Italia e il mondo

LA CRISI DELL’ESTETICA TRASCENDENTALE OCCIDENTALE: 2. IL TEMPO, di Pierluigi Fagan

LA CRISI DELL’ESTETICA TRASCENDENTALE OCCIDENTALE: 2. IL TEMPO.

Detto della coordinata spazio (qui), volgiamoci a quella tempo. Sul tempo si danno almeno tre famiglie di concetti. La prima è quella naturale che scompone il continuo del tempo nel tempo che è stato (passato), che è (presente) che sarà (futuro) e loro relazioni. La seconda è quella della metrica di scorrimento se cioè il tempo accelera e decelera come nostra impressione anche per via del fatto che ciò vi accade salta o si svolge in continuità. La terza è il rapporto che abbiamo col tempo, se cioè lo trascorriamo passivamente o decidiamo unendoci con qualcuno a forzarne lo svolgimento, se abbiamo un piano da costruire con una valutazione tattico-strategica di ciò che serve per raggiungere i nostri obiettivi declinati nella tripartizione “a breve-medio-lungo tempo” o nell’improbabile magica aspettativa del “non c’è-c’è”.

Il primo ambito, quello della naturale tripartizione, vede l’occidentale non importa se globalista, nazionale o locale, ristretto al presente. L’occidentale americano non ha neanche davvero un passato, è storicamente giovane e il suo tempo storico è una unica sequenza di espansione costante costellata di molte vittorie e qualche sconfitta non decisiva, che non fa piacere ricordare ed è meglio prontamente archiviare. Più in generale, è proprio della mentalità anglosassone svalutare la tradizione, non avere profondità temporale dal momento che prima del moderno erano nei bassifondi periferici del medioevo e prima ancora erano semplicemente “barbari”. In più, visto che si sono trovati a dominare la storia occidentale e poi mondiale, non hanno certo buoni motivi per volgersi ad altri tempi che non i contingenti di cui s’illudono di aver trovato la formula magica ed eterna del potere, del dominio, del benessere e del successo. Altresì, schiacciati nel presentismo, così come non hanno piacere ad osservare quello che di diverso è successo prima (se non rintracciandovi improbabili tracce dei presupposti che poi si sono inverati nel loro splendido “qui ed ora”), o altrove, non prevedono possa succedere dell’altro nel futuro. La loro scelta di affidarsi con fede fondamentalista al mercato ordinatore di tutto e tutti, non li spinge a notare altre forme che sono state così come altre forme che potrebbero essere. Nemici giurati del costruttivismo che non sia svolto nelle segrete stanze dalle loro élite dominanti (una lunga, questa sì, tradizione di club, circoli, società segrete, consorterie e massoneria proprio da loro rifondata tra fine XVII ed inizi XVIII secolo), il loro unico piano per il futuro è come prorogare un nuovo secolo anglosassone. La sopravalutazione del presunto oggettivismo scientifico a scapito del più ampio relativismo storico, atteggiamento che impatta anche sull’organizzazione dei nostri saperi, conoscenze ed insegnamenti, rinforza questa auto-reclusione nel presente.

Quanto a gli occidentali europei le cose sono ben diverse per quanto anche qui agisca un motore schizofrenogeno che in quanto sistema secondario del primario anglosassone tenta di condividere questo presentismo negazionista, mentre di sua natura, l’occidentale europeo non può certo far finta di non aver un passato. Altresì, conviene all’occidentale europeo non pensare al futuro se non come neutra ripetizione lineare del presente, non conviene per un ovvio motivo: nessuno dotato di buonsenso potrebbe profetare per gli europei un futuro altrettanto o più brillante dell’attuale o del recente passato. Infatti, il futuro diventa un rimossso che converge con la paura da smarrimento nei vari spazi di cui abbiamo parlato prima, accrescendo la paura e quindi cancellando proprio lo spazio mentale che dovrebbe occuparsi di questo problematico “come sarà?”. Se provate a parlare a gli europei dei prossimi trenta anni, cosa che stanno facendo più o meno tutti quei popoli del mondo in cui fioriscono “piani&strategie”, “vision”, “long view”[1] ed altri tentativi di pre-visione e relativa programmazione, vi guarderanno smarriti anche perché, popolazione sempre più anziana, è ovvio che del futuro abbiano una visione breve e non piacevole. Tra l’altro, ulteriore motore schizofrenogeno sul piano individuale, le società europee sempre più anziane, rimangono centrate sull’idolatria di una giovinezza che non c’è più, ma del resto la sofferenza dell’inadeguatezza è propedeutica e vendere jeans, creme, palestre e sedute di varie terapie riabilitanti chissà poi a cosa.

Ci sono poi altri motivi per non guardare indietro. Chi scrive è da tempo convinto che l’atteggiamento europeo nei confronti della nostra storia della prima metà del Novecento (i due conflitti mondiali e tutto ciò che li ha accompagnai nel loro svolgersi e negli effetti di lungo periodo) sarebbe da ri-analizzare ad ampio spettro. Quell’inglorioso pezzo di storia è stato fin troppo normalizzato, considerato pagina buia ma “naturale” della storia della nostra civiltà. Leggendo come altri popoli giudicano quello che è successo in Europa in quei cinquanta anni, senza entrare nel merito di questo o quella nazione, ideologia, dinamica ma come esito finale e mostruoso di secoli di feroce e mai risolta competizione interna, si può riacquisire una mente ingenua e pulita che rimane giustamente attonita nel constatare il tragico fallimento di una intera forma di civilizzazione, un vero e proprio collasso su cui noi abbiamo transitato con troppa fretta di mettercelo alle spalle.

Purtroppo, l’oscuramento della storia, permette anche di slegare l’attuale sistema del modo di stare al mondo occidentale, proprio dalla composizione delle cause e ragioni che l’hanno reso possibile. Se non ha tempo indietro, non avrà quindi neanche problemi col tempo in avanti e si potrà essenzializzare ad esempio la sua formula economica con acclusa teologia della mano invisibile, dimenticandosi velieri, cannoni, schiavi, furti, massacri, esproprio, feroce dominazione, imperialismi, colonialismi, egoismi, distruzione naturale e culturale e tutto il resto. Quando proprio non si può far a meno di prender atto di tutto ciò, la furba mossa è quella di ascrivere questi fatti al registro morale “sì certo c’è stato anche molto male, anche gratuito e da censurare”, dice lo storico europeo in un soprassalto etico sapendo quanto poco sia importante il giudizio etico nella propria cultura ed in fondo, nella storia stessa. Certa storiografia anglosassone, ultimamente ha presentato una interpretazione che si potrebbe chiamare “Impero per caso”. -L’impero per caso- è il tentativo di rendere accessorio tutto ciò che si racconta in storia, l’imperialismo ed il colonialismo sono censurabili epifenomeni, non voluti, non necessari, un “ci è scappato di mano”, potevamo evitarcelo.  Ascrivendo questi fatti storici al registro morale o a quello addirittura del casuale ed accessorio, si evita di comprendere il necessario ruolo funzionale che hanno altresì svolto. La Rivoluzione industriale s’è fatta col cotone ma il cotone non cresce in Gran Bretagna, il libero mercato non si è espanso per fascino ma si è fatto strada con le cannoniere, buona parte della nostra evoluzione tecno-scientifica è stata trainata del militare con assai spesso un ruolo diretto o indiretto decisivo dell’investimento statale. Quindi, si cerca di dimostra che il nostro modo di stare al mondo potrà continuare a prosperare anche ora che non è più possibile comportarsi come ci siamo comportati in passato.

L’occidentale globalista embedded nella cultura anglosassone quindi, è tutto fuso nel presente, rimuove il passato, presuppone che il futuro sarà un presente allungato. L’occidentale europeo sospeso tra nazione e mercato comune, inorridisce all’idea di precipitare indietro al suo pieno essere nazionale ma non ha più la pallida idea di come andare avanti nel sogno unionista. L’occidentale locale può ricordare nostalgicamente qualche decennio appena trascorso, l’ottimismo felice degli anni ’90, l’edonismo auto indulgente  degli anni ’80, l’impegno politico e culturale degli anni ’70, il keynesismo miracoloso degli anni ’60, ma è subito richiamato dal problematico “qui ed ora”, mentre e sul piano individuale e su quello pubblico e sociale, evita come la peste il farsi domande sul domani. Gli occidentali hanno diverse concezioni dello spazio ma una sola del tempo: il presente. Dovrebbe essere il contrario.

E veniamo alla metrica di scorrimento del e nel tempo. Tutti gli occidentali si trovano in una doppia percezione -per l’ennesima volta- schizofrenogena. Da una parte è evidente a tutti l’impressione che il tempo, ovvero i fenomeni che lo abitano, sta accelerando continuativamente. La semplice sequenza di fatti nuovi e soprattutto l’impressione siano inaspettati come rileviamo dalle fonti informative ormai permanentemente “stupite” dal 2001 in poi, conferma la condizione. Rovesci politici, geopolitici, della gobalizzazione, ambientali, di costume, migratori, della condizione sociale sono percepiti direttamente da tutti ed il fatto che l’informazione non li razionalizzi o li razionalizzi in forme sempre più surreali, crea anche maggior ansia inconscia. Solo recentissimamente, qualcuno ha cominciato a razionalizzare l’idea ci si trovi in tempi del tutto nuovi, “rivoluzionari”. Per lungo tempo recente, le élite hanno fatto finta di niente negando l’eccezionalità dei fenomeni per non allarmare il proprio ambiente sociale e politico, tutto procedeva più o meno come al solito e quando era meno e non più, era per caso o era colpa di qualcuno che non seguiva lo spartito. Questa doppia condizione che percepisce la inusuale velocità dei cambiamenti  da una parte e dall’altra la nega e ne rimuove le cause per non prendersi la briga di mettere in discussione i propri quadri di riferimento, smarrisce e va a sommarsi alle altre “fonti della paura”. La doppia posizione di coloro che pubblicamente esagerano la paura e di coloro che la negano, acuisce lo smarrimento e costoro, da una parte contribuiscono in vario modo ad aumentarla comunque (non c’è niente di più pauroso che avere paura e non sapere di cosa, evolutivamente -i centri mentali della paura- si sono affermati proprio per pre-allertare, ma se non compare subito l’oggetto lo stato diventa permanente, si trasforma in ansia ed avvelena il cervello, quindi la mente) e dall’altra ne danno sfogo nel reciproco insulto. Nessuno sembra volersi occupare delle fonti della paura, tutti sembrano semplicemente dediti a sfogare la tensione attaccando l’altro ed il come e se la percepisce o se la spiega. Naturalmente, essere sprofondati nel presentismo di cui abbiamo prima parlato come condizione occidentale generale e percepire che questo eterno presente non solo non sarà eterno ma è in moto accelerato continuo, verso dove e chissà per quanto, questa percezione senza spiegazione, smarrisce nel profondo.

In tutto ciò, agisce la nostra idea generale del fluire del tempo che storicamente si divide tra continuisti e saltazionisti.  I continuisti risalgono indietro nel tempo come tradizione concettuale, al “natura non facit saltus” che spazia dai latini ai medioevali fino al Leibniz, i saltazionisti sono cresciuti di numero prima nel XIX secolo a seguito della comparsa del concetto di “rivoluzione” e poi corroborati dalla natura appunto saltazionista dei quanti di Planck-Einstein. Particolarmente fuorviante risulta sia questa contrapposizione ed in effetti, la contrapposizione stessa è falsata dalla scarsa conoscenza sistemica della realtà. E’ certo che gli imput naturali tanto quanto sociali, fluiscono continuativamente a basso regime in modalità diciamo grossomodo continuata, è che però si vanno ad accumulare dentro sistemi che resistono al cambiamento fino a quando non possono più assorbire imput ed allora subiscono una riformulazione “rivoluzionaria”. E’ del resto proprio questo accumulo con salto finale che notò Planck per primo, per cui alla domanda “quanto accumulo porta al salto?” decise di rispondere un “tot” ovvero un “quantum”. La natura quantistica della fisica è saltazionista perché è sistemica, così funzionano anche i neuroni del cervello e tutte le cose che sono sistemi (praticamente tutto) quindi anche le società.

Non è che i francesi si sono svegliati nel 1789 e tutto ad un tratto “oplà!” hanno trovato opportuno e necessario fare la rivoluzione. La Francia è stata da sempre storicamente allacciata in un sistema che potremmo definire binario col suo competitore naturale inglese. Gli inglesi la “rivoluzione” che portava al vertice le nuove classi imprenditoriali a scapito del dominio aristocratico nobiliare ma soprattutto monarchico, con successiva entrata e sviluppo del moderno, l’avevano fatta esattamente un secolo prima ed anche prima visto che il primo salto con Cromwell era prematuro e non era perfettamente riuscito, ma in quella direzione andava. I francesi erano un secolo in ritardo su gli inglesi ed i russi quando decisero di cambiare diventando sovietici, più di due quanto a modernizzazione. Così il cumulo di innovazioni e modi produttivi, nonché accumulo di capitale e materie prime e potere coloniale prima ed imperiale poi, per la rivoluzione industriale. Oggi molti dilatano anche i tempi della rivoluzione scientifica del XVII secolo, retrocedendo ad un lungo accumulo di approcci proto-scientifici ben precedenti. Questa aspetto della “lunga durata” dei fenomeni è invisibile all’immagine di mondo occidentale, anche perché non ragiona per sistemi.

Altresì, non notando il lungo tempo dell’accumulo di energia che fa la maturazione dell’evento, ci si illude che il cambiamento sociale possa esser fatto intenzionalmente con un “oplà!”, un prima nero e poi bianco, un prima negativo poi positivo, una magia. Così c’è un sacco di gente, pure di buone intenzioni, che immagina possibile e desiderabile questo cambiamento magico, repentino, profondo tanto quanto istantaneo e quindi è lì da un secolo e passa che coltiva la sua speranza rivoluzionaria come altri coltivarono la religione del cargo. Oltre alla inutilità fideistica di questa speranza, c’è il più grave disimpegno all’impegno della modificazione continua che è l’unica che per accumulo può portare davvero ad un nuovo sistema. Inutile  fare guerriglia sociale e politica giorno per giorno ed anno per anno su tutto spettro delle strutture che configurano il sistema sociale, meglio aspettare il giorno in cui marceremo uniti e compatti con la pelle d’oca e canti a voce alta, alla presa del Palazzo d’Inverno! Inutile costruire mattone su mattone la nuova utopia concreta, meglio criticare il mondo reale, chissà che non decida di trasformarsi a chiacchiere. La storia si fa in continuo è la cinematografia ed il mito che cattura l’eroico momento discreto. Così, l’occidentale confuso ed allarmato, sta piano piano capendo che il mondo non è più quello di una volta, non capisce ancora bene il perché visto che non è uso rintracciare i percorsi di lunga durata e l’accumulo di fatti nuovi, non sa neanche dove cercarli se all’interno o all’esterno, non saprebbe neanche come leggerli visto che al massima coltiva una delle tante discipline che leggono la realtà complessa scomponendola in frammenti irrelati, “sente” di esser capitato in una “rivoluzione” e quindi eccolo invocare una rivoluzione adattativa che pensa alla portata di qualche formuletta come il trasformarsi in una belva darwiniana (per l’interpretazione distorta di darwinismo che alcuni pensatori anglosassoni hanno dato del concetto che -per chi scrive- è una teoria dell’adattamento) chiamata a lottare nel tutti contro tutti e vinca il migliore, cioè il più forte ed il più cattivo! Merito, è l’unico paradigma che ci può salvare! Poi magari qualcuno potrebbe notare che in natura sono pochissimi gli individui che si adattano da soli, è tutto un branchi, banchi, stormi, sciami, gruppi, foreste, ecologie, cioè sistemi ma che importa, l’immagine di mondo prescrive altro e tutto si deve rivoluzionare, meno i sistemi di pensiero, quelli hanno una eternità garantita. Peccato che tener fisso il sistema di pensiero in tempi di cambiamento profondo e rapido, sia esattamente la ricetta infallibile per fallire l’adattamento.

Siamo così impercettibilmente scivolati dalle concezioni del tempo a priori alla valutazione dell’utilizzo attivo del tempo per  modificare noi e il circostante onde ripristinare condizioni di adattamento, ossia di sopravvivenza se non di esistenza qualitativa. Il dramma dell’occidentale capitato in tempi di forte discontinuità è la somma del presentismo che nega al contempo il ruolo lentamente costruttivo del passato e l’interrogativo del futuro mai così problematico come quando ti accorgi che questa volta non è come sempre è stato e quindi sarà, con tutto il resto.

Il “resto” è la prima lunga fase negazionista stessero avvenendo fatti di eccezionale discontinuità, poi riduzione dei fatti ai loro portatori per cui l’11 settembre è colpa della spectre islamista, il crollo del 2008-2009 è eccesso famelico dei banco-finanziari, Brexit è ridotta a populismo, Trump a gli hacker russi, nuove destre europee ad ignoranza, nuovo governo italiano somma di populismo-hacker-ignoranti, infine la pur debole accettazione del fatto che i fatti eccezionali sono troppi e troppo fitti (ed oltretutto iniziati già quantomeno nel 2001) per negare l’eccezionalità del momento con conseguente affidamento fideistico chi da una parte alle promesse della nuova rivoluzione dell’informazione con destini finali di singolarità (?), chi a sospirare su qualche soluzione salvifica che sia la sovranità, l’uscita della gabbia d’acciaio euro-pea, la liberazione dal neo-ordo-liberismo, Putin ed un nuovo afflato euroasiatico, il ripristino del keynesismo che fu, “forse Trump non è così male come lo disegnano” ed altri generi di conforto.

Presentismo e questa matassa di reazioni compulsive, fanno la condizione occidentale che è poco definire “smarrita”. Smarrita forse sul piano intellettuale, su quello sociale e politico quando c’è pressione minacciosa ed eccessiva, c’è paura e dalla paura si esce in genere con una pronta reazione che tenta di sedarla non importa come. Sappiamo poi bene come va a finire questo “non importa come”. Le élite lungamente negazioniste per le quali questo era il migliore dei mondi possibili, oggi sono sfidate da nuove élite che si candidano a gestire il marasma con iniezioni di ordine e qualche soluzione semplice e prontamente ansiolitica oltreché ovviamente sbagliata. Per il resto il livello del dibattito pubblico è percorso da domande paurose con risposte sempre più impaurite. Demografia? Ma non sarai mica maltusiano? Geopolitica? Ma non sarai mica nazista? Ambiente? Ma non sarai mica pauperista? Stato che in Europa è concetto correlato (almeno fino ad oggi) a nazione? Ma non sarai  rossobruno o liberal-cosmopolita? Migranti? Ma non sarai mica razzista o buonista? Nuove tecnologie mangia lavoro? Ma non sarai mica in favore del reddito di sudditanza, non hai studiato Schumpeter, sarai mica luddista? Democrazia? Ancora con la democrazia, la democrazia è morta o popolo e leader o élite o restringere il voto ai competenti o socialismo (o barbarie), alto vs basso. Soprattutto, nessuno ha la benché minima voglia e possibilità, forse capacità, di fare una analisi integrata della situazione e delle prospettive anche perché ci siamo tranquillamente fatti carcerare nelle specializzazioni disciplinari e quindi chi mai è in grado di restituire l’intero di cui provar a predicare il vero? In più, senza profondità storica e capacità previsionale e convinti o che il mondo sarà come è sempre stato o salterà improvvisamente ad un nuovo livello chissà quale-come-e-perché, mancanti del tutto dei concetti di strategia, tattica, costruzione per tentativi ed errori con obiettivi di minima, media e massima dilazionati nel tempo, indisponibilità a seppellire i sistemi di pensiero del XIX secolo a cui siamo tutti ancora così legati, impossibilità a tenere assieme globale-nazionale-locale, una élite intellettuale non meno smarrita del suo popolo (ed impaurita di aver perso il proprio vantaggio di lucidità nella comprensione e nel giudizio, per cui un po’ isterica) ed un popolo che ha paura e s’incattivisce giorno dopo giorno, la condizione occidentale sembra disperata.

