le virtù di Soros e la solerzia dei Torquemada, di Giuseppe Germinario

Di Soros si raccontano le peggiori nefandezze. Non gli si possono negare, però, due qualità fondamentali: la capacità di operare su grande scala, per lo più quella planetaria; il rispetto della parola data nonché la determinazione nel perseguirla. Mesi fa il paladino, a Davos, http://italiaeilmondo.com/2018/01/26/george-soros-la-parabola-di-un-filantropo_-di-gianfranco-campa-e-giuseppe-germinario/aveva sentenziato sulla necessità di regolamentare l’attività dei social network e ripristinare la verità con un tono però, a dire il vero, inquietante, tra il profetico e il minatorio. 

Detto, fatto!

Da allora la campagna sulle fake news ha conosciuto toni sempre più virulenti e azioni sempre più insidiose. Zuckerberg ha aperto il corteo dei penitenti della comunicazione, osannati sino al giorno prima; ha conosciuto la gogna della inquisizione del Congresso americano. Ha dovuto con fare contrito sottostare ad un pubblico processo conclusosi con un solenne impegno a ripulire Facebook degli spiriti bollenti e delle anime impenitenti troppo esposte nella critica ai benpensanti e al politicamente corretto. Da allora si sono intensificate, specie negli Stati Uniti, censure e chiusure di siti, anche con accessi milionari, ma sempre più caratterizzabili per la loro collocazione politica piuttosto che per la loro eccessiva irruenza. Il prodromo alla istituzione di veri e propri tribunali della verità i giudici dei quali avranno poco da invidiare a Torquemada. http://italiaeilmondo.com/2018/03/01/1517/

La Commissione Europea, come al solito solerte, approfittando, a dispetto del suo liberalismo conclamato, del legame tuttora tenue ed evanescente con una cittadinanza europea di là da materializzarsi e di quello più che solido e perverso, connaturato con le varie lobby presenti in pianta stabile a Bruxelles, sta precorrendo i tempi. Sta affidando ad associazioni di “provata fede democratica” il compito di identificare, segnalare e proscrivere i “mestatori” della notizia. Tra queste non potevano mancare associazioni di diretta emanazione ed affiliazione alla Open Society del noto filantropo naturalizzato americano. Ce lo rivela Breibart http://www.breitbart.com/london/2018/04/28/european-union-advocates-independent-fact-checkers-combat-fake-news/  (in basso la traduzione effettuata con un traduttore) Per quanto prodigo, ed i recenti 18.000.000.000,00 (diciottomiliardi) di $ (dollari) messi a disposizione dell’umanità sono tutti lì ad attestarlo, George Soros non può rimuovere del tutto la sua propensione all’affare e l’indole da realizzo propria di un finanziere predatore.http://italiaeilmondo.com/2017/10/22/un-torrido-inverno-di-giuseppe-germinario/ Ci pensa quindi il buon Junker, il Presidente della C.E., tra una bottiglia e l’altra, a rimpinguarlo con i contributi europei, quindi a spese nostre, di una opera tanto meritoria e ricompensarlo di tanto afflato. Dall’Europa, al Nord-Africa, all’Ucraina al Medio Oriente, per parlare delle ultime prodezze, ad ogni angolo sperduto del mondo il benefattore si è speso e prodigato per la libera umanità a spese degli uomini. Le fregature e le nefandezze in corso d’opera sono solo eventi collaterali, probabilmente il giusto obolo da offrire al BENE. Merita quindi laute ricompense.

Soros, si badi bene, non è un eroe, un cavaliere solitario. E’ parte integrante, forse l’anima più appariscente, ma non più importante di centri decisori e di potere ai quali ultimamente deve essere sfuggito il pieno controllo delle redini, o presunto tale.

La fretta e la sicumera nel ripristinare le condizioni precedenti può essere fatale; c’è un solco di profonda diffidenza che divide ormai i facitori di opinioni e i loro consumatori.

Il tentativo di ripristino, sempre che sia coronato da un pieno successo, comporterà comunque un fìo da pagare particolarmente pesante ai restauratori. Le reti dei social network, a causa di queste pressioni e inbragature, sono destinate sempre più a perdere il loro carattere universalistico, luogo comune di confronto e palestre dei punti di vista più disparati. Rischieranno di diventare dei recinti riservati a gruppi chiusi e conformisti sempre meno comunicanti tra di loro. Una vera e propria ghettizzazione dei luoghi di comunicazione. I paesi che ambiscono a mantenere e accrescere la propria condizione di sovranità ed autonomia politica e decisionale, in particolare la Cina e la Russia stato già provvedendo alla costruzione di proprie reti sociali. I paesi europei sono desolatamente estranei a queste tentazioni; con essi la Commissione Europea. Eppure le reti arrivano ormai a gestire non solo le comunicazioni degli individui, ma sempre più anche i flussi decisionali e le stesse attività produttive. Non basta. E’ probabile che si inneschi anche la segmentazione delle reti secondo le affinità ideologiche e culturali dei gruppi promotori all’interno dei singoli paesi. Una tendenza e una reazione alla censura strisciante già emersa negli Stati Uniti. Una possibilità di mantenere sotto altre forme alcuni spazi di libertà. Il prodromo però a quella ulteriore incomunicabilità e frammentazione tra gruppi sociali che sta caratterizzando la formazione sociale statunitense già da diverso tempo.

Certamente un altro prossimo eclatante successo dei paladini dell’europeismo e dell’armonia tra i popoli ospiti della ormai appendice occidentale dell’Asia.

Di certo una soluzione non risolutiva. A quel punto i tentativi di controllo si sposteranno ulteriormente verso i detentori dei server materni attraverso i quali passano i flussi informatici. Una ulteriore sfida che i paesi e i centri competitori dovranno affrontare per mantenere la propria autonomia di giudizio e decisionale e un ulteriore divario da quelle ambizioni delle attuali classi dirigenti europee.

VIVA LA LIBERTà, quindi, purché ben utilizzata e soprattutto conforme alle direttive e al sentimento dei predicatori del bene comune.

Ci aspettano, quindi, nuove forme surrettizie ed esplicite di censura tanto più efficaci quanto più si potranno ricomporre o mettere sotto traccia i contrasti tra gruppi decisori.

Contrariamente alla rappresentazione corrente, però, i poteri forti detentori di tale capacità non sono a Bruxelles. Lì trovano posto semplici funzionari dotati di potere riflesso e con scarse prerogative sovrane. Dovremo cercarli piuttosto oltreatlantico e di risulta nelle due/tre principali capitali europee. Da quelle parti sarà possibile individuare i veri artefici. Si potranno controllare le chiavi di casa propria e negare gli ingressi e l’agibilità ai filantropi mestatori di turno. L’Ungheria e l’Austria ci hanno indicato la strada. Si dovrebbe cogliere il loro esempio. Giuseppe Germinario

L’Unione europea appoggia i “controllori di fatti indipendenti” finanziati da Soros per combattere “false notizie”

La Commissione europea ha proposto nuove misure per contrastare la disinformazione e le cosiddette “false notizie” online, compreso un codice di condotta a livello UE sulla disinformazione e il sostegno a una “rete indipendente per il controllo dei fatti”.

La Commissione europea ha annunciato la nuova proposta all’inizio di questa settimana, sostenendo che le nuove misure “stimoleranno il giornalismo di qualità e promuoveranno l’alfabetizzazione mediatica”, secondo un comunicato stampa pubblicato sul sito web della Commissione.

