Ad una rilettura il mio articolo del 23 dicembre scorso “tre piani a confronto…” https://italiaeilmondo.com/2020/12/23/piani-a-confronto-da-recovery-di-giuseppe-germinario/ mi era apparso eccessivamente livoroso. I contenuti li ho ritenuti validi, ma il tono troppo spietato per una partita tutto sommato ancora in buona parte da giocare. Colpa probabilmente della claustrofobia sedimentata in settimane di reclusione in una stanza d’ospedale.
Devo ricredermi! La realtà delle cose sta assumendo aspetti ancora più irrealistici e prosaici, mi si perdoni il gioco di parole.
Un giallo che sta assumendo i tratti multicolori di una farsa, elevando con ciò la compagine di governo, in particolare la triade Conte, Gualtieri, Di Maio e con un paio di rare eccezioni ridotte ormai al ruolo di mera testimonianza, la stessa riservata nel Conte I a Luciano Barra Caracciolo, al rango di giocatori delle tre carte.
In quell’articolo avevo sottolineato con forza che il piano di investimenti, il pezzo forte del PNNR (NGEU) italiano, sarebbe rifluito progressivamente in un recupero di investimenti in realtà già programmati e finanziati. Avevo specificato per altro che il documento prevedeva questa possibilità, ma di fatto avevo attribuito ai condizionamenti politici esterni, in particolare quelli dei ventriloqui della Commissione Europea, alla mancanza di ambizione e strategia del piano, al dissesto istituzionale e alla inadeguatezza dell’apparato tecnico-amministrativo centrale l’inesorabilità di quell’inerzia. Invito chi non lo avesse fatto, a leggerlo con una buona dose di pazienza.
Le fibrillazioni politiche interne allo schieramento politico che sostiene il governo hanno portato alla luce intanto uno degli aspetti cruciali di un piano mantenuto nella riservatezza e nel mistero, possibilmente sino al suo varo: i 4/5 di quel piano di investimenti sono già il recupero di opere già programmate e finanziate.
Così recita il Ministro Gualtieri: “L’unico momento in cui la discussione si e’ accesa e’ stato quando il ministro Gualtieri ha ribadito che l’Italia non si puo’ permettere di puntare tutti i prestiti europei su progetti aggiuntivi perche’ questo farebbe schizzare il debito e rischierebbe di far saltare il percorso di rientro approvato in Parlamento. “
Quello che sarebbe stato l’esito di una inerzia delle cose, è in realtà una scelta politica ex ante del Governo.
Se si aggiunge il fatto che già dal 2023, non alla scadenza decennale del piano di azione, è già previsto un programma di rientro del deficit pubblico intorno al 2,5% medio annuo, di fatto una massa finanziaria all’incirca equivalente ai finanziamenti europei, il quadro diventa leggibile e trasparente, non ostante l’evasività mistificatoria dei nostri saltimbanchi; il Recovery Fund (NGEU-PNNR), almeno per l’Italia, si sta rivelando una mera partita di giro o poco più.
È l’evidenza che un accordo politico, magari di massima, con i ventriloqui della Commissione Europea c’è già, di fatto se non ancora formalizzato; un accordo frutto di una presa d’atto piuttosto che di una trattativa vera e propria.
Le fibrillazioni politiche non devono ingannare. I sussulti che scuotono il governo sono tutti interni a questa logica e se la tentazione di esasperare una strumentalizzazione a fini di bottega dovesse alla fine prevalere, gli efficaci strumenti di persuasione, trasformismo o di annichilimento non mancheranno di certo. Né del resto dalla parte dell’opposizione politica appaiono forze credibili, di una certa consistenza, capaci ed realmente intenzionate a sostenere uno scontro ed un confronto politico così arduo.
I portatori di questa dinamica sono nel PD, le mosche nocchiere sono in Italia Viva, gli insulsi, gli inconsapevoli e gli opportunisti di basso rango nel M5S.
Forze che trovano lì, a Parigi, a Bruxelles, a Berlino, dire anche a Washington sarebbe forse una sopravalutazione, la propria legittimazione e la propria ragione d’esistenza.
Qualche beneficio d’inventario, con qualche buona volontà, lo si potrà pur concedere: il trasferimento possibile dalle spese ordinarie agli investimenti, sia pure sempre meno strategici, può rientrare nel ventaglio dei margini operativi; gli stessi investimenti già previsti, programmati e finanziati, senza il Recovery Fund rischierebbero di essere quantomeno dilazionate; la stessa consistenza effettiva dei piani di rientro del deficit dipendono molto dall’accondiscendenza politica verso i ventriloqui della C.E., dalle dinamiche geopolitiche ad essa legate e dai rischi politici interni al paese. Tutti fattori che potrebbero agire quantomeno nella funzione di moltiplicatore keynesiano del piano, almeno nell’immediato; non nella futura posizione strategica del paese.
Qualche beneficio d’inventario in meno, in verità uno spreco criminale alla luce del futuro che si sta profilando, si stanno rivelando la pletora di bonus elargiti allegramente e meschinamente nella fase iniziale di emergenza.
Ma ormai nelle dinamiche della UE le opzioni di politica economica dell’Italia sono strette non in una, bensì in due morse: quello del principio di austerità che deve regolare il rientro del deficit pubblico; quello della rimessa in discussione, per inadeguatezza del piano, dello stanziamento dei fondi di NGEU. Due ganasce che sottendono dinamiche geoeconomiche e geopolitiche interne alla UE e soprattutto esterne ad essa che vanno bel oltre le capacità di comprensione e di azione del nostro ceto politico e della nostra classe dirigente; limiti che stanno portando questi ultimi ad un livello di connivenza e complicità a titolo sempre più gratuito.
Lo stellone, le competenze sempre più disperse e il genio italico, sia pure appannati, purtuttavia rimangono e covano sotto le ceneri; emergono qua e là, capaci di disegnare gioielli come l’ultima portaerei varata a Trieste. Sono strumenti però utili, tra i tanti possibili, a chi li sa e li vuole utilizzare.
Già in altre fasi storiche il genio e lo stellone italici hanno tratto il classico coniglio dal cappello nelle situazioni più complicate e disperate, a partire dal conseguimento stesso dell’Unità d’Italia e dalla fondazione della Repubblica. Lo hanno potuto fare nei momenti più traumatici e drammatici. Oggi la situazione è, almeno per il momento, diversa. Viviamo in una fase nella quale la rana, cioè noi, si trova immersa ancora in una pentola ravvivata a fuoco lento. Più sarà lenta la fase di ebollizione, meno la rana capirà in tempo utile o in extremis in quale gioco nefasto, ma inizialmente confortevole è andata a cacciarsi.
COMPITI PER IL PENSIERO. (Lungo, ma l’argomento è vasto e complicato). Da un paio di giorni, nei titoli dei giornali, gira l’annuncio che -causa COVID-, la Cina dovrebbe raggiungere il vertice della classifica mondiale dei Pil assoluti con cinque anni di anticipo, dal precedentemente previsto 2033 all’attualizzato 2028 (fonte: Centre for Economics and Business Research nel Rapporto rilasciato lo scorso 26.12).
La “Cina” è un vero e proprio caso cruciale della distorsione della nostra immagine di mondo. La Cina non gioca secondo le regole, la Cina performa meglio perché ha un governo autoritario, no performa meglio perché è “socialista”, la Cina non è una democrazia, forse addirittura ha lei diffuso il coronavirus apposta per mettere in difficoltà i suoi principali competitors. Tutti questi giudizi possono esser dati ed argomentati, ma non si capisce cosa c’entrino a commento del fatto in questione.
Il fatto in questione, che la Cina si avvia in tempi storici brevi a diventare la prima potenza economica del mondo (se tra otto o dodici anni mi pare l’ultimo dei problemi), è noto da anni solo che non è preso in consapevolezza obiettiva dalla nostra immagine di mondo. Due e molto semplici le ragioni: la prima è che sono 1,4 miliardi di persone, la seconda è che dagli anni ’80 hanno abbracciato i principi dell’economia moderna iniziando così una traiettoria che porta dal sottosviluppo all’ipersviluppo, come è accaduto a noi in tre secoli. Applichi la formula del successo moderno ad 1,4 mld di persone, ne viene fuori una ipergigante rossa, l’oggetto stellare di maggior massa dell’Universo (dopo le stelle a neutroni).
Tali ragioni obiettive e per altro abbastanza semplici da comprendere, portano due angosce a noi occidentali. La prima è che il mondo si va ad equalizzare per dimensioni, paesi più grandi –a parità (circa) di modo economico-, avranno volume economico più grande. Qui l’angoscia è soprattutto europea poiché l’Europa eredita una forma stato-nazionale che origina dal ‘500, quando per gli europei, il “mondo” era appunto il loro subcontinente. Quindi, il fenomeno storico stato-nazionale che comincia dalla Francia del ‘400, aveva a contesto i rapporti con l’Inghilterra e viceversa, la Spagna aveva a contesto di riferimento ciò che avveniva in Francia ed il Portogallo ciò che avveniva in Spagna. Così, il fenomeno stato-nazionale è andato avanti sino alla seconda metà del XIX secolo, quando sono arrivati gli ultimi Stato-nazione, l’Italia e la Germania. S’intenda, le forze che portarono allo Stato-nazione non riguardavano solo l’esterno ma come per tutti gli enti, la relazione tra le loro condizioni di possibilità interne (territorio e confini “naturali” che nel tempo hanno sedimentato lingue ed habitus più o meno comuni in una dato “popolo”, tipo lingua, tradizioni religiose, cultura materiale etc.) ed appunto l’esterno ovvero pari dinamiche per l’ente o gli enti vicini in competizione per risorse e territori. Infatti, la nascita dei primi Stato-nazione (F-I-S-P) fu -più o meno- sincronica in termini di tempo storico.
Così, nel 2035 rispetto anche al solo 2005, tra le prime dieci economie del mondo, irrompono i cinesi (1,4 miliardi), gli indiani (1,3 mld), l’Indonesia (0.270-0.300 mld), il Brasile (0.210-0.240 mld) e financo la Russia (0.150 mld) mentre Italia, Canada e Spagna escono dalla top ten ed USA, Giappone, Germania, UK e Francia scalano di qualche posizione. Ovviamente non è una legge meccanica (cioè “precisa” e quando le “leggi” non sono precise si chiamano “regole”), UK, Francia ed Italia non hanno popolazioni molto diverse per volume, ma performance economiche sì. Questo nuova regola del volume è inquietante per gli occidentali poiché -in prospettiva- dopo gli USA che hanno comunque la terza popolazione mondiale per volume, i campioni occidentali Germania-UK-Francia, sono solo al 19°-20°-21° posto per popolazione, ed in prospettiva perderanno posizioni per ragioni di curva demografica. In più è inquietante perché introduce un elemento di materialismo volgare che limita la nostra innata foga idealistica concettuale quasi che i concetti che riflettono il mondo, non debbano fare i conti con la sottostante consistenza di “numero-peso-misura”.
La seconda ragione obiettiva dice che i pesi delle potenze del mondo vanno a modificarsi in ragione del fatto che il modo economico moderno (che tu ti ostini a chiamare “capitalismo” infilandoti in una foreste di inestricabili aporie concettuali di cui “ma la Cina è capitalista o no?” è il più frequentato luogo comune del dibattito colto) ormai è applicato ovunque, una specialità che ha segnato la potenza occidentale degli ultimi tre-quattro secoli non è più una differenza. Per “modo economico moderno” intendiamo la formula: IDEE (scienza e tecnica) + ENERGIA e MATERIA + CAPITALI + ATTIVITA’ ECONOMIA (produzione e commercio) + MERCATO, con alcune varianti di interpretazione e peso, ma nella sostanza con partitura sostanzialmente simile. Poi c’è il rapporto tra economia e politica ma questo è un altro tema. Se quindi, non c’è più una vantaggio comparato di modo, allora il peso volumetrico del Paese-economia, farà la differenza.
Ma poi l’angoscia aumenta perché si va scoprendo anche un’altra legge naturale assai semplice e volgare ovvero che essere all’inizio o alla fine del ciclo di sviluppo, fa la differenza. All’inizio è tutto molto semplice, serve tutto, c’è domanda potenziale che traina senza problemi. Alla fine, non sai più cosa inventarti per trainare il fatto economico. Hai già fatto la rivoluzione energetica, meccanica, elettrica, chimica, dopo la guerra euro-mondiale dei trenta anni hai ricostruito quello che ti eri buttato giù da solo, hai inventato il consumismo, ma negli ultimi decenni hai inventato solo il digitale e cominciato ad applicare la tecno-scienza al biologico. Per carità, strade interessanti ma non del volume ed intensità economica della quadruplice rivoluzione a cavallo tra XIX-XX secolo o della ripresa post bellica. Pensi di tenere in piedi la tua complessa società del “benessere per il maggior numero” con le app? Auguri!
Ecco dunque che improvvisamente (“improvvisamente” perché la tua idm era impostata per leggere altre cose del mondo ed i segnali obiettivi, del tutto concreti e palesi, non sei stato in grado di leggerli per tempo) scopri che sei diventato un peso medio in un mondo di pesi massimi, che tali pesi massimi diventeranno demograficamente sempre più voluminosi e tu sempre meno, che non ti protegge più alcuna specialità competitiva, che sei alla fine del ciclo di sviluppo ed arranchi ad inventarti cose che ti ridiano la potenza della giovinezza mentre la megafauna demografica ha davanti a sé decenni di case, auto, strade, porti, aeroporti, televisioni, telefoni e computer da poter produrre per saziare la fame di benessere delle loro giovani e voluminose popolazioni.
In termini di geoeconomia poi, ti accorgi che 7+1 delle prime dieci posizioni del 2005 erano occidentali mentre nel 2035 saranno solo 4 ed il Giappone che prima potevi contare come del tutto “occidentale”, ora rischia di dover esser contato come asiatico. Su le prime 11 posizioni, 5 saranno asiatiche sempre che tu non voglia contare anche la Russia che stai ostracizzando e spingendo in tutti i modi lì dove non sembra ti convenga poi così tanto, così saranno 6, saranno un “sistema”, un sistema basato su un contesto che conterà il 60% della popolazione mondiale, che con un 20% di Africa farà l’80% del mondo. Quel mondo di cui solo un secolo fa eri un terzo. E che tu potrai continuare a contare USA-UK-Germania e Francia come appartenenti ad un unico sistema è anche molto dubbio. Poiché dalla geoeconomia alla geopolitica il passo è breve, ne dovresti dedurre la auto-evidenza del nuovo formato multipolare ed il problema del “con”-“dominio” sul mondo, ma l’argomento non ti piace e quindi fai finta di niente. Oppure sbraiti contro il Nuovo Ordine Mondiale perché hai letto o fai finta di aver letto qualche romanzo distopico che ti ha turbato.
Tutto questo dice già abbastanza cose da meritare una riflessione ponderata. Devi solo aggiungere altre tre cose. La prima è il tempo estremamente breve in cui questi potenti fenomeni si sono prodotti. Forse meno brevi di quanto tu ti sia accorto visto che non vedevi certe cose perché la polarizzazione dei tuoi occhiali non permetteva ai fotoni di quei fenomeni in atto di raggiungere la tua cornea e poi la tua corteccia prefrontale (La regione implicata nella interpretazione del mondo attorno, nella pianificazione dei comportamenti cognitivi complessi, nell’espressione della personalità, nella presa delle decisioni e nella condotta sociale). Inoltre, chi domina il tuo mondo, s’è votato al “buying time” (guadagnar tempo) perché non trovava soluzioni secondo lui “idonee” a risolvere la brutta equazione e quindi ha evitato si tematizzasse il tema. La seconda cosa è che è molto dubbio che il modo economico moderno nato in Europa da quattro secoli fa quando sul pianeta si era 650 milioni in tutto, possa funzionare in un mondo di 8-9 e passa miliardi di persone. A cominciare dal punto di vista ambientale. La terza è riflettere sul perché tu ti ostini a parlare soprattutto di economia, ma anche di società, politica e geopolitica con categorie e giudizi forgiati almeno due secoli fa, il pensiero riflette il suo tempo, cambia il tempo dovresti cambiare anche le forme del pensiero, o no?
Non ti sembra quindi opportuno e prioritario cominciar dal fare una riflessione su come rifletti? Se perdi la facoltà di comprendere il mondo, come potrai darti un futuro?
La prima parte di questo sondaggio in due parti può essere trovata qui .
Trump ha aperto il più grande dibattito di politica estera negli Stati Uniti da decenni, dopo essere stato eletto nel 2016 sulla sua promessa di ridefinire il rapporto dell’America con il mondo. La sua risposta, “America First”, ha sfidato alcuni postulati dell’azione estera del paese e ha posto la questione del legame tra politica estera e politica interna al centro del dibattito democratico. Dopo una prima sezione dedicata alla dottrina Trump , questa seconda sezione si concentra sulla visione, o più precisamente sulle visioni democratiche in politica estera: la dottrina Biden non esiste ancora, e si cristallizzerà solo sotto la prova di potere ed eventi dei prossimi anni. Ma è stato costruito da un’eredità di Trump che non negherà del tutto.
Ricostruisci dopo Trump
Il campo democratico condivide la diagnosi trumpiana di una crisi nella politica estera americana. La specificità del 2016, al di là di Trump, era legata alla specificità del momento per la politica estera, cristallizzando una doppia crisi, e in particolare una crisi interna di legittimità della politica estera: il fatto che gli americani non sostenessero più, e non capiva più l’azione esterna del Paese. Le élite democratiche specializzate in politica estera hanno visto questa crisi e hanno trascorso quattro anni cercando di trarne le conseguenze.
Così va inteso lo slogan “ Build back better ” della campagna Biden: ricostruire meglio e in modo diverso, come dopo un disastro naturale. La frase è il filo conduttore del nuovo consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan, che lo ha già assunto nel gennaio 2019. Non è un promemoria del truismo democratico che da tempo ripete che il potere esterno deve basarsi sul potere interno: l’ondata populista è passata da qui, ed è una riflessione sul 2016 e sul voto di Trump che lasciano i Democratici di oggi.
La dottrina Biden non esiste ancora e si cristallizzerà solo sotto la prova del potere e gli eventi dei prossimi anni. Ma si basa su un’eredità di Trump che non negherà del tutto.
MAYA KANDEL
Al centro della formula, portata dallo stesso Sullivan, troviamo questa diagnosi secondo la quale gli americani non sostengono più la politica estera perché sentono che non serve più i loro interessi: il che porta al secondo slogan del E ‘l’era Biden, già indossata da Elizabeth Warren durante le primarie, ovvero la volontà di fare “una politica estera per la borghesia” (americana, ovviamente). Questo è anche il titolo di un rapporto del think tank Carnegie, pubblicato a fine settembre ma frutto di un lavoro durato diversi anni lontano da Washington, per sondare gli americani nel “cuore del Paese” sulla loro visione e sulle loro aspettative. -politica estera visibile: questo rapporto, giustamente intitolato ” Far funzionare la politica estera per la classe media »Chiede di ripensare il ruolo internazionale del paese; tra i suoi coautori troviamo Jake Sullivan.
La nuova amministrazione democratica eredita altri elementi, grazie ancora a Trump, che lo ha reso possibile, proprio perché non era un esperto (eufemismo) e voleva scuotere il sistema, per mettere in discussione alcuni presupposti: esso È qui che troviamo l’altro slogan comune a entrambe le parti, la “fine delle guerre infinite” in Medio Oriente, un altro modo per porre fine al periodo successivo all’11 settembre 2001 (l’accelerazione degli annunci di ritiro – Afghanistan , Iraq, Somalia – dal momento che la sconfitta di Trump è adatta ai Democratici, che hanno protestato meno dei loro omologhi repubblicani). Vale anche la pena menzionare qui la messa in discussione del libero scambio su uno sfondo di critiche populiste sia da destra che da sinistra, considerando che la globalizzazioneavvantaggiavano le multinazionali e i loro profitti molto più degli interessi dei cittadini (anche se i consumatori potevano comprare a meno). Aggiunto alla fine del ruolo americano di “poliziotto del mondo”, già respinto da Obama con il pretesto di diminuire i mezzi, è infatti il periodo del dopo Guerra Fredda che si chiude anche per i Democratici, con la comune constatazione del fallimento. del principio guida della politica estera americana dal 1990 che postulava l’idea che l’inclusione dei rivali nel sistema internazionale li avrebbe resi partner responsabili (anche, idealmente, democrazie liberali): Cina e Russia non sono diventate nessuno dei due, mentre la relativa potenza americana è diminuita di fronte all’ascesa dei paesi emergenti, a cominciare dalla Cina.di un “realismo” a lungo diffamato nell’intellighenzia di politica estera: ” realismo con principi ” nella dottrina Trump (una formula usata nella strategia di sicurezza nazionale del 2017), ” realismo progressista ” per la sinistra del partito democratico, il che suona in entrambi i casi come ammettere i limiti del potere americano.
