Trump e la nuova era del nazionalismo, di Michael Brenes e Van Jackson

La visione irenica offerta da questo saggio, apparso paradossalmente, ma non tanto a ben vedere, sulla rivista “Foreign Affairs”, suggella la probabile scissione in corso tra la visione globalista e le attuali élites dominanti negli Stati Uniti. Negli anni ’50 l’Europa ha conosciuto una dinamica simile nella emersione di una corrente irenica europeista cola di aspettative, che vedeva nella Unione Europea in costruzione un processo di emancipazione risoltosi rapidamente in una illusione utile più che altro a mascherare e legittimare un processo di assoggettamento. In quel caso ha contribuito alla costruzione di un dominio imperialistico; in questo rischia di trascinare questo dominio definitivamente alla rovina_Giuseppe Germinario

Trump e la nuova era del nazionalismo

Una combinazione pericolosa per l’America e il mondo

28 gennaio 2025

An American flag fluttering behind barbed wire, El Paso, Texas, June 2024
Una bandiera americana sventola dietro il filo spinato, El Paso, Texas, giugno 2024  Jose Luis Gonzalez / Reuters

Michael Brenes è co-direttore del Brady-Johnson Program in Grand Strategy e docente di storia all’Università di Yale.

Van Jackson è docente senior di Relazioni internazionali alla Victoria University di Wellington.

Sono gli autori di The Rivalry Peril: How Great-Power Competition Threatens Peace and Weakens Democracy.

Come nel 2016, la presidenza di Donald Trump ha spinto i commentatori dentro e fuori Washington a riflettere sulla direzione della politica estera degli Stati Uniti. Le domande su come Trump tratterà la Cina e la Russia, così come l’India e le potenze emergenti del Sud globale sono numerose. La politica estera degli Stati Uniti si sta avviando verso un periodo di incertezza, anche se il primo mandato di Trump fornisce un punto di riferimento importante su come potrebbe gestire il ruolo degli Stati Uniti nel mondo nei prossimi anni.

Il ritorno di Trump alla Casa Bianca consolida il suo posto nella storia come figura di trasformazione. I presidenti Franklin Roosevelt e Ronald Reagan hanno dato forma a “epoche” distinte della storia degli Stati Uniti: hanno ridefinito il ruolo del governo nella vita degli americani e hanno rimodellato la politica estera degli Stati Uniti in modo duraturo. La presidenza di Roosevelt, che ha dato vita a un ordine multilaterale guidato dagli Stati Uniti, ha annunciato l’alba del “secolo americano”. Reagan cercò di massimizzare il potere militare ed economico degli Stati Uniti; il suo fu un periodo di “pace attraverso la forza”. Le amministrazioni successive alla Guerra Fredda hanno oscillato tra queste due visioni, spesso assumendo elementi di entrambe. Trump eredita i resti di queste epoche, ma ne rappresenta anche una nuova: l’era del nazionalismo.

Il tradizionale impulso di Washington a dividere il mondo in democrazie e autocrazie oscura la svolta globale verso il nazionalismo, iniziata con la crisi finanziaria del 2008 e sfociata nel protezionismo, nell’irrigidimento dei confini e nella contrazione della crescita in molte parti del mondo. In effetti, una rinascita del nazionalismo – in particolare del nazionalismo economico e dell’etnonazionalismo – ha caratterizzato gli affari globali a partire dalla metà degli anni ’90, quando il mondo ha visto un aumento della popolarità di figure nazionaliste, tra cui il primo ministro ungherese Viktor Orban, la leader dell’estrema destra francese Marine Le Pen e Trump.

Invece di mettere in discussione o sfidare questa nuova era di nazionalismo, Washington vi ha contribuito. Sia nell’amministrazione di Trump che in quella del presidente Joe Biden, gli Stati Uniti si sono preoccupati di consolidare il potere statunitense e di contenere i progressi cinesi. Invece di dare priorità alla creazione di posti di lavoro o alla crescita economica a livello globale, Washington ha utilizzato tariffe e controlli sulle esportazioni per indebolire il potere economico della Cina rispetto agli Stati Uniti. Una transizione energetica verde globale che affronti le radici della crisi climatica ha lasciato il posto a un tentativo politicamente controverso e fugace di espandere la produzione di veicoli elettrici negli Stati Uniti. La resilienza della catena di approvvigionamento ha superato l’interdipendenza economica, poiché la logica della “marea montante che solleva tutte le barche” è stata soppiantata da una corsa a rivendicare una quota maggiore di una torta economica globale in contrazione. Inoltre, non vedendo l’instabilità, la violenza e la sofferenza del debito nel Sud del mondo come legati ai problemi dei Paesi a più alto reddito, gli Stati Uniti esacerbano la diffusione del nazionalismo all’estero.

Questa nuova era nazionalista può essere individuata nel passaggio alla “competizione tra grandi potenze”, una frase vaga che inquadra la grande strategia statunitense nei confronti della Cina. Ma la competizione tra grandi potenze preclude agli Stati Uniti il potenziale di costruire una nuova era internazionalista nella tradizione di Roosevelt dopo la Seconda guerra mondiale. Inoltre, sostiene uno status quo anacronistico, basato sulla supremazia degli Stati Uniti, che non esiste più e limita l’immaginazione politica necessaria per generare un mondo più pacifico e stabile. Una preoccupazione decennale per la competizione tra grandi potenze ha fatto perdere agli Stati Uniti tempo e slancio per costruire un nuovo ordine internazionale che limiti i conflitti e incentivi le nazioni a respingere l’influenza economica e militare di Pechino.

Certo, Pechino rappresenta una minaccia per le democrazie, i diritti umani e la sicurezza informatica in tutto il mondo. Ma vedere queste minacce attraverso il prisma della competizione tra grandi potenze ha portato alcuni osservatori a presentare la Cina come un pericolo esistenziale al pari dell’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda. Questo approccio aggressivo e a somma zero nei confronti di Pechino ha aggravato i rischi dell’era del nazionalismo.

Se i politici americani vogliono rinvigorire il ruolo degli Stati Uniti nel mondo e contribuire alla pace e alla stabilità dei Paesi che soffrono di violazioni dei diritti umani, disuguaglianza e oppressione, devono ampliare i loro orizzonti e rifuggire da questa epoca di nazionalismo. I problemi urgenti del cambiamento climatico, dell’arretramento democratico, della disuguaglianza economica e dei livelli insostenibili di debito sovrano non saranno risolti rafforzando il potere degli Stati Uniti a scapito del resto del mondo.

IL NAZIONALISMO RISORTO

Quando gli Stati Uniti e i loro alleati sconfissero le potenze dell’Asse nel 1945, i leader americani si resero conto che il vecchio ordine imperiale non serviva più agli interessi della pace globale. La Società delle Nazioni si dimostrò inutile, mentre le grandi potenze si orientarono verso l’autarchia e il protezionismo negli anni Venti e Trenta, fomentando il nazionalismo che spinse i regimi autocratici di Germania, Italia e Giappone alla guerra.

Nel 1945, Roosevelt temeva che, una volta cessata la sparatoria, gli Alleati avrebbero cercato di proteggere i loro rispettivi interessi ripiegandosi su se stessi, come avevano fatto dopo la Prima Guerra Mondiale. Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione di quell’anno, Roosevelt affermò che gli Stati Uniti dovevano adoperarsi per “stabilire un ordine internazionale in grado di mantenere la pace e di realizzare nel corso degli anni una più perfetta giustizia tra le Nazioni”. Questo nuovo ordine, secondo Roosevelt, dipendeva da istituzioni multilaterali che avrebbero utilizzato la forza economica e militare degli Stati Uniti per conto di partner globali che avevano bisogno di sicurezza e prosperità dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Roosevelt definì l’interesse nazionale in termini globali: la conservazione di un ordine multilaterale che rendesse il mondo sicuro per il capitalismo e la democrazia liberale. Sebbene ampie porzioni del mondo postcoloniale rimanessero sottosviluppate e le istituzioni multilaterali avessero beneficiato in modo sproporzionato le nazioni più ricche, c’era spazio per le economie non comuniste riemergenti in Asia e in Africa per affermare i propri interessi nell’ordine postbellico. Nel 1948, l’Accordo generale sulle tariffe e sul commercio eliminò le barriere commerciali che rafforzarono l’economia giapponese. Nel 1964, i Paesi in via di decolonizzazione si organizzarono all’interno delle Nazioni Unite in un raggruppamento chiamato G-77, con l’obiettivo di sfidare il disinteresse dell’Occidente nei confronti delle nazioni africane e asiatiche. Oggi, i Paesi del Sud globale continuano a rivolgersi alle Nazioni Unite per ottenere giustizia climatica, sostenere il diritto internazionale e ritenere le imprese private responsabili di violazioni delle leggi sul lavoro e sull’ambiente.

A volatile, unequal economic order fuels nationalist politics.

When the Cold War ended, in 1991, the United States subordinated international institutions to the pursuit of primacy in a unipolar era. With the Soviet Union defeated, there appeared to be no viable alternative to the U.S.-led liberal world order. As a result, multilateral institutions became adjuncts of U.S. power, as the United States and Europe assumed that liberal democratic ideals would flourish around the world, including in Russia and China. The war on terror after 2001 further eroded internationalism, with the United States using its preeminence to coerce, cajole, or flatter nations into joining its military campaigns, with little consideration for how Washington’s actions would damage U.S. relations with the non-Western world.

Then came the 2008 financial crisis. As global growth stagnated, the United States offered bank bailouts and protections to consumers to stabilize U.S. markets, and China launched a massive infrastructure project to employ its workers and sustain its growth rates. But most nations climbed out of the Great Recession by accumulating unsustainable levels of sovereign debt. And as the International Monetary Fund and the World Bank imposed terms on its borrowers that were politically unpopular, the governments of developing economies turned to Beijing as the lender of choice.

This setting—a volatile, unequal economic order—created opportunities for nationalist politics and politicians. When globalization failed to pay the same dividends that it had in the 1990s, demagogues blamed undocumented immigrants and the elites who presided over a corrupt, unfair system. Economic nationalism took hold in many countries. Populist rhetoric surged in the 2010s, as leaders told their populations to look for answers to global problems within their borders, not beyond them. Figures such as Orban rose to power by lambasting the International Monetary Fund and the European Union. In 2017, as prime minister, Orban claimed that “the main threat to the future of Europe is not those who want to come here to live but our own political, economic, and intellectual elites bent on transforming Europe against the clear will of the European people.” Anti-immigration rhetoric proliferated, as leaders around the world blamed immigrants for their countries’ problems.

Governments around the world turned to industrial policy and state-led capitalism to protect their economies from globalization—a trend that China led and the United States now follows with measures such as the Inflation Reduction Act and the CHIPS and Science Act. In Russia, the autocratic leader Vladimir Putin has embraced an ideology of nationalist imperialism, consolidating economic resources through state expansionism; Moscow’s invasion of Ukraine in 2022 has corroded the global norm against territorial conquest. Meanwhile, Indian Prime Minister Narendra Modi, once an advocate of free markets, has presided over a new era of state capitalism, centralizing the banking industry and exerting state control over foreign investment. And countries in the Middle East, in their efforts to deter U.S. primacy, now look to statist China as a model to partner with and potentially emulate. The age of great-power competition is an age of nation-states consolidating elite economic power through nationalist policies.

A NEW COLD WAR

In his first term, Trump embraced and profited from the resurrection of nationalism and great-power competition. Whereas President Barack Obama downplayed great-power competition, on the belief that cooperation with Beijing served the economic interests of the United States, Trump’s 2017 National Security Strategy adopted an “America first” foreign policy that emphasized U.S. prosperity over the global good. The United States, the administration wrote, will “compete and lead in multilateral organizations so that American interests and principles are protected.” This translated to the United States leaving, even if temporarily, organizations such as the UN Human Rights Council and UNESCO, which promotes international cooperation in education, science, and much else. Trump also withdrew from the Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty—a Reagan-era arms control treaty with Moscow—and the Paris agreement, the global pact to reduce greenhouse gas emissions. A fixation on great-power competition also led Trump to institute tariffs on Chinese imports valued at $200 billion, launching a trade war that escalated tensions between Washington and Beijing and increased the cost of living for U.S. consumers by as much as 7.1 percent in parts of the country.

Biden ha promesso di allontanarsi dall'”America first”, ma anche lui alla fine ha ceduto all’era del nazionalismo. All’inizio del 2021 si è impegnato a “iniziare a riformare le abitudini di cooperazione e a ricostruire i muscoli delle alleanze democratiche che si sono atrofizzate negli ultimi anni di abbandono”. Ma questa retorica non si è tradotta in cooperazione al di fuori di un quadro di competizione tra grandi potenze. Per mantenere la rivalità degli Stati Uniti con la Cina, Biden ha ampliato le politiche protezionistiche di Trump. Sebbene Biden si discosti da Trump per quanto riguarda l’enfasi sulle alleanze e sui partenariati, egli, come Trump, credeva che lo scopo principale dello statecraft economico americano fosse quello di limitare il potere della Cina massimizzando il potere degli Stati Uniti. Come ha sostenuto lo storico Adam Tooze sulla London Review of Books lo scorso novembre, Biden ha cercato di “garantire con ogni mezzo necessario, compresi interventi energici nelle decisioni commerciali e di investimento delle imprese private, che la Cina sia frenata e che gli Stati Uniti conservino il loro vantaggio decisivo”.

A tal fine, Biden ha rafforzato drasticamente il Comitato per gli investimenti esteri negli Stati Uniti, che monitora e limita gli investimenti stranieri per motivi di sicurezza nazionale; ha ampliato il numero di aziende cinesi inserite nella lista nera per le associazioni con le forze armate cinesi; ha mantenuto le tariffe iniziali di Trump contro la Cina; ha imposto nuove tariffe sui semiconduttori cinesi e sulla tecnologia delle energie rinnovabili; ha introdotto nuove restrizioni sugli investimenti cinesi negli Stati Uniti; e ha subordinato i nuovi crediti d’imposta a disposizione delle aziende tecnologiche statunitensi al loro disinvestimento dalle aziende cinesi. Quello che Jake Sullivan, consigliere di Biden per la sicurezza nazionale, aveva inizialmente definito un approccio “piccolo cortile, alto recinto” è diventato una strategia economica per contenere la Cina e disfare l’interdipendenza tra Stati Uniti e Cina nei settori ad alta tecnologia dell’economia globale.

Washington mina le sue alleanze rifiutando le istituzioni internazionali.

La svolta nazionalista della politica estera statunitense sotto la presidenza di Biden ha dato potere proprio alle imprese che hanno contribuito alla disuguaglianza che alimenta il nazionalismo. All’interno del quadro nazionalista emergente di Washington, l’attività di Tesla in Cina ha beneficiato delle tariffe sui veicoli elettrici, non solo perché gode di una posizione dominante nel mercato dei veicoli elettrici degli Stati Uniti, ma anche perché il suo amministratore delegato, Elon Musk, ha ottenuto un’esenzione dalle tariffe europee per i veicoli elettrici di produzione cinese di Tesla (nove per cento invece del 20 per cento). Nel frattempo, queste stesse tariffe hanno punito i consumatori e tagliato fuori i produttori statunitensi di tecnologie verdi dalla necessaria collaborazione con le aziende cinesi. Le startup della Silicon Valley che operano nel settore della difesa e le società di venture capital hanno investito decine di miliardi di dollari nell’intelligenza artificiale, che ora cercano di vendere al Pentagono, unico acquirente dei loro prodotti.

I gesti di Biden verso il multilateralismo sono stati un significativo allontanamento dal fervido nazionalismo della prima amministrazione Trump, ma sono rimasti al di sotto di un vero internazionalismo. I suoi sforzi per la costruzione di alleanze non riflettevano l’inizio di un’era multipolare, ma una competizione ideologica tra democrazia e autocrazia in una nuova guerra fredda con la Cina. Il Partenariato Atlantico, un’alleanza di nazioni costiere dell’era Biden, fornisce un esempio eloquente. Sebbene apparentemente progettata per migliorare il cambiamento climatico nei Paesi che si affacciano sulla costa atlantica, l’organizzazione è in definitiva uno sforzo per limitare l’industria della pesca illegale della Cina e per attirare le nazioni africane lontano dai capitali cinesi.

L’era del nazionalismo è punitiva per i Paesi a basso reddito, poiché limita le opportunità per gli Stati Uniti di instaurare rapporti di amicizia e fedeltà con le nazioni africane e asiatiche. Prima ancora di entrare in carica, Trump, nel tentativo di sostenere la supremazia del dollaro, ha preso di mira i Paesi BRICS (che costituiscono oltre il 40% della popolazione mondiale) con tariffe valutarie. Azioni come queste promettono di tagliare fuori gli Stati Uniti dalle catene di approvvigionamento globali, aumentando al contempo il costo dei consumi per il consumatore americano. L’uso della coercizione per preservare la supremazia del dollaro americano può giovare a Wall Street, ma aumenta anche il deficit commerciale degli Stati Uniti e riduce i settori di esportazione degli Stati Uniti, aumentando il prezzo relativo dei beni prodotti negli Stati Uniti sui mercati esteri.

Infine, Washington ha talvolta minato le sue alleanze rifiutando le istituzioni internazionali quando non servono gli interessi nazionali degli Stati Uniti. Con l’invio di munizioni a grappolo e di mine antiuomo in Ucraina, gli Stati Uniti continuano ad essere un’eccezione che mina i trattati internazionali ai quali si rifiutano di aderire pienamente, come la Convenzione sulle munizioni a grappolo (che conta 111 Stati firmatari) e il Trattato per la messa al bando delle mine antiuomo (che conta 164 Stati firmatari, compresi gli Stati Uniti). Trump e Biden hanno anche eroso l’autorità dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, rifiutando il suo meccanismo di risoluzione delle controversie, bloccando le nomine di nuovi giudici d’appello e ignorando le denunce presentate contro di essa per le varie infrazioni alle regole della politica industriale statunitense, tra cui le tariffe esorbitanti e i sussidi alle imprese per contrastare la crescita economica di Cina e India. A novembre, Biden ha rilasciato una dichiarazione della Casa Bianca che nega la legittimità della Corte penale internazionale su tutte le questioni relative alla guerra del governo israeliano a Gaza.

LA COOPERAZIONE SULLA COMPETIZIONE

Sfortunatamente, è probabile che Trump dia nuovo vigore a una politica estera nazionalista. La sua amministrazione è pronta a vedere la crisi in Medio Oriente come un conflitto di civiltà da affrontare con la forza militare piuttosto che con la diplomazia. Le alleanze in Asia orientale funzioneranno come utili proxy per limitare l’influenza di Pechino. Washington considererà la competizione con la Cina come una lotta esistenziale che accresce il sentimento anti-immigrati in patria, portando potenzialmente a crimini d’odio e a una maggiore violenza contro gli asiatici americani, come è accaduto durante il primo mandato di Trump. Per quanto riguarda l’America Latina, Trump rimarrà miopemente concentrato sulla sicurezza del confine tra Stati Uniti e Messico, rinunciando all’opportunità di collaborare su questioni di interesse comune, come la criminalità transnazionale e il cambiamento climatico.

Ma se gli Stati Uniti vogliono affrontare i problemi del mondo in modo significativo, la loro grande strategia deve uscire dall’era del nazionalismo. Una visione internazionalista più ampia, che lavori per il miglioramento del Sud del mondo, o della maggioranza globale, è una base di gran lunga migliore per l’ordine mondiale rispetto alla competizione con la Cina, che andrà a beneficio solo di pochi. Invece di trattare le nazioni africane e asiatiche come pedine in una competizione tra grandi potenze con Pechino, Washington deve capire come l’emarginazione dei Paesi a basso reddito inibisca la crescita che può favorire gli interessi degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Lavorando con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, gli Stati Uniti possono ridurre il debito delle nazioni africane e ristrutturare le economie in difficoltà per ridurre al minimo la corruzione e promuovere i diritti democratici. Invece di permettere ai BRICS di agire in contrapposizione all’Occidente, Washington deve riconoscere la validità delle loro preoccupazioni e accogliere nuovi approcci che diano priorità all’Africa e alle nazioni asiatiche. Un Sud globale più forte metterà anche un freno all’etnonazionalismo e alle politiche anti-immigrati, perché le economie resistenti rendono difficile sostenere l’argomentazione che gli immigrati “rubano” posti di lavoro e prosciugano le risorse statali.

È ora che gli Stati Uniti superino l’obsoleta logica a somma zero della competizione tra grandi potenze. Invece di sprecare ulteriori risorse nella controproducente ricerca del primato, Washington dovrebbe rinnovare il suo impegno a rafforzare le economie e a promuovere i diritti umani in tutto il mondo. L’interesse nazionale non risiede nel superare la Cina in ogni campo, ma in una visione internazionalista che enfatizzi la cooperazione rispetto alla competizione.

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Colonizzazione, uomo sostituibile e amore per se stessi, di N.S. Lyons

Colonizzazione, uomo sostituibile e amore per se stessi

Intervento al Summit di politica e governo americano dell’ISI (novembre 2024)

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Lo scorso autunno sono stato invitato a tenere alcune considerazioni in occasione di una conferenza ospitata dall’Intercollegiate Studies Institute. Ho parlato come parte di un gruppo di discussione sulla crescente rilevanza del pensatore francese, ingiustamente criticato, Renaud Camus, autore della sempre mal descritta “Grande Sostituzione” (che non è una “teoria del complotto”, in quanto Camus non ipotizza esplicitamente alcun complotto, ma semplicemente una constatazione del fatto che la modernità liberale liquida ha prodotto un cambiamento culturale e demografico radicale). Poiché le mie osservazioni si rifacevano a quanto avevo scritto in precedenza qui sul colonialismo e la “lotta anticoloniale”, ho deciso di non disturbarmi a pubblicarle su Substack. Ma la molto meritata tempesta di fuoco in corso nel Regno Unito sulle bande di adescamento, sull’immigrazione e sull’abbandono deliberato da parte dello Stato britannico dei propri figli in nome del multiculturalismo mi ha portato a rivedere il breve discorso, che mi è sembrato più attuale che mai. Ecco a voi. – N.S. Lyons


Nei suoi scritti, Renaud Camus descrive in modo sorprendente, anche se breve, la continua sostituzione dei popoli e delle culture occidentali come una forma di “contro-colonizzazione”, o talvolta semplicemente come “colonizzazione”, senza mezzi termini. Trovo molto intrigante questa parola, colonizzazione. Perché mentre Camus parla naturalmente di colonizzazione nel contesto delle migrazioni di massa – sottolineando l’ironia del fatto che le ex potenze coloniali europee sono invase dagli stessi popoli che un tempo colonizzavano – io credo che l’idea sia molto più ampia di così.

Infatti, se iniziamo a pensare al mondo occidentale come se fosse stato soggetto a un processo di colonizzazione, questo può aiutarci a spiegare non solo il fenomeno delle migrazioni di massa incontrollate, ma anche il molto più ampio concetto di “ricollocamento che Camus ha sacrificato la sua reputazione nella società educata per cercare di catalogare e descrivere. Inoltre, credo che possa anche spiegare le vere cause profonde del declino culturale e delle lotte politiche che vediamo consumarsi oggi in Occidente, compreso il grande contraccolpo populista che abbiamo visto recentemente esprimersi nelle elezioni statunitensi.