“L’armamento di notizie false online e disinformazione rappresenta una seria minaccia alla sicurezza per le nostre società. La sovversione dei canali fidati per diffondere contenuti perniciosi e divisivi richiede una risposta chiara basata su maggiore trasparenza, tracciabilità e responsabilità “, ha  dichiarato il commissario per l’Unione di sicurezza Sir Julian King .

“Le piattaforme Internet hanno un ruolo vitale da svolgere nel contrastare l’abuso delle loro infrastrutture da parte di attori ostili e nel mantenere i loro utenti e la società al sicuro”, ha aggiunto.

Le nuove pratiche intendono rendere più trasparenti le pubblicità politiche sui social media e creare una rete indipendente di controllo dei fatti a cui prenderanno parte alcuni membri della Rete internazionale di controllo dei fatti (IFCN).

Breitbart London@BreitbartLondon

Sweden’s government will be giving funds to the mainstream media to fight “fake news” http://www.breitbart.com/london/2017/10/30/sweden-media-million-fight-fake-news-election/ 

Sweden to Give Mainstream Media £1.2 Million to Fight Fake News in Run-up to National Election

The Swedish government will be granting four mainstream media outlets £1.2 million to combat “fake news” ahead of next year’s election.

breitbart.com

L’IFCN è stato fondato dal Poynter Institute, con sede negli Stati Uniti, che,  secondo il suo sito web, è in gran parte finanziato da varie fondazioni – tra cui l’Open Society Foundations del miliardario di sinistra George Soros.

Diversi altri servizi di “fact-checking”, incluso il Correctiv tedesco, sono stati anche collegati a Soros e alle Open Society Foundations.

L’UE, così come i vari singoli paesi all’interno del blocco come la Germania e la Svezia, ha esercitato un’enorme pressione sui giganti dei social media come Google e Facebook per affrontare “false notizie” e “incitamento all’odio” sulle loro piattaforme.

Il governo svedese è stato uno dei più rumorosi sostenitori della lotta alle “false notizie” in vista delle elezioni nazionali del paese entro la fine dell’anno. Il governo ha tenuto incontri di alto profilo  con aziende tecnologiche nelle ultime settimane, e Facebook ha persino concesso al governo un permesso speciale per eliminare “account falsi”.

LA SINISTRA ALLE PRESE CON LA NAZIONE, L’EUROPA ED IL MONDO, di Pierluigi Fagan

Qui sotto un interessante saggio di Pierluigi Fagan (PF), con relativo link al sito originario di pubblicazione. L’argomento (la sinistra, la nazione e la geopolitica) prosegue sulla falsariga di saggi già pubblicati su questo sito e ovviamente sul blog dell’autore. Per accedervi è sufficiente digitare sulla voce dossier del menu in alto e sul nome dell’autore. Il tema è ricco di spunti; la finalità dell’autore è di contribuire a far uscire il dibattito e l’azione politica dei critici della Unione Europea dallo stallo abbarbicato com’è alle mere enunciazioni di principio e ad un approccio meramente negativo della proposta politica, specie della componente sinistrorsa. La chiosa non intende essere una critica al testo, quanto piuttosto un tentativo di focalizzare schematicamente alcuni punti sui quali sviluppare un dibattito proficuo.

Fagan in particolare, nella fase di multipolarismo complesso in via di affermazione:

  • ritiene imprescindibile il problema della dimensione degli stati nazionali. Una posizione nient’affatto scontata; sono numerosi i fautori della tesi che attribuisce anche agli stati più piccoli, purché attrezzati con una adeguata classe dirigente, significative condizioni di agibilità
  • le dinamiche geopolitiche sono altrettanto importanti delle dinamiche tra le classi sociali; anzi, una condizione ottimale nelle prime consente una migliore gestione delle formazioni sociali. In questo ambito il dibattito generale spazia tra la priorità attribuita alle dinamiche sociali e i rapporti tra stati, tema tipico della sinistra e della estrema destra e l’esclusività attribuita ai rapporti geopolitici tra stati e istituzioni, tipica degli analisti geopolitici. Nel mezzo, a dar man forte all’approccio “complesso” offerto da Fagan, trova posto a pieno titolo, come promettente chiave di interpretazione delle dinamiche politiche, la teoria lagrassiana del conflitto strategico tra centri decisori
  • affronta la questione fondamentale riguardante l’approccio al rapporto con l’Unione Europea con una importante delimitazione. Il suo discrimine riguarda non solo i sostenitori duri e puri della UE, ma anche i cosiddetti riformatori. Le possibili posizioni dipendono in pratica dalle combinazioni possibili delle relazioni tra gli stati europei eventualmente aggregati in aree omogenee
  • vede nella Francia il baricentro della costruzione europea. Una posizione originale rispetto alle tesi prevalenti che attribuiscono alla Germania il primato politico oppure agli Stati Uniti l’assoluta predeterminazione della costruzione e degli indirizzi politici comunitari.Una ricostruzione storica delle vicende comunitarie può sembrare un puro esercizio accademico; serve in realtà a determinare le dinamiche e il peso dei vari decisori. La letteratura, al netto dell’agiografia, offre diversi punti di vista. Uno di questi, ben presente nella ricerca francese e statunitense, attribuisce alla classe dirigente “sovranista” francese la volontà di sostegno al progetto comunitario nella misura in cui fosse stata la Francia, con inizialmente la Gran Bretagna, a determinare gli indirizzi. In soldoni, nella misura e nei momenti in cui sarebbe apparsa sempre più chiara l’assoluta influenza americana e la sua volontà di sostenere la Germania in funzione antifrancese e antibritannica e come importante risorsa antisovietica, l’afflato comunitario della Francia sarebbe a sua volta venuto meno. Con due eccezioni importanti tra le quali l’azione dell’oestpolitik tedesca negli anni ’70 che indusse i francesi a sostenere l’ingresso della Gran Bretagna
  • consiglia di prendere atto della progressiva formazione di più aree europee politicamente autonome per individuare in quella latino-mediterranea, il possibile coagulo di forze capace di sostenere il confronto.    

Si attendono sviluppi e contributi_Buona lettura_Giuseppe Germinario 

 

LA SINISTRA ALLE PRESE CON LA NAZIONE, L’EUROPA ED IL MONDO.

Tra un anno si va a votare per l’Europa. Su Micromega, G. Russo Spena (qui), sintetizza le posizioni in cui si divide la sinistra europea.

La prima posizione è sostenuta da Linke (Germania) e Syriza (Grecia), dove però la posizione greca rispetto ai diktat della Troika, non ha mostrato apprezzabili pratiche politiche  alternative. Cambiare l’UE dal di dentro con intenti progressisti, la difficile linea.

C’è poi Varoufakis ed il suo Diem25 sostenuto dai sindaci Luigi de Magistris e Ada Colau, oltre a Benoit Hamon,  fuoriuscito dal partito socialista francese ha creato il movimento Génération-s – e da altre piccole forze provenienti da Germania (Budnis25), Polonia (Razem), Danimarca (Alternativet), Grecia (MeRA25) e Portogallo (LIVRE). Sinistra transnazionale che vuole democratizzare l’Europa.

Infine, ci sono Bloco de Esquerda portoghese, Podemos spagnolo e France Insoumise francese che hanno firmato assieme la Dichiarazione di Lisbona a cui ha successivamente aderito anche l’italiano Potere al Popolo. Anche qui si vuole costruire un contropotere democratico all’Europa neo-ordo-liberale.