La visione democratica differisce dalla dottrina Trump su due caratteristiche centrali: minacce e mezzi (il punto di partenza e il cuore della strategia). La prima divergenza strategica riguarda non solo la gerarchia delle minacce, ma anche più profondamente la loro natura. L’agenda democratica enfatizza le minacce globali e transnazionali, ampiamente ignorate dai repubblicani, e si colloca persino ai vertici come minaccia “esistenziale” – alla pari del comunismo durante la guerra fredda – non la Cina, ma il cambiamento climatico. La divergenza sui mezzi deriva principalmente da questa visione più ampia delle minacce, poiché la cooperazione internazionale diventa una condizione necessaria per affrontarle laddove l’amministrazione Trump aveva fatto dell’unilateralismo (o bilateralismo) il suo approccio unico alle relazioni internazionali. . Riscopre la tradizionale insistenza democratica sulla diplomazia e contro l’eccessiva militarizzazione della politica estera americana. Il multilateralismo nasce da questo per i Democratici, come metodo ma anche come principio, quello basato sulla convinzione che alleati e partner siano ancora il principale moltiplicatore di potere degli Stati Uniti sulla scena internazionale. Questa prospettiva non contraddice in alcun modo il fatto che un presidente americano abbia come priorità la difesa degli interessi americani, e non impedirà un approccio più nazionalista o patriottico alla definizione di questi stessi interessi; ma implica l’esistenza di una comunità internazionale, un’esistenza che il team di Trump aveva negato fin dall’inizio attraverso la voce del suo secondo segretario alla sicurezza nazionale, HR McMaster. Anche un simile approccio si opponela visione hobbesiana di uomo Trump affare , per i quali le relazioni internazionali non può essere un gioco a somma zero: i democratici ritengono che siamo in grado di proporre i propri interessi senza necessariamente danneggiare degli altri, anche spostandoli anche in avanti. Infine, Biden e la sua cerchia ristretta vogliono anche ricostruire una base bipartisan per la politica estera, al fine di garantire la stabilità dei principali orientamenti esterni del Paese: questo risponde a una preoccupazione di efficienza, ma anche al fatto che il principale pericolo di polarizzazione della politica estera è la perdita di fiducia dei partner di fronte alla cronica instabilità degli impegni internazionali degli Stati Uniti dalla fine della Guerra Fredda.
L’agenda democratica enfatizza le minacce globali e transnazionali, largamente ignorate dai repubblicani, e pone addirittura ai vertici come minaccia “esistenziale” – alla pari del comunismo durante la Guerra Fredda – non la Cina, ma il cambiamento climatico.
MAYA KANDEL
Ripoliticizzare la politica estera
Il filo conduttore del pensiero democratico, logica conseguenza della polarizzazione della politica estera americana, è quello della ripoliticizzazione della politica estera nel suo insieme, anche nella definizione degli interessi nazionali. Sullivan ha menzionato, nel suo articolo del 2019, uno scambio sintomatico con l’economista Jennifer Harris che gli ha chiesto perché la sua amministrazione seguisse comunque esattamente la stessa politica economica internazionale, quando la politica estera di Obama doveva essere una rottura con quella di Bush. Questa critica evoca il grilletto per la critica populista della politica estera (rifiuto di TINA, There Is No Alternative, un altro nome del consenso neoliberista prevalente dagli anni ’80 fino alle sue recenti critiche), ricorda la necessità di studiare la base elettorale della politica estera, perché le questioni interne ed esterne sono intrecciate – ciò che i cittadini sanno. Si pone la necessità di ripensare la natura e il posto della politica economica internazionale al centro della strategia, argomento su cui hanno lavorato anche gli stessi Sullivan e Harris in un articolo dal titolo originale premonitore ( Neoliberalism is done ), mettendo in discussione il postulati neoliberisti che hanno guidato la politica economica dall’era Reagan-Thatcher.
L’ ambizione di spazzare via quello che altri chiamano il “Washington consensus” sopravviverà ai vincoli politici americani? La domanda può essere posta, sia alla luce delle attuali condizioni politiche a Washington, sia per la molteplicità dei punti di vista democratici. Thomas Wright, analista presso la Brookings Institution di Washington, ha proposto una dicotomia tra restaurazione o riforma come griglia per interpretare la politica estera di Biden, visto che il dibattito principale si svolge all’interno di circoli centristi, tra lealisti della linea Obama (restaurazione) e desiderio di diritti di inventario (riforma) . Siamo tentati di aggiungere “rivoluzione” per tener conto del peso dei progressisti della tendenza AOC-Sanders (i Warrenisti sono più dalla parte dei riformatori della griglia di Wright) nel dibattito di politica estera. Il fatto che la sinistra della sinistra democratica intenda influenzare il dibattito di politica estera è già un fatto nuovo che guida le scelte della prossima amministrazione. La differenza si giocherà, per il mondo come per gli americani, sulla politica economica internazionale, soprattutto sul commercio, in particolare nelle sue variazioni sulla tecnologia e sul clima. Con speronela questione cinese , come per la dottrina Trump – uno sprone che potrebbe diventare il motore o addirittura la principale continuità, a causa delle condizioni politiche degli Stati Uniti contemporanei evidenziati dalle elezioni del 2020: una vittoria democratica molto netta a livello nazionale, ma una base elettorale trumpista consolidata e ampliata, risultante in termini politici da un equilibrio di potere quasi uguale, con forse il mantenimento di un Senato repubblicano (risposta dopo il 5 gennaio 2021 e risultati dei due secondi turni delle elezioni senatoriali in Georgia). Ma l’agenda molto ambiziosa di Biden deve passare attraverso la legislazione. Il suo margine di manovra dipenderà quindi in larga misura da questo “terzo turno” delle elezioni, i due senatori georgiani, che determineranno gli equilibri politici all’interno del Senato.
Se il suo margine di manovra fosse limitato a livello nazionale da un Senato repubblicano, Biden potrebbe essere spinto ad agire più a livello internazionale dove l’azione del Presidente è meno vincolata dal Congresso. Tuttavia, l’amministrazione dovrà fare i conti da un lato con i due poli di un partito repubblicano diviso tra tendenze trumpiste all’isolazionismo e fautori di un internazionalismo militarista ora anti-cinese, e dall’altro si scontrerà con le divisioni del Campo democratico sulla politica estera. La ricerca di un sostegno bipartisan potrebbe in particolare irrigidire la politica cinese dell’amministrazione Biden, con conseguenze per il posizionamento europeo e lo sviluppo delle relazioni transatlantiche .
L’agenda molto ambiziosa di Biden deve passare attraverso la legislazione. Il suo margine di manovra dipenderà quindi in larga misura da questo “terzo turno” delle elezioni, i due senatori georgiani, che determineranno gli equilibri politici all’interno del Senato.
MAYA KANDEL
Ridefinire la sicurezza nazionale: l’offensiva progressiva
La pandemia e l’anno 2020 hanno fatto luce sulla portata dei movimenti nati o decollati dall’inizio della presidenza Trump, e soprattutto hanno permesso la loro cristallizzazione in una mobilitazione di massa popolare dopo la diffusione dell’assassinio di George Floyd. Sono infatti la reclusione, la disoccupazione forzata e gli effetti della pandemia che non solo hanno alimentato la frustrazione, ma hanno anche permesso la consapevolezza e le manifestazioni massicce, insolite e storiche della popolazione americana. Le mobilitazioni riunite ben oltre gli attivisti di Black Lives Matter , hanno illustrato i legami e le convergenze di questi movimenti (dal Sunrise Movement al Working Families Party attraverso i Justice Democrats e molti gruppi femministi, etnici, LGBTQA +, ecc.), e hanno mostrato la forza dei “nuovi attivisti” – per citare l’espressione nell’eccellente libro di Mathieu Magnaudeix, movimenti nati o che hanno ha acquisito uno slancio notevole durante i quattro anni di presidenza di Trump. Questi sviluppi hanno trasformato la candidatura di Biden, costringendo il candidato a coinvolgere da vicino i progressisti nello sviluppo del suo progetto, con la costituzione di gruppi di lavoro tra il suo team e quello di Sanders, e più in generale alla sua futura amministrazione, con il reclutamento all’interno del suo stretto staff di personalità appartenenti a minoranze etnico-razziali. Senza la fine delle primarie e la rinuncia e il chiaro raduno di Sanders da marzo 2020, possiamo immaginare che il campo democratico non si sarebbe avvicinato alla campagna generale nello stesso stato, e probabilmente non avremmo conosciuto una tale collaborazione. durante la campagna tra le due ali nemiche. Questa trasformazione ha colpito per la prima volta il clima economico del programma , incluso Biden, a metà luglio dal programma soprannominato Sunrise Movement , che era molto critico nei confronti del piano Biden di pochi mesi fa.
La progressiva offensiva per realizzare un vero cambiamento sistemico si è manifestata anche in politica estera. Questo aspetto segna una rottura con i Democratici – un segno della fine dell’era post-Guerra Fredda – al di là anche della messa in discussione di ciò che aveva guidato l’atteggiamento della sinistra durante la Guerra Fredda almeno fino a «la guerra del Vietnam: l’accettazione di un accantonamento nella politica interna, lasciando agli esperti di strateghi la conduzione degli affari esteri a causa dell’imperativo imperativo di lottare contro l’Unione Sovietica; a quel tempo, la politica estera era destinata anche a servire le classi medie perché garantiva la crescita economica (che in genere era il caso all’epoca). Dopo il Vietnam, la sinistra di sinistra si è poi trovata in una posizione pacifista e antimilitarista, senza però investire in politica estera al di là dell’opposizione aperta. Dopo la Guerra Fredda, alcuni pacifisti storici, come il rappresentante Ron Dellums, si erano persino uniti ai sostenitori degli interventi umanitari, in particolare negli anni ’90 (Bosnia, Haiti). Nel 2016, Sanders stava ancora relativamente trascurando la politica estera. Le primarie democratiche del 2019, al contrario, sono state l’occasione per affascinanti dibattiti sulla definizione di a in particolare durante gli anni ’90 (Bosnia, Haiti). Nel 2016, Sanders stava ancora relativamente trascurando la politica estera. Le primarie democratiche del 2019, al contrario, sono state l’occasione per dibattiti affascinanti sulla definizione di a soprattutto durante gli anni ’90 (Bosnia, Haiti). Nel 2016, Sanders stava ancora relativamente trascurando la politica estera. Le primarie democratiche del 2019, al contrario, sono state l’occasione per dibattiti affascinanti sulla definizione di a politica estera di sinistra . Questo sviluppo è indicativo delle crescenti ambizioni e del peso dell’ala progressista nel dibattito sulle idee democratiche e della strategia, in particolare del gruppo Justice Democrats , di esercitare influenza dall’interno del sistema. Dopo ulteriori vittorie progressiste alle primarie del 2020, la sconfitta a New York del rappresentante Elliot Engel (presidente della commissione per gli affari esteri della Camera) ha portato a una lettera di quasi 70 organizzazioni progressiste, di solito incentrato sulla politica interna, chiedendo alla presidenza di questa Commissione decisiva di tradurre le idee progressiste nella politica estera americana: “moderazione e realismo progressista”, rivalutazione degli strumenti di politica estera (diplomazia, interventi militari, sanzioni, ecc.) e ridefinizione degli obiettivi (lotta alla corruzione, tutela della biodiversità, trattamento di alleati e avversari, ecc.).
Le primarie democratiche del 2019, al contrario, sono state l’occasione per dibattiti affascinanti sulla definizione di una politica estera di sinistra. Questo sviluppo è indicativo delle crescenti ambizioni e del peso dell’ala progressista nel dibattito sulle idee democratiche e della strategia, in particolare del gruppo Justice Democrats , di esercitare influenza dall’interno del sistema.
MAYA KANDEL
Alla sua nomina, Jake Sullivan ha annunciato di voler ampliare la definizione del concetto di “sicurezza nazionale” che determina gli obiettivi dell’azione internazionale del Paese. Lo sviluppo più interessante finora è la scelta di John Kerry come inviato speciale per il clima e, soprattutto, la decisione di dargli un seggio e quindi una voce nel Consiglio di sicurezza nazionale alla Casa Bianca. , al centro dello sviluppo della politica estera. Il segnale è chiaro ed è stato richiamato sia da Kerry che da Sullivan durante le rispettive nomine: il cambiamento climatico deve essere integrato nel pensiero della sicurezza nazionale e la diplomazia climatica sarà al centro della politica estera. Se c’è un argomento in cui europei e americani dovrebbero essere alleati naturali, è quello del clima; questa considerazione del clima si può trovare anche su tutte le questioni di politica interna, dall’agricoltura ai trasporti e alle infrastrutture, essendo l ‘” ambizione climatica ” apparentemente un criterio per il reclutamento nel team di Biden. È anche un argomento su cui la conversazione deve includere la Cina, e apre orizzonti emozionanti (chiariti qui da Pierre Charbonnier), per trasformare il pensiero geopolitico e geoeconomico, anche per l’Europa che dovrebbe coglierlo. È qui che si gioca anche una parte dell’ambizione dell’amministrazione Biden.
Un aspetto cruciale – soprattutto per l’Europa – sarà sicuramente il ruolo di Janet Yellen, nominata alla carica di Segretario del Tesoro e che sarà responsabile come tale della diplomazia economica dell’amministrazione Biden. Il suo slogan sarà con tutta probabilità ereditato anche da Trump, che ha aggiornato i principi geoeconomici definiti da Edward Luttwak alla fine della Guerra Fredda: la sicurezza economica è sicurezza nazionale. Da questo punto di vista, la sicurezza economica ha la precedenza sulle alleanze geopolitiche, e non il contrario. Yellen giocherà anche un ruolo di primo piano nella politica cinese, dal momento che gli elementi più decisivi messi in campo dall’amministrazione Trump sono stati posti dal Tesoro (elenco di entità e sanzioni extraterritoriali in generale). fiscalità nazionale e internazionale nel programma Biden. Avrà il controllo sul destino dei decreti e dei regolamenti messi in atto dall’amministrazione Trump dopo il voto sulla riforma fiscale da parte del Congresso repubblicano alla fine del 2017, in particolare per quanto riguarda la tassazione delle multinazionali. Il suo tandem con il nuovo capo del commercio della Casa Bianca, Katherine Tai, sarà sicuramente una parte fondamentale delle prossime relazioni transatlantiche.
Un aspetto cruciale – soprattutto per l’Europa – sarà sicuramente il ruolo di Janet Yellen, nominata alla carica di Segretario del Tesoro e che sarà responsabile come tale della diplomazia economica dell’amministrazione Biden.
MAYA KANDEL
Ripensare le relazioni internazionali nel XXI ° secolo: la sfida cinese, l’emergenza clima
La Cina divide i Democratici (come i Repubblicani), e questo anche all’interno del campo progressista: tra chi rifiuta una nuova guerra fredda ma intende lottare contro un asse autoritario internazionale, e chi preferisce concentrarsi sui temi della cooperazione e un disimpegno militare americano. Ci sono molti intorno a Biden, tuttavia, soprattutto nella comunità strategica, che vedono la sfida cinese alla superpotenza statunitense come la principale sfida per la politica estera degli Stati Uniti nel ventunesimo secolo e come l’unico modo per ricostruire una politica estera. solido e affidabile perchébipartisan . Alcuni vanno anche oltre, vedendo nella questione cinese il modo migliore per Biden, in caso di Senato repubblicano, di fare politica estera e politica interna: una forma di inversione dell’adagio del senatore Vandenberg ( politica si ferma al bordo dell’acqua, il che significava che l’interesse nazionale era superiore – e indipendente da – qualsiasi posizione politica interna e quindi di parte); La Cina, come unico punto di convergenza della politica interna, diventa così il pretesto per la politica interna (per il commercio, la tecnologia, le infrastrutture, ecc. Tutto sotto l’ombrello della concorrenza con la Cina). Ovviamente non sarebbe la prima volta nella storia americana che un evento esterno servisse da pretesto per la trasformazione interna, essendo numerosi gli esempi storici da Hamilton a Roosevelt e Reagan. Ma sarebbe anche un ritorno a una gestione “tecnocratica”, presumibilmente “politicamente neutrale” della politica estera e degli interessi nazionali – precisamente il cuore dell’attuale protesta.
In un ottimo articolo elencando diversi lavori recenti, l’economista Adam Tooze ha ricordato che la fine del periodo post-Guerra Fredda ha chiuso anche il periodo in cui gli Stati Uniti credevano di poter considerare le sfere economiche e strategiche come separate artificialmente o indipendenti da una delle Un’altra: nella tesi di Fukuyama sulla fine della storia c’era proprio questa idea che la crescita economica grazie alla globalizzazione potesse essere “geopoliticamente neutra”. Si volta pagina su quella che non è mai stata una finzione basata sull’idea che la globalizzazione americana fosse, come l’egemonia americana, necessariamente “benevola”, e sull’euforia globalizzante legata alla fine del guerra fredda. Nella comunità strategica americana, è davvero la realtà e “l’enormità” (come la chiamava giustamente Fareed Zakaria ) del potere cinese che spiega la svolta strategica dell’era Trump, l’adozione di un atteggiamento ostile – molto più che la preoccupazione per il deficit commerciale o la scomparsa dei lavori non qualificati dei colletti blu del Rust Cintura. È così che dobbiamo intendere il rilancio del concetto di “geoeconomia”, che Luttwak aveva avanzato proprio alla fine della Guerra Fredda. Il Pentagono ne è consapevole da tempo e il legame tra sicurezza nazionale e sicurezza economica è onnipresente nella Strategia di difesa 2018 . La questione della leadership tecnologica e del futuro di Internet è al centro di questo nuovo approccio.
Mentre i leader americani (ed europei) hanno appena ammesso il legame tra la globalizzazione delle democrazie di mercato guidata dalle amministrazioni Clinton e Bush e l’attuale regressione democratica nella stessa area euro-atlantica, il concorrente progetto cinese di Routes de La seta riguarda una parte crescente dell’umanità e il suo modello di governo tecno-autoritario viene esportato in tutto il mondo. Il risveglio americano è troppo tardi? Adam Tooze conclude sulla necessità di pensare e fare il passo successivo, immaginare una forma di rilassamento sullo sfondo di una nuova era segnata dalla consapevolezza della sfida esistenziale posta dall’Antropocene – la pandemia del 2020 è il segno che questa era è iniziato. La domanda quindi è se americani ed europei, che lì potrebbero svolgere un ruolo veramente geopolitico, si daranno i mezzi per diventare loro stessi quello che lui voleva dai cinesi: partner responsabili e competenti, impegnati a gestire – se non risolvere – i rischi e le sfide di questa nuova era.
Accordo sulla Brexit fatto. Ora bisogna certamente lasciare il tempo di far leggere agli esperti le oltre 2000 pagine ma qualche considerazione preliminare può essere fatta sulla base di quanto letto sul Financial Times che è certamente un quotidiano britannico, ma altrettanto certamente era schierato con gli eurofili britannici.
Il punto dirimente per come la vedo io è che Londra ottiene una corte apposita che arbitri le controversie che si verificheranno in futuro. La Corte di Giustizia europea è tagliata fuori. Dunque la Gran Bretagna esce nettamente dal giogo europeo.
L’Europa si accontenta dell’uovo oggi lasciando perdere la gallina domani: niente dazi e contingentamento di merci, dunque non perde il ricco mercato britannico.
Dunque, uno a uno? Direi di no, la Eu ha accettato questo compromesso perchè nelle more del disastro economico in corso la perdita del mercato britannico sarebbe stato un danno devastante, in alcuni stati in particolare; Francia che ha uno dei suoi pochi segni positivi sulla bilancia commerciale proprio con la Gran Bretagna, Irlanda, che se perdesse il mercato inglese o muore di fame o osce dalla Ue, ma anche Italia e ovviamente Germania hanno molto da perdere, la Germania certo poteva resistere il colpo, ma all’Italia mancava solo questo per completare un disastro a livelli che è impossible anche immaginare la profondità. Bruxelles tutto sommato limita i danni immediati. Ma perde la speranza di tenere Londra come una sorta di protettorato a sovranità limitata.
In compenso i danni a lungo termine per la UE sono devastanti. Perde il primo esercito, la prima diplomazia, il primo mercato finanziario, la seconda economia della UE. Lascia inoltre a Londra la possibilità di maramaldeggiare diplomaticamente. E soprattutto è indicata la strada per l’uscita agli scontenti. Ora tutti sanno che si può e che la UE non è così forte da poter infliggere danni irreparabili né diplomatici, né economici. Grazie Boris!
