risposta a una minaccia esistenziale. I calcoli interni dell’Iran potrebbero ora inclinarsi nella stessa direzione.
Nel frattempo, i meccanismi internazionali progettati per contenere tale escalation appaiono inerti. Le condanne dell’AIEA sono diplomaticamente significative, ma prive di potere esecutivo in assenza di un consenso tra le principali potenze. Data la dipendenza economica della Cina dal petrolio iraniano e la cooperazione militare-industriale della Russia con Teheran (in particolare nello scambio di droni e tecnologia militare), nessuna delle due è propensa a sostenere ulteriori sanzioni. Gli Stati Uniti, da parte loro, hanno declassato il rientro nel Piano d’azione congiunto globale (JCPOA), avendo ceduto l’iniziativa nella regione a Israele.
Pertanto, la logica dello scontro si è autoalimentata. Israele è strutturalmente costretto a mantenere la pressione attraverso attacchi ricorrenti per impedire all’Iran di riorganizzarsi e consolidare la propria posizione. L’Iran, a sua volta, è sempre più spinto a perseguire una deterrenza nucleare dichiarata come unica via praticabile per la sicurezza del regime. Questo circolo vizioso rimodella le dinamiche politiche interne di entrambi gli Stati. In Iran, è probabile che il processo decisionale si sposti a favore delle fazioni che propugnano la militarizzazione (non per zelo ideologico, ma perché ogni altro modello di sopravvivenza ha fallito sotto pressione). In Israele, l’inerzia strategica garantisce una continua escalation come politica predefinita, soprattutto sotto una leadership che considera il contenimento come capitolazione.
Le soluzioni negoziate, un tempo basate su una reciproca modificazione comportamentale, appaiono ora strutturalmente obsolete. Israele non accetta più la premessa che il comportamento iraniano possa essere riformato. L’Iran giunge sempre più alla conclusione che la moderazione porti solo vulnerabilità. Il conflitto si è sganciato dal quadro diplomatico e si è integrato nei meccanismi della politica di potenza. In un simile contesto, la deterrenza non è un equilibrio stabile, ma una soglia mobile, continuamente ridefinita dalle mutevoli percezioni della minaccia e dall’evoluzione delle capacità militari. Ciò che rimane non è una tabella di marcia verso la pace, ma un terreno strategico governato dalla forza, dall’attrito e dalla logica sistemica della sopravvivenza preventiva.
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L’Iran ha lanciato la fase successiva della sua operazione True Promise 3.0, prendendo di mira vari siti di infrastrutture energetiche e militari israeliane. Questa volta si è trattato di missili ipersonici Fattah-1 di ultima generazione, che hanno avuto un impatto abbagliante su Tel Aviv e sul nord di Israele: uno spettacolo così spettacolare da rivaleggiare solo con gli attacchi di Oreshnik dell’anno scorso:
Le scene erano quasi troppo irreali per essere credibili, come se si trattasse di un blockbuster di Michael Bay troppo prodotto. Tra gli obiettivi c’erano la raffineria di Haifa e il centro di ricerca israeliano del Weizmann Institute for Science di Rehovot, vicino a Tel Aviv:
Che ruolo ha la raffineria di Haifa che l’Iran ha preso di mira? La raffineria di petrolio di Haifa, nel nord della Palestina occupata, fornisce oltre il 60% del fabbisogno di carburante di Israele, dalla benzina e il diesel al carburante per l’aviazione. Con questi impianti danneggiati nell’attacco iraniano di questa notte, Israele dovrà affrontare un problema di carburante. Il successo dell’attacco alla raffineria di Haifa è un colpo strategico alla spina dorsale economica e militare di Israele. Il fatto che Israele taccia sugli impatti alla sua raffineria, e non abbia ancora detto nulla, ma si sia concentrato sull’impatto a Tamra – che credo sia stato causato da un missile intercettore fallito di Israele (staremo a vedere) – dimostra che il danno è stato doloroso. Ed è solo l’inizio…
Il New York Times, citando immagini condivise, riferisce che il centro di ricerca israeliano, il Weizmann Institute for Science, è stato danneggiato da un missile balistico iraniano negli ultimi attacchi al centro di Israele. L’edificio si trova a Rehovot, a sud di Tel Aviv, e secondo quanto riferito è scoppiato un incendio in uno degli edifici che contengono i laboratori.
Nel frattempo, Israele ha colpito anche il più grande giacimento di gas naturale dell’Iran, il South Pars, che è anche il più grande del mondo:
Israele sta bombardando la capacità dell’Iran di esportare petrolio e gas naturale. Ciò eliminerà la capacità dell’Iran di esportare circa 2 milioni di bpd, la maggior parte dei quali è destinata alla Cina. Il giacimento di gas naturale iraniano South Pars è stato chiuso, il giacimento petrolifero di Shahran è in fiamme. Diverse raffinerie di petrolio in Iran sarebbero in fiamme. Questo causerà una carenza di benzina e diesel in Iran. I prezzi del petrolio e del gas naturale saliranno alle stelle all’apertura dei mercati lunedì.
Tuttavia, il primo ciclo di attacchi di Israele ha prevedibilmente causato molti meno danni di quelli dichiarati. La maggior parte delle persone non ha idea di come si faccia il BDA e salta semplicemente a conclusioni basate su immagini emotive di un oggetto “distrutto” o di un altro.
Prendiamo ad esempio l’impianto di Tabriz: uno o due piccoli edifici sono stati “danneggiati”:
Natanz – un impianto gigantesco, come si può chiaramente vedere – ha visto alcuni trasformatori di potenza e una sottostazione ricevere danni da lievi a moderati:
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Inoltre, è stato anche mostrato che la maggior parte dei filmati degli attacchi di Israele contro i mezzi terrestri iraniani si sono rivelati delle esche, in quanto nessuno degli MRBM è stato visto accendersi dopo che i massicci ordigni sono atterrati sopra di loro.
Allo stesso modo, le affermazioni sulla “superiorità aerea israeliana” erano uno sciatto intruglio messo insieme da filmati di droni IAI Heron a bassa quota che volteggiavano brevemente su Teheran per foto di pubbliche relazioni, probabilmente prima di essere abbattuti, mentre sono emersi filmati di alcuni “grandi aerei” che l’Iran sosteneva fossero F-35 distrutti, ma che probabilmente erano droni. Inoltre, le affermazioni sul successo dell'”infiltrazione” israeliana e sulle “basi segrete” sono apparse più che altro un’esagerazione di psyop, poiché è emerso che gli israeliani operavano da basi segrete dell’Azerbaigian, lanciando droni e vari altri oggetti contro l’Iran da ogni direzione. Questo, tra l’altro, non è niente di nuovo: risale al 2012:
L’unica parte dell’operazione che ha avuto un relativo successo è stata l’assassinio di leader iraniani chiave e di figure nucleari.
Dopo gli attacchi avevo postato su Twitter:
Il test di falsificabilità definitivo sul “successo” degli attacchi israeliani: guardate quanto velocemente Israele affermerà che l’Iran è “ancora una volta” vicino a ottenere la bomba. Ora si festeggia, ma tra 2-3 mesi Bibi strillerà che l’Iran è di nuovo “al 90%” dell’arricchimento.
La domanda più grande: quando Bibi strillerà tra 2-3 mesi, gli attuali “celebratori” ammetteranno che gli attacchi sono stati un fallimento totale? O verrà nascosto sotto il tappeto come tutte le volte precedenti…?
Sembra che la mia previsione si sia avverata molto prima, perché quasi immediatamente è stato annunciato che Israele è effettivamente incapace di distruggere il programma nucleare iraniano, e che Israele ha chiesto urgentemente l’aiuto degli Stati Uniti per farlo:
Axios scrive che a Israele mancano i grandi bunker buster e i loro bombardieri strategici per infliggere danni reali alle strutture sotterranee chiave dell’Iran:
Israele non può bombardare impianti nucleari nelle montagne iraniane senza gli USA
Israele non ha le bombe bunker necessarie per distruggere l’impianto nucleare di Fordow sulle montagne.
Le hanno gli Stati Uniti. Un funzionario israeliano ha detto ad Axios che “gli Stati Uniti potrebbero ancora unirsi all’operazione e che il presidente Trump ha persino suggerito che lo avrebbe fatto se necessario quando ha parlato con Netanyahu nei giorni precedenti l’attacco”.
“Ma un portavoce della Casa Bianca ha smentito, dicendo ad Axios che Trump aveva detto il contrario. Il funzionario ha detto che gli Stati Uniti non intendono essere direttamente coinvolti in questo momento”, scrive la pubblicazione.
RVvoenkor
Il piano è sempre stato ovviamente quello di spingere l’Iran ad una risposta schiacciante che avrebbe in qualche modo incitato gli Stati Uniti ad entrare in guerra per conto di Israele, al fine di finire l’Iran. Il programma nucleare era probabilmente un falso obiettivo, mentre il vero obiettivo era il rovesciamento totale della leadership iraniana e la fomentazione di rivolte civili in tutto il Paese per mettere l’Iran alle strette sotto un governo fantoccio guidato dall’Occidente.
Ora Trump si trova sul filo del rasoio di una delle sue decisioni più critiche: se tradire il mandato del popolo americano e consegnare il suo secondo mandato e la sua eredità in declino al cumulo di rifiuti della storia, o se tirarsi indietro dai lacci di Miriam Adelson e altri donatori e mostrare una spina dorsale nel difendere la vera visione “America First” che ha promesso a tutti. Al momento in cui scriviamo, ci sono notizie di riunioni urgenti al Pentagono che riguardano proprio la questione della richiesta di Israele agli Stati Uniti di entrare ufficialmente in guerra per “finire l’Iran”.