Tutti e tre gli schieramenti mostrano un nuovo interessante fenomeno che è quello del dialogo e del coordinamento tra forze politiche di più paesi. Da tempo lo facevano le forze conservatrici, liberali e socialdemocratiche ovvero le forze di governo, quelle che governano nei rispettivi paesi e quel poco che si decide al parlamento europeo. Interessante che ora anche la sinistra quasi sempre di opposizione (Bloco de Esquerda è l’unica forza al governo oltre a Syriza) faccia i conti con il formato inter-nazionale.

Tutti e tre gli schieramenti, si ripromettono sia la democratizzazione delle istituzioni europee, sia l’inversione delle politiche neoliberali che le hanno contraddistinte. Il secondo schieramento, quello di Varoufakis, più che inter-nazionale, è trans-nazionale nel senso che a quanto par di intuire, si ripromette di costruire una unica forza politica contemporaneamente presente in più paesi, posizione molto in auge negli ambienti federalisti.

Il terzo schieramento invece, si è trovato subito diviso, una divisione però sopita e rimandata, tra il famoso “Piano B” di France Insoumise e Podemos. I francesi si sono presentati alle ultime presidenziali con un programma corposo “L’avvenire in comune”, nel quale hanno declinato 83 tesi in 7 sezioni. Nella tesi 52, presentavano l’ipotesi subordinata “Piano B”. Si trattativa dell’alternativa all’eventuale (certo) fallimento dei tentativi di correzione della politica europea, l’ultima ratio era la rescissione unilaterale francese dei trattati. Come molti avevano notato ai tempi del referendum greco, le trattative politiche si basano su i rapporti di forza e chi aspira a contrastare il potere dominante deve poter -ad un certo punto- mettere sul piatto l’opzione alternativa, quella che rovescia il tavolo. Senza questa minaccia o concreata alternativa, inutile sedersi a far qualsivoglia trattativa, trattasi di verità negoziale a priori.

Il Piano B francese era “o cambiamo l’UE-euro o usciamo”, rimaneva aperta una successiva  possibilità in cui la Francia sovrana avrebbe poi  stretto patti cooperativi e di collaborazione in ambito educativo, scientifico, culturale. Questa era la tesi 52, la 53 invece, iniziava con un “Proporre un’alleanza dei paesi dell’Europa meridionale per superare l’austerità e lanciare politiche concertate per il recupero ecologico e sociale delle attività” che è appunto ciò che hanno fatto a Lisbona. Con ciò terminava la quarta sezione e si passava alla quinta. La quinta sezione si apriva col titolo “Per l’indipendenza della Francia” e quindi dava outline di ciò che la Francia avrebbe potuto e dovuto fare sia nel mentre rimaneva nelle istituzioni europee, sia a maggior ragione e con più convinzione dopo l’eventuale applicazione dell’opzione nucleare che portava al Piano B, l’uscita unilaterale. La tesi 63, metteva in campo idee concrete di cose ed iniziative  da promuovere  nel bacino Mediterraneo, un Mediterraneo braudeliano quindi considerato sia per la sponda europea (Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Grecia), che per quella nord-africana (Marocco, Tunisia, Algeria, Libia). Il senso dell’intera questione manteneva una certa ambiguità tra questi tre livelli: Francia sovrana, Francia cooperante con i paesi latino-mediterranei nella lotta contro ma dentro l’UE, Francia perno di un nuovo sistema mediterraneo come già Sarkozy ma anche molti altri francesi avevano pensato in passato, ancora dentro l’UE ma a maggior ragione se fuori.  L’ editoriale del numero in edicola di Limes, rimarca pari ambiguità in Macron quando questo sembra superare di slancio il principio di non contraddizione nel sostenere al contempo la Francia sovrana ed uno stadio superiore di Europa federale.

Podemos, pur avendo firmato la Dichiarazione di Lisbona, pare stia ancor tentennando suDiem25 ma più che altro è interessante sottolineare come Iglesias abbia del tutto escluso la condivisione del Piano B di France Insoumise. Al di là delle opinioni specifiche di Podemos sull’euro, Iglesias ha specificato che in Spagna c’è un forte per quanto vago ultramaggioritario sentimento europeista, lo stesso che posso testimoniare personalmente vivendo lì una parte dell’anno, hanno i greci.  Sentimento europeista non vuole affatto dire adesione a questa UE o a questo euro, si tratta di una intuizione più culturale che politica.

Molta parte dell’opinione pubblica europea, è come se avvertisse che i tempi impongono il fare una qualche forma di fronte comune. Il sentimento è forte nel suo radicamento ed al contempo debole nella sua razionalizzazione, unisce i convinti supporter dell’attuale stato di cose, quanto i suoi più convinti critici oltre che ovviamente gli indecisi ed i confusi che sono la maggioranza. Vedi Trump, vedi Putin, vedi Xi Jinping, i britannici che si mettono in proprio, senti di bombe atomiche coreane, terroristi arabi, migranti africani o asiatici, la incombente matassa intricata della “globalizzazione”, l’incubo delle nuove tecnologie, il temuto collasso ambientale e ti viene facile pensare che davanti a tanta minacciosa complessità, l’unione fa la forza e da soli non si va da nessuna parte. Il passaggio da “unione” come spirito vago ad “Unione” come istituzione precisa è garantito dal meccanismo di analogia che abbiamo nel cervello, “sembra” proprio che l’uno risponda all’altro. Vale per le élite, per i medio informati ma anche per coloro che usano più neuroni della pancia che quelli della scatola cranica. Chi si muove politicamente in forma critica sulla questione europea dovrebbe tener conto di questo diffuso sentimento se non altro perché chi fa politica deve aver per interlocutore pezzi di popolazione prima che l’avversario ideologico. Si fanno discussioni con gli amici ed i nemici ideologici davanti a pezzi di popolazione perché il fine politico è conquistare cuori e menti di questi secondi. Dai temi che tratta al linguaggio che usa, questa avvertenza di parlare sempre alla generica popolazione, è del tutto ignorata dalla sinistra che oggi si interroga su dove mai sia finito il suo “popolo”.

Sembra quindi che France Insoumise abbia costruito una posizione a cerchi concentrici di definizione. Il cuore a fuoco è la battaglia contro questa UE ed euro, la corona interna meno a fuoco è la ricerca di alleanze organiche con forze politiche latino-mediterranee da cui la Dichiarazione di Lisbona, la corona esterna ancora meno a fuoco un po’ sciovinista e molto “francese”, è l’idea in fondo guida di una Francia sovrana al centro di cerchi concentrici di cooperazione asimmetrica che arriva fino a pezzi della Françafrique. Questa ultima posizione occhieggia a più vasti settori dell’opinione pubblica francese, inclusi pezzi di classe dirigente ed è forse merito di questa ampia vaghezza se France Insomise ha preso quasi il 20% al primo turno delle presidenziali. Se Mélenchon declina questo target a fasce concentriche che sembrano volersi distaccare dall’UE, Macron declina la stessa geometria egemonica  rivolta verso più UE[1].  Come mai, pur da sponde opposte, i due francesi si agitano tanto occupando più posizioni al contempo e lasciando intendere tutto ed il suo contrario?