I Next Generation EU (recovery fund), in via di presentazione ed elaborazione da parte dei vari paesi aderenti alla UE, sono una straordinaria occasione per tentare di comprendere il punto di vista delle diverse classi dirigenti europee, riguardo al tipo di rappresentazione della crisi in corso, alle scelte strategiche per affrontare i mutamenti ed i riposizionamenti, alla consapevolezza dell’adeguatezza degli strumenti operativi necessari e disponibili rispetto agli obbiettivi.
Una occasione straordinaria, appunto, ma a condizione di non cadere nella trappola della fiera delle mirabilie nella quale ci stanno trascinando quelle classi dirigenti e quei ceti politici nazionali europei, in prima fila pateticamente gli italiani, i quali stanno puntando tutto ed univocamente su un intervento europeo dal carattere salvifico.
L’entità reale delle cifre non è ancora affatto scontata. La loro ripartizione tra indebitamento e sussidio ai beneficiari è ancora tutta da consolidare. Lo stesso vale per la effettiva composizione del carnet secondo la ripartizione dei fondi accumulati derivanti dall’inedita imposizione diretta degli organismi amministrativi comunitari, dall’emissione di titoli di indebitamento comuni e dalla contribuzione diretta degli stati nazionali. Per non parlare di una tempistica e di una diluizione degli interventi agli antipodi di un efficace intervento anticiclico. La consueta piega che sta prendendo l’istruzione della pratica NGEU, destinato a seguire pedissequamente il canovaccio delle collaudate procedure decisionali comunitarie, lascia presagire l’introduzione di condizionalità variabili in corso d’opera in funzione del grado di dipendenza da NGEU degli interventi nazionali. Se infatti per l’Italia il peso relativo di NGEU, unito ad altri importi residuali, si avvicina nella spesa di investimento pericolosamente al 100% dell’intervento complessivo, per la Germania ad esempio non arriva, secondo stime attendibili, nemmeno al 30%. Gli stessi fondi NGEU tra l’altro potranno assorbire e sostituire investimenti già in corso. Tutte dinamiche ed inerzie in grado di acuire come si vedrà il divario tra ambizioni dichiarate e risultati effettivi; per meglio dire in grado di mettere a nudo i reali obbiettivi strategici di fondo.
Paradossalmente tutte incognite, inerzie, logiche che fungono da ulteriore cartina di tornasole nel valutare la qualità dei ceti politici e delle classi dirigenti italici ed europei.
I piani esaminati sono quelli tedesco, francese ed italiano. Al momento quello tedesco è il più scarno ed essenziale negli indirizzi, anche se il giudizio è fondato sulla lettura di una mera sintesi della quale si offre uno schema predisposto da un collaboratore del sito:
IL PIANO TEDESCO
130 Miliardi totale
80 Miliardi nel breve termine, 50 miliardi investimenti a medio-lungo termine
35 miliardi sono dedicati alla voce greem automotive, H2
riduzione IVA del 3% per sostenere il potere d’acquisto
riduzione del costo dell’energia elettrica alle famiglie PMI
introduzione della tassa sulla CO2
niente bonus alle auto con motori a combustione interna
sviluppo delle stazioni stradali di e.e. e filiera delle batterie per auto
aumento di capitale delle ferrovie statali
pochi soldi sul risparmio energetico negli edifici
pochi soldi, quasi nulla per le politiche attive del lavoro
In breve importi non disdicevoli, ma largamente sottodimensionati rispetto alle potenzialità dell’economia tedesca; investimenti diretti indirizzati prevalentemente nel settore dei trasporti ferroviari e soprattutto delle infrastrutture stradali e industriali legate alla trazione elettrica, in un paese che a dispetto degli attivi commerciali stratosferici, ha lasciato languire malinconicamente il livello di efficienza delle infrastrutture. Per il resto si cade nella più tradizionale e generica politica di sostegno della domanda attraverso riduzioni fiscali e di tributi, tassazione mirata sulle emissioni ed incentivi agli acquisti e alla ricerca nel più tradizionale e più importante dei settori, dal punto di vista delle dimensioni economiche e delle implicazioni sociali, quello automobilistico. Si direbbe un classico esempio di perfetta ed anonima efficienza tedesca. E tuttavia il piano, preso a se stante, assume dimensioni ingannevoli in due sensi. Le dimensioni dell’intervento diretto del Governo Centrale tedesco e dei suoi laender vanno ben oltre quelle legate all’intervento europeo e soprattutto sfuggono in gran parte ai criteri di controllo ed applicazione europei. Il sistema neocorporativo che lega i destini e le strategie dello Stato, in particolare dei laender, dell’industria manifatturiera, del sistema bancario-finanziario e delle associazioni garantisce un indirizzo e pilotaggio delle risorse massiccio e capillare. Tutto bene quando si tratta di proseguire nello statu quo, sia pure dorato, attraverso il controllo sempre più stretto e ferreo delle catene di valore e di produzione, degli stessi standard di esecuzione resi possibili dai processi di digitalizzazione di secondo e terzo livello e da una intermediazione bancaria e finanziaria resa sempre più accessibile a tutto il settore grazie soprattutto alle garanzie offerte dalle aziende capofila del prodotto finale e alle coperture politiche-economiche ad esse garantite.
Una prospettiva, nelle more, che lascia entusiasti i giornalisti e scribacchini benpensanti del Corriere della Sera, i quali al pari della quasi totalità del ceto politico e della classe dirigente nazionali ritengono del tutto irrilevante ed ininfluente il livello di autonomia decisionale e di controllo gestionale delle aziende rispetto alla sovranità e alla coltivazione degli interessi nazionali. Irrilevante ed ininfluente, tranne che nella forma puerile e cialtrona di una tifoseria calcistica alla quale spesso ci hanno abituato ed indotti le classi dirigenti sorte dall’Unità Nazionale.
L’altro senso rappresenta il vero lato oscuro di un paese, la Germania che non ostante e proprio grazie alla sua potenza economica rischia di essere sempre più la zavorra in grado di annichilire le volontà e le velleità di indipendenza politica di un continente. Una conformazione e una dinamica di esercizio di potere interni in una collocazione geopolitica e geoeconomica che inibisce ogni seria ambizione di sviluppo nei settori strategici del controllo e gestione del digitale di primo livello, dell’aerospaziale, delle biotecnologie. Il poco che si riesce o si tenterebbe di fare (il progetto Gaya nel digitale, il progetto Galileo nel controllo dei posizionamenti, il Consorzio Airbus nell’aereonautica) nasce monco soprattutto nella sua parte militare, nasce spesso con ritardi incolmabili, sono frutto di fatto della esclusiva gestione cooperativa e conflittuale franco-tedesca, sono oggetto di mercimonio con la potenza egemone occidentale. In realtà la potenza tedesca continua ad essere un tramite di controllo geopolitico e di drenaggio di risorse, specie finanziarie, costretta a pagare pesantemente i propri radi sussulti di potenza di seconda se non di terza categoria. Lo si vedrà con la strisciante e possibilmente controllata distruzione di capitale legata alla crisi di Deutsch Bank e Commerzbank; lo si è visto nella trappola in cui è caduta il colosso della Bayer con l’acquisizione della americana Monsanto sino alla batosta nel settore automobilistico. Una propensione che si conferma e si accompagna ad un atteggiamento ottuso sul problema ambientale che accompagna il processo di decarbonizzazione a quello di denuclearizzazione. Una trappola ben conosciuta nell’Italia degli anni ‘80/’90, ma che evidentemente riesce a trovare nuovi emuli.
GLI ALTRI DUE PIANI IN PARALLELO
Si passa, quindi e ci si dilunga sui due piani esaminati dettagliatamente francese e italiano, senza entrare però troppo in particolari tecnici del tutto ridondanti rispetto alle finalità dello scritto.
Tutti i piani devono seguire obbligatoriamente due parametri stabiliti dalla Commissione Europea (CE) secondo un piano decennale di sviluppo; l’utilizzo di almeno un terzo delle risorse per la riconversione verde dell’economia e un’altra quota significativanell’investimento massiccio nella digitalizzazione dei consumi, dei servizi e dei processi produttivi. Indirizzi i quali a loro volta rientrano pienamente nel filone del Grande Reset, inaugurato tre anni fa a Davos e ripreso in pompa magna in queste settimane anche in risposta all’emergere dei cosiddetti movimenti “nazionalisti e populisti”.
LA GREEN ECONOMY
L’investimento nell’economia verde è legata all’ideologia del catastrofismo ambientale che induce al contrasto ai cambiamenti climatici determinati dall’antropomorfizzazione del pianeta.
Una enfasi che comporta tre implicazioni importanti di natura regressiva e velleitaria:
i cambiamenti climatici, in realtà determinati nella più gran parte da forze ed elementi superiori alle attuali possibilità di controllo dell’uomo, vanno contrastati piuttosto che di essi bisogna prendere atto per adeguare l’intervento umano sul territorio
il problema del cambiamento climatico, spesso e volentieri ridotto ad un problema di riscaldamento e quello dell’inquinamento, spesso e volentieri semplicisticamente e meccanicamente connesso al primo, sono visti come un problema generalista ed universale, piuttosto che come una serie di problemi locali, per quanto sempre più estesi, da affrontare pragmaticamente secondo le condizioni regionali
le massicce dosi d’urgenza e di allarmismo iniettate nell’opinione pubblica impediscono di vedere l’impegno di riconversione delle attività come un lungo processo di transizione dai risultati spesso sperimentali e tutt’altro che certi e definitivi. Le conseguenze cominciano a manifestarsi nella loro gravità e contraddittorietà: il problema ancora insoluto dell’intermittenza della produzione di energia elettrica verde ha generato in California, terra di elezione dell’ambientalismo radicale, estesi e prolungati black out; la soppressione improvvisa e senza alternative dell’utilizzo di alcuni fitofarmaci nella produzione di soia e cereali in Francia ha generato in pochi anni un crollo della produzione di quei prodotti, una diffusione delle malattie in quelle specie e la perdita repentina della sovranità alimentare.
Anche l’approccio più dogmatico deve però in qualche maniera fare i conti con la dura realtà. Tutti e tre i documenti tentano questo bagno di realismo introducendo il concetto di “economia circolare” inteso nel migliore dei casi ancora poco rigorosamente come sistema di recupero e riutilizzo di rifiuti, scarti e prodotti usurati e/o alternativamente come creazioni di economie territoriali tendenzialmente più autosufficienti; nel peggiore dei casi come una scatola vuota dal carattere apertamente reazionario.
Questa l’impostazione di fondo comune che accomuna i due piani, cementata dalla prospettiva di creazione di una tecnologia dei carburanti, l’idrogeno, più promettente e tecnologicamente e industrialmente praticabile nel giro di un paio di decenni.
Una impostazione comune che nasconde una serietà di approccio, una intenzione, se non una capacità operativa e di programmazione del tutto divergente.
In Francia nel piano è evidente il tentativo almeno dichiarato di recupero di territori depressi e periferici attraverso la creazione di una nuova rete di trasporto pubblico, il risanamento e la valorizzazione di territori attraverso la manutenzione resa accessibile e sensata nei costi dal ripopolamento e dalla costruzione di economie pluricolturali fondate su turismo, agricoltura di nicchia, artigianato e piccola industria. In esse, la tecnologia dell’idrogeno assume dichiaratamente un ruolo fondamentale nella costruzione di una rete di trasporti meno inquinanti.
Il piano italiano utilizza gli stessi termini di green economy e di economia circolare per coprire l’estemporaneità degli interventi dagli effetti di qualche utilità nella funzione di moltiplicatore keynesiano immediato, ma del tutto controproducente dal punto di vista della coesione della formazione sociale e delle possibilità di sviluppo serio e duraturo del paese.
Il potenziamento della rete fisica di comunicazione si riduce sostanzialmente alla conferma di tre reti di alta velocità, due delle quali al sud e con esclusione integrale della Sardegna, in un contesto in cui scompare totalmente un ruolo europeo e nazionale dei quattro porti principali del Meridione d’Italia e non si accenna minimamente ad una proiezione del paese e di questi verso le economie del Mediterraneo. È assodato, ma non evidentemente per i nostri, che le reti di comunicazione possono rivelarsi fattori di sviluppo ma anche di regresso e polarizzazione economica se non accompagnate da altre politiche. Grecia docet.
La ricostruzione dei territori degradati e abbandonati si risolve in una serie di manutenzioni e ricostruzione di opere destinate a degradarsi nuovamente in tempi rapidi se non accompagnati da un ripopolamento ed una valorizzazione diversificata di quei territori. Eppure in Italia, anche se pochi, esempi riusciti di salvaguardia e valorizzazione da cui attingere esistono, in particolare in Trentino, in Alto Adige, ma anche in Toscana e in Piemonte. Tutto in realtà sembra risolversi nel potere magico di parole come turismo, cultura, agricoltura quasi che da sole e singolarmente riescano ad assumere una funzione salvifica a prescindere tra l’altro dalla capacità stessa delle realtà economiche nazionali e territoriali di quei settori, in verità sempre più deficitaria di incentivare, attirare e controllare con politiche proprie i flussi.
Un approccio del tutto acritico pervade anche i propositi di ulteriore sviluppo degli impianti di produzione di energia verde, in gran parte intermittente. Nessuna riflessione sulla tempistica e sul sistema dissennato di incentivazione al consumo che ha impedito e nemmeno considerato nei tempi d’oro di inizio millennio l’eventualità di creazione di una industria nazionale dei pannelli e di sistemi di produzione diversificati e di un artigianato locale preparato professionalmente, venuto fuori quest’ultimo a fatica solo a tempi di esecuzione inoltrati dei programmi. Il segno di uno scollamento dalle realtà economiche ed imprenditoriali e di una strutturale incapacità politica di assumere nelle decisioni tutti gli aspetti dei cicli operativi. L’idrogeno è diventata la nuova terra promessa già bella e impacchettata per tutte le occasioni: per le auto, per i treni e le navi, ma anche per salvare e riconvertire la produzione di acciaio dell’Ilva di Taranto. La parola che di per sé si materializza in fatto concreto e tangibile. La tecnologia è in effetti promettente, ma ancora in gran parte da realizzare e da rendere industrialmente praticabile. Soffre soprattutto di un handicap pesante, la conferma che non esistono tecnologie e interventi umani che non abbiano comunque un costo ambientale: i pesanti fabbisogni e costi energetici elettrici necessari a garantire attraverso l’elettrolisi la produzione di batterie ad idrogeno. Fabbisogni dai costi praticabili solo con la presenza di centrali nucleari.
Quali sono i paesi in grado di garantire questi costi e quantità praticabili? La Francia e, in caso di improbabile rinsavimento, la Germania.
Quale è il paese che ha ceduto totalmente il controllo delle tecnologie delle batterie, in pratica del tanto sbandierato e agognato futuro verde dell’economia, quanto meno dei trasporti? L’Italia, ovvero la nostra lungimirante classe dirigente e il nostro preveggente ceto politico, abbagliati dal loro stesso eurolirismo ed ecolirismo e così sempiternamente ossequioso verso una famiglia ormai di predoni, colti ormai con le dita nella marmellata in episodi sempre più meschini, più che imprenditoriale alla quale non si è eccepito nulla riguardo la vendita della Magneti Marelli e di gran parte del patrimonio tecnologico costruito e finanziato pubblicamente in settant’anni. Una condizione ormai ricorrente di un paese disposto a sobbarcarsi entro certi limiti i costi e le incertezze della ricerca ma alla quale manca sempre più di offrire le piattaforme industriali necessarie alla valorizzazione economica e alla tutela delle proprie competenze. Una posizione che le impedisce di entrare a pieno titolo nei processi decisionali e di creazione di nuove realtà industriali e imprenditoriali almeno di livello europeo. Processi per nulla spontanei e per niente determinati da astratti principi di mercato.
Una condizione che risalta ancora più drammaticamente nelle parti dei due documenti che trattano di digitalizzazione, ricerca, applicazioni industriali.
Il documento francese sull’argomento offre tre linee guida e un principio chiari:
la concentrazione e il coordinamento dell’attività di ricerca in sei grandi poli già in fase avanzata di sviluppo
il recupero della tradizione di un paese di ingegneri, matematici e tecnici di alto livello costruita nei tempi d’oro del gaullismo e smarrita drammaticamente negli ultimi due decenni
la creazione di sinergie che consentano la traduzione delle attività di ricerca in applicazioni, sperimentazione e in piattaforme industriali. Sinergie da mettere in pratica con la interazione e la collaborazione a vari livelli tra centri di ricerca, agenzie ibride militari-civili, sistema finanziario, pubblica amministrazione e complessi industriali che guidino le varie fasi ed in particolare quella delle applicazioni industriali attraverso la creazione di start-up e della resa economica attraverso l’offerta di piattaforme industriali adatte a garantire la resa economica su larga scala
il recupero della sovranità nel settore agroalimentare, della produzione di quello sanitario e dei settori strategici ad alta tecnologia laddove il controllo nazionale delle imprese e delle loro strategie assume un aspetto cruciale
Il documento italianorappresenta l’apoteosi dell’estemporaneità e della schizofrenia, in pratica un collage di auspici e denunce sterili:
nessun accenno alla organizzazione e riorganizzazione dei pochi centri di ricerca e delle università come pure nessuna indicazione concreta sul punto cruciale della trasformazione della ricerca in applicazioni industriali sperimentali attraverso la promozione di start-up e soprattutto della creazione, con l’impegno diretto delle imprese di piattaforme industriali in grado di garantire la resa economica su larga scala dei risultati della ricerca. Il documento, denunciando la scarsità di investimenti, affronta il problema con delle tautologie pure e semplici: segnala la scarsa attrazione esercitata sui ricercatori e propone un incremento delle retribuzioni e dei corrispettivi economici senza alcun accenno alla carenza di attrezzature e materiali e soprattutto alla riorganizzazione dei centri di ricerca; segnala la crescente carenza, rispetto alla media europea e ancora più impietosa rispetto ai diversi paesi emergenti ed emersi, di personale tecnico-scientifico altamente qualificato, stigmatizza che il sistema economico italiano non è in grado di assorbire in buona parte quello stesso personale e alla fine si limita ad auspicare una maggiore qualificazione e corrispondenza alle esigenze delle università e delle scuole superiori. Un approccio classico del progressismo democratico che riesce a garantire sì spesso processi di emancipazione individuale, ma che riesce a far diventare le già scarse risorse destinate alla formazione e alla ricerca dei meri costi per la società di fatto sempre meno sostenibili e di fatto giustificabili
se si vuole, ancora più enfasi viene dedicata ai processi di digitalizzazione. Qui l’approfondimento va suddiviso in due parti. Il documento registra a ragione una grande difficoltà nell’implementazione dei processi di digitalizzazione nelle attività produttive, in particolare quelle industriali. Una remora già ampiamente segnalata dall’ex-ministro Calenda, fautore del programma “industria 4.0”. Attribuisce alla insufficiente dimensione e alla scarsa preparazione manageriale delle imprese la scarsa capacità di assimilazione delle nuove tecnologie. Ma anche in questo caso lo sforzo di elaborazione e propositivo si ferma qui o poco oltre. Glissa vergognosamente sulla vera e propria abdicazione della grandissima parte delle famiglie imprenditoriali medio-grandi italiane. In una condizione di pur oggettiva maggiore difficoltà di esercizio delle attività rispetto agli altri paesi e in una situazione nella quale la gestione scellerata delle privatizzazioni e dismissioni ha incentivato le più importanti di esse (Benetton, Agnelli, Pirelli, ………..) a trasformarsi in percettori di rendite da concessioni o in cavalieri di ventura per conto terzi, per lo più stranieri, si assiste ad un vero e proprio esodo biblico, per altro lucroso e ben ricompensato, dalle attività prettamente imprenditoriali a favore di soggetti esteri senza che nessun componente della classe dirigente e del ceto politico abbia e continui ad avere nulla da obbiettare e a maggior ragione senza che gli stessi fossero disposti ad utilizzare gli strumenti legislativi, normativi e finanziari, per altro in buona parte disponibili, tesi a compartecipare e condizionare le scelte delle imprese impegnate in questa fase di transizione. La conferma dei limiti e della grettezza di un ceto, sempre latente a partire dall’unità d’Italia e pronta ad emergere alla luce del sole nei momenti critici come negli anni ‘30, negli anni ‘50/’60, negli anni ‘90 e in maniera ormai endemica in questo ventennio. A questa generale abdicazione e complicità non corrisponde nessun tentativo adeguato di prendere atto della situazione, di conoscerne i meccanismi allo scopo di implementare al meglio i processi di digitalizzazione. La rete di aziende medie e piccole assume certamente queste caratteristiche, buone a garantire flessibilità ma poco adatte a sostenere i costi e le competenze necessari alla digitalizzazione e alla automazione, tanto più che buona parte delle competenze professionali e delle capacità innovative sono legate alla creatività e al patrimonio professionale personale degli operai e tecnici in buona parte fuori dal controllo e dalla standardizzazione manageriale. È altrettanto vero, però, che queste imprese per operare ed aggiornarsi devono disporre di una rete esterna di professionisti ineguagliata nella qualità e soprattutto nella quantità rispetto agli altri paesi europei. Questa rete, in qualche maniera organizzata, probabilmente potrebbe essere uno dei veicoli trainanti di promozione e gestione dei processi. Lo stesso dicasi per lo strumento dei distretti aziendali e per la funzione delle aziende capofila, non a caso nel mirino delle acquisizioni estere, altrimenti poco spiegabili dal punto di vista della redditività delle operazioni. Quanto più però la rete imprenditoriale è frammentata, tanto più occorre una gestione ed un indirizzo politico e strategico saldo e pervasivo, in pratica l’esistenza di un ceto politico e di una classe dirigente ancora più determinata e lungimirante. Una determinazione ed una lungimiranza ancora più incisiva quando deve necessariamente essere applicata all’estero sia nelle sedi istituzionali europee e nei rapporti bilaterali che decidono delle norme di regolazione, dei progetti di collaborazione nei settori, dei programmi ci compenetrazione e compartecipazione delle aziende sia in egual misura nei meandri amministrativi della UE, dove la fa da padrona l’attività lobbistica di imprese e gruppi di pressione, senza nemmeno la relativa trasparenza garantita dalla legislazione americana. Qualità e intraprendenza politiche tanto più necessarie quanto devono sopperire allo scarso peso lobbistico delle aziende e dei gruppi di pressioni italiani.