Yanis Varoufakis scrive:
Questa è la Waterloo di Trump. Si è presentato come il Leviatano che avrebbe portato una pace furtiva, un accordo intelligente che evitasse una guerra con l’Iran. Poi, con un’altra grave violazione del diritto internazionale, Netanyahu lo mette in una piccola scatola: Perché o Trump sapeva dell’attacco, nel qual caso non è altro che il tirapiedi di Netanyahu. Oppure non lo sapeva, il che porta a chiedersi perché non lo sapeva e come reagirà al fatto di essere trattato come un pazzo da Netanyahu. In ogni caso, l’immagine di Trump come uomo forte e capace di concludere accordi è ormai andata in fumo. In ogni caso, passerà alla storia come l’ennesimo Presidente degli Stati Uniti che Netanyahu ha piegato alla sua volontà genocida.
L’intero mondo non occidentale guarda ora con il fiato sospeso questo momento di svolta cruciale: Trump può fare una mossa per riscattare almeno qualche speranza perduta per la leadership globale dell’America, o invece piantare il chiodo finale nella sua bara, edificando per sempre il nascente Sud globale sulla vera natura dell’Occidente immorale, barbaro e senza principi. È un bivio metafisico: Trump rimarrà fedele alla sua missione quasi spirituale di miglioramento del mondo, oppure affogherà gli Stati Uniti nel sangue dell’imperialismo neocon.
Su X avevo ipotizzato che, per quei “credenti” dal cappello bianco, ci fosse una piccola possibilità che Trump ci prendesse per matti in una partita di scacchi in 5D. L’ultima volta abbiamo appreso che avrebbe ingannato l’Iran, cullandolo in un falso senso di sicurezza solo per permettere a Israele di lanciare il suo vile attacco a sorpresa.
Ma se Trump avesse in realtà teso una trappola a Israele per tutto il tempo? Israele si aspettava che gli Stati Uniti si unissero e “finissero l’Iran”, mentre ora Trump potrebbe togliere loro il tappeto da sotto i piedi, abbandonando Israele al suo destino e lasciando invece che sia l’Iran a finire Israele, o almeno a facilitare la deposizione del regime di Bibi. Potrebbe essere? Forse c’è una piccola possibilità che sia possibile, se Trump è molto più intelligente di quanto gli attribuiamo – o semplicemente molto più stufo di Bibi.
La controprova più fondata di questa teoria è stata fornita da Zei_Squirrel:
[Gli Stati Uniti e Israele non hanno lanciato questa guerra per cercare di eliminare i siti nucleari. Sanno di non poterlo fare. Sono troppo ben protetti e dispersi e qualsiasi danno può essere ricostituito nel breve termine. L’hanno lanciata per provocare il collasso totale dello Stato in Iran, iniziando per fasi. La prima fase consisteva nell’eliminare i vertici militari e dell’IRGC, dando la caccia anche agli scienziati e uccidendo in massa i civili.
In questo modo si creerebbe la falsa impressione che siano ancora in qualche modo limitati e concentrati su obiettivi militari/nucleari.
Dopo aver ricevuto quella che si aspettano sarà una risposta altrettanto contenuta da parte dell’Iran, la vedranno come una conferma che l’Iran non si atterrà alle sue linee rosse dichiarate e che ha ancora paura di incontrare Israele allo stesso livello di escalation.
Questo è il loro via libera per passare alla fase successiva, che consiste nel colpire e uccidere i principali leader politici, compreso Khamenei.
La loro speranza non è quella di sostituire l’attuale governo e lo Stato con una sorta di riedizione del fascista sionista monarchico attraverso i suoi fallimenti, perché sanno che non c’è una base di sostegno per questo all’interno del Paese.
La loro speranza è di fare un’altra Libia e un’altra Siria: Scatenare forze per procura che finanziano e armano insieme ai regimi fantoccio dello “scudo arabo” del Golfo e alla NATO-Erdogan e trasformarla in una spirale di morte e caos, una “guerra civile” inventata in cui gli iraniani sono pagati e armati dalla CIA e dal Mossad per uccidere gli iraniani.
Il MEK e altre forze per procura di questo tipo sono già state addestrate e preparate e sono pronte per essere attivate. Inizieranno con autobombe e attacchi terroristici che uccideranno in massa i civili. L'”ISIS” riapparirà di nuovo e farà il suo tipico lavoro per i loro padroni della CIA-Mossad.
Gli Stati Uniti e Israele hanno deciso di lanciare questa guerra da prima che Trump fosse eletto, e ha il pieno e totale sostegno dell’intero complesso militare-intelligenziale-industriale statunitense, dei media e della classe politica, sia repubblicana che democratica, e sarebbe successo anche se Kamala Harris avesse vinto le elezioni.
Vedono l’Iran e l’Asse della Resistenza e la sua alleanza con Russia e Cina come il principale ostacolo alla piena e totale egemonia imperiale sionista USA-NATO-Israeliana nella regione e, per estensione, nel mondo, e vogliono distruggerlo perché è l’unico che, a differenza di Russia e Cina, non ha un deterrente nucleare e vogliono raggiungerlo prima che lo ottenga.
Si tratta di una guerra esistenziale di sopravvivenza non solo per lo Stato iraniano, ma per l’Iran come nazione.
Se questo progetto avrà successo, il Paese sarà balcanizzato, le divisioni etniche saranno fomentate da attori stranieri, la CIA e il Mossad e le marionette del Golfo finanzieranno e armeranno decine di squadre di morte e di stupro per procura che si aggireranno nei loro feudi, decine di milioni di vite saranno distrutte.
Bisogna fare di tutto per impedirlo. L’Iran ha le armi per farlo. Ha la capacità di farlo, è solo una questione di volontà. Ha la volontà di fare ciò che serve per evitare la distruzione di massa del proprio popolo e della propria nazione? Io spero di sì. Tutti noi dobbiamo sperare che sia così.
La mia previsione su cosa accadrà?
Dipende tutto dalla decisione di Trump, ma se sceglierà di non entrare in guerra, allora gli attacchi di Israele si attenueranno dopo pochi giorni, ed entrambe le parti cercheranno probabilmente una de-escalation, mentre entrambe dichiareranno una “vittoria importante” al rispettivo pubblico nazionale. Israele si inventerà una serie di obiettivi che sono stati “portati a termine” e questo sarà tutto, dopodiché la situazione interna di Israele si deteriorerà rapidamente, poiché nessuno sarà convinto che Israele abbia “vinto” qualcosa o che abbia arrecato danni seri all’Iran.
Ma se gli Stati Uniti entrano, allora o si scatena l’inferno e l’Iran mantiene la promessa di chiudere lo Stretto di Hormuz, mandando potenzialmente il mondo in tilt economico, oppure – per placare i suoi responsabili israeliani – Trump sventola uno show strike “devastante” e dichiara i siti nucleari iraniani “cancellati” e si ritira immediatamente per iniziare un nuovo regime di de-escalation con l’Iran.
Ho una probabilità di 70/30 che negli Stati Uniti prevalga il buonsenso e che Trump decida di non entrare in guerra, e che le cose vadano nella direzione della prima opzione, ma vedremo come si evolverà.
Come ultimo elemento, ecco un video profetico del capo scienziato nucleare iraniano Feyerdoon Abbasi che recentemente ha discusso della sua potenziale fine per mano israeliana:
Sembrava accettare il suo destino con calma e grazia, sapendo che il Paese era stato lasciato nelle abili mani della generazione più giovane.
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Botte da orbi tra Iran e Israele (per i meno raffinati)
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Ursula von der Leyen potrebbe approfittare del momento e candidarsi come nuovo Capo di Stato Maggiore dell’Iran, paese che sicuramente ha più bisogno di un piano di riarmo rispetto all’Unione Europea.
Cerchiamo di spiegare cosa è successo e cosa potrebbe accadere senza l’utilizzo degli slogan tanto cari ai giornalisti.
· I fatti
Ieri notte Israele ha attaccato l’Iran con oltre 300 bombe lanciate da 200 aerei da combattimento (F-35, F-16 e F-15). Ha colpito la capitale Teheran e Tabriz, le centrali nucleari di Natanz e Arak, alcuni siti militari e diverse zone residenziali dove sono stati uccisi quattro membri dei vertici militari e sei scienziati addetti al programma nucleare, oltre al capo negoziatore (schema simile a quello utilizzato l’anno scorso contro Hezbollah e Hamas).
L’Iran non ha inizialmente reagito perché i servizi segreti israeliani avevano distrutto o disabilitato le difese aeree tramite squadre di incursori presenti sul territorio. È la terza volta in un anno che il Mossad si muove abbastanza liberamente nella ex Persia.
Israele ha poi proseguito l’offensiva fino a questa mattina, prendendo di mira nuovamente la capitale Teheran, alcune infrastrutture militari, diverse città secondarie e il più importante sito nucleare iraniano, quello di Fordow, protetto da un bunker a diversi metri di profondità e in parte all’interno di una montagna. Stupisce l’accuratezza degli attacchi, niente a che vedere con quanto avviene a Gaza, segno che i missili erano probabilmente guidati da agenti nascosti nelle vicinanze degli obiettivi.
In serata le difese antiaeree iraniane hanno ripreso a funzionare e così la guida suprema Alì Khamenei ha dato il via libera alla ritorsione, durata tutta la notte e condotta tramite droni e missili balistici (alcuni ipersonici). Tel Aviv è stata il bersaglio preferito, ma anche la Cisgiordania e il Nord di Israele sono stati interessati. Pare che anche la centrale nucleare di Dimona e le basi da cui sono partiti gli aerei siano state attaccate. Al momento in cui scrivo le ostilità sono cessate da poco.