Svegliatici, occorre dircelo, tutti un po’ tardi rispetto a ciò che si era stabilito a suo tempo nel trattato di Maastricht (che ricordiamolo è del 1992), l’analisi critica si è soffermata su gli aspetti economici e monetari, tra neo-ordo-liberismo e posizione dominante tedesca. Ma se andiamo a ritroso del registro storico, si vedrà come tutto ciò che precede Maastricht e l’euro  (ed inclusi questi) a partire dall’immediato dopoguerra, ha il suo baricentro non in Germania ma in Francia. E’ la Francia a promuovere la CECA, è la Francia a non approvare la riforma decisiva che avrebbe potuto dare un futuro politico all’Europa ovvero la CED (approvata già dai Benelux e dalla stessa Germania), è la Francia e non far entrare la Gran Bretagna in UE per poi ripensarci ed è lei stessa a sospendersi dalla NATO per diventare potenza atomica per poi ritornarci, è De Gaulle ad invitare Adenauer a Parigi per sancire il trattato dell’Eliseo (1963) quindi fissare formalmente la diarchia regnante l’europeismo, e così via fino allo stesso Maastricht e l’euro che nascono come  contropartita richiesta alla Germania per il via libera dato alla sua preoccupante riunificazione. I tedeschi, si sono limitati ad imporre la struttura economico-monetaria ai trattati, struttura che per altro avevano già nella loro Costituzione dal 1949 e dalla quale non avevano la minima intenzione di derogare perché fonda la loro nazionale narrativa post-bellica, soprattutto come spiegazione dell’irrazionalità da cui sorse il nazismo. Secondo questa narrativa, il nazismo venne dall’eccesso di inflazione.

Questo ci ha portato altrove a definire il progetto europeista, primariamente un trattato di pace tra Francia e Germania, stante che nei due secoli precedenti, questi campioni della potenza europea, si erano già combattuti e reciprocamente invasi più volte. Il  problema del confine tra Francia e Germania con tutto il portato di carbone, acciaio, metallurgia e siderurgia (quindi armi), è una costante geopolitica ovvero basata sulla politica (gli Stati, la volontà di potenza) e la geografia (confine in comune, passato indistinto, assenza di chiari segni geografici di separazione). Se Mélenchon si agita verso più autonomia e Macron verso più integrazione, l’uno pensa che la relazione con la Germania sarà sempre subalterna, l’altro pensa di poterla dominare o quantomeno contrattare secondo la tradizione del dopoguerra, il punto in comune è la Francia, la sua posizione nei prossimi decenni. Si noti come in tutta la questione europeista si incrocino sempre due assi, quello degli interessi delle classi sociali e quello degli interessi delle nazioni. Ogni governante sa che maggiore è il vantaggio portato alla propria nazione, più relativamente agevole sarà gestire i rapporti tra le classi sociali.

Tutta la faccenda europeista, se da una parte discende dal problema dei confini e dalla turbolenta convivenza dei due potenti vicini, non meno certo che da considerazioni ed interessi dell’ economia di mercato e della élite che ne beneficiano, discende anche da alcune non sbagliate considerazioni che si trovano nel Manifesto di Ventotene non meno che in Carl Schmitt, in Alexander Kojève non meno che nel primo scritto europeista del poi diventato leggenda nera principe Coudenhove Kalergi, la PanEuropa. Questi e molti altri, che data l’estrema eterogeneità non possono dirsi discendenti di una unica ideologia (ci sono accenni di Stati Uniti d’Europa addirittura in Lenin), evincono sin dai primi del Novecento che oggettivamente Europa non è più un campo di gioco unico in cui si riflettono le sorti del mondo. Gli Stati Uniti, il Giappone, la Cina, la Russia, il mondo arabo su fino all’India, segnano il prepotente allargamento del rettangolo di ogni gioco, politico, geopolitico, culturale, militare ed ovviamente economico. Lo spettro largo di queste riflessioni dura un secolo ed è la versione più colta del sentimento “unionista” di senso comune di cui abbiamo parlato prima.  Improbabile che Europa, dove a fronte di un 7% delle terre emerse si concentrano ben il 25% degli Stati mondiali, possa continuare a pensarsi come una macedonia conflittuale di stati e staterelli di più o meno antico pedigrèe. La doppia tenaglia anglosassone e sovietica per più di quattro decenni, ha reso presente a tutti come la divisione fa imperare altri soggetti, la sovranità prima ancora che monetaria, fiscale e giuridica, la si è perduta militarmente, quella politica ne è solo la conseguenza. Questo ci dice che se prima abbiamo individuato due assi ora ne dobbiamo mettere un terzo, oltre alla lotta tra le classi di una nazione e quella tra le nazioni europee tra loro, c’è anche da considerare che il quadrante di gioco non è più solo quello sub continentale ma quello mondiale.

Torniamo così al nostro discorso principale. Chi si propone di democratizzare l’UE temo stia perdendo altro tempo. Mi domando se “più democrazia” sia una invocazione infantile che serve ad acchiappare voti agitando il nobile drappo dell’autogoverno dei popoli o un preciso piano. In questo secondo -improbabile- caso, mi domando come pensano questi neo-democratici di risolvere il problema dell’oggettiva differenza che corre tra popoli latini e mediterranei e popoli germani e scandinavi, tra gli euro-occidentali e gli euro-orientali. Se domattina Mago Merlino con la bacchetta magica ci donasse il parlamento dell’euro a cui sottomettere la politica della banca centrale, i mediterranei  avrebbero la maggioranza dei 2/3, se ben convinti (e ci sono oggettivi interessi materiali nazionali a largo spettro a supporto) potrebbero far passare la riforma dell’euro facile-facile. Un millisecondo dopo la Germania, l’Olanda, la Finlandia, Lussemburgo ed i tre baltici uscirebbero.  Lo stesso varrebbe per la maggioranza italo-francese nell’eventuale parlamento della piccola federazione dei sei paesi fondatori la CEE-UE.  Così per lo statuto dell’euro ma anche per le altre necessarie riforme economiche e sempre evitando la politica estera che con la sua radice geografica, pone i mediterranei e quelli del Mare del Nord su sponde opposte, interessi diversi, prospezioni ed alleanze altrettanto diverse. Per avere democrazia ci vuole -al minimo- una Costituzione un parlamento, un governo, l’unione dei tre poteri di Montesquieu ed in definitiva niente di meno di uno Stato. Questo Stato che è l’unico sistema conosciuto in cui applicare la democrazia, a 6 se a base storica (?), 19 se su base euro o a 27 se su base UE, non è materialmente possibile per motivi auto-evidenti che i “democratici” non capisco perché si ostinino a non voler vedere. Se per fare un mercato si può essere 19 o 27 e pure eterogenei, per fare uno Stato sono richieste omogeneità giuridiche, culturali, religiose, linguistiche, storiche, politiche. Ogni volta che il sistema di mercato (UE) tenta di fare lo Stato si spacca, ma non lungo le linee ideologiche, lungo le linee geo-storiche. Ancora di recente, Macron si è speso per l’intensione (più governante quasi-federale) e Juncker ha invece ribadito l’estensione (ci sono molti paesi nel sistema, sarebbe più utile allargare il sistema ad altri paesi ad esempio i balcanici), perché le logiche per fare Stati o quelle per fare mercati sono intrinsecamente diverse.