Quindi, mettendo da parte gli sproloqui di sinistra sulla “decolonizzazione” a cui tutti ci siamo abituati, credo che dovremmo dare un’occhiata concreta a ciò che il processo di colonizzazione effettivamente comporta, praticamente e storicamente.

Pressoché universalmente, il primo imperativo del colonialismo è la de-nazionalizzazione. Il colonialismo è un’azione condotta dagli imperi – entità politiche sovranazionali che controllano molte nazioni o popoli diversi sotto un unico ombrello imperiale. L’antitesi dell’impero è l’identità nazionale e l’autodeterminazione nazionale. Ecco perché il compito principale di ogni occupante coloniale è spesso la soppressione o la cancellazione della concezione che la popolazione dominata ha di se stessa come popolo coerente, con un’identità culturale distinta e un territorio storico delimitato.

Il secondo imperativo del colonialismo è, analogamente, un processo di deculturalizzazione. È l’eliminazione della cultura, dei costumi, delle credenze, dei valori e della lingua tradizionali di un popolo. È una deliberata recisione delle radici storiche e l’abolizione della memoria storica, anche attraverso la censura, la propaganda, l’indottrinamento e la desacralizzazione della religione tradizionale di un popolo. Spesso sono proprio i bambini a essere oggetto di programmi di rieducazione, a volte persino deliberatamente allontanati dalla cultura dei genitori per essere cresciuti separatamente. Questa deculturalizzazione può essere presentata come un benevolo processo di civilizzazione, la liberazione di un popolo dai suoi modi arretrati, barbari e provinciali, in modo che possa adottare i valori culturali e i modi di vita superiori dei suoi avanzati padroni coloniali.

Per mantenere il controllo mentre si impegna in questo processo di denazionalizzazione e deculturalizzazione, una potenza coloniale è probabile che impieghi una strategia particolarmente caratteristica di divide et impera: stabilisce una gerarchia sociale e politica che privilegia artificialmente uno o più gruppi etnici o religiosi minoritari scelti per governare sulla maggioranza nativa. L’impero lo fa perché sa che i gruppi minoritari, in un sistema amministrativo multiculturale come questo, probabilmente rimarranno molto più fedeli all’impero che alla loro nazione, essendo stati educati a temere la prospettiva di un governo democratico nazionale da parte di una maggioranza che, in effetti, spesso arriva a provare risentimento nei loro confronti. Le tensioni razziali e settarie iniziano a ribollire.

Intanto, l’espropriazione culturale e politica di un popolo nativo è inevitabilmente accompagnata dall’espropriazione economica e dallo sfruttamento. Gradualmente o tutto in una volta, ciò che un tempo era loro viene sottratto e ridistribuito ai colonizzatori e ai loro gruppi di clienti preferiti. Le terre dei nativi possono essere confiscate, oppure si può far leva su leggi, tasse e regolamenti opprimenti per rendere gradualmente sempre meno economicamente fattibile per loro mantenere la proprietà delle loro aziende e dei loro beni. L’impero può anche sovvertire deliberatamente l’industria nazionale, impedendo sfide economiche ai suoi monopoli internazionali. I metodi finanziari possono essere usati per sfruttare la nazione e il suo popolo intrappolandoli in una complessa rete di debiti ineludibili.

E gli stessi nativi vengono sminuzzati per il loro valore come risorse umane. Possono essere utilizzati come manodopera a basso costo, o arruolati come carne da cannone militare e inviati all’estero per combattere le guerre straniere dell’impero; oppure, in modo più intelligente, l’impero sottrarrà costantemente i giovani nativi più brillanti e promettenti, trascinandoli via dalle loro città natali verso lontane capitali metropolitane, per essere deculturati, rieducati e cooptati a servire il sistema imperiale transnazionale come “gente del nulla”.

Ma naturalmente tra le forme più traumatiche di espropriazione che una potenza coloniale può infliggere a una nazione c’è qualcosa di molto più trasformativo. Si tratta dell’allontanamento di un popolo nativo dalla sua terra ancestrale e dal suo stile di vita, realizzato attraverso la migrazione di massa verso l’interno di un gruppo esterno, siano essi gli stessi colonizzatori o un altro popolo. Man mano che la loro maggioranza demografica e culturale viene indebolita da questa marea umana, la voce politica relativa dei nativi e il loro controllo sulle istituzioni e sulle risorse vengono inesorabilmente minati; ben presto si ritrovano stranieri nella loro stessa terra.

Si tratta di una strategia coloniale di terribile e permanente efficacia. È una strategia che la Repubblica Popolare Cinese, ad esempio, ha utilizzato con grande successo nei territori del Tibet e dello Xinjiang, dove ha trasferito milioni di coloni cinesi Han per diluire e assimilare le popolazioni etniche locali, trasformandole in minoranze deboli e isolate, con un’identità degradata di essere mai state un popolo distinto.

In realtà, una volta completata tale invasione subdola, una nazione non può più tornare indietro: è stata effettivamente cancellata dalla mappa e dalla storia. Pertanto, quando tale migrazione verso l’interno è, come in Cina, combinata con gli sforzi per ridurre attivamente la popolazione del gruppo nativo nel tempo, ad esempio attraverso la soppressione della fertilità, ciò è oggi giustamente riconosciuto dal diritto internazionale come una forma di genocidio.

Naturalmente, è improbabile che i nativi prendano sottogamba una simile espropriazione coloniale e tendano a cercare di ribellarsi ai loro oppressori, quindi l’imperativo finale del colonialismo è l’istituzione di un sistema completo di applicazione e controllo. Polizia segreta, sorveglianza e censura, restrizioni alla libertà di associazione… tutte queste misure pesanti tendono a svolgere il loro ruolo, poiché la paura viene usata per tenere in riga i sistemi locali.

Ma c’è anche un metodo più sottile generalmente impiegato: l’elevazione dell’autorità e del processo decisionale in un apparato sovranazionale di burocrazia imperiale che è deliberatamente complesso e imperscrutabile per il nativo. Con decreti emanati dai suoi lontani superiori metropolitani come dichiarazioni inviate dall’alto di un invisibile Monte Olimpo, egli è condizionato a ritenere che qualsiasi sfida alla vasta macchina dell’impero sarebbe impossibile, inutile e contraria all’inevitabile ondata di civiltà e progresso.

***

Ora, sospetto che, mentre ho descritto questi aspetti del colonialismo – la denazionalizzazione, la deculturalizzazione, la divisione, l’espropriazione e il dominio – molti di voi che mi ascoltate possano aver avuto la spiacevole consapevolezza che queste forze sembrano essere all’opera nella vostra stessa nazione. Perché quasi ovunque nel mondo occidentale i sintomi sono gli stessi…

élite dominanti oicofobiche che esprimono apertamente e regolarmente la loro paura, il loro disgusto e il loro disprezzo per la maggior parte dei loro connazionali, che considerano deplorevolmente arretrati, rozzi, incivili e poco meglio di selvaggi. Una campagna concertata da queste élite per far sì che le persone si vergognino e siano pronte a espiare il loro passato, i loro antenati, la loro cultura tradizionale, i loro valori, i loro modi di vita e persino la loro etnia ereditata.

La diffusa cancellazione dei punti di riferimento culturali e la pervasiva riscrittura delle storie nazionali per cancellare qualsiasi segno o fonte di distinzione, unità o orgoglio nazionale. Tentativi di indottrinare le nuove generazioni in un insieme completamente nuovo e universalizzato di valori più “progressisti” (leggi: civilizzati) e di indurle in una pseudo-cultura del tutto artificiale di multiculturalismo cosmopolita, avulsa da qualsiasi geografia nazionale coerente, identità ereditata o memoria.

Sforzi persistenti per elevare il processo decisionale sovrano dal livello delle nazioni democratiche a distanti organismi sovranazionali (leggi: imperiali), e per ridurre ogni Paese occidentale alla visione proposta da Justin Trudeau per il Canada: uno, cito, “Stato post-nazionale” in cui “non c’è un’identità di base” – solo un contorno arbitrario su una mappa, che rappresenta poco più di una zona economica speciale adatta alle nostre moderne specie di compagnie delle Indie Orientali.

E, cosa più evidente di tutte, un torrente inarrestabile di migrazioni di massa: un’onda anomala che sconvolge la cultura e la demografia e che, nonostante gli anni di proteste da parte dell’opinione pubblica, è rimasta del tutto inascoltata dalle élite di governo in tutto l’Occidente.

Mi sembra che non ci sia un modo più sintetico per descrivere accuratamente questo stato di cose se non come una strana forma di colonialismo. Ma chi o cosa ci sta colonizzando? È una grande potenza straniera che vuole conquistarci? No, chiaramente no. Sono i nostri stessi regimi che sembrano aver deciso di fare questo a noi, al loro stesso popolo, di propria iniziativa. L’Occidente sembra essere la prima civiltà della storia che sta colonizzando se stessa.

Ma perché? C’è forse una cospirazione traditrice in atto? È qui che l’intuizione di Camus è molto utile. Egli ci ricorda che non è necessario alcun complotto per spiegare la colonizzazione autoinflitta dell’Occidente. Solo la forza travolgente della modernità che egli chiama “replacismo”: il “matrimonio di convenienza” tra il moralismo antirazzista del dopoguerra e il capitalismo manageriale globale, che cerca un mondo veramente aperto perché veramente piatto. Un mondo sicuro, privo di conflitti, in cui le particolarità e le differenze tra i popoli, inefficienti e pericolosamente pungenti, prodotte dal passato, dal luogo e dalle preferenze, sono state eliminate. In cui il risultato che definisce il progresso tecnocratico sarà “l’intercambiabilità globale dei popoli”, intercambiabile come gli ingranaggi di una macchina.

O, in alternativa, una in cui l’umanità è trasformata, come Camus dice in modo sorprendente, in un “uomo Nutella”, una “pasta omogeneizzata senza grumi né coaguli” – mera “materia umana indifferenziata” disponibile per essere spalmata senza problemi ovunque lo richieda la convenienza economica. Ma, come scrive, “una tale stabilizzazione con questi mezzi era possibile solo se si immaginavano uomini e donne completamente astratti, per così dire nudi, ridotti a se stessi, castrati di ogni origine, di ogni appartenenza e anche di ogni cultura”.

Questo è dunque ciò che ci sta colonizzando: non tanto un impero mondano quanto un impero concettuale, un ideale utopico di ordine perfetto, una macchina manageriale globale che cerca, attraverso il suo grande e benefico progetto coloniale, di cancellare non solo una specifica nazione, ma l’idea stessa di nazione; non solo una cultura, ma l’idea stessa di cultura; non solo un popolo, ma l’idea stessa di popolo.

***

Come avrete notato di recente, tuttavia, in tutto l’Occidente i nativi sono sempre più inquieti. Molti di noi non si accontentano di vedere il proprio passato cancellato, le proprie culture distrutte, le proprie nazioni dissolte. Improvvisamente, molti si sono ritrovati uniti da un cosiddetto contraccolpo “populista”. Questa potrebbe essere descritta più accuratamente come una lotta anticoloniale condivisa. Ancora una volta il mondo risuona di grida per la sovranità nazionale e l’autodeterminazione, ma questa volta per le nostre nazioni occidentali. La decolonizzazione, a quanto pare, potrebbe essere la grande causa della giustizia sociale del nostro tempo!

A questo proposito, vorrei concludere con un’ultima osservazione che ritengo molto importante. L’ideologia del replacismo e la macchina di appiattimento globale che anima – che cerca di trasformare il mondo intero in quello che Mary Harrington descrive come il soffocante e disumano “nomos dell’aeroporto” – questa macchina è, nel suo freddo meccanismo, praticamente definita dalla sua totale mancanza di amore..

Amare qualcosa o qualcuno significa averne cura proprio per la sua particolarità unica. Almeno per noi comuni mortali, l’amore universale è un’impossibilità e un ossimoro. Dite a una donna che la amate, ma solo nella misura in cui amate tutte le donne come categoria universale, e vi assicuro che non vi andrà bene…

La totale assenza di amore autentico nel progetto del globalismo può aiutarci a vedere la realtà del suo contrario: che la forza animatrice del nazionalismo, che oggi vediamo rifiorire, non è l’odio per l’alterità ma l’amore per il proprio. E che la via d’uscita dall’incubo del rimpiazzo si trova nell’amore: amore per le persone, per il passato, per i luoghi e per le particolarità.

Vi esorto quindi a tenerlo a mente e ad essere orgogliosi quando prenderete il vessillo della lotta anticoloniale – come spero che farete tutti voi, da qualunque parte proveniate – e inizierete a rendere di nuovo grande la vostra nazione! Grazie.

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Agricoltori contro il libero scambio, di Thomas Fazi

Un articolo importante, che coglie alcuni aspetti delle dinamiche, ma che meriterebbe ulteriori approfondimenti e precisazioni. Per tutta una prima fase delle politiche economiche europee, che per altro ha riguardato tutti i decenni passati sino a pochi anni fa, il settore agricolo è stato sacrificato ed offerto come merce di scambio delle esportazioni del settore industriale e del controllo finanziario nelle aree periferiche ed ex-coloniali, nonché delle logiche geopolitiche che hanno guidato surrettiziamente l’Unione Europea. Le principali vittime sono state le economie agricole dei paesi europei mediterranei, sino a sacrificare interi territori montani e collinari, in una sorta di scambio teso a valorizzare e polarizzare le economie dell’Europa Centrale e Settentrionale ai danni di quella meridionale e di una loro industrializzazione complementare. Adesso è arrivato il turno delle economie agricole una volta privilegiate, in parte per le fisime dogmatiche dell’ambientalismo, in parte per l’assenza del criterio di garanzia di sovranità, compresa quella alimentare, nelle politiche comunitarie e, soprattutto, per garantire l’invasività delle grandi produzioni agricole di base statunitensi ed una compensazione dei costi delle politiche egemoniche statunitensi nel mondo sulle spalle degli europei. Politiche che stanno innescando una concentrazione ulteriore delle proprietà terriere nella quale, ancora una volta, è ben presente lo zampino statunitense. Un discorso a parte meriterebbe la dipendenza tecnologica ed esistenziale, sino al rischio di una vera e propria spoliazione, dalla chimica e dalle tecnologie genetiche delle quali le multinazionali statunitensi detengono il predominio sino alla pretesa di determinare la regolazione giuridica e normativa delle forniture. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Agricoltori contro il libero scambio
Di Thomas Fazi • 13 giugno 2024
Billy Wilson / CC BY-NC 2.0
Billy Wilson / CC BY-NC 2.0
Negli ultimi mesi, massicce proteste degli agricoltori hanno investito i paesi europei. Sebbene queste manifestazioni siano spesso una reazione alle politiche specifiche del paese, riflettono una più ampia resistenza contro l’agenda climatica e ambientale dell’Unione europea, in particolare il Green Deal europeo. Gli agricoltori sostengono che queste politiche minacciano la sostenibilità delle aziende agricole di piccole e medie dimensioni, offrendo allo stesso tempo benefici ambientali minimi, e hanno ragione . Tuttavia, le pressioni cui devono far fronte gli agricoltori europei si estendono ben oltre la relativamente recente svolta “verde” dell’Unione Europea. La realtà è che gli agricoltori in Europa lottano da anni con problemi sistemici, come l’aumento dei costi, l’eccessiva regolamentazione e, soprattutto, la concorrenza sleale guidata dal regime di libero scambio dell’UE.

L’Unione Europea è una potenza agricola globale, con un valore della produzione superiore a 500 miliardi di dollari, ed è anche uno dei maggiori esportatori mondiali di prodotti agroalimentari. Il blocco è ampiamente autosufficiente nella maggior parte dei prodotti primari agricoli, producendo abbastanza per soddisfare le esigenze di consumo interno e spesso generando surplus per l’esportazione. In effetti, quando si tratta di agricoltura, l’Unione Europea esporta molto più di quanto importa e lo fa da più di un decennio, determinando un surplus commerciale considerevole.

Si può quindi concludere che il settore agricolo dell’UE è in ottima forma – e, in effetti, in termini economici aggregati lo è. La produzione agricola nel blocco è in costante crescita da anni, e ciò si riflette nella costante crescita dei redditi agricoli.

Allora di cosa si lamentano gli agricoltori? La risposta sta nel fatto che, anche se il settore nel suo insieme sta andando bene, la maggior parte degli agricoltori non va bene. Nell’Unione Europea ci sono circa 9 milioni di aziende agricole. La maggior parte di queste sono piccole: quasi due terzi delle aziende agricole del blocco hanno una superficie inferiore a 12 acri, ma rappresentano solo il 5% circa di tutti i terreni agricoli utilizzati. All’altra estremità della scala di produzione, solo il 7,5% delle aziende agricole dell’UE sono grandi o molto grandi (120 acri o più), ma costituiscono quasi il 70% di tutta la terra.

“I terreni agricoli sono concentrati nelle mani di un numero relativamente piccolo di aziende molto grandi”.

In altre parole, la maggior parte dei terreni agricoli dell’UE è concentrata nelle mani di un numero relativamente piccolo di aziende molto grandi, molte delle quali sono grandi imprese. Solo queste aziende agricole hanno livelli di produzione sufficientemente grandi da generare redditi significativi. Ciò spiega perché le piccole aziende agricole in tutta Europa stanno scomparendo . Negli ultimi 20 anni, il numero di aziende agricole nell’Unione europea è sceso oggi a circa 9 milioni, rispetto ai 14,5 milioni del 2005. Allo stesso tempo, è cresciuto il numero delle aziende agricole di grandissime dimensioni (con una superficie superiore a 200 acri). in modo significativo, di oltre il 20%.

In termini strettamente economici, questo processo di consolidamento ha reso il settore agricolo dell’UE più produttivo ed efficiente, poiché le aziende agricole più grandi sono più industrializzate e ad alta intensità di capitale e possono fare affidamento su economie di scala per raggiungere livelli di produzione più elevati. Ma le piccole aziende agricole forniscono un’ampia gamma di vantaggi economici e sociali che parametri come la produzione non riescono a cogliere: svolgono un ruolo chiave nel mantenere in vita le aree rurali remote mantenendo i servizi e le infrastrutture sociali; sostengono l’occupazione rurale; aiutano a preservare l’identità dei prodotti regionali; proteggono le caratteristiche del paesaggio.

Più fondamentalmente, non è affatto chiaro che gli incrementi di produttività offerti da un maggiore consolidamento stiano rendendo il settore agricolo dell’UE più resiliente nel lungo periodo, soprattutto in termini di sicurezza alimentare. Come notato, l’Unione Europea è ampiamente autosufficiente nella maggior parte dei prodotti agricoli primari – la maggior parte dei tipi di carne, latticini, frutta e verdura e la maggior parte dei cereali – e non è eccessivamente dipendente dalle importazioni, la cui interruzione potrebbe mettere a repentaglio l’approvvigionamento alimentare. In altre parole, il blocco gode di un elevato grado di sovranità alimentare, che riflette l’ attenzione originaria della Politica Agricola Comune dell’UE sull’autosufficienza.

Esistono però importanti eccezioni: in particolare, l’Unione Europea è fortemente dipendente dai semi oleosi (soprattutto soia) e dalle farine per l’alimentazione animale. Altri prodotti per i quali l’Unione Europea non è autosufficiente includono colture proteiche, mais, oli vegetali, zucchero e alcuni tipi di frutta e verdura. Per molti prodotti primari, l’autosufficienza è andata diminuendo negli ultimi due decenni, poiché il blocco si è lentamente spostato dalla produzione di beni agricoli primari di basso valore, ma essenziali, verso la produzione di beni di alto valore, ma non essenziali. , prodotti agroalimentari trasformati.

Ciò è principalmente il risultato di due fattori: la crescente influenza dell’ideologia del climatismo, a seguito della quale la produzione agricola (il secondo maggior contributore alle emissioni di gas serra) è gradualmente diventata un tabù in Europa; e un approccio dogmatico e obsoleto al commercio.


Il libero scambio è uno dei principi fondanti dell’Unione Europea. Oggi, il blocco vanta il più grande regime di libero scambio al mondo, con 42 accordi di libero scambio che coprono 74 paesi partner sparsi nei cinque continenti. Questa rete si è espansa in modo significativo negli ultimi dieci anni e sono in corso trattative con altri partner commerciali, tra cui India, Australia e il blocco Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay). In linea con l’obiettivo originario della Politica Agricola Comune sull’autosufficienza, l’Unione Europea ha inizialmente adottato un approccio relativamente protezionistico al commercio agricolo; tuttavia, negli ultimi 20 anni, l’inclusione dell’agricoltura nella rete sempre crescente di accordi di libero scambio del blocco ha gradualmente esposto il mercato agricolo dell’UE alla crescente concorrenza internazionale.

Secondo i mandarini di Bruxelles, l’impatto del libero scambio è quasi inequivocabilmente positivo, anche per l’agricoltura. Ma questa affermazione regge ad un esame accurato? Negli ultimi due decenni, la bilancia commerciale agricola dell’Unione Europea è migliorata. Tuttavia, non è chiaro in che misura gli accordi di libero scambio del blocco abbiano contribuito a ciò. Se esaminiamo l’evoluzione della bilancia commerciale complessiva del blocco in beni e servizi con i paesi partner dopo l’entrata in vigore (o l’applicazione provvisoria) di questi accordi di libero scambio, non emerge alcun modello chiaro. In alcuni casi, la bilancia commerciale è migliorata; in altri è peggiorato; e in altri ancora è rimasto sostanzialmente invariato.

“Gli agricoltori stranieri possono utilizzare pesticidi tossici”.

In ogni caso, gli agricoltori europei hanno ragioni per opporsi a questi accordi, dato che i paesi partner tendono ad avere standard ambientali, sanitari e sociali inferiori, nonché un costo del lavoro inferiore, rispetto all’Unione Europea. In effetti, gli accordi di libero scambio dell’UE generalmente non contengono “clausole speculari” che impongano agli esportatori agricoli stranieri di conformarsi agli standard europei su questioni quali l’uso di pesticidi, l’alimentazione animale, le misure sanitarie e fitosanitarie e il benessere degli animali. Questa mancanza di reciprocità – o disallineamento normativo – significa che agli agricoltori stranieri è consentito utilizzare pesticidi tossici nella loro produzione agricola, aggiungere farine animali ai mangimi e somministrare antibiotici che stimolano la crescita al loro bestiame, tutte cose che sono vietate o vietate. limitato nell’Unione Europea. Requisiti normativi meno rigorosi offrono agli agricoltori stranieri un grande vantaggio in termini di costi, soprattutto se abbinati a costi di manodopera più bassi – o a condizioni di lavoro di vero e proprio sfruttamento – spesso riscontrati nelle nazioni meno sviluppate.

Ciò è discutibile dal punto di vista etico e della protezione dei consumatori. Ma c’è un motivo economico per farlo? L’argomentazione solitamente avanzata dai sostenitori della liberalizzazione del commercio è che essa aumenta la sicurezza alimentare dell’Europa garantendo nuove catene di approvvigionamento. Nel breve termine questo è certamente vero. Ma hanno ragione gli agricoltori ad affermare che ciò sta danneggiando i produttori europei? E, se sì, cosa significa questo per la sicurezza alimentare dell’Europa nel lungo termine?