CONCLUSIONE

Questa analisi non ha finalità altra che rintracciare gli apriori del nostro stato confusionale. L’indagine appena tratteggiata ci dice non che la nostra estetica trascendentale di tipo kantiano ha problemi, spazio e tempo sono apriori neutri riempiti poi a posteriori di forme, sono queste forme culturali che ereditiamo dal nostro percorso storico e culturale il problema.

Avendo perso la natura politica delle nostre forme di vita associata, ci siamo fatti disperdere in concezioni di diversa estensione dello spazio dovute al dominio dell’ordinatore economico (il mercato) e ciò ha e sta portando le nostre società a vivere simultaneamente diverse e non componibili concezioni dello spazio. La polis non è più e non più neanche solo la nazione, per alcuni è il sub continente, per altro addirittura l’universo-mondo. Il ricentraggio del pensiero non può che imporre in via prioritaria il definire daccapo che sistema siamo, quale sia il contratto sociale che non può esser più quello del XVI o del XIX secolo, in che spazio è ambientato, quali i suoi confini che per quanto permeabili, aperti e chiusi al contempo, ne segnano il profilo, quindi l’esistenza e sopratutto le condizioni di possibilità future. Questa ri-definizione si deve fare come sempre è stata fatta dalla storia stessa, mediando la consistenza interna della comunità e la condizione adattiva che deve cercare col suo circostante. Non è una opzione liberamente disponibile nel catalogo delle idee e delle forme a piacere e non può rispondere a sistemi ideologici ereditati dal passato, non si formula la domanda giusta se partiamo da “come funziona meglio il mercato?” o da “come è possibile l’irrinunciabile democrazia?”. La domanda giusta è una mediazione, il giusto mezzo tra i due punti del politico e dell’economico, dando il potere ordinatore al politico, ma sopratutto : quanti e quali dobbiamo essere, organizzati come, impegnati in cosa, per darci condizioni di possibilità adattative per i prossimi decenni? Questa la domanda spaziale.

Altresì, la coordinata tempo, se taglia verticalmente la risposta che dovremmo dare alla domanda spaziale fissandola sull’oggi, dovrà necessariamente sia rispondere alle ipotesi sul futuro che siamo giù in grado di fare (ad esempio, le previsioni demografiche almeno al 2050, sono chiare e abbastanza solide, così le proiezioni di crescita e peso economico), sia misurarsi con la geo-storia che rende possibile alcune cose ed altre no. Oltre naturalmente a tener conto che non siamo più in modalità caccia e raccolta, il pianeta è sempre più affollato e l’ambiente ci pone limitazioni insormontabili e rendimenti decrescenti. Se riuscissimo a darci una comune convenzione temporale, una presa d’atto diffusa che siamo capitati in tempi storici di grande e profondo cambiamento e che il cambiamento ha la doppia natura continuata e saltazionista, potremmo meglio condividere una stessa coordinata del tempo da incrociare con quella dello spazio.

Ma la discontinuità storica e culturale più profonda è l’ultima: dovremmo volgerci tutti ad una postura costruzionista e non farci vivere dagli eventi. Tale postura è inedita per noi e specificatamente vietata da Agostino d’Ippona a Friederich Hayek, dalla religione (ci pensa Dio) come dall’economia (ci pensa il Mercato), i due ordinatori storici  che hanno governato l’ultimo millennio, i due Dioscuri occidentali dietro i quali si son nascoste le élite che hanno dominato e dominano i tempi e gli spazi dell’Occidente, prima medioevale, poi moderno. Questa è ancora la condizione socialmente, politicamente e culturalmente passiva fotografata da Marx nell’XI Tesi su Feuerebach, tesi che invocava il necessario ed intenzionale ribaltamento copernicano a cui abbiamo dato scarso seguito. Prometeo venne condannato per l’ardire costruzionista, noi oggi non abbiamo altra scelta che liberarlo dall’incatenamento, ricordandoci l’etimologia del suo nome oltre che l’esempio del suo ardire: colui che riflette prima. C’è molto lavoro da fare per il pensiero occidentale a cominciare proprio dalla revisione degli apriori spazio-temporali e c’è molto mondo da cambiare se non vogliamo patire le pene del lento e doloroso disfacimento a cui son condannate le stirpi di cent’anni di solitudine: non avere una seconda opportunità sulla terra[2].

(2/2)

[1] La Cina ha varato un programma industriale 2025 ma anche quello delle vie della seta e più in generale le varie strategie di condivisione del “futuro moderatamente prospero, condiviso ed armonioso” in una visione che Xi Jinping chiama il sogno cinese ovvero “the great rejuvenation of the Chinese nation”. Ecco un programma di ringiovanimento per una civiltà che ha più di cinquemila anni, mi pare un segnale sintomatico.

[2] G.G.Marquez, Cent’anni di solitudine, Feltrinelli, Milano 1988

Putin mette a nudo la distopia americana, di Paul Craig Roberts

Putin mette a nudo la distopia americana

Paul Craig Roberts

Dobbiamo concederlo a Putin. Lui è il migliore che ci sia. Notare la facilità con cui ha regolato il confronto con quell’idiota di Chris Wallace. https://www.rt.com/usa/433447-putin-interview-fox-wallace/

Cosa c’è che non va nel sistema dei media statunitensi il quale non riesce a produrre un secondo giornalista competente che faccia compagnia a Tucker Carlson? Perché i restanti giornalisti americani, come Chris Hedges, ora sono nei media alternativi?

Tutto quello che posso dire, e Putin probabilmente lo sa già, è che c’è qualcosa di più importante in corso di presstitute che tiene in ostaggio la relazione tra la Russia e gli Stati Uniti rispetto alla lotta politica interna tra il Partito Democratico e il Presidente Trump. Non è solo che i media corrotti degli Stati Uniti servono come propagandisti per il Partito Democratico contro il Presidente Trump. Gli uffici stampa stanno servendo l’interesse del complesso militare / di sicurezza, che ha interessi di proprietà nei media statunitensi altamente concentrati, per mantenere la Russia posizionata come il nemico che giustifica l’enorme budget di $ 1.000 miliardi del complesso militare / di sicurezza. Senza il “nemico russo”, qual è la giustificazione di uno spreco di denaro quando così tanti bisogni reali sono sottofinanziati e non finanziati?

In altre parole, i media americani non sono solo stupidi, sono corrotti oltre ogni misura.

Oggi alle 12:40, ora di New York, la NPR aveva una raccolta di trump-basher che facevano del loro meglio per impedire all’appuntamento di Trump / Putin di produrre una normalizzazione delle relazioni tra i due governi. Ad esempio, come sa ogni persona informata, la comunità dei servizi segreti degli Stati Uniti non ha certamente concluso che la Russia ha interferito nelle elezioni presidenziali. Questa conclusione è stata raggiunta da alcuni membri selezionati di 3 delle 16 agenzie di intelligence ed è stata espressa non come un fatto provato ma come “altamente probabile”. In altre parole, non era altro che un parere orchestrato dato da agenti cooperativi i quali senza dubbio si aspettano delle promozioni in cambio.

Nonostante questo fatto noto, la squadra di propaganda dell’NPR ha detto che Trump aveva creduto a Putin piuttosto che a un rapporto unanime di intelligence dei fatti degli Stati Uniti che provava le interferenze della Russia. I denigratori di Trump-basher hanno detto che aveva creduto al “teppista Putin” e non ai suoi stessi esperti americani. I sostenitori NPR di Trump hanno continuato a confrontare il “raccordo con Putin” con l’opinione di Trump che la violenza di Charlottesville fosse stata alimentata da entrambe le parti. I criticoni di NPR hanno equiparato la dichiarazione fattuale di Trump sulla violenza da entrambe le parti con lo “schierarsi con i neonazisti” a Charlottesville.

Il punto di NPR è che Trump si schiera con nazisti e teppisti russi ed è contro gli americani.

Quello che Trump disse in effetti riguardo alle presunte interferenze elettorali era che se c’era o non c’era interferenza elettorale, essa non aveva alcun effetto come hanno ammesso Comey e Rosenstein, e non assume la stessa importanza della possibilità che due potenze nucleari vadano d’accordo ed evitino le tensioni in grado di provocare una guerra nucleare. Si potrebbe pensare che persino un idiota NPR possa capirlo.

Il trionfo su NPR è andato avanti per tutto il giorno mescolato a un occasionale attacco della Russia per aver ucciso civili siriani in attacchi aerei contro i jihadisti supportati da Washington che, secondo le istruzioni di Washington, cercano di aggrapparsi a un po ‘di Siria in modo che Washington e Israele possono ricominciare la guerra. Ci si meraviglia della stupidità di coloro che danno soldi all’NPR in modo che l’NPR possa mentirgli tutto il giorno. Come George Orwell aveva previsto, le persone sono più a loro agio con le bugie del Grande Fratello che con la verità.

Una volta la NPR era una voce alternativa, ma è stata rotta dal regime di George W. Bush ed è diventata completamente corrotta. NPR continua a fingere di essere “ascoltatore supportato”, ma in realtà ora è una stazione commerciale proprio come ogni altra stazione commerciale. NPR cerca di mascherare questo fatto usando “con il supporto di” per introdurre gli annunci a pagamento dalle aziende.

“Con il sostegno di” è come NPR ha tradizionalmente riconosciuto i suoi donatori filantropici. La vera domanda è: come fa NPR a mantenere il suo status di esenzione fiscale 501c3 quando vende pubblicità commerciale? Non c’è bisogno che NPR si preoccupi. Finché l’entità presstitute serve l’élite dominante a spese della verità, manterrà il suo stato di esenzione fiscale illegale.

È ovvio che le incriminazioni dei 12 ufficiali dei servizi segreti russi immediatamente precedenti alla riunione di Trump / Putin avevano lo scopo di minare l’incontro e di offrire ai giornalisti maggiori opportunità per i colpi più disonesti ai danni del presidente Trump. Ai miei tempi, i giornalisti sarebbero stati abbastanza intelligenti e avrebbero avuto abbastanza integrità per capirlo. Ma i comunicati stampa occidentali non hanno né intelligenza né integrità.

Quante prove vuoi? Ecco la stampa di Michelle Goldberg che scrive sul New York Times che “Trump mostra al mondo che è il lacchè di Putin.” La giornalista dice di essere “sconcertata dalla prestazione servile e schifosa del presidente americano.” Apparentemente Goldberg pensa che Trump avrebbe dovuto picchiare Putin.

Il Washington Post, in passato un giornale, ora uno scherzo malato, sosteneva che “Trump si era appena colluso con la Russia. Apertamente.”

Non sono solo i presstitutes. Sono i cosiddetti esperti, come Richard Haass, presidente del Consiglio per le relazioni estere, un gruppo auto-importante, finanziato dal complesso militare / di sicurezza, che presiede la politica estera americana. Haass, aderendo alla linea ufficiale di sicurezza / sicurezza, ha dichiarato erroneamente: “L’ordine internazionale per 4 secoli si è basato sulla non interferenza negli affari interni degli altri e sul rispetto della sovranità. La Russia ha violato questa norma sequestrando la Crimea e interferendo con le elezioni americane del 2016. Dobbiamo affrontare la Russia di Putin come lo stato canaglia che è “.

Di cosa sta parlando Haass? Quale rispetto per la sovranità ha Washington? Sicuramente Haass ha familiarità con la dottrina neoconservatrice dominante dell’egemonia mondiale degli Stati Uniti. Sicuramente Haass sa che i problemi orchestrati con Iraq, Libia, Siria, Corea del Nord, Russia e Cina sono dovuti al risentimento di Washington per la loro sovranità. Qual è l’unilateralismo di Washington sul fatto che Washington rispetti la sovranità dei paesi? Perché Washington vuole un mondo unipolare se Washington rispetta la sovranità di altri paesi? È precisamente l’insistenza della Russia su un mondo multipolare che la pone nel mirino della propaganda. Se Washington rispetta la sovranità, perché Washington rovescia i paesi che ce l’hanno? Quando Washington accusa la Russia di essere una minaccia per l’ordine mondiale, significa che la Russia è una minaccia per l’ordine mondiale di Washington. Haass sta dimostrando la sua idiozia o la sua corruzione?

Come i media americani hanno definitivamente dimostrato non hanno indipendenza ma sono un portavoce dei democratici e degli interessi delle multinazionali; dovrebbero essere nazionalizzati. I media americani sono così compromessi che la nazionalizzazione sarebbe un miglioramento.

Anche l’industria degli armamenti dovrebbe essere nazionalizzata. Non solo è un potere più grande del governo eletto, ma è anche molto inefficiente. L’industria degli armamenti russi con una minima frazione del budget militare statunitense produce armi di gran lunga superiori. Come ha detto il presidente Eisenhower, un generale a cinque stelle, il complesso militare-industriale è una minaccia per la democrazia americana. Perché la feccia dei media è così preoccupata per l’inesistente interferenza russa quando il complesso militare / di sicurezza è così potente da poter realmente sostituirsi al governo eletto?

Ci fu un tempo in cui il Partito Repubblicano rappresentava gli interessi degli affari, e il Partito Democratico rappresentava gli interessi della classe operaia. Ciò ha tenuto l’America in equilibrio. Oggi non c’è equilibrio. Dal momento che con il regime di Clinton, l’uno per cento ricco è diventato molto più ricco, e il 99 per cento è diventato sempre più povero. La classe media è in serio declino.

I democratici hanno abbandonato la classe operaia, che i democratici ora liquidano come “Trump deplorables” e sostengono invece la divisione e l’odio di IdentityPolitics. In un momento in cui il popolo americano ha bisogno di unità per resistere a mire guerrafondaie e avidità, non c’è unità. Alle razze e ai sessi viene insegnato a odiarsi l’un l’altro. È ovunque tu guardi.

Rispetto all’America in cui sono nato, l’America di oggi è fragile e debole. L’unico sforzo per l’unità è creare unità che la Russia sia il nemico. È proprio come nel 1984 di George Orwell. In altri aspetti l’attuale distopia americana è peggiore di quella descritta da Orwell.

Cerca di trovare un’istituzione pubblica o privata americana che sia degna di rispetto, che sia onorevole, che rispetti la verità, che sia compassionevole e che cerchi la giustizia. Quello che trovi al posto della compassione e della richiesta di giustizia sono leggi che puniscono se critichi il genocidio israeliano dei palestinesi o perdi informazioni che mostrano i crimini commessi dal governo degli Stati Uniti. Con tutte le loro istituzioni corrotte, anche il popolo americano viene corrotto. La corruzione è ciò in cui i giovani sono nati. Non sanno niente di diverso. Che futuro si riserva per l’America?

Come possono la Russia, la Cina, l’Iran, la Corea del Nord raggiungere un compromesso con un governo che non conosce il significato della parola, un governo che richiede la sottomissione e quando la sottomissione non viene segue la distruzione come abbiamo imparato in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria e Yemen.

Chi sarebbe così sciocco da fidarsi di un accordo con Washington?

Invece di perseguire un accordo con Trump, che si sta preparando ad essere rimosso, Putin dovrebbe preparare la Russia alla guerra.

La guerra sta sicuramente arrivando.

LA CRISI DELL’ESTETICA TRASCENDENTALE OCCIDENTALE. 1. LO SPAZIO, di Pierluigi Fagan

LA CRISI DELL’ESTETICA TRASCENDENTALE OCCIDENTALE. 1. LO SPAZIO.

Kant, iniziava la sua indagine sulla ragione umana[1], premettendo l’analisi sulle forme della mente entro le quali si ambientano poi tutte le altre funzioni. Le chiamò -estetica-, dal greco àisthesis che significava “sensazione” e -trascendentale- ovvero che si danno prima ancora di farne esperienza, sono apriori, sono condizioni di possibilità per tutto il resto. L’ET quindi indagava proprio le forme a priori che permettono la collocazione mentale di quegli oggetti e fenomeni di cui poi facciamo esperienza sensibile. Queste forme, secondo il nostro, erano due: la spazio ed il tempo. Queste due forme sono nella nostra mente. Kant visse mezzo secolo prima di Darwin e quindi non poteva dedurre che queste forme fossero il portato dell’evoluzione, ma oggi sappiamo che sono presenti in noi perché ci danno la possibilità di entrare in relazione con ciò nel quale siamo immersi. Ai fini pratici, poco importa disquisire se queste forme esistono oggettivamente fuori di noi o meno, se esiste davvero lo spazio e proprio così come ci sembra che sia -sappiamo ad esempio, con la fisica quantistica, che dello spazio si danno altre forme oltre a quella che sperimentiamo sensibilmente- o se esiste il tempo, tema su cui molti fisici si appassionano in seguito ai portati della relatività einsteniana. Prendiamo atto che così funziona la nostra mente, “come se” davvero la realtà in cui siamo immersi rispondesse a queste forme che ci aiutano a percepirla per poi -in essa- orizzontarci ed agire.

Detto ciò sul piano generale ed impersonale, trasferiamoci al piano sociale ovvero storico e culturale. A priori le forme di spazio e tempo sono scenari del possibile, a posteriori queste forme pluri-possibili, hanno preso alcune inclinazioni discriminanti, alcune forme determinate dalla storia e dalla cultura che, cumulandosi, fanno la nostra mentalità. E’ quindi una corruzione del trascendentale puro, è un apriori in cui la forma pura si declina con quella acquisita nella storia. La nostra indagine tende a verificare come sono fatte e se risultano idonee ai tempi che viviamo in particolare relativamente alla società, come pensiamo lo spazio in cui si ambientano le nostre società, come pensiamo il loro tempo. Il nostro sospetto è che esse non solo non siano idonee ma pregiudichino ogni altra successiva forme di elaborazione del pensiero che possa aiutarci a cambiare le forme sociali in cui viviamo, stante che sono questi “veicoli adattativi” che usiamo da sempre per vivere nel mondo.  L’indagine quindi, tende e segnalare punti di riforma del pensiero o meglio delle forme in background da cui poi traiamo pensiero, pensiero che precede l’azione sul mondo, il fare cose.

LO SPAZIO.

