MITI GIURIDICI E REGOLARITÁ POLITICHE, di Teodoro Klitsche de la Grange

MITI GIURIDICI E REGOLARITÁ POLITICHE

  1. La mitologia giuridica secondo Santi Romano 2. Mito e miti giuridici 3. Concezioni di Mosca e Pareto 4. Distinzioni dei miti 5. Miti giuridici di un tempo ed attuali 6. Loro distinzione fondamentale 7. Miti giuridici e regolarità della politica
  2. Nei “Frammenti di un dizionario giuridico”, Santi Romano si poneva la questione della mitologia giuridica.

Rilevava che “Il mito è stato particolarmente, anzi quasi esclusivamente, definito e studiato in relazione alle credenze religiose, che certo ne offrono gli esempi più tipici e caratteristici. Esso però si riscontra anche in campi diversi e, fra gli altri, in modo molto interessante, in quello del diritto”; considerazione ovvia dato che il mito, soprattutto della specie “politico” ha svolto un ruolo assai rilevante nel pensiero (e nelle vicende) in particolare della prima metà del XX secolo. E scriveva che “C’è tutta una mitologia, che ben può dirsi giuridica, e da questo punto di vista sembra che possano utilmente valutarsi una serie di opinioni e di principii, che, di solito, sono presi in considerazione sotto altri aspetti”[1]. Subito dopo  notava che “il mito non è verità o realtà anzi è l’opposto e quindi la mitologia giuridica è da contrapporsi alla realtà giuridica, che in apposita voce di questo dizionario si è cercato di definire”[2]. E approfondendo la distinzione (definizione) del mito scriveva che “non tutte le concezioni, le opinioni, le credenze che si ritengono giuridiche, ma che tali effettivamente non sono, perché contrarie o estranee ad un ordinamento  giuridico, sono da classificarsi fra i miti”[3].

Sulla linea di note concezioni, il giurista siciliano sottolineava il senso mistico-fideistico del mito[4].

Il mito giuridico ha connotati distintivi rispetto al mito (come genere) “Il mito religioso è essenzialmente popolare; il mito giuridico può formarsi e limitarsi entro una cerchia più ristretta di persone, ma anch’esso non è opinione singolare o isolata” (quindi è sociale, non individuale)[5]. Peraltro “Non è nemmeno da escludere che artefici di miti possono essere dei giuristi, cioè coloro che pure dovrebbero essere in grado di giudicarli come tali e respingerli”[6]. Le fonti del mito sono diverse “e non sempre è facile discernere quando essa ha origine teorica, quando pratica, e quando, come spesso avviene, l’una assieme all’altra”. La mitologia giuridica fiorisce specialmente nelle situazioni rivoluzionarie “In questi periodi, nei quali si tenta di abbattere gli ordinamenti vigenti sostituendoli  con dei nuovi, ha naturalmente scarsa importanza la realtà giuridica, nel senso che si è definito, cioè il complesso dei principii, delle ideologie e delle concezioni che stanno a base del “ius conditum”, e invece vengono in prima linea le ideologie che combattono per informare di sè il “ius condendum” ”.

Le assemblee costituenti sono in gran parte formate da persone sprovviste di cultura giuridica e “costituiscono l’ambiente più adatto alle più varie mitologie giuridiche, così a quelle che hanno carattere del tutto popolare, come a quelle di origine più o meno dottrinaria. Queste ultime anzi hanno il più delle volte maggiore influenza delle prime”. Questo perchè mentre quelle popolari sono vaghe ed imprecise “quelle dottrinali invece hanno la rigidezza dei dommi, assumono una certa forma logica, e si rivelano perciò suscettibili di essere tratte a conseguenze ed a sviluppi, che ad esse conferiscono una maggiore parvenza di verità”[7].

Nel porsi poi per i miti giuridici il problema, già proposto per quelli religiosi, ovvero se siano perciò più spesso retaggio di popoli particolari, Santi Romano scrive “si potrebbe fondatamente ritenere, che, come ci sono indubbiamente dei popoli più inclini all’elaborazioni delle credenze religiose, anche di quelle che hanno carattere mitico, così è probabile che i miti giuridici trovino in alcune nazioni un terreno più propizio alla loro formazione”. Nazioni che sarebbero quelle dove sono più forti e continue le tendenze rivoluzionarie[8].

Con queste premesse, nell’indicare i miti giuridici (dell’epoca), il giurista ne enumera tre, tutti connessi al pensiero politico e alle rivoluzioni moderne: stato di natura, contratto sociale, volontà generale. Questi ultimi sono quelli che trovano più adepti tra filosofi e giuristi “la cui immaginazione dal campo delle teorie e delle ipotesi scientifiche si lascia trascinare, più o meno inconsapevolmente, in quello della mitologia”. A tale proposito si può “ rilevare, e non è senza importanza, che in esse affiora la tendenza propria dei miti e già da altri (Croce) notata, di immaginare enti che non esistono e di dar vita a cose inanimate o anche a semplici astrazioni”. E di dar loro vita con delle personificazioni “ ora del popolo, ora dello Stato, ora di certe istituzioni di quest’ultimo che avrebbero il compito di costituire o esprimere o rappresentare tale volontà” (generale).

Per cui tali miti finiscono col diventare realtà giuridiche; infatti possono considerarsi (come ad esempio le personificazioni) mitiche “quando non hanno fondamento e riscontro in effettivi caratteri delle istituzioni che costituiscono un ordinamento giuridico positivo. Viceversa, possono essere e sono vere realtà giuridiche se e quando determinano la struttura, gli atteggiamenti concreti, il funzionamento delle istituzioni”.

Il giurista, nel concludere il breve scritto, dichiarava che non intendeva “attribuire alla mitologia giuridica il carattere meramente negativo di un insieme di concezioni soltanto fantastiche e perciò stesso dannose e pericolose”; perché spesso “il mito scaturisce da bisogni pratici, di cui non si ha sempre chiara coscienza, da intuizioni nebulose che pure hanno elementi di verità, da istinti oscuri, ma profondi. E allora il mito, che non è realtà, ed è anzi l’opposto della realtà, può segnare il principio di un cammino che conduce alla realtà, non solo scoprendola, ma addirittura creandola” e a tali miti “il diritto deve molto e, fra gli esempi che sopra si sono addotti, alcuni confermano che non poche delle attuali realtà giuridiche non hanno che tale origine” ma ciò non toglie “che altri miti invece, (sono) rimasti “ombre vane fuor che nell’aspetto” e nelle forviate credenze di filosofi o di giuristi, possano determinare errori gravi e non innocue utopie”[9].

  1. Tale conclusione di Santi Romano presenta caratteri divergenti e altri comuni alle concezioni del mito e del mito politico in particolare. Senza voler fare un’analisi delle numerose tesi al riguardo, si possono sintetizzare (e accorpare) le varie concezioni del mito in categorie.

Fin da Platone – secondo una di queste – il mito è stato considerato una forma alle volte fuorviante, ma altre valida di conoscenza[10] in particolare per ciò che indica come giusto per la condotta umana[11]; da Vico era considerato una forma autonoma di elaborazione di pensiero e di regole di condotta, adatta a un determinato stadio (“giovanile”) della vita di un popolo[12]. Il mito quindi è verità, ma espressa poeticamente e fantasticamente.

Secondo un’altra concezione il mito è una rappresentazione degli assetti di potere e dei valori di un gruppo sociale. In questo senso il mito può essere ricondotto a una “derivazione” secondo la terminologia di Pareto, o a un elemento (fondamentale) della “formula politica” di Gaetano Mosca.

A queste va accostata la concezione di Sorel secondo il quale il mito è un’organizzazione di immagini capaci di evocare istintivamente “tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra impegnata dal socialismo contro la società moderna”.

Onde il mito è essenzialmente un moltiplicatore/suscitatore di volontà, fondato su intuizioni e rappresentazioni largamente condivise nel gruppo sociale e  idonee a supportare il consenso e indirizzare l’opinione e l’azione politica di massa[13].

Tali diverse concezioni del mito trovano una corrispondenza nel mito giuridico.

La prima è il rapporto idea (racconto) – verità. Vi sono miti che corrispondono a verità, e la esprimono in forma metaforica e intuitiva, ed altri che sono frutto di pura fantasia. Il criterio distintivo è peraltro verificabile in corpore viri, cioè in concreto, nella storia che, come sosteneva de Maistre, è la “politica applicata”.

Ad esempio uno dei miti più famosi è quello della fondazione di Roma. Nel racconto che ne fa Plutarco si desumono due regole dal comportamento di Romolo e Remo. A seguito del disaccordo sul luogo dove edificare la città, si decise di rimettere la decisione al “divino”. Dato che prevalse Romolo (forse con la frode) lo stesso cominciò a scavare il fossato all’interno del quale edificare le mura della città, mentre Remo lo derideva ed ostacolava. Ma quando attraversò con un salto il fossato Romolo (o uno dei suoi seguaci) lo uccise. Da tale racconto (a parte la frode di Romolo, anch’essa mezzo normale della politica) è possibile ricavare due regole di grande importanza per la saldezza e durata delle istituzioni (quelle politiche soprattutto): la prima è che il vertice dell’istituzione deve essere unico e  una la direzione politica (se esercitata da un organo monocratico o collegiale, rex aut senatus, è secondario); in caso contrario la decisione può non essere presa (anche se è di vitale importanza) e viene delegata al caso, comunque a un qualcosa che esula dalla responsabilità (umana). L’altra che il confine – in senso ampio – differenzia ciò che è interno o esterno alla comunità ed è essenziale per l’ordine e l’unità della stessa. A trascurare queste regole, o a confortare anche interpretativamente il contrario o ad indebolirle s’ “impara più presto la ruina che la preservazione sua”, come scriveva Machiavelli[14]; e ve ne sono tanti esempi nella storia che è superfluo ricordarli.

Santi Romano ha individuato poi il carattere distintivo tra miti frutto di pura fantasia e miti costitutivi-rappresentativi di realtà giuridiche.

Il criterio è “fattuale”: è mito giuridico quello che si istituzionalizza, diventa cioè realtà giuridica. Si poteva rispondere che tale criterio non è tale perché, specie nel XX secolo, ci sono stati miti che sono diventati istituzioni, pur rimanendo frutto di fantasia e di stravolgimento della realtà. Un esempio classico è stato il comunismo, che dall’alba al tramonto è durato quasi quanto il “secolo breve” (nel caso sovietico, il più longevo). Senonché una tale obiezione non coglie nel segno: per intendere appieno il concetto di diritto dei giuristi istituzionisti bisogna partire da due connotati fondamentali dell’istituzione (cioè del diritto) e/o dell’ordine sociale, ossia durata e movimento. Quest’ultimo al momento non interessa. Quanto alla prima scriveva Hauriou che  il primo dei vantaggi di un potere esercitato in nome di un’istituzione è la durata, perché il proprio “dell’istituzione è durare più a lungo degli uomini, e quindi di far durare il potere esercitato in proprio nome”[15].

Santi Romano in un’altra opera scrive “esistente e, per conseguenza, legittimo è solo quell’ordinamento cui non fa difetto non solo la vita attuale ma altresì la vitalità. Su quale base logica tale concetto riposi è appena necessario mostrare. La trasformazione del fatto in uno stato giuridico si fonda sulla sua necessità, sulla sua corrispondenza ai bisogni ed alle esigenze sociali. Il segno, esteriore se si vuole, ma sicuro che questa corrispondenza effettivamente esista, che non sia un’illusione o qualche cosa di artificialmente provocato, si rinviene nella sucettibilità del nuovo regime ad acquistare la stabilità, a perpetuarsi per un tempo indefinito” e aggiunge “Finché ciò non avviene, si potranno avere supremazie che s’impongano con la forza, ordinamenti che sembrano, a reggitori improvvisati o a masse esaltate, costituiti e che invece non lo sono e fors’anche non lo saranno mai, ma non nuovi Stati e nuovi Governi. Questi – e ciò è implicito nel loro stesso concetto – non possono essere passeggere creazioni che si formino o si disfacciano a capriccio degli uomini: essi sono il risultato di innumerevoli forze e di procedimenti che hanno radici secolari nella storia[16].

Per cui i miti che riescono ad istituzionalizzarsi nel senso della creazione di istituzioni o di organi istituiti dalle stesse, divengono realtà giuridica; quelli frutto di fantasia non compiono mai questo cammino[17].

L’altro elemento distintivo del mito suggerito da Santi Romano è connesso alla cognizione: quando il mito esprime  verità (come nel caso del mito della fondazione di Roma) e quando invece è una mera fantasia. In tal caso anche se poi i secondi hanno un certo successo (e con ciò torniamo al precedente fundamentum distinctionis) resta il fatto che sono comunque irreali e realizzano cose diverse da quelle volute. Non bisogna dimenticare che, come scrive Sorel “c’è eterogenesi tra fini realizzati e fini dati: la più piccola esperienza ci rivela questa legge, che Spencer ha trasferita nel mondo materiale per dedurne la sua teoria della moltiplicazione degli effetti”; quindi i miti che non si sono tradotti in realtà giuridica (se non in modo effimero, o comunque non giuridici nel senso sopra condiviso) hanno avuto  effetti diversi dalle intenzioni, ma spesso positivi. A cominciare dalla decisione della Convenzione della Francia rivoluzionaria di chiudere nell’arca il proprio “progetto costituzionale” cioè la Costituzione dell’anno I (24 giugno 1793), dopo averla votata perché renderla vigente avrebbe gravemente ostacolato la difesa della nazione.

E nessuno si è sognato di riaprire quell’arca, neanche in tempo di pace, perché i connotati essenziali di quella costituzione: assemblearismo, estrema  democraticità, debolezza del potere governativo, la rendevano di difficile applicazione (quindi fonte di disordine e gracilità) anche in tempo di pace. Quel che sortì fuori dal mito rivoluzionario (come espresso nella costituzione “sospesa”), fu assai diverso: una dittatura sovrana, che ebbe successo nella difesa del paese, grazie agli enormi poteri , alla mobilitazione delle masse e al terrore. Cosa che rientra in pieno nell’ “eterogenesi dei fini” del mito, affermata da Sorel.

E’ da notare che per miti del genere l’eterogenesi dei fini (o paradosso delle conseguenze) è la regola. Con la conseguenza che, di norma, quel che di giuridico costruiscono è ciò che è fattualmente possibile, spesso solo una (per lo più modesta) variazione di ciò che la storia, e la storia delle istituzioni già conosce[18]. Al mito marxiano della società comunista (senza Stato e senza politica), cioè un regime contrario alla natura umana (zoon politikon) e alle regolarità del “politico” (Miglio e Freund), corrisponde la realizzazione di una dittatura sovrana, che è una species moderna di un genere di reggimento politico diffuso nelle comunità umane: dal dispotismo orientale, alla tirannia fino alle versioni molto più soft come la dittatura romana, temporanea e controllata (da altri poteri). Dell’altra (la società comunista) non s’è vista neppure l’ombra, proprio perché irreale, ossia impossibile a tradursi in concreto.

  1. Nelle concezioni del mito c’è anche quella che li considera delle rappresentazioni utili, per lo più alla classe dirigente, che se ne appropria,e/ o li propone e li diffonde per guadagnare legittimità e consenso: nei casi d’eccezione per motivare le masse (da mobilitare, come in caso di guerra).

Nella forma più estrema servono cioè a rafforzare l’inimicizia, il sentimento ostile che è uno degli elementi fondamentali della lotta (armata). Non solo nella guerra, ma anche nelle rivoluzioni, dove il nemico è interno. La cosa “strana”  – ma logica – è che proprio le rivoluzioni, più ancora delle guerre, hanno un effetto “fondativo” delle istituzioni e dei regimi politici. In ispecie quelli moderni dove a un cambiamento (cambiamento) di classe dirigente corrisponde quasi sempre una nuova costituzione.

Nel pensiero degli elitisti questo è attentamente evidenziato: il rapporto tra potere – e organizzazione dello stesso – e giustificazioni del potere è affermato da Gaetano Mosca: “la classe politica non giustifica esclusivamente il suo potere col solo possesso di fatto, ma cerca di dare ad esso una base morale ed anche legale, facendolo scaturire come conseguenza necessaria di dottrine e credenze generalmente riconosciute ed accettate nella società che essa dirige” il quale trovava anche il termine per definirlo “Questa base giuridica e morale, sulla quale in ogni società poggia il potere della classe politica, è quella che in altro lavoro abbiamo chiamato e che d’ora in poi chiameremo formola politica” (il corsivo è nostro). Il che non significa che “le varie formole politiche siano volgari ciarlatanerie inventate appositamente per scroccare l’obbedienza delle masse… La verità è dunque che essere corrispondono ad un vero bisogno della natura sociale dell’uomo; e questo bisogno, così universalmente sentito, di governare e sentirsi governare sulla sola base della forza materiale ed intellettuale, ma anche su quella di un principio morale, ha indiscutibilmente la sua pratica e reale importanza”. Per cui è “necessario anche di vedere se, senza qualcuna di queste grandi superstizioni, una società si possa reggere; se una illusione generale non sia cioè una forza sociale, che serve potentemente a cementare la unità e la organizzazione politica di un popolo e di un’intera civiltà”[19]. E’ da notare l’insistenza con cui Mosca relaziona la “credenza” all’assetto istituzionale (giuridico).

Anche per Pareto le derivazioni sono connotate di guisa che i “miti” vi si possono ricondurre, in particolare per il riferimento all’autorità; sia quando si trovano in accordo con sentimenti e convinzioni per lo più condivise nel gruppo sociale. Proprio l’impostazione realistica e la prevalenza nel comportamento umano delle azioni non logiche, lo porta a considerare le derivazioni, e quindi i miti, spesso utili alla società. che contribuiscono a mantenere unita (e salda).