Le occasioni e gli esempi in corso vanno ancora una volta in controtendenza rispetto alle necessità e alle opportunità e a conferma di un ceto politico e dirigente italico passivo e in perenne attesa, complice. I processi di digitalizzazione della determinazione e regolazione dei flussi nella rete dei trasposti nazionale ed europea avrebbero potuto diventare l’occasione per mettere lo zampino o almeno l’occhio nella gestione dei flussi commerciali a cominciare dai fulcri dei porti di Amburgo, Anversa e Rotterdam, forti della posizione geografica dell’Italia e delle potenzialità dei porti di Trieste, Genova e Taranto. Ancora una volta i nostri non trovano di meglio che cedere, in cambio della digitalizzazione e della capacità gestionale, in condominio e probabilmente di fatto spesso in esclusiva la creazione e gestione digitale dei flussi. È già accaduto a Taranto con i turco-cinesi, pur nella incertezza delle dinamiche geopolitiche, sta accadendo a Trieste e a Genova. Ancora più sconcertante e deprimente l’esclusione e di fatto la rinuncia alla partecipazione ai progetti franco-tedeschi nell’aerospaziale e nel progetto Gaya di controllo, elaborazione e gestione di primo livello dei dati e comandi digitali in grado di mettere al sicuro il sistema di controllo e comando di industria 4.0. Progetti ancora allo stato intenzionale, dall’esito incerto e alquanto improbabile perché destinato a scontrarsi con gli interessi geopolitici strategici degli Stati Uniti e a subire l’indifferenza della potenza emergente cinese. In questo ambito l’Italia è stata semplicemente ignorata, pur potendo contribuire in maniera significativa con il proprio patrimonio di competenze. L’intenzione dei nostri è quella di subentrare a giochi fatti ma solo con l’apporto dei sistemi di sicurezza e gestione dei dati costruito nel processo di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione (PA). Un proposito allo stesso tempo riduttivo e a ben pensare inquietante
e infatti l’unico obbiettivo realistico e a portata di mano, realmente impegnativo nell’ambito della digitalizzazione è proclamato a chiare lettere nella PA. Anche qui, però, il progetto soffre di una rigida impostazione deterministica. Il presupposto di questo programma è che l’informatizzazione, l’integrazione e la digitalizzazione dei servizi presuppongano meccanicamente un unico modello organizzativo. Chi conosce anche genericamente questi processi sa benissimo che non è così e che la determinazione di un modello organizzativo, quello più adatto ai sistemi digitali e più compatibile con un funzionamento ordinato delle istituzioni e delle amministrazioni. Un approccio fideistico non farà che creare conflitti, sovrapposizioni e intoppi che porteranno a conflitti di sistema, ridondanze e aggiornamenti tali da prolungare indefinitamente la fase di transizione. Una dinamica già conosciuta nella riorganizzazione di specifici settori come quelli delle Poste e destinata ad espandersi esponenzialmente in un progetto ben più complesso e articolato
LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA E IL DISORDINE ISTITUZIONALE E AMMINISTRATIVO
Un tema a parte ed originale riguarda la riforma e la riorganizzazione della gestione della giustizia italiana. Un capitolo dai contenuti accettabili sempre che il Governo presente e futuro abbia la forza di mettere mano alle modalità di funzionamento dell’ordinamento giudiziario e saper gestire le dinamiche ormai perverse e destabilizzanti dei gruppi di potere interno ad esso.
Rimane completamente rimosso il problema del disordine istituzionale e della pletora dei modelli organizzativi di gestione delle pubbliche amministrazione alimentati in particolare dal processo di regionalizzazione avviato al finire degli anni ‘90. Un problema la cui soluzione è in realtà propedeutica ad ogni altro provvedimento di riorganizzazione delle strutture statali e il cui procrastinarsi lascia spazio al lento processo di liquefazione delle strutture statali e alla invasività dell’Unione Europea nella sua continua ricerca di rapporto diretto con le strutture periferiche e decentrate, in particolare le regioni e i comuni, dello Stato Italiano. Una invasività strisciante nei vari paesi dell’Unione, che trova notevoli resistenze e paletti in alcuni Stati politicamente centrali e in quelli dell’Europa centro-orientale e autostrade aperte nell’area mediterranea, specie in Italia e Grecia
CONCLUSIONI
A questo punto della comparazione, il confronto potrebbe apparire assolutamente impietoso rispetto ad una classe dirigente e un ceto politico italici talmente remissivi ed approssimativi, perennemente in attesa di indicazioni esterne, concentrati ad assecondare un processo di trasferimento all’estero e di recupero per conto terzi di risorse politiche, di controllo ed economiche, a cominciare dal risparmio nazionale. È artefice e vittima di dinamiche ed inerzie che probabilmente faranno scivolare il programma NGEU italiano nella routine delle spese e degli investimenti ordinari, dalla resa immediata, dalla efficacia tuttalpiù immediata ed effimera dei moltiplicatori keynesiani, sempre che siano ormai in grado di individuarli vista la gestione disastrosa degli incentivi energetici e della pletora di bonus fiorita nell’emergenza pandemica. Non è un caso che questa classe dirigente individui nell’edilizia il moltiplicatore di sviluppo e di benessere. Con questa lungimiranza non farà che adattare surrettiziamente i programmi di investimento alle capacità tecnico-amministratice e agli interessi delle amministrazioni e dei centri di potere e di spesa residui sopravvissuti nel paese, in particolare i comuni e le regioni.
In realtà la situazione non presenta, purtroppo, nemmeno aspetti così marcati e distinti rispetto ai due paesi europei sotto esame ed in particolare la Francia.
Che dire di un ceto politico impersonato dalle ultime tre presidenze francesi ed in particolare da Macron che da ministro dell’economia ha consentito la cessione all’americana GE dell’intero settore strategico delle turbine, intimamente legato alla difesa e al settore nucleare salvo vedersi vaporizzare da Presidente a pochi anni di distanza il relativo intero centro di ricerche da 900 dipendenti nei pressi di Parigi; che dire della sua reazione a tempo quasi scaduto al mercimonio intentato dai tedeschi ai danni del consorzio Airbus e a favore della Boeing in cambio probabilmente della trappola ai propri danni dell’acquisizione di Monsanto da parte di Bayer; che dire del suo accorato sostegno alle tesi del catastrofismo ambientale alla Greta Tunberg a principale giustificazione del programma di espansione dell’economia circolare, in un contesto geoeconomico, in particolare quello architettato dalla Germania e dalla UE, sostenuto pesantemente dagli Stati Uniti, nell’ambito delle importazioni di prodotti agricoli dal Maghreb, dall’America Latina e dall’Asia, in grado di renderlo velleitario pur con ben altre e più fondate motivazioni e proprio quando l’onda verde delle recenti elezioni municipali ha già messo a nudo il dogmatismo e la dabbenaggine di questo nuovo ceto politico emergente. Che dire di tutte queste posizioni e della schizofrenia connessa ai proclami di recupero di sovranità e ai propositi più o meno dichiarati e sottintesi nel documento francese?
Non si tratta della schizofrenia di un ceto politico prevalente, in Francia, in realtà molto più affine culturalmente e politicamente a quello assolutamente predominante in Italia e pervasivo anche in Germania.
È il contesto politico interno al paese che fa la differenza: è la drammatica situazione delle énclaves identitarie e comunitariste ormai quasi completamente fuori controllo nel paese; è la presenza di movimenti ostinati come quelli dei gilet gialli e degli epigoni prossimi venturi; è la presenza di una tradizione politica, amministrativa e di potere gaullista residua ma culturalmente ancora ben preparata ed ancora ben allignata nei centri decisionali a costringere a questa schizofrenia. Non è un caso che a parziale supporto e a sostegno su impostazioni più radicali del documento siano emerse due ben ponderose monografie di settimanali, in particolare del settimanale Marianne.
È una situazione ancora fluida ma che in assenza dell’emergere un terzo solido interlocutore europeo, l’Italia capace non dico di imporsi ma di trattare seriamente e con pari dignità lascia presagire il ritorno effimero ed illusorio allo statu quo, specie con l’affermazione di Biden, ma con il sacrificio definitivo di un paese, l’Italia dalla classe dirigente e dal ceto politico incapace di strategia, di volontà propria e di forza contrattuale oggettivamente disponibile in un contesto così mobile. Una remissività che probabilmente più che procrastrinare una tregua incerta interna al continente, non farà che accentuarne contemporaneamente il carattere ostile e conflittuale interno tra gli stati e la remissività e la subordinazione geopolitica al gigante americano, pur con le pesanti riserve legate alla instabilità di quella formazione politica.
Dieci anni fa Xi Jin Ping proclamo che avrebbe trasformato la Cina da opificio in laboratorio; pare ci stia riuscendo. La nostra classe dirigente e soprattutto il nostro miserabile ceto politico paiono impegnati, nel migliore dei casi, nel garantire il percorso opposto.
La posta in palio per il nostro paese è enorme: ha già perso progressivamente autorevolezza e forza politica in Europa e nel Mediterraneo; rischia di essere definitivamente spolpato del proprio risparmio nazionale e della propria capacità produttiva, in particolare quella più interconnessa e in posizione subordinata a quella francese e soprattutto tedesca a favore della collusione franco-tedesca proprio perché i propri amici-coltelli transalpini e teutonici potrebbero trovare più comodo ripiegare sul nutrimento garantito da un corpo amorfo disponibile ad accettare qualsiasi cosa piuttosto che puntare contro una bestia troppo grossa e per di più distante un oceano ma ben presente e attenta a preservare il dominio sulle lande europee.
La guerra economica non è una novità: alcuni la fanno risalire ai Fenici! Sembrava a suo agio durante il boom del dopoguerra, ma non era mai scomparsa del tutto. Lo shock petrolifero del 1973 e soprattutto la globalizzazione le hanno dato una crescita eccezionale.
In De Esprit des lois , Montesquieu ha affermato che “l’effetto naturale del commercio è portare la pace. Due nazioni che negoziano insieme diventano reciprocamente dipendenti: se una ha interesse a comprare, l’altra ha interesse a vendere. Il commercio sarebbe quindi un antidoto alla guerra. Con la globalizzazione, alcuni potrebbero aver creduto che questa pacificazione sarebbe stata realizzata: mentre Alain Minc celebrava una “globalizzazione felice”, Francis Fukuyama vedeva nella fine della guerra fredda e nella generalizzazione del capitalismo liberale una “fine del mondo”. ‘storia’. Sulla scia dei classici, questi autori credevano che un mondo di crescente interdipendenza fosse portatore di una pace duratura.
Vent’anni dopo, tuttavia, sembra che il pianeta non sia così. La guerra tradizionale non è scomparsa, tutt’altro, soprattutto in Europa, dall’ex Jugoslavia all’Ucraina. Quanto alle relazioni economiche tra gli Stati, non assomigliano a un “commercio morbido”. Inoltre, nel 1990, Edward Luttwak aveva proclamato l’era della geoeconomia quando Bernard Esambert pubblicò The World Economic War.. Eccedenze tedesche contro deficit francesi, dollaro debole contro euro forte, difficili negoziati tra Stati Uniti e Unione Europea sul tema del trattato transatlantico, avidità di ricchezza africana… il mondo ora sembra un’arena. La guerra economica è onnipresente tanto che l’espressione è vittima del suo successo. Occorre quindi definire con precisione questo nuovo oggetto teorico e pratico, valutarne il reale ambito, i suoi mezzi di azione.
La guerra economica è figlia della globalizzazione
Se la guerra economica nel senso più ampio del termine non è nuova, la sua forma contemporanea ha radici relativamente recenti. Possiamo considerare che dopo la seconda guerra mondiale, con la rinascita di un sistema monetario internazionale e la firma degli accordi GATT nel 1947, le regole per la concorrenza commerciale tra economie in gran parte nazionali furono stabilite all’interno del blocco occidentale. . Così, le lotte economiche che hanno avuto luogo in questi anni sono state confinate in un’arena di dimensioni limitate.
Inoltre, quando Bernard Esambert pubblicò Le Troisième Conflit mondial nel 1968 , tracciò i contorni di una guerra economica con virtù positive: non solo questa guerra “morbida” sostituì la guerra reale in Occidente, ma fu anche uno stimolo per i paesi industrializzati, impegnati in una proficua competizione per tutti. Inoltre, la guerra fredda ha costretto le nazioni del blocco occidentale a una solidarietà di fatto che ha ulteriormente limitato gli effetti delle loro rivalità economiche.
È stato proprio questo equilibrio a essere rotto nel 1991 con la caduta dell’URSS e la fine del comunismo. Da quel momento in poi, nulla ha ostacolato il modello capitalista e di libero scambio che, fino ad allora, rappresentava solo uno dei due sistemi economici all’opera sul pianeta. D’ora in poi l’arena è globale e quasi nessuno contesta le regole del gioco, allo stesso tempo la fine della guerra non fa scadere, tutt’altro, le politiche di potere; li sposta dal terreno militare e geopolitico (scontro di blocchi, conflitti periferici, ecc.) al terreno economico e commerciale (rivalità tra poteri sulle risorse, lotta per la quota di mercato, ecc.). Secondo Luttwak, ” in futuro sarà forse la paura delle conseguenze economiche a regolare le controversie commerciali, e certamente più gli interventi politici motivati da potenti ragioni strategiche [1] ”. Mentre probabilmente Luttwak sottovalutava l’importanza che avrebbero mantenuto le questioni geopolitiche, ha puntato il dito sulla nuova dimensione della nostra globalizzazione: quella della competizione tra le nazioni. Lungi dal pensare come gli uomini dell’Illuminismo che il commercio ammorbidisce i costumi, crede che il commercio sia solo una delle modalità della guerra quando il suo lato armato si indebolisce.
La dichiarazione di guerra
Vincitori della guerra fredda, gli Stati Uniti sono stati i primi a fare il punto sul cambiamento che il mondo stava attraversando. E’ vero, avevano praticato nei decenni precedenti il versamento di parte del capitale militare verso le proprie aziende per promuovere la ricerca e lo sviluppo e per meglio armarle nella competizione internazionale. Fondamentalmente, la guerra fredda ha dato loro l’opportunità di sovvenzionare interi segmenti della loro economia per le migliori ragioni.
All’inizio degli anni ’90, l’argomento geopolitico è crollato; il discorso economico rimane in tutta la sua purezza. Carla Hills, rappresentante commerciale degli Stati Uniti, non dice allora: “Apriremo i mercati esteri con il piede di porco, se necessario”? Quanto a Bill Clinton, appena eletto, crede che ogni nazione sia ormai in competizione con le altre sui mercati mondiali. Nello stesso anno, il Segretario di Stato Warren Christopher dichiarò ufficialmente che la “sicurezza economica” doveva essere elevata al primo posto della politica estera degli Stati Uniti.
In altre parole, i vincitori della Guerra Fredda hanno ufficialmente dichiarato guerra economica al resto del mondo. La prospettiva è certamente ampiamente liberale; ognuno ha le sue possibilità e può vincere a questa partita, ma il discorso è ambiguo perché si tinge di difesa degli interessi nazionali. Alla fine mescola una retorica che è sia liberale che mercantilista, principi che sono difficilmente compatibili agli occhi degli economisti ma perfettamente legittimi per i politici.
Lo stato E , comandante in capo della guerra economica
Su questo punto Bernard Esambert non ha dubbi. Perché un Paese possa combattere nella guerra economica, ha bisogno di uno Stato, “un signore della guerra risoluto, che conosca il mestiere delle armi e che ridia morale e spirito di conquista all’economia”.
Eppure negli anni ’80 e ’90, nell’era del neoliberismo e del consenso di Washington, lo stato era stato malmenato; era visto come un ostacolo allo sviluppo economico, quindi il presidente Reagan non aveva paura di affermare che “il problema è lo Stato”. La globalizzazione finanziaria, la transnazionalizzazione delle imprese, l’intensificazione del commercio internazionale hanno suonato la campana a morto per questa reliquia del passato. Tuttavia, è quasi una logica freudiana di ritorno del represso a cui stiamo assistendo oggi, ancor di più dalla crisi economica del 2008: nel 2009, The Economist non ha esitato a coprire ” The Return of the Nazionalismo economico“. Non solo lo stato ha resistito alla pozione neoliberista, ma ora sta tornando in auge. Lo Stato ha continuato a svolgere il suo ruolo di supervisione dello spazio privato creando un ambiente legale, fiscale e infrastrutturale favorevole alla promozione dell’economia. Nel contesto attuale, gli Stati hanno, inoltre, assunto il ruolo di leader militare, nella conquista dei mercati e delle risorse, sia per assicurare il loro potere sia per l’arricchimento delle loro imprese e dei loro concittadini.
Questo perché lo Stato ha un certo numero di prerogative o capacità di cui le aziende sono prive per natura. Lo Stato, per usare l’espressione di Philippe Delmas, è un “maestro degli orologi [2] “: solo può pensare a lungo termine, finanziare a lungo termine quando le aziende prediligono il breve o il medio termine. Inoltre può predisporre costosi strumenti al servizio delle proprie aziende per distinguere i settori del futuro, i campi in cui hanno interesse ad investire; in breve, lo stato ha una visione molto migliore del campo di battaglia di qualsiasi delle sue truppe. L’esempio giapponese del MITI, spesso qui citato, ha un valore paradigmatico. Ma la Commissione di pianificazione creata per la liberazione in Francia aveva ambizioni simili.
È anche lo Stato che guida le dinamiche di domani fissando degli obiettivi: così, la strategia di Lisbona che i paesi membri dell’UE hanno adottato nel 2000 intende fare dell’Unione “la prima economia della conoscenza” entro il 2010 collegando esplicitamente questo obiettivo a quello della piena occupazione. Solo uno Stato può affrontare questo tipo di compiti, la cui portata supera di gran lunga le capacità di finanziamento e le motivazioni di un’impresa. Aggiungiamo a questo che i capi di stato, generali in capo della guerra economica, talvolta guidano le operazioni sotto le spoglie di un VRP: si ricorda come Margaret Thatcher fosse personalmente impegnata nella negoziazione di un contratto aeronautico con Arabia Saudita negli anni ’80, pochi anni prima che Bill Clinton adottasse la stessa strategia di vendita nei confronti di Riyadh. È ovvio che il peso di un capo di Stato o di governo può essere decisivo in questo tipo di trattativa.
Gli stati non fanno guerre senza truppe. Queste sono imprese, grandi e piccole. Bernard Esambert vede in esso “ i combattenti della guerra economica […] se sono al fronte esportando in maniera massiccia, dietro difendendo un mercato regionale o se attraversano i confini atterrando su territorio “ nemico ” . come le multinazionali ”. Se l’immagine è attraente, lascia da parte alcuni elementi fondamentali del dibattito sulla guerra economica.
Il primo riguarda una questione semplice ma allo stesso tempo tremendamente delicata in un’epoca di globalizzazione: la nazionalità delle aziende. Non è illusorio dire che sempre più società multinazionali, di proprietà di capitali stranieri, siano francesi? Nel 2012, più della metà del capitale del CAC 40 era detenuta da residenti stranieri. Si può immaginare un esercito i cui soldati sarebbero stati pagati dal campo di fronte? Aiutare le società cosiddette “nazionali” ha ancora senso in questo contesto?