L’Unione Europea ha adottato un modello commerciale che privilegia l’importazione di prodotti agricoli primari e l’esportazione di prodotti alimentari trasformati. Gran parte di ciò che importa l’UE è costituito da prodotti agricoli che non possono essere coltivati ​​nelle zone climatiche europee, come i prodotti tropicali. Tuttavia, la maggior parte dei prodotti importati competono direttamente o indirettamente con prodotti che vengono coltivati ​​estensivamente in Europa – spesso in quantità sufficienti a soddisfare il consumo interno – o che potrebbero potenzialmente essere coltivati ​​in quantità molto maggiori.

In che misura l’espansione del regime di libero scambio dell’UE ha contribuito alla scomparsa delle piccole aziende agricole in tutto il blocco negli ultimi due decenni? Le valutazioni d’impatto ufficiali sono poche e rare, e tutti i dati che contraddicono la narrativa ufficiale tendono ad essere pesantemente ignorati. Tuttavia, uno dei pochi studi incentrato specificamente sull’impatto delle importazioni agroalimentari sulla produzione agricola dell’UE (nel periodo 2005-2018), pubblicato dalla Commissione europea due anni fa, ha rilevato che “l’impatto delle importazioni agroalimentari era principalmente complementare ma anche competitivo, sostituendo la produzione dell’UE per un numero limitato di prodotti”.

Il rapporto concludeva che, nella misura in cui “le importazioni hanno avuto un impatto limitato, anche se non trascurabile, sulla produzione agricola dell’UE”, la liberalizzazione del commercio e le crescenti importazioni agroalimentari erano “fattori che hanno contribuito” ai cambiamenti strutturali osservati nel settore agricolo del blocco. compresa la diminuzione del numero complessivo di aziende agricole e la crescente concentrazione. Tuttavia, l’impatto degli accordi di libero scambio conclusi finora sul settore agricolo dell’UE probabilmente impallidirà in confronto a quello dei numerosi accordi in fase di negoziazione o in attesa di piena attuazione, in particolare gli accordi UE-Mercosur e UE-Canada, entrambi che coinvolgono le maggiori potenze agricole.

Un recente rapporto della Commissione europea ha valutato il potenziale impatto di 10 accordi di libero scambio recentemente conclusi o in fase di negoziazione ed è giunto ad alcune conclusioni preoccupanti. Si prevede che le importazioni agricole da paesi con standard normativi e di benessere animale significativamente più bassi aumenteranno in modo significativo, in particolare quando si tratta di carne bovina e pollame. Si prevede che la produzione nazionale diminuirà di conseguenza, a causa della crescente concorrenza, con conseguente crescente dipendenza dalle importazioni.

Non sorprende quindi che gli agricoltori europei abbiano posto l’opposizione agli accordi di libero scambio dell’UE in prima linea nelle loro lotte, e che i governi stiano seguendo l’esempio. A marzo la grande maggioranza dei senatori francesi ha votato contro la ratifica dell’accordo tra l’UE e il Canada, uno dei più controversi fino ad oggi. Nel frattempo, il governo francese continua a opporsi all’accordo UE-Mercosur. È prevedibile che iniziative come questa si moltiplichino man mano che il movimento degli agricoltori europei continua a espandersi in tutto il continente.

La situazione si sta rivoltando contro il libero scambio, ed è giusto che sia così. L’attuale approccio dell’Europa al commercio e all’agricoltura è profondamente imperfetto. Esclude dal mercato i produttori agricoli nazionali (soprattutto di materie prime primarie) e amplifica la dipendenza dalle importazioni per i prodotti che non soddisfano gli stessi standard di quelli originari dell’Europa, tutto in nome dei profitti a breve termine e degli ideali “verdi” che fallire anche alle loro dubbie condizioni. Questo modello non è dannoso solo per gli agricoltori e i consumatori, ma anche per la sicurezza alimentare a lungo termine del continente.

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La Guerra Grande: universalismo USA vs Stati – Civiltà By Gennaro Scala

La Guerra Grande: universalismo USA vs Stati – Civiltà

Intervista a Gennaro Scala a cura di Luigi Tedeschi

1) Nella attuale transizione dal mondo unipolare a quello multipolare è d’obbligo interrogarsi sulla conformazione che assumerà il nuovo ordine mondiale. Con l’impero americano tramontano anche il suo sistema politico – economico e la sua legittimazione ideologica: l’universalismo globale neoliberista. Il falso universalismo americano (in quanto particolarismo assunto a valore universale), aveva soppiantato le narrazioni ideologiche universaliste dello storicismo novecentesco. Il primato globale americano ha abrogato i principi di Vestfalia, resuscitando dall’oblio della storia il concetto di “nemico assoluto”, quale legittimazione delle guerre americane come “guerre sante”, secondo la definizione di Danilo Zolo. La fine dell’ordine internazionale vestfaliano è stata efficacemente descritta da Giulio Sapelli: “L’Europa non riesce neppure a immaginare perché ha abbandonato – accompagnata ahimè dagli Usa – i principi di Vestfalia ed è ritornata alla disgrazia dei «wilsonismi» che miracolosamente si accesero – ma a che prezzo! – nel primo dopoguerra. Come una malattia infettiva, li vediamo risorgere dopo l’intermezzo del dominio intellettuale kissingeriano della diplomazia. Il suo posto è stato preso dagli avversari di Machiavelli e dai seguaci di Leo Strauss, tanto eroico moralmente quanto inetto e catastrofico intellettualmente. E quando un personaggio simile guida la storia c’è veramente da temere”. Senza principi universalisti, la ragion di stato degenera in volontà di potenza. Uno stato assurge al rango di potenza nel consesso di altre potenze, secondo parametri prefissati. Non è errato concepire il multilateralismo come negazione dell’universalismo (vedi Dugin), dato che ogni soggetto internazionale trae riconoscimento in base a valori universalmente riconosciuti in un contesto mondiale? Non è quindi necessario che un nuovo ordine mondiale sia strutturato sulla base di un pluriverso multilaterale ispirato ad un universalismo (certamente ancora tutto da definire), dato che, come afferma Lucio Caracciolo “la potenza assoluta è impossibile”?

La questione dell’universalismo è cruciale. Oggi è all’orizzonte il fallimento dell’universalismo occidentale «liberale», qualche decennio fa abbiamo visto il fallimento dell’universalismo comunista sovietico. Capire il fallimento del secondo aiuta a capire il fallimento del primo, anche perché in un certo qual modo i due universalismi si sorreggevano a vicenda. Nel mio libro Per un nuovo socialismo ho cercato di descrivere come l’ideologia marxiana si struttura come un universalismo alternativo a quello inglese, ma ne mutua la caratteristica di fondo di essere appunto un universalismo, lo stesso Marx era sostanzialmente favorevole all’imperialismo inglese, pur criticandone in varie occasioni la barbarie, perché avrebbe creato dappertutto le condizioni per la rivoluzione comunista che doveva essere globale, come globale era l’espansione inglese. Questo universalismo si rivelava funzionale all’Unione Sovietica del dopoguerra perché era una sfida globale all’influenza globale del sistema americano. Il comunismo fu un’ideologia universalista che faceva presa al di fuori dell’Unione Sovietica, influente anche in paesi del campo occidentale come l’Italia, la Francia, e che ebbe un ruolo importante nei movimenti di liberazione coloniale del dopoguerra.

Tuttavia, l’universalismo comunista sovietico subisce uno scacco con l’ascesa della potenza cinese. Per quel che ne so, è stato poco studiato il ruolo avuto dal quasi conflitto russo-cinese nella crisi e successivo crollo del sistema sovietico, secondo me fu decisivo. I cinesi rifiutarono la dottrina Breznev di ingerenza nei paesi appartenenti al campo dell’influenza sovietica ed arrivarono nel 1969 ad un quasi conflitto con la Russia. Sebbene la Cina non facesse parte del Patto di Varsavia, essa era considerata un paese «fratello», ma comunque subordinato al «paese guida» del comunismo mondiale. Questo era evidentemente incompatibile con l’aspirazione all’autonomia della Cina che allora iniziava la sua ascesa. Successivamente, nel 1971, ci fu il viaggio di Kissinger in Cina, e iniziava allora quel rapporto speciale degli Usa con la Cina che secondo Arrighi fu il modo in cui gli Usa superarono la crisi di accumulazione degli anni ‘70, ma che fu anche crisi politica del sistema globale degli Usa (sconfitta in Vietnam). Portare la Cina nel proprio campo fu un grosso colpo per l’Unione Sovietica e una vittoria per gli Usa che invertirono un trend negativo, ma si ponevano le basi per l’ascesa della potenza cinese, attualmente il principale avversario degli Usa. Diciamo che la Cina è stato il grosso scoglio contro cui si sono infranti sia il globalismo sovietico sovietico che quello liberale.

I limiti dell’ideologia universalista sovietica, inoltre, sono venuti alla luce con la guerra in Ucraina. Credo che avesse ragione Putin quando ricordava, in un discorso del 21 Febbraio 2022, che l’Ucraina fu una creazione leniniana e «ora “discendenti riconoscenti” hanno demolito e demoliscono i monumenti a Lenin in Ucraina». Si narra che Kruscev abbia regalato la Crimea all’Ucraina una sera in cui era ubriaco, probabilmente si tratta di un aneddoto, ma da un’idea della leggerezza con cui si diede corpo a questa entità statale chiamata Ucraina. Nel dopoguerra i sovietici mescolarono città e aree abitate da popolazione non solo russofone ma di etnia russa, nonché regioni come la Crimea che sono strategiche e irrinunciabili per la potenza russa, con popolazioni come quelle che vivono nella Galizia, una volta appartenente all’impero austro-ungarico, che non sono di cultura russa, e in essa non si riconoscono, e che accolsero con favore l’invasione nazista. In questa area nacque l’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini, filo-nazista, guidata da Bandera, la cui eredità, coltivata dai servizi segreti statunitensi, è continuata nell’Ucraina del dopoguerra, dando vita ad organizzazioni neo-naziste come Svoboda e Pravy Sector, che hanno giocato un certo ruolo nel colpo di stato di Maidan, e quale braccio armato dei settori più favorevoli al conflitto con la Russia.

Possiamo dire che la presenza di un nemico come l’Urss ha reso la politica estera statunitense più realistica. Kissinger, ma anche altri importanti esponenti come Kagan, avevano un’attenta considerazione dei rapporti di forza e studiavano attentamente la realtà delle altre nazioni e del loro principale avversario, l’Urss, mentre l’attuale ideologia «liberale» secondo la descrizione di John Mearsheimer, pretende di dar forma ad un mondo che non si preoccupa di studiare e conoscere.

Tra gli ispiratori di questo tipo di ideologia vi sarebbe appunto Leo Strauss, considerato filosofo guida dei neocon. Personalmente, non conosco la sua filosofia, quindi mi mantengo su delle considerazioni di carattere generico. Mearsheimer, in un testo in cui mostra il carattere irrealistico e illusorio dell’«ideologia liberale» riporta una citazione di Strauss, secondo cui «the more we cultivate reason, the more we cultivate nihilism: the less are we able to be loyal members of society.» In pratica l’esito della filosofia sarebbe nichilistico, con essa si raggiunge la consapevolezza che non esiste nessuna verità. Mentre Nietzsche lo dice apertamente, Strauss nasconde questa verità dell’assenza di verità (il che sarebbe pur sempre l’affermazione una verità, contraddizione classica del relativismo, ma non ci formalizziamo…). Il filosofo sarebbe colui che è consapevole dell’impossibilità di affermare delle verità su ciò che è bene e male, ma questa verità la possono sopportare solo pochi eletti, per cui bisogna essere disposti a raccontare a fini pratici ai «semplici» le platoniane «nobili bugie» sul bene e male.

Sarebbe interessante approfondire il ruolo di Strauss, non è quello che intendo fare in questa occasione. Da quanto detto possiamo invece trarre delle indicazioni sulle caratteristiche specifiche dell’ideologia dell’«esportazione della democrazia» che ha dominato il periodo della cosiddetta globalizzazione, il suo carattere sostanzialmente irrealistico (fortemente sottolineato da Mearsheimer), e nichilistico, l’idea che non esista una realtà di cui tener conto, ma di poter dar forma al mondo secondo i propri «principi», a cui tra l’altro neanche si crede. È una forma di «volontà di potenza», intendendo con questo termine non la ricerca della potenza, ma una caratteristica della cultura occidentale descritta da Heidegger, ma non solo, l’analisi di Agamben riguardante la nascita di un nuovo concetto di volontà con il creazionismo cristiano, costituisce un rilevante contributo nella più precisa definizione del termine. Ne ho scritto nel mio lavoro sull’Ulisse dantesco, in cui ho cercato di mostrare la precoce e geniale identificazione dantesca di ciò che oggi chiamiamo volontà di potenza.

Per Heidegger la volontà di potenza nicciana è solo il compimento di un lungo percorso della cultura europea-occidentale, non riguarda la sola Germania, e lo stesso Nietzsche non è altro che la sua espressione più rappresentativa. Possiamo dire che l’ideologia dell’«esportazione della democrazia e dei diritti umani» è in continuità con l’espansionismo globale europeo, ne ha raccolto l’eredità. Il «cattivismo» nicciano, intendeva invertire la decadenza che ha origine dall’aver posto da parte di Platone il valore nel bene, e nella successiva creazione di un Dio buono, rovesciando il discorso platonico, ma restando sempre nel suo ambito, come osserva Heidegger, poiché anche quello di Nietzsche è un discorso di carattere morale, anche se di una morale «inaudita» che assume al contrario di quella platonica il valore del male, cioè la morale barbarica della «bestia bionda» capace di commettere a cuor leggero le peggiori stragi, una violenza necessaria per invertire la decadenza dell’Europa e ristabilire la sua supremazia.

Con l’ideologia dell’«esportazione della democrazia e dei diritti umani» il valore torna ad essere posto nel bene (qualcuno ha definito gli Usa «l’impero del bene»), l’origine del ben noto e irritante «buonismo» che ha imperversato nel discorso pubblico, ma si tratta delle fandonie moralistiche che è necessario raccontare alla plebe, poiché il fine reale è l’affermazione degli Usa quale unica potenza mondiale. Siamo sempre nell’ambito della volontà di potenza per i connotati del nichilismo, dell’irrealismo e del soggettivismo che sorreggono un espansionismo senza limiti, una volontà di potenza che incontra il suo limite nella presenza di altre «volontà di potenza», di cui una prassi politica che non voglia essere fallimentare deve tener conto. Questo soggettivismo è stato favorito dal fatto che per un certo periodo gli Usa potevano effettivamente considerarsi come l’unica potenza mondiale, ma ciò non significava che potevano modellare il mondo a proprio piacimento.

Di solito si sottolinea il ruolo dei neocon (abbreviazione di neo-conservatori) nel promuovere l’interventismo statunitense, tuttavia, si tratterebbe di un conservatorismo differente da ciò che intendiamo in Europa con questo termine. Di loro, i neocon ci hanno messo l’interventismo, ma ciò che è stato «esportato» con le guerre statunitensi degli anni della «globalizzazione», sia dai democratici che dai repubblicani, sono stati i «valori liberali» della democrazia e dei diritti umani, naturalmente deprivati di ogni significato reale, poiché democrazia e diritti umani non si esportano a suon di bombe, ma queste erano le «noble lies» da raccontare alla popolazione perché il fine reale difendere il bene superiore dell’affermazione degli Usa quale unica potenza mondiale. La devastazione dell’Iraq fu il culmine delle guerre «vittoriose» degli Usa, dimostrazione della grande potenza degli Usa nel «riportare all’età della pietra gli stati canaglia» (Bush), esercitata contro nazioni incapaci di opporre difesa alla supremazia tecnico-militare degli Usa, ma disastrose sul piano dell’influenza statunitense nel mondo, a detta dello stesso Mearsheimer, contrario alla guerra in Iraq, fortemente voluta dai «neocon», nei quali un ruolo non trascurabile aveva la lobby ebraica e la politica israeliana che principalmente volle questa guerra.

L’ideologia dell’esportazione della democrazia e dei diritti umani, che ha retto la politica estera degli Usa negli anni della «globalizzazione», è stata una forma di volontà di potenza. La menzogna dei «bombardamenti umanitari» poteva avere corso soltanto su un nichilismo che comporta uno svuotamento del significato stesso del linguaggio. Ad un tale livello di menzogna la comunicazione stessa perde significato, un nichilismo che non è solo dei neocon, ma che è diventato proprio della cultura statunitense e occidentale, come ben messo in luce da Todd nel suo libro sulla «disfatta dell’Occidente». Le balle raccontate durante le guerre per «l’esportazione della democrazia» (ricordiamo Powell con la provetta in mano che provava la presenza di armi chimiche in Iraq) segnava un decadimento del sistema dei media, che è continuato ad ha raggiunto nuovi livelli con la guerra contro la Russia. Marco Travaglio in qualche suo articolo ha fatto la raccolta delle balle stratosferiche che sono state pubblicate sui media dopo l’inizio della guerra in Ucraina. È qualcosa che va oltre la propaganda, è una forma di auto-intossicazione di un sistema che ha perso il contatto con la realtà. Media, riviste, giornalisti, intellettuali non hanno solo la funzione di indottrinare la popolazione, ma devono anche correggere con «l’esame di realtà» la politica dei propri governi. Questa funzione ormai è svolta da pochissimi confinati in piccole nicchie che ancora vengono concesse in internet (ma sottoposte ad una censura sempre incombente), lo stesso Mearsheimer, che non è certo un sovversivo, ma uno che ragiona nell’ottica della difesa della potenza statunitense, non viene più pubblicato su quotidiani e riviste di grande tiratura, ma deve limitarsi agli articoli pubblicati sul proprio blog e alle interviste pubblicate su youtube, come un «influencer» qualsiasi.

Giulio Sapelli auspica in un’intervista che si possa abbandonare la «teoria anti-realista neocon degli allievi di Leo Strauss, e tornare alla teoria e pratica realista in politica estera». Certo, la politica kissingeriana era più realistica, anche per la presenza di un nemico reale, e non alquanto fittizio e creato ad arte come il «terrorismo islamico» non certo in grado neanche di scalfire la potenza statunitense, tuttavia gli esponenti attuali di questo realismo come Mearsheimer criticano il carattere fallimentare della politica estera statunitense, ma perché incapace di mantenere la supremazia statunitense, concentrandosi sul compito di contenere la Cina. Bisognerà vedere cosa si intende con l’obiettivo di contenere la Cina, se ciò comporterà prima o poi una guerra, e che tipo di guerra, con la Cina.

Il globalismo statunitense è erede della lunga storia del globalismo europeo, soprattutto nella fase dell’egemonia inglese. Frenato dalla presenza dell’Unione Sovietica, è emerso solo in forma aperta con il crollo dell’Urss, sfociando in aperta volontà di potenza. Una inversione di rotta rispetto a questa storia non avverrà senza conflitti, tanto esterni, quanto interni, essendo una caratteristica di sistema, comporterebbe un cambiamento di sistema. Tuttavia, io credo che dopo un periodo di conflitti, sarebbe possibile giungere ad un assetto multipolare fatto di un mondo suddiviso in zone, occupate da diverse civiltà. In fondo, questa è stata la realtà del mondo prima del balzo in avanti sul piano dell’organizzazione sociale e della tecnica militare della civiltà europea rispetto alle altre civiltà che l’ha proiettata in tutto il mondo, abbattendo le muraglie cinesi e trascinando le altre civiltà nel «progresso» (per dirla con il Manifesto di Marx ed Engels). Varie specie animali sono territoriali, ad es. i branchi di lupi che si suddividono il territorio, ogni branco evita di muoversi in quello degli altri, per evitare dannose contese. Dovrebbero esserne capaci anche gli esseri umani.

Un cambiamento di rotta si impone ora che l’«Occidente» si trova di fronte delle potenze reali capaci di resistergli, a meno che non voglia abbattere potenze quali la Cina o la Russia, ma quest’ultima ha già chiarito che in caso di minaccia esistenziale verranno usate le armi atomiche. Fa parte della dottrina politica-militare ufficiale (non credo che facciano tanto per dire). Per quanto personalmente sia critico della politica occidentale, non sono né filo-russo, né filo-cinese, appartengo pur sempre alla cultura europea, di cui l’Italia fa parte, anche se non si sa più bene in cosa consiste questa appartenenza, quale sia la nostra identità, credo però che queste potenze esistano, non solo la Cina e la Russia, non dimentichiamo l’India, la Turchia, l’Iran. Sarà necessario e legittimo contendersi degli spazi con loro. E’ impossibile, invece, tornare ad un mondo in cui l’Occidente sia la sola potenza dominante. Ma fare i conti con questa realtà del mondo non sarà per noi facile.

Ritengo Dugin una figura molto rappresentativa, in quanto espressione dell’importanza del fattore dell’identità culturale, innegabile, come ci dice il fatto che le potenze che si oppongono al globalismo statunitense sono tutte eredi di grandi civiltà storiche, ma si tratta di un’estremizzazione in senso opposto di ciò che mancava all’ideologia sovietica comunista, quale forma di universalismo. Significativa la sua visione della storia come «noomachia», ovvero come la lotta tra diversi Nous (il termine greco con cui si intende mente, intelletto, coscienza) che sarebbero all’origine delle diverse culture (che si concretizza in un progetto editoriale di una ventina di volumi con cui si intende analizzare il Nous di svariati popoli). L’identità culturale è cruciale, ma è un errore questa ipostatizzazione che la personifica in un Nous, specifico per ogni popolo, determinato dal conflitto tra diversi Logos (quello di Dioniso, di Apollo, indicati da Nietzsche, e quello di Cibele «scoperto» da Dugin). La cultura (intesa nel senso di civiltà) è un fattore cruciale che si conserva nel tempo, ma si conserva nell’incontro-scontro con altre culture-civiltà. È un fuoco che va continuamente alimentato, e non è culto delle ceneri, per dirlo con una famosa massima. Per alimentare questo fuoco è necessario il confronto con un altre cultura-civiltà, pur correndo il rischio del conflitto. Proprio per diversificarsi ogni cultura ha bisogno di un terreno comune con le altre culture, costituito dalla comune appartenenza al genere umano. Il rischio, nel caso di Dugin, è di considerare chiusa in se stessa ogni cultura-civiltà, personificata, mitologizzata e ipostatizzata in Nous, e che dal giusto rifiuto del falso universalismo, si ricada nel particolarismo che ignora la comune appartenenza al genere umano.

Sono d’accordo, è necessario ricercare una nuova forma di universalismo. Va trovato un terreno comune di comunicazione tra le varie culture, anche nel conflitto, anzi soprattutto nel conflitto, perché non degeneri in conflitto distruttivo per tutte le parti in lotta.

Per questo di grande utilità resta il comunitarismo di Costanzo Preve, che possiamo considerare principalmente come una forma di critica all’universalismo comunista. Quando scriveva Preve, durante il periodo della globalizzazione, guardava soprattutto agli Stati quali principale fattore di resistenza comunitaria al rullo compressore della globalizzazione statunitense. Ora che la Cina e anche la stessa Russia si autodefiniscono come «stati-civiltà» (ne parleremo meglio più avanti), dobbiamo andare oltre alla classica «questione nazionale» su cui tanto hanno dibattuto nel movimento comunista, considerandola all’interno dell’identità culturale, che possiamo considerare come uno dei passaggi comunitari fondamentali e ineliminabili tra l’individuo e il genere.