  1. Questo rapido – e forzatamente lacunoso – percorso sul mito “giuridico” (che è spesso un mito giuridico-politico), porta a distinguere i miti giuridici (o ad effetti giuridici) in diverse classi a secondo della verità e dell’utilità degli stessi.

Miti veri: raramente, se correttamente applicati, tornano controproducenti. Dannoso è, quasi sempre, non tenerne conto. Così quello che insegna il mito, prima ricordato, della fondazione di Roma. Il “dualismo di poteri” nella stessa comunità politica è sempre stato fonte di dissoluzione e dis-ordine; nei casi migliori di debolezza istituzionale e quindi di libertà politica (della comunità) ridotta. Preludio alla fine e, più spesso, alla divisione (itio in partes) di questa.

Così – al contrario – il mito della bontà dell’uomo, nelle varie specie in cui è stato formulato, ad esempio quella del “buon selvaggio”. Che di sicuro era selvaggio, ma altrettanto certamente era di un tipo per così dire inaccettabile e poco rassicurante di bontà, praticando spesso sacrifici umani e antropofagia. Pratiche finalizzate a placare le divinità o acquisire le virtù del…pasto, ma l’ingenuità di certe credenze primitive non è segno di superiorità morale.

Tuttavia presupporre l’uomo buono, in tutte le varie declinazioni che può assumere, è un “mito” distruttivo perché in una società dove gli uomini fossero buoni governi, giudici, poliziotti e così via, come scrive Schmitt, sarebbero inutili.

Mentre la contraria convinzione (di cui al racconto biblico del peccato originale) che l’uomo può scegliere tra male e bene, reale e verificabile in concreto, rende spiegabile e giustificabile l’istituzione del potere.

Miti non veri ma utili: ovvero il caso dell’ “eterogenesi dei fini” (o come la denominava Freund, paradosso delle conseguenze). E’ specie frequente e considerata spesso una risorsa sociale e non dannosa, se, come in tutte le attività pratiche, consegue risultati positivi: s’intende per la comunità e per l’istituzione che ne beneficia.

Ciò che la distingue è lo iato che separa aspirazioni e risultati: quelle destinate a non realizzarsi, mentre questi, spesso opposti, divengono azione politica e (anche) realtà istituzionale.

Miti né veri né utili (alla comunità e all’istituzione): ve ne sono tanti e sarebbe inutile elencarli. Le caratteristiche che più frequentemente presentano è d’essere utili a ristrette cerchie della popolazione – in genere la classe dirigente (e sue frazioni): compensano la scarsa utilità comunitaria con un’alta utilità “corporativa”. Quanto a tradursi in risultati, e divenire anche in modo paradossale realtà giuridica, occorre distinguere. Possono diventare realtà giuridiche, ma in modo controproducente e così dissolutorio della sintesi istituzionale e della comunità. Essendo il mito destinato a favorire interessi “di nicchia” per lo più si realizzano in norme ed istituti limitati e defilati, e data tale caratteristica sono relativamente  dannosi (almeno nel breve-medio termine). Sono spesso miti in “formato ridotto”, la maggior parte delle volte più propaganda che racconto o credenza mitica. Ma altri hanno avuto effetti epocali: ad esempio il mito del ritorno di Quetzalcoatl atteso dalle popolazioni messicane più o meno nel tempo dello sbarco di Cortés, che finì con l’essere scambiato con il Dio-eroe Tolteco; o il mito della “libertà” polacca (cioè essenzialmente quella della grande aristocrazia) che fu la causa prima dell’anarchia e della dissoluzione della Polonia del ‘700.

  1. Santi Romano elenca, come scritto, tre miti giuridici moderni. Tutti caratterizzati dall’aver una certa suscettibilità a tradursi in realtà giuridica.

E, del pari, una intrinseca politicità, dato che assumono il connotato di discriminanti politiche, di bandiere sventolate contro altri gruppi umani. La loro capacità d’istituzionalizzarsi aumenta di conserva con il loro carattere di scriminante politica. Lo stato di natura è rivolto contro chi ritiene che ogni diritto sia costituito (e conculcabile) dallo Stato; ne deriva anche la liceità dei diritto di resistenza al potere che toglie ciò che l’uomo ha per “natura”. Il contratto sociale, come tutti i contratti, suggerisce l’idea di un accordo tra uguali, e come tutti i contratti è soggetto a risoluzione e a valutazione  dei contraenti. E’ oggettivamente opposto alla concezione della legittimità storica, del potere (e della diseguaglianza) “naturali”.

La volontà generale è polemicamente indirizzata contro il potere minoritario, cioè i regimi monarchici od oligarchici. Con il costituire la scriminante con altri gruppi umani, cioè col suscitare (una potenziale) inimicizia, determina anche solidarietà sociale ed identità comunitaria, che si traduce in istituzioni (più o meno) coerenti con il mito.

I tre miti giuridici elencati da Santi Romano sono tra i principali della modernità (anche se ne manca uno, assai considerato all’epoca in cui scriveva il giurista siciliano, cioè il marxismo-leninismo e, in generale, il socialismo utopistico); adesso gli stessi appaiono in deciso ribasso, offuscati da altri.

I quali hanno il carattere comune di essere non-politici, di mancare o contraddire qualche (importante) regolarità, presupposto, aspetto o conseguenza della politica  e del politico.

Il primo dei quali è il mito tecnocratico, cioè quello espresso nel modo più conseguenziale e deciso da Saint-Simon, ovvero della società in cui l’amministrazione delle cose sostituirà il governo degli uomini. In realtà nessuno l’ha visto realizzarsi, se non nel coro adulatorio di qualche governo sedicente tale[20] (e di corta durata). Ciò perché la natura (e l’inconveniente) del potere è tale che  oscilla tra i due abissi dell’oppressione e dell’anarchia, come sosteneva de Maistre. Un governo forte è tentato di opprimere: ma se debole è impotente a tutelare. Per cui il pensatore controrivoluzionario sosteneva che la società umana è in mezzo a questi abissi[21] (cioè non basta che un governo sia tecnocratico perché non abbia necessità di comandare). Nella realtà certi governi (tecnici) finiscono per risolvere  a modo loro tale alternativa: sono insieme deboli nel proteggere, ma forti nell’opprimere (finiscono col realizzare l’inverso della situazione ottimale).

Un altro è il relativismo giuridico-politico. Il quale confonde verità e certezza, scienza e diritto, conoscenza e volontà. Per cui si applica alla realtà sociale una (rispettabilissima) dottrina gnoseologica che afferma la relatività della conoscenza: che è giocoforza diventi relatività di norme, comportamenti, valori e istituzioni in materia pratica (morale e giuridica). Senonché un’istituzione politica è tale se ha, come scriveva de Bonald, un “punto” in cui è assoluta; ciò che le è essenziale, è l’autorità e non la verità, perché funzione dell’autorità è dare certezze, non verità, come sosteneva Vico “certum ab auctoritate, verum a ratione[22]; anche le bizzarrie più evidenti, in ragione dell’esigenza di certezza, diventano comandi intangibili e coercibili se enunciate nel giudicato; e si potrebbe continuare a lungo.

Ma è evidente che il relativismo è inidoneo a spiegare Stati e diritto; è in contrasto con l’evidenza. E si salva solo perché autocontraddittorio. Ad esempio se si afferma “La democrazia è relativistica, non assolutistica. Essa, come istituzione d’insieme e come potere che da essa promana, non ha fedi o valori assoluti da difendere, a eccezione di quelli sui quali essa stessa si basa: nei confronti dei principi democratici, la pratica democratica non può essere relativistica[23] si afferma della democrazia che, almeno in certi casi, può non essere relativistica. Con ciò l’assoluto, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. D’altra parte anche un regime democratico (in quel senso) ha dei nemici: quelli che non pensano che la democrazia debba essere relativista: ad esempio gran parte dei fondamentalisti islamici, che condividono assai poco la democrazia e ancor meno il relativismo. Se poi si aggiunge che “la democrazia deve cioè credere in se stessa e non lasciar correre sulle questioni di principio, quelle che riguardano il rispetto dell’uguale dignità di tutti gli esseri umani e dei diritti che ne conseguono e il rispetto dell’uguale partecipazione alla vita politica e delle procedure relative”[24] (il corsivo è nostro), si comprende perché, per insegnare tale dottrina ai tedeschi e ai giapponesi, le democrazie anglosassoni praticarono bombardamenti terroristici, giungendo fino ad impiegare la bomba atomica.

Quindi un regime relativista impiega la forza come gli altri, ha nemici come gli altri e fa guerra come gli altri.

Il relativismo conseguente e non autocontraddittorio, cui si può applicare quanto scriveva oltre un secolo fa Maurice Hauriou dello spirito critico, è così un potente fattore di dissoluzione delle istituzioni[25] e quindi per spiegarle e costruirle è un “mito” e più precisamente di quelli che non possono realizzarsi (se non al minimo) e a realizzarli coerentemente e totalmente distruggono ciò che dovrebbero consolidare (e aiutare a comprendere).

Un altro mito, anch’esso frutto di diffusissime aspirazioni concrete unite a concezioni dotte è quello della “pace attraverso il diritto”, cioè attraverso i Tribunali (internazionali) sostenuto da Kelsen nella prima metà dello scorso secolo. Il cui modello lo ha fornito l’art. 227 del Trattato di Versailles, che prevedeva per Guglielmo II “uno speciale tribunale sarà costituito per provare l’accusa, assicurando a lui le guarentigie essenziali al diritto di difesa. Esso sarà composto da cinque giudici, uno designato da ciascuna delle seguenti Potenze: gli Stati Uniti d’America, la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia e il Giappone”[26] (cioè i vincitori).

Santità e moralità offese sono un requisito essenziale di ogni processo del genere; peraltro servono a far trascurare il fatto che l’accusa è mossa dai vincitori, che gli accusatori nominano i giudici per processare il vinto e che non esisteva (nel caso) neanche un crimine giuridicamente qualificato come tale (nullum crimen sine lege). Tutte circostanze che nulla hanno a che fare con le garanzie della giustizia come normalmente intesa e praticata nelle democrazie liberali e molto, invece, con le conseguenze politiche della guerra. I “cloni” successivi hanno cercato di ridurre o eliminare alcune delle illegittimità ricordate (in particolare le Corti non sono composte solo da giudici designati dai  vincitori, di solito pre-costituite e non designate ad hoc) senza però poter ovviare al difetto essenziale. Ovvero quello che appare dal citato saggio di Kelsen, che si prende in esame tra i tanti di una letteratura copiosa, sia per l’autorevolezza del giurista, sia per il momento in cui lo scrisse: e cioè che per eliminare la guerra, per far funzionare concretamente una Corte internazionale come un Tribunale di diritto “interno” occorre o l’accordo delle parti (ma allora a che serve la Corte?) o una forza capace di costringere ad eseguire le decisioni. Ma se manca l’uno o l’altro ogni tentativo di ridurre o eliminare i conflitti, facendo “tintinnare le manette” è una favola, edificante quanto inutile. Il giovane Hegel considerava illusoria e incongrua ogni “unità” non realizzata attraverso un potere comune[27]

E che pone un problema, a voler seguire la tesi di Kant per cui connotato del diritto è la coazione. Se è vero che nella specie, in astratto la coazione è possibile (e in questo senso, è diritto), occorre tuttavia considerare se possa costituire diritto, o almeno diritto efficace, una normativa la cui possibilità concreta di coazione sia rara ed episodica.

O se il tutto non  si traduca in un autodafé mediatico chiassoso ma (diversamente dal modello originale) di sostanziale innocuità. Il problema del rapporto tra validità ed efficacia delle norme se lo poneva anche Kelsen “perché non si può negare che tanto un ordinamento giuridico come totalità quanto una singola norma giuridica perdono la loro validità quando cessano di essere efficaci”[28].

  1. La differenza tra i miti ricordati dal giurista siciliano e quelli sopra descritti è uno dei segni del cambiamento del common sense se non della generalità dei cittadini, almeno di parte della classe dirigente.

Invero i primi tre miti denotano il sentire comune di una percezione della comunità in crescita, l’alba di una nuova epoca, e la costruzione delle istituzioni (in maggior misura) influenzate da quei miti. In effetti tutti e tre sono miti costruttivi: lo stato di natura, almeno nella formulazione che ne da Hobbes (ma non solo), significa bellum omnium contra omnes, e l’opportunità di uscirne per costruire un ordine che garantisca pace e sicurezza. Anche l’altra faccia, quella evidenziata da Santi Romano, dell’ “anteriorità” dei diritti fondamentali è costruttiva perché sollecita la costituzione di un ordine che tenga conto di quei diritti innati.

Anche il contratto sociale ha un esito costruttivo: è all’origine del costituzionalismo moderno, della costituzione come atto consapevole e deciso dalla rappresentanza nazionale: non è solo il grimaldello per scardinare l’Ancien régime, è la base per ri-fondare l’istituzione-Stato.

Lo stesso ruolo riveste la volontà generale, che finisce, come scrive Santi Romano, con avere un ruolo decisivo nelle personificazioni dello stesso.

E, si può aggiungere, anche nella costruzione del principio democratico di legittimità e ancor più dell’importanza della discussione, comunque rapportato alla volontà e alla decisione a maggioranza (considerata almeno la più vicina alla volontà generale)[29].

Di converso i tre miti sopra enumerati, in gran voga dalla metà del secolo passato hanno tutti un effetto dissolutivo: non nei confronti di un regime “ancien”, ma delle stesse istituzioni politiche in genere.

Quanto al mito tecnocratico, si fonda sull’illusione che gli uomini possono non essere governati, ossia che non sia necessario il rapporto di comando/obbedienza: peraltro pone l’accento sulla capacità tecnica dei governanti (che, a dirla tutta, non guasta) ma è comunque subordinata al consenso politico, al rapporto governati-governanti[30].

Per cui a ragione Croce, in un passo assai citato rilevava che “Quale sorta di politica farebbe codesta accolta di onesti uomini tecnici, per fortuna non ci è dato sperimentare, perché non mai la storia ha attuato quell’idea e nessuna voglia mostra di attuarla”[31].

Il mito relativista – chiaramente ed esplicitamente autocontraddittorio, presenta due mende fondamentali (d’altra parte, anch’esse, esternate dai sostenitori): che ogni regime politico ha dei valori (delle forme, dei precetti) non negoziabili, per cui nessuna forma politica può essere (conseguentemente) relativista.

E che, come sopra cennato, perché esista una comunità (una sintesi) politica occorre l’autorità: carattere della quale è dare certezza – cioè comandi eseguiti – e non verità[32].

Per cui una democrazia conseguentemente relativista ha la stessa probabilità di realizzarsi concretamente del governo tecnico e vale per la stessa il giudizio sopra citato di Croce, di non essere mai stata attuata dalla storia e che questa non manifesta intenzione di attuarla.

Quanto alla pace attraverso i Tribunali (meglio non scomodare il diritto più del necessario), anche qui è invertito il rapporto tra volontà e sentenza, tra decisione politica e decisione giudiziaria nonché tra jus dicere e coazione.

Fu de Maistre ad esprimere il principio che “dove non c’è sentenza vi è scontro”[33] ma senza pretendere che bastasse un qualsiasi organo giudiziario, ancorché composto da galantuomini benintenzionati, magari come il Tribunale Russel in voga ai tempi della guerra fredda, per far cessare l’ostilità e soprattutto la sua conseguenza – la guerra – che, come sosteneva Proudhon è connotato esclusivo e distintivo della specie umana. Per far la guerra infatti basta la volontà, cioè l’intenzione ostile[34]; così come per eseguire la sentenza occorre forza: accanto al volere occorre il potere di realizzare il volere.

Ma se la guerra è un fatto di volontà il mezzo reale per evitarla è di trovare un accordo e non di processare il nemico vinto, né tantomeno quello di minacciare il patibolo a qualcuno che, con la decisione di aggredire o resistere all’aggressione, mette a rischio la propria vita e quella degli altri, amici e nemici. Che poi alla fine del conflitto che costituisce (e sostituisce) una decisione su un nuovo ordine, lo si “doppi” con un processo è una cerimonia solenne quanto inutile essendo la decisione già avvenuta[35].

La possibilità che questi miti si realizzino è esclusa, che possa da ciò realizzarsi qualcosa di assai diverso con l’ausilio del “paradosso delle conseguenze” (Freund) non è invece da escludere. Ad esempio il mito dei Tribunali internazionali può contribuire a costituire nuove e più estese unità politiche a scapito della sovranità delle comunità che entrano a farne parte. Hauriou sosteneva che il diritto (e la giurisdizione) comune ha carattere “internazionale” perché volto a dirimere i conflitti tra i diversi gruppi umani in via di raggiungere l’unità politica (Dike); e ne contrapponeva i caratteri al diritto disciplinare volto a decidere i conflitti tra appartenenti allo stesso gruppo sociale (Thémis).

Così la giustizia e le Corti internazionali potranno persino costituire l’avanguardia di uno Stato federale e forse mondiale, che provveda sia a decidere i conflitti che ad applicare il diritto e le decisioni prese.

  1. Il carattere dissolutorio dei miti giuridici contemporanei può comunque costituire la rappresentazione del processo di decadenza dello Stato moderno, così come i miti considerati da Santi Romano lo erano della “seconda fase” dello Stato, cioè quella liberal-democratica (o post-rivoluzionaria), quando ancora lo Stato era in espansione. La tecnocrazia ha poco a che fare con la democrazia; il relativismo con i diritti dell’uomo e del cittadino e soprattutto con la volontà della nazione “ch’è tutto ciò che deve essere per il solo fatto di esistere” (Sieyès): l’indipendenza, la sovranità della nazione e il carattere “chiuso” dello Stato con i tribunali internazionali. In questo senso tali miti sono in un certo senso “rappresentativi” di un processo di crisi dello Stato, che come altre forme politiche è peculiare di un certo periodo storico. Come lo Stato moderno ha sostituito quello feudale, come la polis ha fuso i gruppi tribali (o gentilizi) , così anche lo Stato e l’ordine westfaliano giungerà al termine; e tale convinzione è diffusa.