Nessuno vuole in Europa uno Stato federale (anche perché materialmente irrealizzabile), quindi nessuno è in grado di sottomettersi a volontà generali che diventerebbero potere di popoli su altri popoli. Tra il disprezzo nei confronti dei mediterranei ed il ricambiato odio per i tedeschi o l’ironia svagata su quanto si sentono furbi i francesi senza esserlo davvero, mai come oggi stanno tornando in auge sentimenti nazionalistici che categorizzano molto sommariamente l’Altro. Far finta che non esistono i popoli o gli Stati o la storia o la geografia non aiuta, non appena si spinge troppo sull’inflazione retorica unionista, ecco spuntare subito il rimbalzo sovranista. Ma il peggio è che unionisti e sovranisti si disputano il gran premio della chiacchiera perché tanto né sembra si possa andare a più unione, né tornare alla nazione e ciò che impera, alla fine della fiera, è sempre e solo la Commissione, la BCE, i “Nien!” tedeschi. Tra il grande ed il piccolo Stato, alla fine vince sempre il Mercato.

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Siamo nel doppio vincolo, da una parte vorremmo esser più forti ed unirci ma la nostra estrema eterogeneità lo rende impossibile, dall’altra vorremmo ripristinare una accettabile democrazia e tornare a decidere noi sul “che fare?” il che però ci riporta in teoria ai nostri singoli stati che già oggi ma viepiù fra trenta anni, varranno quanto il due di coppe a briscola quando regna bastoni. Strappare più sovranità oggi, significa perderla senza speranza nell’immediato domani del commercio internazionale, della circolazione dei capitali, della dittatura dei mercati, delle nostre fragilità economiche, dei diktat anglosassoni sulla NATO, delle crescente minorità politica di nazioni piccole, sempre più anziane, sempre meno competitive e significative nello scenario mondo.

In questo dilemma che a volte si presenta come trilemma (dentro la nazione, tra le nazioni europee, nazioni europee vs resto del mondo) la sinistra ha forse una opportunità per quanto la confusione mentale ed ideologica oggi occulti proprio ciò che ha davanti a gli occhi.

Se gli otto paesi firmatari del distinguo rispetto ai sogni devolutivi macroniani sono tutti del nord Europa (inclusa la Germania dietro le quinte), se il gruppo di Visegrad unisce stati orientali confinanti ed eterogenei uniti però nel distinguersi rispetto ai dettami occidentali franco-tedeschi, se la Dichiarazione di Lisbona è firmata dai meridionali portoghesi, spagnoli, francesi ed una particella di italiani è perché l’Europa è fatta di popoli ed i popoli di culture, di storie sovrapposte su un piano geografico costante che unisce alcuni e separa altri. Sono le culture l’ordinatore che consente e non consente le eventuali fusioni tra Stati-nazione in Europa. Nessun paese latino mediterraneo avrebbe grossi problemi ad avere una banca centrale che fa quello che ogni banca centrale al mondo fa (espansione economica, controllo del cambio, aiuto nella gestione del debito pubblico oltre al fatidico controllo dell’inflazione), non così i tedeschi e la loro area egemonica nord europea. E lo stesso gruppo dei latini certo che ha interessi geopolitici comuni verso il Mediterraneo, il Nord Africa ed anche il resto del continente che s’affaccia sul nostro stesso mare (per non parlare delle opportunità di sistema con il Centro-Sud America), quindi interesse ad unire le forze in qualche modo. Interessi diversi da quelli germano-scandinavi o dei confinanti con la Russia.

Tra paesi latino mediterranei si possono fare alleanze senza speranze che si battano per una diversa UE, si possono promuovere  maggior livelli di integrazione e cooperazione fattiva mentre si rimane nell’UE, ci si può dar man forte per coordinare una simultanea uscita dall’euro tornando a chi ci crede alle rispettive valute o per uscire tutti dall’euro tedesco e confluire  in un altro euro mediterraneo espansivo, svalutabile, di aiuto alle gestione dei debiti pubblici (soprattutto quelli collocati all’estero, estero che a quel punto avendo nel nuovo sistema sei diversi paesi, diminuirebbe come impegno nel caso lo si volesse ricomprare per immunizzarsi dagli spread, come è in Giappone), sottomesso non ad un trattato ma ad un parlamento democraticamente rappresentativo.

Nel rompicapo europeo non ci sono soluzioni facili e questa invocazione di un insieme latino-mediterraneo non è esente da problemi. Si tratta però di scegliere la via meno problematica e sopratutto quella che apre a maggiori condizioni di possibilità. La comune cultura latino-mediterranea è l’unica solida base per cominciare a sviluppare progetti politici inter-nazionali per tempi che stanno velocemente scalando indici di complessità sempre meno rassicuranti. Ci conviene oltremodo svegliare tutti dal sonno dogmatico che vuole unioni a 27 o a 19 senza che sussistano gli indispensabili pre-requisiti per farlo, così come ci conviene essere realisti e responsabili e cominciare a pensare  che nel mondo nuovo paesi solitari da 60, 40, 10 milioni di abitanti avranno sovranità men che formali. Coordinarsi tra simili per criticare, provare a cambiare o abbandonare l’euro non meno che la NATO, è condizione necessaria, il fine preciso lo valuteremo assieme, intanto fissiamo il mezzo.

Non esiste una sinistra senza una Idea ed in tempi così complicati, far base su un substrato comune di origine geo-storico, quindi culturale, quindi popolare e reale, a noi sembra il modo migliore per far si che la sinistra torni a pensare e ad agire politicamente. Se le opinioni specifiche su UE, euro e vari tipi di progetti avanzati da più parti fanno perno su quel sentimento istintivo che pensa necessario unire le forze tra alcuni di noi, dare a quel sentimento la prospettiva più limitata e perciò più concreta dell’alleanza progressiva tra noi mediterranei europei (per i paesi-popoli musulmani mediterranei il discorso verrà fatto dopo, non si possono fare progetti di unione federale con paesi del nord Africa, ora), può aiutare a darci identità, egemonia nel dibattito pubblico, spinta creativa a disegnare il mondo che verrà, voglia di tornare a fare politica. Se la sinistra nasce nel conflitto sociale interno, oggi deve anche misurarsi con il formato Stato-nazionale, coi rapporti interni all’Europa che sono tra nazioni prima che tra classi e col problema di ciò che è fuori dal nostro antico mondo. L’Idea deve orizzontarsi su tutte e tre le variabili altrimenti rimane idealismo, inutile sequenza di petizioni di principio e non progetto.

La sinistra uscirà dalla sua crisi quando dimostrerà di avere un progetto positivo sulla realtà, alla funzione critica si può aderire scrivendo e comprando libri (una delle principali attività della sinistra), ma non si costruisce realtà con la “potenza del negativo”. La sinistra nata dal conflitto di classe deve sapersi riattualizzare davanti ai tre scenari sistemici mai davvero trattati in profondo dalla sua pur voluminosa produzione teorica: nazione, Europa, mondo. Niente progetto, niente sinistra.