Respingendo l’accusa di «localismo», con cui si vuole intendere particolarismo, anti-universalismo, scriveva Preve in Elogio del comunitarismo:

«Il comunitarismo, così come ho cercato di delinearlo, resta la via maestra all’universalismo reale, intendendo per universalismo non un insieme di prescrizioni dogmatiche “universali”, ma un campo dialogico di confronto fra comunità unite dai caratteri essenziali del genere umano, della socialità e della razionalità. Quando si parla di universalismo, infatti, non si deve pensare a un insieme di prescrizioni, bensì a un campo dialogico costituito da dialoganti che hanno imparato a capire le lingue degli altri, anche se forse non le parlano con un accento perfetto.»

Singolare che l’accusa di localismo sia ripresa da Mimmo Porcaro in una nuova edizione di Elogio del comunitarismo (per la casa editrice casa editrice Inschibboleth, che comprende inoltre un testo inedito di Preve sempre sul comunitarismo), il quale evidentemente non ha ben compreso il testo previano di cui ha scritto la prefazione. Porcaro, da quanto scrive, mi sembra che sia un nostalgico dell’universalismo comunista, invece Preve prese atto del fallimento del comunismo storico e cercò di correggerne il difetto fondamentale a partire appunto da questa forma di universalismo che non aveva retto alla prova della storia.

Dopo il fallimento dei falsi universalismi, ritrovare la strada dell’universalismo autentico non è solo qualcosa di auspicabile, ma direi addirittura necessario proprio oggi in cui il conflitto tra le varie potenze appare come inevitabile, se non vogliamo che questo conflitto degeneri in scontro frontale con le inevitabili immani conseguenze. Potrà apparire paradossale, ma proprio il conflitto rende necessario a trovare un linguaggio e regole comuni (un «campo dialogico» come scrive Preve) per regolare questo conflitto. Esso passa per un universalismo che non oblitera le identità nazionali e quella forma di identità culturale di lungo periodo rappresentata dalle civiltà storiche.

2) L’ordine mondiale unilaterale americano scaturito dalla dissoluzione dell’URSS, è ormai in fase di avanzata decadenza. Le cause del suo conclamato fallimento sono evidenti: alla fine del bipolarismo USA – URSS, non ha fatto seguito una nuova Yalta, cioè un nuovo equilibrio internazionale. L’autoreferenza dell’unica superpotenza superstite, ha fatto venire meno il necessario confronto dialettico tra i protagonisti nella geopolitica mondiale. E’ infatti dal confronto / scontro tra una pluralità di soggetti geopolitici, in cui ciascuno assimila dalla controparte avversaria gli elementi politico – culturali dell’altro, che si genera quella necessaria dialettica tra le parti che rende possibile l’instaurazione di un ordine internazionale. La geopolitica mondiale non si struttura dunque su questo processo dialogico / dialettico da cui scaturisce un equilibrio tra il pluriverso delle potenze mondiali? L’ordine / disordine unilaterale degli USA, non è fallito perché globale, ma non internazionale e fondato non su una filosofia della storia, ma sul presupposto ideologico astratto di concepire il suo avvento come la fine e/o il fine della storia, cioè l’ordine in cui la storia fosse giunta al suo definitivo compimento sia nei suoi cicli temporali che nella sue finalità ultime?

L’ordine di Yalta seguì alla seconda guerra mondiale, in seguito al crollo di uno degli attori principali di questo ordine, non vi è stato un nuovo ordine, ma il tentativo degli Usa di affermarsi come unica potenza mondiale (la «globalizzazione»), il che in realtà ha accresciuto il disordine mondiale, tuttavia risulta già oggi chiaro che questi due decenni di «globalizzazione» sono stati un interregno, durante il quale vi è stata l’ascesa della potenza cinese, e il ritorno della potenza russa che si è spogliata della sua veste sovietica, nonché l’ascesa di altre potenze riunite sotto i cosiddetti Brics, che non è una vera e propria alleanza, ma riflette più o meno l’insieme delle nazioni che non si riconoscono nella subordinazione alla supremazia statunitense. Questo «nuovo mondo» è ancora agli inizi, anche se si è abbastanza già ben delineato, e una sua piena affermazione non avverrà senza conflitti, che sono già in corso, la guerra in Ucraina è già una guerra dell’«Occidente allargato» contro la Russia. Bisognerà fare in modo che tali conflitti non assumano la forma dello scontro diretto e frontale, come durante le due guerre mondiali, dato il tipo di armi oggi disponibili. Magari sarà una guerra strisciante che durerà decenni, «senza limiti» secondo il titolo di un significativo libro di due militari cinesi, ma senza limiti nel senso che investirà varie sfere, dall’azione bellica classica, così come investirà l’economia, la sfera culturale, le comunicazioni, internet ecc. Se invece prendesse la forma di un confronto militare diretto, quasi inevitabilmente comporterebbe l’utilizzo delle armi nucleari, e nessuno può immaginare cosa verrà dopo, anche se come ho già detto in altre occasioni non credo che sarà la fine dell’umanità (risvolto apocalittico della credenza nell’onnipotenza della Tecnica), ma di sicuro qualcosa di paragonabile ad un nuovo diluvio universale (per dirlo in termini biblici).

Comunque, credo che se ci sarà un nuovo ordine sarà solo al termine di questo conflitto appena iniziato. Sono convinto che un ordine multipolare sia possibile, ovvero il mondo suddiviso in grandi spazi, ognuno con un proprio ordine interno. Penso invece che chi crede che il multipolarismo sia solo una fase di passaggio conflittuale che vedrà il suo assestamento con la nascita di una nuova potenza egemone sia in errore, in quanto estrapola le dinamiche della storia europea che è stata fatta di tante «egemonie» (come descritto nella World-systems theory) e ne fa un modello universale. Credo che diverse potenze possano con-vivere sulla Terra definendo un proprio spazio, anche se poi sarà uno spazio variabile, con zone di influenza continuamente ridefinite, ma dal conflitto indiretto e limitato, perché oggi conflitto diretto tra due potenze significherebbe conflitto atomico.

3) L’unilateralismo americano si è imposto come unico modello economico, politico e culturale su scala globale. Mentre nell’ambito geopolitico il mondo americanocentrico, dopo rilevanti e ripetute sconfitte politico – militari degli USA sembra in via di dissoluzione, dal punto di vista culturale non sembra invece registrare sintomi di decadenza. L’americanismo si è diffuso a livello globale come stile di vita individualista, libertario e relativista dal punto di vista etico – morale, consumista ed economicista nella vita sociale e radicato nel pensiero unico nelle espressioni artistico – culturali della società. L’americanismo è stato inoltre supportato dal progresso tecnologico dell’era digitale, che ha profondamente inciso sulla psicologia delle masse, contribuendo massicciamente allo sradicamento delle identità culturali specifiche dei popoli. Al tramonto dell’unilateralismo americano, non fa infatti riscontro anche la fine del modello socio – culturale americanista. Pertanto, non va delineandosi un mondo multipolare in cui l’americanismo potrebbe sopravvivere anche alla fine del primato americano? Come mai non si è finora sviluppata una contro – cultura anti – globalista alternativa al modello americanista? Perché alla omologazione cosmopolita americanista non si contrappone un multilateralismo, quale pluriverso della multiformità delle culture identitarie?

In effetti, l’egemonia occidentale ha lasciato il segno, quel certo modello di vita di cui parlavi si è affermato in tutto il mondo, favorito dal fatto paradossale che le altre civiltà proprio per difendersi dall’espansionismo occidentale ne hanno dovuto adottare alcuni aspetti. C’è da notare però che questo modello di vita è in profonda crisi proprio nel paese dominante. Dario Fabbri in una conferenza pubblica ha affrontato il tema della «depressione americana», intendendo propriamente il disagio psichico, la depressione che si ritiene abbia colpito un terzo della popolazione, insieme ad altri indici di disagio profondo, quali il tasso di suicidi (tre volte quelle europeo), il tasso di omicidi, le stragi di massa, l’obesità di massa. La «narrazione» di Fabbri, come al solito suggestiva, attribuiva la «depressione americana» alla crisi del ruolo americano nel mondo quale nazione che incarna una «missione speciale», ma non considerava l’incidenza dello stile di vita statunitense individualista e radicalmente anticomunitario, e in quanto tale contrario alla natura dell’essere umano quale essere sociale. Difficile negare che l’isolamento e lo svuotamento del contenuto della vita individuale che tale modo di vita comporta abbia un ruolo non trascurabile nel generare tale diffusione di un profondo disagio psichico e morale. Magari altre popolazioni del mondo, come quella cinese e anche russa, che da poco hanno potuto assaporare qualcosa del tanto agognato e propagandato «benessere» del consumismo occidentale, la casa con tutte le comodità, l’automobile, l’abbondanza di cibo (ma di dubbia qualità), le vacanze ecc.. inebriate dalla novità sono poco inclini a vederne gli aspetti negativi e anche distruttivi. Credo che anche su questo aspetto si giocherà il conflitto, se tra le varie potenze in competizione vi sarà chi riuscirà a creare un modello di vita che pur superando la povertà crei meno infelicità rispetto all’american way of life, meno individualista e più capace di includere la popolazione e darle un senso di appartenenza, avrà un’importante carta da giocare, potendosi proporre effettivamente come modello alternativo da seguire.

Credo che che in generale questa diffusione dello stile vita occidentale sia un fatto superficiale e transitorio. L’identità culturale continua ad essere presente, come testimonia la presenza stessa della Cina, della Russia, dell’India, dell’Iran, della Turchia, che sono eredi delle grandi civiltà storiche.

4) Con il fallimento dell’unilateralismo neoliberista americano, tornano di attualità le problematiche ideologiche e politiche novecentesche. Occorre dunque elaborare un bilancio storico dell’era del primato americano impostosi dall’implosione dell’URSS ai nostri giorni. Occorre innanzi tutto rilevare che tutti i mali che l’Occidente imputava al socialismo reale sovietico, quali l’egualitarismo, la struttura massificata della società, il dirigismo economico, il totalitarismo ideologico e politico, sembrano essere stati ereditati ed esasperati dal capitalismo globalista. L’egualitarismo è stato compiutamente realizzato dalla generalizzata proletarizzazione dei ceti medi, la massificazione su scala globale è conseguenza dell’imposizione di un unico modello economico – sociale fondato sulla produzione e sul consumo di massa, il dirigismo economico assumerà dimensioni globali con la rivoluzione digitale del Grande Reset, il pensiero unico scaturito dall’ideologismo liberale si impone mediaticamente come totalitarismo culturale e politico assoluto. Da tali considerazioni, non emerge che l’avvento del capitalismo globale non abbia rappresentato il superamento delle ideologie novecentesche, ma solo l’esasperazione dei loro aspetti più negativi? L’avvento di un nuovo ordine multilateralista non costituisce l’occasione storica per la riproposizione di quelle istanze di giustizia sociale, così come di quelle idealità utopiche che prefiguravano una umanità riconciliata, già patrimonio della cultura novecentesca? Altrimenti, non è largamente prevedibile il rischio che il nuovo ordine multilaterale possa tramutarsi in una competizione geopolitica tra capitalismi di dimensione non più globale ma continentale?

L’«egualitarismo» odierno lo definirei una forma di plebeizzazione (mi si passi il termine), che vede un vertice oligarchico con una plebe alla base, formata di una massa destrutturata e impoverita tanto sul piano materiale che culturale. Le diseguaglianze sono sul piano economico sono enormi, e stando ad una mappa mondiale del coefficiente di Gini che ritrovo su Wikipedia, la situazione è piuttosto simile negli Usa, in Cina e in Russia, che non incarnano dei «modelli alternativi» come erano una volta volevano essere l’Urss e il comunismo. C’è chi guarda alla Cina e alle sue «grandi capacità di sviluppo», anche se può essere nient’altro che una forma accelerata di industrializzazione che nei paesi occidentali c’è già stata. La Cina non sembra un modello granché alternativo al capitalismo occidentale, anche se io credo che si tratti comunque di un sistema diverso che andrebbe studiato. Certo si può imparare da tutti, però non credo che risolveremo il nostro problema interno guardando alla Cina, dovremo risolverlo noi. Per questo, non mi interessa molto la diatriba se il sistema cinese sia o meno socialista. In Cina la politica sembra essere maggiormente alla guida rispetto all’occidente dove predomina l’economia, si tratta di un modello dirigista e meritocratico di ispirazione confuciana, che però gode di un consenso popolare di base dovuto alla capacità di far uscire un miliardo e passa di cinesi dalla povertà e di ridare dignità alla Cina quale grande civiltà storica. Ma è un modello che si basa su presupposti culturali differenti dai nostri, quindi difficile da importare. Credo che gli intellettuali comunisti come Carlo Formenti che sulla scorta dell’ultimo Arrighi guardano alla Cina come «sistema socialista» e potenziale nuovo egemone mondiale, e punto di riferimento per il rilancio del «socialismo», siano nostalgici di quell’universalismo che non avrà più ragion d’essere in un mondo multipolare che vedrà la presenza di diverse potenze, senza una potenza egemone a livello globale. La Cina non potrà essere un nuovo egemone mondiale come sono state le nazioni europee e gli Stati Uniti. Inoltre, credo che le nazioni europee, e l’Italia, per motivi geopolitici, economici e culturali debbano guardare più alla Russia che alla Cina. Esattamente il contrario di quanto sta avvenendo, sono stati infatti tagliati dei legami proficui di scambio che hanno peggiorato la nostra crisi economica. La completa subordinazione alla fallimentare politica statunitense testimonia il grave stato in cui versiamo, dovuto a classi politiche completamente inette e subordinate agli Usa.

Non vedo effettivamente grandi movimenti politici che vogliano far fronte allo stato di effettiva decadenza dell’Occidente palesatosi con la «prova di realtà della guerra», così ben descritto da Emanuel Todd nel suo libro sulla «disfatta dell’Occidente». Forse è questo il problema più grave, l’incapacità delle nazioni occidentali, soprattutto quelle europee, di affrontare un mondo in profonda trasformazione, come testimonia la volontà di proseguire una guerra già persa con la Russia, senza nessun obiettivo preciso se non quello di trascinare questa guerra per non voler prendere atto della sconfitta.

La definizione di un’identità europea risulta quasi impossibile, in quanto l’Europa è una civiltà che ormai appartiene al passato, che non ha saputo raggiungere una forma di unità interna, conclusasi con due guerre mondiali. Successivamente ci si è subordinati agli Usa, dando vita a questo non luogo chiamato Occidente, ma appare già come una soluzione di breve durata. Mentre è possibile immaginare che gli Usa, dopo un periodo di conflitti e crisi interna possano trovare un proprio modo di stare al mondo e convivere con le altre potenze, non riesco invece ad immaginare come possano farlo le nazioni europee, senza scivolare nel piano inclinato di un rapido declino. Da questo credo derivi la subordinazione e l’attaccamento cieco e disperato agli Usa, che rischia di far diventare le nazioni europee mero strumento della politica statunitense.

Accumulazione capitalistica e imperialismo, ovvero espansione senza limiti, a-territoriale e globale, nascono insieme, possiamo dire sono la stessa cosa. Ciò fu già ben compreso da Dante come ho cercato di mostrare nel mio saggio Il folle volo in Occidente. La tragicommedia di Ulisse. La prima accumulazione capitalistica della storia quella fiorentina, nella forma del capitale accumulato dalle famiglie dei Bardi e dei Peruzzi, finanziò, dal lato inglese, la «guerra dei cent’anni», la prima delle innumerevoli guerre interne europee. L’Italia comunale vede i primi vagiti di quella formazione sociale che chiamiamo “capitalismo” che in tappe successive ha visto un enorme sviluppo tecnico ed economico, e, allo stesso tempo, l’espansione in tutto il mondo alla ricerca di materie prime e mercati. Nel momento in cui tale espansione raggiunge i suoi limiti nella presenza di altre potenze, si impone un cambiamento di sistema, a partire dall’Occidente dove tale sistema sociale è nato e si è affermato.

L’impoverimento, la desertificazione, l’atomizzazione sociale, la devastazione culturale e la mancanza di prospettive dovute alla incapacità di adeguarsi ad un mondo che cambia, purtroppo da parte non solo delle classi dominanti, ma riguardanti il decadimento dell’intera collettività, sono le cause della mancanza di movimenti sociali, nonostante il continuo peggioramento delle condizioni di vita delle classi popolari, eccettuata la breve stagione del «populismo» che si è caratterizzato per la sua debolezza e inconsistenza.

Di fronte agli ulteriori e inevitabili shock vi sarà un’effettiva reazione collettiva, oppure prevarrà la presente incapacità di reagire? Lo sapremo solo vivendo, per dirla con Lucio Battisti.

5) Al primato unilaterale americano ha corrisposto l’espandersi a livello globale di un nuovo modello neoliberista in cui l’economia finanziaria prevale sull’economia della produzione industriale. Pertanto, con il venir meno del primato dell’industrialismo, è scomparsa anche la dicotomia borghesia / proletariato e con essa la dialettica della lotta di classe. Sembra tuttavia che nella struttura elitaria verticalizzata della società neoliberista, estesa su scala globale, si siano riprodotti i presupposti rivoluzionari del materialismo storico – dialettico della filosofia di Marx. Tale prospettiva è ben delineata in un saggio di Flores Tovo dal titolo “Considerazioni sul presente storico”: “C’è un fatto tuttavia che bisogna sottolineare, ossia che il negletto e vituperato Marx, sembra che abbia avuto ragione nella sua analisi sul capitalismo proprio nei giorni nostri. I presupposti concreti e reali per attuare una rivoluzione anticapitalista si sono tutti realizzati. La concentrazione del potere finanziario è in mano a poche decine di persone; la socializzazione del lavoro con il macchinismo automatico è stato imposto (il “Gestell” heideggeriano) in tutti i settori delle società; l’altro grado di sviluppo tecnico ha comportato l’avvento dell’automazione; i ceti medi, sia quelli nuovi, che quelli tradizionali stanno scomparendo, per cui la proletarizzazione è un fatto compiuto. Infine l’impoverimento delle masse sta avanzando sempre più a livello mondiale”. Aggiungasi inoltre che l’attuale capitalismo è in una fase di declino irreversibile in quanto esso può sussistere artificialmente solo mediante incessanti emissioni di liquidità e tassi a zero, salvo poi generare inflazione e gravi crisi del debito. Non si sta inverando dunque, la previsione marxiana secondo cui il capitalismo sarebbe collassato per l’incapacità di generare forze produttive? Non dunque configurabile l’avvento del multilateralismo, come l’esito di una lotta di classe instauratasi nel contesto geopolitico globale tra Nord (USA e Occidente – classe dominante) e Sud del mondo (gruppo del BRICS e paesi terzi – classe dominata), che comporti la crisi e il collasso del capitalismo?

Sicuramente, abbiamo ancora noi oggi, eufemisticamente, un problema con il Capitale, e in questo senso l’analisi marxiana resta indispensabile, come giustamente scrive Tovo, ma proprio per recuperarne quanto è ancora valido è necessaria la previana «correzione comunitaria» di quella forma di universalismo storicamente fallimentare che apparteneva tanto a Marx quanto al comunismo storico. Credo che vada abbandonata la prospettiva del comunismo quale utopia globalista, ma conservato il socialismo quale forma di ripristino del controllo della politica sul potere del Capitale, in forme nuove che sono tutte da ripensare.

Nel mio libro Per un nuovo socialismo ho proposto un diverso modello di spiegazione delle rivoluzioni storiche, quali forme di ristrutturazione interna dovuta al conflitto esterno, nel caso della Francia come ristrutturazione della struttura statale, e relativo esercito (l’introduzione della leva di massa fu un’innovazione decisiva introdotta dalla Rivoluzione francese), per vincere il conflitto con l’Inghilterra, nel caso della rivoluzione russa come forma di modernizzazione per affrontare il pericolo dell’espansione europea, concretizzatasi con l’invasione nazista. In generale, le rivoluzioni (ovvero le forme più o meno profonde di ristrutturazione interna di una società), sono un portato della guerra. Se guardiamo all’esperienza storica guerra e rivoluzione viaggiano insieme. Nel caso l’attuale oligarchia dominante in Occidente, che ha devastato le sue stesse società, che versano in uno stato di effettiva decadenza (secondo il quadro complessivo che ha delineato Todd), dovesse subire una sconfitta nella guerra appena iniziata, potrebbe avere «seri problemi» interni. Già qualche segno si vede negli Stati Uniti.

6) La contrapposizione tra unilateralismo americano e multilateralismo è sorta sulla base delle rivendicazioni identitarie da parte dei paesi non allineati con l’Occidente, spesso identificati dalla potenza americana come “nemico assoluto” o “stati canaglia”. Al dissolversi dell’unilateralismo americano e delle sue pretese di occidentalizzazione del mondo, potrebbe dunque subentrare, non ad una comunità geopolitica mondiale formata da imperi continentali, ma ad una frantumazione del mondo in tante piccole potenze conflittuali sorte su base etnico – regionale. Tale fenomeno è già in atto e rappresenta una delle contraddizioni più evidenti prodotte da un processo di globalizzazione che, oltre ad omogeneizzare il mondo, secondo le sue premesse ideologiche, ha generato innumerevoli frammentazioni e conflitti tra nazioni e/o etnie la cui identità si richiama ad origini mitico – storiche spesso assai labili. Tale processo di disgregazione, ha condotto alla progressiva erosione della coesione interna degli stati nazionali. Il multilateralismo dunque, non potrebbe degenerare in una “Caoslandia” geopolitica globale da cui non scaturirà un nuovo ordine mondiale, ma bensì un bellum omnium contra omnes incontrollabile e senza soluzioni di continuità? Non a caso, i principali attori geopolitici dei BRICS non sono gli stati nazionali, ma la Cina, la Russia, l’India, l’Iran, quegli “stati – civiltà” eredi degli antichi imperi multinazionali?

Credo che le potenze che si oppongono all’egemonia statunitense non mostrino grandi problemi interni. La Russia ha dimostrato la sua coesione interna con la guerra in Ucraina, l’eredità del suo sistema imperiale funziona, le popolazioni di cultura islamica presenti al suo interno dopo la conclusione delle guerre in Cecenia, non creano più grossi problemi, anzi i ceceni hanno combattuto in Ucraina e per un certo periodo, all’inizio della guerra, hanno avuto anche un certo protagonismo. Grandi problemi interni non hanno la Cina e l’Iran. I processi di disgregazione sembrano esservi maggiormente laddove non vi è una potenza che faccia da centro ordinatore. La rivista Limes ha individuato una grande fascia del mondo chiamata «caoslandia» afflitta dalla conflittualità di cui parlavi. Vi è il grande problema della civiltà arabo-islamica che non è riuscita ad effettuare la modernizzazione necessaria per resistere all’espansionismo occidentale (diversa è la questione dell’Iran e della Turchia che si richiamano all’eredità di civiltà storiche ben definite). Così come è il caso dell’Africa che non è riuscita a sviluppare al proprio interno una potenza in grado di resistere alle potenze estere. In generale, in queste aree le conflittualità locali e la frammentazione sono alimentate da potenze esterne, soprattutto occidentali.