Dove però i miti dimostrano il loro carattere irrealistico è nell’applicare alle “regolarità della politica e del politico” la critica (e la sorte) dell’istituzione-Stato. Ma mentre questa forma politica appartiene alla storia (e ne è modellata), le regolarità della politica pertengono alla natura umana, e c’è altrettanta possibilità di cambiare quelle che di fermare il sole.

L’idea di sostituire il governo con l’amministrazione e così farne a meno è contraria ad uno dei presupposti del politico (Freund): quello del comando/obbedienza. Una tecnocrazia non sostituisce il governo: governo ed amministrazione si sommano. Anzi se vi sono state comunità umane (per millenni) prive di un’amministrazione burocratica, tanto meno in senso moderno, cioè selezionata (e dotata) di sapere specializzato (ossia tecnico), non se ne ricorda alcuna priva di “governo degli uomini”.

Lo stesso capita per il relativismo, anche se la sua autocontraddittorietà lo rende possibile, in quanto non sia relativista, ossia riconosca un assoluto nell’istituzione e nell’ordine comunitario. Infatti anche un regime relativista, come sopra scritto, ha dei nemici (e così il presupposto dell’amico-nemico), e una “tavola di valori” da imporre anche ai componenti della comunità che preferiscono valori diversi (cioè, non è relativista).

Il politeismo dei valori poi, anche se spesso non escludente, è sempre gerarchico: i valori non sono uguali ma ordinati secondo il più e il meno (e così tollerati)[36].

Quanto ai Tribunali internazionali, se è stato affermato (v. sopra) da Hauriou (tra gli altri) che un embrione di diritto comune nasce dalla giustizia “internazionale” (Dike); cioè tra gruppi sociali (classi, gentes, tribù), destinati (talvolta) a fondersi in una sintesi politica, d’altro canto è stato, sempre dal giurista francese, notato che accanto a questa c’è sempre un’altra giustizia (Thémis) interna al gruppo sociale, caratterizzata della supremazia del gruppo (del capo) sui sudditi e quindi dall’essere essenzialmente disciplinare e di dar luogo a un diritto conseguente (droit disciplinaire).

Talvolta nella storia l’esistenza di istituzioni di giustizia “internazionale” è stata l’avanguardia della costituzione dell’unità politica; altre volte no, come nel caso del Reichskammergericht, coetaneo alla decadenza del Sacro Romano impero e finito con lo stesso[37].

La conseguenza è che un rapporto tra istituzioni di giustizia “internazionale” e costituzione di sintesi politiche nuove vi può essere, ma non ha carattere necessario né       cogente, ma accidentale e tali miti lo possono favorire ma non costituire né delinearne compiutamente la forma.

Per questo occorrono i monopoli della decisione politica e della violenza legittima, cioè un potere unificante, come scriveva  il giovane Hegel poco prima della caduta del Sacro Romano Impero.

Tutti questi miti hanno pertanto carattere decostruttivo né quanto potranno (indirettamente e spesso paradossalmente) costruire è prevedibile. E’ prevedibile di converso che non potranno né incidere sulle regolarità della politica né costruire istituzioni conformi alle aspirazioni espresse e suscitate.

D’altra parte se, come scrive S. Agostino Dio spesso si serve del male e dei malvagi per fare il bene[38], non è vietato sperare che, con il soccorso divino, l’errore possa generare se non la verità, almeno qualcosa di utile.

T.K.

 

[1] Notava anche che “Nella filosofia della storia si usa questa parola per significare quelle formule che muovono ogni tanto le coscienze delle masse, le quali non hanno coscienza  individuale: Liberté egalité fraternité, La legge è uguale per tutti, Re per grazia di Dio, Dittatura del proletariato, ecc.. Senonchè, non solo in questo senso traslato e improprio,ma anche in senso corrispondente a quello in cui la parola è adoperata in dottrina, il concetto di mito può esattamente riferirsi, se non a tutte le formule accennate, ad altre che hanno più o meno immediata attinenza al diritto” op. cit. p. 126.

[2] A tale proposito chiarisce “ gioverà ricordare e precisare che la verità o realtà giuridica è quella che è stata accolta o addirittura creata da un determinato diritto positivo, anche se diversa dalla realtà che, in contrapposizione a quella puramente giuridica, si dice effettiva, o di fatto, o materiale, e, quindi, anche se esiste solo nella concezione di un ordinamento giuridico, purchè esso sia vigente ed operante” op. cit. p.127 (il corsivo è nostro).

[3] “Perchè ciò sia possibile, è necessario che esse abbiano quel carattere o quella forma fantastica o semifantastica, non certo facile a definirsi con precisione, che concordemente  si afferma essenziale perchè si abbia la figura del mito. Il mito è una non verità, un errore, una “inopia”, ma è anche immaginazione, una immaginazione “favolosa” ” op. loc. cit.

[4] “Il mito ha altresì un senso mistico, è una credenza che ha carattere di fede e quindi assume sempre un certo tono religioso, anche quando non riguarda la religione propriamente detta: il che, del resto, è in connessione con gli altri suoi caratteri che si sono accennati” op. cit. p. 128.

[5] E prosegue “Di solito, è credenza accolta da un numero molto variabile, ma sempre notevole, di individui che partecipano in  un modo o in un altro alla vita pubblica…..E può anche darsi che il mito rimanga circoscritto fra puri studiosi, particolarmente fra i seguaci di qualche sistema filosofico. Politica e filosofia sono campi particolarmente  favorevoli alla formazione e all’affermazione dei miti che interessano il diritto”.

[6] Con le conseguenze che vi sono teorie giuridiche che sono diventati miti. Un po come gli idola theatri di Bacone.

[7]  E prosegue “mentre in sostanza questo  loro carattere accentua e aggrava gli errori che stanno a base di esse. I miti, per così dire, ingenui sono di conseguenza più innocui dei miti, per così dire, sapienti, che meglio nascondono la contraddizione fra ciò che effettivamente sono, cioè errori, e ciò che vorrebbero essere, cioè verità” op. cit. p.129.

[8] Perchè “I popoli fondatori che rimangono fedeli alle loro tradizioni e ai loro ordinamenti politici,  che non si lasciano facilmente lusingare dai miraggi di radicali trasformazioni, sono, come è naturale, quelli che hanno più netta e precisa la percezione della realtà giuridica e non amano immaginare quegli “universali fantastici”, in cui i miti si risolvono” op. cit. p. 130.

[9] Op. cit., p. 134 (il corsivo è nostro).

[10] Gorg. 527 a.

[11] Gorg. 527 a  “Queste cose che ti sto raccontando forse ti sembrano le favole di una vecchietta, e non te ne importa niente. Avresti perfettamente ragione a disprezzarle, se fossimo capaci di trovarne altre, migliori e più vere”.

[12] “Che le favole nel loro nascere furono narrazioni vere e severe (onde la favola, fu diffinita vera narratio) le quali nacquero dapprima perloppiù sconce, e perciò poi si resero improprie, quindi alterate, seguentemente inverosimili, appresso oscure, di là scandalose, e dalla fine incredibili; che sono sette fonti della difficoltà delle favole” (Scienza nuova, II).

[13] v. G. Sorel, Réflexions sur la violence, trad. it. di A. Sarno, Bari 1970, p. 181. Peraltro Sorel sostiene che i miti “racchiudano le tendenze più spiccate di un popolo, d’un partito, d’una classe; che, con la tenacia propria degl’istinti, si presentino allo spirito, in tutte le circostanze della vita; che, infine, diano un aspetto di piena realtà alle speranze di prossima azione, su cui si fonda la riforma della volontà” (ibidem, p. 180). Onde “importa, dunque, molto poco sapere ciò che i miti contengano di particolari, destinati ad apparire realmente sul piano della storia futura: essi non sono almanacchi strologici. Può anche accadere che niente di ciò che contengono si realizzi – come fu della catastrofe attesa dai primi cristiani” ciò perché “I miti debbono essere presi quali mezzi per operare sul presente: ogni discussione sul modo di applicarli materialmente al corso della realtà, è priva di significato. Soltanto l’insieme del mito è ciò che importa; le singole parti non hanno importanza, se non per la luce che proiettano sui germi di vita, racchiusi in quella costruzione”.

[14] Principe, XV.

[15] v. Précis de droit consitutionnel, Paris 1929, p. 19 (il corsivo è nostro); ma vi ritorna più volte op. cit., p. 72, 76, 93 e così via.

[16] L’instaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale e sua legittimazione ora in Scritti minori, Milano 1950, p. 155 (il corsivo è nostro).

[17] A proposito del comunismo è interessante notare come Hauriou nel Précis citato (edizione del 1929, cioè più di dieci anni dopo la rivoluzione d’ottobre) scriva: “La Russia sovietica non avrà che un governo di fatto fin quando non avrà ristabilito l’essenziale dell’ordine sociale civile. D’altronde, il governo sovietico si considera da se come semplice potere di fatto, e, per consolazione, decreta l’identificazione di fatto e diritto… Di più questo governo di fatto resterà abusivo e tirannico… anche se questo governo è stato riconosciuto de facto e anche de jure da potenze straniere, in diritto internazionale il riconoscimento di un governo non ha lo stesso significato e la stessa portata che nel diritto pubblico interno”. Questo riporta il discorso – che sarebbe lungo approfondire- sulla legittimità del potere e sul rapporto di questa con il diritto (op. cit.).

[18] Scriveva Oswald Spengler a proposito di quello che, con termine desunto dalla mineralogia chiamava “pseudomorfosi”, e che applicava i rapporti tra forme espressive e sostanza spirituale “Si supponga uno strato di calcare che contenga cristalli di un dato minerale. Si producono crepacci e fessure; l’acqua s’infiltra e a poco a poco, passando, scioglie e porta via i cristalli, di modo che nel conglomerato non restano più che le cavità da essi occupati. Sopravvengono fenomeni vulcanici che fendono la montagna; colate di materiale incandescente penetrano negli spacchi, si solidificano e danno luogo a altri cristalli. Ma esse non possono farlo in una forma propria: sono invece costrette a riempire le cavità preesistenti, e così nascono forme falsate, nascono cristalli nei quali la struttura interna contradice la conformazione esterna, un dato minerale apparendo ora sotto la specie esteriori di un altro. È ciò che i mineralogi chiamano pseudomorfosi” (Der undergang des abeslandes, trad. it. Di J. Evola, Milano, p. 951).

Ne caso ovviamente non si tratta di rapporti tra forme e concezioni del mondo, e tra culture diverse, ma di miti mobilitanti e realizzazioni istituzionali. Tuttavia la forza mobilitante del mito qui s’incanala e prende la forma non conforme alle aspirazioni, ma a quello della concretizzazione possibile.

 

[19] Elementi di Scienza politica, Torino 1923, pp. 73 ss. (il corsivo è nostro)

[20] Ciò, a seguire quanto sostenuto dal coro dei mass-media.

[21] v. Du Pape, trad. it. di A. Pasquali, Milano 1995, p. 161.

[22] Nello specificare in che consiste la razionalità (degli atti) dell’autorità Vico scrive “Requiras igitur ab auctoritate rationem civilem, hoc est communem utilitatem, quam legibus omnibus aliquam subesse necesse est … Quae ratio civilis cum dictet publicam utilitatem, hoc ipso pars rationis naturalis est. Non tota autem ratio est, quia, ut utile dictet omnibus acquum, aliquando aliquibus iniqua est” v. De uno universi juris principio et fine uno caput LXXXIII.

[23] V. G. Zagrebelski, Imparare la democrazia (il corsivo è nostro). Sul piano del metodo il richiamo all’eccezione conferma l’affermazione di Schmitt che “l’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola; la regola stessa vive solo dell’eccezione” (v. Politische theologie, trad. it. di P. Schiera ne le Categorie del politico, Bologna 1972, p. 41) .

[24] V. G. Zagrebelski, op. loc. cit.

[25] “Le organizzazioni della società positiva sono tutte disorganizzate dal denaro; la virtù dei fattori di coesione (tissus) è distrutta dallo spirito critico” e “L’azione dissolvente dello spirito critico è simile a quella del denaro solo che essa viene esercitata sui fattori di coesione. Alla fine del Medio Evo lo spirito critico  ha affievolito l’influenza della religione privandola in parte della sua virtù istituente” (trad. di Federica Klitsche de la Grange). M. Hauriou La science sociale traditionelle, Paris 1896, ora rist. in Ecrits sociologiques, Paris 2008 p. 239.

[26] V. H. Kelsen, La pace attraverso il diritto, trad. it. di L. Ciaurro, Torino 1990, p. 119.

[27] Il quale scriveva nella Deutchlands Verfassung “Una moltitudine di uomini si può chiamare uno Stato soltanto se è unita per la comune difesa della sua proprietà in generale … L’allestimento di questa effettiva difesa è la potenza dello Stato; esso deve da un lato essere sufficiente a difendere lo Stato contro i nemici interni ed esterni, dall’altro a mantenere se stesso contro l’impeto universale dei singoli ….. L’unità della potenza statale per lo scopo comune della difesa è l’essenziale di uno Stato. Tutti gli altri scopi ed effetti della riunione possono esistere in un modo sommamente vario e privo di unità”, mentre “Riguardo alle leggi propriamente civili e alla amministrazione della giustizia, né l’uguaglianza delle leggi e della procedura giuridica potrebbero rendere l’Europa uno Stato (tanto poco quanto l’uguaglianza dei pesi, delle misure e della moneta), né la loro diversità impedisce l’unità di uno Stato” v. trad. it. di A. Plebe in Scritti politici, Bari 1961 pp. 44-45 e p. 32-33.

 

[28] E aggiungeva che “La soluzione del problema, prospettata dalla dottrina pura del diritto è la seguente: come la norma (contenete un dover essere: Sollnorm), considera come senso dell’at concreto per mezzo del quale è statuita, non coincide con questo stesso atto, così la validità normativa (Soll-Geltung) di una norma giuridica non coincide con la sua efficacia concreta (Seins-Wirksamkeit), Reine Rechtslehre trad. it. di Mario Losano, Torino (ed. 1975), p. 241; ma la soluzione del giurista austriaco, pur elegante, lascia perplessi: se il diritto appartiene all’attività pratica dell’uomo, un diritto che sia fatto valere poco o niente non ha alcuna funzione, se non quella, per l’appunto, mitica (nel terzo dei sensi esplicitati prima).

[29] Si sintetizza così un terreno assai frequentato, perché approfondirlo non è necessario per il tema trattato.

[30] È esemplare quanto capitato al sen. Monti che, ritenuto all’inizio il “salvatore d’Italia” a giudizio della maggior parte dei mass-media, dopo un modesto risultato della coalizione che lo sosteneva nelle politiche del 2013, è precipitato alle elezioni europee allo 0,7% di “Scelta civica”, movimento ispirato dallo stesso. Una percentuale che ne rivela il gradimento popolare irrilevante.

[31] B. Croce, Etica e politica, Bari 1931, p. 165.

[32] Anzi, si può sicuramente affermare che un regime politico che non pretenda di detenere, (insegnare, ordinare, pretendere) la verità è sicuramente più accettabile del contrario. Ma pone una serie di problemi affrontati da millenni dal pensiero filosofico e teologico: dal quid est veritas di Ponzio Pilato, all’affermazione di Giustiniano di detenere il diritto di prescrivere ai sudditi i “veri dei dogmata” alla lotta di Guglielmo di Ockem contro la teocrazia papale alla rivendicazione di Lutero che non si può comandare alla coscienza; dalle pagine di Spinoza alla distinzione tra potere spirituale e temporale della de ecclesiastica potestate declaratio (e dell’obbedienza dovuta) attribuita a Bossuet. E che Vico aveva espresso sinteticamente e precisamente in quel titolo sopra ricordato. Ma una trattazione del genere esula dai limiti del presente scritto.

[33] Du Pape, trad. it. Milano 1994, p. 155; il presupposto e la sostanza di ciò era già affermato da Machiavelli Principe, cap. XVIII

[34] Dei tre componenti del “triedro della guerra” di Clausewitz, ricordiamo solo il primo perché il secondo è più “tecnico”, il terzo, assai importante e spesso decisivo, non sempre ricorre nelle guerre reali, onde è necessario suscitarlo con un’accorta propaganda: dal preteso uso dei gas agli stupri di massa, spesso non corrispondenti a verità né limitata ad una parte in causa.

[35] C’è poi – oltre a quelli ricordati – un mito giuridico a effetti ancor più generali. E’ quello stigmatizzato, tra gli altri, come scriveva Gustave Le Bon per la Francia del suo Tempo (ma lo stesso vale per tante altre ragioni e per il periodo storico attuale): “Ci s’imbatte in Francia in una  massa di gente che si dichiara libera da qualsiasi fede religiosa, che non crede più agli dèi, che disprezza le superstizioni … Eppure in questo Paese di liberi pensatori sarebbe difficile trovare cittadini che manifestino il più lieve dubbio riguardo all’infallibile potenza delle costituzioni e delle leggi. Siamo tutti fermamente convinti che i testi legislativi possono modificare a piacere le condizioni sociali di un popolo. Con le leggi ogni riforma è possibile. Non dipende che da esse arricchire il povero alle spese del ricco, pareggiare le condizioni di tutti e assicurare la felicità universale” v. La Psychologie politique, trad. it. di A. Popa, Roma s.d., p. 53.