Infatti, gli economisti hanno dimostrato che, nonostante la logica della transnazionalizzazione, l’idea di “nazionalità delle imprese” non era obsoleta [3]. Primo, perché un certo numero di società strategiche sono tutelate dagli Stati: direttamente quando sono azionisti – nel caso di Areva, Thalès o anche Dassault in Francia – indirettamente quando sono garanti della loro indipendenza dalle società estere. Ricordiamo quindi che nel 2006 l’amministrazione Bush ha costretto la compagnia Dubai Port World a vendere ad AIG International la gestione dei sei maggiori porti americani effettuata dalla compagnia P&O che DPW aveva acquistato. Allo stesso modo, nel 2005 è stato impedito alla società pubblicitaria China National Offshore Corporation di acquistare la società americana Unocal. Cosa significa questo se non che gli Stati riconoscono facilmente le società nazionali, anche se la loro capitalizzazione è ormai internazionale?
Quindi, anche nell’era dei ” Global Players “, si può parlare di nazionalità delle imprese. Se ci limitiamo ad alcuni esempi francesi, il tasso di partecipazione degli investitori francesi nel 2010 è stato il seguente: totale, 30%; Vivendi, 36%; Universale, 45%; Danone, 49%; BNP-Paribas, 39%; Crédit Agricole 44%, ecc. Questi esempi sono sufficienti a dimostrare che i titolari nazionali, se sono effettivamente in minoranza, costituiscono nondimeno la base dell’azienda. Quanto a manager e direttori, quasi tutti sono francesi. La capitale è internazionale ma l’azienda resta francese sia agli occhi dei suoi manager, dei suoi dipendenti che dei suoi azionisti stranieri.
Infine, possiamo assimilare le attuali grandi compagnie, a maggior ragione le FMN, alle legioni del tardo impero romano ; misti, variegati, composti da quadri romani e truppe barbare, sono comunque l’esercito dell’Impero. Le aziende attuali, nonostante la loro natura globale, mantengono comunque un punto d’appoggio nazionale. Inoltre, il recente salvataggio di Peugeot intorno a un’alleanza tra la famiglia, lo Stato francese e il produttore cinese Dongfeng dimostra che l’idea di un’azienda nazionale non è morta con la globalizzazione, è solo più complessa che in passato.
I nuovi obiettivi della guerra economica
La guerra economica contemporanea può essere letta come un conflitto tradizionale, con i suoi obiettivi di guerra. Il primo è simile per le vecchie potenze industriali a un imperativo difensivo: salvare posti di lavoro nell’industria. Questa sfida è diventata un’ossessione poiché le delocalizzazioni o il subappalto in paesi con bassi costi salariali stanno dissanguando i nostri paesi industrializzati.
Perché questa ossessione per i lavori industriali nel nostro mondo terziarizzato? Questo perché le nostre società postindustriali, nel senso che la maggior parte del PIL non proviene più dal settore secondario, sono tuttavia industrializzate come non lo sono mai state. Non solo i lavori industriali generano posti di lavoro terziario ma, inoltre, ce ne sono molti che richiedono una qualifica. Bernard Esambert parla di una “simbiosi industria-servizio” per designare questa coppia formata dall’industria high-tech e dal settore dei servizi che l’accompagna. Perdere le prime a vantaggio delle nuove potenze industriali significa perdere le seconde e rischiare di regredire, per non parlare del rischio di disoccupazione o sottoccupazione, che nessuna democrazia può sopportare a lungo termine. I sostenitori della guerra economica quindi ritengono che l’occupazione industriale debba essere difesa e persino mantenuta. Al di là dei dibattiti economici sul loro rapporto costi-benefici, la distruzione di posti di lavoro è difficile da accettare agli occhi degli elettori e, quindi, dei responsabili delle decisioni. Comprendiamo quindi lo zelo, almeno a parole, di Nicolas Sarkozy per salvare la fabbrica Gandrange o quella di François Hollande a Florange.
L’altro obiettivo della guerra, decisivo per gli Stati, non è più la difesa, ma la conquista dei mercati e delle scarse risorse. Bernard Nadoulek ha chiaramente dimostrato l’intensificazione della guerra per il controllo delle risorse naturali [4] , principalmente gli idrocarburi.
Niente forse di meglio di questo esempio illustra agli occhi dei suoi sostenitori l’evidenza della guerra economica: il petrolio è una risorsa scarsa e limitata. Ogni goccia guadagnata da uno viene persa dall’altra. Pertanto, poiché è la base dello sviluppo, è necessario che ogni Stato garantisca un approvvigionamento sicuro e continuo. La feroce lotta che Stati Uniti e Cina stanno conducendo per il petrolio africano ma anche per le altre risorse del sottosuolo di questo continente ne è un esempio. Assente dall’Africa 25 anni fa, la Cina è ora il suo terzo partner commerciale dietro Stati Uniti e Francia; per due terzi importa petrolio, ma anche metalli, cotone e pietre preziose.
Guerra economica per risorse scarse
Questa guerra per le risorse naturali è teatro di un’inversione dei rapporti di forza tra i paesi occidentali da un lato e paesi emergenti e / o in via di sviluppo dall’altro. L’ascesa della Cina , dei BRICS, l’ascesa dei fondi sovrani nei paesi arabi esportatori di petrolio lo dimostrerebbero. Nella guerra economica, le risorse sono potenti munizioni. E tutto suggerisce che questo conflitto si intensificherà.
L’Agenzia internazionale dell’energia stima che il fabbisogno energetico aumenterà del 50% entro il 2030, in particolare a causa della crescita indiana e cinese. La ricerca delle materie prime diventerà, infatti, un tema cruciale per gli Stati. Già nel 2007, il Committee on Critical Mineral Impacts on the US Economy ha pubblicato un rapporto in cui elenca undici minerali che sono particolarmente cruciali per l’economia americana a causa della loro scarsità, del loro bisogno nelle industrie ad alta tecnologia … il più ambito, è il rodio, utilizzato in particolare nei convertitori catalitici, e trovato in Russia ma anche in Sud Africa, un alleato molto migliore di Mosca. Metallo raro, è oggi oggetto di lotte in cui Stati e multinazionali combattono fianco a fianco. Garante dell’economia nazionale,
Sotto la “scarsità di risorse” compaiono anche le aziende che stanno diventando oggi, più che mai, preda non solo delle controparti private ma anche degli Stati. In quanto tale, la crisi ha facilitato l’ingresso nel capitale di aziende molto grandi dei paesi del sud via i potenti fondi sovrani. I grandi fondi di investimento degli Emirati Arabi Uniti, in particolare Dubai e Abu Dhabi, hanno ampiamente investito a favore della crisi economica in prestigiose società in difficoltà: EADS, AMD, Sony, Citigroup … Il fondo sovrano cinese detiene quanto a lui quasi il 10% di Morgan Stanley. Quanto al fondo Singapore, è entrato allo stesso livello nel capitale di Merril Lynch. Qui troviamo l’idea di rivoluzione nella gerarchia Nord / Sud, cara a Bernard Nadoulek; essere un vincitore nella guerra economica non è dato in eredità. I nuovi arrivati stanno scuotendo la vecchia gerarchia. Si stima generalmente che l’Arabia Saudita sia responsabile del 5% del PIL degli Stati Uniti grazie alla creazione di ricchezza resa possibile dall’uso del petrolio arabo.
Infine, c’è una merce rara e strategica che costituisce un obiettivo relativamente nuovo della guerra: l’informazione. Ora è importante che le aziende e gli Stati conoscano i loro avversari, il loro esatto livello tecnologico, la loro strategia, al fine di essere in grado di anticiparli. A volte parliamo di guerra cognitiva per designare l’arma principale della guerra economica. Éric Delbecque, specialista in intelligenza economica, afferma che “in un gioco competitivo duro che impone uno stile di gestione strategico reattivo e preciso, anche l’acquisizione di informazioni ad alto valore aggiunto si rivela essenziale per lo sviluppo dell’attività economica. che l’accumulazione di capitale finanziario e il coordinamento delle competenze umane [5] “. Se gli Stati vogliono oggi aiutare le loro imprese a conquistare quote di mercato, devono dotarsi di programmi di intelligence economica, pena il rimanere notevolmente indietro in una forma di lotta che appare sempre più cruciale.
Nel commercio multilaterale, oppositori multilaterali
Il nostro tempo è tessuto di contraddizioni; da un lato, gli Stati tengono un discorso ufficiale sostenendo, a volte con sfumature, un multilateralismo sostenuto dalle principali istituzioni internazionali come l’ONU, l’OMC, il FMI … Dall’altro, tutti vedono chiaramente che gli Stati si stanno sviluppando ragionamenti abbastanza diversi. L’imperativo della solidarietà in campo finanziario, auspicato dal G20, risponde alla necessità di non perdere quote di mercato in un contesto di tensione. Nel pieno della crisi, i Quaderni della Competitività titolava: “Alla conquista dei mercati esteri. Approfitta della globalizzazione e recupera la crescita ”. Inoltre, lo Stato sostiene i suoi imprenditori attraverso Ubifrance, l’Agenzia francese per lo sviluppo internazionale delle imprese, che riporta direttamente alla Segreteria per il commercio estero. Basti dire che la logica mostrata e assunta è proprio quella di una guerra economica.
Uno stato schizofrenico quindi? Diciamo piuttosto uno Stato emerso dalla logica della Guerra Fredda in cui l’appartenenza a un blocco implicava un comportamento almeno benevolo, se non unito, nei confronti dei suoi partner. Spetta a Christian Harbulot aver meglio mostrato questo passaggio dal manicheismo della Guerra Fredda alla guerra economica multilaterale che gli Stati stanno conducendo oggi. Secondo lui, la coppia alleato / avversario ha sostituito quella partner / concorrente. Questa trasformazione di possibili alleanze è accoppiata, secondo Harbulot, con una riorganizzazione del campo dei partner e dei concorrenti in termini geografici. I due blocchi della Guerra Fredda sarebbero succeduti a tre blocchi: il primo è l’area degradata del mondo occidentale da cui si possono eventualmente estrarre gli Stati Uniti, il secondo è lo spazio di manovra ampliato delle nuove potenze, il terzo, infine, è lo spazio di sopravvivenza di altri paesi. Ciascuno di questi spazi segue strategie di potere molto diverse. Inoltre, i membri di ogni blocco non sono necessariamente alleati come abbiamo appena visto.
Pertanto, qualsiasi affermazione perentoria diventa impossibile. Gli Stati Uniti e la Cina stanno conducendo una guerra implacabile per le risorse dell’Africa. Ma la Cina, attraverso l’acquisto di titoli del Tesoro USA, è il Paese che permette agli Stati Uniti di vivere di credito. Per quanto riguarda gli IDE americani, svolgono un ruolo significativo nella crescita cinese. Un altro esempio, Cina e Taiwan sono nemici politici ma partner economici… Christian Harbulot ha proposto un’immagine della guerra economica mondiale che riproduciamo qui. Fornisce una migliore comprensione delle ragioni e dei problemi che strutturano questo conflitto agli occhi delle persone coinvolte.
Armi e parate di guerra economica
Se la guerra economica è una lotta, si basa sulle armi e sulle parate. Nel contesto di una guerra coperta, un gran numero di strumenti sono utili come armi. Il primo di tutto è senza dubbio l’allenamento; nelle nostre società in costante cambiamento, la formazione iniziale aiuta a creare una forza lavoro o manager preparati al cambiamento.
Allo stesso modo, l’importanza data alla ricerca è fondamentale. Dal 2010 la Cina ha più ricercatori degli Stati Uniti, anche se questi ultimi godono, grazie alla pratica della fuga dei cervelli , delle menti più acute del pianeta. In questo ambito è fondamentale la collaborazione pubblico-privato; negli Stati Uniti, il Bayh-Dole Act del 1980 prevede che i brevetti finanziati con fondi pubblici – da università o centri di ricerca pubblici – siano assegnati principalmente sotto forma di diritti esclusivi a società private americane.
In altre parole, agli occhi degli Stati in guerra economica, la ricerca dei brevetti è davvero un affare nazionale, una garanzia di produttività, un’arma decisiva nella prospettiva di una lotta commerciale tra le nazioni. Questi strumenti si mettono al servizio della competitività, questa capacità di affrontare la concorrenza sui mercati esterni ed interni. Non c’è dubbio in questo campo che l’Agenda 2010 proposta dal Cancelliere Schröder dal 2003 al 2005 abbia restituito alla Germania il vantaggio che le consente di raccogliere favolosi avanzi commerciali, compreso quello del 2013 che, con quasi 200 miliardi di euro, è il più grande mai registrato nella sua storia… a scapito dei suoi vicini europei, Francia compresa.
L’ultima arma della guerra coperta si basa sull’intelligence economica. È simile sia a un’arma, a uno stivale segreto – che anticipa il movimento del nemico per sorprenderlo e rubargli la vittoria – ma anche a una tattica di difesa – anticipando un rischio di alleanza, praticando disinformazione, proteggiti dalla concorrenza conoscendo i progressi dei tuoi principali avversari. Gli Stati Uniti sono gli attori principali di questa guerra dell’informazione. Ora sappiamo che la NSA, inizialmente creata in una logica di controspionaggio durante la Guerra Fredda, avrebbe utilizzato la rete Echelon per conoscere la posizione dell’Unione Europea nel 1994 durante i negoziati finali dell’Uruguay Round. Nel 2014, il New York Times ha rivelato che l’Agenzia aveva spiato uno studio legale americano che difendeva un paese straniero in una controversia commerciale con gli Stati Uniti … L’informazione è diventata una delle questioni chiave nella guerra economica .
Dalla guerra coperta alla guerra aperta
Man mano che gli stati passano dalla guerra coperta alla guerra aperta, le armi cambiano. Questi attacchi possono assumere la forma di ritorsioni geoeconomiche in risposta a una crisi geopolitica; questo è attualmente il caso dell’embargo su frutta e verdura tra Unione europea e Russia.
Anche le restrizioni volontarie all’importazione sono simili a misure di ritorsione. Il noto esempio delle restrizioni imposte dagli Stati Uniti alle auto giapponesi negli anni ’80 testimonia la violenza del conflitto. Di fronte alla crescita delle vendite di auto giapponesi, Washington ha cercato di proteggere i ” Tre Grandi “. Piuttosto che procedere unilateralmente, il governo statunitense ha chiesto ai giapponesi di limitare le loro esportazioni. Tokyo ha preferito negoziare questa misura perfettamente anti-liberale piuttosto che correre il rischio di imporre restrizioni ancora più sfavorevoli: questo è l’ accordo di restrizione volontaria del 1980.
Un certo numero di controversie tra Stati portano all’adozione di picchi tariffari come ritorsione; gli Stati Uniti hanno quindi deciso nel gennaio 2009 di triplicare i dazi doganali sul Roquefort in risposta al divieto di esportazione in Europa di carne bovina contenente ormoni. In ognuno di questi casi, il miglior attacco è stato la difesa.
Quando si preoccupano di evitare conflitti frontali, gli Stati preferiscono un approccio alternativo che consiste nel facilitare l’assalto delle loro aziende sui mercati esteri. Per questo il potere politico è l’ardente promotore delle sue imprese. Questa vecchia pratica è stata sistematizzata negli Stati Uniti sotto forma di “diplomazia commerciale”. Ciò si basa su tre principi: preparare il terreno liberalizzando il commercio con il paese di destinazione; utilizzare l’intelligence economica, l’intelligence industriale e commerciale per fornire alle aziende americane tutti i dati sul campo da conquistare; infine, allestire strutture ad hoc come la War room. Questa strategia pubblica offensiva è interamente al servizio delle società private che sono la forza degli Stati Uniti. È nello stesso spirito che Washington sta ora aumentando la firma di trattati bilaterali di libero scambio: con la maggior parte dei paesi dell’America centrale negli anni 2000, con il Marocco nel 2006, la Corea del Sud nel 2010. Ma le due questioni principali che li occupano ora sono il trattato transpacifico da un lato e il trattato transatlantico con l’UE dall’altro.
Infine, c’è un’ultima arma che, singolarmente, è oggi quasi prerogativa di pochi paesi emergenti: i fondi sovrani. Anche se lo negano, questi fondi prendono piede in gruppi a volte strategici e aiutano a guidare la loro strategia.
Strategie di difesa
Per affrontare questi pericoli, coloro che sono coinvolti nella guerra economica hanno sviluppato politiche simili a scudi o persino contrattacchi. In un contesto in cui le barriere doganali sono storicamente basse, ci sono altri mezzi per preservare il suo mercato: sussidi all’esportazione, standard, favoritismi dati alle aziende nazionali in una forma o nell’altra (pensiamo allo Small Business Act che riserva -United alcuni appalti pubblici alle PMI) … tutti i mezzi sono buoni.
È il caso del denaro, che è stato a lungo e continua ad essere un’arma difensiva nelle mani degli Stati, in particolare sotto forma di svalutazione. Il Regno Unito ci ha fornito un recente esempio dell’uso geoeconomico che si potrebbe fare di una valuta: nel pieno della crisi, Londra si è lasciata sfuggire la sterlina mentre l’euro è rimasto forte. In questo modo, le esportazioni britanniche sono state stimolate. Potremmo riprodurre l’analisi per lo yuan o anche per lo yen in un momento in cui Shinzo Abe ha lanciato una politica di espansionismo monetario.
Per i grandi Stati occidentali si tratta prima di tutto di proteggere i propri mercati in un momento in cui il protezionismo di vecchio tipo è quasi bandito. Per i paesi emergenti, la posta in gioco è diversa: aumentando il numero delle fonti normative (statali, internazionali, private, pubbliche, ecc.), Indeboliscono il sistema giuridico universale progettato dagli Stati dominanti. Paradossalmente, il desiderio di unificare il commercio mondiale ha portato a una frammentazione giuridica di quest’ultimo.
Le regole del commercio sono diventate in pochi decenni un campo di battaglia. Ne è testimone l’emergere in Francia della nozione di “patriottismo economico”. Diffusa nel 2005 da Dominique de Villepin, allora Primo Ministro, la dottrina del patriottismo economico si basa sull’idea che spetterebbe allo Stato difendere le aziende considerate appartenenti a settori strategici. In pratica, il successo è misto: se Suez si era sposata con GDF nel 2008 per far fronte a un potenziale acquisto da parte dell’italiana Enel, Arcelor è stata assorbita da Mittal.
Ma colpisce il fatto che l’idea trascenda le divisioni politiche: Arnaud Montebourg, durante il suo breve soggiorno a Bercy, fece adottare un “decreto Alstom” che estendeva il decreto Villepin a nuovi settori, sottoponendo così gli investimenti stranieri in Francia a autorizzazione del governo. Non è esclusa la Germania di Angela Merkel, che ha anche indicato di voler vigilare sugli investimenti di fondi sovrani in società tedesche. Attraverso questi esempi, troviamo il tradizionale antagonismo tra economisti e politici: i primi insistono sul costo economico e sociale della guerra economica e sul protezionismo che essa genera, i secondi sottolineano l’indipendenza e il potere nazionale.
Considerando il pianeta nel 2014, si è tentati di concludere che la guerra ha un futuro radioso; guerra economica, ovviamente, ma anche guerra tradizionale. Forse più grave, è possibile che le guerre economiche di domani degenerino in conflitti armati. Il “dolce mestiere” caro a Montesquieu sembra lontano. Forse più che mai il mondo assomiglia alla descrizione di Nietzsche in The Will to Power : “Un mare di forze in tempesta e flusso perpetuo, eternamente mutevole, eternamente declinato con giganteschi anni di ritorno regolare. ”
Edward Luttwak, Il sogno americano in pericolo , op. cit., p. 40.
Philippe Delmas, The Master of Clocks: Modernity of Public Action , Parigi, Odile Jacob, 1991.
A questo proposito si veda Elie Cohen, La Tentation hexagonale: sovereignty put to test of globalization , Paris, Fayard, 1996.
Bernard Nadoulek, L ‘ É popée des civilisations , Parigi, Eyrolles, 2005. Possiamo anche fare riferimento, dello stesso autore, a “La guerra economica mondiale per il controllo delle risorse naturali”, Géoéconomie , n ° 45, p. 23-32.
L’accordo raggiunto tra l’UE e i cattivissimi Orban e Morawiecki ha scatenato i media mainstream (ossia la maggioranza), solidali nel criticarlo, ma differenti nelle ragioni addotte.
Quella più frequentemente allegata, anche se la meno probabile, è che la Merkel avrebbe piegato alla volontà europea i recalcitranti di Visegrad, concedendo poco o nulla.