· Considerazioni tecniche
I servizi segreti israeliani, grazie a decenni di esperienza sul campo, sono riusciti a infiltrarsi in diverse zone dell’immenso Iran e, tramite droni, missili guidati e probabilmente apparecchi per la guerra elettronica, a distruggere o disabilitare i sistemi di difesa antiaerea iraniana. I loro jet hanno così potuto operare indisturbati dai cieli dell’Iraq (ad oggi ancora sotto controllo USA). Le poche difese rimaste attive si sono concentrate a proteggere i siti sensibili della capitale e la centrale di Fordow che pare non abbia subito danni. Si tenga presente che la maggior parte delle installazioni militari iraniane si trova a molti metri di profondità ed è per questo difficilmente raggiungibile dai missili. Grazie a ciò, L’Iran è stato in grado di reggere l’urto e contrattaccare.
Non avendo un’aviazione paragonabile a quella di Israele, si è affidato a droni e missili balistici. I primi hanno impiegato diverse ore per raggiungere Israele e sono stati utilizzati come esche per le difese, mentre i secondi sono arrivati a destinazione in una quindicina di minuti (sette per gli ipersonici) saturando il sistema di difesa a 3 strati che protegge il territorio israeliano.
Tirando le somme, come la guerra russo ucraina ci insegna, difendersi da un aggressione dal cielo è assai più complicato e costoso che attaccare, mentre via terra è esattamente il contrario. Sono quindi fondamentali la sorveglianza dei confini e il monitoraggio dei siti sensibili per non ritrovarsi spiacevoli sorprese. Se nei primi 20 anni del millennio siamo stati ossessionati dalla privacy, nei prossimi 20 lo saremo dalla sicurezza. I droni low cost han cambiato gli scenari bellici.
· Considerazioni politiche
Ci sono 4 Stati nel mondo che adottano una politica estera spregiudicata: la Turchia, il Rwanda, gli Stati Uniti e Israele (lasciamo stare per il momento il conflitto russo ucraino). Mentre per i primi 3 esistono dei limiti, o per lo meno cercano ogni tanto di tirare un colpo al cerchio e uno alla botte, per il quarto no.
Israele ha un piano ben preciso da almeno 30 anni (in realtà da molto prima, lo vedremo prossimamente) e con l’aiuto degli Stati Uniti sta cercando di implementarlo. È quello delle famose 7 guerre per assumere il controllo del Medio Oriente rivelato dal generale USA Wesley Clark nel 2001 (qui). All’appello mancava solo l’Iran che, senza il supporto made in USA, non sarebbe stato attaccato.
Quindi, da ieri anche gli Stati Uniti sono in guerra con l’Iran. Con buona pace di Tulsi Gabbard (direttrice dell’Intelligence), di Steve Witkoff (il vero ministro degli esteri USA) e del giornalista Tucker Carlson che hanno cercato in tutti i modi di spiegare a Trump che con l’Iran bisognava giungere ad un accordo.
A Netanyahu, invece, va bene così, è un presidente adatto a tempi di guerra (come qualcun altro più a nord); in tempi di pace probabilmente la sua carriera politica finirebbe in un amen.
A Teheran per ora pare facciano finta di niente e attacchino solamente obiettivi israeliani, evitando di colpire le numerose basi USA presenti in Medio Oriente. Certo il colpo subito è stato pesante, anche perché era nell’aria nonostante gli imminenti negoziati con gli inviati di Trump.
Impedire all’Iran di fabbricare la bomba atomica sembra quindi un pretesto. Tra l’altro basterebbe che Teheran ne chiedesse una decina delle 6 mila in dotazione a Mosca per averla già domani in pronta consegna; peccato che anche la Russia sia contraria a un Iran atomico perché poi lo diventerebbero anche le monarchie del Golfo (Arabia, Qatar). Certo, qualche sistema di difesa avanzato e qualche caccia la Russia potrebbe fornirlo in tempi rapidi, ma il presidente Putin ragiona con schemi diversi; basti pensare che è l’unico Capo di Stato ad aver già parlato al telefono con le due controparti. L’Iran è sì un suo alleato, ma in Israele vivono circa 1 milione e mezzo di russi.
La Cina, la Turchia e l’Arabia Saudita si son fermate alle solite condanne formali, mentre il Pakistan, pur non essendo in ottimi rapporti con Teheran, ha dichiarato che l’Iran ha il diritto di difendersi in base all’articolo 51 delle Nazioni Unite. Sull’ Europa stendiamo il solito velo pietoso.
· Possibili scenari
Di sicuro non sarà una toccata e fuga come nel 2024. Entrambi i contendenti han dichiarato che ci saranno altri attacchi.
Altra certezza è che le leadership occidentali non capiscono che mettendo pressione a popoli con secoli di storia la reazione è quella opposta a quella desiderata. Si cementano attorno ai loro leader. Perciò Tel Aviv e Washington possono scordarsi un cambio di regime come avvenuto in Siria nel giro di poche ore. L’Impero Romano, che era l’Impero Romano, cercò per 700 anni di sottomettere la Persia e non ci riuscì; possibile che nessun leader studi un filino di storia?
Oltretutto, un’azione del genere è forse il miglior incentivo a dotarsi di un’arma atomica il prima possibile. In stile Nord Corea, che sarà anche un paese “brutto e cattivo”, però, per lo meno, non ha missili che gli piovono sulla testa.
Quindi, dal punto di vista militare, tutto è possibile a meno che USA e Russia non trovino un accordo su vasta scala. Magari la Cina rivedrà la sua teoria del “vinco senza far niente” perché a questo punto potrebbe non essere più sufficiente. Se Russia e Iran rimarranno impantanati per anni nelle rispettive guerre, chi sarà il prossimo obiettivo? La butto lì: Pechino?
Non aspettiamoci alcunché da Paesi Arabi e Turchia, a loro in fondo va bene così, se poi non si porrà freno all’escalation vedremo se avranno ragione a farsi gli affari propri. Ne dubito fortemente.
Occorre una conferenza internazionale in cui si discuta della sicurezza di tutti e non solo di alcuni.
Dal punto di vista economico la reazioni più ovvie potrebbero essere la discesa dei mercati azionari e la salita delle materie prime, soprattutto se Iran e Yemen decidessero di chiudere i due stretti attorno alla Penisola Arabica. Dico potrebbero essere perché, se intervengono le Banche Centrali, non c’è guerra o crisi che tenga, come nel 2008, nel 2020 e nel 2022. Per ora hanno ancora la forza di sostenere i mercati indipendentemente da tutto, c’è poco da fare.
In conclusione, la situazione è grave; l’Iran non è l’Afghanistan, né la Siria, né l’Iraq, né la Libia; è uno Stato con il controllo delle proprie risorse, senza divisioni “tribali”, con una popolazione tendenzialmente giovane di 90 milioni di persone e un apparato militare sviluppato. È vero però che al suo interno ha un grosso pericolo: a Teheran c’è un traffico che “Bari vecchia spostati”…
Al terzo tentativo di registrazione siamo riusciti a presentare un resoconto particolarmente denso di dati e considerazioni, tutto da ascoltare. Il dato cruciale è la chiusura di una tenaglia che ha indotto allo smarrimento e al trasformismo il principale personaggio politico dello scenario occidentale: Donald Trump. Le conseguenze saranno enormi e dirompenti. Trascineranno il mondo e gli Stati Uniti in una gestione caotica ed imprevedibile del processo multipolare. Mi spingo in una previsione un po’ azzardata, dettata dalla mia esperienza: di certo non salveranno Trump, divenuto, suo malgrado e oltre le sue virtù, un simbolo della resistenza a questa classe dirigente nichilista, da una fine beffarda, se non tragica, dettata dal suo progressivo isolamento dalle forze che lo hanno sostenuto e salvato. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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A volte vengo criticato per non essermi espresso a sufficienza sull’abominio che si sta verificando a Gaza. Desidero quindi ripubblicare sul mio blog questo testo pubblicato nel dicembre 2024 sul sito web di Elucid . Non ho cambiato idea su nulla di essenziale. Intuisco l’inizio di una piccola ma insufficiente evoluzione tra gli ebrei di Francia.
Immagine tratta da “C’era una volta in famiglia”, Terreur Graphique e Emmanuel Todd, Casterman
Il nichilismo potrebbe spiegare il comportamento di Israele a Gaza
Oggi vi proponiamo l’intervista a Emmanuel Todd, originariamente pubblicata sul sito italiano Krisis , tradotta e rielaborata dall’autore per Élucid.
Il 7 ottobre c’è stato un massacro; questo è indiscutibile. Ma la risposta israeliana a Gaza è una carneficina, accettata dalle élite occidentali. Come lo spiega?
Emmanuel Todd: Nel mio libro sviluppo il concetto di nichilismo, la necessità di distruggere cose, persone e realtà, che in Occidente deriva da una situazione di vuoto religioso, metafisico e carico di valori. È un problema sociale e storico che studio principalmente negli Stati Uniti e che menziono anche per l’Ucraina. Ma da quando ho pubblicato ” La sconfitta dell’Occidente” , la rilevanza del concetto di nichilismo mi è diventata sempre più evidente nella sua generalità. Ho iniziato ad applicarlo nelle mie riflessioni su alcuni atteggiamenti delle élite francesi, incluso il comportamento del tutto insolito del presidente Emmanuel Macron. Lo applico al comportamento della parte guerrafondaia delle élite tedesche, all’immigrazione senza limiti e ovviamente lo applico agli eventi in Israele. Dico sempre “gli eventi in Israele” perché per me Gaza è parte di Israele in quanto spazio di sovranità politica. Per questo non capisco affatto i commentatori che si rifiutano di ammettere che Hamas sia un’organizzazione terroristica. Hamas pratica il terrorismo, ma è nato e continua ad appartenere al dominio dello Stato israeliano. Hamas è un fenomeno israeliano.