È  un mito “moderno” per eccellenza, già sottolineato da Joseph De Maistre che osservava “L’uomo, poiché agisce, crede di agire da solo; e poiché ha la coscienza della sua libertà, dimentica la sua dipendenza. . Nell’ordine fisico intende  ragione, e sebbene possa, per esempio, piantare una ghianda, innaffiarla, ecc., è capace tuttavia di convenire che non è lui a fare le querce … ma nell’ordine sociale, in cui è presente e operante, si mette a credere di essere realmente l’autore diretto di tutto ciò che si fa per suo mezzo: in un certo senso, è la cazzuola che si crede architetto … Il secolo diciottesimo, che di nulla si rese conto, non dubitò di nulla: è la regola; e non credo che esso abbia prodotto un solo giovincello di qualche talento che, uscendo di collegio, non abbia fatto tre cose: una neopedia, una costituzione e un mondo” (v. “Essai sur le princpipe génerateur des constitutions politiques…”, trad. it. di Roberto De Mattei, Milano 1975, pp. 41 e 39)

Dalla fiducia nella volontà umana si passa a quella dell’onnipotenza, almeno in relazione alle “regolarità”, presupposti e costanti politiche e sociali

 

[36] V. Carl Schmitt, Die tyrannie der Werte, trad. it.di Forstohff – Falconi Roma 1997 pp.35 ss.; Max Scheler Politik und moral, trad. it. Di L. Allodi; Brescia 2011 pp. 125 ss..; Max Weber ne Il Metodo della scienza storico sociale, trad. it. di P.Rossi, Milano 1980, p. 332.

[37] Il che va ricondotto alla tesi di Hauriou che all’autorità statale è connaturale il potere di coazione (e così alla  funzione pubblica). Se jus dicere e potere di applicare il decisum del giudizio non appartengono alla stessa – com’è naturale per la giustizia “internazionale” – il grado di effettiva applicazione del diritto tende a ridursi e con esso l’efficacia. Lo stesso succede laddove ricorrono situazioni di grave crisi (guerra civile, dualismo dei poteri).

[38] De civitate dei, lib.XI, 17.

RIFLESSIONI INTORNO A “IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE” DI PIERLUIGI FAGAN_ di Massimo Morigi

CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE O CULLA DEL NUOVO MONDO? RIFLESSIONI INTORNO A “IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE” DI PIERLUIGI FAGAN

DI MASSIMO MORIGI

Come del resto per palesemente manifestata intenzione comunicativa dell’autore, l’assai denso e stimolante contributo di Pierluigi Fagan per “L’Italia e il mondo”,  Il conflitto permanente come culla del nuovo mondo multipolare (URL di riferimento: http://italiaeilmondo.com/2018/04/05/il-conflitto-permanente-come-culla-del-nuovo-mondo-multipolare-di-pier-luigi-fagan/, WebCite: http://www.webcitation.org/6ySWLdQbR;https://pierluigifagan.wordpress.com/, WebCite: http://www.webcitation.org/6ySWkATvg) contiene due distinti livelli di analisi. Il primo, mostrato immediatamente in apertura del contributo, riguarda il problema di come e se si possa parlare di conoscenza scientifica nelle scienze politiche e sociali (Fagan, per la verità, non usa questa impostazione terminologica ed epistemologica ma ci mette in guardia contro le “false analogie”che, come sappiamo, sono state la grande trappola di tutte quelle impostazioni – in primis quella della scuola positivista, ma di questa ingenuità “analogica” non solo il positivismo si è macchiato, come ben illustra riguardo il moderno realismo classico l’articolo di Fagan –,  che volevano rendere le scienze storiche e sociali una scienza di tipo meccanicistico-naturalistico). Il secondo, che attraversa ed innerva tutto il contributo, è volto a dare un volto ed una fisiologia al nuovo mondo multipolare che stiamo vivendo dopo la caduta del muro di Berlino. Ma Fagan non vuole limitarsi a fornirci (in tutto il suo intervento: in maniera egregia) questa rappresentazione ma lo scopo finale del contributo, in gran parte riuscito (poi con qualche distinguo che avanzeremo), è intrecciare il livello di critica epistemologica contro una metodologia interpretativa facilona ed analogica del ragionamento sulla storia e la società basata  sulle false analogie con la presa d’atto del  mutamento in senso multipolare dello scenario internazionale, in un percorso argomentativo dove questo mondo multipolare, proprio per la sua novità, è da un lato la pietra tombale dell’ingenuità di tipo analogico e, dall’altro. ci deve introdurre alla consapevolezza di una visione dove il conflitto attraversa tutti i livelli dell’umano operare. Forse il passaggio dove meglio viene esplicitata questa tensione all’unione del livello della costruzione di una nuova teoresi storica e sociale con la sua (brillante) presa d’atto della multipolarità dell’attuale (e futuro) scenario internazionale è il seguente: «Quello nel quale siamo già immersi è un sistema multipolare sbilanciato con conflitto permanente. Potremmo dar nome a questa interpretazione come nuovo “realismo complesso”, un realismo che reinterpreta le costanti storiche all’attualità del mondo di oggi profondamente diverso da quello di ieri. “Conflitto” prende qui un nuovo significato che include varie forme di confronto armato ma non è riducibile solo a quello, prende il posto della guerra tradizionale dilatando però il fronte ed il tempo della tenzone. Oggi le potenze si muovono in uno scenario multidimensionale.» Il realismo che quindi dovrebbe essere all’altezza dell’interpretazione del nuovo mondo multipolare viene definito come un «nuovo “realismo complesso”» , un nuovo realismo complesso che, come il lettore potrà verificare dalla lettura del contributo, partendo dai due caposcuola del realismo politico Hans Morgenthau e Kenneth Waltz, intende su questi due autori compiere una sorta di hegeliana Aufhebung che faccia giustizia soprattutto delle false analogie che, come ben ci mostra Fagan, hanno sempre afflitto anche un’impostazione interpretativa della politica, il realismo, che, proprio per onorare il suo termine, dovrebbe stare religiosamente attaccata alla realtà effettuale e rifuggire dalle facili ed ingenue analogie tanto giustamente deprecate da Fagan (e tanto inutili, sottolinea assai opportunamente sempre per Fagan, a comprendere il nuovo mondo multipolare che non ha nessuna analogia col vecchio mondo bipolare dove esercitarono la loro dottrina Morgenthau e Waltz). Ma questo superamento/conservazione del moderno realismo politico classico (quello, per intenderci dei sunnominati Waltz e Morgenthau e di tutti coloro che hanno operato sulla loro scia nel secondo dopoguerra: per lo scrivente discorso molto diverso per il realismo à la Tucidide e, soprattutto,  à la Machiavelli, assolutamente  costoro più dialettici e teleologici dei due autori realisti che hanno segnato gli ultimi settant’anni di studi) questa Aufhebung alla luce di un nuovo realismo complesso, trova una completa definizione in Il conflitto permanente come culla del nuovo mondo multipolare? Su questo punto è lecito avanzare qualche perplessità e questo non per mancanza di acutezza critica e nell’analisi delle fallacie interpretative del moderno  realismo classico o della nuova situazione che si è prodotta nel mondo con la polverizzazione dei centri di potere ma perché nell’attuale scienza politica (e quindi questa critica non è solo per Fagan ma è anche per lo scrivente) deve essere ancora compiuto dal punto di vista della teoresi politica quel percorso di completo distacco dal meccanicismo positivistico (e quindi, di riflesso, anche dalle false analogie tanto deprecate da Fagan). Ma, del resto, è proprio Fagan ad indicarci che è proprio questo il punto che deve essere superato quando scrive che «Gli stati non sono gli atomi della fisica realista, sono entità intenzionali ed autocoscienti ». Qui Fagan con “fisica realista”si riferisce specificamente alla dinamica dei rapporti internazionali come meccanicisticamente e violentemente inquadrati dal realismo alla Morghenthau o alla Waltz ma ci sia consentito di fare un (benevolo) processo alle intenzioni a Fagan dicendo che il nostro ha (giustamente) indicato un Écrasez linfâme! nel meccanicismo pseudonaturalistico di stampo galileano e poi positivistico e neopositivistico che ormai da cinque secoli sta ammorbando le scienze storiche e sociali. A questo punto nel rilevare il non ancora soddisfacente percorso teorico del nuovo realismo politico proposto da Fagan, si potrebbe evidenziare con la matita rossa il non avere affrontato il problema del costruttivista Alexander Wendt, cioè se sia condivisibile o meno l’impostazione che l’anarchia del sistema internazionale sia un dato di natura prettamente culturale e per niente “meccanica”(problema affrontato dal Alexander Wendt in Id., Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics in “International Organization”, Vol. 46, No. 2. (Spring, 1992), pp. 391-425, articolo consultabile all’URL https://people.ucsc.edu/~rlipsch/migrated/Pol272/Wendt.Anarch.pdf e che noi per la sua importanza abbiamo anche caricato  su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf e https://ia601506.us.archive.org/7/items/AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf/AlexanderWendt.AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf), oppure, per risalire alle origini della geopolitica (geopolitica e realismo politico moderno, come si sa, hanno stretti vincoli di parentela, e senza voler forzare troppo la mano, si potrebbe dire che il moderno realismo politico è, per molti versi, la traduzione anglosassone del secondo dopoguerra  della geopolitica di area tedesca – cfr. Patricia Chiantera-Stutte, Il pensiero geopolitico. Spazio, potere e imperialismo fra Otto e Novecento, Roma, Carocci Editore, 2014; e nonostante questa strettissima filiazione con il moderno realismo politico di area anglosassone, geopolitica condannata alla damnatio memoriae per i suoi reali, e presunti,  legami col nazismo – Haushofer maestro di Rudolf Hess, Hess  a sua volta sinistro Virgilio di geopolitica di Hitler incarcerato nella prigione di Landsberg am Lech dopo il fallito putch di Monaco e che durante questa dorata carcerazione, potendo anche approfondire la sua superficiale conoscenza della geopolitica, scrisse il Mein Kampf – e per l’essere stata  considerata la Germania del  Novecento – e quindi in extenso tutta la sua cultura politico-strategica, fra cui in prima fila la geopolitica –  la protagonista e colpevole per l’annientamento a livello globale dell’importanza del Vecchio continente), il non avere Fagan citato  Kjellén e la sua concezione dello Stato come forma di vita (Rudolf Kjellén, Staten som lifsform, Gebers, 1916): il punto vero è che sia Wendt che Kjellén, pur andando nella giusta direzione di un modello teorico antimeccanicisitico, né riescono, in fondo, a proporne uno alternativo né escono, di conseguenza, dalle false analogie tanto giustamente deprecate da Fagan.

In particolare, in Wendt, seppur particolarmente sentita la necessità di uscire dal modello meccanicistico di stampo galileiano, e allo scopo Wendt arriva a ricorrere alla meccanica quantistica da lui ritenuto alternativo alla fisica meccanicistica galileano-newtoniana (cfr. Alexander Wendt, Quantum mind and social science: unifying physical and social ontology, Cambridge, Cambridge University Press, 2015; questa impostazione “quantistica”, denunciando a giudizio del Repubblicanesimo Geopolitico, una notevole e del tutto giustificata “nostalgia” verso un ritorno di una dialettica di stampo hegeliano) non ci si decide mai, alla fine, di prendere il coraggio a due mani arrivando ad affermare, come invece in Fagan, che gli Stati  “sono entità intenzionali ed autocoscienti” ma il suo costruttivismo è orientato ad affermare che l’intenzionalità ed autocoscienza degli Stati sono, in ultima analisi, un espediente euristico per giudicare la dinamica interna ed esterna di  questi Stati e non un giudizio in merito alla loro intima natura (così facendo, è ovvio, Wendt evita false analogie di tipo organicistico ma, altrettanto ovvio, compie un debole compromesso verso quel meccanicismo che egli vorrebbe demolire in direzione di un organicismo che dovrebbe sì lasciarsi alle spalle ogni falsa analogia ma che per essere veramente epistemologicamente innovativo e produttivo dal punto di vista di un rinnovato realismo dovrebbe andare, come però non riesce alla fine ad accadere in Wendt, alla riscoperta di un organicismo antimeccanicistico lungo la direttiva teleologica – e, aggiungiamo noi, intimamente dialettica e, quindi, in ultima analisi, hegeliano-idealistica –  Aristotele-Machiavelli).

Kjellén, al contrario, col suo Stato come organismo vivente, compie sì un grande e coraggioso passo ma in lui è fortissima la presenza della falsa analogia di una visione certamente organica ma visione organica che è quasi totalmente in preda di un organicismo di stampo positivistico e meccanicistico (e, vista l’epoca, senza alcuna possibilità di fuoruscita dalla stesso attraverso la fisica “alternativa” della meccanica quantistica, in primis dei suoi principii, da un certo punto di vista alquanto dialettici,  della superposition quantistica, della complementarietà e, last but not the least per la sua immensa portata teleologica, dell’observer effect).

In conclusione, il problema è uscire dalle false analogie nel giudicare gli eventi storici e sociali, false analogie che possono originare semplicemente dal paragonare l’attuale mondo multipolare con l’appena tramontato mondo pre caduta muro di Berlino, ma, ancor più grave, false analogie che ci giungono dal vedere il mondo delle relazioni umane dominato da schemi meccanicistici e in cui, in questo caso, la corretta  via d’uscita è dotare, come ha fatto Fagan, gli Stati e le formazioni sociali umane (ma, aggiungiamo noi, anche non umane) di una loro capacità organica (ma qui con il rischio che questa loro natura organica sia immiserita e snaturata, a sua volta, da una sorta di meccanicismo deterministico, o ancor peggio – e qui lo diciamo di sfuggita, ma rischio che deve essere sottolineato –  che la natura organica e  quindi teleologica e quindi dialettica di questi aggregati – ineludibile natura teleologica e dialettica degli aggregati organici sociali, storici, culturali o biologici che siano, in assenza della quale questi non potrebbero relazionarsi con l’ambiente e, quindi, in ultima istanza, esistere: rimandiamo ancora una volta a Richard Lewins, Richard Lewontin, The Dialectical Biologist, Harvard University Press, 1985 – venga confusa con una sorta di spiritistico  ed irrazionalistico élan vital di bergsoniana memoria).

E allora? Ci permettiamo di indicare (non di dimostrare, per carità, le dimostrazioni le lasciamo ai geometri neopositivisti) la risoluzione sciogliendo la domanda retorica del titolo di queste riflessioni al contributo di Fargan in senso positivo e quindi affermando che il conflitto non è solo la culla del nuovo mondo multipolare ma è, soprattutto, la culla del mondo tout court. Ed affermando, inoltre, che perché questa “culla del mondo” possa essere il luogo di un conflitto umanamente profondo e produttivo, non è possibile prescindere da un’autentica e sentita filosofia della prassi che non si limiti ad analizzare il conflitto ma che questo conflitto costituisca e riconosca come categoria gnoseologica ed epistemologica interiormente vissuta e progressivamente ed attivamente proiettata verso una realtà esterna che, proprio in ragione di questa comune natura conflittuale, sia dinamicamente e dialetticamente legata all’agente che ne ha compresa la comune radice creativo-dialettico-strategico-conflittuale.

La proposta è, quindi, aggiornata sul piano empirico dalla consapevolezza di uno scenario politico multipolare   (e magari integrata sul piano delle scienze naturali dagli interessanti apporti euristici dati anche dalla meccanica quantistica ma non solo, vedi teoria del caos – antesegnano della quale Carl von Clausewitz ed il suo Vom Kriege ed epigenetica – vedi i lavori di Eva Jablonka, in particolare Eva Jablonka, Marion J. Lamb, Evolution in Four Dimensions: Genetic, Epigenetic, Behavioral, and Symbolic Variation in the History of Life, Bradford Books/The MIT Press. 2005 –, temi da noi già sfiorati in Dialecticvs Nvncivs e altrove, e che troveranno una più profonda trattazione in Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico) ma su un piano teorico più alto, animata dalla consapevolezza della natura costitutiva del conflitto nella morfogenesi del mondo naturale ed umano lungo la direttiva di una filosofia della prassi che vede in Giovanni Gentile, Antonio Gramsci dei Quaderni del Carcere e nel György Lukács di Storia e coscienza di classe i suoi più recenti terminali ma che ha avuto inizio con la phronesis aristotelica per continuare con Machiavelli e poi con Hegel, quella stessa, in fondo, del “realismo complesso” indicata da Fagan. Ovviamente non pretendendo, proprio per la natura complessa di questo realismo, che egli possa concordare su ogni singolo punto qui esposto ma sperando, sempre per la natura complessa e quindi dialettica di questo realismo, che questo dibattito, ponendo la parola fine ad ogni ingenua, passiva e meccanicistica analogia, possa essere l’inizio di  nuove profonde ed attive linee di azione.

Massimo Morigi – 14 aprile 2018

 

 

LA TARDA ORA DELLA REPUBBLICA DEGLI STATI UNITI d’AMERICA, di Gianfranco Campa

L’ORA TARDA-L’ULTIMA DELLA REPUBBLICA

Non voglio apparire eccessivamente pessimista. Quelle che stiamo vivendo però sono ore e giorni infidi e drammatici: Alle 20:00 di oggi, 9 Aprile 2018, ora della costa del pacifico, le notizie che arrivano dagli Stati Uniti sono preoccupanti. Probabilmente nel momento in cui questo articolo sarà messo sul sito sapremo già se il Pentagono ha attaccato la Siria oppure no. Fonti militari suggeriscono che un’operazione in larga scala contro Assad è entrata ormai nella fase finale. Si aspetta solo l’ok del Presidente Americano. Speriamo nel buon senso di Donald Trump.

La trappola dello stato ombra orchestrata contro Donald Trump è ormai pianificata e operativa.