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[1] Il Piano Macron è stato presentato a settembre 2017 alla Sorbona. Le “corone” del piano Macron erano sicurezza, difesa e politica estera, tre argomenti che si fondono come interesse francese ad agire negli “esteri” identificando l’interesse francese con quello europeo. La partecipazione francese, almeno “ideale”, al bombardamento in Siria e l’orgogliosa rivendicazione valoriale che ne ha fatto Macron il 17 aprile a Bruxelles, confermano di questa vocazione del francese ad intestarsi la funzione esteri. (Sullo sviluppo del business della difesa, si veda questo contributo di B. Montesano su Sbilanciamoci: http://sbilanciamoci.info/difesa-europea-business-della-sicurezza/ a rimarcare la costante ambiguità per la quale non si parla di esercito comune ma di business comune). Oltre ai tre argomenti “estero”, il piano Macron ha ambiente e ricerca tecnologica dove quest’ultima segna una delle croniche debolezze europee. Nessuno stato europeo è effettivamente in grado di mobilitare investimenti significativi in grado di competere con quelli americani e cinesi, mancanza che poi si riflette nelle minori condizioni di possibilità economiche e mancanza di indipendenza in un settore strategico. Infine, l’euro che Macron vorrebbe riformare con un comune bilancio e conseguente allineamento fiscale e con unico ministro delle Finanze.  Difficile che anche volendo (e sull’esistenza di questa volontà è lecito nutrire parecchi dubbi), la Germania in cui le due forze politiche in ascesa e che controllano già oggi un quarto dell’elettorato sono i Liberali euroscettici ed AfD apertamente xenofoba, aderisca al progetto se non rendendolo ancora più ambiguo tra la sua forma narrativa e la sostanza ben meno palpitante. Chissà quindi se ci sono proprio i tedeschi dietro la presa di posizione del 6 marzo, in cui otto paesi euro (Finlandia, Irlanda, Olanda, i tre baltici, Svezia e Danimarca ultimi due non in Eurozona e si tenga conto che fuori Eurozona c’è poi su posizioni simili anche il Gruppo di Visegrad) hanno pensato necessario dichiarare assieme l’assoluta contrarietà ad ulteriori devoluzioni dei poteri nazionali, bocciando in sostanza il piano Macron. A sentire le dichiarazioni di Merkel in preparazione del vertice con Macron sembrerebbe proprio di sì, i settentrionali  non vogliono alcun sistema politico comune coi meridionali, non si capisce perché i meridionali non ne prendano atto e ne traggano conclusioni.

Riguardo a   “La complessità di un mondo multipolare – Videointervista a Pierluigi Fagan”, di Massimo Morigi

Riflettendo in queste pagine dell’ “Italia e il mondo” sul   “ “Che fare” di Carl Schmitt. Europa, nuovi stati, Nomos del mondo” di Pierluigi Fagan (sempre pubblicato in questo blog) riassumevo nei seguenti termini il mio pensiero in merito all’odierno stato della scienza politica ritenendo che, pur nella differenza di impostazione nell’affrontare la storia del pensiero politico  fra lo scrivente e Fagan (a mio giudizio un eccesso di schematismo classificatorio in Fagan che lo porta a trascurare la presenza o meno della componente conflittuale-strategica dei singoli pensatori: «Ci sono pensatori politici di due tipi, quelli che rimangono teorici e quelli che bordeggiando contingenze pratiche, finiscono con l’addomesticare la propria teoria alla contingenza», scriveva in quell’intervento Fagan riferendosi a Carl Schmitt, accusando quindi il suo pensiero di strumentalismo e trascurandone perciò la drammatica ed euristicamente fondamentale  dialettica del confronto della teoria con la prassi politica), Pierluigi Fagan fosse pienamente convergente con me  nel cogliere il terribile deficit di pensiero che caratterizza le odierne classi dirigenti politico-intellettuali delle cosiddette democrazie rappresentative: «Conclusione che non conclude ma che (dovrebbe) aprire il cantiere del rapporto fra prassi e teoria politica: c’è indubbiamente diffusa una rinnovata consapevolezza che le vecchie mitologie politiche liberali e democraticistiche non stanno più letteralmente in piedi; ma c’è in tutti noi indubbiamente il bisogno di un rinnovato ed approfondito sforzo teorico-pratico per rimpiazzare queste consunte mitologie politiche. E l’odierno contributo di Pierluigi Fagan senza dubbio si inserisce validamente in quest’alveo.» Ora riguardo a “La complessità di un mondo multipolare – Videointervista a Pierluigi Fagan” pubblicata in tre parti in questo blog (caricata anche su YouTube e sulla quale piattaforma viene pubblicata nelle sue tre parti anche sul seguente unico URL  https://www.youtube.com/watch?v=MBVEzL4hsL0), non posso che confermare – e rafforzare – il mio giudizio totalmente positivo su questo studioso, giudizio positivo ulteriormente confermato in ragione non solo del fatto che nell’intervista Fagan ribadisce e argomenta ulteriormente l’attuale crisi che attraversa la teoresi politica ma fornisce anche indizi per fornire un contesto storico alla stessa. Per Fagan questa crisi di pensiero risale principalmente al periodo fra il primo ed il secondo dopoguerra (cita come esempio e della debolezza intrinseca di questo pensiero ed anche della scarsa produttività dello stesso il progetto della Paneuropa di Richard Nikolaus von Coudenhove-Kalergi e il Manifesto federalista di Ventotene di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, risibili non solo per la – dirigistica ed autoritaria –  utopicità di voler federare un’Europa che al massimo presa nel suo insieme, nell’insieme cioè delle sue immense differenze, potrebbe aspirare ad una confederazione ma anche ridicoli nel senso che sono state le uniche nuove proposte di un Vecchio continente in crisi che, invece, sul piano culturale ed artistico si era contraddistinto come l’iperproduttiva fucina della modernità); mentre, a mio giudizio, la crisi del pensiero politico moderno (e la crisi del Vecchio continente tout court, le quale due cose, come è di tutta evidenza, sono strettissimamente correlate) va piuttosto collegata col trauma della seconda guerra mondiale, conflitto che ha significato accanto alla giusta e sacrosanta damnatio memoriae del totalitarismo nazista e fascista anche la damnatio memoriae di un qualsiasi pensiero  non  di stretta osservanza universalista, liberale e/o comunista-internazionalista che fosse. Ma queste sono non dico questioni di dettaglio (non lo sono di dettaglio sia perché anche l’universalismo politico e filosofico possiede una sua dialetticità storica, e a seconda o no che si concordi sulla realtà di  questa dialetticità si è o reazionari –  absit iniuria verbis! – o appartenenti ad una tradizione realista-strategica ed intrinsecamente dialettica (Machiavelli, Mazzini, Marx, Gramsci, il György Lukács di Storia e coscienza di classe) ma certamente problemi che però non riescono ad occultare il fatto principale – e puntualmente rilevato da Fagan – che la crisi del pensiero politico occidentale – e della sua filosofia – non deriva dal fatto che la teoria ha giocato tutte le sue carte ma dal semplice dato di fatto che la crisi geopolitica dell’Europa, che ha avuto il suo acme nel Secolo breve, non poteva non produrre anche una contemporanea crisi di pensiero: non grande importanza, allora stabilire l’esatto terminus a quo, l’importante è avere ben presente il processo. Al giorno d’oggi la vera nobilitate di un pensiero e di un pensatore è sulla consapevolezza di questo inestricabile e dialettico nesso fra dato geopolitico e/o storico e dato teorico che si misura. Da questo punto di vista il pensiero di Fagan veramente molto attento, come ama concepirlo Fagan, al dato della “complessità” del mondo contro ogni ideologico tecnicismo ed invadente ed autoritaria tecnocrazia (ma noi, preferiamo dire: estremamente sensibile alla storicità e dialetticità dell’agire umano) si colloca veramente con grande autorità nell’alveo storicista di una filosofia della prassi che ha compreso che non esiste una evoluzione della teoresi politica qualora questa si consideri separata dalla “bassa” pratica del cambiamento del “politico”. E di questa non piccola consapevolezza dobbiamo continuare a ringraziare Pierluigi Fagan.