La questione degli stati-civiltà è di grande importanza. Così si autodefiniscono sia la Cina che la Russia. Vi è in merito un interessante libro di Zhang Weiwei sull’«ascesa della Cina come stato-civiltà», che sarebbe l’unico autentico stato-civiltà data la sua continuità millenaria, ma il termine è stato raccolto dallo stesso Putin che ha definito la stessa Russia uno «stato-civiltà». L’identità dovuta all’appartenenza ad una comune civiltà, è diversa dall’identità etnica, in quanto diverse etnie o anche Stati con diverse lingue, culture, e religioni possono riconoscersi nella appartenenza ad una comune cultura-civiltà. Sulla questione della civiltà vi è un’ampia tradizione di studi che fanno capo a Braudel, ma di grande interesse restano, secondo me, le intuizioni di un grande storico come Toynbee, anche il testo di Huntington sullo «scontro di civiltà» non è da buttare, perché contiene un riconoscimento dell’importanza del fattore cultura-civiltà, nonostante l’uso strumentale che ne ha fatto una certa destra per affermare l’esistenza di un inesistente «pericolo islamico».

Il motivo per cui viene valorizzato il fattore dell’identità della cultura-civiltà è dovuto alla sua rilevanza storica, visto che appunto la Russia, la Cina, l’Iran, l’India, la Turchia sono eredi delle civiltà storiche, valorizzare questa identità ha, inoltre, un valore strategico a lungo termine perché invece l’Occidente la propria identità l’ha smarrita.

Gli stati-civiltà non sono semplicemente il ritorno degli antichi imperi (come scrive Christopher Coker in un libro dedicato agli «stati-civiltà», ma senza realmente prendere sul serio l’argomento, perché, si sa, l’unica vera civiltà è quella occidentale), ma sono gli imperi del passato che hanno attraversato la pressione modernizzatrice dell’espansionismo occidentale. Hanno delle caratteristiche dello stato moderno (non sono retti dall’imperatore, dallo zar, dal sultano o dallo scià), ma conservano delle caratteristiche degli imperi di cui sono eredi. In generale, ritengo che questa eredità imperiale non ha i limiti dello stato-nazione classico europeo, a cui è necessaria una certa omogeneità culturale, e sia maggiormente efficace nel gestire i «grandi spazi» raccogliendo al proprio interno diverse etnie, identità religiose e culturali, assegnandogli un proprio territorio. Mentre il multiculturalismo occidentale realizza un melting pot, un minestrone frullato di diverse identità, che devono convivere nello stesso spazio, che nei periodi di crisi può diventare esplosivo. Il cosiddetto multiculturalismo occidentale è in realtà un distruttore nichilistico delle identità culturali sia della propria che di quella altrui.

In generale, credo che gli «stati-civiltà» siano una nuova formazione storica rispetto allo «stato-nazione» europeo, che andrebbe studiata attentamente.

7) Dal tramonto del primato dell’unilateralismo americano, emerge una chiara e definitiva confutazione dell’ideologia della «fine della storia» di Francis Fukuyama, che aveva inaugurato l’era della globalizzazione capitalista all’indomani della dissoluzione dell’URSS. La storia dunque non è mai un processo compiuto, ma un continuo divenire dagli esiti imprevedibili. Questa rivincita della storia sulla post – storia comporterà un profondo riorientamento della geopolitica globale. Se dunque all’unipolarismo americano subentrerà il multipolarismo, non dovrà essere necessariamente instaurato un nuovo ordine mondiale in cui il primato dei diritti individuali cederà il passo a quello dei diritti collettivi? Ai diritti dell’uomo non dovrebbero essere anteposti i diritti dei popoli in quanto il mondo multipolare è per definizione una struttura geopolitica comunitaria a livello mondiale? Gli stati sono i soggetti che costituiscono la comunità del mondo multipolare. Ma la concezione dello stato nazionale del ‘900, quale entità rappresentativa delle identità dei popoli è stata stravolta dall’avvento del cosmopolitismo globalista. Le identità dei popoli subiscono del resto trasformazioni nel corso della storia. L’identificazione poi della nazione con l’etnicità è un relitto astorico dei secoli passati. Afferma infatti a tal riguardo Alain de Benoist in una recente intervista: “La vera natura dell’uomo, è la sua cultura (Arnold Gehlen): la diversità delle lingue e delle culture deriva dalla capacità dell’uomo di affrancarsi dalle limitazioni della specie. Voler fondare la politica sulla bioantropologia equivale a fare della sociologia un’appendice della zoologia, e impedisce di comprendere che l’identità di un popolo è innanzitutto la sua storia”. Se quindi l’identità di un popolo coincide con la sua storia e la sua cultura, attualmente le culture identitarie, proprio perché scaturiscono da valori e periodi storici premoderni, sono trasversali agli stati. Assistiamo infatti al proliferare a livello mondiale di conflitti interni agli stati, a contrapposizioni insanabili tra opposte culture, visioni del mondo, che assumono di volta in volta carattere religioso, politico, culturale, sociale. Spaccature verticali della società con effetti destabilizzanti per gli stati, si manifestano ovunque nel mondo, (con particolare violenza proprio negli USA). Sembrano delinearsi due fronti contrapposti a livello globale, tra l’ideologismo liberal della modernità e le culture ispirate al comunitarismo identitario. Un nuovo ordine mondiale non scaturirà quindi da profonde trasformazioni storiche e geopolitiche globali che comporterebbero una guerra civile mondiale attualmente ancora a livello potenziale?

L’identità culturale è un fattore costitutivo della natura umana, sono d’accordo con de Benoist e in quanto tale si stabilisce differenziandosi dalle altre culture, per questo la diversità culturale è una ricchezza, una cultura omogenea per tutta l’umanità sarebbe un livellamento che comporterebbe la scomparsa di ogni cultura. L’identità culturale come fattore costitutivo della natura umana è implicita anche nel comunitarismo previano. La differenziazione culturale comporta il rischio del conflitto, diciamo che fa parte della vita, ma non necessariamente. Anche la costituzione di una famiglia possiamo dire fa parte della natura umana, ma l’attaccamento alla propria famiglia non comporta necessariamente l’odio per le famiglie altrui, anzi direi che essere soddisfatti della propria vita familiare rende più inclini ad apprezzare e rispettare le famiglie altrui. Ma avendo presente che però la famiglia assume forme diversissime, e a volte anche patologiche, come la «famiglia nucleare» occidentale che ha finito per distruggere l’idea di famiglia stessa, una delle cause delle patologie dell’individualismo occidentale. Lo stesso si può dire dell’identità culturale, anche in questo caso, l’autentico apprezzamento delle altre culture passa per il riconoscimento e l’attaccamento alla propria identità culturale.

Come dicevo precedentemente gli «stati-civiltà» sono maggiormente in grado di far fronte ai particolarismi identitari, che sono l’altra faccia del livellamento culturale indotto dalla globalizzazione, e allo stesso tempo alimentati e sfruttati dall’Occidente. Senza dubbio un nuovo ordine mondiale non si affermerà senza conflitti, e un effetto caotico pericoloso (una caoslandia, per dirla con quelli di Limes, in cui rischia di ricadere anche l’Italia) potranno averlo quelle forme di identità nazionale, etnica, culturale, religiosa che non sapranno a ricondursi a forme di identità a più ampio raggio e più lungo termine come l’appartenenza ad una comune civiltà.

8) Il nuovo ordine multilaterale non potrà che ripristinare i principi di Vestfalia. Si preannuncia allora un ritorno al ‘900? No, perché siamo in una fase storica che succede naturalmente al ‘900. L’ideologia astorica liberale sarà archiviata dai suoi stessi fallimenti. L’unilateralismo americano è infatti in coerente continuità storica con l’eurocentrismo anglosassone otto / novecentesco e ne rappresenta sua evoluzione in dimensioni globali. Esso si è rivelato incompatibile con la realtà storica perché geneticamente incapace di concepire l’ “altro” da sé. Ma l’avvento del multilateralismo comporterà anche la deglobalizzazione del mondo? In realtà le potenze emergenti del BRICS sono coinvolte nei processi evolutivi della globalizzazione, quali la rivoluzione digitale e la transizione green. Anzi, la Cina è destinata a svolgere un ruolo di protagonista nella quarta rivoluzione industriale. Ci si chiede pertanto, come sia concepibile un ordine multilaterale senza un profondo riorientamento dell’economia globale. Alla globalizzazione non dovrebbe subentrare la creazione di tante aree economiche integrate su scala continentale? Ma soprattutto, è concepibile un multilateralismo senza un processo di deglobalizzazione geopolitica e dedollarizzazione economica? Il multilateralismo infine, come svolta epocale, non si identifica con una deocidentalizzazione del mondo che prefiguri nuovo modello di sviluppo?

La «pace di Vestfalia» seguì alla conclusione della «guerra dei trent’anni», e alle devastanti guerre di religione e civili che insanguinarono l’Europa, allora le potenze europee convenirono sulla necessità di accordarsi su una forma di regolazione dei rapporti e di conflitti tra gli stati, questi accordi ancora osservati durante il periodo delle guerre napoleoniche, in cui ancora si rispettava il principio di non coinvolgere la popolazione civile, furono distrutti con l’affermarsi della «guerra totale» durante le due guerre mondiali, in cui la distruttività e l’assenza di regole nella condotta dei conflitti superarono ogni limite.

Un comportamento come quello degli Usa che hanno impiccato Saddam Hussein, ucciso e profanato il cadavere di Gheddafi, processato e fatto morire in carcere Milosevic, è un’eredità delle due guerre mondiali dove si è persa ogni regola nella condotta della guerra e si è passati dal justus hostis alla criminalizzazione del nemico, come osservava Zolo sulla scorta di Schmitt.. Questa eredità è così forte che appare quasi assurdo affermare che in guerra si debbano osservare delle regole, è noto il detto «in amore e in guerra tutto è lecito». Voglio invece affermare che questa è un’eredità di un preciso periodo storico, e che invece in guerra devono essere osservate delle regole.

Durante le ultime guerre statunitensi ogni volta il nemico ha subito una «redutio ad hitlerum», hitler-milosevic, hitler-saddam, Ma è stato il caso di quel periodo particolare della «globalizzazione» e si è esercitato contro nazioni incapaci di difendersi rispetto alla supremazia tecnica statunitense. Oggi gli Usa sono molto più riluttanti a lanciarsi in un intervento militare contro l’Iran, fortemente voluto da Israele, quale compimento del progetto di un «nuovo Medio Oriente» (Benjamin Netanyahu) che ora passa per la liquidazione prossima al genocidio della popolazione palestinese. Probabilmente il progetto incontrerebbe il favore anche dei vertici americani, se non sapessero che un attacco all’Iran non sarebbe quasi a costo zero (in termini di danni militari subiti). È finito il tempo delle «dimostrazioni di potenza» come è stato nel caso della Jugoslavia, dell’Iraq, della Libia, per non parlare della fallimentare, tanto costosa quanto inutile militarmente guerra in Afghanistan.

È fondamentale ritrovare il principio del justus hostis nel conflitto in corso. Ciò vuol dire che il conflitto inevitabile tra gli Usa e le potenze che gli si oppongono, non dovrà superare certi limiti, dovrà assumere la forma di una competizione legittima, in cui è assente la criminalizzazione del nemico. Come scriveva Schmitt ne Il nomos della terra i principi di Vestfalia con il passaggio dalla justa causa belli allo justus hostis resero possibile «il fatto stupefacente che per duecento anni in terra europea non ha avuto luogo una guerra di annientamento». Il conflitto con la Russia e la Cina non può assumere la forma della guerra di annientamento, in questo senso va sicuramente superata l’eredità delle due guerre mondiali ed è necessario il ritorno «principi di Vestfalia» estesi a livello globale. Magari cominciando con il porre fine alla sciocca retorica anti-putiniana.

Il carattere fallimentare delle guerre del periodo della «globalizzazione» sembra abbia reso più ragionevole la politica militare statunitense, resta da capire come gli Usa possano adeguarsi ad un mondo multipolare essendosi costituiti come sistema globale, sostenuto sia dalla «spada» delle basi militari sparse in tutto il globo, sia dall’«oro» del dominio del dollaro. La dimensione finanziaria è strettamente legata a quella militare, la perdita di influenza militare accresce la «de-dollarizzazione», questa a sua volta riduce gli strumenti finanziari per il mantenimento del sistema delle basi in tutto il mondo. È chiaro che la crisi di questo sistema proseguirà, e potrebbe arrivare in un arco di tempo non prevedibile a dei punti di rottura. Come l’Occidente a guida statunitense affronterà questa crisi non è possibile saperlo. Vi sarà il caos interno, di cui ci sono già molti segni? Vi sarà un colpo di testa nel tentativo di «risolvere» il problema annientando militarmente le potenze che si oppongono agli Usa? Ancora non si vedono le forze che possono avanzare l’unica soluzione del problema, cioè fine della globalizzazione finanziaria e drastica riduzione delle basi militari statunitensi nel mondo, re-industrializzazione e ricreazione di un mercato interno basato su una drastica riduzione delle diseguaglianze, in generale ritorno della politica al comando rispetto al «predominio dell’economia». Tale ultima soluzione passa necessariamente per la sconfitta delle attuali oligarchie dominanti, ma non si vedono al momento le forze politiche potenzialmente in grado di farlo.

Ritornare a fare la guerra come durante le due guerre mondiali avrebbe degli effetti apocalittici data l’entità delle potenze in gioco e la distruttività delle armi odierne. A osservare la guerra in Ucraina si direbbe che vi sia un tacito accordo sulla presenza di limiti («linee rosse») che non devono essere superati, la Russia ha voluto chiarire fin dall’inizio il carattere limitato della sua guerra (definita «operazione speciale»), l’«Occidente allargato» non interviene direttamente e non fornisce all’Ucraina armi con cui colpire direttamente il territorio russo. Reggeranno questi taciti accordi, si manterrà il principio che non bisogna superare certi limiti? Questo lo possiamo solo sperare, nonché diffondere in modo organizzato la consapevolezza della pericolosità del conflitto in corso, date le immani conseguenze seguenti al superamento di certi limiti. Ma, altra grave lacuna da registrare, è l’assenza, al momento, di un significativo movimento politico contro la guerra.

La «de-occidentalizzazione» la auspico, la chiamerei «de-globalizzazione» «de-universalizzazione» ovvero superamento del falso universalismo in cui è caduto l’«Occidente», auspico, in quanto italiano ed europeo, il ritrovamento di noi stessi, del rapporto con le nostre radici culturali, nella consapevolezza che la civiltà europea è crollata con le due guerre mondiali, e questo rende molto difficile ritrovare la nostra identità culturale che sarebbe tutta ri-costruire. Una massima di Goethe recita: «Tutto può perdere un uomo fin quando rimane se stesso». Trasposta a livello collettivo tale massima ci dice che l’identità culturale è il bene maggiore, quando viene smarrita si perde tutto. Abbiamo rinunciato alla nostra identità, ricevendone in cambio il «benessere», un termine ingannatore, perché non siamo diventati più felici, anzi è vero il contrario. Questo è il problema più difficile da affrontare, e riguarda principalmente le nazioni europee. Si spera che dato il fallimento della «globalizzazione» si segua un percorso diverso, ma siamo ancora gli inizi di una nuova era e si fatica a trovare la strada.

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Dragoš Vučković: CINQUE PROCESSI GLOBALI CHE SEGNERANNO QUEST’ANNO

Scritto da: Dragoš Vučković, esperto economico del Centro per gli studi geostrategici

Il sospetto e il timore con cui siamo entrati quest’anno sono pienamente giustificati. Per molti aspetti sarà uno dei punti di svolta nella storia del mondo, perché deciderà e segnerà sicuramente l’ulteriore sviluppo e il destino dei processi chiave del mondo in un periodo di tempo più lungo. Questa recensione cercherà solo di indicarli e di scalfire la superficie, perché sono così complessi e complessi che ognuno individualmente richiede un’analisi approfondita e a lungo termine. Certamente, quest’anno sarà anche l’anno elettorale più grande della storia del mondo, in cui più della metà dell’umanità, cioè ben 4,2 miliardi di persone, avranno diritto di voto, il che non farà altro che accelerare ulteriormente la transizione mondiale esistente, che si tratta di un’importante riconfigurazione geopolitica.

D’altra parte, l’economia globale, secondo la Banca Mondiale, entrerà quest’anno in recessione, con la probabilità sempre crescente che i cambiamenti epocali annunciati portino a un conflitto mondiale globale, che in Occidente è già diventato la politica ufficiale dello Stato. . Per questo motivo ho classificato questi processi chiave, che sicuramente quest’anno determineranno in modo significativo l’ulteriore sviluppo, in cinque processi chiave, partendo dall’idea di base che dobbiamo finalmente chiamarli con i loro veri nomi, perché prima o poi porteranno alla creazione di una nuova economia reale globale.
– Ulteriore peggioramento delle disuguaglianze nel mondo, dove quasi cinque miliardi di persone sono state ulteriormente impoverite, come preludio ad una certa nuova crisi economica globale che colpirà prima l’Occidente, dove queste disuguaglianze sono più pronunciate, e poi il resto del mondo
– Ulteriore aumento esponenziale del debito mondiale, che supera di parecchie volte il PIL mondiale (prodotto sociale lordo), principalmente a causa dell’incapacità delle economie occidentali di far fronte alla recessione, per cui il debito diventa insostenibile e quindi il suo rimborso è impossibile
. – L’inizio del una profonda riconfigurazione delle élite mondiali al potere, prima occidentali e poi non occidentali, come diretta conseguenza di questi processi
– Continuazione drammatica della frammentazione e della divisione nell’economia mondiale tra i cosiddetti dell’Occidente collettivo e del mondo non occidentale o della Minoranza mondiale e della Maggioranza mondiale, e con esso l’ulteriore accelerazione del processo di de-dollarizzazione nell’economia mondiale
– Accelerazione del processo di scomparsa del concetto economico neoliberista occidentale di sviluppo, con il parallelo ulteriore sviluppo di alternative già esistenti, nonché l’emergere di concetti economici completamente nuovi, soprattutto nel mondo non occidentale

Il Forum economico di Davos di quest’anno, profondamente accecato dalla politica, apparentemente non è riuscito a creare una “formula” per il “ripristino della fiducia”, che era il suo argomento principale, e a cercare almeno di indicare e dare un nome a questi processi menzionati. Quindi, la lettera aperta dei super-ricchi, in cui chiedono un aumento delle tasse per combattere le disuguaglianze sociali, sembrava piuttosto assurda. In assenza di una risposta valida a questi processi mondiali chiave, le élite dominanti occidentali cercheranno di attuare la loro agenda attraverso l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che probabilmente, alla sua 77a Assemblea nel maggio di quest’anno, cercherà di privare gli Stati membri della loro sovranità, garantendosi poteri senza precedenti per limitare le libertà mediche e civili nei paesi di tutto il mondo. Tutto questo per “lottare contro una nuova pandemia”, l’ormai famoso “Virus X”, molte volte più pericoloso e mortale del corona. Se anche questa “missione” dell’OMS fallisce, avremo la certezza di un conflitto militare mondiale, come strumento sanguinoso e doloroso, ma “efficace”, che, secondo un sistema accelerato, “risolverà” tutti questi processi accumulati e problemi, ma con tutte le conseguenze devastanti che comporta.
È certo che questi cinque processi sono più visibili nei paesi dell’Occidente collettivo, soprattutto in America, tradizionale campione della disuguaglianza nel mondo, con un debito di oltre 34 miliardi di dollari e un deficit di bilancio significativamente più ampio rispetto allo scorso anno. anno. Gli Stati Uniti raggiungono il loro tipo di crescita soprattutto grazie ad una politica fiscale estremamente espansiva, dove per ogni dollaro di crescita ci sono addirittura due dollari e mezzo di nuovo debito, con un’inflazione ancora troppo alta. Ecco perché la previsione del FMI di una crescita economica statunitense di quasi il 2,7% per quest’anno sembra del tutto irrealistica. Anche se fino a poco tempo fa gli Stati Uniti hanno interrotto ulteriori aiuti all’Ucraina, non è un segreto di Pulcinella che questi aiuti, insieme all’UE, sono in realtà molto più grandi del Piano Marshall americano dopo la Seconda Guerra Mondiale. È più che chiaro che nessuna economia, nemmeno la più forte, potrà resistere a tutto ciò nel lungo termine. Il processo elettorale, che si sta riscaldando negli Stati Uniti e che sarà cruciale nel mondo, contribuirà notevolmente al confronto diretto degli Stati Uniti con questi cinque processi mondiali e quasi sicuramente porterà quest’anno al cambiamento delle élite al potere. . I legami fondamentali del potere americano: potenza militare avanzata, ruolo centrale nel sistema finanziario globale, una forte posizione nella tecnologia e una piattaforma per ideologia e valori, per quanto ancora presenti, si stanno nel frattempo indebolendo sempre di più. Gli USA continuano inoltre a praticamente “mungere” l’Europa, costringendo i membri della NATO ad acquistare le sue armi per centinaia di miliardi di euro, seminando incautamente paura e psicosi bellica, dal conflitto “imminente” con la Russia. I paesi dell’UE sono quindi costretti ad aumentare le tasse, ridurre le prestazioni sociali e cancellare i sussidi agli agricoltori, e quasi l’intera UE è inondata da disordini sociali e proteste. La Germania, in quanto motore dell’UE, ha raggiunto una situazione in cui non è più in grado di generare la propria crescita economica e la sua economia è semplicemente paralizzata, con un declino permanente della produzione industriale e una perdita di competitività. In quanto tale, presto entrerà a far parte del club delle principali economie in recessione, guidate da Inghilterra e Giappone. Lo stesso FMI prevede quest’anno una crescita minore, pari a circa lo 0,8%, per i paesi dell’Eurozona. Nonostante l’evidente ritorno dell’inflazione al livello precedente del 2,5% e l’annuncio di una riduzione dei tassi di interesse, nulla più indica uno sconvolgimento economico all’inizio di quest’anno, quindi è probabile che forti scosse inizieranno dalla Germania, che porterà alla sostituzione delle élite al potere e all’inizio della dolorosa riconfigurazione politica ed economica dell’intera UE. Tutte queste sono le ragioni per cui sono profondamente convinto che le risposte ai cinque processi chiave menzionati inizieranno ad essere risolte per la prima volta nell’Occidente collettivo, che per decenni ha ignorato la necessità storica di cambiamenti strutturali generali. Tutto ciò influenzerà molto rapidamente il resto del mondo, a causa della grande rete economica reciproca. Va sottolineato in particolare che per alcuni di questi processi menzionati quest’anno sarà fatale, mentre per la maggior parte di essi significherà una nuova significativa accelerazione, il tutto con l’enorme minaccia dello scoppio di una nuova grande crisi economica globale. È la corsa all’oro dei mercati azionari mondiali,con i prezzi record dell’oro, non suggerisce qualcosa del genere?