In che senso?
Possiamo ovviamente, anzi dobbiamo, da un punto di vista antropologico o religioso, definire Hamas come arabo o musulmano. Ma Gaza è solo una componente dello spazio sovrano israeliano, una prigione a cielo aperto. E da questo punto di vista (quello della prigione), Hamas è israeliano. Ciò che intendo dire è che Hamas è ovviamente un gruppo terroristico, ma il suo terrorismo è solo un elemento tra gli altri della violenza israeliana complessiva, così come si sviluppa nel corso della storia.
Ma cosa provi quando vedi cosa sta succedendo a Gaza?
Per me, questo è un argomento piuttosto doloroso, di cui non mi piace parlare, perché sono per metà di origine ebraica, la metà dominante della mia famiglia. Questa famiglia non ha mai avuto, è vero, un legame particolare con lo Stato di Israele. Era una famiglia borghese, israelita come si diceva in Francia, e soprattutto di patrioti francesi. La nostra gloria familiare del XIX secolo fu Isaac Strauss, il musicista preferito di Napoleone III, l’uomo che raccolse la collezione di oggetti rituali ebraici precedentemente esposta al Museo di Cluny e ora al Musée d’Art et d’Histoire du Judaïsme du Marais. Per inquadrare più precisamente questa tipica famiglia israelita: Isaac Strauss è il mio antenato comune con Claude Lévi-Strauss. Lucie Hadamard, moglie di Alfred Dreyfus, era cugina della mia bisnonna. Questa famiglia, in modo abbastanza caratteristico, non si è mai interessata molto al sionismo. Nemmeno io mi sono mai interessato molto. Detto questo, gli antisionisti militanti mi hanno sempre preoccupato; ho sempre pensato che una frequenza troppo elevata di dichiarazioni antisioniste da parte di un individuo rivelasse probabilmente un background antisemita. Al di là di opinioni e argomentazioni, le statistiche rivelano l’ossessione che è una dimensione del razzismo.
In sostanza, non ero né sionista né antisionista, ma mi aggrappavo all’idea che fosse ragionevole mostrare un minimo di solidarietà nei confronti dello Stato ebraico. Il nazismo ci ha dimostrato che, in fondo, non si sceglie di essere ebrei o meno: la mia famiglia materna dovette rifugiarsi negli Stati Uniti durante la guerra. I cugini che non agirono con altrettanta cautela furono deportati. L’antisemitismo esiste e, come mi diceva mia nonna, esisterà sempre. Quindi, inizialmente, avevo un atteggiamento piuttosto sfumato. Ma il comportamento dello Stato di Israele è diventato moralmente troppo problematico. Non mi piace ancora parlarne, ma ora devo farlo.
Per quello ?
Perché lo Stato di Israele ha raggiunto un livello estremo nell’esercizio della violenza. E soprattutto una violenza che non sembra più avere altro obiettivo che se stessa. Per questo ho iniziato a riflettere sul comportamento dello Stato di Israele in termini di nichilismo.
Cioè?
Il nichilismo è una creazione del vuoto. Nel caso degli Stati Uniti, lo esamino principalmente a livello delle classi dirigenti, dove osservo un vuoto di valori, che si traduce in un interesse esclusivo per il denaro, il potere e la guerra. Nel caso dello Stato di Israele, sebbene non abbia lavorato sulle credenze religiose in Israele, ipotizzo che esista anche un problema di vuoto religioso, nonostante la presenza di gruppi ultraortodossi la cui reale natura socio-metafisica merita di essere esaminata. Gli evangelici americani pongono un problema diverso, ma parallelo. Per quanto riguarda gli Illuminati americani che sostengono Israele perché credono che l’espansione di Israele riporterà Cristo…
Una moltitudine di concezioni recenti, nonostante le loro pretese metafisiche, deve essere interpretata come componente di uno stato zero della religione, intendendo qui il termine religione nel suo senso monoteistico classico: cattolico, protestante o ebraico. Nelle mie analisi del presente storico, parlo ora non solo di cattolicesimo zero, di protestantesimo zero, ma anche di ebraismo zero. Presto, senza dubbio, di islam zero. Mi è quasi più facile formalizzare il deficit di veri valori religiosi in Israele perché ho tra le mani il libro del mio antenato Simon Lévy, rabbino capo di Bordeaux, “Mosè, Gesù e Maometto e le tre grandi religioni semitiche” (1887), che mi offre accesso diretto, sia a livello familiare che a stampa, a ciò che la religione ebraica rappresenta in termini di valori. D’ora in poi, l’Occidente ha raggiunto uno stato zero della religione che ci permette di spiegare il nichilismo americano o europeo. La stessa logica storica si applica a Israele. Ciò che mi suggerisce, ipoteticamente, il comportamento dello Stato di Israele è una nazione che, privata dei suoi valori socio-religiosi (zero ebraismo), fallisce nel suo progetto esistenziale e trova nell’esercizio della violenza contro le popolazioni arabe o iraniane che la circondano la sua ragione di esistere.
La guerra fine a se stessa?
Applicherei allo Stato di Israele lo stesso tipo di interpretazione che applico nel mio libro all’Ucraina. Ho spiegato che l’Ucraina era uno Stato in decadenza prima della guerra e che tutti erano sorpresi dall’energia militare degli ucraini, dalla loro capacità di difendersi. In realtà, l’Ucraina ha trovato la sua ragione d’essere nella guerra contro i russi. E in effetti, tutto nell’atteggiamento degli ucraini è determinato dalla Russia, ma in modo negativo. L’eliminazione della lingua russa, la lotta contro i russi, la sottomissione delle popolazioni russe del Donbass. Ma attenzione: sono un ricercatore, quindi queste sono ipotesi che sto formulando per Israele. Ho l’impressione che la nazione israeliana abbia perso il suo significato per sé stessa e che la pratica della violenza, che un tempo era un mezzo militare necessario per garantire la sicurezza dello Stato, sia diventata fine a se stessa.
Vedo possibili obiezioni alla mia ipotesi, come l’elevata fecondità della popolazione israeliana, e non solo tra gli ultra-ortodossi, sebbene il loro caso sia estremo. L’era del nichilismo è accompagnata in Occidente da tassi di fecondità molto bassi, da una difficoltà per le popolazioni a riprodurre la vita. Ma la costellazione logica “religione-zero/nichilismo/violenza/guerra/fertilità” è un campo di indagine socio-storica molto vasto che meriterebbe un approccio globale. Esistono religioni di guerra, un’attività umana purtroppo piuttosto comune dal punto di vista dello storico. Mi sento perfettamente in grado di immaginare nichilismi con bassa e alta fecondità in futuro. La bassa fecondità è anche caratteristica di tutta l’Asia orientale, e in particolare della Cina, una regione del mondo che non mi sembra, a prima vista, afflitta dal nichilismo, ma piuttosto felice di decollare economicamente.
Quindi secondo lei in Israele si è scatenata una spirale di violenza senza alcun obiettivo concreto se non quello di perpetuarsi?
Esatto. Ciò che mi sorprende è che le élite occidentali affermino sempre: “Israele ha il diritto di garantire la propria sicurezza”. Parlano come se il comportamento di Israele fosse essenzialmente razionale, con questo obiettivo di sicurezza. Ma io non la vedo affatto così. Quello che vedo è la necessità di fare qualcosa. E quel qualcosa è la guerra.
E che guerra…
Quando guardo i video pubblicati sui social media dai soldati dell’IDF a Gaza, penso che evochino il nichilismo piuttosto che una guerra con uno scopo razionale. Vedete, ho detto che non mi piace pensare a Israele. Ma se inizio a pensarci, cerco di farlo con distacco e senza pensare solo in termini morali. Per quanto riguarda la situazione attuale, potrei essere indignato; sono un essere umano come tutti gli altri. Potrei semplicemente dire che quello che gli israeliani stanno facendo a Gaza è mostruoso. È mostruoso. Ma ciò che mi interessa qui è il futuro. Quindi mi chiedo se coloro che vedono questo come un orrore si rendano conto che questo è solo l’inizio dell’orrore e che tutto peggiorerà ulteriormente. Si è messa in moto una dinamica di violenza che non vediamo perché dovrebbe arrestarsi. La necessità per lo Stato di Israele (7 milioni di abitanti, compresa la popolazione ebraica) di dichiarare guerra all’Iran (90 milioni di abitanti) è qualcosa di sconcertante. Se adottiamo l’ipotesi del nichilismo, troviamo un elemento di risposta.
Cioè?
Facciamo un’ipotesi intermedia “razionale”, seppur violenta. Per definire un obiettivo razionale, potremmo dire che uno degli obiettivi di Israele è quello di creare una conflagrazione globale per svuotare improvvisamente, brutalmente e completamente Gaza e la Cisgiordania nel caos generale.
Ma non sarebbe finita qui…
Esatto. La guerra continuerebbe, in quale direzione non lo so. Perché dietro questo comportamento, credo di percepire il fatto che lo Stato di Israele abbia perso la sua identità originaria. Sento un vuoto. Da tempo avverto negli assassini individuali di quadri e leader delle forze avversarie un bisogno di uccidere che non ha alcun reale interesse strategico. Forse, nelle profondità inconsce della psiche israeliana, essere israeliani oggi non significa più essere ebrei, significa combattere gli arabi. Sono in parte ebreo, forse, non ne sono affatto sicuro, ma non sono nemmeno sicuro che la maggioranza degli israeliani sia ancora ebraica.
In che senso non sei sicuro di essere ebreo?