 

 

Massimo Morigi, 31 marzo 2018

 

 

 

 

 

 

 

NOTE SU DIPENDENZA DEGLI STATI E GLOBALIZZAZIONE, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTE SU DIPENDENZA DEGLI STATI E GLOBALIZZAZIONE

Indice:

1) Posizione del problema; 2) Dipendenza giuridica e politica; 3) Forme e regolarità politiche; 4) Sovranità e indipendenza: Bodin 5) Transizione di epoche e idee della globalizzazione; 6) Loro inconvenienti; 7)  Fini della politica; 8) Conclusione.

1.0 Il pianeta è diviso tra tanti Stati sovrani, i quali formalmente – ossia sul piano giuridico – sono uguali, ma la cui differenza di potere reale ne riduce – correlativamente – la possibilità di esercitare (parzialmente) prerogative e diritti, in applicazione del detto di Spinoza per cui tantum juris quantum potentiae.

Santi Romano (tra i tanti) scriveva che «essendo la comunità internazionale, di regola, paritaria, nel senso che i suoi membri non dipendono l’uno dall’altro, ciascuno di essi… si dice che ha una sovranità perché non è in una posizione subordinata verso altri soggetti»[1]. Tuttavia, proseguiva, tale regola non è assoluta[2]; ma derogarne è sicuramente un’eccezione[3]. Ed occorre distinguere «l’appartenenza ad un’unione amministrativa o alla Società delle nazioni, tanto meno una semplice alleanza, non significa da per sé perdita della sovranità. Viceversa, gli Stati soggetti a protettorato o alla tutela della Società delle nazioni sono eccezionalmente degli Stati internazionalmente non sovrani, cioè subordinati agli Stati protettori o alla Società medesima, che, rispetto ad essi, sono quindi sovrani». Secondo il giurista siciliano, contrariamente all’opinione di altri «la verità è invece che lo Stato protetto, come quello tutelato, non assume solo obbligazioni singole e determinate, ma entra in un complesso “status subiectionis”, si sottomette ad altri soggetti per una sfera più o meno ampia della sua personalità, e tutto ciò riguarda non la sua libertà nel campo dei rapporti veramente obbligatorii, ma la sua posizione d’indipendenza, la sua sovranità e, come conseguenza, anche la sua capacità».

Effetto della mancanza di sovranità è «la limitazione della capacità internazionale degli Stati protetti o tutelati: limitazione che si ha anche…. verso i terzi, il che conferma (trattarsi)… di una posizione personale»[4].

Tale limitazione di capacità non è incompatibile con la personalità internazionale[5]; come conferma, scrive Santi Romano, la condizione degli Stati vassalli (dell’Impero ottomano).

Diverso era il regime giuridico delle colonie, in particolare perché la presenza dello Stato colonizzatore si estendeva anche all’amministrazione interna e diffusa dei territori coloniali.

Tutte tali classificazioni hanno il connotato comune di essere giuridiche – e non solo politiche – e di tradursi in modificazioni degli ordinamenti (e dei collegamenti tra questi) e della normativa conseguente.

Tuttavia, vi sono altre forme di dipendenza assai note, che rispettano formalmente il carattere sovrano dello Stato dipendente[6].

Così ad esempio all’epoca della Guerra Fredda si parlava di «Stati-satellite» in relazione agli Stati dell’Est europeo a regime comunista, quali nazioni egemonizzate da una grande potenza, ma formalmente sovrane (tale carattere era, di rimando, attribuito da oltre cortina a Stati facenti parte della Nato, come Italia e Germania Ovest). Tenuto conto che il dominio politico della potenza egemone nell’Est europeo era esercitato attraverso «partiti fratelli» (comunisti) più che regolamentato in istituti giuridici (i quali comunque, non mancavano) il termine era adeguato alla realtà politica. Com’era naturale, il crollo del comunismo fu anticipato dalla de-comunistizzazione di alcuni di tali Stati e la regolamentazione giuridica dello stato di «satellite», seguì la fine politica dei partiti comunisti.

Stato-fantoccio è un concetto assai prossimo a quello di Stato-satellite. Per lo più l’espressione è usata per Stati – o regimi politici – che devono la loro esistenza a un soggetto più potente, quasi sempre un altro Stato. Spesso è un modo per esercitare l’occupazione militare: in altri casi, anche se il rapporto di «filiazione» tra Stato fantoccio e sconfitta – occupazione militare è (quasi) una regolarità, lo Stato-fantoccio subentra all’occupazione. Non è detto tuttavia che tale carattere implichi una subordinazione giuridica (anzi in genere non esiste) ma è dovuto a motivi politici e militari. Stati-fantoccio hanno ottenuto spesso anche il riconoscimento non solo delle potenze occupanti (o ex-occupanti) ma anche di Stati terzi.

2.0 La distinzione tra l’una e l’altra categoria di Stati per così dire «a sovranità limitata»  (o a indipendenza relativa) consiste sotto il profilo giuridico, dalla assenza, nel primo caso (protettorati, colonie) di una (completa) capacità internazionale, e sul piano interno dalla presenza di organi di «controllo»            (in effetti di governo o meglio – secondo i casi – di sorveglianza del governo) nominati dallo Stato protettore (ovvero dominante); nella seconda invece la capacità internazionale è piena e l’intromissione nelle attività di governo interne è esercitata (quasi) sempre per influenza politica sull’attività e spesso sulla nomina delle cariche di governo e/o di (alta) rilevanza politica.

Ovviamente in tale ultima classe, vale quanto scriveva Santi Romano per il protettorato (v. sopra): la forma e gli istituti concreti che il dominio politico può assumere non consente di tracciare confini netti; in astratto la differenza degli uni e degli altri è distinguibile agevolmente, in concreto no. Questo soprattutto perché il concetto di dipendenza politica è più ampio e determinante, ovvero è difficile che una dipendenza giuridica non si traduca in politica; nonché – e anche come conseguenza, perché le forme che il dominio assume possono cambiare senza che ne muti la sostanza. L’Egitto moderno ad esempio fu giuridicamente un protettorato della Gran Bretagna solo per pochi anni durante il primo conflitto mondiale, e poi fino al 1922. Ciò non toglie che prima e dopo la Gran Bretagna ne condizionava la politica in modo determinante, di guisa che l’Egitto «indipendente» fu teatro di battaglie tra potenze dell’Asse ed alleati nella seconda guerra mondiale, a quasi vent’anni dalla concessa «indipendenza».

3.0 Le forme (giuridiche) di dipendenza tra gli Stati (o tra Stati ed altri territori) costituiscono un reperto archeologico dopo la fine della seconda guerra mondiale e la decolonizzazione. È difficile trovare un trattato di diritto internazionale, di recente pubblicazione, che li prenda in esame. In qualche modo è comprensibile, atteso che di Stati protetti e di colonie (in senso giuridico, ben s’intende) non risulta che ne esista uno.

Peraltro l’esistenza di unità politiche «dipendenti» si riscontra costantemente nella storia. Lo erano la Giudea, l’Arabia Nabatea, l’Armenia (e altri) ai tempi dell’Impero romano. La Cipro dei Lusignano dipendeva da Venezia, la Transilvania dall’Ungheria nel Medioevo. Le repubbliche rivoluzionarie e poi i regni napoleonici dopo la rivoluzione francese dalla Francia. E così fino alla seconda guerra mondiale (ed oltre).

Tuttavia tale (apparente) assenza – a noi contemporanea – non significa che il rapporto di dominio sia venuto meno. Vale pur sempre la regolarità del politico esposta da Tucidide nel famoso dialogo tra gli ambasciatori ateniesi e i maggiorenti di Melo[7]. Pertanto il dominio (e la differenza tra rapporti di forza che presuppone) si esercita in modo diverso. Ciò per varie ragioni.