Prima di spiegare i motivi di tale impostazione occorre citare che il Consiglio U.E., nell’esporre il testo dell’intesa ha sottolineato che si è cercata una “soluzione reciprocamente soddisfacente” per “rispondere alle preoccupazioni espresse in merito al progetto di regolamento relativo a un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione” assicurando il rispetto dei trattati, delle peculiarità nazionali degli Stati; l’U.E. ha accettato che, in caso di ricorso alla Corte di giustizia non potranno essere prese misure a carico degli Stati disobbedienti prima della sentenza e che comunque (con espressione poco chiara) nel regolamento impugnato saranno incorporati “eventuali elementi pertinenti derivanti da detta sentenza”. Peraltro solo violazioni che hanno impatto sul bilancio U.E. possono essere sanzionate: “Le misure a norma del meccanismo dovranno essere proporzionate all’impatto delle violazioni dello Stato di diritto sulla sana gestione finanziaria del bilancio dell’Unione o sugli interessi finanziari dell’Unione”; inoltre “la semplice constatazione di una violazione dello stato di diritto non è sufficiente ad attivare il meccanismo” e “le misure si applicheranno solo in relazione agli impegni di bilancio previsti nell’ambito del nuovo quadro finanziario pluriennale, compreso Next Generation Eu”.
Più che una resa incondizionata dei discoli l’accordo appare per quello che è ogni soluzione a carattere transattivo, dove le parti si sono fatte “reciproche concessioni”: ciascuno ha dato e ottenuto qualcosa. Di guisa che, rispetto ai puri, agli estremisti, alcune critiche hanno qualche fondamento: basti ricordare che, prima dell’accordo, alcuni euroestremisti erano giunti nell’ordine a sostenere: a) la cacciata dei discoli dall’U.E.; b) l’abolizione del diritto di veto nell’ordinamento europeo.
Il tutto peraltro “giustificato” con le conseguenze economiche della pandemia – e la necessità di porvi rimedio. Ma se l’obiettivo era questo (emergenza sanitaria e risposta economica), non si capisce perché il negoziato era stato complicato e reso difficile con la condizionalità rafforzata del rispetto dello Stato di diritto. La quale, a pandemia in corso, appariva come un espediente per estorcere un consenso minacciando reazioni a comportamenti estranei all’emergenza sanitaria ed alla necessità di porvi rimedio.
Ma la questione che qui affronto è diversa: per quale ragione le élite dirigenti italiane (e i loro accoliti) vogliono dimostrare che la reazione di polacchi e ungheresi non ha ottenuto nulla (o molto poco) piegata (come sarebbe stata) dalla volontà sovrana (scusare l’aggettivo da turpiloquio) della U.E.. Con la quale è meglio assentire, sottomettersi senza discutere (tanto, si perde solo tempo).
Atteggiamento che è quello preferito da governanti eurolirici che hanno diretto l’Italia (quasi sempre) negli ultimi dieci anni e in buona parte del periodo precedente. Bastava una richiesta europea (“ce lo chiede l’Europa”) per eseguirla prontamente: e farsene titolo di merito quali novelli De Gasperi o Martino. Anche quando era evidente che qualche sgarbo dall’Europa l’avevamo ricevuto (come nella vicenda della caduta di Berlusconi e degli eurosorrisetti), bisognava incassare e fare penitenza. La quale, per gli eurodipendenti è castigo scrupolosamente riservato ai governati, anche quando una siffatta pretesa non è stata avanzata dalla Merkel o dalla Von der Layen.
Gli è che gli eurodipendenti esternano delle trattative un’immagine da solotto o da bocciofila: che per dialogare bisogna (necessariamente e previamente) assentire. Nella realtà non è così, e rientra nei fondamentali del politico: per trattare l’accordo più agognato, ossia la pace, occorre trattare col nemico.
Perché questo sia durevole, la pace deve tener conto degli opposti interessi e posizioni (se no, da trattato diventa dettato di pace; come capitò a quello di Versailles). Avete mai visto trattare qualcosa, dalla pace in giù, tra amici, cioè non solo non belligeranti, ma neppure aventi volontà e obiettivi differenti?
Quindi contrariamente all’opinione dei nostri eurodipendenti, trattare è cosa logica (e quasi sempre opportuna): avere volontà ed interessi diversi è naturale; conciliarli con quelli dell’altro è – in genere – normale e conveniente. Non c’è nulla di contrario al bon-ton diplomatico nel comportamento di chi prima minaccia, litiga e poi tratta.
Ma per i nostri ciò voleva dire legittimare (anche) la posizione di Salvini il quale, per l’appunto, chiudeva i ponti ai migranti per costringere l’Europa a farsi carico – proporzionalmente – del problema degli stessi. Atteggiamento risultato pagante dato il calo drastico, tuttora perdurante (anche se in misura minore) dei medesimi. Con sollievo delle strutture di accoglienza e del bilancio dello Stato. Ma con grande scorno di coloro che dell’accoglienza – ben remunerata – avevano fatto un affare. Strano ed inconsueto è l’atteggiamento remissivo e sottomesso praticato (e predicato) degli eurolirici. A proposito dei quali occorre dire che se polacchi e ungheresi avessero avuto la loro stessa tempra ed attitudine – mentale e morale – l’Est europeo sarebbe ancora diviso dalla cortina di ferro.
La nozione di soft power evoca dolcezza, assenza di costrizioni, seduzione. Tuttavia, se vediamo in esso il potere di modificare la volontà degli altri, è un passo strategico tanto quanto l’ hard power . Si tratta di conquistare “cuori e menti” con tutti i mezzi. Il soft power , l’effetto e l’opinione, si trova da qualche parte tra l’attrazione e la manipolazione.
Se siamo d’accordo sul fatto che il potere si acquisisce o aumenta lavorando contro o eliminando la concorrenza, considera il soft power come una forma lieve di propaganda e di formattazione delle menti, che non è tutto la definizione data da Nye. In particolare come l’estensione, dopo la caduta del Muro, della “diplomazia pubblica” della Guerra Fredda che avrebbe propagato, soprattutto verso l’Oriente, una cultura e un’informazione capaci di sovvertire la rigida ideologia marxista.
Il contenuto e il vettore
Da una prospettiva persuasiva, la prima idea è inviare un messaggio convincente ai suoi destinatari stranieri, anche se significa acquisire i media per questo. Chiamiamola strategia di contenuto e vettoriale. Questo è ciò che hanno fatto gli Stati Uniti creando radio multilingue come Voice of America o Radio Liberty, le cui onde radio hanno attraversato il Muro per combattere l’ideologia sovietica . Oggi il Global Engagement Center svolge più o meno la stessa funzione di azione contro-narrativa e psicologica, prima contro il jihadismo e poi contro la propaganda russa. Il messaggio strettamente politico è tanto più efficace quando è combinato con la popolarità dei prodotti culturali ” tradizionali “. “, Quelli che piacciono a tutti, come i blockbuster del cinema o la musica” giovane “che seduce oltre i suoi confini. Secondo la formula 2H / 2M (Harvard e Hollywood, McDonald’s e Microsoft), l’eccellenza accademica e tecnologica completa il consumo culturale quotidiano per dare la migliore immagine.
Oltre al messaggio e ai media, l’influenza richiede relè e codici. Si tratta quindi di favorire i gruppi e le istituzioni che a loro volta promuoveranno i vostri valori e le vostre idee, per scommettere su persone, standard o comportamenti al servizio a priori dei vostri obiettivi. E se possibile formattare fonti di informazione prestigiose e credibili. Per imporre il suo “software” insomma.
Pertanto la classifica annuale dei paesi, ” The Soft Power 30 ” (Portland public diplomacy center), classifica i paesi in base a criteri oggettivi (relativi a società, digitalizzazione, società, livello di istruzione, ecc.). ) ma anche soggettiva, misurata da sondaggi in 25 paesi: buona opinione su cultura, cucina, politica estera, ecc. Sorpresa, è la Francia ad essere la numero 1 nel 2017. Tuttavia, precisa lo studio, ciò è in gran parte dovuto alla sconfitta del Fronte nazionale, all’elezione di Macron e alla probabilità di riforme ” pro-business e pro. -USA “. Quindi ad un’immagine aperta e moderna tipica della visione occidentale dominante in contrasto con quella degli Stati Uniti appesantita dall’elezione di Trump, La Francia in qualche modo incarna l’ideale americano meglio dell’America “piegata”.
In generale, i criteri di ranking internazionale, quelli delle università o delle riviste, dei ristoranti o dei film, la predominanza di una modalità gestionale o contabile, la tendenza ad adottare sistemi di common law(una legge anglosassone in cui prevarranno giurisprudenza e contrattuale), tutto ciò contribuisce, se non a servire direttamente gli interessi americani, almeno a unificare le abitudini mentali delle classi superiori, già favorevoli alla globalizzazione occidentale. Ciò può essere integrato in modo più deliberato portando le élite nelle sue università o individuando elementi promettenti della futura arena internazionale e familiarizzando con il suo sistema. In quest’area, la Francia, il paese per eccellenza della diplomazia culturale che ha inventato l’Alliance Française, per propagare la nostra lingua e la nostra influenza culturale tra le élite straniere dal 1884, difficilmente può obiettare.
Mentre gli individui ei loro codici mentali possono trasmettere l’influenza di un paese, le organizzazioni – società di comunicazioni o gruppi di cittadini – lo fanno con professionalità. Esistono generalmente tre metodi principali: agire principalmente diffondendo idee (il modello del think tank ), inviando un messaggio persuasivo e difendendo gli interessi con i leader (questo è il lavoro delle lobby ) o con l’opinione pubblica in generale (agenzie pubbliche relazioni o spin doctor ). Infine, le organizzazioni non governative senza scopo di lucro (a differenza delle lobbye agenzie), dovrebbero riunire la buona volontà: agiscono positivamente per promuovere cause e realizzare azioni concrete; possono anche agire negativamente denunciando e combattendo aziende o governi. O anche sostenendo “rivoluzioni di colore”.
La patria delle armi di influenza di massa
Queste tre secolari forme di organizzazioni di influenza, anche se non furono inventate dall’altra parte dell’Atlantico, vi fiorirono molto presto, aiutate dal sistema amministrativo. Corrispondono a una predisposizione culturale a far pesare iniziative private sul processo decisionale politico sia internamente che esternamente. Quindi il fatto che ci siano diverse centinaia di think tank negli USA, la maggior parte a Washington, molti con budget di milioni di dollari, mostra il posto di un’istituzione di analisi e orientamento perfettamente integrata. Si è distinta con nomi come Rand , Brookings Institute , Council of Foreign Relations , Carnegie , Heritage…, Fornendo categorie intellettuali e suggerimenti quale all’esercito, quale ai partiti, quale all’amministrazione, quale alle élite internazionali.
Per quanto riguarda le lobby , protette dal Secondo Emendamento, fioriscono negli Stati Uniti dove hanno un’esistenza legale e sono registrate. Si ammette anche che la Corea del Sud o l’ Arabia Saudita hanno la loro a Washington, o che dozzine di lobbisti americani vanno a Bruxelles. Sotto l’etichetta di pubbliche relazioni (un termine la cui paternità andrebbe a Bernays, vedi riquadro), di “comunicazione d’influenza” o “affari pubblici”, anche sciami di farmacie specializzate nella “vendita” di cause politiche, compresa la guerra. Ciò è particolarmente vero per quelle che sono state chiamate “guerre di scelta”, interventi esterni che rispondono a una preoccupazione “morale”.
Senza tornare a prima della caduta del muro, è da più di un quarto di secolo che i conflitti ispirati (in teoria) dalla sola preoccupazione dei diritti umani, sono stati preceduti da una campagna di giustificazione – e quindi di demonizzazione del avversario designato come quello dell’umanità. È affidato a professionisti. A seconda del periodo, per contratti del valore di milioni di dollari con l’esercito statunitense o con oppositori o governi in esilio kuwaitiani, bosniaci, afgani, iracheni, kosovari …, sarà il Rendon Group, Hill & Knowlton , Karl Rove o Alastair Campbell (rispettivamente spin doctordi GW Bush e Tony Blair). E a seconda dell’epoca, l’opinione internazionale crederà che l’esercito di Saddam sia il quarto al mondo (e che scolleghi gli incubatori a Kuwait City), che Milosevic abbia aperto campi di concentramento, che il Kosovo sia pieno di fosse comuni. Albanesi, che Saddam è a poche settimane dall’avere la bomba atomica e altre armi di distruzione di massa … Allo stesso modo, questi spin doctor forniranno aiuti ai governi alleati in tempo elettorale come l’Iraq, progetterà strumenti di lotta ideologica per la deradicalizzazione dei jihadisti o, più sottilmente, come l’agenzia britannica Bell Potinger, girerà falsi filmati islamici per il Pentagono (un conto di milioni di dollari).
Quanto alle ONG, con il doppio vantaggio della loro presenza sul campo e della rispettabilità morale, si prestano a potenti effetti leva. Già nel 1961, USAID ( Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale ), che avrebbe dovuto combattere la povertà, aiutare le popolazioni e promuovere la democrazia e lo sviluppo economico, e finanziare le ONG, è noto come uno strumento per contrastare l’influenza sovietica. Le finanze di USAID in particolare (parallelamente alle più grandi società statunitensi) fanno leva su fondazioni come il famoso National Endowment for Democracy che guida azioni per esportare la democrazia liberale.
La Freedom House , una ONG fondata durante la seconda guerra mondiale e finanziata dal governo federale e da varie fondazioni, che stabilisce classifiche di libertà nel mondo e aiuta movimenti e governi nel rispetto dei diritti civili, è un altro buon esempio, lei afferma che ” il dominio dell’America negli affari internazionali è essenziale per la causa dei diritti umani e della libertà “.
In un altro registro, ONG come UANI ( United Against a Nuclear Iran ) possono essere strumenti di pressione (per timore in particolare di denunce pubbliche) contro aziende non americane tentate di commerciare con Teheran.
Quello che c’è in comune tra tutte le forme di influenza, che implicano tutte la diffusione di informazioni sugli eventi e la loro interpretazione, è che riflettono le relazioni tra interessi nazionali (come evidenziato da compresi i finanziamenti pubblici diretti o indiretti) e le convinzioni. Queste – certamente sincere con molti – riguardano l’eccezione americana o, se si preferisce, l’identificazione delle tradizioni politiche ed economiche di un Paese dai valori universali che è naturale esportare come conforme. alla profonda tendenza delle società umane.
Il mezzo è più importante del messaggio?
Il soft power si manifesta in modo più sottile anche dal suo rapporto con la tecnologia dell’informazione sia oggettivamente favorevole alla prima società mondiale dell’informazione sia soggettivamente pensieri come vettori di influenza di questa azienda.
Negli anni ’80, il dibattito sul Nuovo Ordine Mondiale dell’Informazione e della Comunicazione (Nomic) contrappone l’America di Reagan e l’Unesco sostenuti da paesi che lamentano che le informazioni sono prodotte principalmente da agenzie situate negli stati sviluppati e privilegiando il loro punto di vista.
Negli anni ’90, subito dopo la caduta del Muro (che alcuni attribuiranno in parte all’effetto vetrina della televisione della Germania occidentale ricevuta nella DDR), il predominio della CNN – ad esempio il suo monopolio virtuale delle immagini nella prima guerra du Golfe: è ovvio. Un canale satellitare privato fornisce le informazioni al mondo, o almeno ai decisori, e questo ovviamente riflette una visione molto americana di una globalizzazione felice.
Negli anni 2000, Internet, con la sua immaginazione della nuova società digitale e del mondo, era soggetta agli standard tecnici americani, ma questi sembravano trasmettere una visione altrettanto americana del mondo, un misto di ottimismo tecnologico e liberalismo culturale.
Negli anni 2010, soprattutto con la Primavera araba, la convinzione che i social network, impossibili da censurare e favorevoli alle mobilitazioni democratiche, fossero destinati a superare le dittature e promuovere un modello aperto è ampiamente sostenuta attraverso l’Atlantico.
Naturalmente queste tesi saranno spesso contraddette dai fatti: l’apparizione di canali globali non americani come Al Jazeera, la chiusura di alcuni paesi per “balcanizzazione” della Rete, la scoperta che i social network trasmettono anche influenze non americane e discorso populista. Resta il fatto, tuttavia, che l’idea – ampiamente anticipata da Mc Luhan – che i media contino più del messaggio e che una forma di comunicazione porti con sé una forma di rappresentazione della realtà è perfettamente integrata nella politica di influenza americana. Un esempio tra cento: gli Stati Uniti finanziano un equivalente cubano di Twitter, Zunzuneo, nella speranza che uno spazio libero di discussione sollevi automaticamente proteste e faccia cadere il regime, cosa che non è avvenuta.
Contro il soft power , il soft power
Né i dollari che finanzierebbero tutto, comprese le rivoluzioni, né le azioni della CIA che si infiltrerebbero in ogni cosa sono spiegazioni sufficienti per l’efficacia del soft power americano: “soft power” non dovrebbe essere usato come un eufemismo chic per cospirazione. Ma non è nemmeno oggetto di un naturale consenso di popoli che, ben informati, aderirebbero a qualsiasi senso della storia. Che si tratti di rovesciare un governo o di formare le élite di un paese, il metodo soft funziona solo dove c’è un vuoto o una contraddizione. L’ascesa di strategie di influenza russa, cinese, indiana … ne è una dimostrazione a contrario . : Il conflitto di valori e visioni del mondo non è stato eliminato a beneficio degli Stati Uniti, né dalle immagini “giuste” né dal consenso online di una società civile planetaria e aperta.
Dopo aver eletto un presidente che è tutt’altro che morbido (almeno a parole), gli Stati Uniti hanno scoperto che questo processo non stava raggiungendo la metà della loro popolazione. È ironico vedere la spiegazione che la signora Clinton, proclamata discepola di Nye, trae da essa: colpa dell’influenza russa attraverso il cyberspazio e i social network populisti che diffondono fake news (e quindi unanimemente ribelle dai media ed élite). Come tutti gli altri, il soft power genera la propria debolezza.
Dopo il Giappone, il cui emergere ha destato grande preoccupazione negli anni Ottanta, è oggi la Cina ad alimentare negli Stati Uniti una profusione di analisi tra la comunità degli specialisti delle relazioni internazionali. Dovremmo essere preoccupati per il suo aumento di potenza? Quali sono le sue ambizioni? È inevitabile un confronto? Sono tutte domande alle quali gli osservatori forniscono risposte molto diverse.
Se l’ampiezza del pensiero strategico americano sulla Cina raggiunge oggi proporzioni senza precedenti, va ricordato che non risale a ieri. Già all’inizio del XX ° secolo, l’ammiraglio Alfred Thayer Mahan , diventato un riferimento strategico oggi in Cina, aveva affrontato il problema dell’Asia e dei suoi effetti sulla politica internazionale(1900). Ha sostenuto a favore di un’intensificazione del commercio tra gli Stati Uniti e la Cina, quest’ultimo paese visto come un potenziale contrappeso al desiderio della Russia di dominare l’Eurasia. Una lezione che verrà appresa tre quarti di secolo dopo da Henry Kissinger che lavorerà nel mezzo della Guerra Fredda per un riavvicinamento innaturale a priori tra Washington e Pechino al fine di privare Mosca di un alleato importante.
Nonostante questo riavvicinamento simboleggiato dalla visita di Nixon a Pechino nel 1972, le relazioni tra Cina e Stati Uniti rimasero tese perché, contrariamente alle previsioni, non sfociò in alcun modo in una “normalizzazione” della Cina. A spese di coloro che, insieme a Fukuyama, hanno visto nella liberalizzazione economica del Regno di Mezzo avviata da Deng Xiaoping il preludio alla sua inevitabile liberalizzazione politica. Al contrario, i gerarchi di Pechino sono riusciti a utilizzare le armi del liberalismo economico per rafforzare meglio il loro modello politico autoritario. Uno sviluppo inizialmente tollerato da Washington, che in genere ha chiuso un occhio sul massacro di Tian’anmen imponendo solo sanzioni minime e temporanee alla Cina.
Un confronto inevitabile?
Per molti analisti americani il confronto con la Cina sembra probabile o addirittura inevitabile. Graham Allison, professore di scienze politiche ad Harvard, lo spiega con l’esistenza di una “trappola di Tucidide” ( Trappola di Tucidide ) che vorrebbe che, come l’ex Sparta nei confronti di Atene, l’ascesa cinese finirà per spingere gli Stati- Uniti nel ricorrere alla forza nel tentativo di mantenere la propria supremazia minacciata dall’ambizioso outsider : Pechino e Washington sarebbero così “destinate alla guerra”. Le ragioni per essere pessimisti sono tanto più forti quanto accompagnate dalla moderazione e del tatto che Graham Allison rende sine qua non per evitare lo scenario peggiore, abbiamo conosciuto meglio di Donald Trump, che ha concentrato la sua campagna su una critica virulenta alla Cina, il tutto in termini molto poco diplomatici (vedi pagina XX).