Questi cinque processi chiave si riflettono fortemente anche nel mondo non occidentale, cioè nella maggior parte del mondo, dove Russia, Cina e India svolgono un ruolo di primo piano. Sono particolarmente visibili in Russia, che, nonostante il fatto che, dopo uno storico allontanamento dai mercati occidentali, sta combattendo con successo le sanzioni da quel lato, riuscendo a garantire una crescita invidiabile del 3,5% lo scorso anno, e combattendo con successo la povertà (al di sotto 10%) e disoccupazione (meno del 3%), ma continua a subire ingenti perdite in termini reali. Ciò è visibile nel calo del surplus delle partite correnti, nell’inflazione ancora elevata (circa il 12%) e nel rublo piuttosto instabile. La Russia attualmente ha probabilmente l’esercito più forte del mondo, secondo fonti americane, ed è la più grande economia d’Europa, in termini di parità di potere d’acquisto, con un’economia in un’economia di guerra mobilitata, ma sta pagando un pesante tributo dalla guerra in Ucraina, e le sanzioni occidentali storicamente elevate, che ne stanno esaurendo le capacità e le risorse. Inoltre, gli stessi analisti russi mettono in dubbio la sostenibilità stessa dei cambiamenti estremamente profondi nella politica estera russa. Anche la Cina, che secondo i dati della Banca Mondiale è la più grande economia mondiale in termini di parità di potere d’acquisto e di gran lunga l’industria più grande del mondo, sente questi processi sulle sue spalle. Ha ridotto drasticamente la sua crescita economica, anche se è ancora molto superiore a quella dell’Occidente. La Cina sta pagando pesantemente la sua corsa per la sovranità sulle risorse mondiali, mentre allo stesso tempo è costretta ad aumentare drasticamente il proprio budget militare, a causa della stretta militare generale nel mondo, che sta già arrivando alle coste di Taiwan. Soprattutto i processi di separazione economica mondiale hanno un effetto grave su di essa, perché minacciano di mettere in pericolo il posizionamento cruciale della sua produzione industriale sui mercati dell’Occidente collettivo, che può facilmente diventare il suo “tallone d’Achille”. Lo stesso FMI, tuttavia, fornisce proiezioni di crescita economica piuttosto ottimistiche per quest’anno, per la Russia al 3,2%, la Cina al 4,6% e l’India al 6,8%, il che non sorprende per l’India, l’economia con la crescita più rapida del mondo, che negli ultimi anni ha registrato un una crescita superiore all’8% del Pil. Il mondo non occidentale ha un grande vantaggio rispetto al mondo occidentale, nella risoluzione di questi processi chiave, dato dai forti processi integrativi esistenti, dove recentemente BRICS+, o BRICS 10, ha guadagnato un ruolo particolarmente importante, con il 35% del PIL globale, Il 45% delle riserve petrolifere, la metà del cibo mondiale e un vantaggio competitivo incondizionato nell’energia nucleare. Mentre l’Occidente collettivo è chiaramente sulla difensiva, senza, ancora, risposte serie e significative a questi processi chiave, il mondo occidentale sta già lottando con essi e trovando soluzioni. Ciò è particolarmente visibile nel processo di de-dollarizzazione, nella lotta alla povertà, all’indebitamento e nell’affermazione di nuovi modelli economici. Ciò darà loro un grande vantaggio quando questi processi inizieranno a risolversi dall’altra parte, e c’è tutta la possibilità che non dovremo aspettare a lungo per questo. La riconfigurazione delle élite dirigenti, in primis Russia e Cina, sarà inevitabilmente all’ordine del giorno, una volta iniziata la vera risoluzione di questi processi.ma difficilmente ci si può aspettare che si sposti al di fuori delle “correnti principali” di queste società.

Tutti questi cinque processi mondiali si riflettono già ampiamente, e lo saranno solo in futuro, sulla nostra economia minore, con l’adozione del concetto economico neoliberista occidentale, cosiddetto ibrido. Tipo balcanico. Il suo prodotto diretto è molto visibile qui, come nelle altre “stabilocrazie balcaniche”, e si riflette in una crescita economica troppo modesta, un’inflazione record in rapporto all’ambiente, un eccessivo indebitamento dello Stato e della popolazione, un’enorme deficit commerciale, come uno degli indicatori fondamentali del fallimento economico, ed enormi problemi nel lavoro delle grandi aziende statali, agricoltura rovinata, come uno dei pilastri dello sviluppo, enorme corruzione a tutti i livelli e molti altri indicatori. Oltre a tutto ciò, siamo uno dei paesi europei con il punteggio più basso in termini di disuguaglianza e siamo riusciti a quasi raddoppiare il livello di povertà dal 2020. fino ad oggi. Non importa quanto duramente l’élite al potere cerchi di fingere stabilità politica e macroeconomica, quest’anno la Serbia sta sicuramente entrando in un periodo di grande instabilità. Ciò che probabilmente si scatenerà quest’anno sarà l’inizio di un cambiamento delle élite al potere, insieme a una dura recessione alla quale ci stiamo avvicinando, lentamente ma inesorabilmente. Ciò ci costringerà inevitabilmente a compiere almeno i primi passi per cambiare il modello economico esistente, perché la proiezione stessa della nostra crescita economica da parte del FMI per quest’anno di circa il 3,5% non sembra affatto incoraggiante e realistica. Tanto più che nello stesso Occidente si esprimono sempre più desideri e volontà di modificare l’atrofizzato concetto neoliberista e di sostituirlo gradualmente con uno nuovo, molto più umano, più morale e responsabile, che forse scuoterà i presupposti di base delle società occidentali. . I processi sopra menzionati stanno già dando origine a un nuovo ordine mondiale multipolare e noi stessi saremo semplicemente costretti ad adattarci a questa nuova realtà. Questa nuova realtà porta inevitabilmente a una riconfigurazione delle élite mondiali, dove le cosiddette “élite situazionali” di andare nel passato, perché stanno definitivamente perdendo la fiducia della gente. Così è la nostra élite, in fondo alla scala decisionale mondiale, completamente privata della propria visione del futuro e ignorante degli altri. della gente, come qualcuno ha ben detto.

Le soluzioni a questi cinque processi, che subiranno una violenta accelerazione quest’anno, forniranno in tempi relativamente brevi una risposta al grande dilemma: abbiamo raggiunto i limiti della crescita economica, abbiamo superato tutti i limiti planetari che definiscono un pianeta adatto alla vita? Siamo finalmente maturati verso i normali valori umani in relazione al postumano e all’antiumano? L’imminente vittoria del multipolarismo nel mondo significherà effettivamente il ritorno dell’Occidente collettivo ai suoi valori tradizionali, alla sua cultura e, infine, alle sue radici cristiane? Inoltre, la risoluzione di questi processi chiave darà probabilmente una risposta alla domanda: riuscirà il mondo a far fronte all’intelligenza artificiale ad alto rischio, che, soprattutto in Occidente, sta guadagnando lo status di divinità? Ovvero, porterà alla tutela tempestiva dei diritti fondamentali, della democrazia e della sostenibilità ambientale? E alla fine, la risoluzione di questi processi chiave porterà a un accordo significativo e realistico tra le principali “élite situazionali” del mondo o ci sarà un conflitto armato di proporzioni inimmaginabili?

27 aprile 2024

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L’elezione di Trump riporterà l’isolazionismo e minaccerà la NATO?_di Uriel Araujo

Le tesi di Uriel Araujo, esposte nel suo articolo, ma particolarmente diffuse nell’area del dissenso qui in Italia, ma anche nel movimento dei BRICS, sono particolarmente significative su almeno quattro aspetti:

  • ha certamente ragione quando sottolinea l’ingenuità di quelle componenti che vedono in Trump, in particolare nella sua passata ed eventualmente prossima amministrazione, il salvatore delle patrie altrui, il sostenitore ed il fiero paladino del multipolarismo e dell’isolazionismo. Trump è espressione rigorosamente statunitense e sintesi particolarmente conflittuale di due componenti, una delle quali più presente tra i centri decisori, l’altra più radicata nel movimento popolare a loro supporto e condizionamento di questi e dell’emersione di nuove élites decisorie. Al meglio Trump, tutto dipende da come si evolverà il confronto interno alla sua compagine, potrà prendere atto dell’affermazione del multipolarismo, piuttosto che di un bipolarismo dai rapporti di forza squilibrati e propugnerà un confronto più improntato alla attività diplomatica, corroborata da esibizione di forza puntuale e dosata, piuttosto che ad un improbabile isolazionismo o ad un uso generalizzato e destabilizzante della forza e delle attività sovversive. È, per altro, il filo logico che ha percorso le intenzioni e in parte la condotta pratica della passata presidenza di Trump e che, probabilmente, percorrerà quella futura, sempre che riesca in qualche maniera, a dispetto dei malintenzionati, a conseguirla. Si vedrà allora, a sua volta, con quale coerenza.
  • ha torto, gravemente torto, a parere dello scrivente, quando definisce in maniera univoca ed unidirezionale il rapporto tra centri decisori, specie quelli presenti e annidati nei settori cruciali dello Stato e la compagine di Governo. Nella fattispecie degli Stati Uniti tra i centri decisori presenti in particolare nelle centrali di intelligence, negli apparati militari e nel complesso militare-industriale-finanziario e la compagine governativa. Ha torto per vari motivi, tra i quali due essenziali: 1- la funzione del Governo e della sua compagine amministrativa non è solo e puramente di immagine e di offerta di un volto presentabile a centri decisori “occulti”. Ha il compito di regolare la circolazione, l’esecuzione, l’accettazione e la pervasività delle decisioni dei centri decisori nel rapporto circolare che si determina tra vertici e base popolare ed intermedia e che si dirama partendo e ritornando solitamente ai vertici 2- riveste, o quanto meno contribuisce a rivestire in maniera determinante, una funzione di sintesi politica e di coerenza delle azioni conseguenti nella gestione dei rapporti di cooperazione/conflitto tra centri decisori all’opera nei vari apparati. Su questo aspetto, Nicos Poulantzas, Louis Althusser e Theda Skocpol, negli anni 70/80, pur non arrivando alla distinzione tra funzione degli apparati e azione dei centri decisori all’interno di essi, esplicitati successivamente ad esempio in Italia dal professor Gianfranco La Grassa, hanno comunque scritto pagine egregie di segnalazione e denuncia degli scompensi e delle fibrillazioni e, in fase acuta o di incancrenimento,  eventualmente dei punti di crisi acuta e di dissesto che si creano nel funzionamento dello stato quando parte di questi apparati si atrofizzano, si destabilizzano o si dissociano dagli orientamenti e dall’azione comune e di sintesi a seguito di dinamiche interne ed esterne sfuggite al controllo sino, a volte, a creare condizioni di rivolgimento rivoluzionario
  • Arajuio, ma non è purtroppo il solo, ha torto, quindi, nel presentare l’azione politica di Trump assimilandola e uniformandola in un unico coacervo a quella della Amministrazione e governo di Trump. A corroborare la propria tesi Arajuio adduce numerosi esempi che in realtà offrono il destro a interpretazioni opposte. Cita l’episodio gravissimo dell’assassinio del generale iraniano Suleimani, ma ignora il fatto che fu una reazione all’atteggiamento gradasso e troppo spregiudicato della dirigenza iraniana nell’assalto all’ambasciata statunitense a Bagdad e dell’umiliazione legata all’ostentazione televisiva dei marinai americani fatti prigionieri e liberati dopo un attacco ad una unità navale della flotta del Golfo Persico sino a scatenare l’istinto di vendetta tra le truppe del quale si era fatto espressione il Generale Flynn ed abile profittatore Pompeo. Atteggiamento che, di fatti, la dirigenza iraniana si è guardata bene dal ripetere in un contesto geopolitico successivo, per altro, ad essa ben più favorevole. Lo stesso Trump, nelle more, è stato colui che, con un atto di imperio, ha bloccato la missione degli aerei ormai in volo, su ordine del suo Segretario Pompeo, per bombardare l’Iran. Lo stesso dicasi per l’analogo contrasto alla decisione di Pompeo di eliminare fisicamente Maduro, in Venezuela e creare una situazione di golpe e di guerra civile; e ancora della citazione del bombardamento, come azione guerrafondaia piuttosto che atto simbolico e senza vittime, di una base siriana dell’esercito di Assad a seguito della montatura dello scandalo dell’uso di gas tossici. Quanto all’atteggiamento bellicoso nei confronti della Cina, l’impostazione originaria di Trump, diversa da quella di parte della sua amministrazione, è stato quello di un confronto duro, ma di carattere diplomatico e prettamente rivolto agli aspetti economici delle relazioni sino-statunitensi. Sulla successiva e progressiva prevalenza della componente più propensa ad un confronto militarista, per altro in combutta sempre più sodale e saldata con la componente di confronto aggressivo e destabilizzante dell’integrità della Russia, ha per altro influito la probabile illusione della dirigenza cinese di poter procrastinare le dinamiche di globalizzazioni sino a quel momento a lei così favorevoli. Illusione resa verosimile dall’atteggiamento più comprensivo manifestato inizialmente nei confronti di Biden e della sua componente demo-neoconservatrice. Quanto all’approccio con la dirigenza russa e all’ostilità crescente con la Russia il discorso è troppo complesso per essere affrontato compiutamente in questa chiosa. Va sottolineato, però, che i centri decisori della NATO, i nuclei decisori rappresentati dal quartetto Nuland, Kagan, Blinken, Sullivan e dei quali fanno parte a pieno titolo la quasi interezza delle élites europee ed europeiste in una particolare scala gerarchica, hanno avuto, durante la Presidenza Trump, un ruolo del tutto autonomo e proattivo sia nel condurre la propria politica russofoba, sia nel sabotare ed infiltrare ulteriormente l’amministrazione presidenziale. Quanto si sta muovendo attualmente in casa Europa non fa che presagire e confermare per il futuro tale attivismo.  Nelle more, le recenti annunciate dimissioni di Nuland dalla sua carica, rappresentano certamente una presa d’atto della situazione vacillante in Ucraina, ma potrebbero nel contempo rappresentare un nuovo riconoscimento delle sue note capacità di destabilizzatrice e di fomentatrice di “rivoluzioni colorate” questa volta ad uso interno agli Stati Uniti, in previsione di una nuova presidenza di Trump e della necessità di distrugger, una volta per tutte il movimento MAGA. Queste sono, infatti, le voci ricorrenti in Europa e, soprattutto, negli Stati Uniti.
  • Araujo sbaglia, quindi e a mio parere, nel presentare l’azione dell’amministrazione di Trump come una serie di atti coerenti, piuttosto che contraddittori, legati alle vicende interne e antitetiche della sua compagine e al conflitto cruentemente ostile, ma sordo con la compagine neocon ancora presente nel Partito Repubblicano ed esplicito con quella neocon-democratica esterna molto ben rappresentate tra i centri decisori e radicati nella società statunitense. Va ricordato, tra l’altro, che il movimento MAGA e Trump non sono riusciti ancora ad assumere il controllo del comitato del Partito Repubblicano che gestisce i fondi, non ostante il crescente radicamento popolare e la presenza sempre più pervasiva negli apparati degli stati federali. Tutto questo a prescindere dalle capacità indubbie, ma anche dalla evidente inadeguatezza sulle motivazioni e sui tanti aspetti delle scelte di Trump. Non a caso il comitato promotore della prima candidatura di Trump, che avrebbe dovuto supportarlo auspicabilmente nell’azione presidenziale, si sciolse a pochi mesi dal suo insediamento e si dissolse dopo la defenestrazione di Flynn da Segretario di Stato.

Non si tratta, quindi, di adottare un atteggiamento falsamente disincantato o partigiano verso un possibile “Podestà Straniero” più o meno benevolo. Atteggiamento, purtroppo, particolarmente diffuso in ambienti così immaturi politicamente come quelli cosiddetti “sovranisti” in Europa, ma presenti anche nei pochi livelli decisori più elevati diffusi nel mondo.

Al contrario si tratterebbe di valutare come l’azione di forze politiche mature, eventualmente presenti in Europa e soprattutto in Italia, visto che qui viviamo e siamo presenti, può approfittare delle contraddizioni e dell’aspro conflitto politico nel paese egemone e contribuire in qualche misura, mi si perdoni il velleitarismo, a determinare l’esito di quello scontro.

La forza e la chiarezza di intenti del movimento MAGA, solo parte delle componenti che sostengono, tollerano o prendono atto del ritorno di Trump e, possibilmente, dell’ascesa di nuovi leader più capaci, sono i fattori in grado di cambiare gli equilibri tra i centri decisori del paese egemone e la formazione di nuovi centri basati su nuove componenti e nuove gerarchie sociali, politiche ed economiche.

Al contrario si tratta di comprendere che solo da un rivoluzionamento e da una destabilizzazione della situazione negli Stati Uniti potranno nascere, assieme ai rischi intrinseci, le condizioni oggettive di una riduzione della presa sul nostro continente e sull’Italia e di una acquisizione di maggiore autonomia, di indipendenza e potenza politica.

Condizioni oggettive, appunto. Quanto a quelle soggettive, ancora più determinanti, quanto, allo stato, scoraggianti, saranno il parametro indispensabile in grado di discernere tra un élite e una classe dirigente in cerca di nuovi padroni cui asservirsi ed una con ambizioni di autonomia in grado di costruire e ricostruire un blocco sociale, una formazione sociale ed uno stato coesi, dinamici, equilibrati e più equi. Un blocco sociale nel quale dovranno trovare posto tutte le figure sociali, ma con pesi e gerarchie diverse.

Per finire, come sottolinea giustamente Urie, ci sono dei limiti nell’efficacia dell’azione di un Presidente, per quanto influente come quello statunitense, sia in politica estera che interna, contano sempre più le dinamiche geopolitiche e le forze esterne al paese, pesano i centri decisori interni, ma i suoi atti non possono essere semplicemente ridotti a pure rappresentazioni scenografiche e semplici espressioni eterodirette.  Giuseppe Germinario

L’elezione di Trump riporterà l’isolazionismo e minaccerà la NATO?

Uriel Araujo, ricercatore specializzato in conflitti internazionali ed etnici

L’accademico indiano Pratap Bhanu Mehta, ex presidente del Center for Policy Research, scrive che un’elezione di Trump rappresenterebbe una minaccia per la democrazia negli Stati Uniti. Altri esperti hanno sostenuto che Trump potrebbe mettere in pericolo la NATO e riportare indietro l’isolazionismo americano. Le cose potrebbero non essere così semplici, però.

Come ho scritto di recente, oltre alla tanto discussa questione dell’allargamento della NATO, bisogna considerare anche l’espansione della famigerata Central Intelligence Agency (CIA) statunitense: secondo un recente articolo del New York Time, negli ultimi dieci anni l’Agenzia ha sostenuto un La “rete di basi di spionaggio” in Ucraina, che comprende “12 luoghi segreti lungo il confine russo” e una “partnership segreta di intelligence”, ha trasformato il Paese in “uno dei più importanti partner di intelligence di Washington contro il Cremlino”. Commentando ciò , Mark Episkopos, ricercatore sull’Eurasia presso il Quincy Institute for Responsible Statecraft, sottolinea il fatto che tale partnership tra CIA e Ucraina in realtà “si è approfondita sotto l’amministrazione Trump, smentendo ancora una volta l’idea infondata secondo cui l’ex presidente Trump era in qualche modo incline agli interessi della Russia mentre era in carica”.

Inoltre, nel dicembre 2017 l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha venduto a Kiev armi “difensive” che, secondo il professore di scienze politiche dell’Università di Chicago John Mearsheimer, “certamente sembravano offensive per Mosca e i suoi alleati nella regione del Donbas”. Naturalmente, i legami ucraino-americani sono cresciuti sotto il presidente in carica degli Stati Uniti Joe Biden, con le provocazioni dell’Operazione Sea Breeze del 2021, la Carta USA-Ucraina sul partenariato strategico dello stesso anno, e molto altro ancora, fino alla crisi odierna. Il punto, tuttavia, è che, sebbene meno palesemente ostile a Mosca (in alcune aree), sarebbe inesatto descrivere la precedente presidenza Trump come qualcosa di lontanamente simile a un’amministrazione “filo-russa”.

È vero che il mese scorso, parlando a una manifestazione, Trump ha affermato di aver detto una volta a un anonimo alleato della NATO che, in qualità di presidente, non avrebbe difeso gli alleati che non rispettassero gli obblighi di spesa per la difesa dell’Alleanza. Secondo lui stesso ha detto: “Non hai pagato? Sei delinquente? No, non ti proteggerei. In effetti, li incoraggerei a fare quello che diavolo vogliono. Devi pagare. Devi pagare le bollette. Questo tipo di retorica, tuttavia, tipico dello stile dell’ex presidente, dovrebbe piuttosto essere interpretato come retorica pre-elettorale per infiammare la sua base – oltre che come una valida critica, dal punto di vista americano, del fatto che la maggior parte dei paesi della NATO non non riescono a raggiungere l’obiettivo di spesa concordato di utilizzare almeno il 2% del loro PIL in spese militari.

Ciò ovviamente sovraccarica Washington, a scapito dei suoi contribuenti. Il punto (retorico) di Trump è stato denunciato da molti come una seria minaccia di lasciare che la Russia “conquisti” gran parte dell’Europa. Nel mondo reale, però, Mosca non ha alcun obiettivo di conquistare l’Ucraina (come vi dirà qualsiasi esperto serio – le sue preoccupazioni principali riguardano l’allargamento della NATO), tanto meno alcun interesse a invadere i paesi NATO dell’Europa occidentale e provocare così la Terza Guerra Mondiale. – e, anche se così fosse, gli Stati Uniti, con o senza Trump, avrebbero ovviamente le proprie ragioni strategiche per opporsi a tale ipotetico scenario intervenendo in difesa dei propri alleati europei, siano essi delinquenti o meno.

Nel mondo immaginario dei propagandisti pro-Biden, Trump è una sorta di “agente russo” determinato a distruggere l’egemonia americana a livello globale e quindi a lasciare prevalere il “male”. Le fantasie di alcuni degli analisti più ingenui di convinzione “antimperialista” sono abbastanza simili, con l’unica differenza che percepiscono ciò come una buona cosa e immaginano il favorito repubblicano come un campione del multipolarismo, della pace mondiale e persino del Sud del mondo, se vuoi ( i venezuelani potrebbero non essere d’accordo ). Niente di tutto ciò dovrebbe essere preso sul serio, ma sfortunatamente, nell’era della propaganda e della guerra dell’informazione, spesso lo fa.

Retorica a parte, lungi dall’essere una posizione marginale, l’idea che la vittoria militare in Ucraina sia irraggiungibile sta lentamente guadagnando terreno nell’establishment americano. Trump potrebbe probabilmente essere un po’ più veloce nel lasciar perdere, ma questo è tutto. James Stavridis, ex comandante supremo alleato in Europa della NATO, scrivendo per Bloomberg nel novembre 2023, ad esempio, ha sostenuto che Washington dovrebbe imparare dalle “lezioni della Corea del Sud” e negoziare un accordo “terra in cambio di pace” per porre fine ai combattimenti in Ucraina. Questo scenario implicherebbe una sorta di ritirata strategica, da una prospettiva occidentale, per poi investire nell’Ucraina occidentale, per così dire, in modo da coltivarla come una sorta di Corea del Sud dell’Europa orientale (con una presenza persistente della CIA, ci si potrebbe aspettare). .

Non è sempre finita, anche quando è “finita”: uno scenario del genere chiaramente non farebbe molto per la stabilità regionale o la pace nel lungo periodo. Come ho scritto in più di un’occasione, anche dopo il raggiungimento della pace, finché la minoranza russa rimarrà emarginata in Ucraina e finché continuerà l’allargamento della NATO, ci sarà ancora ampio spazio per tensioni e conflitti.