L’asse centrale della mia famiglia, come ho detto, appartiene all’antica comunità ebraica francese, israelita, ma è una famiglia con matrimoni misti fin dal periodo tra le due guerre. Ho un nonno bretone e una nonna inglese. Nato nel 1951, sono stato battezzato e le chiese mi sono a dir poco più familiari delle sinagoghe. L’universalismo cattolico, nella sua versione repubblicana secolarizzata (zombie), mi definisce senza dubbio meglio dell’appartenenza al popolo eletto. Tuttavia, i miei due valori fondamentali, i figli e i libri, sono due ancore più tipicamente ebraiche che cattoliche. E per quanto riguarda il senso di emarginazione e l’ansia, nessun problema…
Se dovessi definirmi in una categoria, farei riferimento a “Storia del Ghetto di Venezia” di Riccardo Calimani, un libro in cui viene descritto il processo a un marrano. Nella concezione cristiana comune, il marrano è un ebreo convertito con la forza o che si è convertito per salvarsi, ma che, in fondo, è rimasto ebreo. In realtà, non è così. In questo processo vediamo chiaramente che il marrano è una persona che, in fondo, non sa più cosa sia. Quest’uomo non sa più se è ebreo o se è cristiano. Questo sono completamente io. Potrei dire che ci sono momenti in cui penso di essere ebreo, ma devo ammettere che mi sento molto bene quando entro in una chiesa, dove mi faccio sempre il segno della croce attraversando la navata centrale. Quando è iniziata l’operazione israeliana contro Gaza, stavo leggendo le memorie di mia nonna, la madre di mia madre.
Ebreo?
Assolutamente. Durante la guerra, si rifugiò negli Stati Uniti con i genitori e i due figli. Sebbene suo marito, un intellettuale comunista bretone, fosse stato ucciso nella sacca di Dunkerque, la vita della famiglia negli Stati Uniti, in particolare quella di mia madre, era felice. Vivevano a Hollywood, e mia nonna lavorava lì come doppiatrice. Le sue memorie parlano di un Buster Keaton ormai anziano e di un Clark Gable non proprio bello. Mia madre era un’adolescente a Hollywood. Si può vivere peggio. In effetti, la sua vita lì, di cui mi parlava con nostalgia, sembra essere stata fantastica. Fu una scelta ovvia ma difficile per loro tornare in Francia non appena il loro paese fu liberato. Trovarono la loro casa devastata, occupata da bravi francesi. La recuperarono. Tutti gli oggetti di valore erano stati rubati. Soprattutto, dovettero contare il numero dei membri della famiglia che erano stati deportati e morti nei campi. Erano una famiglia ebrea francese borghese che aveva assistito da vicino all’Olocausto e per la quale il nome Auschwitz assunse il suo vero significato. Questo è ciò che mi è capitato di leggere quando sono iniziati i bombardamenti di Gaza. E mi sono chiesto: cosa c’entra lo Stato di Israele con la storia della mia famiglia?
Sì, qual era la relazione?
Nel suo libro di memorie, “Il mondo di ieri” , lo scrittore austriaco Stefan Zweig parla della spiacevole sorpresa dei borghesi ebrei viennesi, che improvvisamente si ritrovarono assimilati agli ebrei degli shtetl dell’Europa orientale. Scoprirono che, nella mente dei nazisti, erano tutti la stessa cosa. Molto tempo dopo la guerra, nella mia famiglia, facevamo battute ironiche e autocritiche sul periodo in cui gli ebrei polacchi appena arrivati venivano stupidamente definiti “quelli che ci fanno del male”. Lezione di storia imparata. Anche se a volte mi chiedo se, purtroppo, qualcosa di quella cecità ebraica borghese prebellica non sia rimasta in me, figlio di Saint-Germain-en-Laye, quando penso ai risentimenti etnici o razziali di Alain Finkielkraut o Éric Zemmour.
Scherzi a parte. Torniamo alla conclusione. In definitiva, non sta a noi decidere se siamo ebrei o no. Sono coloro che perseguitano che alla fine decidono. Questa è stata probabilmente la base del mio attaccamento a Israele in passato. Per un certo periodo ho mantenuto questo attaccamento ragionevole, ma, ripeto in tutta onestà, non è mai stato entusiasta. Non sono mai stato in Israele ed è probabile che non ci andrò mai. La mia seconda patria spirituale è l’Italia.
Penso che oggi ci stiamo avvicinando a un momento di separazione, in cui molti ebrei della diaspora perderanno il loro senso di legame con Israele. Questo fenomeno è iniziato negli Stati Uniti, forse perché la comunità ebraica americana è numerosa e autonoma, nel Paese più potente del mondo. In Francia, invece, nulla di simile è percepibile. Un atteggiamento come il mio non è nemmeno minoritario lì; è insignificante. In Francia, per quanto posso giudicare senza un’indagine seria, sia tra gli ashkenaziti, che provengono dall’Europa orientale, sia tra i sefarditi, che provengono dal Mediterraneo, la solidarietà con Israele è intatta. Dal mio punto di vista, sono un po’ arretrati moralmente.
La stessa cosa sta succedendo in Italia
Credo che il problema sia che gli ebrei, o persone come me, che non sanno cosa siano, marrani (nel senso storicamente corretto del termine), non si rendono conto che il loro dilemma sarà ancora più doloroso in futuro. Perché, come ho detto prima, la situazione in Medio Oriente peggiorerà.
Al di là delle dinamiche intrinseche della violenza, un elemento di analisi demografica ci permette di comprendere perché la radicalizzazione di estrema destra di Israele sia un processo continuo e storicamente necessario. Le persone che emigrano in Israele (non tutte ebree, tra l’altro) sono attratte dalla violenza che è ormai un elemento costitutivo del sistema nazionale. D’altra parte, le persone che emigrano, che lasciano Israele per il Nord America, l’Europa, la Russia o altrove, aspirano per sé e per i propri figli a una vita pacifica, normale e saggia. Ciò significa che la percentuale di persone violente è in aumento, tendenzialmente inevitabile, in Israele. Un fenomeno simile si è verificato con l’emigrazione di parte della classe media dalla Jugoslavia prima della guerra civile interetnica e dall’Ucraina, ovviamente, prima dell’ondata russofoba. Quindi siamo solo all’inizio.
Gli ebrei francesi e italiani si troveranno di fronte a un divario sempre più evidente tra i valori ebraici tradizionali e il comportamento dello Stato di Israele. Arriverà il momento della scelta. Soprattutto perché la popolazione francese in generale, e non solo quella di origine musulmana, giudicherà sempre più Israele per quello che è, a prescindere dal ricordo dell’Olocausto. Certamente, le élite occidentali, gli attivisti di estrema destra europei e i repubblicani evangelici americani nutrono una simpatia attiva e a volte frenetica per Israele. Se riflettiamo per tre minuti, non è illogico che, nell’era della religione zero e del culto della disuguaglianza, classi e gruppi che un tempo erano antisemiti siano oggi presi da una passione positiva per lo Stato di Israele, che è diventato di estrema destra.
Ma credo che la gente comune giudichi e giudicherà Israele sempre più ragionevolmente, e quindi severamente. Certo, l’islamofobia europea, effetto dell’immigrazione, sta attualmente creando una sorta di cortina fumogena. In Francia, ad esempio, esistono sentimenti anti-musulmani o anti-arabi che potrebbero suggerire ad alcuni, seppur eccitati, un legame tra la lotta di Israele e i “valori della Repubblica”, come si dice oggi. Credo, tuttavia, che la maggioranza dei francesi sarà in grado di distinguere tra le situazioni e giudicare ciò che sta accadendo in Medio Oriente indipendentemente dai nostri problemi sociali. Dopotutto, siamo nella terra dei diritti umani. In Francia abbiamo ben altro che islamofobia. Presto, non sarà più sufficiente a proteggere Israele (relativamente) da un giudizio meramente umano.
Anche in Italia è così…
C’è una vera e propria divisione tra i media e i politici da un lato, e la gente comune dall’altro, su molti argomenti, in particolare su Israele, in Francia, in Italia e altrove. Credo che questo sia un tema su cui lavorerò. Quando intervengo nel dibattito pubblico, è perché ho l’impressione, come ricercatore, di vedere qualcosa che altri non vedono. Non mi considero più morale degli altri. Ad esempio, nel mio libro sulla guerra in Ucraina, ho la sensazione di aver capito cose che altri non hanno visto. Ma su Israele non ho lavorato. Non scriverò certamente un libro sull’argomento; sarebbe troppo doloroso. Ma probabilmente lavorerò sulla questione per me stesso, per non morire idiota. Vorrei trovare nuove spiegazioni. Ho due ipotesi di lavoro su Israele, che ho già presentato. La prima è il nichilismo, dovuto alla perdita di significato della società israeliana e della sua storia. La seconda, che ne è una conseguenza, è l’ipotesi che la situazione peggiorerà ulteriormente.
Come pensi di analizzare la situazione israeliana?
Dovremo affrontare la questione di ciò che sta accadendo in Israele all’interno di un quadro sociologico generale. Ritornerò su quanto ho delineato all’inizio dell’intervista. Questo è il problema fondamentale. Merita di essere ripetuto. Uno dei concetti che sviluppo sistematicamente nel mio libro, per comprendere la crisi degli Stati Uniti e la passività degli europei, è il concetto di “religione zero”. Distinguo tre stadi della religione. Il primo è uno stadio attivo, in cui le persone sono credenti, vanno a messa o alle funzioni domenicali, o osservano lo Shabbat. Il secondo è uno “stadio zombie”, durante il quale le persone non sono più credenti, ma i valori religiosi sopravvivono o si reincarnano in una forma secolare. In questa fase fioriscono ideologie politiche sostitutive: l’ideale della Nazione, l’ideale rivoluzionario francese, il liberalismo progressista inglese, il socialismo, il comunismo, il nazismo… Poi arriva lo stadio zero della religione, in cui non esiste né una morale individuale di origine religiosa né la strutturazione della società attraverso la morale religiosa. Applico questo concetto all’intero mondo occidentale. E ovviamente vale anche per lo Stato di Israele.