I dirigenti politici, sia essi Repubblicani o Democratici, tutte le agenzie di intelligence, tutte le agenzie di stampa, tutte le organizzazioni di Think Tanks si levano all’unisono nel grido di guerra contro la Siria e il demonio Assad. Il presunto attacco chimico perpetrato dal Presidente Siriano arriva ad una settimana esatta dall’annuncio di Trump di voler ritirare il suo esercito dalla Siria, ritenendo il pericolo ISIS ormai neutralizzato. Il nuovo attacco chimico arriva ad un anno esatto dall’ultimo presunto attacco di Assad che portò Trump a lanciare i missili Tomahawk contro la Siria. La guerra delle fogne di Washington, dello stato ombra, contro Trump ha improvvisamente acquisito un rinnovato senso di urgenza e drammaticità. La settimana scorsa, tutti i sondaggi delle maggiori agenzie attribuivano per la prima volta a Trump oltre il 50% di approvazione contro il 48% di Obama nel periodo equivalente. In altre parole, il 45% di approvazione per un presidente comporta la certezza matematica di essere rieletto in un secondo mandato. Questo ha scatenato lo stato ombra.

Non sono nato ieri. La trappola piazzata sull’impervio sentiero di Trump è per me decifrabile e chiara; un attacco chimico in Siria forzerà la sua mano mettendolo in rotta di collisione con la Russia. Se Trump dovesse intervenire militarmente, perderebbe il sostegno dello zoccolo più duro del suo elettorato; lo accuseranno di essere diventato un neocon. Se non dovesse intervenire sarà considerato debole e incapace dal resto del popolo. Gli Americani, come del resto tutti i popoli occidentali, hanno la memoria corta e gli orrori della guerra in Iraq sono solo un pallido ricordo. Bolton già sbava dall’eccitazione di ritrovarsi a sussurrare all’orecchio di Donald: “missili-missili, attacca-attacca, guerra-guerra..”. Se Trump dovesse attaccare senza approvazione del Senato sarà certamente impeachment per the Donald. Se non dovesse farlo, diventerebbe un incompetente e quindi meritorio sempre di impeachment.

Il caso Skripal è stato solo il preambolo: E’ notizia fresca di oggi che il procuratore speciale Robert Muller e il deputato procuratore generale Rod Rosenstein, hanno autorizzato l’FBI a fare irruzione nell’ufficio di uno degli avvocati del presidente, Michael Cohen, a New York, con un mandato di perquisizione firmato da un giudice per impossessarsi di tutta la documentazione sui rapporti tra il Presidente e il suo avvocato; la perquisizione e il sequestro dei documenti sono avvenuti poche ore prima di scrivere questo articolo e a tre giorni dallo strano incendio in uno degli appartamenti della Trump Tower. La motivazione non risalirebbe al Russiagate, bensì alla violazione delle regole elettorali. Nel momento in cui Cohen ha versato soldi alla porno attrice Stormy Daniels per assicurarsi il silenzio mediatico, Trump avrebbe infranto la legge sui finanziamenti delle campagne elettorali. Poco importa se le vicende fra Trump e Daniels risalgono al 2007; poco conta se questo presunto contratto, accordo, firmato da Daniels risale al 2015, cioè prima ancora che Trump annunciasse il lancio della sua campagna presidenziale. Il nostro cacciatore fasullo Muller è passato inopinatamente dalle indagini sul Russiagate alle quelle sul Pornogate. Inoltre ciò che Muller e l’FBI hanno fatto oggi con l’irruzione nell’ufficio dell’avvocato di Trump è stato rimuovere il diritto di tutti i cittadini americani di consultare privatamente un avvocato. D’ora in poi tutto ciò che racconti al tuo avvocato non è più considerato privato. La sacrosanta privacy del rapporto avvocato-cliente, tutelata dalla costituzione americana e stata calpestata dal nostro eroico cacciatore fasullo Robert Muller. 

Complimenti davvero allo stato ombra! Non c’è che dire, la fantasia non manca loro senza alcun dubbio. Dovesse Donald Trump decidere di licenziare Mueller la sua Presidenza potrà considerarsi finita; non dovesse farlo la sua Presidenza può considerarsi finita lo stesso.

A Trump sono rimaste solo pochissime carte da giocarsi.

Potessi, gli consiglierei due mosse importanti che potrebbero ribaltare la situazione a suo favore. Preferisco per istinto di sopravvivenza tenerle per me. Speriamo che qualcun altro abbia la possibilità di suggerire a Trump le giuste mosse. Ci spero, ma ne dubito…

Nel frattempo ormai si è capito che Trump è letteralmente circondato su tutti i fronti e non ha le capacità gestionali nè tattiche di resistere alla pressione dello stato ombra.

Saremo noi a pagarne il prezzo con una nuova guerra che si sta affacciando all’orizzonte.

Come diceva Grima Vermilinguo, nel signore degli Anelli: : “Tarda è l’ora in cui questo stregone decide di apparire” Anche se, in questo caso, sono molti gli Stregoni che sono apparsi nell’ora tarda di questa morente repubblica americana.

LA LUNGA MARCIA, di Giuseppe Germinario

Una carovana di oltre mille persone da oltre una settimana si è incamminata da alcuni paesi del Centroamerica con meta finale il confine degli Stati Uniti. L’iniziativa non pare improvvisata ed estemporanea. Lungo il percorso è organizzato un efficiente servizio di assistenza con punti di ricovero, di ristoro e in parte mezzi di trasporto. I paesi di transito non hanno frapposto alcun ostacolo al passaggio, almeno sino a quando il Presidente Trump ha minacciato di schierare la Guardia Nazionale al confine e di disdire gli accordi commerciali e di sostegno finanziario ai paesi coinvolti. La speranza degli organizzatori era di raccogliere lungo il percorso nuovi immigrati ed ingrossare così esponenzialmente il fiume umano. E’ facile sospettare che qualcosa di analogo si veifichi nella gestione dei flussi verso l’Italia e l’Europa. Ci si aspetterebbe dalla “libera stampa” un qualche interesse a indagare in proposito. Il modello ispiratore deve essere stato quello della Lunga Marcia di Mao Tse Tung. Il grande Timoniere si starà rigirando nervosamente nella tomba. Allora l’obbiettivo era di liberare la Cina dagli occupanti giapponesi e dalle satrapie locali. Oggi il motivo è assai diverso. Dietro gli impulsi umanitari si nascondono veri e propri piani di destabilizzazione. L’immigrazione è ormai diventata un’arma geopolitica e di politica interna. Uno dei protagonisti, Soros, lo aveva ampiamente preannunciato, anche recentemente. Non si può dire nemmeno che si tratti di un conflitto netto tra paesi sottosviluppati e paesi dominanti. In Africa da tempo la chiesa cattolica, specie i parroci, cerca di porre un argine al fenomeno, giudicato negativamente perché priva quei paesi delle energie migliori. Il silenzio se non l’accondiscendenza invece delle alte gerarchie cattoliche in proposito, è altrettanto eloquente del ruolo che intende assumere il papato nel contesto mondiale. A seguito delle minacce il corteo sembra essersi miracolosamente dissolto. Vedremo gli sviluppi. Vedremo soprattutto se l’afflato umanitario continuerà nei confronti dei pellegrini anche dopo la dispersione della carovana e il naufragio delle mire politiche connesse.

http://www.foxnews.com/politics/2018/04/05/trump-praises-mexico-for-stopping-caravan-avoiding-giant-scene-at-border.html

https://twitter.com/search?q=caravan+of+immigrants&ref_src=twsrc%5Egoogle%7Ctwcamp%5Eserp%7Ctwgr%5Esearch

IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE, di Pier Luigi Fagan

Una visione realistica del carattere multipolare delle odierne dinamiche geopolitiche. Una chiave di interpretazione che mette in guardia da analogismi troppo scontati con fasi precedenti e da una visione troppo edulcorata delle dinamiche conflittuali. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Testo tratto da https://pierluigifagan.wordpress.com/

IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE.

Le scienze sociali che usano come unità metodologica lo stato, ovvero le Relazioni Internazionali e la Geopolitica, non potendo fare esperimenti di verificazione delle teorie, si accontentano di sostenere la loro “scientificità” verificando quanto una teoria si adatti ad eventi storici pregressi. La “Storia” è l’unico dato empirico di validazione delle interpretazioni, fatto già di per sé bizzarro visto che: a) la storia è sempre una narrazione stesa su eventi ben più complessi; b) l’interpretazione ovvero la teoria è, a sua volta, un riduzione della narrazione storica.

Oltre a queste due sospensive ce ne è una ancora più determinante. Se accettiamo come quadro di riferimento macro-storico, ovvero di lunga durata,  il fatto di trovarci in una transizione epocale che ci sta portando dall’epoca moderna ad un’altra che ancora non ha nome sebbene cominci a mostrare una sostanza chiaramente complessa, questo ricorso al passato rischia di basarsi sulle pericolose “false analogie”.  Il ricorso al conforto di come si sono comportati gli stati nel passato al presentarsi di schemi di ordine di tipo multipolare è naturale vanga fatto, ma da quei confronti dovremmo trarre indicazioni molto relative, deboli, indiziali, poco probanti. Non siamo nella linea di uno sviluppo continuo della stessa traiettoria, siamo nella frattura profonda di un modo con un altro e quindi siamo in terra incognita dove la passata esperienza ha valore marginale.

Il che ci porta a dover trattare daccapo il concetto di “multipolare”, prima  in astratto, poi in concreto e nel concreto distinguendo i casi in cui applicarlo al passato o allo stato presente/futuro. Il fine è quello di trarne una interpretazione contemporanea ed una luce che tenta di fendere le nebbiosità dell’immediato futuro.

In astratto, il concetto di “multipolare” dice che in un dato spazio-tempo, si presenta una configurazione d’ordine con più di due attori statali potenti (poli), legati  tra loro da molteplici relazioni di potenziale offesa-difesa o equilibrio, equilibrio che va inteso sempre in modo dinamico. Il concetto s’inscrive nelle premesse del tipico contesto realista ovvero un mondo ritenuto anarchico (non “disordinato”, ma privo di legge superiore ed entità in grado di applicarla, anche con la forza, a tutti), competizione a somma zero (se un polo assume più potenza, qualche altro la perde), gli stati si comportano in maniera razionale, le potenze tendono a massimizzare il loro potere (fino ad oggi non si son presentate potenze che s’accontentano), nessuno stato può esser certo delle intenzioni di un concorrente, la potenza -in ultima istanza- s’intende in senso militare ed infine, il fondo “tragico” cioè la constatazione che la guerra è un modo della politica ed è storicamente una costante.

La teoria realista in Relazioni Internazionali (la dottrina liberale non la pendiamo neanche in considerazione poiché a nostro giudizio infondata e con una componente eccessivamente ideologico-normativa) ha opinioni di giudizio diverse sul sistema multipolare astratto. Per Hans Morghentau (realismo della natura umana) i sistemi multipolari tendono ad auto-stabilizzarsi e sono l’ideale per raggiungere l’equilibrio di potenza. In più, la dinamica di compensazione per la quale se un polo tende ad emergere un po’ troppo o manifesta comportamenti non equilibrati tutti gli altri si alleano per compensarlo, renderebbe questo ordine complesso ma sostanzialmente stabile o forse stabile proprio perché complesso e dinamico. Questo bilanciamento è detto “equilibrio di potenza” e se manca, porta disordine in via automatica, cioè date le premesse realiste. Kenneth Waltz (realismo difensivo) contestava decisamente questa fiducia di Morghentau, sostenendo che l’unico ordine stabile e stabilizzante è il bipolare e quello multipolare è prima o poi soggetto a rottura di simmetria, quindi catastrofe. Infine, John Mearshemeir (realismo offensivo), concorda in pratica con Waltz e poi fa una classificazione con il bipolare più stabile del multipolare ma questo poi distinto in equilibrato che è migliore della peggiore configurazione possibile ovvero il multipolare con uno o più poli superiori a gli altri, il multipolare sbilanciato. L’intera classificazione andrebbe poi dinamicizzata tra ascendenti e discendenti perché se un ordine sembra multipolare in statica ma uno dei poli era l’egemone e uno degli sfidanti sta crescendo velocemente in potenza, le cose certo cambiano. Così cambiano se si dà un occhio alle future prospettive di medio periodo. L’ordine più stabile tipo “pace perpetua” è quello unipolare dove c’è un solo polo detto “egemone”, ma è del tutto teorico in quanto non si è mai presentato nella storia del mondo con tassi demografici inferiori, figuriamoci oggi o domani con 7,5 o 10 miliardi di individui e più di 200 stati con tendenza ad aumentare. L’impero-mondo è più un fantasma metafisico, cosa che la nostra mente può pensare ma che non per questo può essere davvero.

I dolori più intensi e seri per il concetto di multipolare, arrivano però quando si passa dall’analitico al sintetico, quando si va ad applicare la teoria alla realtà empirica. Tra i casi di multipolare rinvenuti più spesso nel registro storico, compaiono l’Italia rinascimentale del centro-nord e l’Europa del XIX secolo a 5 – 7 poli (Russia, Austro-Ungheria, Francia, Inghilterra, Impero ottomano e poi Prussia/Germania ed Italia) ma si sarebbe potuto anche considerare il periodo degli Stati combattenti nella Cina del V-III secolo a.C.  o la Grecia Antica da cui invece alcuni traggono il concetto bipolare della “trappola di Tucidide” per dar lustro con tono colto ai commenti sulla competizione odierna USA (potenza di acqua quindi Atene)  vs Cina (potenza di terra quindi Sparta). Il riferimento all’Antica Grecia è oltretutto doppiamente sbagliato perché per altri versi Atene e Sparta non erano sole e quindi non era un semplice ordine bipolare ma tanto quando si prende di così gran carriera la strada dell’analogia a tutti ci costi, i costi di semplificazione si pagano in imprecisione.

Cosa c’è di così scandalosamente impreciso in questo ricorso al registro storico? La mancanza delle variabili co-essenziali per ogni ricostruzione di fase storica, il contesto e la eterogeneità degli attori.

Quanto all’eterogeneità, l’ordine multipolare diventa una costruzione strutturalista nella scuola realista americana che (si tenga conto  che tutti i pensatori e le idee che animano la disciplina delle RI, sono sempre e solo americani), come dice Mearsheimer, tratta gli stati o potenze come palle da biliardo, al limite più o meno grosse a seconda della potenza. Mearsheimer e tutti i realisti hanno buone ragioni per far diventare gli stati scatole nere di cui c’importa solo l’imput e l’output, ed è il rifiuto di seguire i liberali nelle loro assurde perorazioni sul fatto che le forme di governo interne a gli stati (democrazie vs varie configurazioni di autoritarismo) farebbero la differenza. Ma se i liberali rendono un po’ assurde le considerazioni sulla struttura a grana fine che distingue gli stati tra loro (struttura che si dovrebbe invece dettagliare per: grandi o piccoli? di terra o di mare? con che tipo di demografia, economia, mentalità e tradizioni, collocazione geografica, tradizione filosofico-religiosa e scientifica? a quale punto del loro ciclo storico? etc.), nondimeno queste strutture a grana fine vanno analizzate per capire la natura degli attori prima di portarli dentro le analogie. Gli stati non sono gli atomi della fisica realista, sono entità intenzionali ed autocoscienti.

La mancanza decisiva è però il non considerare il contesto. Tanto per dire una sola, unica e principale, questione che differenzia l’ordine multipolare del mondo di oggi rispetto a qualsivoglia porzione del mondo di ieri, è che quelle di ieri erano appunto “porzioni”, quello di oggi è un “tutto” che non ha un fuori. Non c’è un altro mondo in cui far sfogare le contraddizioni dell’attuale mondo multipolare mentre l’Italia rinascimentale era solo un ritaglio di un frame più grande in cui c’erano la Francia, la Spagna, lo Stato Pontificio, il Sacro Romano Impero ed il Mediterraneo, mentre nell’Europa del XIX secolo c’era la corsa alle colonie ed a gli imperi fuori d’Europa. Entrambe erano situazioni occorse in ambiente omogeneo (italiano o europeo) mentre oggi abbiamo attori molto più eterogenei e distanti nello spazio (tra Cina ed USA c’è un oceano, ad esempio, nonché più di due secoli e mezzo di differente longevità). Entrambe le situazioni erano a bassa interdipendenza tra gli attori mentre oggi l’interdipendenza è alta. Entrambe le situazioni erano a bassa o media demografia mentre oggi il mondo è al sua massimo storico di densità, così l’economia che con la demografia fornisce le coordinate del potere potenziale ma non ancora effettivo, ha oggi peso e dinamiche non parametrabili a ieri. E sul potere effettivo, quello delle armi, che differenza fa un multipolare atomico che ha almeno due poli legati tra loro dalla fatidica Mutual Assured Distruction (MAD) ma con un generico “rischio atomico” anche più ampio e diffuso? O anche solo la potenza annichilente dell’armamento “convenzionale” attuale rispetto a gli esempi pregressi? O come agisce il fattore reputazionale in epoca di opinioni pubbliche che fan da spettatori, prima che attori, dei giochi politici inter-nazionali ma i cui giudizi condizionano l’azione dei governi?

Insomma, siamo come detto in terra incognita, lì dove il ricorso all’esperienza precedente non è vietata ma va usata con un molto ampio beneficio d’inventario perché nell’inventario ci sono variabili che rendono falsa l’analogia.

Dirigiamoci quindi con prudenza ad esaminare la nuova versione di sistema multipolare mondiale a cui stiamo tendendo. C’è un’unica super potenza, gli USA e due potenze asimmetriche, una militare -la Russia-, l’altra economica -la Cina-. Chi usa i meccanismi tipici delle tradizioni di pensiero di RI o GP, a questo punto prevede che i poteri potenziali della demografia e della economia cinese, questione di tempo, verranno presto trasformati in potenza militare. Ma c’è qualcosa che potrebbe ostacolare questa predizione, almeno nella sua forma lineare.

Primo, memore della lezioni data dalla guerra fredda, la Cina starà ben attenta a non farsi trascinare nell’over-spending militare a scapito del reinvestimento nello sviluppo e nella ridistribuzione. Solo un analista da think tank americano può sottovalutare il problema delle eccessive diseguaglianze in un sistema di 1,4 mld di persone, errore che nessun cinese che conosca la storia cinese, farà mai.