Per l’occidentale[2], lo spazio è sempre stato un ritaglio più o meno esteso del mondo. Una stretta minoranza in genere facente parte dell’èlite delle varie società storiche, ha sempre avuto un concetto di spazio più grande rispetto alla massa legata al proprio circostante. Gli antichi navigatori cartaginesi, ad esempio, c’è chi sostiene siano addirittura arrivati in America. Sappiamo per certo che quelli fenici e greci conoscevano bene l’intero spazio mediterraneo e forse anche oltre. Gli storici come Erodoto e i geografi come Strabone e prima di loro Anassimandro ed Ecateo di Mileto, avevano conoscenza di grandi spazi. Gli stoici elaborarono il concetto di cosmopolitismo in uno spazio allargato e vasto detto ecumene. Alessandro si spinse fino all’India mentre le élite romane presidiavano buona parte dell’Europa e non solo, commerciando -via arabi e persiani- coi cinesi. Col Medioevo, inizialmente l’idea di spazio collassò di nuovo al circostante, poi riprese ad aprirsi prima all’ecumene cristiano che si espandeva all’Europa occidentale, poi alle coste musulmane del Mediterraneo. La fine del Medioevo è anche l’inizio delle grandi navigazioni con la “scoperta” del continente americano, il periplo dell’Africa e quindi l’accesso all’oceano Indiano ed all’Asia estrema per la via marina e per via terrestre prima con gli scopritori come Marco Polo, poi con lo sciame commerciale lungo le vie della seta. In seguito, colonie ed imperi hanno portato alcuni occidentali non solo ad avere percezione o conoscenza del vasto mondo, ma a viverlo. Nel moderno, se alcune élite cominciavano ad avere concezione spaziale del vasto mondo, altre rimanevano legate al nuovo spazio nazionale, mentre i più rimanevano legati al loro locale. Più o meno, questo primo assetto tripartito della concezione spaziale  della modernità, mondiale – nazionale – locale,  che corrisponde a tre precise fasce di popolazione, è quello che è rimasto sino ad oggi sebbene con qualificazioni diverse da quelle del XV-XVI° secolo.

Oggi abbiamo una élite pienamente cosmopolita ed anche ideologicamente mondialista. Questa élite però è in un certo senso figlia di quella del passato nel senso che nonostante Internet, i viaggi aerei, le vacanze esotiche e il funzionariato in qualche multinazionale o organizzazione internazionale, piuttosto che una salgariana e libresca conoscenza del mondo ad uso degli studiosi di varie discipline tra loro sempre rigidamente separate, considera il mondo ancora un territorio provvidenziale in cui andare sostanzialmente a far caccia e raccolta, sotto forma di “affari”. Pochissimi son coloro che hanno una più corretta percezione problematica di quanto il mondo sia diventato frazionato, denso e complesso, di quanto nuove siano per noi le dinamiche di feedback derivate dalla raggiunta finitezza dello spazio planetario,  dalla incombente finitezza di alcune risorse, dalle prime avvisaglie di una pronunciata sregolazione ambientale. Questa élite entusiasta del globale, ha quindi la più ampia percezione dello spazio ma con una risoluzione molto bassa e spesso, assai distorta. A partire dal non aver forse ancor ben compreso quali saranno i rapporti di massa, peso e forza tra l’Occidente precedentemente aristocrazia del mondo e questo Resto del Mondo che già lo sopravanza di quasi dieci volte demograficamente (erano solo tre volte, appena un secolo fa). Una distanza quantitativa molto più ampia che nel recente passato ed una distanza qualitativa in termini di performance di economia moderna che si è di molto ridotta, in alcuni casi annullata, in altri addirittura invertita.

A raggio più limitato abbiamo poi l’élite intermedia che verte sullo spazio nazionale/continentale ed essendo più politica dell’altra che è economica, rimane la più importante. Diversa è questa condizione intermedia per l’occidentale americano che è ambientato in uno stato molto grande e massivo che ha stabili rapporti di dominanza con il suo continente e nessun vicino competitivo e l’occidentale europeo. Questo è legato ad uno spazio storico di relativa omogeneità (la nazione è un concetto tipicamente europeo e che gli europei hanno imposto al tempo degli imperi e delle colonie al resto del mondo, con esiti assai problematici come in Africa, Asia e Medio Oriente), che già da tempo deve fare i conti con tre fatti.

Il primo è il tentativo di trovare una forma stabile di convivenza pacifica tra le nazioni europee storicamente dedite all’offesa/difesa reciproca. Questo primo fatto ha spinto gli europei a trovare un loro regolamento di relazione reciproca nel fatto economico -mercato comune- che ha poi portato al regolatore monetario -l’euro-. Tale soluzione apparve la migliore in tempi in cui l’Occidente sembrava aver davanti a sé un lungo periodo di egemonia mondiale e sostenute prospettive di crescita e buona salute economica, prospettiva che oggi non si dà più. Erano state provate altre vie inizialmente, come il progetto di difesa comune ma l’egoismo nazionale francese aveva fatto naufragare il tentativo come poi gli stessi francesi ed olandesi fecero nei referendum sulla ipotesi costituzionale comune. In pratica, nessuno mai si è sognato una vera evoluzione di fusione sovra-statale nel modello federale di cui si è più scritto che creduto, ognuno rimaneva nel suo spazio storico ma al contempo, faceva sistema economico comune con tutti gli altri. Se lo scambio economico tesse la trama interna al sistema nazional-europeista, il fattore geopolitico pone questioni diverse, ad esempio,  al fronte meridionale e orientale d’Europa. Il primo deve fare i conti di vicinato con gli afro-vicino asiatici,  il secondo con i russi un po’ euro-slavi ed un po’ asiatici. Il modello unionista era e rimane confederale con uno spazio politico nazionale per quanto attiene l’interno ed europeo per quanto attiene alle politiche confederali che sono solo politiche economiche, una moneta senza stato basata su un trattato (quindi a gestione rigida) ed una economia decisamente intrecciata. Tutti rimangono poi subalterni sul piano militare al capobranco occidentale americano nella NATO, la costruzione europea che ha esclusivo senso economico, è del tutto estranea ai problemi geopolitici. Ogni volta che si pongono questioni di politica estera, riemerge la natura nazionale di questo sistema indeciso a tutto che si spacca com’è ovvio che sia visto che non “un” soggetto, né sembra abbia seria intenzione ed anche possibilità di diventarlo.

Il secondo fatto discende da questa imperfetta costruzione in cui invero, le nazioni europee sembrano aver voluto superare von Clausewitz che leggeva la guerra come una continuazione in altre forme della politica, facendo dell’economia una sorta di guerra regolata che, dopo secoli, gli europei non possono o non vogliono più combattere in quanto tale. Questa postura tutta economicista e perdurantemente competitiva al suo interno porta le nazioni europee  ad orizzontarsi nel limitato raggio del sub-continente, laddove oggi il raggio  per tutti, su molte questioni, dovrebbe essere tendenzialmente il mondo. Così le nazioni europee, alcune nazioni europee con pedigree ex imperiale ed ex coloniale, nel Medio Oriente sono andate passivamente appresso al capobranco americano e in Africa hanno continuato a rubare e sfruttare salvo aprire interi corsi di studi che avrebbero dovuto analizzare la nuova condizione post-coloniale quando più che “post”, si era in una condizione “neo” coloniale. Com’è noto, se l’impero almeno obbliga il dominante a farsi carico dei problemi che tramano lo spazio che si domina, se la colonia obbliga almeno ad una presenza responsabile e partecipata dei problemi locali anche in ragione degli interessi locali dei propri coloni, l’atteggiamento neo-coloniale è puramente di caccia e raccolta, si va, si prende, ruba e sfrutta, si lascia la mancetta al corrotto guardiano locale e tanti saluti. Quindi, non solo non esiste una politica estera europea, non solo l’Europa rimane un sistema ibrido più a competizione interna regolata che cooperativo, ma le singole nazioni alimentano la propria forza continuando ad attingere con stile di rapina da un esterno che però non è più quello di un secolo fa.

Il terzo fatto, è più recente ed è relativo alla confusione che si sta ingenerando tra globale ed internazionale.  Dal momento che gli Stati Uniti sembrano voler dare il “rompete le fila” ovvero l’ognun per sé che tende a disintegrare il precedente sistema occidentale detto “atlantico”, i nani europei rimangono un po’ disorientati dal doversi prendere carico ognuno delle proprie responsabilità di relazione a cotanta complessità. Interessi, cultura e mentalità che son rimaste radicatamente nazionali per ogni stato europeo, mentalità che ha mosso ognuno a cercar di coltivare il proprio unilaterale interesse, pone i singoli stati di nuovo in competizione tra loro nel mentre scoprono le difficoltà della nuova competizione a spazio mondiale. Così gli euro-orientali sono tutti presi dai problemi di relazione duplice con i cugini occidentali tedeschi e con i russi, i tedeschi seguono la metrica mercantilista tanto in Europa che nel mondo curando il proprio “grande spazio” germano-scandinavo, i francesi curano le loro colonie africane, i britannici salutano la compagine per volgersi al loro ex Commonwealth, al Pacifico ed ovunque si possa piazzare il loro vantaggio comparato ormai ridotto alla banco-finanza e servizi annessi, gli scandinavi si preoccupano dei russi anche in visione del prossimo e già ampiamente annunciato conflitto dell’Artico, i mediterranei vanno in ordine sparso a fronteggiare i flussi migratori africani cercando si scaricare l’un sull’altro le incombenze. Qualcuno va a promuovere il proprio interesse nazionale a Mosca o a Pechino ma quasi di nascosto perché ufficialmente l’istituzione comune è ufficialmente allineata alla politica estera americana che vieta queste relazioni. Presi nella schizofrenica morsa bipolare della “sovranità liberista” (in cui l’un termine è politico e l’altro economico, da cui la natura contraddittoria della convivenza tra i due concetti), le nazioni europee navigano a vista osservando preoccupati la perdita del “benevolo” governatore americano, il ritorno dei loro mai sedati egoismi nazionali e la rottura della mai davvero creduta e praticata solidarietà europea, nonché la problematica torma di nuovi attori in esuberante crescita nel circostante mondo “grande e terribile”. In più, gli euro-occidentali invecchiano e presi singolarmente come stati, nessuno sembra aver sufficiente massa e quindi potenza per competere con l’ex amico americano, per non parlare dei giganti asiatici o con la pletora dei vivaci Paesi in via di emersione se non già sviluppati. Problemi sistemici come il collegamento est-ovest o sud-nord, rimangono fuori portata dello spazio trascendentale delle mentalità europee. Le élite nazionali dei vari paesi europei quindi, non solo vengono prese nella tenaglia tra un globale che il precedente sponsor americano sta ripudiando e il risorgente interno sovranismo nazionale, ma vedono anche la nuova problematica forma delle relazioni bilaterali alle quali non sanno come accedere partendo dalla base della loro eterogenea e litigiosa unione incompiuta (e non componibile) e la consistenza ormai poco più che relativa del loro singolo stato-nazione.

Se dunque i primi sono ancora convinti con entusiasta leggerezza che “tutto il Mondo è paese” ed i secondi si stanno rendendo conto che al di là dell’ubriacatura ideologica, ogni Paese è rimasto un mondo a sé, la maggioranza degli occidentali europei, i locali, è drammaticamente lontana da tutto ciò e rimane legata al proprio stretto specifico. Un locale sempre più strattonato dal continentale, dal geopolitico, dal geoeconomico e dal globale che non mostra più la faccia sorridente e ricca di doni della globalizzazione ingenua ma il volto rabbuiato ed a volte minaccioso della competizione planetaria, delle migrazioni indotte e naturali al contempo, delle ripercussioni del disordine ambientale ed ecologico, dell’erosione del lavoro e del potere d’acquisto, del problematico islam, della rottura dei quadri multilaterali, della pirateria banco-finanziaria, della imperscrutabile dinamica dei grandi player del gioco di tutti i giochi e della sostanziale impotenza della convenzione politica democratica. I locali hanno paura anche perché persi i vantaggi della posizione occidentale otto-novecentesca, in via di abbandono dalla tutorship americana, abbandonati a loro stessi dalle élite globaliste e da quelle nazionali ambiguamente poste un po’ di qui (per i necessari voti elettorali) ed un po’ di là (gli interessi del mercato europeo), si sentono soli là dove “la diritta via era smarrita”, il bosco si fa fitto e sta pure calando la notte.

Questi tre gruppi di occidentali hanno tre diverse visioni dello spazio, che accettano o rifiutano vicendevolmente e che abitano con divergenti visioni del mondo non sempre attinenti alle reali e concrete condizioni di possibilità. Il prematuro annuncio della fine delle ideologie, ha oscurato il fatto che ovviamente le ideologie come sistemi organizzati di pensiero (magari dette “visioni del mondo”) non possono morire perché sono consustanziali al funzionamento della mente umana. Ed hanno oscurato quanto siano forti quelle oggi presenti e quanto muovano da presupposti realistici o del tutto idealistici. Il conflitto quindi tra parti sociali (si sarebbero chiamate “classi” nel passato ancora recente), si riflette nel conflitto tra le loro ideologie e visioni del mondo di riferimento, ma è tutto da vedere quanto queste attengano alle reali condizioni del mondo o quanto si strutturino nel tentativo di prevalere le une sulle altre, conformandosi in opposizione negativa o critica a quelle avversarie. I richiami all’ineluttabilità della globalizzazione, l’idea degli utopici Stati Uniti d’Europa, il neo-sovranismo, il neo-nazionalismo, il vago cosmopolitismo, sembrano più conformarsi le une idee rispetto alle altre che rispetto a soggetti non precisati (individui? classi? nazioni? popoli? civiltà?) che debbono adattarsi ad un preciso spazio (regionale? nazionale? continentale? mondiale?), discendono tutti da presupposti che vengono discussi per i loro effetti non per la legittimità della loro fondazione.  In più non si capisce mai con chiarezza se stiamo parlando dell’economico, del politico o del culturale, se l’una dimensione che fa bene all’economico fa bene anche al politico o viceversa. Per l’occidentale, il concetto di spazio è fratturato, di una pluralità troppo eterogenea, legato a visioni del mondo costruite sull’interesse personale o di classe e non su quello di tipo sistemico sociale e comune, nonché difese le une contro le altre, più che basate su una realistica analisi della condizioni di possibilità e necessità adattiva.

L’elenco diagnostico quindi segna quattro punti: 1) stiamo perdendo lucidità sul concetto di sistema politico. Proveniamo dalla sequenza  poleis, comuni, città-stato, principati, regni, poi stati e poi stati-nazioni con qualche impero qui e là. Forse, come europei, dovremmo pensare a più grandi stati con più nazioni prima di saltare da 27 a 1, ma una nube confusiva fatta di vago cosmopolitismo, mondialismo, internazionalismo, europeismo fortemente idealistico ed assai poco pragmatico e realistico, idee che discendono da precise immagini di mondo (liberalismo mercatistico, internazionalismo comunista, universalismo cristiano che a volte convergono in un europeismo formale), sostituisce il cosa ci converrebbe e ci è possibile fare con il cosa è idealmente prescritto dalle stesse immagini di mondo; 2) tutti i passaggi storici precedentemente elencati si sono affermati in modo impersonale. A ritroso ci sembrano una sequenza ordinata, progressiva e logica ma nessuno invero ha deciso ex ante queste forme. Non abbiamo quindi tradizione di costruzione storica intenzionale, a partire dal fatto che pensiamo queste forme ignorando la relazione tra la demografia e lo stile di vita del sistema originario e le condizioni date da ambiente e vicini. Ora siamo a stato-nazione ma lo stato-nazione europeo ha senso adattivo oggi e domani visto che nasce cinque secoli fa in tutt’altro contesto? Non sapendo bene come la storia si è fatta, certo non sappiamo bene neanche come eventualmente farla ed inoltre siamo respinti da varie ideologia passivizzanti dall’idea di fare noi la storia; 3) il tutto prende la forma di una divaricazione irrisolvibile tra gli interessi economici delle singole parti che anelano al globale, gli interessi economici e politici sistemici che dovrebbero convergere nel sistema europeo post-nazionale che sembra impantanato in un irrisolvibile transizione tra la pletora degli stati nazionali e l’ipotesi federale che viene in aiuto logico ma che di per sé non ha sufficiente teorizzazione con destino pratico e l’interesse politico di tipo -debolmente- democratico che rimane ancorato alla dimensione nazionale stante che in linea teorica la democrazia presupporrebbe spazi ancora più ristretti; 4) dopo il doppio cataclisma novecentesco l’Europa sta per esser abbandonata dal tutor americano, ma se ciò richiederebbe di aver  maggiori responsabilità sul proprio destino, queste responsabilità -gli europei- non sono pronti a prendersele.

Il tutto può esser riassunto nella diagnosi stretta che sarebbe necessario ridiscutere che tipo di spazio ci servirebbe per adattarci al mondo che viene e che tipo di contratto sociale lo debba ordinare, una domanda che, per varie ragioni, tutti sembrano voler eludere.

Ma se la concezione dello spazio presenta problemi, cosa ne è dell’altra coordinata, il tempo?

(1/2)

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[1] I. Kant, Critica della Ragion Pura, Bompiani, Milano, 2004 (o varie altre edizioni)

[2] Specifichiamo l’”occidentale”  perché è di esso che ci vogliamo occupare. L’orientale è un’altra generalizzazione con cui di solito s’intende il cinese (ma non l’indiano o il mongolo delle steppe o l’isolano nipponico). Brevemente, il cinese è convinto di essere lo spazio centrale del tutto e sul tempo coltiva tanto la profondità passata che l’ipotesi su un futuro che sente di dover prevedere e pianificare.

NEMICO, OSTILITA’ E GUERRA, di Teodoro Klitsche de la Grange

NEMICO, OSTILITA’ E GUERRA

  1. La crisi finanziaria che da qualche mese ha colpito l’ “eurozona” pone – di nuovo – il problema di comprendere se si tratti – come in parte è – di un fatto puramente economico – finanziario (dovuto in larga parte – secondo molti – a difetti di costruzione dell’euro, a cominciare dall’essere una moneta senza Stato) ovvero, in buona misura, politico.

Se si giudica dagli effetti finora prodotti, il carattere politico è innegabile: basti ricordare che, in meno di otto mesi, sono stati sostituiti i governi (d’investitura popolare) di due paesi dell’euro-zona (Italia e Grecia) con governi tecnici; mentre in un terzo (Spagna) il governo è stato battuto (e rimpiazzato) dall’opposizione. Fatto comunque in buona parte causato dalla crisi finanziaria. Non è sufficiente comunque giudicare la natura politica di una causa (situazione, fatto) dagli effetti che comporta: anche una malattia può portare – e la Storia ce lo dimostra – conseguenze politiche di grande rilievo[1]. Ciò non toglie che la malattia non sia una causa politica.