E come pensi di procedere?
Lo Stato di Israele è nato da una questione religiosa. L’ebraismo era inizialmente semplicemente una religione attiva, vissuta dai credenti. Poi arrivò il declino delle credenze, come nel mondo cristiano, e la comparsa di un ebraismo zombie, in cui si poteva rimanere ebrei, con la sensazione di esserlo, individualmente e collettivamente, senza credere in Dio. Ho trovato all’inizio dei quaderni scritti dal mio trisavolo Paul Hesse durante la Prima Guerra Mondiale la frase introduttiva “…Io, ebreo di razza e libero pensatore per fede…”. I sionisti erano spesso laici; non si definivano credenti. Spero di non commettere un errore di fatto. Non sono un esperto in materia. Sto conducendo una ricerca dal vivo. Quindi, comincio a chiedermi se il sionismo non rientri semplicemente nella categoria della fase zombie della religione.
Ma per quanto riguarda l’attuale Stato di Israele, mi chiedo se non abbia in gran parte raggiunto lo stadio zero della religione. Questo stadio zero potrebbe spiegare il nichilismo. Rimane, come ho detto, un problema da risolvere, che riguarda la fascia degli ebrei molto religiosi, che a mio avviso rappresentano qualcosa che non è più l’ebraismo tradizionale, l’ebraismo rabbinico che conoscevamo. Non sono in grado di definirne la natura, perché non ci ho ancora lavorato, anche se ritengo che non si tratti più di ebraismo in senso classico. L’argomento è tecnicamente affascinante per l’eterogeneità iniziale della popolazione israeliana: originaria dell’Europa orientale, del mondo arabo, poi della Russia, con correnti minoritarie più antiche provenienti dall’Iran o dal Kerala, e più recenti dagli Stati Uniti o dalla Francia. La domanda “Chi è diventato cosa?” apre un’affascinante matrice di sviluppi religiosi interni in Israele.
Comunque, sapete che i padri fondatori dello Stato di Israele dissero: “Dio non esiste, ma ci ha dato uno Stato”.
Sì, sì. Chiamiamola una frase zombie. E questo confermerebbe l’ipotesi del sionismo come “fase zombie” della religione. Ma ciò che è vertiginoso è l’ipotesi della religione zero, perché significherebbe che Israele non è più uno stato ebraico. Per non parlare del fatto che la scomparsa dei veri ebrei non implica in alcun modo la scomparsa dell’antisemitismo in Occidente e altrove.
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Lo stato canaglia israeliano ha aggiunto un altro dei suoi vicini alla lunga lista di nazioni regionali che sta attualmente bombardando. Dal Libano, alla Palestina, alla Siria, all’Iraq, allo Yemen, alle acque internazionali e ora all’Iran, Israele ora le bombarda tutte impunemente, pur continuando a lamentarsi della propria “sicurezza”.
Secondo quanto dichiarato dagli alti funzionari, gli attacchi sarebbero solo la prima fase di una lunga ondata di aggressioni che durerà giorni o settimane:
NETANYAHU: SIAMO IN UN MOMENTO DECISIVO NELLA STORIA DI ISRAELE NETANYAHU: ATTACCARE IL PROGRAMMA NUCLEARE DELL’IRAN E I MISSILI BALISTICI *NETANYAHU: GLI ATTACCHI DURERANNO FINCHÉ LA MINACCIA NON SARÀ RIMOSSA
Una dichiarazione del portavoce dell’IDF, BG Effie Defrin, sull’attacco preventivo israeliano contro obiettivi nucleari iraniani
Fonti ebraiche: Gli attacchi dell’aeronautica militare contro l’Iran sono divisi in tre missioni principali: Il progetto nucleare La distruzione delle piattaforme di lancio dei missili L’eliminazione di alti funzionari del regime
Notizie israeliane:
Il canale israeliano 14, citando un funzionario israeliano, ha affermato: “Abbiamo un piano offensivo lungo e ampio per i giorni a venire: ci attendono giorni complessi. Gli iraniani risponderanno e, se l’opinione pubblica sarà disciplinata, ci saranno poche vittime. Siamo in guerra ” .
Secondo quanto riferito, la Casa Bianca aveva dichiarato in precedenza che gli Stati Uniti non sarebbero stati coinvolti in alcuna azione unilaterale israeliana e, non appena sono iniziati gli attacchi, Rubio si è assicurato di prendere le distanze dagli Stati Uniti con una dichiarazione ufficiale:
Netanyahu ha nuovamente invocato la falsa pista delle armi nucleari iraniane, già usata così tante volte in passato, da trasformarla in una litania parodistica, riportata di seguito:
La parte più sorprendente degli attacchi è stata l’affermazione di fonti israeliane secondo cui gli attacchi incorporavano un deliberato inganno politico e “diplomatico”, il che sembra implicare che le varie dichiarazioni di Trump e soci sulla de-escalation facessero parte della trappola tesa per indurre l’Iran in un falso senso di sicurezza prima di assassinare spietatamente la leadership iraniana in un vile attacco a sorpresa:
È stata confermata l’uccisione di diversi alti funzionari iraniani, tra cui il generale Salami dell’IRGC, il capo di stato maggiore Mohammad Bagheri e il famoso scienziato nucleare Fereydoon Abbasi:
Gli abbonati paganti noteranno che l’ultimo rapporto aveva appena trattato la profetica intervista di Abbasi, in cui descriveva come l’eliminazione di importanti scienziati iraniani o di siti nucleari non avrebbe avuto alcun effetto sui progressi nucleari dell’Iran, qualora quest’ultimo decidesse di accelerare i tempi verso “la bomba”.
Allo stesso modo, ho scelto di scrivere l’ultimo rapporto su Israele perché sentivo che le cose stavano finalmente arrivando al dunque: era chiaro che i fallimenti di Netanyahu a Gaza lo avevano costretto ad agire, mentre vedeva le sue possibilità svanire. Non mi sorprende quindi che i funzionari israeliani stiano ora caratterizzando l’inizio di questa guerra come un momento critico nella storia di Israele. Netanyahu l’ha definita il “momento decisivo nella storia israeliana”, mentre il Ministro della Difesa Israel Katz avrebbe annunciato :
Il ministro della Difesa Israel Katz allo Stato maggiore delle IDF prima dell’attacco all’Iran: Questo è un momento decisivo nella storia dello Stato di Israele e del popolo ebraico.
Israele si trova a un bivio, come ho già descritto in precedenza: il Paese è in una spirale discendente e ha una sola possibilità rimasta di appropriarsi della storia per garantire la propria sopravvivenza. Perché? Le ragioni sono quasi troppo lunghe per essere elencate in questo breve articolo, ma includono la demografia, così come il declino del sionismo e l’ascesa della “sorveglianza” in Occidente, il che significa che nel giro di una o due generazioni il sostegno a Israele potrebbe diminuire al punto da essere travolto dai nemici regionali.
L’altra ragione principale: le tecnologie emergenti hanno creato una parità tra Israele e i suoi nemici, dove gruppi come Hamas e Hezbollah possono utilizzare armi economiche ma tecnologicamente altamente efficaci per infliggere danni precisi e invalidanti alle infrastrutture più critiche e sensibili di Israele. Lo stesso vale per l’Iran: il Paese ha raggiunto la maturità e ha padroneggiato la missilistica e la nuova guerra dei droni al punto che i numeri semplicemente non gioveranno a Israele in nessuna guerra futura.
Un tempo Israele aveva il sostegno dell’alleanza delle “superpotenze” occidentali più dominante al mondo; ora le sorti della storia si sono semplicemente ribaltate a sfavore di Israele.
Ora, ci sono voci secondo cui l’Iran potrebbe “dichiarare guerra” a Israele. Rimango scettico per il seguente motivo: l’Iran non ha una vera e propria capacità di “sottomettere” completamente Israele a uno stato di debellatio. Israele ha le armi nucleari e, presumibilmente, l’Iran non le ha ancora. Nessuna quantità di missili convenzionali potrebbe costringere Israele ad arrendersi, e pertanto una dichiarazione di guerra non ha alcun significato reale. Inoltre, i due Paesi non condividono un confine, quindi non è possibile che le truppe iraniane possano in qualche modo invadere Israele per conquistarne la capitale.
Qualsiasi attacco di vasta portata che possa ferire gravemente Israele potrebbe provocare una risposta nucleare israeliana, dimostrando ulteriormente che l’Iran non ha il vantaggio di un’escalation o la carta vincente. Sarebbe come se l’Ucraina “dichiarasse guerra” alla Russia: che significato avrebbe? L’Ucraina non ha il predominio di un’escalation tale da “sottomettere” la Russia in alcun modo, e l’unico obiettivo di una vera “guerra” è proprio questo: la vittoria totale e la sottomissione dell’avversario. Pertanto, non vedo alcun modo logico per dichiarare una guerra, a meno che l’Iran non abbia finalmente preparato segretamente quella bomba e non sia pronto a usarla. L’unica altra possibilità è per motivi di pubbliche relazioni, per soddisfare le richieste della popolazione infuriata, prima di dichiarare vittoria dopo aver raggiunto alcuni obiettivi arbitrari tramite una serie di attacchi, e dire basta.