C’è ancora un’altra questione: con l’escalation del conflitto in Palestina, il centro di gravità delle tensioni globali è cambiato. Anche la campagna militare in corso di Israele a Gaza e in Cisgiordania, così come le sue operazioni in Siria e Libano, fanno parte della “guerra non ufficiale” dello Stato ebraico contro l’Iran , con conseguenze globali . L’attuale crisi nel Mar Rosso, che coinvolge gli Houthi, è in gran parte un effetto collaterale della disastrosa campagna israeliana nel Levante, sostenuta dagli Stati Uniti. Ebbene, si scopre che Trump è, a detta di tutti, un sostenitore incondizionato di Israele più di Biden, indipendentemente da quante linee rosse siano oltrepassate dallo Stato ebraico in Medio Oriente. Si potrebbe ricordare, ad esempio, che fu allora il presidente Trump ad assassinare il generale iraniano Soleimani . Recentemente, Trump ha notoriamente affermato che Tel Aviv deve “risolvere il problema”.

Quando è stato intervistato per un articolo del Boston Globe intitolato “ Vota tutto quello che vuoi. Il governo segreto non cambierà ”, nel 2014, Michael J. Glennon, professore di diritto internazionale alla Fletcher School of Law and Diplomacy della Tufts University (e autore di “National Security and Double Government”), spiegava che gran parte del I “programmi” di politica estera degli Stati Uniti sono, come disse una volta John Kerry, “con il pilota automatico” e che “una politica dopo l’altra continuano tutte praticamente allo stesso modo in cui erano durante l’amministrazione George W. Bush”. Questa situazione viene spiegata da questo analista con il concetto di “doppio governo”, così descrive un apparato di difesa e sicurezza nazionale quasi autogovernato che opera negli Stati Uniti senza molta responsabilità. Il suddetto libro di Glennon è stato elogiato da ex membri del Dipartimento di Stato, del Dipartimento della Difesa, della CIA e della Casa Bianca. Non c’è motivo di ritenere che le sue conclusioni siano meno vere oggi.

Per riassumere, ci sono dei limiti alla quantità di cambiamenti che un presidente degli Stati Uniti, da solo, può apportare al sistema di “doppio governo” della superpotenza in termini di difesa e politica estera. Il centro di gravità delle tensioni globali sta cambiando e, per dirla senza mezzi termini, l’Ucraina non è più così importante. Infine, il passato di Trump come ex presidente non consente in alcun modo di descrivere la sua amministrazione come “isolazionista” o “filo-russa”.

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Le crepe cominciano a manifestarsi a Davos, di SIMPLICIUS THE THINKER

Le crepe cominciano a manifestarsi a Davos

La trepidazione scorre come aceto mielato all’annuale festa dell’élite che odia l’umanità.

Il WEF 2024 di Davos, il principale ritiro dei globalisti, si è tenuto dal 15 al 19 gennaio. Per molti versi è stato un evento speciale, perché è stato il primo conclave di questo tipo in cui le élite hanno mostrato una palpabile paura e apprensione per la direzione che la società sta prendendo e per i contraccolpi ricevuti da un’umanità sempre più sfiduciata.

Ufficialmente, il clima e la disinformazione hanno dominato l’agenda del programma, sponsorizzato con il titolo “Ricostruire la fiducia”: “Ricostruire la fiducia”.

Cosa può portare le élite a pensare di aver infranto la nostra fiducia? Ci si chiede. In ogni gesto che compiranno durante il simposio, risulterà chiaro che le élite sono terrorizzate dal tumulto che si sono auto-create.

Ecco la relazione completa che hanno rilasciato alla vigilia della convocazione. Il tutto è modellato sulla seguente gerarchia dei rischi, che mostra le prospettive biennali e decennali dei rischi classificati in ordine:

 

È chiaro che nel breve periodo la disinformazione è quella che li fa dormire di più. Questo, secondo loro, è dovuto al fatto che i prossimi due anni saranno pieni di elezioni globali cruciali, durante le quali la disinformazione giocherà un ruolo di primo piano. Per quanto riguarda le prospettive decennali, naturalmente battono i bonghi del clima a tutto spiano, perché questo rimane il loro treno di guadagno più intelligente.Fin dalle pagine iniziali esordiscono con la seguente ammissione, riconoscendo che la maggioranza dei partecipanti ritiene che il modello mondiale unipolare cesserà di dominare nel prossimo decennio:Questi rischi transnazionali diventeranno più difficili da gestire man mano che la cooperazione globale si erode”. Nel sondaggio di quest’anno sulla percezione dei rischi globali, due terzi degli intervistati prevedono che nei prossimi 10 anni dominerà un ordine multipolare, in cui le medie e grandi potenze stabiliranno e applicheranno – ma anche contesteranno – le regole e le norme attuali.

La mancanza di autoconsapevolezza delle élite, tuttavia, è sempre sconcertante. Leggendo le pagine, ci si rende conto con stupore che tutte le ragioni da loro elencate per cui il mondo si sta dirigendo verso queste acque agitate, puntano direttamente alla cattiva gestione degli affari globali da parte delle élite stesse. Per esempio, ritengono che il mondo stia precipitando verso questo multipolarismo “pericolosamente instabile” perché la fiducia nelle istituzioni occidentali, in particolare nella leadership globale, si è erosa. Ebbene, si sono chiesti perché mai?

Gli Stati Uniti e i loro vassalli all’interno delle Nazioni Unite hanno calpestato il mondo in via di sviluppo per diversi decenni, scatenando guerre, terrore e caos senza sosta ovunque lo ritenessero opportuno. Il Sud del mondo è rimasto in silenzio, aspettando il momento giusto solo perché non aveva la capacità di resistere adeguatamente. Ma ora che hanno acquisito tale capacità, dovremmo dimenticare la vertiginosa furia dell’Occidente e la flagrante ostentazione del suo ipocrita “Stato di diritto” e “Ordine basato sulle regole”?

Si avvicinano a una parvenza di autocoscienza nella sezione successiva, dove citano tra le loro preoccupazioni i miliardari non eletti, spinti a nuove vette di potere e influenza dall’era dell’intelligenza artificiale:

Questo arriva direttamente sulla scia dell’annuncio che Microsoft ha appena superato la soglia dei 3.000 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato, superando ancora una volta Apple come azienda di maggior valore al mondo. Apple e Microsoft insieme rappresentano oltre il 13% dell’intero S&P 500.

Abbiamo visto in prima persona quanto potere ha esercitato Bill Gates durante la sua ascesa a una sorta di influencer politico globale non eletto. L’articolo del WEF teme giustamente che il carattere “autoreferenziale” della crescita delle startup nel campo dell’intelligenza artificiale consenta alle aziende che realizzano scoperte in queste tecnologie, tra cui l’informatica quantistica, di esercitare un grande potere in virtù dell’ubiquità delle loro tecnologie “a duplice uso e a finalità generale”.

Il capitale di mercato di Microsoft, pari a 3 miliardi di dollari, rappresenta una massa di denaro più grande del PIL della maggior parte dei Paesi del mondo. Una singola società che esercita un tale potere può essere paragonata solo alla Compagnia delle Indie Orientali del 1600-1800, che aveva un proprio esercito privato e poteva conquistare intere nazioni con facilità.

Ma veniamo all’aspetto più interessante di cui siamo stati testimoni al conclave di quest’anno: la rivolta silenziosa dei globalisti.

Quest’anno si è finalmente avuta la netta sensazione che non tutti i tecnocrati globalisti siano più sulla stessa pagina. Tali gruppi funzionano come sottoprodotto di una forte pressione interna al gruppo per conformarsi all’ortodossia dichiarata. Diversi meccanismi mantengono l’uniformità, dagli incentivi commerciali alle vere e proprie minacce e alle minacce di kompromat. Quindi, quando i globalisti iniziano a ribellarsi contro i loro stessi membri, sfidando la narrazione, rompendo le fila di un’agenda sacrosanta e pietrificata, si parla di un momento di “rottura della diga”.

Il ritiro di Davos di quest’anno è stato segnato da diversi casi del genere. Il più pubblicizzato è stato il grande discorso di Javier Milei, che ha definito “un’operazione di distruzione dei globalisti” e ha affermato di aver “piantato le idee di libertà in un forum contaminato dall’agenda socialista 2030”.

In sostanza, ha affermato di aver partecipato al WEF al solo scopo di sovvertire i globalisti dall’interno. Fate quello che volete: io stesso sono piuttosto ambivalente su Milei, con una forte inclinazione verso il lato scettico. Ma è innegabile che il suo discorso – in particolare l’ultima metà – sia servito a far schiarire la gola agli statalisti e ai globalisti presenti.

La cosa più notevole è che, sul grande palcoscenico del WEF, ha rifiutato in modo netto il mandato del “cambiamento climatico”, o che l’uomo sia responsabile di qualsiasi cambiamento naturale nell’ambiente. Un’affermazione che non ci si sarebbe mai aspettati di sentire pronunciare dalla tribuna dell’istituzione per eccellenza che si occupa di clima.

Il resto della sua polemica è stato poco incisivo, in quanto si è trascinato su quel terribile cavallo di battaglia che è il “socialismo”, fingendo che sia il cavallo di battaglia dell’élite del WEF, e quindi posizionandosi comodamente come il grande e audace iconoclasta.

In realtà, a Schwab e ai suoi simili non può importare di meno del vostro inquadramento semantico: sono esperti nel cooptare e appropriarsi di qualsiasi sistema per i loro scopi. Se date loro il controllo di un Paese “socialista”, useranno il loro leader fantoccio per imporre mandati dall’alto verso il basso attraverso la “pianificazione centrale” che si adatta alla loro agenda; date loro un Paese “capitalista del libero mercato”, e useranno le loro vaste corporazioni transnazionali per sradicare e catturare tutte le industrie, facendole confluire nel mega-monopolio globale. In altre parole: non si tratta di un sistema contro l’altro, ma di umanità contro una cabala di élite finanziarie che controllano il sistema bancario occidentale e, per estensione, tutte le imprese e le industrie.

Il prossimo a comparire nella lista della rivolta senza precedenti di Davos: Stephen A. Schwarzman, CEO di Blackstone.

Stephen A. Schwarzman, CEO di Blackstone, ha dichiarato alla folla di Davos che gli Stati Uniti non sono pronti ad affrontare altri quattro anni di deficit da 2.000 miliardi di dollari di Biden, 8 milioni di clandestini che invadono l’America e un rapporto debito/PIL sempre più alto. Ha ragione.

Seguito dall’amministratore delegato di JPMorgan Chase, Jamie Dimon, che dichiara con estrema urgenza: “Se non controllate i confini, distruggerete il nostro Paese”.

 

Questo X thread ha catturato al meglio lo sbalorditivo cambiamento dello Zeitgeist:

C’è qualcosa di estremamente importante che non viene riconosciuto, ma chi sa leggere tra le righe se ne sta rendendo conto e sta spaventando a morte la gente: Elementi della classe di Davos **si stanno preparando a disertare il movimento Trump/populista.** Il mondo in questo momento è terrificante per la classe di Davos. Tutto sta andando storto, i populisti sono entrati nel sancta sanctorum e dicono apertamente “voi siete il problema, la vostra rovina sta arrivando”, e c’è la sensazione che il sistema internazionale neoliberale sia sull’orlo dell’abisso. L’economia – che è ciò che tiene a galla l’ordine internazionale guidato dagli Stati Uniti (cioè, l’ordine neoliberale, alias l’impero americano) per ora – sta andando male. Anche se Trump dovesse *perdere* le elezioni presidenziali, è chiaro che le cose si romperebbero.

E non pensano che Trump perderà. Queste persone, per quanto possano essere sprovvedute, vedono anche i sondaggi d’opinione e possono intuire dove stanno andando le cose. Questo senso di sventura imminente sta creando MOLTO panico/negazione negli ambienti democratici e neoliberali. La legittimità del loro sistema (“meritocrazia”/governo di esperti) sta crollando (“adulti nella stanza” è ormai una barzelletta), l’ambiente internazionale non può reggere (vedi: Ucraina, Israele, Taiwan, Mar Rosso, ecc.), la coalizione arcobaleno in patria sta iniziando a sfaldarsi. I democratici e i neoliberali – che hanno passato 8 anni a convincere se stessi e tutti gli altri che Trump è un imminente dittatore – sono convinti che Hitler arancione stia per conquistare il Reichstag. E a questo punto, Trump ha detto “fanculo, sarò il mostro che voi pensate che io sia”. Ecco il punto: mentre i democratici e i progressisti urlano che la loro nave sta affondando e che l’acqua gelida li attende, alcuni dei centristi neoliberali più freddi guardano alle scialuppe di salvataggio e pensano “in realtà, forse c’è una via d’uscita”. Questi finanzieri/imprenditori hanno vissuto l’ascesa di Putin e l’epurazione degli oligarchi, Xi che ha fatto lo stesso e ha imposto “requisiti” alle aziende che volevano accedere al mercato, ecc. Volendo sopravvivere, almeno ALCUNI di loro saranno disposti a fare un accordo con il proverbiale diavolo. Soprattutto se lui suggerisce “iscriviti ora o altrimenti”. “E se non mi iscrivessi?”, ragionano. “Voglio davvero rischiare di finire nella lista di merda dell’amministrazione Trump? In un ambiente populista e anti-elitario? Con una recessione/depressione imminente? In un ambiente globale sempre più multipolare?”….Quindi, se siete un tipo da Davos – nella finanza, nel private equity, nelle imprese multinazionali, in certi think tank/universitari/no profit che dipendono da connessioni politiche – il vostro istinto è di sopravvivere a tutti i costi. Se questo significa fare un accordo con i populisti, beh, allora…

L’OP prende spunto da questo nuovo articolo di Bloomberg:

Il gruppo di sei membri è stato incaricato di riassumere l’umore a Davos dopo una settimana in cui i partecipanti hanno teso a fare un volto coraggioso sulle prospettive globali, accentuando la probabilità di evitare una profonda recessione nonostante una stretta monetaria senza precedenti per riportare l’inflazione sotto controllo.

L’articolo riassume lo stato d’animo come teso, con le élite in agitazione che hanno persino invocato apertamente la possibilità che il dollaro venga detronizzato come valuta di riserva globale:

Se non risolviamo questi problemi (fiscali), succederà qualcosa al dollaro”, ha detto. “Se gli Stati Uniti non riusciranno a risolvere i loro problemi fiscali, a un certo punto la gente farà come con la sterlina britannica e il fiorino olandese anni fa”.
Alcuni hanno continuato a indossare “maschere di coraggio”, ma altri hanno manifestato la loro incredulità per quanto sta accadendo:

Il professore dell’Università di Harvard Ken Rogoff si è detto preoccupato: “La situazione geopolitica è come non ho mai visto nella mia vita professionale”.
Infine, il momento culminante dell’enfatica disillusione del WEF è stato raggiunto dal presidente della Heritage Foundation Kevin Roberts, che ha incalzato i tecnocrati dagli occhi spalancati con il suo marchio unico di incisione eloquente:

La polemica di Roberts è ciò che aspirava a essere quella di Javier Milei. Ha dato ragione alle élite più deboli, mettendole a nudo proprio sulle questioni che tutti gli altri hanno così paura di affrontare. La verità è che molte delle élite mondiali – anche quelle apparentemente globaliste – non sono d’accordo con i cambiamenti più estremi degli ultimi tempi. Sanno semplicemente di dover portare la brocca d’acqua per BlackRock e co. per evitare certe “sanzioni” aziendali e sociali.

Ecco perché è abbastanza probabile che nei prossimi anni assisteremo a una sorta di riorientamento: i più ragionevoli tra loro torneranno dalla parte della razionalità. In quest’ottica, l’incontro di Davos potrebbe essere visto come uno dei primi momenti di “canarie-in-coalmine” per la direzione delle cose.

Le élite sono stratificate come tutto il resto, il che significa che i contingenti più radicali e marginali continueranno a sostenere la lancia dell’avanguardia per spingersi in nuovi territori. Ecco perché, nonostante le ovvie fratture e il nervosismo che pervadono per la prima volta la classe d’élite, gli ultra-radicali hanno continuato a portare avanti le loro piattaforme estreme.

L’ultima minaccia prototipata a Davos, la “malattia X”:

Il direttore generale dell’OMS Tedros Ghebreyesus è stato avvicinato da un intrepido giornalista mentre si recava alla serata di Schwab: “Quando rilascerete la malattia X?”.

Naturalmente, l’obiettivo di questo genere di paura è quello di scuotere le nostre ossa abbastanza da impedire che l’inchiostro si asciughi sulle approvazioni delle terapie geniche a base di mRNA attraverso il vecchio “stratagemma della tensione infinita”, oltre a preparare il tavolo psicologico per l’eventualità di una nuova falsa pandemia per bloccarci in un altro punto chiave, consentendo la copertura di un’altra storica frode finanziaria o elettorale.

Come di consueto, l’agenda climatica ha conquistato il primo posto nell’evento. Alcune delle colonne portanti riconoscibili che per anni hanno instancabilmente fatto rotolare il macigno della frode su per la collina, hanno di nuovo dato il loro contributo al coro:

Il vincitore per l’assalto più evidente alla razionalità è stato il banchiere svizzero Hubert Keller per la sua conferenza su quanto il caffè sia dannoso per l’ambiente, con l’implicazione che chi ha una coscienza dovrebbe berne molto meno (per non parlare dell’implicazione ancora più grave che le élite un giorno verranno a prendersi interamente il nostro caffè):

Ogni volta che beviamo un caffè, immettiamo CO2 nell’atmosfera“.

Le eyeroll.

E mentre questi dandy scialacquatori si facevano strada nelle sale perverse dell’Imaginarium di Klaus Schwab, fuori, nelle zone vietate dei loro domini, le orde di oppressi si erano scatenate in una frenesia baccanale; il rito parigino, in particolare, era un offertorio di frattaglie per i tempi che furono:

Macron, nel frattempo, ha fatto il cosplay con i reali svedesi, indifferente al grido dell’anima del suo popolo:

Una giustapposizione “evocatrice”!

Le condanne non si sono limitate al caffè, ma, come di consueto, all’intera alimentazione, che secondo l’élite starebbe “carbonizzando il pianeta”:

Le notizie aziendali hanno coreografato l’incursione malthusiana. Questo segmento classifica efficacemente i bambini come accumulatori di carbonio:

Un lobbista ambientalista ha dichiarato martedì ai telespettatori del canale britannico GB News che avere figli rappresenta una “questione morale” a causa della quantità di carbonio che essi produrranno nel corso della loro vita. Donnachadh McCarthy ha sostenuto che le persone dovrebbero avere meno figli e che averne uno solo è “fantastico”.

Nel frattempo, le capitali europee si sono infiammate: i supermercati della distopica Parigi sono vuoti a causa dei diffusi scioperi degli agricoltori:

Anche oggi, mentre i leader europei si riunivano al vertice dell’Unione Europea a Bruxelles, la devastazione si estendeva intorno a loro; una statua dell’industriale John Cockerill è stata simbolicamente disarcionata proprio di fronte al Parlamento:

Proiettili di gomma e cannoni ad acqua sono stati utilizzati contro centinaia di agricoltori europei che giovedì hanno protestato davanti alla sede del Parlamento europeo a Bruxelles. Gli agricoltori hanno lanciato uova, fatto esplodere fuochi d’artificio e appiccato incendi nei pressi dell’edificio, chiedendo ai leader europei di smettere di punirli con più tasse e costi crescenti imposti per finanziare la cosiddetta “agenda verde”.

Ma non c’è da preoccuparsi: la Casa Bianca, per esempio, sta dando l’esempio sostituendo John Kerry con un nuovo zar del clima più “sano”:

Non vi riempie di sollievo sapere che alcuni dei più brillanti luminari di questa amministrazione sono stati assegnati ai compiti più urgenti?

Ma l’ultimo punto più preoccupante dei globalisti è stato quello della “disinformazione”. L’aspetto più sorprendente è che il loro tono corrisponde all’urgenza espressa per altre questioni descritte in precedenza. Anche in questo caso hanno manifestato il timore crescente di perdere la guerra narrativa, alienando la popolazione.

Questo è avvenuto sulla scia di annunci brutali di licenziamenti a tappeto nell’intero settore dei media e delle pubblicazioni/stampa:

Taylor Lorenz l’ha spiegato in un video molto visto che è assolutamente da vedere:

Anche ZeroHedge ne ha parlato:

Ognuno sta andando a fondo!

BuzzFeed e Vice Media, due siti un tempo beniamini dei media digitali che negli ultimi anni si sono ridotti in termini di dimensioni e rilevanza, rischiano di diventare ancora più piccoli. BuzzFeed, le cui azioni hanno perso più del 97% del loro valore da quando la società è stata quotata in borsa nel 2021, sta cercando di vendere i suoi siti di cibo, Tasty e First We Feast, secondo quanto riferito da persone che hanno familiarità con la situazione. Nel frattempo, Fortress Investment Group, che ha rilevato Vice in bancarotta l’anno scorso, è in trattative per vendere il sito di lifestyle femminile Refinery29.

Qual è il problema, dunque? Perché l’intero settore sta “crollando”, come ha detto Lorenz? E perché le élite sono improvvisamente così terrorizzate dall’idea di essere sostituite? Il simposio del WEF ha fatto un tentativo:

Ammettono che la gente, per una volta, esige davvero… responsabilità dal proprio giornalismo. Vogliono sapere da dove vengono le notizie, da dove vengono e perché. Questo dopo anni in cui le testate giornalistiche aziendali hanno dato per scontata la loro gratuità, erodendo completamente la propria affidabilità e attendibilità tagliando le curve, aggirando le regole e seguendo in generale “regole non scritte” altamente non etiche e politicizzate. Questo include le nuove norme moderne, come le pigre “fonti anonime” che si sostituiscono alle ovvie fughe di notizie politicizzate, e cose di questo tipo.

Ma il problema più grande di tutti, ovviamente, è la nuova predominanza dei social media e degli alt media. È un argomento che ho trattato ampiamente in questo articolo:

TECH & FUTURE

Legacy Media is an Antiquated, Obsolete Relic

·
MARCH 28, 2023
Legacy Media is an Antiquated, Obsolete Relic
Il Quarto Stato Molto tempo fa, quello che oggi viene chiamato giornalismo svolgeva un ruolo importante in una società priva di comunicazioni a distanza. Molto prima di Internet, o anche di telegrafi e telegrammi, non c’era un modo vero e proprio per gli esseri umani di venire a conoscenza di eventi in un’altra provincia o stato, tanto meno in un’altra parte del mondo.
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Soprattutto da quando Musk ha abbassato le barriere di sicurezza con l’acquisizione di X, l’informazione [per lo più] libera è fluita senza essere ostacolata dalle obsolete reliquie dei media aziendali. Questo è il motivo principale per cui il consorzio di Davos ha inserito la “disinformazione” come nemico numero uno nella sua lista a breve termine.