Ma del pari, che la causa sia normalmente qualificata come economica non implica che i soggetti che la producono e gli scopi che perseguono non possano essere politici. Un esempio (tra tanti) è la decisione degli Alleati nel 1941 di imporre l’embargo al Giappone sulle esportazioni di petrolio e materiali ferrosi (e altro). Ciò risultava più efficace dell’intero esercito cinese: infatti costrinse il Giappone ad attaccare le potenze anglosassoni prima della fine dell’anno. Se i generali nipponici avessero indugiato qualche altro mese, i giapponesi avrebbero subito una devastante crisi economica che li avrebbe costretti probabilmente a ritirarsi dalla Cina subito dopo. Il che significa che, anche se in quella situazione non si era fatto uso di violenza, non si può ridurre il tutto alla mera constatazione (economica) che il Giappone mancava di ferro e petrolio e che gli Alleati  – che ne abbondavano – avessero il diritto di non rifornirlo (giuridicamente ovvio). A qualificare quella misura come politica erano i soggetti (le potenze anglosassoni e i loro  satelliti) e lo scopo (ottenere la ritirata del Giappone dalla Cina occupata).

Ciò non toglie che, almeno in Italia, ma per quanto ne so, anche in Europa, quasi nessuno abbia dato attenzione al possibile carattere e scopo politico della crisi, e tanto meno all’esistenza di soggetti interessati a provocarla per raggiungere fini di carattere politico.

Il che, per certi aspetti non sorprende: rientra nella tendenza al rifiuto della politica (non solo dell’attività, ma della politica come costante dell’esistenza umana) che ha connotato (in parte prima piccola, ma crescente) la modernità, in particolare dal XVIII secolo e che negli ultimi decenni è diventata di gran lunga prevalente in Europa (e nell’Occidente).

Vent’anni fa era di moda la tesi – espressa da Fukuyama – che la conclusione della guerra fredda fosse la fine della storia: che il pianeta avesse solo una Superpotenza (gli U.S.A.); che non ci fosse nessun nemico, perchè quello esistente (il comunismo) era collassato e niente faceva presagire che il sistema comunista sarebbe risuscitato (valutazione – quest’ultima –  da confermare anche oggi).

Tutte tali tesi (e le altre similari) si fondavano su una convinzione: che il nemico non ci fosse più e neppure un conflitto (politico) estremo, per cui ogni tipo di lotta (residuata dopo la “fine della storia”) fosse gestibile con mezzi giuridici ed economici: governance, tecnocrazia, amministrazione delle cose al posto del governo degli uomini.

L’occidente, così rallegrato, si inoltrava, senza accorgersene, non tanto verso la fine della storia, quanto, probabilmente (e sicuramente l’Europa) nella propria decadenza costituita – sul piano interno – da una variante (peggiore) di quel “dispotismo mite”, profetizzato da Tocqueville nella parte IV della Democratie en Amérique.

Qualche anno fa “Catholica” organizzava un incontro a Parigi: il libro che ne raccoglie le relazioni ha il titolo – quanto mai significativo – de “La culture du refus de l’ennemi”. Difficilmente un titolo ha reso così efficacemente il senso del convegno[2], né poteva essere altrettanto preciso: perché un certo tipo di cultura non si limita a negare la (possibilità) di guerra (anche nel senso limitato che la si possa sempre evitare); ma si spinge assai più lontano, asserendo di possedere il rimedio che evita l’inimicizia e i conflitti.

  1. Tipico esempio ne è Marx (e i marxisti) che, nella fase compiuta del comunismo (la società senza classi), immagina una società umana senza Stato/i (senza politica), armonica e quindi non necessitante né di un apparato di difesa e di repressione: priva di tutti i presupposti del politico, come individuati da Freund, ovvero delle regolarità costanti della politica (Miglio). Quindi senza lotta per il potere (Tucidide), senza autonomia del politico (Machiavelli), senza sovranità (Bodin), senza classe politica (Mosca e Pareto), senza nemico (Hobbes e C. Schmitt), senza conflitti.

Qualcosa di assai simile all’età dell’oro degli antichi, alla terza età di certe riflessioni teologico-storiche cristiane (per lo più eretiche) o al “Paese dei balocchi” descritto in Pinocchio[3].

Ma, a parte l’illusione (prevedibile) teorie siffatte – o similari – sono connotate da un errore e confusione “fattuale” e concettuale: quella tra guerra, nemico, conflitto. Nel senso che evitare la guerra non significa far cessare l’inimicizia (né l’intenzione ostile e neanche il conflitto); affermare non c’è guerra, quindi non c’è nemico (né conflitto) significa confondere soggetti (nemico), presupposti (conflitto), fini (obiettivo politico) e mezzi (tra i quali c’è la guerra). La guerra è (un’attività) e uno status; come la pace essa è un mezzo della politica. La politica non implica (in ogni situazione) necessariamente e ineluttabilmente la guerra; ma non è pensabile senza nemico. Così il conflitto: questo presuppone solo la pluralità di soggetti – e correlative pretese – a uno stesso oggetto (bene). Dato che molti beni sono limitati, ne consegue che il conflitto esiste indipendentemente dai mezzi usati per risolverlo: la concorrenza o la guerra (o altro, come l’accordo)[4]. Mentre conflitto e nemico sono (relativamente o totalmente) indipendenti dalla volontà (perché esistono) la guerra richiede comunque la volontà di aggredire e di difendersi (e quindi due volontà irriducibilmente ostili)[5].

La guerra, in definitiva presuppone il nemico e il conflitto: ma non ne è la conseguenza necessaria. Ne deriva che l’assenza di guerra non significa che non esistono conflitti e nemici: ma solo che questi non hanno deciso di risolvere i conflitti e raggiungere i loro obiettivi politici col mezzo della guerra.

  1. La speranza della fine del nemico (in una con quella della Storia) fu contraddetta subito dopo il crollo del comunismo, dai conflitti che tale collasso generò (Balcani, Cecenia). Passato qualche anno provvide Bin Laden a confermarne l’illusorietà con l’attacco dell’11 settembre 2001. Tra la conclusione del comunismo e l’emergere del terrorismo di Al Quaeda, era pubblicato uno studio dei colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui destinato a dare un grosso dispiacere alle speranze e alle illusioni del pacifismo “senza se e senza ma”. Sostenevano i colonnelli che “la nuova situazione creatasi dopo il 1989-1991 facesse sì che “da questo momento in poi la guerra non sarà più ciò che è stata tradizionalmente. Il che significa che, se in futuro l’umanità non avrà altra scelta che entrare in conflitto, non potrà più condurlo nei modi consueti… Quando la gente comincia ad entusiasmarsi e a gioire propendendo per la riduzione di forze militari come mezzo per la risoluzione dei conflitti, la guerra è destinata a rinascere in altre forme e su di un altro scenario… In tal senso esistono fondate ragioni per sostenere che l’attacco finanziario di George Soros all’Asia Orientale, l’attacco terroristico di Osama Bin Laden all’ambasciata militare in Sudan… rappresentano una ‘semi-guerra’, una ‘quasi –guerra’ e una ‘sotto-guerra’, vale a dire la forma embrionale di un altro genere di guerra[6]. Il tutto significava assimilare alla guerra delle situazioni in cui l’ostilità non è riconducibile al concetto classico di questa (atto di forza).

L’acuto giudizio dei colonnelli in effetti non fa che confermare sia il famoso discorso sul potere di Tucidide (l’ambasciata degli ateniesi agli abitanti di Melo) sia, ancor più, il giudizio di Karl von Clausewitz e Giovanni Gentile[7] che la guerra è un atto di forza (comunque un mezzo) per costringere un’altra (potenza) a fare la nostra (di potenza) volontà: se a raggiungere questo fine tuttavia non è necessario mobilitare gli eserciti, ma bastano le scalate in borsa o gli attentati terroristici, ciò non toglie né che questi modifichino i rapporti di forza né che costringano l’aggredito a doversi adeguare alla volontà del nemico, se si arrende; se intende difendersi, al modo di combattere dell’aggressore.

In sostanza i due colonnelli, innovando alla (prima) definizione della guerra data da Clausewitz avevano acutamente posto il problema, prevedendo come l’inimicizia poteva ricorrere a forme inconsuete (ma non del tutto) una volta ritenuto inutile, inopportuno o antieconomico il ricorso alle armi.

Questa concezione dei colonnelli era tributaria dell’antico pensiero strategico cinese (Sun Zu) e indiano (Kautilya).

Scriveva Sun Zu: “Ottenere cento vittorie su cento battaglie non è il massimo dell’abilità: vincere il nemico senza bisogno di combattere, quello è il trionfo massimo[8]: per cui la vittoria è realizzare l’obiettivo politico: i mezzi sono secondari. Se lo si raggiunge senza far uso della forza, risparmiando sangue (e denaro) è meglio.

Nell’Arthasastra, Kautilya distingue vari tipi di guerra: quella aperta; quella dissimulata che consiste nell’infondere paura, nel colpire in modo imprevedibile; silenziosa con pratiche clandestine e complotti suscitati da spie[9].

D’altra parte è ripetuto da Kautilya che la scelta tra pace e guerra è funzionale all’interesse di potenza degli Stati, onde se mantenendo la pace si rovina (o decresce) la potenza – anche economica – del nemico, è meglio non fare guerra; l’inverso se la potenza si accresce[10]. Così anche se la guerra non è in atto, l’ostilità è sempre presente.

Pur nella diversità (inevitabile, anche se parziale) Sun Zu e Kautilya danno due insegnamenti, poi ripetuti in forma diversa e sotto vari profili, e tuttora validi: che il nemico (e il conflitto) non si manifestano sempre nella guerra (l’insopprimibilità dell’ostilità e della competizione di e per il potere), onde la guerra (mezzo) è subordinata alla politica (scopo); e che i tipi di “guerra” possono essere diversi, e non sempre richiedere l’impiego della violenza[11].

Per cui appare logico – e in linea con l’antico pensiero strategico orientale – quanto sostenuto da Quiao Liang e Wang Xiangsi che “se si riconosce  che i nuovi principi della guerra non sono più quelli di «usare la forza delle armi per costringere il nemico a sottomettersi ai propri voleri», quanto piuttosto quelli di «usare tutti i mezzi, inclusa la forza delle armi e sistemi di offesa militari e non-militari e letali – non letali per costringere il nemico ad accettare i propri interessi», tutto ciò costituisce un cambiamento: un cambiamento nella guerra e un cambiamento nelle modalità della guerra da ciò provocato”. Il che comporta un concetto più ampio di guerra che “non può che ridurre l’attaccamento dei soldati alla categoria di «operazioni militari diverse dalla guerra» nella quale, in ultima istanza, essi non saranno in grado di inserire il nuovissimo concetto di «operazioni di guerra non militari»”, in particolare il concetto di “«operazioni di guerra non militari», amplia la nostra percezione di ciò che esattamente costituisce uno stato di guerra a tutti i campi dell’attività umana, ben oltre, dunque, i contenuti racchiusi nell’espressione «operazioni militari». Questo ampliamento è il risultato naturale del fatto che gli esseri umani useranno qualsiasi mezzo per conseguire i loro obiettivi”.

  1. Indubbiamente a far maturare il nuovo/vecchio concetto di guerra, è da un lato la novità della tecnologia, dall’altro il progredire delle ideologie pacifiste.

Quanto alla prima ragione, non si può che rimandare a quanto scrivono i due colonnelli. Ma occorre aggiungere alle precedenti una terza ragione: il  tramonto dello jus publicum europeaum e dello stesso razionalismo occidentale, fondati in larga misura sul realismo e la teologia politica cristiana.

Per l’irenismo, tanto accresciuto dalle straordinarie distruzioni delle guerre del “secolo breve”, si è passati dal rifiuto della guerra – di per se una scelta, per lo più opportuna, la quale va valutata sotto tale profilo – alla negazione “a prescindere” della guerra e ancor più del nemico, in se totalmente irreale. Illusione che si può giudicare con le parole di Tucidide (rivolte dagli ambasciatori ateniesi agli abitanti di Melo) “giudicate il futuro più evidente della realtà concreta, e il desiderio vi fa trattare come cosa salda l’inesistente”[12]. Pretendere che il nemico non esista perché non è gradito e turba i sogni di pace fa parte delle stesse (pericolose) illusioni del non capire che azioni ostili possono compiersi (e ottenere il loro scopo politico) pur senza atti di violenza.

Tuttavia il giudizio di Tucidide, che corrisponde a quello di Machiavelli nel XV capitolo del Principe[13], introduce la terza ragione della “soppressione” del nemico: l’abbandono della concezione realistica cristiana e dello jus publicum europeaum.

É inutile dire che per la teologia politica cristiana la guerra è da evitare, ma essendo sempre possibile, data l’insopprimibilità dell’inimicizia tra uomini (e gruppi umani), non si può escludere né condannare sempre il ricorso a questa[14].

Tale concezione è realistica: parte dall’osservazione della realtà, ovvero l’esistenza di una pluralità di soggetti in grado di far guerra e aventi motivi di conflitto, per identificare le condizioni che consentano di evitare le guerre, e, se inevitabili, ridurne le potenzialità distruttive: i tre (poi quattro) requisiti della guerra giusta (auctoritas, justa causa, recta intentio, debitus modus gerendi bellum) limitavano i soggetti, le occasioni, le modalità e i fini della guerra. Ne contenevano gli effetti più devastanti e le ragioni più discutibili, senza né pretendere di aver trovato il rimedio per l’inimicizia e la guerra. Anche perché, a negare il nemico, ed in presenza di  qualcuno che ci fa comunque la guerra (a dispetto delle nostre buone intenzioni) la conclusione è che si tratta di un criminale, come sosteneva Carl Schmitt[15].

Quei principi passavano nel diritto internazionale westphaliano, con la nota “enfatizzazione” dell’auctoritas, cioè del soggetto legittimato alla guerra e così justus hostis, e il deperimento della justa causa (almeno fino all’inizio del secolo scorso).

Resta il fatto che, fino all’inizio del XX secolo la guerra era un mezzo giuridicamente lecito, il nemico era quel soggetto con cui si faceva la guerra, ma (poi) la pace. Come riteneva Raymond Aron “Il diritto internazionale pubblico europeo non aveva mai avuto lo scopo di mettere fuori legge la guerra, né mai si era attenuto a questo principio”[16]. Ma se quel mezzo è stato già condannato in sedi internazionali[17] e quel che più conta, è rifiutato da gran parte della popolazione, resta tuttavia l’esercizio dell’ostilità tramite mezzi non violenti.

  1. Scrive Max Weber che potenza significa la capacità d’imporre la propria volontà in una relazione sociale[18]; Aron, trasponendo tale definizione nel contesto internazionale sostiene che “la potenza o capacità di una collettività di imporre la sua volontà ad un’altra non va confusa con la sua capacità militare”. Freund elenca, esemplificandoli, i mezzi non violenti dell’ostilità, con cui si cerca di piegare la volontà di una comunità[19].

Correntemente per potere s’intende la capacità “d’un soggetto individuale o collettivo, di conseguire in modo intenzionale e non per accidente determinati scopi in una sfera specifica della vita sociale, ovvero di imporre in essa la propria volontà, nonostante la eventuale volontà contraria o la resistenza attiva o passiva di un altro soggetto o gruppo di soggetti”.

Ne consegue che ai fini della lotta per il potere è del tutto indifferente che l’effetto sia conseguito con l’uso della forza o con altro. L’essenziale è il risultato.

Tuttavia di fronte al conseguimento del risultato è peccato d’ingenuità non solo pensare che non sia un atto ostile, ma anche credere che la fondatezza giuridica (ad esempio, l’embargo all’esportazione di beni propri) escluda l’intenzione politica e l’ostilità: tutt’altro, semmai le occulta[20].

  1. Secondo Schmitt “Pensiero politico ed istinto politico si misurano perciò, sul piano teoretico come su quello pratico, in base alla capacità di distinguere amico e nemico. I punti più alti della grande politica sono anche i momenti in cui il nemico viene visto, con concreta chiarezza, come nemico” e prosegue “dovunque nella storia politica, di politica estera come di politica interna, l’incapacità o la non volontà di compiere questa distinzione appare come sintomo della fine della politica”.

Quello che sta succedendo è qualcosa che viene prima dell’incapacità di non distinguere amico e nemico: è la volontà e prima ancora la convinzione di non poterli distinguere: perché si presuppone che il nemico non esista ove la guerra non sia dichiarata, o perché non è tale in quanto ha ragione sul piano giuridico e/o economico.

Entrambe illusioni: quanto alla prima, stigmatizzata da Freund[21], consegue, come scrive, dalla concezione giuridica dell’ostilità[22]. Anche se il tutto è influenzato dal nominalismo giuridico (conseguente alle correnti neo-positiviste) e dalle sue versioni più modeste e “popolari”; per cui non c’è guerra se non la si dichiara (formalmente) tale. Con la consegueza che chi la dichiara è formalmente e apertamente un guerrafondaio; e per evitare tale nomea – così nociva in una società – spettacolo come quella globalizzata – la si fa evitando di dichiararla[23].

Credere poi che il compimento di atti d’ostilità sia giustificato sul piano giuridico ed economico (e quindi non è guerra, in senso lato, ma è attuazione di un diritto, riscossione di un credito) è anch’esso un truffarsi da soli, per almeno due ragioni: la prima perché sottovaluta che sotto le pretese giuridiche (ed economiche) c’è sempre un interesse (e un effetto) di potere. Il “diritto per il diritto” non è tale neppure nelle procedure giudiziarie (che richiedono, in linea generale, un interesse), tantomeno nei conflitti internazionali di guisa che, come scriveva Suarez il sovrano è legittimato a muovere guerra per i diritti della propria comunità politica non per quelli altrui[24].

D’altra parte se tali atti non sono atti di guerra, non si devono applicare neanche le limitazioni del diritto di guerra: le cui conseguenze possono essere devastanti[25].

Schmitt già nello scritto “Inter pacem et bellum nihil medium[26], giudicando cosa s’intendeva per “guerra” e “pace” negli anni ’30 del secolo scorso riteneva che “dimostra che l’ostilità, l’animus hostilis è divenuto il concetto più importante riguardo alla guerra”; ciò considerando che “In tutti i tempi ci sono state guerre «a metà», «parziali», «incompiute», «dosate», «localizzate», «wars sub modo»”[27].

  1. Se si condivide il giudizio di Schmitt che l’incapacità di operare la distinzione tra amico e nemico è sintomo della fine politica, si deve anche concludere che il capolavoro del nemico è quello di far credere che non esista: non c’è sistema più efficace di esercizio dell’ostilità. Sun Zu sostiene che l’abilità strategica consiste nel disorientare l’avversario “L’attacco migliore è quello che non fa capire dove difendersi, La difesa migliore è quella che non fa capire dove attaccare” di guisa che muovendosi “con rapidità senza lasciare traccia, quasi fossi evanescente, meravigliosamente misterioso, impercettibile: sarai padrone del destino del nemico”; ma gli stratagemmi consigliati dallo stratega cinese sono giochi da bambini rispetto al creare l’illusione che non esiste né ostilità né nemico. La clausewitziana “nebbia della guerra” così non copre solo il campo di battaglia, ma, per intero, lo stato conflittuale.