Per la cronaca, ecco il discorso riportato dalla Guida Suprema Khamenei:
All’alba di oggi, il regime sionista ha allungato la sua mano vile e insanguinata per commettere un crimine nel nostro amato Paese, smascherando ulteriormente la sua natura malvagia e prendendo di mira le zone residenziali. Il regime deve ora attendere una severa punizione. La mano potente delle Forze Armate della Repubblica Islamica non li lascerà impuniti, se Dio vuole. Negli attacchi nemici, diversi comandanti e scienziati sono stati martirizzati. I loro successori e colleghi riprenderanno immediatamente i loro doveri, se Dio vuole. Con questo crimine, il regime sionista si è preparato un destino amaro e doloroso, e certamente lo subirà.
Poiché molti se lo sono già chiesto, un’ultima nota: la prima ondata di attacchi israeliani ha ovviamente avuto un successo osservabile e verificabile, in particolare con le decapitazioni di alti dirigenti già confermate dalle agenzie ufficiali iraniane. Gli attacchi alle infrastrutture di produzione nucleare richiederanno più tempo per essere convalidati. Questo solleva interrogativi sulla preparazione dell’Iran: come hanno potuto i vertici dell’Iran essere così impreparati sapendo che Israele era pronto a mettere a segno attacchi su larga scala da un giorno all’altro?
Questa è certamente una critica valida. Ma quando si tratta delle decantate difese aeree dell’Iran, che senza dubbio saranno oggetto di critiche, tutto ciò che posso dire è che le recenti guerre dell’era tecnologica moderna hanno dimostrato che nessun paese al mondo è in grado di difendersi completamente da armi moderne come i missili balistici. Quanti missili iraniani o Houthi ha abbattuto Israele nei precedenti attacchi? Quasi nessuno, se non erro. Quante volte i Patriots americani non sono riusciti ad abbattere alcunché, nemmeno sopra le basi statunitensi dove gli attacchi iraniani hanno causato “danni cerebrali” a centinaia di soldati statunitensi, e quante volte droni e missili ucraini aggirano le difese russe? Nessuno ha una difesa inattaccabile, anche se a giudicare dai recenti attacchi su Mosca, il paese al mondo che si è più avvicinato a tale distinzione è la Russia.
E per la cronaca, stasera vediamo segnalazioni di stadi di accelerazione degli ALBM israeliani “diffusi in varie province irachene”, il che sembra ancora una volta dimostrare che Israele ha lanciato i suoi ordigni ben al di fuori dello spazio aereo iraniano, probabilmente i missili Air LORA come negli attacchi precedenti:
Sebbene circolassero varie “voci” di jet che volavano sopra Teheran, sembra che in ogni caso si trattasse di jet iraniani decollati al momento degli attacchi, non solo per evitare di essere colpiti sugli aeroporti, ma probabilmente anche per missioni di difesa aerea.
Infine, molti si aspettavano che l’Iran avesse già preparato una risposta immediata: il lancio immediato di centinaia di missili alla prima salva di Israele. La realtà è che l’Iran non ha mai agito in questo modo: attende e valuta la situazione prima di organizzare attentamente un’operazione su larga scala come la tanto attesa “True Promise 3.0”. Perché? Una spiegazione spesso citata e razionalmente valida è la seguente:
Non è necessariamente un bene o un male: forse il metodo iraniano dimostrerà la sua superiorità nella sua longevità. Dovremo aspettare e vedere se l’Iran organizzerà una risposta e quanto ben calcolata o meno. Sappiamo che l’Iran è avverso al rischio e non voleva un’escalation, ma a questo punto Israele lo ha spinto a dover agire, altrimenti perderà molta credibilità come deterrente. L’unica domanda è se l’Iran effettuerà un altro attacco “di facciata” per dimostrare la sua ira, che causerà danni limitati e cercherà di segnalare una de-escalation, o se l’Iran colpirà davvero la giugulare?
La logica suggerirebbe che se avessero scelto quest’ultima opzione, avrebbero già preparato una salva istantanea per colpire Israele nel suo punto di minima preparazione. Aspettare giorni per rispondere telegrafa le proprie azioni e dà al nemico il tempo di prepararsi, il che logicamente implica un attacco “di facciata”. Ma nulla è certo in questo gioco di guerra, quindi dovremo aspettare e vedere.
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Secondo quanto riferito, Israele continua ad avvicinarsi ad un attacco unilaterale all’Iran, nonostante tutti gli sforzi apparentemente compiuti dagli Stati Uniti per frenare lo scontro che potrebbe andare fuori controllo.
Secondo Channel 12, i preparativi per un attacco israeliano contro le strutture nucleari iraniane sarebbero quasi ultimati, con le fasi finali, tra cui il trasferimento di munizioni e la pianificazione operativa, attualmente in corso.
Entrambe le parti si tengono strette le carte, segnalando informazioni a volte contraddittorie. Per esempio, l’Iran sostiene da tempo che la sua fatwa contro le armi nucleari impedisce qualsiasi possibilità di costruirle, ma nuovi rapporti continuano a suggerire il contrario. Ad esempio, l’ex capo dell’Organizzazione iraniana per l’energia atomica, che è stato collegato al programma nucleare iraniano, afferma in una recente intervista:
“Abbiamo raggiunto la capacità di costruire armi nucleari 15-20 anni fa”.
Fereydoon Abbasi, ex capo dell’Organizzazione iraniana per l’energia atomica:
– Non abbiamo ancora ricevuto l’ordine di produrre armi nucleari. Se mi dicono di costruirle, lo farò.
– Se Israele o gli Stati Uniti bombardano i nostri siti di produzione nucleare, questo non influirà sul nostro calendario per ottenere una bomba.
– Al giorno d’oggi è possibile creare armi nucleari tattiche che non rientrano nella categoria delle ADM, possiamo usarle per distruggere una base militare israeliana, ad esempio.
PS: Il punto precedente implica che le armi nucleari tattiche potrebbero non essere incluse nel divieto di armi di distruzione di massa imposto dalla Guida Suprema Ayatollah Khamenei.
Ascoltate molto attentamente quello che dice: non solo che l’Iran può costruire rapidamente delle bombe atomiche se gli viene ordinato di farlo, ma che qualsiasi attacco da parte dell’Occidente alle sue strutture non avrebbe alcun effetto perché l’Iran le ha disperse, oltre a nascondere i segmenti critici in profondità nel sottosuolo.
Peggio ancora, le capacità nucleari dell’Iran non potrebbero essere distrutte con un singolo attacco chirurgico. “Le cose più sensibili sono mezzo miglio sottoterra – ci sono stato molte volte”, dice. “Per arrivarci si percorre un tunnel a spirale giù, giù, giù”.
Charles Lister ha confermato in un tweet di alcune settimane fa che gli Stati Uniti non hanno più nemmeno la capacità di eliminare i siti iraniani:
Quando entrambe le parti sono d’accordo sulla stessa nozione, non si può certo parlare di propaganda o di depistaggio; ciò indica chiaramente che le dichiarazioni di Fereydoon Abbasi contenute nel video precedente sono accurate.
Un analista afferma che:
Grossi ha detto: “Ci sono stato più volte. Per raggiungerlo, bisogna andare in profondità, poi ancora più in profondità, e ancora più in profondità. Il programma nucleare iraniano non può essere distrutto da un attacco”.
Ha ragione. Il più potente bunker-buster del mondo, il GBU-57, può penetrare solo 66 metri, mentre anche la più recente bomba nucleare può colpire solo fino a 500 metri sottoterra.
L’Iran ha collocato le sue centrifughe IR-9 su sistemi di ammortizzatori, in grado di resistere a terremoti di scala 6.0 Richter. Questi siti si trovano in profondità nelle montagne.
Israele non possiede le GBU-57; solo gli Stati Uniti le hanno, e solo i bombardieri B-2 possono trasportarle – 2 bombe per jet. Per distruggere un solo sito iraniano a 800 metri di profondità, gli Stati Uniti dovrebbero sganciare almeno 12 bombe esattamente in un punto, il che richiede 6 bombardieri per sito.
Si ritiene che l’Iran abbia almeno 5 siti nucleari di questo tipo in profondità. Per distruggerli tutti, gli Stati Uniti dovrebbero schierare 30 bombardieri B-2, ma ne hanno solo 18 in totale. Ciò significa che almeno 2 siti iraniani sopravviveranno.
Inoltre, l’Iran non ha costruito pozzi dritti. Dopo ogni 50 metri, i tunnel si attorcigliano per centinaia di metri di lato prima di scendere di nuovo, rendendo quasi impossibile un attacco preciso. Anche se la prima bomba colpisce, le altre 11 potrebbero colpire un terreno vuoto.
In breve, l’infrastruttura nucleare sotterranea dell’Iran è ormai troppo profonda, complessa e protetta per essere eliminata militarmente.
I media hasbara israeliani stanno ora preparando il terreno per attacchi “preventivi”, sostenendo che l’Iran ha condotto quelli che sono essenzialmente “test nucleari non dichiarati”, come riporta il Jerusalem Post di oggi:
Il fatto che i test “rivelati” siano stati in realtà condotti 20 anni fa è la chiave della propaganda tempestiva.
Ora si parla di nuovo di Netanyahu che spinge per un attacco immediato all’Iran se i colloqui iraniani con Trump dovessero fallire. Forse ricorderete che Netanyahu ha lanciato una nuova operazione di terra di “pulizia finale” a Gaza denominata “Operazione Carri di Gedeone” che dovrebbe terminare entro ottobre, presumibilmente in occasione del nuovo anniversario sacro di Israele. Ma nonostante sia iniziata settimane fa, Israele non sembra essere più vicino al suo sacro graal di eliminare Hamas, e gli aggiornamenti da essa – almeno quelli positivi – sono stati recentemente nascosti sotto il tappeto.