Secondariamente, la Cina starà ben attenta a non eccitare l’altrui “dilemma della sicurezza”, ovvero quella situazione di incertezza per la quale ogni stato sa che se eccede nella crescita delle dotazioni militari, fossero anche per difesa, non essendo escludibile in alcun modo che ciò che oggi si crea per difesa domani possa esser usato per offesa, altro non fa che sollecitare pari riarmo nei vicini. Oltretutto, la Cina ha bisogno a prescindere di pace ed armonia nel suo quadrante strategico perché la sua principale linea strategica è sviluppare  reti commerciali. Inoltre è suo fine specifico proporsi come “potenza amica” in modalità “cooperazione e reciprocità” ad esempio nei confronti dell’Africa, evitando rozze intenzioni coloniali, aggressive o eccessivamente egoiste. Preoccupazione che poi andrebbe anche allargata poiché la Cina tende ad attrarre “clienti” prima nella sfera occidentale e quindi deve dare qualcosa in più o di meglio. Le dichiarazioni pubbliche di come la Cina vede le interrelazioni estere sono oggi -più o meno-  le stesse dalla Conferenza di Bandung del 1955 e per molti versi sembrano credibili, non per superiorità etica ma per intelligenza strategica di cui i cinesi sono dotati da un paio di millenni prima di von Clausewitz.

Infine, stante che la Cina non è attaccabile via mare dagli USA (potere frenante del mare) e dal Giappone, ha stretto un sostanziale accordo di cooperazione a largo raggio con la Russia (nel passato l’unico vero nemico potenziale dal punto di vista geografico e qualche volta storico) e sembra intenzionata ad avere relazioni amicali-sospettose ma in sostanziale equilibrio con l’India, la sua dotazione di potenza effettiva può limitarsi a rinforzare la marina, la presenza nello spazio, l’elettronica ed il digitale, porre qualche avamposto discreto in giro per il mondo, senza mettersi a sfornare carri armati e missili a nastro. Si tenga poi conto che la Cina è molto grande e popolosa e credo che l’ultimo desiderio dei suoi governanti sia quello di annettere altri territori e popolazioni, ingigantendo un problema già difficile di gestione della sua propria massa. Se la terra manca, meglio comprarla come stanno facendo in Africa o favorire una discreta diaspora come in Siberia orientale.

Gli altri due attori in che traiettoria stanno? La Russia, potenza di mezzo dell’Eurasia, posizione al contempo comoda e  scomoda strategicamente, è da ormai settanta anni oggetto di pressione da parte USA per rimanere avviluppata nella escalation di potenza militare che per lei si trasforma in un “a scapito” del progresso economico. Salvata dalla dotazione di energie e molte materie prime e sovrana alimentarmente, la Russia segue questa escalation per via dell’ovvio riflesso di sicurezza. Ma anche per via dell’interesse ad approfittare degli eventuali cedimenti delle vicine ex repubbliche già interne all’URSS che ha interesse a riportare sotto la sua sfera di influenza, per via del far virtù della necessità di produrre armi poiché sono anche beni per l’export (export che poi lega a sé eventuali partner), per via dell’importanza che storicamente ha all’interno del suo sistema di potere la burocrazia militare ed infine, per via della necessità di supportare alla bisogna alleati periferici a loro volta messi sotto pressione dagli americani. Fintanto che gli europei rimangono dentro il sistema occidental-atlantico, la Russia difficilmente si svincolerà da questa traiettoria. In prospettiva, in Russia si libererà molta terra (per via del riscaldamento globale), il che, in un mondo sempre più denso ed affollato e stante che la Russia è uno dei paesi a più bassa densità abitativa del mondo (nonché in assoluto il più grande), non è una cattiva prospettiva fatti salvi gli ovvi problemi di gestione, logistica ed integrazione di eventuali migrazioni. Per la stessa ragione, la regione polare prospiciente la costa settentrionale, diventa nuovo quadrante “caldo”.

Gli USA sono in una posizione di potenza effettiva, cioè militare, molto lontana dal poter esser insidiata da alcuno. Di contro, la loro pur ragguardevole demografia, è ben superata sia dalla Cina che dall’India, ma in prospettiva, insidiata  anche dalle crescite dei più periferici ovvero l’Indonesia, il Brasile, la Nigeria. Una volta che questi paesi, come sta succedendo con Cina ed India, si metteranno a convertire demografia in crescita economica, anche questo secondo aspetto che l’ha vista a lungo leader senza competitor, diventerà relativo. Si tenga poi conto di alcune altre variabili.

Una è la “rendita di cittadinanza” ovvero il contributo del più ampio sistema di cui si è polo, del sistema occidentale complessivo nella storia pregressa, del sistema asiatico e del sistema africano oggi ed in prospettiva. Il “centro del mondo” si sta già velocemente spostando verso oriente e questo tenderà a limitare le condizioni di possibilità per gli USA, a prescindere da quanto questi saranno in grado di puntellare i loro punti di forza e minimizzare quelli di debolezza.

Un’altra variabile da tener d’occhio sono  le soglie critiche, invisibili punti nei quali i sistemi che si stanno espandendo o contraendo, subiscono una accelerazione non lineare del moto tendenziale. Gli USA possono senz’altro assorbire una riduzione del loro peso di Pil sul totale mondiale ma ci sono appunto soglie oltre le quali gli effetti di contrazione non sono lineari, si pensi, ad esempio, al ruolo mondiale del dollaro ed a gli effetti a cascata che avrebbe anche solo una sua relativa limitazione.  Su questa resilienza nella contrazione, agisce poi in forma problematica, la strana configurazione della scala sociale statunitense che ha una élite assolutamente fuori norma e quindi idiosincratica ad ogni decrescita.

Poi c’è il disordine in cui chi è abituato a competere entro quadri legali e normativi, di norme visibili o invisibili ed in ambienti che per quanto anarchici hanno comunque infrastrutture ed istituzioni multilaterali, potrebbe faticare ad orizzontarsi in un ambiente molto meno regolato e supportato. Poiché -in macro- stiamo transitando da un mondo relativamente più semplice ad uno relativamente più complesso, la complessità diventa essa stessa un problema per chi intende garantirsi un potere così sproporzionato come quello a cui sono abituati gli americani. Di contro, si può anche ipotizzare un interesse ad accompagnare ed anzi, alimentare un certo disordine globale per alzare la domanda di “protezione”. Ma in questo caso, è molto dubbio il poter riuscire a prevedere e quindi governare tutte le dinamiche disordinanti che intenzionalmente si vorrebbero promuovere.

Infine, la vera palla al piede della potenza americana ovvero l’Europa, una Europa testardamente frazionata, bizantina, anziana,  viziata, sospesa in una bolla che riflette la sua eccezionale storia specifica ma la isola da un mondo del tutto nuovo che gli europei sembrano non comprendere realisticamente del tutto. A partire dall’ovvia constatazione che in un ordine multipolare così dinamico, l’Europa non è una potenza e non è neanche un soggetto in termini di politica estera oltreché essere economicamente e demograficamente frazionata, non esser cioè un “totale più della somma delle parti”. Condizione quest’ultima a cui si ritiene di poter far fronte con il vuoto slogan degli “Stati Uniti d’Europa” che non ha la minima condizione di possibilità di veder mai luce e sopratutto funzionare. Questo far fronte al grande problema adattivo di questa parte di mondo usando slogan che non vanno da nessuna parte, rinforza la diagnosi di disadattamento degli europei ai tempi che vengono.

Il mondo multipolare che si sta affermando, ha anche molte medie potenze, potenze regionali e qualche significativa piccola potenza locale in grado di ostacolare giochi che una volta i geografi imperiali britannici progettavano al calduccio dei protetti salotti londinesi sorseggiando il loro tè rituale. Per segnare le cartine del mondo, oggi servono cose un po’ più complesse che non le matite. Più in generale, questo mondo tende alla convergenza degli indici economici (veniamo dalla grande divergenza ma andiamo verso la grande convergenza tra grandi aree), crea reti regionali più dense delle reti genericamente globali, tende al pluralismo dei grandi enti internazionali (banche, investimenti, culture, tradizioni, ambiti di cooperazione, piazze finanziarie, forum diplomatici), offre alternative a quello che prima era un monopolio, pone le economie che si emancipano da posizioni primitive in grande vantaggio dinamico rispetto alle economie mature, oltre a tutte le varie e preoccupanti articolazioni del problema ambientale, semplice da citare ma molto complesso da descrivere. Infine, le grandi cornici ideologiche che legavano élite e popoli nazionali intenti nell’opera di “civilizzazione” del colonialismo e dell’ imperialismo europei, l’afflato repubblicano dei napoleonici, il fascismo, il nazismo, il comunismo ed il liberalismo con i loro antagonisti simmetrici che animarono il ‘900, sono assai depotenziate e non si vede chi altro potrebbe prenderne il posto a parte qualche gruppo di islamisti suicidi finanziati dall’Arabia Saudita. Si può come senz’altro si sta facendo con la Russia, nazificare il nemico dirigendo le fila del concerto mediatico, ma da qui a poterci far perno per convincere le opinioni pubbliche dell’inevitabilità di una guerra diretta ce ne corre.

A quale tipo di ordine multipolare ci avviamo, quindi? E come si comporterà, almeno all’inizio, il sistema multipolare in un mondo denso ed intrecciato, un sistema che per la prima volta è multi-atomico e quindi soggetto a più vincoli di “reciproca, distruzione assicurata” (sempre che si voglia continuare a sottostimare il potenziale bellico convenzionale che per molti aspetti non gli è secondo)? Il quadro prima disegnato ha sintesi nella definizione di “multipolare sbilanciato” in cui la superpotenza americana non può certo sperare di aumentare raggio ed intensità del proprio potere, non può accontentarsi di uno status quo perché comunque trascinata in basso dalla dinamica tra le parti del sistema mondiale e deve quindi resistere il più possibile nel mantenere i propri ancora significativi vantaggi, nel mentre tenta di rallentare l’ascesa degli sfidanti. Deve farlo nel quadro problematico dello stato del mondo prima accennato e con una gran proliferare di attori medi e piccoli che seguono ognuno una propria traiettoria. Ancora con una leadership solida nel potere effettivo (militare), il problema americano risiede nel potere potenziale, nel rapporto tra il suo essere meno del 5% della popolazione mondiale con un potere economico che ancora domina il 25% dell’economia mondiale anche sulla scorta di un ancor più ampio potere finanziario.

Il vincolo della reciproca distruzione assicurata, per gli USA, vale non solo verso i russi ma anche i cinesi poiché è chiaro che questi due, al di là della loro reciproca competizione per altri versi naturale essendo vicini, avendo punti di forza complementari, hanno ben chiaro il comune interesse, loro e di molti altri, a che si stabilisca un vero quadro multipolare bilanciato. La crescita della loro attuale cooperazione è di fatto un’alleanza difensiva non detta. Cina, India, Sud Est asiatico, Pakistan, le due Coree, l’Africa e il Sud America hanno tutti interesse a non imbracciare le armi nel mentre crescono economicamente e socialmente. Anche la Russia, se potesse,  avrebbe urgenza di dedicarsi di più al suo sviluppo piuttosto che dissanguarsi nella rincorsa di potenza col gigante americano. Da questo corso, non sarebbero in teoria distanti, se fossero liberi da condizionamenti di altro tipo, neanche i giapponesi e gli europei. Gli unici che davvero hanno interesse a far pesare nel quadro la super potenza di cui sono ancora proprietari sono gli Stati Uniti d’America e qualche potenza locale in Medio Oriente.  Si potrebbe leggere l’intero quadro come un film della transizione tra un assetto sbilanciato ad uno più bilanciato e quindi segnato dalla sfida economica degli ascendenti verso il discendente americano che resisterà in tutti modi. Ma come, se in ultima istanza il conflitto diretto è sconsigliato dal vincolo atomico?

Quello nel quale siamo già immersi è un sistema multipolare sbilanciato con conflitto permanente. Potremmo dar nome a questa interpretazione come nuovo “realismo complesso”, un realismo che reinterpreta le costanti storiche all’attualità del mondo di oggi profondamente diverso da quello di ieri. “Conflitto” prende qui un nuovo significato che include varie forme di confronto armato ma non è riducibile solo a quello, prende il posto della guerra tradizionale dilatando però il fronte ed il tempo della tenzone. Oggi le potenze si muovono in uno scenario multidimensionale.

Il fattore demografico, la stazza, la massa di un attore, fattore sempre importante, oggi può diventare decisivo e non solo più per alimentare la propria potenza effettiva cioè armata, ma anche per il corrispettivo di crescita economica. Diventa anche un’arma nel caso di procurate migrazioni da paesi terzi verso coloro che si vogliono mettere in difficoltà. Queste migrazioni indotte si creano facilmente con le guerre per procura che oltretutto sono un vivace mercato per la sovrapproduzione dell’industria militare di cui è dotata ogni potenza. Ogni produzione ha un mercato e se la prima è maggiore del secondo, il secondo va sollecitato ad ampliarsi e/o intensificarsi. Questo gioco periferico che non riguarda il confronto diretto tra potenze, ha poi il vantaggio di tenere occupato il nemico dietro gli alleati che combattono i nostri amici in quel specifico teatro e quindi rinforza i legami di amicizia e dipendenza interni al polo. Il mondo è pieno di minoranze, popoli senza stati, confini precari disegnati dai francesi o dagli inglesi nel periodo coloniale, il catalogo delle occasioni di conflitto potenziale è molto ampio. I popoli sono molti di più degli stati e quindi il gioco delle nazioni in cerca di sovranità è facile da attivare.  L’ideologia islamista è un potente alleato di questa strategia per chi ha lo stomaco di usarla mentre sbraita nel simularne il contenimento. Incidenti in acqua o in aria possono sempre accendere l’attenzione su qualche quadrante di mondo e mandare messaggi che sfruttano la naturale paranoia da sicurezza di qualsiasi stato, specie se potenza emergente o alleato debole del polo nemico. Gli incidenti procurati possono essere ottime scuse per elevare sdegno morale propedeutico a più prosaiche sanzioni, dazi commerciali, blocchi navali, interdizioni dello spazio aereo. Molto conflitto non è pubblico ma si avvale delle consuete reti spionistiche e contro-spionistiche ed oggi c’è tutto un campo nuovo in cui giocare a rubarsi segreti e dati, la rete di tutte le reti. C’è poi lo spazio, nuova frontiera per novelli capitani Kirk, satelliti che scrutano, lanciano raggi accecanti o distruttori, coordinano l’ingegneria e l’elettronica dei nuovi sistemi militari soprattutto missilistici e navali. Conflitto è anche mostrare nuove armi che solleticano i generali della parte avversa che chiedono fondi ulteriori per pareggiare i conti disegnando sciagure e tragedie certe ed altrimenti inevitabili, anche perché potranno far leva politica sull’opinione pubblica in stato perenne di sovreccitata paura. Anche solo nell’accezione puramente armata del “conflitto”, evitando il confronto diretto, ci sono molte occasioni in modalità indiretta. Se la linea strategica obbligata è frenare il ribilanciamento tra potenze, cosa meglio di un attrito distribuito ovunque?

Poiché però il conflitto è “multidimensionale” ecco anche la sua versione  economica e produttiva ma anche politica e di opinione. I tentativi di monopolio energetico o di materie prime tutte essenziali, anche e soprattutto quelle per lo sviluppo del digitale che ha il fronte commerciale ma anche quello militare ed aerospaziale. Seppellita la globalizzazione semplice 1.0, si va ad una rete di contrattazioni, aperture-chiusure, formazione di blocchi in un sistema dotato di vari sottosistemi, quindi più complesso. Poi c’è il conflitto finanziario, società di rating, grandi fondi in grado di scuotere il mercato a bacchetta, l’altalena dei cambi valutari, i ricatti su i debiti sovrani.

Poi c’è l’egemonia culturale, mostrarsi i migliori, i più attraenti, i più benevoli quindi far di tutto per mostrare che il nemico è tra i peggiori, fa moralmente ribrezzo, è repellente e malevolo, infingardo, non ha legittimità. Ci sono i boicottaggi, il rinserrare le fila delle proprie istituzioni multilateriali,  i propri fondi monetari, le banche per lo sviluppo, i progetti di cooperazione da cui ostracizzare il nemico ed i suoi amici. Poi c’è da far uscire scandali a ripetizione, fondi neri, paradisi fiscali improvvisamente sotto i riflettori per una settimana, uso di armi proibite, leader nemici dai dubbi gusti sessuali, storie di droghe, perversioni, bugie dette, inaffidabilità degli altrui standard, sgarbi diplomatici, fake newsper avvelenare la credibilità generale di tutti indistintamente in modo da paralizzare il discorso pubblico. C’è il controllo digitale e il ricatto (quello pubblico ma molti altri di cui neanche abbiamo notizia), il divide et impera, il bait and bleed (falli scannare tra loro), il dissanguamento economico del nemico stressato in decine di micro-conflitti, il più composto bilanciamento di potenza e lo scaricabarile in cui si lascia la nemico l’ònere e l’onore di districare matasse che si sono ben aggrovigliate con le proprie mani e che si disordinano mentre l’altro tenta di metterle in ordine. Poi c’è l’arte di mettere zizzania dentro gli equilibri del nemico, militari contro politici, imprenditori contro militari, società civile contro élite, varie élite contro altre élite, eccitare i nazionalismi dormienti e poi far chiasso per ogni ingiusta repressione delle minoranze, far confliggere le diverse osservanze religiose. Sovreccitare i vicini del nemico, mettere in dubbio i legami di alleanza dentro un polo, isolarlo, stringergli le condizioni di possibilità, acuirne le contraddizioni.