Il rifiuto dell’inimicizia consegue – come sopra scritto – a quello della guerra; quest’ultimo è il prodotto di un approccio (prevalentemente) di carattere giuridico al fenomeno guerra. Freund nel passo sopra citato si riferisce a concezioni giuridiche e non ad atti, e non fa pertanto riferimento alle costituzioni italiana e giapponese, successive alla fine del secondo conflitto mondiale, dov’è prescritto il rifiuto della guerra anche se con espressioni diverse[28].

Bisogna dar atto che malgrado il dettato pacifista, le due norme costituzionali non si sono spinte a negare l’esistenza e la possibilità dell’ostilità e del nemico, né che lo Stato lo possa individuare. Anzi il fatto che sia legittima la guerra difensiva presuppone che il nemico possa esistere e muovere guerra, e che ci si debba difendere.

Diverso appare il rifiuto del nemico in voga nella società contemporanea globalizzata: questo appare non solo come un residuo d’illusioni ideologiche smentite dalla storia (l’ultima e più conseguente delle quali è stata il comunismo), ma anche come derivato della società-spettacolo e della capacità di manipolare le credenze nella società di massa.

Se si prende per guerra (per conflitto) solo quello praticato con mezzi violenti, peraltro tanto spettacolari grazie alla tecnologia, è chiaro che dove non c’è spettacolo (la guerra classica con missili, bombe, corazzate e carri armati)  allora non c’è conflitto. Se poi a questo si aggiunge che la società di massa è drogata dai mezzi di comunicazione, è sufficiente un’attenta campagna di disinformazione – che sarebbe stata approvata da Kautylia e Sun Zu – per convincere che non essendoci violenza in atto, non ci sono né atti di ostilità né nemico. Specie se tale disinformazione si basa su notizie che all’uditorio piace sentire e occulta quelle sgradite: l’aspetto psicologico (nella e) della guerra è sempre stato fondamentale. L’aveva già sostenuto Joseph de Maistre, affermando che una battaglia persa è una battaglia che si è convinti di aver perduto. L’aveva ribadito Giovanni Gentile per il quale la guerra era un modo di superare l’opposizione tra volontà umane, e la soluzione della lotta era che il nemico riconosca “come sua la nostra volontà”, e cessi così di essere “volontà avversaria”[29].

Perché cessi di essere tale i modi possono essere tanti, il più efficace dei quali è non farla nascere cioè non far percepire l’esistenza di inimicizia e atti di ostilità a chi subisce (o subirà) l’aggressione.

Neppure il fatto che il nemico abbia ragione sul piano giuridico, lo assolve dall’ostilità politica e dalla conseguente necessità di difendersi. Solo una concezione decadente e limitata del diritto, ridotto a norme (e alle conseguenti decisioni giudiziarie, magari di Corti internazionali) può legittimare una concezione così lesionista. Se ci si richiama al principio romano che salus rei publicae suprema lex, è chiaro che nessun governante della comunità aggredita “a ragione” (normativa) potrebbe sacrificare l’esistenza della comunità, o anche “solo” la vita di molti cittadini, al rispetto dei trattati o comunque delle norme di diritto internazionale, applicando il contrario principio fiat justitia, pereat mundus. La politica, come sosteneva Max Weber, esige un’etica della responsabilità: degli uomini possono (e talvolta devono) decidere di morire per il rispetto delle leggi, e talvolta tale scelta può avere un significato di conservare il vincolo comunitario[30], ma non procurare morte e sofferenza ai propri concittadini in ossequio alla legalità[31].

D’altra parte la politica genera rendite politiche[32] e quindi ne produce la guerra. Un tempo si chiamavano tributi; nel XX secolo spesso “riparazioni”: ambedue i termini presuppongono un rapporto tra unità politiche. Nel XXI secolo dovremo forse chiamarle interesse differenziale, spread o quant’altro: il nomen conta (e dice) poco. Ciò che rileva è che trattasi di spostamento di risorse dal dominato al dominatore, dal vinto al vincitore. Quello che un tempo i primi pagavano ai secondi diventandone schiavi o prestando corvées; ed oggi, meno scomodamente (ma la società moderna è molto più comoda di quelle antiche, per cui la comodità non è merito del dominatore, ma dell’epoca), contraendo i consumi, modificando modi ed abitudini di vita per pagare debiti ed interessi. E in questa strada verso la servitù (e la povertà) ci s’inoltra tranquilli e contenti, per aver perso la guerra senza neanche accorgersene.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Tra le tante ricordiamo che, a giudizio di molti storici, l’unità d’Italia fu propiziata dalla morte di Ferdinando II di Borbone – Napoli, morto nel 1859 per un’infezione mal curata; l’opinione dei quali è che se Garibaldi avesse dovuto combattere col padre (Ferdinando II) invece che col figlio (Francesco II) l’esito sarebbe stato probabilmente diverso. Ovvero che le imprese dei conquistadores in America siano state assai favorite dall’epidemie di vaiolo e tubercolosi nelle popolazioni amerinde.

[2] Come scritto da G. Dumont nell’Avant-propos “…La première, qui est l’objet du prèsent ouvrage, est le modérantisme, considéré comme recherche du compromis, plus encore que du consensus, c’est-à-dire comme refus a priori de la possibilité même de toute situation conflictuelle”. I lavori sono stati di recente pubblicati in volume dal titolo “La guerre civile perpetuelle” (ed. Artège – Perpignan 2012); sulla guerra economica v. gli interventi di De Lauzun, Bonnet e Mescheriakoff.

[3] E del protagonista della favola di Collodi, tale illusione condivide anche il “naso lungo”:  d’essere una falsa profezia, cioè una menzogna, giacché della società comunista, nel socialismo reale, non s’è visto che il contrario: guerre, campi di concentramento, dittatura, governi totalitari più che polizieschi.

[4] É interessante ricordare, a tal riguardo, le distinzioni che fa Carnelutti in Teoria generale del diritto, Roma 1946, p. 15 e ss..

[5] Freund definisce il conflitto così: “Le conflit consiste en un affrontement ou heurt intentionnel entre deux êtres ou groupes de même espèce qui manifestent les uns à l’égard des autres une intention hostile, en général à propos d’un droit, et qui pour mantenir, affirmer ou rétablir le droit essaient de briser la résistance de l’autre, éventuellement par le recours à la violence, laquelle peut le cas échéant tendre à l’anéantissement physique de l’autreSociologie du conflit, Paris 1983, p. 65.

[6] E proseguono “Comunque si scelga di definirla, questa nuova realtà non può renderci più ottimisti che in passato. Ciò perché la riduzione delle funzioni della guerra in senso stretto non implica affatto che quella guerra abbia cessato di esistere. Anche nella cosiddetta era postmoderna e post-industriale la guerra non sarà mai eliminata del tutto. É solo tornata a invadere la società in modi più complessi, più estesi, più nascosti e sottili… La guerra che ha subito i cambiamenti della moderna tecnologia e del sistema di mercato verrà condotta in forme ancor più atipiche. In altre parole, mentre si assiste a una relativa riduzione della violenza militare, allo stesso tempo si constata una aumento della violenza politica, economica e tecnologica. Tuttavia, indipendentemente dalle forme assunte dalla violenza, la guerra è guerra, e un cambiamento nella sua veste esteriore non le impedisce di mantenere i principi della guerra in sé” v. Guerra senza limiti, Gorizia 2001, p. 39; si può dire, mutuando una frase di Clausewitz, che la guerra ha una grammatica, ma non una logica, cambia la grammatica, ma non la logica.

[7] Il concetto di Gentile è più sfumato, distinguendo tra diverse forme di guerra: v. appresso al punto 7.

[8] La stessa tesi, sotto diversi profili – riecheggia in altri passi di Sun Zu, con “agisci soltanto nell’interesse dello Stato. Se non sei più che sicuro di riuscire, non impiegare uomini. Se non sei in pericolo, non combattere”; o sul calcolo (costo) delle risorse necessarie alle spedizioni militari “Ricorda: quando si mobilita un esercito di centomila uomini per impegnarlo in una campagna militare a mille li dallo Stato, le spese che ne derivano per il popolo, costituite dagli esborsi dell’Erario, ammontano a mille pezzi d’oro al giorno. Possono essere necessari anni di guerra per un giorno di vittoria. Ne nascerà un grande turbamento, sia interno che esterno; il popolo sarà sfibrato dalle imposte, e i bilanci di settecentomila famiglie andranno in dissesto” v. L’arte della guerra, Edizioni Mediterranee, Roma 2005, pp. 49, 143, 145.

[9] v. Kautilya, Arthasastra, trad. fr. Paris 1998, p. 40.

[10] L’esame nell’Arthasastra di cause, presupposti, condizioni della guerra e della pace è assai più articolato, e vi rimandiamo; lo consideriamo qui solo per l’aspetto “economico” che è quanto interessa ai fini dello scritto.

[11] Ad esempio basta appoggiare, anche con mezzi economico-finanziari, uno dei belligeranti. É la linea, tra tanti, seguita dal Cardinal Richelieu nella guerra dei Trent’anni, aiutando i protestanti fino alla (prima) battaglia di Nordlingen (poi si trasformò in guerra aperta agli Asburgo); o di F.D. Roosevelt nell’appoggio finanziario ed economico alla Gran Bretagna, alla Cina (e all’Unione Sovietica), fino a Peral Harbour (dopo di che fu guerra).

[12] La guerra del Peloponneso, V, 113. G. Miglio riconduce il concetto di “pace” intesa come anti-politica a “una tendenza culturale squisitamente borghese”. Ovviamente la pace come situazione permanente dell’umanità non è mai esistita e non può esistere, a meno che non venga meno la costante dell’obbligazione politica (e l’esigenza umana che la fonda). In questo senso intesa, la pace è riconducibile a quelle “anti-realtà” ideologiche che “si contrappongono alla struttura dell’obbligazione politica. Sono valori utopici, la cui permanenza è legata proprio al fatto che contraddicono parti di quella struttura costante; pretendono di contraddire alcune regolarità fondamentali dell’obbligazione politica. La pace nega la realtà indistruttibile della conflittualità e della guerra, sulla quale è basata la sintesi politica; l’eguaglianza nega la struttura articolata delle istituzioni politiche; la libertà nega la stessa struttura delle procedure convenute delle convenzioni pattuite e delle istituzioni politiche”, v. G. Miglio Lezioni di politica, vol. II°, Bologna 2011, p. 419.

[13] “E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si dovrebbe fare, impara più presto la ruina che la perseverazione sua”.

[14] Evitiamo di ricordare i principali teologi che se ne sono occupati. Rinviamo per questo a Roberto De Mattei, Guerra Santa. Guerra giusta, Casale Monferrato 2002.

[15] La necessità di distinguere nemico e criminale è già nel Digesto: “Hostes’ hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus: ceteri ‘latrones’ aut ‘praedones’ sunt”, Nemici sono coloro che ci hanno o cui noi abbiamo dichiarato pubblicamente guerra; gli altri sono briganti o pirati (v. D. 118, 50, 16).

[16] Paix et guerre entre les nations, trad. it. Milano 1983, p. 143.

[17] v. C. Schmitt Der Nomos der Erde, trad it. Milano 1991, pp. 335 ss. (sul mutamento di significato della guerra tra le due guerre mondiali).

[18] Wirtschaft und Gesellshaft, vol. I, trad. it. Milano 1980, p. 51.

[19]De tout temps on a essayé de menacer l’existence politique d’une collectivité par d’autres moyens que la guerre: affamer la population, soudoyer un parti politique et favoriser sa prise du pouvoir afin d’opérer ensuite, avec son accord, le rattachement de ce pays à une autre collectivité… mettre l’embargo sur des produits de première nécessité, faire un blocus, etc. Que sont les moyens dits pacifiques comme l’encerclement diplomatique ou les sanctions que l’on prend contre un pays récalcitrant, sinon des mesures d’hostilité destinées à menacer l’existence de ce dernier ? Bref, il existe toutes sortes d’agressions. A côté de la conquête militaire, il y a les moyens psychologiques de la propagande, de la mise en condition, de la subversion, les aggressions économiques, sociales et thecniques ou encore les armes biologiques. Les ressources de l’inimitié sont donc extrêmement variables”, v. Freund L’essence du politique, Paris 1965, p. 507.

[20] Al riguardo è opportuno ricordare in questo caso il rapporto che Hauriou vedeva tra teologia e diritto: l’una il nocciolo, l’altro l’involucro. O il giudizio di Freund che l’obbligazione giuridica è eteronoma: suppone una volontà diversa da quella del giurista.

[21] Op. cit. p. 507.

[22] “… qui a empêché la plupart des auteurs ayant écrit sur la politique de voir dans la relation ami-ennemi un présupposé du politique, en quoi ils se sont trompés et sur la nature de la politique et sur celle de la guerre” Freund Op. loc. cit.

[23] Per i giuristi più attenti al pensiero realista, la guerra è un fatto: dichiararla è un obbligo giuridico. Farla senza dichiarazione non è un merito: è semplicemente la violazione di una regola di diritto internazionale.

[24] De charitate, disp. 13 De Bello, sectio IV. E’ chiaro che, senza la limitazione dell’interesse proprio (anche quindi nel rinunciare all’attuazione d’interessi propri) le cause di guerra si moltiplicherebbero geometricamente.

[25] Ad esempio l’embargo su prodotti alimentari. Se ciò provoca carestie (ed epidemie) è soprattutto a carico della popolazione civile, e della fazione più debole della stessa. Così si viola la limitazione a non coinvolgere nella guerra gli innocentes: se si può credere che il progresso tecnologico abbia prodotto delle bombe “intelligenti” tali da ridurre al minimo i c.d. “danni collaterali”, non ci risulta che esistano delle carestie “intelligenti”. Sull’embargo dell’IRAQ è interessante leggere l’appello consegnato da 54 vescovi cattolici al Presidente Clinton nel gennaio del 1998; i quali giudicavano “Questa campagna di bombardamenti, assieme all’embargo totale in vigore dall’agosto 1990, era, ed è, un attacco contro la popolazione civile dell’Iraq. Una tale guerra contro la popolazione è stata condannata in maniera inequivocabile dal corpus magisteriale più autoritativo della Chiesa cattolica, il Concilio Vaticano II (1962-1965). Agenzie indipendenti continuano a documentare il devastante impatto delle sanzioni sulla popolazione civile … qualunque sia l’intento di queste sanzioni, siamo costretti da questa valutazione a giudicarle una violazione dell’insegnamento morale, segnatamente come è formulato nella tradizione cattolica”.

[26] in “Schriften der Akademie für Deutsches RechtGruppe Völkerrecht, n. 7, Berlin, 1939, trad. it. in Lo Stato X (1939), pp. 541-548.

[27] e prosegue “l’espressione usata dalla relazione Lytton sull’avanzata dei giapponesi «war disguised» non presenterebbe in sé alcunché di nuovo. Il nuovo era lo stato intermedio fra pace e guerra, elaborato giuridicamente e reso istituzione dalla Lega delle Nazioni e dal patto Kellogg”. D’altra parte quando Schmitt, sottolineando l’incongruenza dei concetti di guerra e pace applicati dalla Lega delle nazioni (determinati a contrario per cui non era guerra l’aggressione giapponese alla Cina ma lo era quella italiana all’Abissinia) rispetto a quello di vera pace ricorda da vicino la concezione della pace come “tranquillità dell’ordine” di S. Agostino.

[28] L’art. 9 della Costituzione giapponese prescrive “Aspirando sinceramente ad una pace internazionale fondata sulla giustizia e sull’ordine, il popolo giapponese rinunzia per sempre alla guerra, quale diritto sovrano della Nazione, ed alla minaccia o all’uso della forza. quale mezzo per risolvere le controversie internazionali.

Per conseguire l’obiettivo proclamato nel comma precedente, non saranno mantenute forze di terra, del mare e dell’aria, e nemmeno altri mezzi bellici. Il diritto di belligeranza dello Stato non sarà riconosciuto”; l’art. 11 di quella italiana dispone che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Le due espressioni normative non vanno prese troppo alla lettera: né la rinuncia della guerra ha impedito al Giappone di riarmarsi, né il ripudio italiano della stessa era totale (perché era ammessa quella di difesa) né del tutto efficace, perché non ha impedito di mandare corpi di spedizione all’estero per “pacificare” sotto comando straniero popolazioni riluttanti.

[29] In effetti il concetto di guerra di Gentile è anch’esso più esteso di quello usuale di guerra come atto di forza “Tra i modi di superare l’opposizione è la guerra: della quale il filosofo non può ignorare che ci sono mille forme, e si vengono moltiplicando col moltiplicarsi dei modi in cui si esplica l’espressione del pensiero umano e la volontà si sforza di farsi valere. C’è la guerra a punte di spillo, e c’è la guerra a colpi di cannone. Le punte di spillo sono parole: parole però che tendono a scopi sostanzialmente affini a quelli perseguiti dal cannone: l’annientamento dell’avversario. Ma la guerra propriamente detta è quella che gli Stati combattono con tutte le armi più micidiali per aver ragione l’uno dell’altro, quando l’uno sia d’impedimento all’altro nel raggiungimento di fini essenziali alla sua esistenza”  (i corsivi sono nostri) Genesi e struttura della Società, rist. Firenze 1983, p. 104.

[30] Come per Socrate nel “Critone”, nel noto passo della prosopopea delle Leggi (le quali però non sono le “norme” dei neo-positivisti).

[31] Cosa che è assai chiara nella concezione dei giuristi istituzionisti. Per Maurice Hauriou l’istituzione – per la modernità lo Stato – ha la funzione principale di “Protéger la société individualiste par son gouvernement, lui assurer la paix et l’ordre au dedans et au dehors par sa force armée, par sa diplomatie, par sa police, par sa législation, par ses tribunaux”, Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 49. La funzione di protezione è l’obbligo principale dell’istituzione nei confronti della comunità (e così dei governanti verso i governati). Per Santi Romano la necessità è fonte di diritto superiore alla legge. Se la necessità (il cui concetto nel giurista siciliano non è molto distante dal Ausnahmezustand di Carl Schmitt) impone di violare la legge, la “violazione” della norma è legittima, in quanto salvaguarda l’ordinamento. Sia in Hauriou che in Romano e Carl Schmitt è evidente la lezione di Hobbes, per cui il protego ergo obligo è la sostanza dell’obbligazione politica (v. Leviathan, Esame critico e conclusione, rist. Bari 1974, in particolare p. 661). Pretendere di obbligare senza proteggere, o viceversa di essere protetti senza essere obbligati è un inganno e un’assurdità.

[32] Sul punto v. Gianfranco Miglio, Lezioni di scienza della politica, Bologna 2011, pp. 320 ss.