Ciò contestualizza le nuove notizie di attacchi pianificati contro l’Iran: Netanyahu ama tenere in tasca una “bomba” di escalation per salvare la faccia da campagne militari fallimentari. Una volta che sarà chiaro alla gente che l’IDF non è riuscito a sradicare Hamas, un Netanyahu disperato probabilmente progetterà di scatenare una nuova guerra contro l’Iran, alla quale gli Stati Uniti sarebbero costretti a partecipare, che spazzerebbe immediatamente via tutti gli umilianti fallimenti a Gaza – per non parlare di salvare ancora una volta il suo regime criminale e fallimentare all’undicesima ora attraverso la cortina fumogena dell’isteria bellica.
In effetti, gli ultimi aggiornamenti di questo fine settimana hanno visto gli elicotteri dell’IDF trasportare altre vittime israeliane dalle imboscate delle brigate Al-Qassam:
L’IDF e i media israeliani hanno confermato che 4 soldati israeliani sono stati uccisi nell’incidente di ieri, in cui un edificio dotato di diversi ordigni esplosivi improvvisati è stato fatto esplodere a distanza, facendolo crollare sopra di loro. Altri 2 soldati sono stati evacuati in condizioni critiche. Nessuna fazione palestinese ha ancora rivendicato la responsabilità, tuttavia sono quasi sempre le Brigate Al-Qassam (braccio armato di Hamas) o le Brigate Saraya al-Quds (braccio armato della Jihad islamica palestinese) a condurre operazioni come queste.
Nel frattempo, Trump sostiene di essere impegnato a fermare l’agitazione israeliana contro l’Iran. In una nuova dichiarazione alla stampa, Trump ha persino affermato che l’Iran è coinvolto nei colloqui tra Hamas e Israele:
L’Iran non se ne sta con le mani in mano in attesa dei “colpi di decapitazione” di Israele –un rapporto bomba di ieri ha affermato che fonti dell’intelligence iraniana hanno rubato un vasto “tesoro di documenti israeliani sensibili relativi ai piani e alle strutture nucleari di [Israele]”.
Il ministro dell’Intelligence iraniano, Esmaeil Khatib, afferma che il Paese è riuscito ad acquisire migliaia di documenti sensibili e strategici da Israele attraverso una complicata operazione.
Si dice che l’Iran abbia ottenuto la maggior parte dei documenti tempo fa, ma che, a causa della loro quantità, sia stato necessario molto tempo per analizzarli e compilarli in dati di intelligence utilizzabili. In realtà, ciò che molto probabilmente significa è che l’Iran ha aspettato il momento giusto per appendere la minaccia a Israele come ultima protezione contro il lancio di qualsiasi attacco su larga scala contro l’Iran. In altre parole, l’Iran sta dicendo: ora disponiamo di dettagli molto più precisi sui vostri siti nucleari più sensibili, come l’impianto di Dimona, che consentiranno al nostro attacco di rappresaglia di paralizzare le vostre risorse nucleari nello stesso modo in cui voi minacciate di fare con le nostre.
Un esempio su tutti:
Inoltre, nuovi rapporti affermano che l’Iran sta espandendo la produzione di massa di missili balistici in grado di colpire Israele:
Nuove immagini satellitari mostrano che l’Iran ha ripreso la produzione di massa di lanciamissili balistici a lungo raggio nel sito di Khojar, vicino a Teheran, dopo i danni causati da un attacco israeliano (come rappresaglia all’operazione Sadek 2) all’inizio di ottobre dello scorso anno.
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Forse le minacce hanno funzionato, perché oggi si sono moltiplicate le notizie – anche se per ora non corroborate – secondo cui Israele sarebbe improvvisamente aperto a consentire all’Iran un minimo di arricchimento dell’uranio, soprattutto dopo la telefonata “accesa” di Netanyahu e Trump. Gli stessi Stati Uniti, secondo Axiose NYT, potrebbero essere disposti a consentire all’Iran un certo arricchimento sul proprio suolo, il che avvalorerebbe l’affermazione di cui sopra.
L’Iran ha fatto a Trump una controproposta per un accordo nucleare Teheran manterrà un basso livello di arricchimento se gli Stati Uniti rimuoveranno con forza l’arsenale nucleare di Israele e si impegneranno per un Medio Oriente libero dal nucleare.
Ma come può l’Iran negoziare con un ignorante che dice cose come queste?
Invece, l’Iran continua a costruire nuove centrali nucleari con l’aiuto della russa Rosatom, con piani per un totale di 10 centrali:
La televisione iraniana pubblica un filmato della Rosatom che costruisce le unità 2 e 3 della centrale nucleare di Bushehr in Iran.
La Russia costruirà OTTO centrali nucleari in Iran – Il responsabile della sicurezza nazionale di Teheran
In definitiva, Trump sta cercando di sedersi su più sedie possibili perché il suo ego non odia altro che apparire “debole” nei confronti di un solo partito: ha una paura mortale di apparire debole agli occhi della sua folla di Likudnik e dei suoi donatori e quindi è costretto ad agitarsi a gran voce per una guerra contro l’Iran che in realtà non vuole e non può permettersi; teme di apparire debole di fronte all’Iran, quindi deve fingere che gli Stati Uniti possano “incenerirli” nonostante sia sempre più evidente che gli Stati Uniti non sono più in grado nemmeno di scoraggiare i proxy Houthi dell’Iran; allo stesso tempo, Trump teme di apparire debole di fronte ai suoi avversari che potrebbero criticarlo per essere un tirapiedi di Netanyahu, e quindi deve anche contemporaneamente fingere una facciata da duro contro Bibi. Tutte queste posizioni contraddittorie si scontrano in un pot-pourri di politica estera incomprensibilmente debole che sta facendo sprofondare gli Stati Uniti sempre più nel disastro del tardo impero.
Come ultime due note:
Grazie all’incessante genocidio di Israele a Gaza, un sondaggio di YouGov ha rilevato che il sostegno a Israele è sceso al minimo “mai registrato” in Europa:
Il sostegno e la simpatia dell’opinione pubblica per Israele in Europa occidentale hanno raggiunto il livello più basso mai registrato da YouGov, secondo il sondaggio, con meno di un quinto degli intervistati in sei Paesi che hanno un’opinione favorevole del Paese.
Il sondaggio ha anche rilevato che un numero minore di persone dichiara di “parteggiare” per Israele. Tra il 7% e il 18% degli intervistati ha dichiarato di simpatizzare maggiormente con la parte israeliana – la percentuale più bassa o più bassa in cinque dei sei Paesi presi in esame dopo gli attacchi di Hamas.
Al contrario, tra il 18% e il 33% degli intervistati ha dichiarato di simpatizzare di più con la parte palestinese – cifre che sono aumentate in tutti e sei i Paesi dal 2023. Solo in Germania le cifre per ciascuna parte erano simili (17% per Israele; 18% per la Palestina).
Con uno spleen forse inusuale, Chris si sfoga in modo angosciante:
Questa è la fine. L’ultimo capitolo del genocidio, intriso di sangue. Presto sarà finito. Settimane. Al massimo. Due milioni di persone sono accampate tra le macerie o all’aperto. Ogni giorno decine di persone vengono uccise e ferite da granate, missili, droni, bombe e proiettili israeliani. Mancano acqua pulita, medicine e cibo. Hanno raggiunto un punto di collasso. Malati. Feriti. Terrorizzati. Umiliati. Abbandonati. Indigenti. Morire di fame. Senza speranza.
Nelle ultime pagine di questa storia dell’orrore, Israele adesca sadicamente i palestinesi affamati con promesse di cibo, attirandoli verso lo stretto e congestionato nastro di terra di nove miglia che confina con l’Egitto. Israele e la sua Fondazione umanitaria di Gaza (GHF), cinicamente denominata “Gaza Humanitarian Foundation”, presumibilmente finanziata dal Ministero della Difesa israeliano e dal Mossad, sta usando come arma la fame. Sta attirando i palestinesi verso il sud di Gaza come i nazisti attiravano gli ebrei affamati del ghetto di Varsavia a salire sui treni per i campi di sterminio. L’obiettivo non è nutrire i palestinesi. Nessuno sostiene seriamente che ci siano abbastanza cibo o centri di assistenza. L’obiettivo è quello di ammassare i palestinesi in strutture fortemente sorvegliate e di deportarli.
….
Ci sono persone che conosco da anni e con cui non parlerò mai più. Sanno cosa sta succedendo. Chi non lo sa? Non rischiano di alienarsi i colleghi, di essere additati come antisemiti, di mettere a repentaglio il loro status, di essere rimproverati o di perdere il lavoro. Non rischiano la morte, come fanno i palestinesi. Rischiano di offuscare i patetici monumenti di status e ricchezza che hanno passato la vita a costruire. Idoli. Si inchinano davanti a questi idoli. Adorano questi idoli. Ne sono schiavi.
Ai piedi di questi idoli giacciono decine di migliaia di palestinesi uccisi.
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Il barattolo delle mance rimane un anacronismo, un arcaico e spudorato modo di fare il doppio gioco, per coloro che non possono fare a meno di elargire ai loro umili autori preferiti una seconda, avida porzione di generosità.
Nell’alternarsi di incontri e trattative continua la pressione distruttiva e tragica di Israele su Gaza. Dalle ceneri, come un’araba fenice, Hamas sembra risorgere dai colpi costanti di IDF. Gli attacchi e l’assedio alla popolazione civile sono l’arma totale che Netanyahu intende utilizzare per risolvere il conflitto e allargare la presenza di Israele. Una ferocia insostenibile agli occhi dei suoi stessi alleati più stretti in un Medio Oriente nel quale il ruolo di Israele rischia sempre più il ridimensionamento. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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