Infine, per palati forti,  c’è l’angolo si dice ma non ci si crede del Dark Word, innesti uomo-macchina, psicobiologia, manipolazione del clima, agenti tossici selettivi, avvelenamenti alimentari ed epidemie progettate in laboratorio, piani segreti, oscure congreghe, centri di interesse invaginati in centri di interesse, bio-chimica aggressiva e molto molto altro che noi, pur mediamente informati, neanche immaginiamo. Prima di dubitare a priori all’entrata di questo Dark World come se il mondo fosse proprio quello proiettato sullo schermo del cinematografo che scambiamo per realtà,  collegatevi a quella vostra porzione di cervello che è inorridita a leggere il sadismo medioevale o la scientifica atrocità dei nazisti o dei khmer cambogiani, i vari stermini dei nativi, storie di schiavi, stupri, impalamenti, sqartamenti, profanazioni, eccidi, massacri, olocausti e tutta la scienza e tecnica che si è spremuta per giungere a quel risultato. L’uomo è sublime e malvagio da sempre, non c’è motivo di escludere a priori l’esistenza di una costante preparazione al conflitto anche nei dungeon del mondo degli inferi. Oltretutto, questa ricerca silenziosa del primato che darebbe qualche vantaggio non calcolato dal nemico, dà poi una cascata di benefici secondi di invenzioni sfruttabili civilmente.

lnsomma il conflitto è da intendere in forma multidimensionale e diventa permanente poiché non si apre-chiude con una guerra tradizionale, diventa la cifra stessa di un sistema multipolare che alcuni vorranno riportare a bipolare o quantomeno mantenere sbilanciato mentre altri vorranno portarlo a bilanciato per poi farsi venire l’appetito di esser loro la nuova super-potenza che lo sbilancia dandosi un vantaggio di potenza. Il vincolo atomico non porta la pace perpetua ma il conflitto permanente e diffuso a medio-alta intensità. Questa è la condizione di un pianeta a prossimi 10 miliardi di abitanti in lotta, chi per la sopravvivenza e chi per il primato gerarchico, chi per l’essere e chi per l’avere.

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Questo è il mondo multipolare a cui dovremmo adattarci, in cui ci piaccia o meno, tutte le nostre preoccupazioni ed interessi, personali e collettivi, politici ed economici, ideali e pragmatici, i nostri sogni e le paure, le speranze e le delusioni, saranno tutte per vie che molti non vedono con chiarezza e molti non vedono per niente, determinate da questo che è il gioco di tutti i giochi. Noi tutti, dentro i nostri stati, siamo le pedine. Siamo più in modalità, lunga e continua sofferenza e crescente disordine dall’esito imperscrutabile, che morte rapida e violenta da “terza guerra mondiale”. Questo è il conflitto permanente che segnerà il gioco di tutti i giochi di questa prima fase del nuovo mondo multipolare e con questo dovremmo fare realisticamente i conti scegliendo il nostro modo di stare al mondo prima che sia il mondo strattonato dai giochi di potenza, a deciderlo per noi.

Bibliografia minima:

H. Morghentau, Politica tra le nazioni, Il Mulino 1997 (introvabile)

K. Waltz, Teoria della politica internazionale, il Mulino 1987

J. Mearsheimer, La logica di potenza, UBE 2003-8

B. Milanovic, Ingiustizia globale, Luiss 2017

G. Arrighi, Caos e governo del mondo, Bruno Mondadori 2006

C. Kupchan, Nessuno controlla il mondo, il Saggiatore 2013

H. Kissinger, Ordine mondiale, Mondadori 2015

LA STRADA SMARRITA DELLE èlites globaliste, di Giuseppe Germinario

Ormai si può affermare con ragionevole certezza che la modalità multipolare attraverso la quale si stanno delineando le relazioni tra i vari stati e i vari centri strategici all’opera si stia affermando definitivamente. Siamo ancora ad un confronto nel corso del quale i punti di attrito tra le forze principali emergono in maniera più o meno casuale, legati come sono al manifestarsi di ambizioni variamente vellicate di potenze locali e regionali.

La strada per arrivare alla definizione di più aree di influenza stabilizzate attorno alle potenze emerse è ancora lunga e non è detto che alla fine ci si arrivi. La questione è tutt’altro che definita sia all’interno degli USA che tra i vari centri in competizione.

Un sistema policentrico è quindi ancora lungi da affermarsi; una incertezza ed una laboriosità che lascerà spazi sempre più ampi ad una conflittualità endemica e asimmetrica ancora per diverso tempo.

Non sono i pur numerosi focolai di tensione a rendere palpabile questo cambiamento, quanto piuttosto l’atteggiamento psicologico, impensabile sino a pochi anni fa, di quelle élites globaliste solo un attimo fa sicure di essere prossime alla meta di un Nuovo Ordine Mondiale.

L’articolo del CFR (Conseil on Foreign Relations), l’ultimo di una serie apparsa sul sito e sulla rivista di emanazione “Foreign Affairs”, pubblicato nel post precedente di Italia e il mondo, da questo punto di vista è illuminante. http://italiaeilmondo.com/2018/04/02/lordine-mondiale-liberale_r-i-p-a-cura-di-gianfranco-campa/

LA RECRIMINAZIONE

L’impulso che informa il testo è la recriminazione, un sentimento assolutamente incompatibile con la dichiarata volontà di dominio e di potenza di una élite e di una classe dirigente.

Di primo acchito colpiscono la rozzezza e la strumentalità degli esempi addotti a sostenere le proprie tesi, in gran parte smentiti fragorosamente dalle stesse fonti ufficiali di riferimento dell’organizzazione.

Il florilegio inizia con la constatazione della mancata reazione all’utilizzo dei gas nella guerra civile in Siria ad opera delle forze leali ad Assad, episodio formalmente smentito dai rapporti dell’ONU; prosegue con la denuncia della violazione da parte russa del principio di intangibilità dei confini, riferito all’intervento in Georgia e soprattutto in Ucraina, glissando elegantemente sul precedente del Kossovo, apertamente sostenuto da Stati Uniti e NATO. Glissa con disinvoltura sull’impegno disatteso a non estendere l’ombrello atlantico sino a qualche decina di chilometri da Pietroburgo e centinaio da Mosca nonché sulla discriminazione sempre più scoperta delle popolazioni russe rimaste intrappolate all’esterno dei nuovi confini post-guerra fredda; insiste a coprire la sistematica opera di destabilizzazione delle primavere arabe e delle rivoluzioni colorate, anche esse ormai ampiamente documentate, con la difesa e l’imposizione discrezionale del rispetto dei diritti umani; si ostina penosamente a condannare l’azione di infiltrazione russa negli States, ancora tutta da dimostrare, sorvolando sulle analoghe attenzioni, queste sì documentate, riservate in egual misura ad amici e nemici del costruendo Nuovo Ordine Mondiale.

Un campionario di affermazioni che fa giustizia delle pretese di serietà e di autorevolezza odierne di tale associazione.

Il CFR americano, al pari del suo omologo simbiotico gemello britannico RIIA (Royal Institute of International Affairs) ormai declinante, è un gruppo di influenza sorto nel primo dopoguerra con lo scopo di assumere un ruolo chiave nella determinazione della politica estera e nella selezione della classe dirigente. Un compito assolto egregiamente soprattutto nel secondo dopoguerra e che sembrava aver raggiunto l’apoteosi e la consacrazione definitiva con l’implosione del blocco sovietico. Non che all’azione e alle analisi fossero estranee forzature, macchinazioni e trame prosaiche; tutt’altro.

Erano tuttavia rese credibili ed accettabili dalla incontrastata, almeno all’interno dell’area di influenza, forza militare di supporto, dalla forza persuasiva del softpower e del modello di vita proposto, dal successo complessivo delle strategie e dall’esistenza di un valente avversario sufficientemente definito e perimetrato da inibire le altrui conflittualità interne più perniciose.

L’estensore dell’articolo in effetti riconosce la funzione della formazione dominante, in particolare della sua forza militare, nell’assicurare “un mondo globalizzato di pace”, salvo poi confessarne inconsapevolmente l’attuale impotenza.

L’implosione del blocco sovietico, dietro la parvenza di acquisizione del dominio assoluto ha sconvolto in realtà rapidamente gli equilibri interni di questo assetto, in particolare nella casa madre e ha rivelato l’impossibilità e incapacità di gestire o quantomeno orientare l’insieme delle dinamiche politiche del pianeta.

L’ILLUSIONE

In quegli anni, a partire da metà anni ’80, ripresero piede particolari teorie, tuttora largamente influenti le quali vedevano il mondo governato da una infinitesima minoranza, espressione per lo più di élites finanziarie (il famoso 1%), raccolte in associazioni potentissime (appunto Bilderberg, CFR e poche altre) alle quali contrapporre nelle interpretazioni più semplicistiche l’azione del 99% delle masse restanti, in quelle un po’ più articolate anche quella degli stati nazionali, anch’essi minacciati dai malintesi processi di globalizzazione.

A differenza dei tribuni e dei demagoghi che si sono avvicendati ad alimentare e gestire le orde magmatiche ed erranti di protestatari, gli appartenenti a questi gruppi, per lo meno gli elementi più influenti, hanno tenuto sempre presente la funzione politica indispensabile degli strumenti coercitivi, l’attualità e comunque il mantenimento delle proprie radici originarie nella formazione egemone.

Nell’illusione di poter gestire la complessità delle relazioni nell’agone mondiale sono però in buona parte e in qualche maniera caduti, a loro modo, nella trappola di quelle teorie, forse ingannati dalla parvenza di onnipotenza e dalla estrema mobilità di alcune loro funzioni, in particolare finanziarie. Hanno, in particolare, ribaltato i pesi e gli equilibri tra le varie funzioni e strutture di potere.

Dando per scontato il successo del multilateralismo, il funzionamento reticolare quindi delle relazioni politico-economiche sotto la supervisione di una potenza egemone, hanno sottovalutato l’importanza della forza militare, specie di terra e sopravvalutato la capacità di governo e di coesione delle varie forze sparse nei paesi, interessate alla mondializzazione dei flussi.

Se in Europa tali forze hanno mantenuto ancora il predominio, in Russia sono state messe sotto stretto controllo politico. La Cina ha saputo addirittura fare di meglio e ha sfruttato l’altrui apertura dei mercati e l’ingresso controllato nel proprio territorio di imprese straniere per acquisire tecnologie, capacità imprenditoriali e risorse necessarie ad edificare una formazione ed uno stato sempre più potenti ed autorevoli.

Il softpower, la capacità di persuasione e di controllo degli strumenti di informazione, la capacità di costrizione, orientamento e controllo degli stessi strumenti economici e soprattutto finanziari sembravano assumere, secondo gli influenti teorici americani di quel momento, una importanza assoluta e una capacità di autoregolazione sufficiente rispetto al resto dell’armamentario imperiale. In sovrappiù hanno sottovalutato l’entità dei processi di destabilizzazione interna delle proprie formazioni sociali, innescati dalla digitalizzazione e robotizzazione dei processi industriali e resi ingestibili dal trasferimento massiccio di interi comparti produttivi e di servizi all’estero. Un processo in gran parte compensato dai flussi finanziari i quali hanno consentito i massicci investimenti in tecnologie e le crescenti spese militari ed assistenziali, compromettendo seriamente l’equilibrio socioeconomico e il patrimonio di infrastrutture costruito in decenni.

La crisi dei ceti medi è tutta segnata in questi squilibri e in questi processi e con essa la solidità della formazione sociale americana e l’estensione del potere interno delle sue élites. Una precarietà accentuata dalla fragilità strategica di un paese che ha perso il pieno controllo delle filiere industriali con l’importante eccezione del settore energetico.

LA CECITA’ E LA VENDETTA

Al riguardo la cecità dell’estensore dell’articolo, probabilmente espressione della cecità e dello smarrimento, forse dell’arroccamento disperato, delle stesse élites a capo del CFR, è impressionante. Finisce così per attribuire la responsabilità del processo caotico in corso alla volontà di reazione delle élites dominanti dei paesi emergenti, in particolare la Cina e la Russia senza voler vedere la famelica volontà predatoria dei centri strategici americani protagonisti della destabilizzazione in Russia e in interi continenti, compresi il loro “cortile di casa”. Una famelicità che ha costretto alcune élites e centri locali ad una vera e propria reazione di sopravvivenza, accentuando vorticosamente un naturale processo competitivo all’esterno e riducendo se stesse ad una cittadella assediata all’interno.

Qualche incertezza deve aver incrinato la sicumera di alcune di esse. Tant’è che Obama ha dovuto rinunciare, volente o nolente, ad un intervento massiccio diretto in Siria; con discrezione ha avviato la costruzione di quel muro ai confini del Messico che Trump ha solo deciso di completare e rafforzare; nel silenzio ha organizzato più rientri di immigrati clandestini del chiassoso Trump; ha promosso la stesura di trattati commerciali collettivi, sostitutivi di impraticabili accordi generalisti, ma con l’esclusione certosina della Cina e della Russia, a dispetto della sua conclamata vocazione universalistica.

Non solo. La sconfitta della Clinton, a dispetto del totale controllo mediatico e della sfacciata partigianeria delle testate, deve in parte aver risvegliato dal delirio di onnipotenza. Tant’è che il politicamente corretto è disposto a sacrificare i propri figli prediletti, Weinstein, gran mecenate di Hollywood e del Partito Democratico e Zuckerberg, gestore di Facebook, per conto dei servizi e del Washington Post, pur di chiudere i possibili canali abilmente sfruttati dallo staff di Trump. Del resto Soros lo aveva apertamente preannunciato. La soddisfazione di Trump nel vedere in difficoltà tre dei suoi più acerrimi nemici rischia di essere magra e di breve durata.

Le crociate, si sa, accecano, però e soprattutto, gli adepti alla causa e i loro profeti.

Non solo! Hanno bisogno di additare al ludibrio il reo infedele. Individuano così in Trump il nemico interno responsabile in ultima istanza di aver interrotto il processo di globalizzazione a guida unipolare americana. Lo accusano di collusione col nemico principale, la Russia e di compromettere i rapporti con la Cina, partner trattabile a loro detta.

Quello che doveva essere un confronto aspro tra centri guidati da punti di vista diversi si è trasformata in una caccia all’uomo e ai “traditori” di inaudita violenza; il rischio di spaccare una seconda volta il paese in maniera distruttiva e senza essere in grado di offrire ad esso una qualsiasi prospettiva agibile in un contesto ormai multipolare è concreto. Un contesto nel quale i colpi di mano e l’avventurismo possono trovare ampi spazi e far correre pericoli estremi, ben maggiori di quelli attuali.

Un conflitto, per altro, che impedisce l’individuazione dell’avversario principale e l’adozione di una strategia coerente, ma che sta costringendo paradossalmente al sodalizio i due principali competitori, Cina e Russia.

Piuttosto che un realistico dibattito sulle reali possibilità di tentare il rapido ripristino di una condizione unipolare o sulla necessità di accettare la pari dignità di altri concorrenti, ci si affida alle crociate. Segno che la posta in palio, in territorio americano, non è solo una redistribuzione di poteri e benefit tra le varie élites e centri strategici, ma la stessa sopravvivenza di alcuni di essi.

Piuttosto che discutere della valenza geopolitica dell’uso delle leve economiche, in particolare i dazi, nel ricollocare le alleanze, nel ripristinare il controllo sui flussi di tecnologie, nel riequilibrare l’economia e la coesione sociale interna, si trascina ancora una volta il paese nella solita crociata sul libero mercato propedeutico alla pace, a dispetto delle guerre e dei sommovimenti degli ultimi trent’anni di globalizzazione.

IL SODALIZIO

L’eventuale significativa incrinatura del sodalizio sancito in queste associazioni tra centri legati allo hard-power e quelli finanziari e mediatici saranno la cartina di tornasole e il punto di svolta in grado di innescare un rovesciamento degli equilibri. Qualche segnale è visibile, ma certamente insufficiente. È la prova, comunque, che le élites dominanti e i centri strategici decisionali non possono ridursi a risicate élites cosmopolite. Queste ultime, sebbene a malincuore, devono appoggiarsi comunque alle altre, ben radicate nei confini dei propri territori.

Una totale restaurazione in un contesto multipolare pressoché innescato potrà altrimenti dare spazio a processi ancora più incontrollabili e tragici.

Di questo l’estensore non pare minimamente preoccupato, salvo recriminare e addossare ad altri le proprie responsabilità.

Siamo noi a doverci preoccupare e ad agire di conseguenza al loro posto.

L’ORDINE MONDIALE LIBERALE_R.I.P., a cura di Gianfranco Campa

Pubblichiamo qui sotto, tradotto in italiano, un articolo apparso sul sito del CFR (Council on Foreign Relations) il 21 marzo scorso. Il testo, accompagnato da alcune note di Gianfranco Campa, è particolarmente importante più che per i contenuti, per la banalità e la rozzezza degli argomenti, soprattutto per l’atteggiamento psicologico, rivelatore di uno stato d’animo. Seguirà un articolo più ampio sull’argomento. Buona lettura_ Germinario Giuseppe

 

L’ORDINE MONDIALE LIBERALE-R.I.P.

Dopo una parabola di quasi mille anni, il filosofo e scrittore francese Voltaire scherzando afferma che il Sacro Romano Impero in declino non era né santo, né romano, né un impero. Oggi, a distanza di due secoli e mezzo, il problema, parafrasando Voltaire, è che l’ordine mondiale liberale, non è né liberale, né mondiale, né ordinato.

Gli Stati Uniti, lavorando a stretto contatto con il Regno Unito e altri paesi, istituirono l’ordine mondiale liberale sulla scia della seconda guerra mondiale. L’obiettivo era quello di garantire che le condizioni che avevano portato a due guerre mondiali in 30 anni non si sarebbero mai più verificate.