LA FINANZA, UNO STRUMENTO DI LOTTA TRA LE NAZIONI EUROPEE SOTTOPOSTE ALLE STRATEGIE USA 4a parte (a cura di) Luigi Longo

LA FINANZA, UNO STRUMENTO DI LOTTA TRA LE NAZIONI EUROPEE SOTTOPOSTE ALLE STRATEGIE USA

(a cura di) Luigi Longo

 

 

Propongo la lettura di quattro scritti di cui il primo sull’euro, sullo spread e sul rapporto tra l’Italia e la Germania; il secondo sul non rispetto delle regole europee da parte della Bundesbank nell’emissione dei titoli del debito pubblico; il terzo sul debito pubblico; il quarto sulla necessità di un principe che con dura energia sappia rialzare la Nazione da uno stato di degrado economico, politico e sociale.

I due scritti di Domenico de Simone, un economista “radical”, sono apparsi sul sito www.domenicods.wordpress.com, rispettivamente in data 27/5/2018 e 18/2/2014, con i seguenti titoli: 1) italiani scrocconi e fannulloni? tedeschi truffatori e falsari!; 2) Con la scusa del debito.

Lo scritto di Domenico De Leo, economista, è apparso sul sito www.economiaepolitica.it in data 7/12/2011, con il seguente titolo: L’eccezione tedesca nel collocamento dei titoli di stato.

Per ultimo propongo lo stralcio dello scritto di G.W.F. Hegel dal titolo: Il “Principe” di Macchiavelli e l’Italia che è stato pubblicato in Niccolò Macchiavelli, Il Principe, a cura di Ugo Dotti, Feltrinelli, Milano, 2011, pp. 246-248.

L’idea di questa proposta è scaturita seguendo con grande fatica la crisi politica e istituzionale che si è innescata a partire dalle elezioni politiche del 4 marzo scorso: è irritante fare analisi politiche di grandi questioni (sic) a partire dalle elezioni politiche che sono teatrini indecenti con maschere penose e tristi, così come tristi sono le relazioni di potere!

Si parla in questi giorni di questioni come la difesa dell’euro, il debito pubblico, il pareggio di bilancio, lo spread, l’Unione Europea, la Costituzione violata, eccetera, velando i veri problemi che sono quelli dati dalla mancanza di sovranità nazionale (indipendenza, autonomia e autodeterminazione) e da una Europa che non esiste come soggetto politico (non è mai esistita storicamente): questa Unione europea, economica e finanziaria è figlia delle strategie egemoniche mondiali statunitensi.

L’Europa è una espressione geografica storicamente data a servizio degli Stati Uniti dove i sub-dominanti vogliono tutelare i propri interessi nazionali, svolgere le proprie funzioni per accrescere il loro potere sotto l’ala protettiva e allo stesso tempo minacciosa degli Stati Uniti (egemonia nelle istituzioni internazionali e nella Nato) a scapito degli interessi della maggioranza delle popolazioni nazionali ed europee (gli scritti di Domenico de Simone e di Domenico De Leo chiariscono molto bene il ruolo di potere degli agenti strategici che usano gli strumenti della finanza nel conflitto per la difesa del posto di vassallo europeo da parte tedesca).

La crisi dell’Italia (crisi di una idea di sviluppo e di una comunità nazionale inserite in una crisi d’epoca mondiale) va vista nel ruolo che l’Italia svolge nelle strategie statunitensi: sul territorio italiano ci sono fondamentali infrastrutture (immobili e mobili) militari a servizio degli Usa, nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e in Oriente. Gli Usa-Nato stanno cambiando le città e i territori, stanno distruggendo le industrie di base, stanno rimodellando le economie dei territori; il Pentagono decide gli investimenti e le infrastrutture necessari; in definitiva hanno compromesso le basi per lo sviluppo di una discreta potenza del Paese: ci restano solo il cosiddetto made in Italy e il piccolo, medio è bello (sic). Il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, facendo gli auguri al popolo italiano per la festa della Repubblica, ha detto che “La nostra continua cooperazione economica, politica e sulla sicurezza è vitale (corsivo mio) per affrontare le sfide comuni, tra cui il rafforzamento della sicurezza transatlantica e la lotta al terrorismo in tutto il mondo”.

Lo sbandamento dei sub-decisori italiani non è dovuto alla ricerca di un percorso di sovranità nazionale, da cercare con altre nazioni europee, per ripensare un’Europa come soggetto politico autonomo ( le cui forme istituzionali sono da inventare); ma esso è dovuto al conflitto interno agli USA dove si scontrano le visioni diverse dell’utilizzo dello spazio Europa in funzione delle proprie strategie egemoniche mondiali: 1) una Europa sotto il coordinamento del vassallo tedesco e del valvassore francese con la costruzione di uno Stato europeo?; 2) una Europa delle Nazioni singole?; 3) una Europa ridisegnata con la creazione di regioni?; 4) una Europa riorganizzata in aree << secondo le linee che marcano lo sviluppo storico>>?

La nuova sintesi dei dominanti statunitensi basata su un’idea di sviluppo con una diversa organizzazione sociale ( se mai ci sarà, considerato l’atroce conflitto in atto che indica l’inizio del declino dell’impero) dirà quale Europa sarà funzionale al rilancio egemonico mondiale.

E’ bastato che alcune forze politiche sistemiche proponessero ( non a livello di azione, che presuppone ben altre analisi e ben altri processi) aggiustamenti tecnici, maggiore equità, una ri-sistemazione sistemica delle gerarchie consolidate, una maggiore difesa dei propri interessi nazionali in funzione di una migliore Europa atlantica, che la reazione del potere sub-dominante europeo (soprattutto tedesco) fosse violenta, scomposta e rozza.

Il ruolo di garante di questa Europa legata ai dominanti statunitensi, che si configurano nel blocco democratico – neocon – repubblicano ( di questo blocco sono da capire meglio gli intrecci dei decisori della sfera politica), che vogliono una Europa coordinata dal vassallo tedesco, è rappresentato, in Italia, dal Presidente della Repubblica (oggi Sergio Mattarella, ieri Giorgio Napolitano). Il gioco istituzionale di Sergio Mattarella è da inquadrare in questa logica, altrimenti non si capiscono bene le contraddizioni, i paradossi, le sbandate e le ipocrisie di tutta la sfera politica. Attardarsi sul rispetto della Costituzione da parte del Presidente della Repubblica è un non sense perché la Costituzione è una espressione dei decisori e non del popolo. Le regole, le norme, i principi che regolano i rapporti sociali di una Comunità nazionale sono in mano a pochi e non a molti. Come insegna la cultura antica, soprattutto greca, quando le regole del legame sociale non sono decise dalla maggioranza non c’è nè democrazia nè libertà.

Occorre riflettere sulla tragica situazione in cui si trova l’Italia in particolare, e più in generale l’Europa, per trovare una strada che non sia solo elettorale, che non sia solo tecnica-finanziaria, che non veda la finanza come un dominio ma come uno strumento di potere in mano agli agenti strategici sub-dominanti europei e pre-dominati statunitensi. << Oggi si parla tanto della finanziarizzazione del capitale e del suo strapotere. Magari vedendo in questo processo l’avvicinarsi di una crisi catastrofica. Ma la finanza è solo un fattore fra altri, non isolabile, dello scontro per la supremazia fra i gruppi dominanti. Il capitale finanziario insomma rappresenta i conflitti in atto tra diverse forze e strategie politiche, combattuti con l’arma del denaro. Se vogliamo allora comprendere gli squilibri e le crisi che caratterizzano il capitalismo contemporaneo dovremmo addentrarci in un complesso intreccio tra funzioni finanziarie e politiche e nelle contraddizioni tra la razionalità strategica che prefigura assetti di potere e la razionalità strumentale che mira ai vantaggi immediati dell’economia. Al fondo vi è sempre lo scontro tra gruppi dominanti.>> (Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008).

Per questo il rito delle elezioni è diventato sempre più inutile (l’esempio greco, e non solo, è significativo!) e mano a mano che si entrerà sempre di più nella fase multicentrica si renderà sempre più palese l’ideologia della partecipazione popolare alle decisioni del Paese tramite il voto elettorale, alla faccia della Costituzione!

La fase multicentrica impone una ri-considerazione sul ruolo della sovranità nazionale per ri-costruire una Europa delle nazioni sovrane che chiarisca il suo rapporto con gli USA e guardi ad Oriente.

 

Per comodità di lettura gli scritti proposti sono stati divisi e pubblicati in quattro parti, ciascuna preceduta dalla mia introduzione.

 

 

QUARTA PARTE

 

 

Il “Principe” di Macchiavelli e l’Italia*

di G.W.F. Hegel

 

 

[…] Non passò molto tempo da quando le singole parti d’Italia ebbero dissolto lo stato prima esistente e furono ascese all’indipendenza, che esse stimolarono l’avidità di conquista delle potenze più grandi e diventarono il teatro delle guerre delle potenze straniere. I piccoli stati che si contrapposero, sul piano della potenza, ad una potenza mille e più volte maggiore, ebbero a subire il loro necessario destino, la rovina: e accanto al rimpianto si prova il sentimento della necessità e della colpa imputabile a pigmei che, ponendosi accanto a colossi, ne vengono calpestati. Anche l’esistenza dei maggiori stati italiani, che si erano formati assorbendo una quantità di stati minori, continuò a vegetare senza forza e senza vera indipendenza, come una pedina nei piani delle potenze straniere; si conservarono un po’ più a lungo per la loro abilità  nell’umiliarsi avvedutamente al momento giusto, e di tener lontano, con continue mezze sottomissioni, quell’assoggettamento totale che da ultimo non poté mancare. […] In questo periodo di sventura, quando l’Italia correva incontro alla sua miseria ed era il campo di battaglia delle guerre che i principi stranieri conducevano per impadronirsi dei suoi territori, ed essa forniva i mezzi per le guerre e ne era il prezzo; quando essa affidava la propria difesa all’assassinio, al veleno, al tradimento, o a schiere di gentaglia forestiera sempre costose e rovinose per chi le assoldava, e più spesso anche temibili e pericolose – alcuni dei capi di essi ascesero al rango principesco -; quando tedeschi, spagnoli, francesi e svizzeri la mettevano a sacco ed erano i gabinetti stranieri a decidere la sorte della nazione, ci fu un uomo di stato italiano che, nel pieno sentimento di questa condizione di miseria universale, di odio, di dissoluzione e di cecità, concepì, con freddo giudizio, la necessaria idea che per salvare l’Italia bisognasse unificarla in uno stato. Con rigorosa consequenzialità egli tracciò la via che era necessaria, sia in vista della salvezza sia tenendo conto della corruttela  e del cieco delirio del suo tempo, ed invitò il suo principe a prendere per sé il nobile compito di salvare l’Italia, e la gloria di porre fine alla sua sventura […]

E’ facile rendersi conto che un uomo il quale parla con un tono di verità che scaturisce dalla sua serietà non poteva avere bassezza nel cuore, né capricci nella mente. A proposito della bassezza, nella opinione comune già il nome di Macchiavelli è segnato dalla riprovazione: princìpi machiavellici e princìpi riprovevoli sono, per lei, la stessa cosa. Il cieco vociare di una cosiddetta libertà ha tanto soffocato l’idea di uno stato che un popolo si impegni a costituire, che forse non bastano né tutta la miseria abbattutasi sulla Germania nella Guerra dei sette anni, e in quest’ultima guerra contro la Francia, né tutti i progressi della ragione e l’esperienza delle convulsioni della libertà francese per innalzare a fede dei popoli o a principio della scienza politica questa verità: che la libertà è possibile solo là dove un popolo si è unito, sotto l’egida delle leggi, in uno stato.

Già il fine che Macchiavelli si prefisse, di innalzare l’Italia ad uno stato, viene frainteso dalla cecità, la quale vede nell’opera di Macchiavelli nient’altro che una fondazione di tirannia, uno specchio dorato presentato ad un ambizioso oppressore. Ma se anche si riconosce quel fine, i mezzi – si dice – sono ripugnanti: e qui la morte ha tutto l’agio di mettere in mostra le sue trivialità, che il fine non giustifica i mezzi, ecc. Ma qui non ha senso discutere sulla scelta dei mezzi, le membra cancrenose non possono essere curate con l’acqua di lavanda. Una condizione nella quale veleno ed assassinio sono diventate armi abituali non ammette interventi correttivi troppo delicati. Una vita prossima alla putrefazione può essere riorganizzata solo con la più dura energia.

 

 

*Lo scritto di Hegel sulla situazione italiana e Macchiavelli, che qui presentiamo (il titolo è redazionale), è tratto dal nono capitolo della Costituzione della Germania ( La formazione degli stati nel resto d’Europa). E’ dato nella traduzione italiana di C. Cesa, in G.W.F. Hegel, Scritti politici, Torino, Einaudi, 1972, pp. 101-108. Si ringraziano traduttore ed editore per la gentile concessione.

 

 

A trenta chilometri da Macerata, di Roberto Buffagni

I nostri lettori, per lo meno alcuni di essi, si chiederanno il motivo dell’ostinazione con la quale la redazione di Italia e il Mondo si stia concentrando sui fatti di Macerata e dintorni a partire dall’assassinio atroce di Pamela Mastropietro. Un accanimento proprio di un giornale di inchiesta piuttosto che di un gruppo sparuto impegnato con scarsi mezzi e ancor meno tempo nell’analisi politica e geopolitica.

Tranquilli!

Non si tratta di un cedimento alla attenzione morbosa e ossessiva al gossip più macabro; nemmeno di uno snaturamento della natura e delle intenzioni che stanno sorreggendo l’impegno della redazione. Tutt’altro!

Alberga la sensazione sempre più netta che i fatti di Macerata, se messi a nudo nella loro integrità e nella loro profondità, possano contribuire a smascherare in maniera decisiva la grettezza, la pochezza, l’ignoranza, la complicità, l’accondiscendenza, la perversione della gran parte di una classe dirigente che ha preso in mano, per la precisione si è vista consegnare le redini del paese da trenta anni, a partire da Tangentopoli. Una classe dirigente in evidente crisi di credibilità, che sta perdendo il controllo di alcune leve, ma che detiene ancora saldamente, anche se in maniera sempre più disarticolata, il resto delle funzioni di controllo e di comando, il reticolo di strutture e apparati in grado di conformare una comunità e una nazione.

Quello che i fatti di Macerata rischia di evidenziare è:

  • il pressapochismo e l’ignoranza con la quale si è affrontato il problema dell’immigrazione consentendo la formazione di enclaves e comunità chiuse spesso in territori sui quali lo Stato, alcuni settori di essi, fatica a detenere anche storicamente il controllo e nei quali spesso e volentieri scende a patti, si fa permeare e convive con le forze più retrive e dissolutrici
  • il peso crescente e abnorme che il cosiddetto “terzo settore” ha assunto progressivamente nella formazione di risorse economiche, di una classe dirigente e di un ceto politico; un processo non a caso concomitante con la politica di dismissione e spoliazione della grande industria privata e soprattutto pubblica e di disarticolazione di alcuni apparati centrali dello stato. Tutti ambiti dai quali si formavano gli esponenti più lungimiranti e capaci di strategie politiche di una qualche consistenza apparsi sino agli anni ’80. Non si vuole certo sminuire l’importanza del settore e la buona fede e l’impegno di gran parte degli operatori. Va sottolineato piuttosto il peso abnorme rispetto al resto delle attività di una formazione sociale e l’inerzia che innesca la creazione di apparati burocratici di tali dimensioni specie negli ambiti assistenziali
  • la progressiva e supina remissività e subordinazione, senza alcun sussulto e capacità di trattativa, a strategie politiche esterne al paese e contrarie e ostili agli interessi della parte preponderante della nazione e del paese sino ad arrivare ai mercimoni più miserabili. Gli accordi europei passati, riguardanti i punti di approdo marittimo, sono certamente uno di questi

I fatti di Macerata, probabilmente, non sono nemmeno l’epicentro di fenomeni che stanno attraversando il paese. Sono, piuttosto, la punta di un iceberg che si estende in altre parti ben più importanti del territorio. Sono emersi lì, perché si tratta di un territorio ancora non del tutto compromesso e dove l’assassinio di una ragazza può emergere ancora come un fatto di cronaca rilevante capace di porre interrogativi esistenziali.

Le pressioni per mantenere sotto traccia o addirittura rimuovere l’episodio devono essere enormi e il comportamento oscillante degli organi inquirenti sono l’indizio probabilmente del loro peso.

Una situazione che altrimenti, sfuggita di mano, rischia di assestare un colpo definitivo alla credibilità residua di una classe dirigente, affetta com’è dalle tare del cosmopolitismo, del pensiero liberale debole, dell’umanitarismo compassionevole. Tutte categorie in crisi evidente, ormai incapaci di offrire adeguate chiavi di interpretazioni, tanto meno di politiche adeguate. L’ascesa di Trump ha offerto l’occasione per scatenare queste dinamiche. Categorie alle quali sembrano ancora abbarbicate i superstiti di questa classe dirigente e che rischiano di essere la causa ultima del loro declino e dell’erosione del loro potere_Buona lettura, Germinario Giuseppe

A trenta chilometri da Macerata

 

Nel marzo del 2018, a 29,7 chilometri da Macerata, a 11,3 chilometri dal Colle dell’Infinito leopardiano, sono stati ritrovati una cinquantina di resti umani[1] sotterrati nei pressi dell’ Hotel House, “grattacielo multietnico” di Porto Recanati.

Due giorni fa, esami di laboratorio eseguiti sulla polpa di un dente hanno accertato che tra i resti ci sono anche quelli di Camey Mossamet, quindicenne bengalese scomparsa nel 2010[2]. Camey abitava a Tavernelle, all’Hotel House aveva un fidanzatino. E’ nei pressi dell’Hotel House che è stata vista per l’ultima volta.[3]

Il 29 maggio 2010 l’incantevole ragazzina uscì di casa per andare a scuola, ad Ancona, e sparì nel nulla. Nel nulla finirono anche le indagini. L’avvocato Luca Sartini dell’ Associazione Penelope, che assiste i familiari di persone scomparse, all’epoca seguì le indagini[4]. L’Associazione voleva incaricare delle ricerche un investigatore, e chiese alla Procura di vedere il fascicolo delle indagini, per non sprecare tempo cercando dove la polizia già avesse fatto sopralluoghi. La Procura negò l’accesso al fascicolo perché Sartini non aveva indicato gli atti precisi da visionare. Cosa tutt’altro che facile: l’Avv. Sartini non è chiaroveggente, e non poteva sapere quali indagini avessero condotto gli inquirenti. Secondo l’Avv. Sartini, gli inquirenti s’erano formata la convinzione che all’interno della famiglia ci fosse omertà, e che insomma Camey, una ragazzina che voleva vivere all’occidentale e amava giocare a calcio, fosse stata riportata in Bangladesh contro la sua volontà: tant’è vero che si fecero indagini anche colà, naturalmente senza risultati. Per smentire questa ipotesi investigativa, Sartini accompagnò la madre e il fratello di Camey a un colloquio con il Procuratore. Non è servito, a quanto pare. Tuttora non si sa dove abbiano svolto ricerche gli inquirenti. Non si può che convenire con l’Avv. Sartini, quando dichiara che “non dovessero aver cercato lì, a pochi metri dall’Hotel House, dove è stata vista per l’ultima volta, sarebbe scandaloso.” Aggiunge Sartini che gli è capitato di seguire diversi casi, e “senza polemiche, ci sono indagini di serie A e di serie B.”[5]

Non c’è dubbio: senza polemiche, ci sono indagini di serie A e di serie B. Da che cosa sia dipesa l’iscrizione dell’indagine su Camey nel campionato minore, non è facile capire. Può essere la ragione più vecchia del mondo: socialmente, la famiglia di Camey conta zero, e per chi conta zero gli inquirenti, salvo eccezioni, tendono a impegnarsi meno. Oppure: se l’ipotesi degli inquirenti era “Camey riportata contro la sua volontà in Bangladesh a scopo matrimonio forzato”, l’argomento era delicato perché si presta a polemiche contro i mussulmani, l’integrazione degli immigrati, le magnifiche sorti della società multietnica e progressiva, etc. O anche: il “grattacielo multietnico” Hotel House, dove vivono e convivono, male, duemila e passa persone, quasi tutte immigrati di varie etnie e religioni, già nel 2010 era un focolaio di crimini[6] e malvivenza che le autorità non riuscivano a controllare e tanto meno a sanare. Ma sino a quel momento, si parlava di spaccio di droga, furti, prepotenze: reati odiosi, ma non atrocità terrificanti. Alla microcriminalità endemica le popolazioni possono, tristemente, abituarsi e rassegnarsi. Abituarsi e rassegnarsi all’orrore senza nome è meno facile, in tempo di pace (almeno nominale). Possibile che il timore di scoprirsi in precario equilibrio sull’orlo di un “pozzo degli orrori”, come anni dopo i giornalisti avrebbero chiamato la fossa comune con i resti di Camey e di altre vittime sinora ignote, abbia infuso negli inquirenti una semiconsapevole propensione a quieta non movere?