La perfida signora Von Der Leyen sottolinea proprio questo aspetto nel suo discorso:

Non sorprende quindi che l’autrice indichi l’introduzione del “Digital Services Act” da parte dell’Unione Europea come l’apice della lotta contro questo spauracchio esistenziale della “libertà di parola”, che li rende così nervosi. Il DSA è un argomento che ho trattato anche io:

TECH & FUTURE

Censorship Clampdowns Redux + EU DSA Rollout

OCTOBER 31, 2023
Censorship Clampdowns Redux + EU DSA Rollout
Mentre le cose si scaldano in tutto il mondo e la società si avvia verso un anno elettorale cruciale, la battaglia per la narrazione prende forma. Il conflitto israeliano ci ha aperto gli occhi non solo sulla fragilità della narrazione dell’establishment, ma anche sulla nostra libertà di parlare delle questioni più delicate. E a quanto pare, per l’establishment,
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Per non parlare del fatto che si guardava alle misure di repressione di massa che sicuramente sarebbero arrivate, visto quanto era stata erosa la fiducia dell’establishment.

Dopo tutto, c’è da meravigliarsi se persone come queste non riescono a capire perché nessuno le prende più sul serio?

Quanto sopra non è uno scherzo, comunque. Diverse case editrici di notizie tradizionali hanno denunciato la censura lassista della Cina di recente, quando si trattava della loro gallina dalle uova d’oro, Israele: NYTimes e CNN 

tra loro. Avreste mai pensato di vivere fino a vedere la propaganda orwelliana alla rovescia prendere una piega tale da accusare la Cina di essere troppo libera?

Le persone che ci hanno insegnato i pericoli della lettura fuori dalle righe sono ora terrorizzate dal fatto che li abbiamo ignorati e continuiamo a pensare con la nostra testa.

Questo è il problema di questi globalisti: per nascondere i loro crimini devono continuare a raddoppiare, ma per farlo richiedono sempre più sforzi e una crescente complessità di scuse improbabili e insensate. È un po’ come la teoria della relatività e la velocità della luce: più ci si avvicina alla velocità, più i requisiti energetici diventano assurdamente irrealistici.

Sembra sempre più che le élite stiano raggiungendo il loro livello di 0,99c e che l’assurdità dei loro intrugli stratificati stia per scoppiare.


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I fossili viventi di Davos, di Simplicissimus

I fossili viventi di Davos, di Simplicissimus

Ogni volta che si parla del Wef e per la verità a volte capita anche a me, si evoca l’immagine di una piovra che soffoca il mondo occidentale con le sue assurde “agende” e che esprime un potere quasi invincibile. In realtà si tratta di un fossile vivente, la massima espressione di un mondo che sta lasciando spazio a nuovi assetti, a nuove idee, a nuovi poteri. A Davos durante le bizzarre kermesse che sembrano le riunioni della Dieta imperiale a cui parteciparono tutti i feudatari dell’economia finanziarizzata,  troviamo tutto ciò che è fondamentale dell’ideologia neoliberista e suprematista occidentale, le sue potenzialità, i suoi limiti e le cause stesse della sua distruzione: in ogni parola, in ogni espressione, tema o conclusione, troviamo le ragioni fondamentali per cui questa specie non riesce ad evolversi e a distaccarsi dai moduli di pensiero che hanno accompagnato la sua espansione. Le ali o le zampe non riescono a spuntare perché il pool genetico – culturale del neoliberismo non può evolversi senza distruggersi,

In effetti durante gli ultimi stati generali dei miliardari di Davos e della loro servitù politica, si è molto tronato a quanto pare,  ma non si sono udire squillare le trombe, anzi in ogni momento, il World Economic Forum ha rivelato tutta la portata del risentimento, dell’amarezza e della disillusione nei confronti di un mondo sempre più ostinato nel rifiutare le premesse che farebbero del neoliberismo un sistema eterno e universale. In questo senso il Forum di quest’anno è stato come un grido di dolore e di rabbia perché il resto del pianeta non accettato le soluzioni  “saggiamente e razionalmente” proposte per aumentare oltre ogni limite le disuguaglianze e la mancanza di libertà. Persino all’interno del mondo occidentale, l’attacco epocale a base di clima, pandemia guerra e corruzione estrema della politica, non è riuscito a sbaragliare del tutto un’ostinata opposizione. Gli stessi temi scelti rivelano  le grandi preoccupazioni e le delusioni a cui questi rappresentanti di un mondo che sta diventando sempre più insensato e disfunzionale. Quello dedicato a “Raggiungere sicurezza e cooperazione in un mondo fratturato” rivela come l’Occidente si senta insicuro e come abbia estrema difficoltà ormai nell’imporre i suoi modelli di rapina che però ama chiamare ”cooperazione”.

Il rifiuto sempre più esplicito della maggioranza mondiale di accettare i dettami della “nazione indispensabile”,  si traduce, agli occhi di queste élite  in un vuoto di potere. Il segnale è chiaro: gli Stati Uniti nervosi, in crisi d’identità e in uno stato di negazione, sono un pericolo per se stessi, ma lo sono anche per gli altri, soprattutto considerando tutto il potenziale distruttivo a loro disposizione. E quindi la sicurezza allude anche a questo. Secondo questi sinedrio di fossili viventi con un cervello ormai sclerotizzato un mondo sicuro è un mondo senza la Russia. Che cosa pensare di un evento che vuole considerarsi mondiale che parla di sicurezza, ma esclude la più grande potenza nucleare, la nazione di gran lunga più estesa come territorio, quella più ricca di risorse naturali,   un partner strategico per importanti paesi che rappresentano più della metà della popolazione mondiale, come Cina, India e Iran,  leader tecnologico nei settori spaziale, aerospaziale, nucleare, navale e militare e uno dei maggiori produttori di cibo e cereali al mondo. Parlare di “sicurezza”, “cooperazione”, “energia”, “natura” e “clima” senza coinvolgere la Russia non può che essere un idiozia. Ma per gli Stati Uniti, e quindi per Davos, un mondo “sicuro” è un mondo senza contraddizioni, senza rivali, dove le élite nordamericane possono fare razzia di qualunque cosa.

Naturalmente, chiunque sia anche lontanamente serio non può non  mettere in dubbio la credibilità di tutto ciò e comprendere che l’esistenza stessa di potenti Paesi che non ci stanno manda  all’aria tutto il progetto venduto come globalista ma in realtà espressione di un neo colonialismo imperiale. Il sistema può in qualche modo perpetuarsi solo se è un sistema planetario senza opposizione, altrimenti tutto è destinato a cadere. Ecco perché il Wef è formato da fossili viventi: possono sembrare forti e potenti, ma sono stati superati dalla realtà.

L’Occidente usa due pesi e due misure etniche per bombardare russi e palestinesi, di ANDREW KORYBKO

L’Occidente usa due pesi e due misure etniche per bombardare russi e palestinesi

ANDREW KORYBKO
30 OTT 2023

L’Ucraina ha cercato di ripulire etnicamente la popolazione russa autoctona del Donbass e di genocidare coloro che sono rimasti se avesse riconquistato la regione, che è ciò che anche Israele sembra interessato a fare a Gaza, ma il ruolo strategico di Kiev è concettualizzato dall’Occidente come più ampio di quello di Tel Aviv. Mentre Israele combatte per una piccola striscia di territorio per perseguire ristretti interessi geopolitici occidentali, l’Ucraina è utilizzata dall’Occidente per interessi civilizzativi-imperialistici di ben più ampia portata.

L’ultima guerra tra Israele e Hamas ha messo a nudo l’ipocrisia occidentale in più di un modo. In precedenza è stato osservato che “i doppi standard dell’Occidente verso Israele e l’Ucraina lo hanno screditato nel Sud globale”. Il mondo intero ha visto come la dimensione “umanitaria” della retorica dell'”ordine basato sulle regole” di questo blocco fosse assente dalla sua valutazione del suddetto conflitto, nonostante Israele sia responsabile di molte più vittime civili nell’arco di un mese di quante la Russia ne abbia presumibilmente causate in venti.

Lungi dal criticare l’autoproclamato Stato ebraico come hanno fatto con la Grande Potenza eurasiatica, hanno entusiasticamente esultato per il suo blocco e per il bombardamento degli oltre due milioni di abitanti di Gaza, minimizzando le morti di civili che ne sono derivate. Il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha dichiarato che “Questa è una guerra. È un combattimento. È sanguinosa. È brutta e sarà disordinata. E civili innocenti saranno feriti in futuro”.

Dopo che Israele ha ampliato le operazioni di terra a Gaza, nonostante il rischio molto più elevato di un numero ancora maggiore di vittime civili, ha dichiarato alla stampa che “non stiamo tracciando linee rosse per Israele. Continueremo a sostenerlo”. Questo approccio contrasta con il relativo silenzio dell’Occidente nei confronti dei bombardamenti di Kiev sul Donbass negli otto anni precedenti l’operazione speciale. In quel periodo, hanno sostenuto pienamente questo regime fascista, ma sono stati anche attenti a non attirare troppo l’attenzione sui suoi attacchi contro i civili.

I doppi standard etno-bigotti spiegano probabilmente queste politiche diverse, nonostante entrambe le categorie di civili – i palestinesi a Gaza e i russi nel Donbass – siano “altre” dall’Occidente, nel senso di essere viste come separate dalla loro “eccezionale” civiltà e quindi considerate “sacrificabili”. Sebbene la fisionomia vari, i palestinesi nel loro insieme sono ampiamente considerati dai liberal-globalisti al potere in Occidente come “non bianchi”, mentre i russi nel loro insieme sono considerati “bianchi”.

Questa pseudo-distinzione porterebbe normalmente queste élite a simpatizzare con i palestinesi “non bianchi” per ragioni ideologiche, ma il motivo per cui i loro politici non mostrano alcuna compassione per loro è perché li considerano parte di una civiltà comparativamente più dissimile. L’ex impero russo a maggioranza slava e a guida ortodossa che controllava il Donbass era storicamente molto più vicino alla civiltà occidentale di quello turco-arabo ottomano a guida musulmana che controllava Gaza.

L’emergente paradigma di civilizzazione delle relazioni internazionali è stato sfruttato da questi politici per giustificare l’autopercepito “eccezionalismo” dell’Occidente e provocare uno “scontro di civiltà” per dividere e governare l’Eurasia a loro vantaggio egemonico. Per perseguire questo scopo, le loro élite politiche stanno amplificando la narrazione fuorviante secondo cui l’ultima guerra tra Israele e Hamas sarebbe uno scontro tra gli israeliani allineati all’Occidente e parzialmente di origine europea e i palestinesi allineati all’Islam e interamente arabi.

Per essere chiari, si tratta di ottiche superficiali e spurie, ma sono comunque destinate a manipolare il pubblico occidentale mirato a fare quadrato intorno a Israele con pretesti fintamente “civilizzativi” e “valoriali” associati, volti a giustificare il sostegno delle loro élite a Israele per ragioni puramente geopolitiche. L’autoproclamato Stato ebraico è considerato la “portaerei inaffondabile” del loro blocco in Asia occidentale, motivo per cui è sempre sostenuto da loro, anche quando è responsabile di molte vittime civili.

Le classi accademiche, gli attivisti e i media dei liberal-globalisti sono però sempre più in contrasto con la visione ipocritamente machiavellica del mondo dell’élite politica della loro ideologia, il che spiega le proteste su larga scala contro Israele che hanno attraversato l’Occidente nell’ultima settimana. Non è compito di questa analisi approfondire le loro differenze in questo contesto e l’interazione tra queste fazioni, ma i lettori interessati possono fare riferimento a queste due analisi qui e qui per approfondire la questione.

Le osservazioni del paragrafo precedente sono pertinenti al presente articolo perché spiegano il motivo per cui l’élite politica dei liberal-globalisti ha applaudito con entusiasmo il blocco e i bombardamenti di Israele contro gli oltre due milioni di abitanti di Gaza. I leader statunitensi di questa classe hanno interesse ad attirare l’attenzione sulla narrazione fuorviante che l’ultima guerra tra Israele e Hamas sia uno “scontro di civiltà”, nonostante alcune differenze tra loro e i loro vassalli europei, per non parlare di altre sottoclassi.

Al contrario, sia le classi politiche occidentali che le sottoclassi accademiche, attiviste e mediatiche transatlantiche di questa ideologia sono rimaste relativamente in silenzio negli otto anni in cui Kiev ha bombardato il Donbass, il che può essere spiegato con il paradigma della civiltà introdotto in questa analisi. Gli ucraini e i russi sono considerati “bianchi” “occidentali”, la cui civiltà condivisa, storicamente a maggioranza slava e a guida ortodossa, può essere incorporata nella civiltà occidentale dopo la sua “balcanizzazione”.

Questa analisi di inizio ottobre elabora questo grande obiettivo strategico, che può essere riassunto come l’utilizzo da parte dell’Occidente dell’Ucraina come “cavallo di Troia” per dividere e governare la civiltà cosmopolita della Russia attraverso la guerra ibrida, dopo averla prima trasformata in “anti-Russia” a seguito di “EuroMaidan”. I liberal-globalisti hanno cercato di armare il multiculturalismo sotto una falsa veste di “decolonizzazione” per mascherare l’imperialismo occidentale, come sostenuto qui, che rischiava di fare a pezzi la Russia, come ha avvertito Medvedev qui.

L’operazione speciale della Russia ha sventato quel complotto, ma il punto è che era e continua a essere perseguito, il che spiega perché l’Occidente ha taciuto sui bombardamenti di Kiev nel Donbass dal 2014 in poi. Dal punto di vista delle loro élite politiche, la civiltà condivisa dell’Ucraina e della Russia, storicamente a guida ortodossa e a maggioranza slava, è molto più facile da sussumere in quella liberale-globalista dell’Occidente rispetto alla civiltà arabo-musulmana della Palestina, storicamente “alterata” in misura maggiore e considerata “incompatibile”.

L’Ucraina ha cercato di ripulire etnicamente la popolazione russa autoctona del Donbass e di genocidare coloro che sono rimasti se avesse riconquistato la regione, che è ciò che anche Israele sembra interessato a fare a Gaza, come spiegato qui, ma il ruolo strategico di Kiev è concettualizzato dall’Occidente come più ampio di quello di Tel Aviv. Mentre Israele combatte per una piccola striscia di territorio per perseguire i ristretti interessi geopolitici occidentali, l’Ucraina è utilizzata dall’Occidente per interessi civilizzativi-imperialistici di ben più ampia portata.

L’Occidente non si è mai aspettato che Israele ripulisse etnicamente, genocidasse e/o “balcanizzasse” tutta la civiltà arabo-musulmana dell’Asia occidentale, ma si aspettava che l’Ucraina facilitasse questi obiettivi e soprattutto l’ultimo, quello di dividere e governare contro la Russia. Di conseguenza, promuovere la narrativa dello “scontro di civiltà” nell’ultima guerra tra Israele e Hamas difende i limitati obiettivi geopolitici dell’Occidente su una base di finti “valori”, mentre fare lo stesso nel Donbass rischia di screditarli in quel contesto.

La Russia avrebbe dovuto essere “balcanizzata” e poi sussunta dalla nuova civiltà liberale-globalista dell’Occidente, cosa che non sarebbe stata possibile “alterando” i suoi popoli, relativamente più simili dal punto di vista della civiltà, nella stessa misura in cui hanno fatto con quelli, apparentemente più dissimili, della Palestina. Gli obiettivi dell’Occidente nel primo conflitto sono di espandere direttamente la portata della sua “eccezionale” civiltà, mentre nel secondo si limitano a sostenere il ruolo geopolitico di Israele come “portaerei inaffondabile”.

È comprensibile che i lettori possano sentirsi un po’ sopraffatti dopo essere stati introdotti a una visione così complessa degli affari civili, geopolitici e strategici; per questo motivo sono invitati a riflettere su quanto condiviso in questa analisi e magari a rivederla una volta dopo essersi riposati. Così facendo, si spera che siano in grado di comprendere meglio le ragioni della doppia morale etno-bigotta dell’Occidente nei confronti dei bombardamenti di russi e palestinesi, dove i primi vengono ignorati mentre i secondi vengono acclamati.

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Ecco la minaccia che nessuno ha visto arrivare _ Di Trish Randall

Ecco la minaccia che nessuno ha visto arrivare
Di Trish Randall

Avete mai cercato di mettere in guardia le persone su qualcosa, solo per sentirvi dire ripetutamente che non c’è nulla di cui preoccuparsi? Che non siete un adulto serio anche solo per aver affrontato questi temi? Vi siete mai chiesti come sarebbero andate le cose se la gente avesse gridato dalle finestre a Paul Revere di stare zitto, l’esercito del re è dall’altra parte dell’oceano? Avete mai iniziato a sentirvi come Cassandra?

E se ci fossero prove sostanziali che i loschi operatori che attualmente abitano gli Stati Uniti hanno la determinazione e le connessioni per rappresentare una minaccia alla libertà di parola, a partire dalla stampa e da Internet? Supponiamo che questi individui abbiano legami negli Stati Uniti e nei circoli politici, caritatevoli e di pensiero internazionali.

E se ci fossero prove dell’esistenza di una coppia di operatori di questo tipo – chiamiamoli Boris e Natasha – che hanno già organizzato un numero di lotte anti-bianco e anti-occidentali tale da minare le relazioni razziali in diversi Paesi? Il conflitto che hanno generato, in appena un paio d’anni, ha coinvolto gli Stati membri di un’organizzazione multinazionale pluridecennale di 56 membri dedicata alla promozione della fioritura economica e culturale. Uno Stato membro ha già sperimentato un tale aumento dei disordini basati su lamentele razziali che il governo ha rimosso il monarca come capo di Stato. Questa nazione e altre stanno considerando di ritirarsi completamente dall’organizzazione economica e culturale. Questa impresa, a lungo stabile e produttiva, è ora infettata dal tipo di rancore anti-occidentale che ha trasformato le Nazioni Unite in una mostruosità internazionale. Il conflitto ha persino contribuito ad aumentare le agitazioni a sfondo razziale per la rimozione di una monarchia europea di lunga data. I fan di Boris e Natasha negli Stati Uniti e in Europa stanno lavorando energicamente su Internet per diminuire l’armonia razziale nelle loro parti del mondo. Possiamo ringraziare Natasha, Boris e i loro troll da scantinato per tanta divisone.

Natasha e Boris hanno creato almeno 11 società di comodo nello Stato del Delaware. La più nota è un ente di beneficenza 501(c)(3). La sua dichiarazione dei redditi per il 2020 mostra che ha acquisito 13 milioni di dollari in donazioni e ne ha distribuiti 3 milioni per cause filantropiche. (Gli stipendi e le spese possono essere un’enormità, soprattutto se i libri contabili sono organizzati in modo corretto). Questa fondazione è tra i partner amicus che sostengono l’imputato nella causa NetChoice contro Bonta, in cui si contesta la costituzionalità del California Age Appropriate Design Code Act. Tutte le aziende i cui servizi o prodotti Internet potrebbero interessare i bambini fino a 17 anni sarebbero tenute a produrre una valutazione dell’impatto sulla protezione dei dati di ogni potenziale danno ai bambini. I danni non sono specificati nella legge e devono essere determinati dalle parti interessate, tra cui il mondo accademico, i gruppi di consumatori e le aziende. È inoltre richiesta la conformità al Regolamento generale sulla protezione dei dati dell’Unione Europea.

Natasha, di nazionalità americana, è stata amica di personaggi come Hillary Clinton per quasi un decennio. Hillary ha persino fatto visita a Natasha mentre lei viveva in un paese straniero. All’epoca in cui Emma Watson, in qualità di ambasciatrice delle donne dell’ONU, tenne il suo terribile discorso alle Nazioni Unite, “He for She” (una richiesta che gli uomini del mondo devono fare del femminismo a beneficio delle donne del mondo), Natasha ricopriva la posizione di avvocato delle donne dell’ONU. È anche membro del One Young World Forum, un think-tank progettato per reclutare e formare giovani leader in quella che chiamano la loro “comunità globale”. L’OYW ha partecipato all’incontro annuale del WEF a Davos/Klosters nel 2020.

Si dice che Natasha stia cercando di insediarsi in un seggio presto vacante del Senato degli Stati Uniti, invece di aspettare le fastidiose elezioni generali.

In un video del 2022, Boris ha dichiarato di non poter votare alle prossime elezioni americane e ha invitato gli elettori americani a rifiutare l’odio, la disinformazione e la negatività online. Boris è un cittadino straniero di cui non si conosce lo status di immigrato. La sua privacy è attualmente protetta dal Dipartimento di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti. È un portavoce pubblico molto disponibile per la causa della protezione del mondo intero dai media che diffondono disinformazione e depistaggio.

Boris fa parte della Commissione sulla disinformazione in Internet di un’organizzazione no-profit statunitense che da anni lavora per minare i diritti del Primo Emendamento ed è ospite della conferenza del 2023 intitolata “Il Primo Emendamento è obsoleto?”.

Nel 2021, Wired ha ospitato una conferenza intitolata “The Internet Lie Machine” (La macchina della menzogna di Internet), nel cui panel erano presenti Boris, un altro membro della commissione e un ex collaboratore della CIA (attualmente impegnato in un progetto per rilevare gli “abusi di Internet” in tempo reale), il cui lavoro per oltre un decennio è stato quello di promuovere la censura governativa di Internet, compreso l’effimero Disinformation Governance Board (Consiglio di governance della disinformazione) e di produrre un video a favore della censura per il DHS.

In qualità di cittadino straniero che vive negli Stati Uniti, Boris è anche un funzionario di una società americana che ha un contratto per la vendita di servizi dubbi alle forze armate statunitensi. I parametri di questi servizi consentono alla società di accedere a una grande quantità di informazioni sui singoli membri delle nostre forze armate.

Boris e il suo avvocato sono legati a un’organizzazione straniera senza scopo di lucro che ha come priorità la “promozione della riforma della stampa” (censura) e si è scoperto che ha impiegato criminali condannati come investigatori privati che sono stati scoperti a spiare (a sorpresa) illegalmente privati cittadini.

Come ciliegina sulla torta, Boris sta cercando di far leva su un trattato internazionale e su una nazione europea che potrebbe far pagare ai contribuenti americani la sicurezza armata ogni volta che Boris e Natasha si trovano sul suolo americano. (Considerando che la loro residenza principale è negli Stati Uniti, questa potrebbe essere la maggior parte delle spese per la sicurezza). Nel 2020, Boris ha trascorso tre mesi in una nazione dell’emisfero occidentale (non gli Stati Uniti), costando a quella nazione 1,9 milioni di dollari. Le guardie avevano così poco da sorvegliare che si lamentavano di essere usate come fattorini, per portare cibo da asporto e generi alimentari.

Quindi, caro lettore, ti piace l’idea di un cittadino straniero che ha legami di alto livello e che usa la sua fama personale e le regole permissive del Delaware in materia di beneficenza per promuovere sforzi per imbavagliare la stampa e i cittadini americani e fomentare lotte razziali negli Stati Uniti e in altri Paesi a un livello tale da cambiare la forma di governo di una nazione? Che dire di un individuo che lavora con una società che può accedere a informazioni personali sui militari americani in servizio? E se i fondi dei contribuenti statunitensi coprissero servizi di lusso in perpetuo per un cittadino straniero impegnato in tali attività? E la sua controparte americana che nutre ambizioni politiche nazionali? Vi piacerebbe che la nostra prossima nuova superstar democratica fosse una versione per un quarto nera e più odiosa di AOC, magari non alla Camera, ma al Senato e con l’obiettivo della Casa Bianca?

Continuate a ignorare la pericolosità di Meghan Markle e Harry. Ricordatevi che ho cercato di mettervi in guardia.

https://www.americanthinker.com/articles/2023/07/meet_the_threat_that_no_one_saw_coming.html

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