A tal fine i paesi democratici si sono impegnati a creare un sistema internazionale che fosse liberale, nel senso che doveva essere basato sullo stato di diritto e sul rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dei paesi. I diritti umani dovevano essere tutelati. Tutto questo avrebbe dovuto essere applicato su scala planetaria e contestualmente la partecipazione sarebbe fondata su base volontaria e aperta a tutti. Molte istituzioni furono costruite per promuovere la pace (le Nazioni Unite), lo sviluppo economico (la Banca mondiale) e il commercio e gli investimenti (il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio).

Tutto questo era sostenuto dalla potenza economica e militare degli Stati Uniti, da una rete di alleanze tra Europa e Asia e dalle armi nucleari necessarie a scoraggiare l’aggressione. L’ordine mondiale liberale si basava quindi non solo su ideali democratici, ma anche sulla minaccia dell’uso di forza bruta. Tutto ciò sopravvisse ad una Unione Sovietica decisamente illiberale, dalla nozione fondamentalmente diversa da ciò che costituiva l’ordine in Europa e nel mondo.

L’ordine mondiale liberale sembrava essere più robusto che mai con la fine della Guerra Fredda e il crollo dell’Unione Sovietica. Ma oggi, un quarto di secolo dopo, il suo futuro è in dubbio. Le sue tre componenti – il liberalismo, l’universalità e la preservazione dell’ordine stesso – vengono messe a dura prova come non era mai successo prima nel corso dei suoi 70 anni di storia.

Il liberalismo è in ritirata. Le democrazie sentono gli effetti del crescente populismo. I partiti dalle estreme ideologie hanno guadagnato terreno in Europa. Il voto nel Regno Unito a favore dell’uscita dall’UE ha attestato la perdita di influenza da parte dell’élite dominante. Persino gli Stati Uniti stanno subendo attacchi senza precedenti ad opera del proprio stesso Presidente, impegnato a colpire direttamente le istituzioni dei mass-media, della giustizia, delle forze dell’ordine e di intelligence; i capisaldi del paese. I governi autoritari, tra i quali Cina, Russia e Turchia, sono diventati ancora più chiusi su se stessi. Paesi come l’Ungheria e la Polonia sembrano non interessarsi al destino delle loro giovani democrazie.

È sempre più difficile parlare del mondo come se fosse un tutt’uno . Stiamo assistendo all’emergere di ordini regionali,  ognuno con le proprie caratteristiche. I tentativi di costruire una intelaiatura globale sta fallendo. Il protezionismo è in aumento; l’ultimo turno di negoziati sul commercio globale non è stato completato. Ci sono ancora poche regole che governano l’uso del cyberspace.

Allo stesso tempo, sta tornando la tensione e la rivalità fra varie potenze. La Russia ha violato la norma più basilare delle relazioni internazionali quando ha usato la forza armata per cambiare i confini in Europa e ha violato la sovranità degli Stati Uniti attraverso i suoi sforzi per influenzare le elezioni del 2016. La Corea del Nord ha ignorato il forte consenso internazionale contrario alla proliferazione delle armi nucleari. Il mondo è rimasto a guardare mentre gli abusi umanitari erano incorso in Siria e nello Yemen, senza nessuna iniziativa né dell’ONU, né di altre entità in risposta all’utilizzo di armi chimiche da parte del governo siriano. Il Venezuela è uno paese ormai fallito. Oggi una persona su cento al mondo è rifugiata o sfollata.

Ci sono diversi motivi per cui tutto questo sta accadendo e perché proprio ora. L’ascesa del populismo è in parte una risposta ai redditi stagnanti e alla perdita di posti di lavoro, dovuta principalmente alle nuove tecnologie, ma ampiamente attribuita alle importazioni e agli immigrati. Il nazionalismo è uno strumento sempre più utilizzato dai leader per rafforzare la propria autorità, specialmente in condizioni economiche e politiche difficili. Le istituzioni globali non sono riuscite ad adeguarsi ai nuovi equilibri di potere e alle tecnologie.

Ma l’indebolimento dell’ordine mondiale liberale è dovuto, più di ogni altra cosa, al mutato atteggiamento degli Stati Uniti. Sotto la presidenza di Donald Trump, gli Stati Uniti hanno deciso di non aderire al partenariato transpacifico e di ritirarsi dall’accordo sul clima di Parigi. Trump ha anche minacciato di abbandonare l’accordo di libero scambio nordamericano e l’accordo sul nucleare iraniano. Ha introdotto unilateralmente tariffe sull’ acciaio e l’alluminio, basandosi su una giustificazione (sicurezza nazionale) che anche altri paesi potrebbero usare; un processo che potrebbe innescare una guerra commerciale. Ha posto dubbi sul suo impegno nei confronti della NATO e di altre forme di alleanza. E parla raramente di democrazia o diritti umani. L’America Prima sembrano incompatibili con l’ordine mondiale liberale.

Il mio punto non è quello di concentrare sugli Stati Uniti tutte le critiche. Altre importanti potenze, tra cui l’UE, la Russia, la Cina, l’India e il Giappone, potrebbero essere criticate per quello che stanno facendo o non facendo. Ma gli Stati Uniti non sono come altri paesi. Gli Stati Uniti erano non solo il principale artefice dell’ordine mondiale liberale ma anche il suo principale sostenitore e beneficiario. La decisione dell’America di abbandonare il ruolo che ha svolto per più di sette decenni segna così un punto di svolta. L’ordine mondiale liberale non può sopravvivere da solo, perché gli altri non hanno né l’interesse né i mezzi per sostenerlo. Il risultato sarà un mondo meno libero, meno prospero e meno pacifico, sia per gli americani che per gli altri.

https://www.cfr.org/article/liberal-world-order-rip?utm_medium=social_share&utm_source=fb

 

IL COMMENTO DI GIANFRANCO CAMPA

Questo senso di scoramento da parte delle élites è iniziato e precipitato dopo le elezioni di Trump. Il pessimismo li rende diabolicamente esposti e totalmente spogliati delle loro certezze. E’ ormai da tempo che circolano analisi sul tramonto dello stato globale; questa non è una notizia nuova. Quello che piuttosto colpisce non è solo la pubblicazione dell’articolo da parte del CFR (Council on Foreign Relations), uno dei maggiori e più importanti think tanks che supportano il cosiddetto globalismo e il nuovo ordine mondiale. Non è nemmeno l’unico articolo che il CFR ha dedicato al tramonto del nuovo ordine mondiale. Colpisce soprattutto la banalità dell’articolo, la leggerezza della analisi, piena di frasi fatte quasi a denotare il senso di disperazione e impotenza di questi potenti individui. Segno che la situazione sta realmente sfuggendo loro di mano. Tra l’altro l’articolo parla di un ordine mondiale in cui le sovranità nazionali sono rispettate. L’autore a questo punto può solo essere tacciato di disonestà oppure di ignoranza. Chi di spada ferisce di spada perisce.

Quando parla di sovranità non menziona che, soprattutto in Europa, la perdita di sovranità nazionale, giuridica, legale, militare, monetaria in paesi come l’Italia, la Grecia, la Spagna, ha influenzato negativamente l’opinione pubblica sulla necessità di un mondo globale. Le politiche di austerità hanno fatto il resto. L’autore denuncia il fatto che una persona su cento oggi come oggi sono rifugiati o sfollati ma si dimentica di analizzare l’impatto negativo che l’immigrazione di massa incontrollabile ha avuto sull’opinione pubblica. Parla di un mondo di pace globale che ha scongiurato una nuova guerra mondiale, ma si dimentica di ricordare i danni e il caos che guerre e bombardamenti negli ultimi anni hanno creato, destabilizzando intere aree geografiche; tutto nel nome di questo nuovo ordine mondiale. Come dimenticare il bombardamento della Serbia, la Guerra in Afghanistan, in Iraq (due volte), in Libia, in Siria, ect. Il peggior nemico di questi signori globalisti elitisti sono loro stessi, non Trump. Trump è il sintomo di una malattia più grande e profonda che loro hanno contribuito a creare.  La vera novità è che ormai queste organizzazioni globaliste non solo hanno paura e quindi denunciano apertamente l’erosione evidente nel loro piano di ordine mondiale, ma sono ormai entrati nella fase successiva; la disperazione di chi sa di aver perso per sempre il controllo della situazione. Questo spiega ora anche l’approssimazione delle loro analisi.

Per chi non lo sapesse il CFR è stato storicamente uno dei maggiori architetti di questo nuovo ordine mondiale.

Qualche nota, giusto per fare un veloce riassunto di cosa sia il Council On Foreign Relations. Uno dei fondatori del CFR è stato David Rockefeller. L’obiettivo del CFR era la formazione di un governo mondiale incrementalmente più forte. L’Ammiraglio Chester Ward, ex Giudice Avvocato della Marina degli Stati Uniti, è stato membro del CFR per 16 anni prima di dimettersi disgustato. Ha dichiarato: “Lo scopo principale del Council on Foreign Relations è promuovere il disarmo della sovranità degli Stati Uniti e l’indipendenza nazionale, la sommersione in un governo monopolistico onnipotente“.

Dopo la seconda guerra mondiale, nacquero le Nazioni Unite, il successore della Lega delle Nazioni. Contrariamente a ciò che viene comunemente detto al pubblico, l’ONU non è stata fondata da nazioni esauste della guerra. L’ONU è stata concepita da un gruppo di membri del CFR nel Dipartimento di Stato che si autodefinirono il Gruppo di Agenda informale. Hanno redatto la proposta originale per le Nazioni Unite e ottenuto l’approvazione del presidente Roosevelt il quale ha poi fatto stabilire all’ONU la sua più alta priorità politica postbellica. Quando l’ONU tenne la sua riunione di fondazione a San Francisco nel 1945, 47 delegati americani erano membri del CFR. Sebbene inizialmente l’ONU non fosse stata istituita come un governo mondiale, l’intento era che si sarebbe trasformata nel tempo in governo mondiale. John Foster Dulles (CFR), un delegato americano alla riunione di fondazione delle Nazioni Unite che in seguito divenne Segretario di Stato sotto Eisenhower, lo ha riconosciuto nel suo libro Guerra o Pace: “Le Nazioni Unite non rappresentano una fase finale nello sviluppo dell’ordine mondiale, ma solo uno stadio primitivo. Pertanto il suo compito principale è creare le condizioni che renderanno possibile un’organizzazione più altamente sviluppata.

Altre due istituzioni postbelliche, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, sono state create tecnicamente alla Conferenza di Bretton Woods del 1944. Ma la pianificazione iniziale è stata fatta dal gruppo economico e finanziario del CFR, parte del loro programma bellico di guerra e di studi sulla guerra. La Banca Mondiale e il FMI agiscono come un sistema di garanzia dei prestiti per le banche multinazionali. Quando un prestito in un paese straniero va male, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale entrano in azione con il denaro dei contribuenti, garantendo che le banche private continuino a ricevere i pagamenti di interessi. Inoltre, la Banca Mondiale e il FMI dettano le condizioni ai paesi che ricevono salvataggi, dando così ai banchieri una misura di controllo politico sulle nazioni indebitate.

Riguardo a   “La complessità di un mondo multipolare – Videointervista a Pierluigi Fagan”, di Massimo Morigi

Riflettendo in queste pagine dell’ “Italia e il mondo” sul   “ “Che fare” di Carl Schmitt. Europa, nuovi stati, Nomos del mondo” di Pierluigi Fagan (sempre pubblicato in questo blog) riassumevo nei seguenti termini il mio pensiero in merito all’odierno stato della scienza politica ritenendo che, pur nella differenza di impostazione nell’affrontare la storia del pensiero politico  fra lo scrivente e Fagan (a mio giudizio un eccesso di schematismo classificatorio in Fagan che lo porta a trascurare la presenza o meno della componente conflittuale-strategica dei singoli pensatori: «Ci sono pensatori politici di due tipi, quelli che rimangono teorici e quelli che bordeggiando contingenze pratiche, finiscono con l’addomesticare la propria teoria alla contingenza», scriveva in quell’intervento Fagan riferendosi a Carl Schmitt, accusando quindi il suo pensiero di strumentalismo e trascurandone perciò la drammatica ed euristicamente fondamentale  dialettica del confronto della teoria con la prassi politica), Pierluigi Fagan fosse pienamente convergente con me  nel cogliere il terribile deficit di pensiero che caratterizza le odierne classi dirigenti politico-intellettuali delle cosiddette democrazie rappresentative: «Conclusione che non conclude ma che (dovrebbe) aprire il cantiere del rapporto fra prassi e teoria politica: c’è indubbiamente diffusa una rinnovata consapevolezza che le vecchie mitologie politiche liberali e democraticistiche non stanno più letteralmente in piedi; ma c’è in tutti noi indubbiamente il bisogno di un rinnovato ed approfondito sforzo teorico-pratico per rimpiazzare queste consunte mitologie politiche. E l’odierno contributo di Pierluigi Fagan senza dubbio si inserisce validamente in quest’alveo.» Ora riguardo a “La complessità di un mondo multipolare – Videointervista a Pierluigi Fagan” pubblicata in tre parti in questo blog (caricata anche su YouTube e sulla quale piattaforma viene pubblicata nelle sue tre parti anche sul seguente unico URL  https://www.youtube.com/watch?v=MBVEzL4hsL0), non posso che confermare – e rafforzare – il mio giudizio totalmente positivo su questo studioso, giudizio positivo ulteriormente confermato in ragione non solo del fatto che nell’intervista Fagan ribadisce e argomenta ulteriormente l’attuale crisi che attraversa la teoresi politica ma fornisce anche indizi per fornire un contesto storico alla stessa. Per Fagan questa crisi di pensiero risale principalmente al periodo fra il primo ed il secondo dopoguerra (cita come esempio e della debolezza intrinseca di questo pensiero ed anche della scarsa produttività dello stesso il progetto della Paneuropa di Richard Nikolaus von Coudenhove-Kalergi e il Manifesto federalista di Ventotene di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, risibili non solo per la – dirigistica ed autoritaria –  utopicità di voler federare un’Europa che al massimo presa nel suo insieme, nell’insieme cioè delle sue immense differenze, potrebbe aspirare ad una confederazione ma anche ridicoli nel senso che sono state le uniche nuove proposte di un Vecchio continente in crisi che, invece, sul piano culturale ed artistico si era contraddistinto come l’iperproduttiva fucina della modernità); mentre, a mio giudizio, la crisi del pensiero politico moderno (e la crisi del Vecchio continente tout court, le quale due cose, come è di tutta evidenza, sono strettissimamente correlate) va piuttosto collegata col trauma della seconda guerra mondiale, conflitto che ha significato accanto alla giusta e sacrosanta damnatio memoriae del totalitarismo nazista e fascista anche la damnatio memoriae di un qualsiasi pensiero  non  di stretta osservanza universalista, liberale e/o comunista-internazionalista che fosse. Ma queste sono non dico questioni di dettaglio (non lo sono di dettaglio sia perché anche l’universalismo politico e filosofico possiede una sua dialetticità storica, e a seconda o no che si concordi sulla realtà di  questa dialetticità si è o reazionari –  absit iniuria verbis! – o appartenenti ad una tradizione realista-strategica ed intrinsecamente dialettica (Machiavelli, Mazzini, Marx, Gramsci, il György Lukács di Storia e coscienza di classe) ma certamente problemi che però non riescono ad occultare il fatto principale – e puntualmente rilevato da Fagan – che la crisi del pensiero politico occidentale – e della sua filosofia – non deriva dal fatto che la teoria ha giocato tutte le sue carte ma dal semplice dato di fatto che la crisi geopolitica dell’Europa, che ha avuto il suo acme nel Secolo breve, non poteva non produrre anche una contemporanea crisi di pensiero: non grande importanza, allora stabilire l’esatto terminus a quo, l’importante è avere ben presente il processo. Al giorno d’oggi la vera nobilitate di un pensiero e di un pensatore è sulla consapevolezza di questo inestricabile e dialettico nesso fra dato geopolitico e/o storico e dato teorico che si misura. Da questo punto di vista il pensiero di Fagan veramente molto attento, come ama concepirlo Fagan, al dato della “complessità” del mondo contro ogni ideologico tecnicismo ed invadente ed autoritaria tecnocrazia (ma noi, preferiamo dire: estremamente sensibile alla storicità e dialetticità dell’agire umano) si colloca veramente con grande autorità nell’alveo storicista di una filosofia della prassi che ha compreso che non esiste una evoluzione della teoresi politica qualora questa si consideri separata dalla “bassa” pratica del cambiamento del “politico”. E di questa non piccola consapevolezza dobbiamo continuare a ringraziare Pierluigi Fagan.

 

 

Massimo Morigi, 31 marzo 2018

 

 

 

 

 

 

 

La complessità di un mondo multipolare. Videointervista a Pierluigi Fagan_3a parte

Qui sotto il link della terza ed ultima parte dell’intervista. Pierluigi Fagan ha svolto per oltre venti anni la professione di imprenditore e manager. Da oltre tredici si è dedicato intensamente allo studio in vari campi, privilegiando in particolare l’ambito filosofico e teorico-politico. Nel 2016 ha pubblicato un libro edito da Fazi dal titolo: VERSO UN MONDO MULTIPOLARE, il gioco di tutti i gioche nell’era Trump. Buon ascolto

La complessità di un mondo multipolare. Videointervista a Pierluigi Fagan_2a parte

Qui sotto il link della seconda delle tre parti dell’intervista. Pierluigi Fagan ha svolto per oltre venti anni la professione di imprenditore e manager. Da oltre tredici si è dedicato intensamente allo studio in vari campi, privilegiando in particolare l’ambito filosofico e teorico-politico. Nel 2016 ha pubblicato un libro edito da Fazi dal titolo: VERSO UN MONDO MULTIPOLARE, il gioco di tutti i gioche nell’era Trump. Buon ascolto

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