Non so. Non so neanche se il ritrovamento dei resti umani a due passi dell’Hotel House possa essere collegato all’assassinio e allo smembramento di Pamela Mastropietro, per il quale sulle prime qualcuno (tra i quali anch’ io) parlò di omicidio rituale.

Un letterato del IV secolo, Onorato, nei suoi Commentarii in Vergilii Aeneidos libros VIII scrive: “…in omnibus sacris feminei generis plus valent victimae”, in ogni tipo di rito le vittime migliori sono di genere femminile. Ma sono passati millesettecento anni, e da quei tempi bui tutto è cambiato. O no?

[1] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/03/29/pozzo-dellorrore-trovati-oltre-50-reperti-il-sindaco-la-citta-e-sicura/1084978/

[2] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/06/29/pozzo-dellorrore-le-ossa-sono-di-Cameyi/1121347/

[3] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/03/29/unamica-di-Cameyi-non-so-se-siano-i-suoi-resti-ma-lascio-un-fiore/1084906/

[4] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/04/01/il-legale-che-segui-il-caso-Cameyi-volevamo-cercarla-con-un-detective-ci-fu-negato-di-vedere-il-fascicolo/1085465/

[5] Ibidem

[6] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/06/14/hotel-house-al-setaccio-in-sei-mesi-di-controlli-12-arresti-e-177-denunce/1114776/ ; https://www.cronachemaceratesi.it/2018/04/24/al-setaccio-hotel-house-e-river-perquisite-diverse-case-foto/1094802/ ; https://www.cronachemaceratesi.it/2018/04/24/blitz-in-21-appartamenti-due-denunce-per-spaccio-sette-persone-saranno-espulse/1094640/ ; https://www.cronachemaceratesi.it/2018/06/21/forze-dellordine-allhotel-house-necessario-un-presidio-permanente/1118049/ ; https://www.cronachemaceratesi.it/2018/03/31/hotel-house-sfuggito-di-mano-problema-piu-grande-delle-nostre-forze/1085595/ ; https://www.cronachemaceratesi.it/2018/04/18/hotel-house-lira-dellopposizione-cittadini-umiliati-il-sindaco-agisca/1092037/ eccetera, eccetera.

BISOGNA CAMBIARE IL MONDO REALE, a cura di Luigi Longo

BISOGNA CAMBIARE IL MONDO REALE.

a cura di Luigi Longo

 

 

Suggerisco la lettura dello scritto di Paul Craig Roberts, L’intero mondo occidentale vive in una dissonanza cognitiva apparso su www.megachip.globalist.it il 23 giugno 2018, come riflessione per capire la potenza dell’ideologia sia per nascondere (accezione negativa) il mondo reale sia per aderire (accezione positiva) al modello di legame sociale proposto dalla potenza mondiale egemone degli USA. Per capire perché gli statunitensi vedono le brutture che commettono solo quando succedono in casa propria e non quando le consumano nelle case degli altri sparse in tutto il mondo bisogna andare alla storia del Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene che è il titolo del bel libro dello storico Anders Stephanson pubblicato dalla Feltrinelli (2004). Riproduco alcuni passi tratti dal Prologo dell’autore (pp.11-15).

<< […] Tuttavia, è proprio a John O’Sullivan che siamo debitori dell’espressione “destino manifesto”: la coniò nel 1845 per definire la missione degli Stati Uniti di “espandersi nel continente assegnato dalla provvidenza al libero sviluppo delle crescenti moltitudini  del nostro popolo”. In tutto il Nord America era in corso una gigantesca espansione in nome della libertà, una libertà spessa definita anche di carattere “anglosassone” in termini culturali o razziali […] Essa divenne, così, lo slogan dell’idea di un diritto provvidenzialmente o storicamente fondato all’espansionismo continentale. Da questo punto di vista, non si trattava affatto di una novità, dal momento che già nel 1616, rivolgendosi al pubblico inglese, un agente della campagna di colonizzazione aveva pomposamente concluso la sua presentazione delle meraviglie delle verdi distese americane con queste parole: “Quale timore allora dovrebbe trattenerci dal partire immediatamente , essendo noi un popolo speciale indicato ed eletto dal dito di Dio a prendere possesso di quella terra?”.

In questo libro, “destino manifesto” verrà utilizzato anche in un’accezione più ampia, vicina a quella adoperata da Woodrow Wilson per sottolineare il ruolo assegnato dalla provvidenza agli Stati Uniti di guidare il mondo verso un futuro nuovo e migliore. Per Wilson, ciò che definiva l’”America” era proprio questa particolare vocazione o missione. La nazione, alla quale era stata concessa di vedere la luce, era destinata a mostrare il cammino ai paesi storicamente retrogradi, poiché aveva il compito di svilupparsi ed espandersi in tutta la sua potenzialità grazie al dono divino della più alta perfezione morale inimmaginabile. Questa idea è stata un elemento costante della storia americana, ma, storicamente, ha prodotto due atteggiamenti molto diversi nei confronti del mondo esterno. Il primo mirava a fare degli Stati Uniti un modello esemplare, separato dal mondo corrotto e perverso, lasciando che le altre nazioni lo imitassero come meglio potevano. Il secondo, corrispondente alla visione di Wilson, consisteva nel far progredire il mondo, intervenendo per rigenerarlo. Tra i due atteggiamenti quello di distacco, tuttavia, è stato quello generalmente dominante.

Gli Stati Uniti non sono stati l’unico paese ad attribuire un carattere esemplare alla propria identità nazionale. Ogni stato-nazione sostiene in qualche modo la propria unicità e, nel corso della storia, alcune nazioni e alcuni imperi si sono considerati consacrati da un’autorità superiore a centro del mondo o della storia universale. Tuttavia, per fare un esempio, il “mandato” dinastico sul quale si fondava la legittimazione del potere in Cina confuciana non contemplò mai che una radicale trasformazione del mondo a propria immagine e somiglianza potesse condurre a una “fine” trascendente della storia (corsivo mio). La “Cina” era un’idea aristocratica di civiltà superiore. Per prendere un esempio a noi più vicino, il Sacro romano impero, se anche può avere sposato l’idea di una trasformazione celeste del mondo terreno, si accontentava, nell’attesa della fine stabilita, di sospendere il progetto messianico (corsivo mio) per dedicarsi alla costruzione delle istituzioni politiche >>.

 

Non basta, come sostiene Paul Craig Roberts, << far uscire le persone dal mondo propagandistico e farla entrare in quello reale >>, bisogna cambiare il mondo reale.

 

Per motivi di chiarezza ho evidenziato le tre maggiori notizie correnti utilizzate dall’autore per illustrare la sconnessione mentale mondiale.

 

 

L’intero mondo occidentale vive in una dissonanza cognitiva

 

 

di Paul Craig Roberts

 

[Traduzione per Megachip di Piotr]

 

 

In questo editoriale mi accingo a utilizzare tre delle maggiori notizie correnti per illustrare la sconnessione che alligna ovunque nella mente occidentale.

Iniziamo con la questione della separazione delle famiglie.

 

La separazione dei bambini dai genitori immigrati o rifugiati o richiedenti asilo ha suscitato così tante proteste che il Presidente Trump ha indietreggiato e firmato un ordine esecutivo per far finire la separazione delle famiglie.
L’orrore dei bambini rinchiusi in magazzini gestiti da privati che si arricchiscono coi soldi dei contribuenti, mentre i genitori sono perseguiti per ingresso illegale, ha risvegliato dal loro torpore persino gli Americani autocompiaciuti di essere “eccezionali e indispensabili” [fa riferimento alla nota affermazione dei presidenti statunitensi che gli USA sono una nazione eccezionale e l’unica indispensabile nel mondo (sic!) – NdT].
Rimane un mistero perché il regime di Trump abbia scelto di gettare discredito sulla sua politica di rafforzamento delle frontiere separando le famiglie.
Forse la politica era quella di scoraggiare l’immigrazione illegale lanciando il messaggio che se venite in America i vostri bambini vi saranno strappati.
La domanda è: come mai gli Americani riescono a vedere e rifiutare l’inumana politica di controllo delle frontiere e non vedono e rifiutano l’inumanità della distruzione delle famiglie che è stato il costante risultato della distruzione da parte di Washington in tutto o in parte di sette o otto Paesi nel XXI secolo?
Milioni di persone sono state separate dalla famiglia dalla morte inflitta da Washington e per quasi due decenni non ci sono state praticamente proteste. Nessun grido di protesta ha fermato George W. Bush, Obama e Trump dal perpetrare atti chiaramente e senza possibilità di smentita illegali, definiti dalla legge internazionale stabilita dagli USA stessi, come crimini di guerra contro, gli abitanti dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Libia, della Siria, dello Yemen e della Somalia. Possiamo aggiungere un ottavo esempio: gli attacchi militari dello stato fantoccio ucraino neo-nazista e armato e finanziato dagli USA contro le province russe separatiste.
Le morti in massa, la distruzione delle città, dei paesi, delle infrastrutture, le menomazioni, fisiche e mentali, lo sradicamento che ha inviato milioni di rifugiati i fuga dalle guerre di Washington a invadere l’Europa, dove i governi sono fatti da una collezione di lacchè idioti che hanno sostenuto gli enormi crimini di guerra di Washington in Medio Oriente e Nord Africa, non hanno prodotto nessun grido di dolore paragonabile a quello contro la politica di Trump sull’immigrazione.
Stiamo vivendo una forma psicotica di massa di dissonanza cognitiva?

Spostiamoci adesso sul secondo esempio: il ritiro di Washington dal Consiglio dell’ONU per i Diritti Umani.

Il 2 di novembre del 2017 (1917, mia correzione del refuso tecnico), due decenni prima dell’olocausto imputato alla Germania nazionalsocialista, il ministro degli Esteri britannico, James Balfour, scrisse a Lord Rothschild che la Gran Bretagna favoriva la trasformazione della Palestina in un focolare nazionale ebraico. In altre parole, il corrotto Balfour mandò al diavolo i diritti e le vite di milioni di Palestinesi che stavano in Palestina da duemila e più anni. Che era sta gente a confronto col denaro dei Rothschild? Non erano niente per il ministro degli Esteri britannico.
L’atteggiamento di Balfour verso i legittimi abitanti della Palestina è il medesimo atteggiamento britannico verso i popoli di ogni colonia o territorio su cui la forza britannica aveva prevalso. Washington ha imparato questo modo di fare e lo ha coerentemente ripetuto.
Proprio l’altro giorno l’ambasciatrice all’ONU di Trump, Nikki Haley, la cagnolina pazza furiosa di Israele, ha annunciato che Washington si ritirava dal Consiglio per i Diritti Umani perché è “una fogna di pregiudizi politici” contro Israele.
Cosa aveva mai fatto il Consiglio per guadagnarsi questo rimprovero dall’agente israeliano Nikki Haley? Il Consiglio aveva denunciato la politica israeliana di assassinio dei Palestinesi: medici, bambini, madri, anziane e anziani, padri, adolescenti.
Criticare Israele, non importa quanto grande ed evidente sia il suo crimine, significa essere antisemiti e un negazionista dell’olocausto. Per Nikki Haley e Israele, ciò relega il Consiglio per i Diritti Umani nei ranghi dei nazisti fanatici di Hitler.
L’assurdità di ciò è evidente, ma pochi, se non nessuno, riescono a rilevarla. Certo, il resto del mondo, con l’eccezione d’Israele, ha denunciato la decisione di Washington, non solo i nemici e i Palestinesi, ma anche i burattini e i vassalli di Washington.
Per vedere la sconnessione è necessario fare attenzione alle parole delle denunce della decisione.
Un portavoce dell’Unione Europea ha detto che il ritiro di Washington dal Consiglio per i Diritti Umani “rischia di minare il ruolo degli USA come campioni e sostenitori della democrazia nel teatro mondiale”. Si può immaginare un’affermazione più idiota?
Washington è nota come sostenitrice di tutte le dittature che aderiscono alla sua volontà. Washington è nota per aver distrutto ogni democrazia in America Latina che abbia eletto un presidente rappresentante degli interessi del popolo di quella nazione e non degli interessi delle banche di New York, di quelli commerciali statunitensi e della politica estera statunitense.
Fate il nome di un posto dove Washington abbia sostenuto la democrazia. Solo per parlare degli ultimi anni, il regime di Obama ha rovesciato il governo democraticamente eletto dell’Honduras e ha imposto il suo burattino. Il regime di Obama ha rovesciato il governo democraticamente eletto dell’Ucraina e imposto un regime neo-nazista. Washington ha rovesciato i governi dell’Argentina e del Basile, sta cercando di rovesciare quello del Venezuela e ha nel suo mirino la Bolivia così come la Russia e l’Iran.
Margot Wallstrom, la ministra degli Esteri svedese, ha dichiarato: “Mi rattrista che gli USA abbiano deciso di ritirarsi dal Consiglio per i Diritti Umani. Arriva in un momento in cui il mondo ha bisogno di più diritti umani e di un ONU più forte, non l’opposto”. Perché diamine Wallstrom pensa che la presenza di Washington, un noto distruttore di diritti umani, (basta chiedere ai milioni di rifugiati dai crimini di guerra di Washington che si riversano in Europa e in Svezia), pensa che questa presenza nel Consiglio per i Diritti Umani rafforzerebbe il Consiglio invece che minarlo. La disconnessione della Wallstrom è fantastica. E’ talmente estrema da essere incredibile.
Il Primo Ministro australiano, Julie Bishop, ha parlato per il più adulatore dei vassalli di Washington quando ha detto che era preoccupata per i “pregiudizi antisraeliani” del Consiglio. Avete qui una persona che ha subito un lavaggio del cervello talmente totale da essere impossibilitata di mettersi in connessione con una qualsiasi cosa che sia reale.

Il terzo esempio è la “guerra commerciale” che Trump ha lanciato contro la Cina.

 

La tesi del regime di Trump è che a causa di pratiche sleali la Cina ha un surplus con gli USA di quasi 400 miliardi di dollari. Questa grande cifra è si suppone che sia dovuta, appunto, a “pratiche sleali” da parte cinese. Nella realtà il deficit commerciale con la Cina è dovuto alla Apple, alla Nike, la Levi e a un gran numero di corporation americane che producono offshore in Cina i prodotti che poi vendono agli Americani. Quando le produzioni delocalizzate delle corporation statunitensi entrano negli USA, sono contate come importazioni.
Ho detto e ripetuto questo da molti anni a partire della mia testimonianza davanti alla Commissione per la Cina del Congresso USA. Ho scritto numerosi articoli pubblicati quasi ovunque. Sono sintetizzati nel mio libro The Failure of Laissez Faire Capitalism del 2013.
La presstitute dei media economici, i lobbisti delle corporation, che include molti “nomi” accademici, e gli sfigati politici americani il cui intelletto in pratica non esiste, non riescono a riconoscere che l’enorme deficit commerciale USA è il risultato delle delocalizzazioni. Questo è il livello di completa stupidità che governa l’America.
In The Failure of Laissez Faire Capitalism ho discusso il madornale errore fatto da Matthew J. Slaughter, un membro del Consiglio Economico di George W. Bush, che ha affermato in modo incompetente che per ogni posto di lavoro delocalizzato si creavano due posti di lavoro negli USA. Ho anche denunciato come una truffa lo “studio” del professore di Harvard, Michael Porter, per il cosiddetto Consiglio per la Competitività (una lobby per le delocalizzazioni), che ha fatto la straordinaria affermazione che la forza-lavoro statunitense traeva beneficio dalla delocalizzazione dei loro lavori a più alto valore aggiunto e a più alta produttività.
Gli idioti economisti americani, gli idioti media finanziari americani, e gli idioti politici americani non riescono a capire nemmeno adesso che la delocalizzazione ha distrutto le prospettive dell’economia americana e ha sospinto la Cina più avanti di 45 anni delle aspettative americane.

Per concludere.

 

La mente occidentale e le menti degli “integrazionisti atlanticisti” russi [i fautori di un’integrazione della Russia nel circuito economico, finanziario, politico e militare occidentale, persone che spesso occupano posti di grande responsabilità anche nei governi di Putin, NdT] e della gioventù cinese pro-americana, sono così piene di assurdità propagandistiche che non hanno connessione con la realtà.
C’è il mondo reale e c’è il mondo costruito dalla propaganda che nasconde il mondo reale e serve interessi specifici. Il mio compito è far uscire le persone dal mondo propagandistico e farla entrare in quello reale. Sostenetemi in questo sforzo.

 

 

25° PODCAST_NEL TEMPO E NELLO SPAZIO, di Gianfranco Campa

L’inchiesta sul Russiagate, con i suoi corollari, procede ormai stancamente e a tentoni. Rappresenta l’emblema dei pesanti e sistematici interventi in grado di condizionare pesantemente la condotta del Presidente Trump e di snaturare le finalità politiche originarie specie nell’agone geopolitico. Lo hanno spinto e costretto a stringere e saldare alleanze, specie in Medio Oriente, con modalità talmente ostentate da pregiudicare quasi irreparabilmente il ruolo di arbitro, sia pure di arbitro-giocatore, già compromesso con le politiche destabilizzatrici dei precedenti Presidenti Bush e Obama; ma non lo hanno atterrato e neutralizzato definitivamente. L’inerzia dello scontro, piuttosto, sta mettendo a nudo progressivamente la vana e sterile potenza del vecchio establishment. Uno ad uno i pilastri sui quali ha poggiato il proprio predominio trentennale cominciano a mostrare l’usura e crepe preoccupanti. Dal multipolarismo all’ambientalismo catastrofista, dall’interventismo esibito e giustificato dal vessillo dei cosiddetti diritti umani al globalismo fondato sullo scambio perverso tra estorsione finanziaria e deindustrializzazione di importanti aree e settori della formazione dominante, dalla cosiddetta libertà delle reti alla cosiddetta libertà di migrare, uno ad uno tutti i tabù cominciano ad essere contestati e la fede euforica in quei principi si trasforma sempre più apertamente in dubbio e in contestazione sempre più aperta.