Nell’ultima edizione di The Tragedy of Great Power Politics, John Mearsheimer fa eco a questa direzione pessimistica affermando che la probabilità che scoppi una guerra tra gli Stati Uniti e la Cina è molto maggiore oggi di quanto non sia mai stata durante la guerra fredda il rischio di una guerra americano-sovietica . In effetti, i territori contesi oggi sono geograficamente e demograficamente relativamente insignificanti (isolotti, territori marginali) che finirebbero per revocare le inibizioni: oseremmo combatterci più facilmente che ai tempi della Guerra Fredda quando era cuore dell’Europa occidentale ad essere in gioco.
Per Mearsheimer, la Cina è impegnata in una classica ascesa al potere che segue fedelmente la strategia una volta adottata da Washington: prima prendere il controllo del suo ambiente regionale al fine di eliminare ogni minaccia nel suo cortile (questa era la funzione della dottrina Monroe), quindi partire per attaccare il vasto mondo sviluppando una capacità di proiezione militare di livello mondiale (questa era la lezione di Mahan). Questo spiegherebbe perché la Cina sta ora cercando di stringere legami con i vicini americani degli Stati Uniti, perché ciò le consentirebbe di costringere Washington a concentrarsi sulla gestione del suo cortile occidentale piuttosto che di quello del lontano teatro asiatico.
Se ci fidiamo di queste fosche previsioni, l’interesse degli Stati Uniti sarebbe in definitiva quello di accelerare lo scontro con Pechino per combattere il prima possibile, finché in possesso ancora di una significativa superiorità militare.
Cina: un colosso dai piedi d’argilla?
Per il saggista asiatico olandese Ian Buruma , le cupe previsioni di Mearsheimer sono infondate perché non tengono conto delle tante debolezze della Cina: se vuole, la Cina ha anche i mezzi? resistere negli Stati Uniti? Con una demografia che invecchia, l’inquinamento endemico e un’economia non così prospera come si potrebbe pensare, la Cina avrebbe, secondo Buruma, molte altre preoccupazioni oltre a sfidare l’egemonia americana globale. Una guerra potrebbe anche fornire un’opportunità per la società civile di ribellarsi al regime comunista.
Un’analisi condivisa da Joseph Nye, che ritiene che sarebbe sbagliato credere che il secolo americano è finita, perché, sia nel campo della morbido e hard power , gli Stati Uniti ancora in gran parte dominano la Cina e nulla suggerisce che può raggiungerli rapidamente. Alcuni come il saggista cinese-americano Gordon G. Chang si azzardano persino a profetizzare un imminente “collasso cinese” ( Collapse of China) causato, secondo lui, da uno shock finanziario. Amitai Etzioni, docente di relazioni internazionali alla George Washington University, sottolinea da parte sua che il potenziale militare cinese non costituisce attualmente una minaccia credibile per gli Stati Uniti, che possono peraltro contare su una solida rete di alleati in Asia. Alleati tanto più leali quanto l’ascesa del potere cinese accresce le loro preoccupazioni. Etzioni ritiene inoltre che se la Cina ha davvero ambizioni revisioniste riguardo ai confini asiatici, non considera l’uso della forza come mezzo naturale per soddisfarli.
Si potrebbero quindi trovare dei compromessi, come spiega l’ex corrispondente del New York Times Howard W. French. Secondo lui, quelli che prevedono una futura guerra tra Cina e Stati Unitifraintendere le ambizioni cinesi. La Cina non è fondamentalmente una potenza imperialista o colonialista. Non pretende, come gli Stati Uniti, di possedere una verità universale di cui dovrebbe garantire la propagazione e la protezione su tutta la superficie del globo (vedi pagine XX e XX). Indubbiamente si considera il Medio Impero, vale a dire il centro del mondo, ma questo non significa in alcun modo che abbia la pretesa di dominarlo. Al contrario, ritiene che al di fuori del centro civilizzato che costituisce il mondo sinizzato, le periferie “barbare” debbano essere pacificate, eventualmente soggiogate dall’imposizione del pagamento di un tributo, ma in nessun caso controllate direttamente con ‘occupazione o interferenza.
C’è quindi spazio per trovare un compromesso e, piuttosto che prepararsi alla guerra, Washington dovrebbe cercare di agire da intermediario tra i suoi alleati asiatici e Pechino con l’obiettivo di raggiungere, attraverso negoziati, un compromesso regionale accettabile tutto, secondo il francese …
Bibliografia
Graham Allison, Destined for War: Can America and China Escape Thucydide’s Trap ?, Scribe, Melbourne-London, 2017.
Ian Burma, “La Cina e gli Stati Uniti sono diretti alla guerra? “, The New Yorker , 19 giugno 2017.
Gordon G. Chang, The Coming Collapse of China , Random House, New York, 2001.
Gordon G. Chang, Fateful Ties. A History of America’s Preoccupation with China , Harvard University Press, 2015.
Amitai Etzioni, Evitare la guerra con la Cina: due nazioni, un mondo, University of Virginia Press, Charlottesville, 2017.
Howard French, Everything Under the Heavens: How the Past Helps Shape China’s Push for Global Power, Knopf, New York, 2017.
Henry Kissinger, De la Chine , Parigi, Fayard, 2012.
John Mearsheimer, The Tragedy of Great Power Politics, WW Norton and Co., 2014.
Joseph Nye, il secolo americano è finito? Politica, 2015.
Chi può dimenticare questa scena surreale al termine di una cena della NATO nel maggio 2015 ad Antaliya, o su invito del ministro degli Esteri turco, ospite dell’evento, funzionari dell’Alleanza e dei suoi stati i membri cantano tutti insieme, a braccetto, l’inno di Michael Jackson e Lionel Richie: “We are the world”? Due anni dopo, durante un’esercitazione NATO in Norvegia, l’atmosfera è molto più cupa. I quaranta soldati turchi che vi partecipano sono stati appena ritirati, con effetto immediato, dal loro governo. La causa ? A seguito delle singole iniziative di un tecnico e di un ufficiale norvegese, l’immagine di Ataturk (fondatore della Repubblica di Turchia) è stata proiettata come bersaglio nemico nelle esercitazioni e sulle reti sono stati trasmessi falsi messaggi a nome del presidente Erdogan su aspetti sociali interni della NATO.
Se, nonostante la profusione di scuse pubbliche, l’incidente ha così tanto segnato gli spiriti, è perché è avvenuto in un momento in cui i vari e variegati punti di attrito si erano già notevolmente accumulati tra Ankara ei suoi alleati. . Una tendenza che da allora si è solo intensificata. Dalle incursioni in Siria alle ripetute interferenze negli affari interni dei Paesi europei attraverso le comunità turco-musulmane, passando per l’invio di jihadisti in Libia e Nagorno Karabakh, alla violazione dell’embargo sulle armi destinato a Libia (al punto da sfiorare uno scontro militare con la fregata francese Courbet), il ricatto migratorio all’Unione Europea, il controverso acquisto di un sistema di difesa antiaereo russo e la revisione unilaterale delle zone marittime in Mediterraneo orientale. Non mancano “soggetti irritanti, anche conflittuali” . [1]
(Credito fotografico: Hurriyet Daily News)
Non sorprende che in Europa e negli Stati Uniti stiano sorgendo domande prima inimmaginabili sul posto della Turchia nell’Alleanza, e l’ipotesi di una sospensione del suo status di membro viene talvolta sollevata al massimo livello. [2] Tuttavia, è importante distinguere tra le cose. La NATO non è un blocco monolitico e non tutti gli alleati sono colpiti nella stessa misura dalle azioni e dalle minacce della Turchia. Le reazioni variano, anche se solo in base alla posizione geografica. Notevoli differenze stanno emergendo tra America ed Europa, ma anche tra gli alleati europei. Può l’atteggiamento apertamente provocatorio di Ankara essere anche un utile rivelatore, un catalizzatore per spostare l’equilibrio del potere? E se sì, in quale direzione?
La multiforme utilità dell’alleato turco
La Turchia è uno dei pochissimi paesi della NATO ad aver mantenuto un certo grado di indipendenza. Come ha recentemente spiegato il vice segretario generale dell’Alleanza, Camille Grand: “è sorprendente quando si arriva nella NATO come francesi che per 26 alleati su 29 la politica di sicurezza e difesa è Prodotto NATO al 90% o al 99%. Ci sono tre eccezioni: Stati Uniti, Francia e Turchia, che hanno sempre mantenuto la volontà di avere uno strumento di difesa che possa funzionare al di fuori dell’Alleanza Atlantica – come possiamo vedere oggi ” . [3] È alla luce di questa specificità che possiamo decifrare il ruolo della Turchia come alleato – una curiosa miscela di diffidenza e utilità.
Utilità diretta
Appena entrata a far parte dell’Alleanza nel 1952, la Turchia era considerata un prezioso alleato, sul fianco meridionale dell’URSS, una sorta di “pilastro orientale della NATO” . Con il suo esercito che occupa una posizione chiave nel paese e coltiva stretti legami con l’esercito americano, la sua politica estera era strettamente allineata a quella degli Stati Uniti, come durante la crisi di Suez nel 1956. Ankara era una figura, all’epoca, “miglior studente della classe atlantica” . [4] Nonostante i suoi tentativi di perseguire una politica più autonoma qua e là, e in particolare dall’invasione della parte settentrionale di Cipro nel 1974, la Turchia ha sempre fatto bene. ha svolto il suo ruolo nell’Alleanza, che non è altro che“La funzione geopolitica dell’Impero Ottomano dalla guerra di Crimea: ostacolare la spinta russo-sovietica verso il Mediterraneo orientale e il Medio Oriente (la cosiddetta strategia dei mari caldi) ”. [5]
Inoltre, l’esercito turco è uno dei più forti della NATO, il secondo in forza con 750.000 uomini. L’ex capo di stato maggiore degli eserciti francesi, il generale Henri Bentégeat ha osservato che “per averla conosciuta bene, è uno dei rari eserciti europei in grado di combattere”[6] Neanche a lei importa dei compiti. L’esercito turco è tra i primi cinque contributori alle operazioni dell’Alleanza, ha perso 15 uomini in Afghanistan e partecipa a missioni di addestramento in Iraq e stabilizzazione nei Balcani. La Turchia assumerà anche la guida di una task force congiunta ad altissima prontezza (VJTF) nel 2021. È anche uno dei cinque paesi europei dell’Alleanza che proteggono i dispositivi nucleari tattici americani sul suo territorio, in la base di Incirlik, nell’ambito della cosiddetta condivisione nucleare della NATO (sotto il controllo operativo esclusivo degli Stati Uniti). Il paese ospita anche il Comando della Terra Alleata a Izmir, nonché il Centro di eccellenza per la difesa contro il terrorismo (una scelta un po ‘ironica viste le aspre controversie tra esso e altri alleati, se non altro per definire la portata di questo argomento). La Turchia ospita anche, per conto della NATO, una base aerea di sorveglianza in avanti AWACS a Konya, nonché una stazione radar di allerta precoce a Kürecik. Forte di tutti questi punti di forza, si sta permettendo sempre più di perseguire una politica autonoma.
Utilità fortuita
Per puro caso, certe manifestazioni di questa autonomia possono talvolta coincidere utilmente con le posizioni difese dalla Francia. Questo è stato notoriamente il caso del rifiuto di partecipare all’invasione americana dell’Iraq nel 2003. Più in generale, i due paesi condividono riserve sul vedere la NATO essere troppo coinvolta, e per di più militarmente, in Medio Oriente. Est. Né Ankara né Parigi vogliono apparire lì come un semplice esecutore dell’agenda degli Stati Uniti. Allo stesso modo, i due preferiscono impedire alla NATO, con la sua retorica, di sconvolgere e provocare le potenze nelle loro vicinanze (vicinato nazionale per la Turchia, europeo per la Francia). I due sono quindi anche contrari, per quanto possibile, all’Alleanza che nomina sempre per nome gli avversari.
Un altro tema su cui convergono oggettivamente gli interessi di Ankara e Parigi è quello delle politiche sugli armamenti. Non che la Francia sia un importante fornitore dell’esercito turco, non lo è. I loro approcci sono comunque vicini nel senso che entrambi sono consapevoli dell’importanza fondamentale di un’industria della difesa nazionale. Condividono anche l’esperienza di essere stati tenuti in ostaggio, di volta in volta, dal regolamento ITAR statunitense che richiede l’autorizzazione, caso per caso, ad esportare qualsiasi apparecchiatura che contenga anche un mezzo chiodo di Origine americana. Il blocco del Congresso, in risposta all’acquisto da parte della Turchia del sistema russo S400, mette a repentaglio un accordo di vendita di elicotteri da 1,5 miliardi di dollari (prodotto dalla Turchia ma concesso in licenza per gli Stati Uniti) in Pakistan, con il suo corollario di danni per Ankara in termini di credibilità e immagine. Una situazione ben nota alla Francia, che recentemente ha visto rallentare la vendita di ulteriori Rafale all’Egitto da parte dell’America, idem per i satelliti militari di osservazione diretti negli Emirati Arabi Uniti. Potrebbe quindi emergere una convergenza di vedute tra Francia e Turchia, in un momento in cui si esercita nella NATO una forte spinta americana a favorire programmi “congiunti”, per definizione dipendenti, piuttosto che contributi nazionali.
Utilità paradossale
C’è un terzo modo in cui la Turchia può essere utile, suo malgrado. In effetti, è stata l’invasione turca della Siria nord-orientale, senza consultazione o preavviso, che è servita come ultimo fattore scatenante per il presidente Macron per esporre la sua visione sulla “morte cerebrale” della NATO, in una controversa intervista al settimanale britannico The Economist[7] Leggendo attentamente le parole del presidente francese, è ovvio che le azioni turche erano solo un pretesto. Un’occasione d’oro per attirare l’attenzione sulle disfunzioni dell’Alleanza, sull’inaffidabilità delle garanzie americane e sulla necessità per gli europei di assumere la propria autonomia. Inoltre, non è la prima volta che la Turchia, involontariamente, utilizza argomenti per rafforzare la linea francese all’interno dell’Alleanza atlantica.
All’inizio degli anni 2000, quando è stata lanciata la politica di difesa dell’UE, Ankara ha reso a Parigi un enorme servizio, anche se sperava di fare il contrario. Una delle prime domande all’epoca era l’articolazione tra la nuova politica europea e la NATO. La Turchia, così come la Norvegia, entrambe sostenute dagli Stati Uniti, hanno combattuto, minaccia di veto a sostegno, per ottenere la massima partecipazione degli alleati non membri dell’Unione Europea a questa nuova politica degli Stati Uniti. ‘UNIONE EUROPEA. La Norvegia si rese subito conto della natura controproducente di un simile approccio. D’altra parte, la Turchia è rimasta su questa posizione, di fronte a quella che considerava l’ennesima ingiustizia e umiliazione da parte dell’Europa. L’ostruzionismo turco nella NATO ha dato i suoi frutti: è riuscita a bloccare accordi formali con l’UE, scambi di informazioni, a volte anche la cooperazione nello stesso teatro di operazioni. Ankara impedisce inoltre agli europei di invocare risorse comuni della NATO per condurre un’operazione. Che cosa“Non disturba affatto la Francia o l’Unione Europea, a dire il vero” , secondo il generale Bentégeat, ex presidente del comitato militare dell’Ue. In effetti, il comportamento della Turchia su questo tema è (anche) una dimostrazione su vasta scala degli svantaggi di scommettere su tutta la NATO e, normalmente, un incentivo in più per gli europei a emanciparsi gradualmente da essa.
Ascesa delle ostilità tra alleati
Ci sono molti disaccordi, e stanno crescendo oggi, nelle relazioni tra la Turchia e il resto della NATO. Negli anni si sono accumulate varie e svariate insoddisfazioni da entrambe le parti. Fino ad ora, tuttavia, i rispettivi interessi hanno fatto sì che le due parti ignorassero le differenze e favorissero il mantenimento di questa strana alleanza.
(Credito fotografico: NATO)
Le rimostranze della NATO
Le relazioni sono segnate dapprima da una lunga serie di ambiguità turche, molto poco apprezzate dai partner della NATO. A cominciare dall’offensiva turca in Siria contro le milizie curde alleate della coalizione anti-Daesh, la cui coalizione è guidata dagli Stati Uniti e annovera tra i suoi membri la NATO in quanto tale (che le fornisce il sostegno Aeromobili AWACS). Un’altra spina nel fianco dei rapporti con l’Alleanza, e in particolare con gli Stati Uniti, è l’acquisto da parte della Turchia del sistema di difesa antiaereo russo S400. Nonostante i ripetuti avvertimenti degli alleati occidentali, la Turchia persiste e firma, mentre chiede loro lo spiegamento delle batterie Patriot quando le sue relazioni con Mosca stanno attraversando una fase di tensione. Infine,
Più in generale, le differenze turco-NATO sono evidenti a livello politico-strategico. Anche se l’Alleanza Atlantica è tradizionalmente posizionata contro la Russia e sempre più contro la Cina, Ankara non esita a flirtare con la Shanghai Cooperation Organization (SCO), creata nel 2001 come una sorta di Controparte sino-russa dell’alleanza occidentale. Dal 2012 la Turchia ha lo status di “partner di dialogo” e Ankara aveva più volte espresso l’intenzione di diventare un giorno un membro a pieno titolo dell’organizzazione. Il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu è arrivato al punto di dire:“Con questa scelta dichiariamo di condividere lo stesso destino dei paesi SCO. La Turchia fa parte di una famiglia composta da paesi che convivono non da secoli, ma da millenni. “ Detto questo, la Turchia non intende cambiare un’alleanza con un’altra, ma piuttosto spera di espandere il proprio grado di autonomia. Resta il fatto che gli alleati della NATO non guardano molto favorevolmente alle esercitazioni militari congiunte ad Ankara, nello spazio turco, a volte con i cinesi, a volte con i russi.
Un certo numero di argomenti tecnici, con una dimensione altamente politica, interrompe regolarmente anche le relazioni NATO-Turchia. Al momento dell’istituzione dello scudo antimissile della NATO, la Turchia faceva affidamento sulla posizione geografica ideale di Kürecik, una stazione radar di preallarme, per imporre le sue condizioni: l’Alleanza non nominerà il ‘Iran o Siria (o qualsiasi altro paese vicino alla Turchia) come una minaccia esplicita; i dati raccolti non possono essere trasmessi a paesi terzi (Israele in questo caso); e un alto ufficiale turco sarà permanentemente di stanza presso il Centro di comando della NATO. Per quanto riguarda l’altro grande dossier “tecnico”, il sistema russo S400, l’Alleanza evidenzia i problemi di interoperabilità con i sistemi NATO, ma è l’albero che nasconde la foresta.
La Turchia inoltre non esita a prendere in ostaggio le politiche dell’Alleanza se ritiene che i suoi interessi siano stati danneggiati in un modo o nell’altro. A volte ricorre a minacce di chiusura o restrizione dell’accesso alle basi americano-NATO sul suo territorio. In altri casi, Ankara paralizza per mesi l’attuazione del piano di difesa per la Polonia e gli Stati baltici, blocca tutti i programmi di Partenariato per la Pace che coinvolgono l’Austria, restringe fortemente le possibili aree di consultazione e cooperazione tra UE e NATO, anche se significa generare singhiozzi operativi (come in Kosovo o in Afghanistan). Ciliegina sulla torta, durante la grande epurazione del 2016, a seguito del golpe fallito, Erdogan licenziò da un giorno all’altro la metà dei 300 soldati turchi distaccati nei comandi europei (cosa che non fu priva di problemi di gestione e di competenza, secondo il SACEUR dell’epoca, il generale americano Curtis Scaparotti ). E ancora, l’elenco è tutt’altro che esaustivo.
Le lamentele di Ankara
Da parte turca, l’immagine dell’Alleanza non è affatto più brillante. Secondo l’ultimo sondaggio transatlantico Pew pubblicato all’inizio del 2020, la Turchia è lo Stato membro in cui la NATO è di gran lunga la più impopolare, con solo il 21% di opinioni favorevoli (contro l’82% in Polonia). [ 9] La base del malcontento turco è stata a lungo la sensazione di essere un alleato di seconda classe. I turchi sentono che le politiche e le manovre di altri alleati li smascherano e li mettono in pericolo, senza che abbiano sempre voce in capitolo e senza essere difesi, se necessario, dalla NATO, in tal modo. affidabile e credibile.
In questo contesto, gli alleati sembrano ignorare le preoccupazioni turche su quella che Ankara vede come una minaccia esistenziale per il paese: la sfida curda. Da qui l’estrema tensione all’interno della NATO durante la guerra in Siria sulla definizione di terrorismo. Agli occhi della Turchia la situazione è grottesca: gli Stati Uniti hanno armato e addestrato le milizie curde siriane affiliate al PKK (riconosciuta come organizzazione terroristica sia dall’UE che dall’America), proprio per facilitarne la vita. usandoli come ausiliari in combattimento. Per gli alleati occidentali, l’ossessione curda per Ankara indebolisce la coalizione anti-Daesh e mette così in pericolo la lotta al terrorismo “reale”. La burocrazia della NATO, da parte sua, si nasconde dietro la formula universale:“Stiamo combattendo il terrorismo in tutte le sue forme” .
Di fronte all’aumento delle minacce e alla destabilizzazione del suo vicinato, la Turchia sente di ricoprire nuovamente il ruolo di un alleato affidabile che finirà per fare uno scherzo. Durante la prima guerra del Golfo nel 1991, Ankara accolse le richieste di Washington e le concesse l’uso gratuito della base di Incirlik per le operazioni aeree contro l’Iraq. E questo nonostante la massiccia opposizione dell’opinione pubblica e le dimissioni del Ministro degli Affari Esteri, del Ministro della Difesa e del Capo di Stato Maggiore della Difesa. Nonostante ciò, è stata espressa riluttanza – in particolare dalla Germania – alla NATO per quanto riguarda la difesa della Turchia (in caso di contrattacco iracheno in risposta ai bombardamenti americani). Alla fine, l’Alleanza ha preso questa decisione, ma la sua credibilità, agli occhi dei turchi, ha subito una grave battuta d’arresto.
Ribellarsi nel 2003, durante i preparativi per l’invasione americana dell’Iraq. La Turchia questa volta ha deciso di non mettere a disposizione di Washington l’uso delle sue basi. Alla NATO, gli Stati Uniti vogliono adottare un piano di difesa per la Turchia, che Francia, Germania e Belgio rifiutano, sulla base del fatto che nelle circostanze ciò equivarrebbe ad avallare in anticipo la bellicosa avventura di America. Ancora una volta, la questione verrà risolta sotto la pressione americana e la Turchia riceverà rinforzi alleati, ma non senza un po ‘di amarezza. Da allora, e poiché la regione si è effettivamente scatenata da questa invasione, l’invocazione da parte della Turchia dell’articolo 4 del Trattato di Washington e la richiesta di dispiegamento di batterie Patriot sono diventate un esercizio quasi regolare. Anche in un modo
L’Alleanza nonostante tutto
Tra Ankara e NATO “è sempre stato un matrimonio di convenienza”, secondo James Jeffrey, ex ambasciatore degli Stati Uniti in Turchia. Da un lato, la posizione geopolitica unica della Turchia (al crocevia tra Europa, Medio Oriente e Caucaso, controllando l’accesso al Mar Nero) ha reso Ankara un alleato praticamente insostituibile a cui perdoniamo alcuni scherzi. D’altra parte, quella stessa posizione facile da incassare significa che la Turchia è nel mezzo di una polveriera. Ha quindi bisogno di questa alleanza occidentale anche per proteggersi da potenti vicini e come leva aggiuntiva per opporsi a loro. Per la NATO, l’intensificazione, sia per numero che per natura, delle azioni turche negli ultimi anni pone una questione delicata. Come afferma Muriel Domenach, ambasciatore francese presso la NATO:“Come possiamo tenere a bordo un alleato tanto indispensabile quanto indipendente, per non dire incontrollabile ? “ [10] Questo alla fine si riduce a una questione di dosaggio.
Piantagrane, ma a quale scopo?
Secondo il segretario generale aggiunto della NATO Camille Grand, “in realtà, l’opinione di tutti gli alleati è che mantenere la Turchia a bordo della NATO oggi ha molti più vantaggi di quanto ne abbia. “svantaggi” . [11] Ha anche osservato: “A Bruxelles, alcuni dicono che è un po ‘come era la Francia, vale a dire un alleato che spesso dice di no, che fa domande, che difende i suoi interessi con molta energia ” . Apprezziamo, tra l’altro, l’uso del passato in termini di brio della Francia … Comunque, il confronto si ferma qui. Nel caso francese, le posizioni solitarie e “non ortodosse” facevano spesso parte di un’ambizione europea, mentre nel caso turco l’Europa è più un bersaglio.
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L’Europa nel mirino
Sarebbe difficile ignorare che, per la maggior parte, gli obiettivi turchi sono principalmente contro gli interessi europei. Il rapporto 2020 della Commissione di Bruxelles non dice altro quando osserva: “La politica estera della Turchia è sempre più in contrasto con le priorità dell’UE” . [12] Questo è incredibilmente vero per l’ UE . crisi nel Mediterraneo orientale. Essendo Grecia e Cipro membri dell’Unione europea, qualsiasi tentativo di sgranocchiare i loro confini, marittimi o meno, equivale a mettere in discussione quelli dell’UE. Questo è esattamente ciò che ha sottolineato Clément Beaune, segretario di Stato francese per gli affari europei:“La Turchia sta perseguendo una strategia consistente nel mettere alla prova i suoi vicini immediati, Grecia e Cipro e, attraverso di loro, l’intera Unione europea . “ [13] Fin dall’inizio, la Francia ha visto questo come una questione cruciale per la politica europea. di solidarietà “nei confronti di qualsiasi Stato membro la cui sovranità venga contestata” . [14] Il ministro degli Affari esteri greco segue l’esempio insistendo sul fatto che “la Grecia difenderà i suoi confini nazionali ed europei, la sovranità ei diritti sovrani di “Europa” . [15]
Allo stesso modo, a causa dell’apertura delle frontiere interne in Europa, il ricatto migratorio riguarda in ultima analisi l’intera Unione. Minacciare, come fa il presidente Erdogan, di “lasciare andare” l’Europa dei quasi 4 milioni di migranti sul suo suolo è uno strumento di pressione particolarmente potente – e Ankara è pronta a eliminarlo al minimo inconveniente. In particolare, per evitare gravi sanzioni che l’UE potrebbe adottare in risposta alle sue attività ostili nel Mediterraneo, sia che si tratti dell’esplorazione di idrocarburi nelle acque territoriali greche e cipriote, sia del suo attivo sostegno alla violazione dell’embargo su armi destinate alla Libia.
Oltre ai trasferimenti di armi, la Turchia vi manda anche uomini. Come spiega il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian: “le forze che sostengono il presidente al-Sarraj sono organizzate dai turchi attorno alle milizie nella regione occidentale della Libia. Sono combattenti filo-turchi pagati e trasportati su aerei dalla zona di Idlib per combattere in Libia, sorvegliati da ufficiali turchi ” . E il ministro a suonare il campanello d’allarme:“È importante che l’Unione europea si renda conto che il controllo di questa parte dell’Africa settentrionale sarà assicurato da attori che non hanno gli stessi standard di sicurezza di noi né gli stessi interessi. Ci sono rischi qui per l’Europa in termini di sicurezza e sovranità, che si tratti di flussi migratori incontrollati o di minacce terroristiche “ . [16] Inutile dire che il pericolo che l’Europa sia in balia di potenze straniere che sarebbero in grado di aprire o chiudere a piacimento queste fonti di instabilità. L’ultimo affronto, Ankara ha rilevato l’addestramento della guardia costiera libica: un progetto in cui l’UE aveva già investito anni di sforzi e quasi 50 milioni di euro. [17]
Infine, gli europei subiscono l’interferenza turca nei loro affari interni, che prende il posto delle comunità turco-musulmane installate sul loro suolo. I governi che cercano di resistere, ad esempio vietando le campagne politiche interne turche sul loro territorio, sono descritti da Ankara come fascisti, nazisti, razzisti e islamofobi. È stato a causa di tale “attrito” in vista del referendum costituzionale turco del 2017 che Germania, Francia, Danimarca e Paesi Bassi hanno impedito che il vertice NATO del 2018 si tenesse in Turchia. Se le sporgenze di Erdogan sono solo la punta dell’iceberg, non sono meno istruttive. Che dire, infatti, di un alleato, che chiede agli immigrati di origine turca di avere tanti figli per vendicarsi delle ingiustizie e diventare“Il futuro dell’Europa ? “ [18] O chi lancia avvertimenti pericolosi: a meno che non cambino atteggiamento nei confronti della Turchia, gli europei non saranno in grado di camminare in sicurezza per le strade … [19]
La pretesa del presidente turco di essere la punta di diamante del mondo musulmano lo aveva già portato a importare queste questioni di “civiltà” nell’Alleanza. Anche se gli alleati erano impegnati contro i terroristi Daesh, gli ufficiali turchi, su istruzioni del loro governo, passavano il loro tempo a impedire che i documenti dell’Alleanza avessero alcun legame tra terrorismo e Islam. ] Allo stesso modo, Erdogan ha cercato di bloccare, nel 2009, la nomina di Anders Fogh Rasmussen alla carica di Segretario generale della NATO. Il suo crimine? Dopo la pubblicazione delle caricature di Maometto su un quotidiano danese, Rasmussen, allora primo ministro, non si scusò (a sufficienza) con il mondo musulmano. In particolare, ha avuto l’audacia di affermare:“In Danimarca attribuiamo un’importanza fondamentale alla libertà di espressione” . Anche se si è affrettato ad aggiungere: “Detto questo, rispetto profondamente i sentimenti religiosi degli altri. Da parte mia, non avrei mai scelto di disegnare simboli religiosi in questo modo ” . Tuttavia, è stato necessario l’intervento del presidente Obama perché Ankara revocasse il suo veto.
Europei con abbonati assenti
Certamente, la stessa Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, fa l’osservazione sulla Turchia: ” se siamo geograficamente vicini, la distanza tra noi sembra continuare a crescere” . Per lo scenario più chiaro, quello in cui la Turchia minaccia esplicitamente i confini europei, ci assicura: “I nostri Stati membri, Cipro e Grecia, potranno sempre contare sulla totale solidarietà europea per tutelare i loro legittimi diritti in questo settore. di sovranità “. Tuttavia, anche su questo tema, pochi Stati membri, a parte la Francia, sono presenti quando si tratta di tradurre in azione questa proclamata solidarietà. Sia attraverso l’imposizione di sanzioni, sia attraverso adeguati schieramenti militari, come l’invio di navi da guerra francesi e aerei da combattimento nell’area. I partner europei vestono la loro inerzia dietro la facile formula secondo la quale “non dobbiamo soprattutto alienare la Turchia” . Tuttavia, non si dovrebbe scavare troppo in profondità per trovare altri motivi.
La Germania è un caso da manuale. È estremamente discreta sui temi più sfortunati che coinvolgono la Turchia, pur offrendo i suoi servizi di “mediazione”. Strana confusione di ruoli da parte di Berlino che, pur assumendo la presidenza di turno dell’Unione Europea, preferisce non prendere posizione quando un alleato extracomunitario, la Turchia, usa manovre intimidatorie per per quanto riguarda due paesi dell’UE, Cipro e Grecia. Inoltre, piuttosto che parlare a sostegno dei suoi partner dell’UE, la Germania sembra prevenuta a favore dell’altra parte. A causa degli strettissimi legami economici e migratori che si sono intessuti tra Berlino e Ankara, oggi è troppo esposta alle pressioni turche per poter agire come arbitro imparziale. Ospita una diaspora turca di circa 4 milioni di persone,
Per finire, la Germania e la maggior parte dei paesi europei hanno in mente un’altra considerazione quando sono riluttanti a rispondere seriamente alle provocazioni del presidente Erdogan. La cancelliera Merkel è arrivata a un vertice dell’UE dedicato a rispondere alle provocazioni turche, dicendo fin dall’inizio che non aveva intenzione di colpire troppo duramente le sanzioni perché, ha voluto ricordare : “La Turchia è un alleato della NATO”. Il desiderio di non seminare discordia nell’Alleanza ha la precedenza, come spesso, sugli interessi propriamente europei. Gli alleati europei non vogliono in particolare indebolire ulteriormente una NATO già vacillante (recentemente sotto i colpi del presidente Trump) ma che considerano ancora, a torto oa ragione, la garanzia ultima della loro difesa.
L’America con le sue priorità
L’Alleanza, per definizione, non è mai stato il forum più in grado di arginare le inclinazioni turche, per il semplice motivo che la Turchia, in quanto Stato membro, ha proprio lì il diritto di veto. Al di là di questa verità lapalissiana, è la posizione degli Stati Uniti che spiega ampiamente il silenzio e la procrastinazione della NATO sui numerosi fascicoli controversi che coinvolgono l’alleato turco. Di questi, solo due sono considerati dall’America come problemi seri. La prima è la questione curda, con Washington che difficilmente si rende conto che le preoccupazioni di Ankara ostacolano i suoi piani e le sue attività nella regione, sia in Iraq che in Siria. Il secondo riguarda l’acquisto da parte della Turchia del sistema di difesa antiaereo russo S400.
Ironia della sorte, anche su questi due temi che si oppongono soprattutto turchi e americani, sono ancora gli europei a rischiare di pagarne le spese. Quando la NATO ha rifiutato di designare le milizie curde siriane come gruppi terroristici, è stato il piano di difesa per i paesi baltici e per la Polonia che è stato tenuto in ostaggio per molti mesi dalla Turchia. Allo stesso modo, se gli Stati Uniti spingono per l’imposizione di sanzioni contro i turchi a causa dell’acquisto di attrezzature russe, una delle prime ritorsioni di Ankara contro “l’Occidente” sarà necessariamente ricorrere a al ricatto migratorio alle frontiere dell’UE, ancora una volta. L’Europa, geograficamente esposta e politicamente paralizzata, è l’obiettivo ideale della Turchia.
A parte la questione curda e l’S400, gli Stati Uniti guardano altri soggetti da lontano, avendo in mente le proprie priorità. Tutto ciò che aiuta a isolare la Russia, arginare la Cina e mantenere l’Europa sotto tutela è il benvenuto. La Turchia occupa una posizione chiave su tutti e tre i fronti: guardiano sul fianco meridionale della Russia, tenendo lo stretto del Bosforo e dei Dardanelli; un collegamento cruciale nei piani della Cina per la Nuova Via della Seta; e fonte permanente di confusione nelle ambizioni della difesa europea, Ankara ha quindi ancora molte carte in mano.
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Da questo panorama complesso emerge un fatto ovvio: NATO ed Europa non sono la stessa cosa. La presenza della Turchia nell’Alleanza atlantica, e la distanza geografica dagli Stati Uniti, fanno sì che per gli europei la NATO non sia, lontano da essa, il foro ideale per trattare argomenti che riguardano Ankara. È anche con questa idea in mente che la Grecia ha insistito su un dettaglio significativo nel trattato UE. In particolare inserire, tra gli obiettivi della politica estera e di sicurezza, la “salvaguardia dell’integrità dell’Unione”, in altre parole la difesa delle frontiere esterne. Questo elemento – peraltro spesso ignorato, eppure ricco di possibili ramificazioni – è stato aggiunto nel Trattato di Amsterdam del 1997, su esplicita richiesta di Atene, che non è affatto sfuggita ai leader turchi.
Non appena la Turchia se ne è impossessata, con gli accordi NATO-UE sospesi per l’approvazione di tutti gli alleati, una delle condizioni poste da Ankara è stata la promessa che le forze dell’Unione Europea non saranno mai usate contro uno Stato membro. dell’Alleanza. La Turchia voleva impedire alla Grecia, poi affiancata da Cipro dopo la sua adesione all’UE, di poter coinvolgere militarmente l’intera Unione nelle loro controversie. Al termine di due anni di trattative, è stata fatta la promessa, con lo strano impegno, richiesto dalla Grecia in nome del principio di reciprocità, che nemmeno la NATO attaccherà mai un Paese dell’Unione Europea. Ad ogni modo, questi dettagli dicono molto sulla netta distinzione tra le due organizzazioni, nonostante il fatto che 21 stati siano membri di entrambe. Sul caso turco,
Per Washington, a differenza dell’Europa, l’importanza della questione turca è abbastanza relativa. L’America può permettersi un approccio più distaccato e più libero. Certo, Ankara è un alleato di prim’ordine nel contrastare le inclinazioni russe, iraniane o cinesi, o anche le timide ambizioni europee di autonomia strategica. D’altra parte, è improbabile che gli Stati Uniti si trovino sotto la pressione diretta della sicurezza sia ai suoi confini che al loro interno, a causa di possibili animosità della Turchia. Il loro principale avversario è la Cina, e in una certa misura ancora la Russia. L’America sta osservando attraverso questo prisma le manovre in Medio Oriente, in termini di concorrenza, isolamento e contenimento da Mosca e, soprattutto, Pechino. Finché la Turchia contribuisce, avrà il suo posto nella NATO, rimarrà un utile alleato. Ma le sue azioni non devono disturbare troppo la disciplina dell’Alleanza, che spinge gli europei a prendere le distanze, il che impedirebbe il loro reclutamento dietro Washington, sotto la bandiera della NATO, nella competizione tra le grandi potenze. Dove finirà l’equilibrio? Harold Macmillan, primo ministro britannico alla fine degli anni ’50, una volta rispose al giornalista che gli chiedeva cosa influenzi maggiormente la politica del governo: Dove finirà l’equilibrio? Harold Macmillan, primo ministro britannico alla fine degli anni ’50, una volta rispose al giornalista che gli chiedeva cosa influenzi maggiormente la politica del governo: Dove finirà l’equilibrio? Harold Macmillan, primo ministro britannico alla fine degli anni ’50, una volta ha risposto al giornalista che gli ha chiesto cosa influenza maggiormente la politica del governo:“Gli eventi, mio caro ragazzo, gli eventi” …
(Hajnalka Vincze, Turchia nella NATO, tra utilità e ostilità, Nota IVERIS, 26 novembre 2020)
Note: [1] Audizione di Jean-Yves Le Drian, ministro per l’Europa e gli affari esteri, davanti alla commissione per gli affari esteri dell’Assemblea nazionale, Parigi, 7 ottobre 2020. [2] Ministro degli affari esteri degli Stati Uniti John Kerry aveva già lanciato l’idea di una sospensione nel 2016 e il ministro della Difesa Mark Esper ha rivelato alla fine del 2019 che anche lui aveva avvertito Ankara che il suo mantenimento nella NATO era in pericolo. Da parte della Francia, l’ex presidente François Hollande, chiede di sospendere la partecipazione turca alla NATO. Per il ministro Le Drian serve una “grande spiegazione”, perché “non sappiamo più se la Turchia è nell’alleanza, fuori dall’alleanza o al suo fianco. “ [3] Tavola rotonda all’Assemblea nazionale, 27 novembre 2019. [4] Jean-Sylvestre Mongrenier, Lo stato turco, il suo esercito e la NATO: amico, alleato, non allineato?, Hérodote 2013/1. [5] Idem. [6] Tavola rotonda all’Assemblea nazionale, 27 novembre 2019. [7] Trascrizione: Emmanuel Macron nelle sue stesse parole (francese) – Intervista del presidente francese a The Economist, 7 novembre 2019. [8] Audizione di SE Ismaïl Hakki Musa, ambasciatore turco in Francia, alla commissione per gli affari esteri e la difesa del Senato, 9 luglio 2020. [9] NATO vista favorevolmente negli Stati membri, Pew Research Center, 9 febbraio 2020. [10] Audizione di Muriel Domenach alla Commissione Affari Esteri e Difesa del Senato, 18 dicembre 2019. [11] Tavola Rotonda all’Assemblea Nazionale, 27 novembre 2019. [12] Rapporto sulla Turchia 2020, Commissione europea, 6 ottobre 2020. [13] Audizione di Clément Beaune, Segretario di Stato per gli affari europei, alla Commissione per gli affari europei dell’Assemblea nazionale, 17 settembre 2020. [14] Comunicato stampa dell’Elysee, 12 agosto 2020. [15] Alleati della NATO si scontrano nel Mediterraneo, Fr24news, 26 agosto 2020. [16] Situazione nel Mediterraneo – Audizione di Jean-Yves Le Drian, Europa e Affari Esteri, alla Commissione Affari Esteri e Difesa Nazionale del Senato, 8 luglio 2020. [17] Nicolas Gros-Verheyde, La formazione della Guardia Costiera libica: nelle mani dei turchi? Cattivo segnale per gli europei, Bruxelles2, 25 ottobre 2020. [18] “You Are the Future of Europe”, Erdogan Tells Turks, New York Times, 17 marzo 2017. [19] Erdogan avverte che gli europei “non cammineranno sani e salvi” se l’atteggiamento persiste, mentre la discussione continua, Reuters, 22 marzo 2017 . [20] Kamal A. Beyoghlow, Turchia e Stati Uniti sul Brink, US Army War college, gennaio 2020, p44.