Non solo! Lo stallo nello scontro e la perdita duratura di controllo di alcune leve fondamentali di potere e di trasmissione delle direttive stanno compromettendo la già scarsa coerenza delle condotte politiche e paralizzando la fiducia e l’efficacia dell’azione delle seconde linee sparse per il mondo. La crisi della Unione Europea, la situazione traballante di dirigenti politici sino a pochi mesi fa indiscussi, come Merkel e Macron, sono gli indizi della crisi di una intera classe dirigente e di un intero sistema di relazioni, ormai aggrappato all’esito delle prossime elezioni di medio termine negli USA, nel frattempo vagante come pecorelle smarrite. Fosse anche largamente positivo per il vecchio schieramento neocon e democratico, nulla però potrà ormai tornare come prima. La coperta americana si sta rivelando sempre più stretta per coprire l’intero planisfero. La stessa Europa è sempre meno un campo unitario di azione. Ossessionata dalla capacità di resistenza della Russia, vede con difficoltà l’emergere di altre forze concorrenti.

Sarebbe ormai più interesse del vecchio establishment americano, costretto sempre più a mettere a repentaglio la credibilità di intere istituzioni e dei personaggi chiave ad esse connessi, che del nuovo establishment in via di formazione cercare di chiudere la messinscena. La dinamica della rappresentazione ha però assunto una propria inerzia difficile da governare sino a coinvolgere autorità sino ad ora indiscusse e indiscutibili come Obama. Se vittoria potrà essere, rischia di rivelarsi una vittoria di Pirro. La vecchia talpa ha già scavato abbastanza. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

 

Fatti di Macerata, chiuse le indagini. Chiuse davvero?, di Roberto Buffagni

Fatti di Macerata, chiuse le indagini. Chiuse davvero?

 

Ieri la Procura di Macerata ha chiuso le indagini sull’omicidio di Pamela Mastropietro. Unico indagato, Innocent Oseghale, che dovrà rispondere di omicidio volontario, vilipendio, distruzione e occultamento di cadavere, con l’aggravante di aver ucciso Pamela durante uno stupro dopo averla drogata. Sulla violenza sessuale, c’è discordia con il GIP e il tribunale del Riesame, che ritengono non sufficientemente provata la custodia cautelare per violenza sessuale. L’uomo potrebbe aver ucciso, infatti, perché colto dal panico quando vide Pamela collassare dopo l’iniezione di eroina. Per la Procura, invece, il movente scatenante fu la violenza. Oseghale avrebbe comunque violentato, ucciso e smembrato il cadavere da solo: scagionati da tutte le accuse connesse all’omicidio Lucky Awelima e Desmond Lucky, che restano in carcere per la sola accusa di spaccio. [1]

Giudicando con le informazioni di cui dispongo (i media e basta) le conclusioni delle indagini sembrano gravemente incoerenti con gli elementi disponibili. Ho illustrato un paio di settimane fa perché queste tesi accusatorie non mi persuadono: https://italiaeilmondo.com/2018/05/05/macerata-come-procedono-le-indagini_di-roberto-buffagni/ . Non vedo perché dovrei cambiare idea, a meno che scagionare Lucky Awelima e Desmond Lucky non serva ad avviare una indagine sulla mafia nigeriana, sorvegliandoli con discrezione: se è così, naturalmente mi scuso sin d’ora con gli inquirenti.

Ma se non è così, e temo proprio che non sia così, questo mi pare un esito determinato da un classico condizionamento ambientale. Nessuno dei moventi dell’omicidio, per come risulterebbero ipotizzati dall’accusa, avrebbe il minimo rapporto con la razza e la diversa cultura del colpevole, nessuna delle modalità dell’omicidio alluderebbe a complicità, precedenti o posteriori all’omicidio, della mafia nigeriana. Il modus operandi del colpevole designato, Innocent Oseghale, sempre alla luce del tenore della contestazione formulata dagli indaganti, ci presenterebbe semplicisticamente il ritratto di un balordo dai nervi fragili, un criminale dilettante che si fa prendere dal panico. La vittima ci viene presentata come un prodotto della società, della droga, del crollo dei valori e del disorientamento della gioventù in questo mondo così difficile e sordo alle esigenze, eccetera. L’unica divergenza tra le ipotesi sulla dinamica dell’omicidio riguarda proprio la vittima, e non il suo assassino: per il Procuratore Pamela è stata violentata da Oseghale, per il GIP no. Questo aspetto della vicenda – se il rapporto sessuale tra Pamela e il suo omicida sia stato consenziente o meno – è certo rilevante sul piano giudiziario e importante per i parenti di Pamela, ma non ci aiuta a capire come sono andate davvero le cose: chi l’ha uccisa e perché, chi e perché l’ha smembrata per poi depositarne il corpo fatto a pezzi sul ciglio di un viottolo di campagna.

L’impressione che ne ricavo è che gli inquirenti abbiano seguito un codice informale teso a chiudere il caso il più presto possibile e nel modo più indolore. Ovvio il dubbio e il sospetto che ne consegue: c’è sotto qualcosa di molto grosso e pericoloso, che può coinvolgere persone, enti e istituzioni che vanno comunque tutelati.

Mi sbaglio? Spero di sì, temo di no. E se il Ministero degli Interni inviasse un’ispezione della Criminalpol per dissipare i timori e i sospetti che certo non sono l’unico a nutrire? Timori e sospetti ben insinuati tra i profani, ma anche tra gli addetti ai lavori.

[1]http://www.oggi.it/attualita/notizie/2018/06/14/pamela-mastropietro-chiuse-le-indagini-per-la-procura-e-innocent-oseghale-lunico-assassino-e-stupratore/

LA FINANZA, UNO STRUMENTO DI LOTTA TRA LE NAZIONI EUROPEE SOTTOPOSTE ALLE STRATEGIE USA, 3a parte (a cura di) Luigi Longo

LA FINANZA, UNO STRUMENTO DI LOTTA TRA LE NAZIONI EUROPEE SOTTOPOSTE ALLE STRATEGIE USA

(a cura di) Luigi Longo

 

 

Propongo la lettura di quattro scritti di cui il primo sull’euro, sullo spread e sul rapporto tra l’Italia e la Germania; il secondo sul non rispetto delle regole europee da parte della Bundesbank nell’emissione dei titoli del debito pubblico; il terzo sul debito pubblico; il quarto sulla necessità di un principe che con dura energia sappia rialzare la Nazione da uno stato di degrado economico, politico e sociale.

I due scritti di Domenico de Simone, un economista “radical”, sono apparsi sul sito www.domenicods.wordpress.com, rispettivamente in data 27/5/2018 e 18/2/2014, con i seguenti titoli: 1) italiani scrocconi e fannulloni? tedeschi truffatori e falsari!; 2) Con la scusa del debito.

Lo scritto di Domenico De Leo, economista, è apparso sul sito www.economiaepolitica.it in data 7/12/2011, con il seguente titolo: L’eccezione tedesca nel collocamento dei titoli di stato.

Per ultimo propongo lo stralcio dello scritto di G.W.F. Hegel dal titolo: Il “Principe” di Macchiavelli e l’Italia che è stato pubblicato in Niccolò Macchiavelli, Il Principe, a cura di Ugo Dotti, Feltrinelli, Milano, 2011, pp. 246-248.

L’idea di questa proposta è scaturita seguendo con grande fatica la crisi politica e istituzionale che si è innescata a partire dalle elezioni politiche del 4 marzo scorso: è irritante fare analisi politiche di grandi questioni (sic) a partire dalle elezioni politiche che sono teatrini indecenti con maschere penose e tristi, così come tristi sono le relazioni di potere!

Si parla in questi giorni di questioni come la difesa dell’euro, il debito pubblico, il pareggio di bilancio, lo spread, l’Unione Europea, la Costituzione violata, eccetera, velando i veri problemi che sono quelli dati dalla mancanza di sovranità nazionale (indipendenza, autonomia e autodeterminazione) e da una Europa che non esiste come soggetto politico (non è mai esistita storicamente): questa Unione europea, economica e finanziaria è figlia delle strategie egemoniche mondiali statunitensi.

L’Europa è una espressione geografica storicamente data a servizio degli Stati Uniti dove i sub-dominanti vogliono tutelare i propri interessi nazionali, svolgere le proprie funzioni per accrescere il loro potere sotto l’ala protettiva e allo stesso tempo minacciosa degli Stati Uniti (egemonia nelle istituzioni internazionali e nella Nato) a scapito degli interessi della maggioranza delle popolazioni nazionali ed europee (gli scritti di Domenico de Simone e di Domenico De Leo chiariscono molto bene il ruolo di potere degli agenti strategici che usano gli strumenti della finanza nel conflitto per la difesa del posto di vassallo europeo da parte tedesca).

La crisi dell’Italia (crisi di una idea di sviluppo e di una comunità nazionale inserite in una crisi d’epoca mondiale) va vista nel ruolo che l’Italia svolge nelle strategie statunitensi: sul territorio italiano ci sono fondamentali infrastrutture (immobili e mobili) militari a servizio degli Usa, nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e in Oriente. Gli Usa-Nato stanno cambiando le città e i territori, stanno distruggendo le industrie di base, stanno rimodellando le economie dei territori; il Pentagono decide gli investimenti e le infrastrutture necessari; in definitiva hanno compromesso le basi per lo sviluppo di una discreta potenza del Paese: ci restano solo il cosiddetto made in Italy e il piccolo, medio è bello (sic). Il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, facendo gli auguri al popolo italiano per la festa della Repubblica, ha detto che “La nostra continua cooperazione economica, politica e sulla sicurezza è vitale (corsivo mio) per affrontare le sfide comuni, tra cui il rafforzamento della sicurezza transatlantica e la lotta al terrorismo in tutto il mondo”.

Lo sbandamento dei sub-decisori italiani non è dovuto alla ricerca di un percorso di sovranità nazionale, da cercare con altre nazioni europee, per ripensare un’Europa come soggetto politico autonomo ( le cui forme istituzionali sono da inventare); ma esso è dovuto al conflitto interno agli USA dove si scontrano le visioni diverse dell’utilizzo dello spazio Europa in funzione delle proprie strategie egemoniche mondiali: 1) una Europa sotto il coordinamento del vassallo tedesco e del valvassore francese con la costruzione di uno Stato europeo?; 2) una Europa delle Nazioni singole?; 3) una Europa ridisegnata con la creazione di regioni?; 4) una Europa riorganizzata in aree << secondo le linee che marcano lo sviluppo storico>>?

La nuova sintesi dei dominanti statunitensi basata su un’idea di sviluppo con una diversa organizzazione sociale ( se mai ci sarà, considerato l’atroce conflitto in atto che indica l’inizio del declino dell’impero) dirà quale Europa sarà funzionale al rilancio egemonico mondiale.

E’ bastato che alcune forze politiche sistemiche proponessero ( non a livello di azione, che presuppone ben altre analisi e ben altri processi) aggiustamenti tecnici, maggiore equità, una ri-sistemazione sistemica delle gerarchie consolidate, una maggiore difesa dei propri interessi nazionali in funzione di una migliore Europa atlantica, che la reazione del potere sub-dominante europeo (soprattutto tedesco) fosse violenta, scomposta e rozza.

Il ruolo di garante di questa Europa legata ai dominanti statunitensi, che si configurano nel blocco democratico – neocon – repubblicano ( di questo blocco sono da capire meglio gli intrecci dei decisori della sfera politica), che vogliono una Europa coordinata dal vassallo tedesco, è rappresentato, in Italia, dal Presidente della Repubblica (oggi Sergio Mattarella, ieri Giorgio Napolitano). Il gioco istituzionale di Sergio Mattarella è da inquadrare in questa logica, altrimenti non si capiscono bene le contraddizioni, i paradossi, le sbandate e le ipocrisie di tutta la sfera politica. Attardarsi sul rispetto della Costituzione da parte del Presidente della Repubblica è un non sense perché la Costituzione è una espressione dei decisori e non del popolo. Le regole, le norme, i principi che regolano i rapporti sociali di una Comunità nazionale sono in mano a pochi e non a molti. Come insegna la cultura antica, soprattutto greca, quando le regole del legame sociale non sono decise dalla maggioranza non c’è nè democrazia nè libertà.

Occorre riflettere sulla tragica situazione in cui si trova l’Italia in particolare, e più in generale l’Europa, per trovare una strada che non sia solo elettorale, che non sia solo tecnica-finanziaria, che non veda la finanza come un dominio ma come uno strumento di potere in mano agli agenti strategici sub-dominanti europei e pre-dominati statunitensi. << Oggi si parla tanto della finanziarizzazione del capitale e del suo strapotere. Magari vedendo in questo processo l’avvicinarsi di una crisi catastrofica. Ma la finanza è solo un fattore fra altri, non isolabile, dello scontro per la supremazia fra i gruppi dominanti. Il capitale finanziario insomma rappresenta i conflitti in atto tra diverse forze e strategie politiche, combattuti con l’arma del denaro. Se vogliamo allora comprendere gli squilibri e le crisi che caratterizzano il capitalismo contemporaneo dovremmo addentrarci in un complesso intreccio tra funzioni finanziarie e politiche e nelle contraddizioni tra la razionalità strategica che prefigura assetti di potere e la razionalità strumentale che mira ai vantaggi immediati dell’economia. Al fondo vi è sempre lo scontro tra gruppi dominanti.>> (Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008).

Per questo il rito delle elezioni è diventato sempre più inutile (l’esempio greco, e non solo, è significativo!) e mano a mano che si entrerà sempre di più nella fase multicentrica si renderà sempre più palese l’ideologia della partecipazione popolare alle decisioni del Paese tramite il voto elettorale, alla faccia della Costituzione!

La fase multicentrica impone una ri-considerazione sul ruolo della sovranità nazionale per ri-costruire una Europa delle nazioni sovrane che chiarisca il suo rapporto con gli USA e guardi ad Oriente.

 

Per comodità di lettura gli scritti proposti sono stati divisi e pubblicati in quattro parti, ciascuna preceduta dalla mia introduzione.

 

 

TERZA PARTE

 

 

CON LA SCUSA DEL DEBITo

di Domenico de Simone

 

 

Un paio di anni fa, un serissimo Istituto di studi economici tedesco, la Fondazione Stiftung Marktwirtschaftche significa Economia di Mercato, condotto dall’economista Bernd Raffelhüschen, molto stimato in Germania e all’estero, ha pubblicato un report a dir poco sconcertante, nel quale si dimostra che l’Italia è sì inguaiata dai debiti, ma in realtà in proiezione futura sta molto meglio di tutti gli altri paesi europei Germana compresa. La sua ricerca è stata ripresa qualche tempo fa dal Neue Zürcher Zeitung (Nzz), il più prestigioso giornale della Svizzera tedesca che nella sua edizione tematica, l’ha ampliata aggiungendo anche la Svizzera all’elenco dei paesi esaminati nella ricerca di Raffelhüschen.

Non molto stranamente, mentre in Germania e in Svizzera la ricerca ha aperto un grande dibattito ed ha avuto l’eco mediatica che meritava, in Italia ne hanno parlato in pochissimi, e nessuno dei grandi giornali che si occupano di economia, o fanno finta di occuparsene. Questo è il link ad un articolo apparso su uno dei pochi periodici on line che hanno commentato la ricerca e questo un altro.

Non è strano affatto se si pensa ai contenuti del report. Nella ricerca si distingue, infatti, tra debito “esplicito” ovvero il debito esistente e conclamato dai titoli di stato in circolazione, e quello “implicito” ovvero il debito che non appare direttamente dai conti, ma che apparirà nel tempo a causa delle politiche economiche e degli oneri effettivi assunti dagli Stati relativamente alla loro spesa pubblica. Se si sommano le due componenti, ci si accorge che l’Italia è il paese in Europa che sta meglio di tutti, poiché ha almeno in chiaro gli oneri che si sommeranno nel prossimo futuro al debito attuale. La somma delle due componenti, infatti, porta il debito complessivo dello Stato al 146% del PIL attuale, mentre per la Germania la somma risulta essere il 192,6% del PIL, poco meno della virtuosa Finlandia che raggiunge il 195,2%. Stanno molto peggio sia la Francia con il 337,5% che l’opulenta Olanda, con il 494,6% , per non parlare della Spagna, con il 548,5% e la Grecia che raggiunge il 1.016,9% del PIL attuale. Gli altri paese europei li vedete nella scheda di questo articolo. Per la cronaca, la Svizzera è buona terza nella classifica in questione, e per la loro ricerca i conti dell’Italia stanno addirittura sotto lo zero, nel senso che a lungo termine il debito italiano sarà assorbito poiché gli impegni presi sono minori delle entrate previste.

Insomma, dire che stiamo bene è tutto relativo, poiché è chiaro che anche noi stiamo messi malissimo, ma gli altri paesi d’Europa stanno messi peggio di noi, molto peggio. Allora, per quale ragione i “mercati” attaccano tanto i bond italiani, anche quelli a medio e lungo termine, mentre considerano così appetibili i titoli di stato tedeschi, francesi e olandesi? Perché i nostri BOT e CCT sono considerati alla stregua dei titoli spazzatura, mentre i bond tedeschi vanno a ruba? Con la conseguenza che noi dobbiamo onerarci di interessi molto alti per piazzare i nostri titoli di Stato mentre la Germani non paga nulla o quasi? Senza considerare che americani, inglesi e giapponesi stanno messi molto peggio di noi e della Germania, eppure i loro titoli, con tutto il QE elargito a piene mani negli ultimi anni, pagano interessi bassissimi.

Orbene la risposta è semplice. Vi farò una domanda: c’è ancora qualcuno che dubita del fatto che le scelte di acquisto degli operatori finanziari si basano su considerazioni politiche piuttosto che finanziarie? Le aste dei titoli di stato sono gestite da un numero molto ristretto di banche: nel mercato primario sono in tutto venti, e in quello secondario sono 120, di cui solo alcune sono autorizzate a fare il prezzo (market makers). C’è ancora qualcuno che ha la faccia tosta di chiamare questo schifo di potere e questa banda di rapinatori “mercato”? E quale prova più evidente di questa del servilismo e della subordinazione dei nostri politici, per non parlare dei principali media del nostro sventurato paese, ai poteri forti della finanza mondiale, e della Germania in Europa? Ancora dubbi su questo?

 

 

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