In primo luogo perché così viene occultato: non traducendo in istituti giuridici il rapporto di comando-obbedienza, questo è meglio nascosto. Si ubbidisce meglio e con minor resistenza a chi non comanda palesemente e con frastuono di «grida». Inoltre così è attenuata anche la responsabilità: uno Stato sovrano – anche se satellite o fantoccio – è responsabile pienamente dei propri atti (e omissioni), una colonia o un protettorato no (o non pienamente).

4.0 I giuristi, come Santi Romano, pongono il problema in termini giuridici (capacità-personalità); a un pensiero politico realista occorre qualcosa di diverso: più sein che sollen. Si può definire – com’è stato fatto – la sovranità come «competenza sulle competenze»; la si può denotare in un elenco di attività e funzioni (le vraies marques di Bodin); o come decisione sull’idea di diritto che debba valere nella comunità, o semplicemente negandola come fa Kelsen.

Ma, a basarla sul dato reale e concreto, la migliore definizione la si ricava da Sieyés, nelle sue considerazioni sulla Nazione, applicabili alla sovranità «La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre conforme alla legge, essa è la legge stessa. Prima di essa e al di sopra di essa non c’è che il diritto naturale… una nazione non può né alienare né interdire a se stessa la facoltà di volere; e qualunque sia la sua volontà, non può perdere il diritto di mutarla qualora il suo interesse lo esiga»[8]. È il volere libero, il connotato sostanziale del sovrano.

La stessa impostazione che dava Bodin della sovranità ruota intorno alla volontà del sovrano ed ai suoi limiti, ovvero se sia obbligato dai trattati con gli Stati esteri; o dalla legge; o dalla costituzione; o dal diritto naturale[9].

Bodin si pone anche il problema se possa dirsi sovrano un principe che sia feudatario o tributario e inizia affermando «Abbiamo detto poc’anzi che si può dire sovrano solamente chi non dipende, eccezione fatta per Dio, altro che dalla sua spada. Se uno dipende da altri non è più sovrano»[10].

Nel capitolo successivo, dopo aver dato una soluzione così semplice (sovranità = non dipendenza da altri) Bodin espone quali sono le vraies marques de la souveraineté. E scrive: «Infatti, chi non riterrebbe sovrano colui che possa dettar legge a tutti i suoi sudditi, decidere la guerra e la pace, nominare tutti gli ufficiali e magistrati del paese, levare taglie e affrancare chi meglio creda, dar la grazia a chi abbia meritato la morte? Che altro ancora si può richiedere per considerare sovrano un principe?»[11]; ma subito dopo ritorna sullo stretto rapporto sovranità/indipendenza «come potrebbe essere sovrano chi riconosca la giurisdizione di un superiore il quale possa annullare i suoi giudizi, modificare le sue leggi, castigarlo se commette abusi?»[12] e aggiunge, in sostanza, che il tutto è un principio d’ordine[13].

Anche quando scrive della prima marque (cioè del potere di dare, modificare, abrogare le leggi) specifica «Perciò possiamo concludere che la prima prerogativa sovrana è il potere di dare la legge a tutti in generale e a ciascuno come singolo; ma ancora questo non è sufficiente, se non si aggiunge: “senza il bisogno del consenso di nessuno”. Se il principe dovesse attendere e osservare il consenso di un superiore, non sarebbe che un suddito; se di un uguale, avrebbe un compagno di potere; se dei sudditi, del senato o del popolo, non sarebbe sovrano».

Quando poi scrive di un’altra marque, quella di nominare gli alti magistrati, afferma: «Ma ho parlato di ufficiali più alti o di primi magistrati, perché in realtà non vi è Stato ove non sia permesso ai più alti magistrati e a certi corpi e collegi di eleggere qualche ufficiale minore»[14]; così quando tratta del potere di giudicare in ultima istanza (cioè – anche – di annullare le sentenze) sostiene «Ma, al contrario, quando il principe sovrano lascia il suo suddito o vassallo il potere del diritto di giudizio in ultima istanza, o addirittura delle prerogative sovrane che apparterrebbero a lui, egli fa del suddito un principe sovrano»[15].

Bodin doveva cercare di ricondurre alla propria teoria dello Stato (moderno) proiettata nell’avvenire, istituti e rapporti giuridici esistenti in un’età di transizione tra il vecchio ordine feudale (policratico) e il nuovo ordinamento statale; peraltro, forse perché era un giurista, finiva in qualche misura, anche nel cadere in un eccesso di giuridificazione della sovranità[16].

5.0 La teoria di Bodin elaborata, come scritto, in un’epoca di transizione (Hauriou chiamava epoche le diverse fasi di una civiltà o «era»; così l’epoca medievale o quella del rinascimento[17]), può essere rivisitata per valutare la situazione contemporanea anch’essa di transizione (assai avanzata) tra l’ordine westphaliano e uno futuro di cui si percepiscono i contorni.

All’uopo le maggiori differenze tra il vecchio e nuovo ordine sono:

1) Il carattere della globalizzazione. Ovviamente questa non è nata con la fine dell’ordine di Yalta (o con internet), come spesso creduto. Va avanti almeno dalle gradi «scoperte» dei navigatori europei dell’inizio dell’età moderna. La differenza tra il tempo di Filippo II e Elisabetta I e l’attuale è che, fino a qualche decennio fa la globalizzazione era «gestita» o meglio «regolata» e «limitata» dagli Stati (dalla politica): tutela cui si sta sottraendo (o meglio si è già in notevole misura) sottratta.

Il primato dell’economia nella politica si sviluppa riducendo la capacità ordinatrice della seconda e quindi degli Stati.

2) La diffusione dei soggetti «politici».  Non sono solo partiti e movimenti partigiani, ma anche lobbies e centri di potere economico e finanziario, sette e chiese. Qualcuno potrebbe obiettare: nulla di nuovo. E in effetti una situazione del genere ha più punti di contatto con l’assetto policratico dei feudatari, delle gilde e degli ordini monastico-militari che con l’età moderna.

3) Le ideologie pacifiste e la diffusione di forme di guerra «alternativa». Ossia non violente o comunque a «bassa intensità».

Il lavoro che ne tratta è l’ormai «classico» «Guerra senza limiti» dei colonnelli cinesi Quiao Liang e Wang Xiangsui. Quel che ne consegue è che simili forme di guerra rientrano facilmente nella disponibilità di soggetti non-politici (nel senso sopra precisato). Come scrivono i colonnelli suddetti «Quando la gente comincia ad entusiasmarsi e a gioire proponendo per la riduzione di forze militari come mezzo per la risoluzione dei conflitti, la guerra è destinata a rinascere in altre forme e su di un altro scenario, trasformandosi in uno strumento di enorme potere nelle mani di tutti coloro che ambiscono ad assumere il controllo di altri paesi o aree. In tal senso esistono fondate ragioni per sostenere che l’attacco finanziario di George Soros all’Asia Orientale, l’attacco terroristico di Osama Bin Laden all’ambasciata militare in Sudan, l’attentato chimico alla metropolitana di Tokyo da parte dei discepoli  di Aum Shiri Kyo e i disastri perpetrati ai danni della rete da personaggi come Morris Jr., il cui livello di distruzione non è certo secondario a quello di una guerra, rappresentano una “semi-guerra”, una “quasi-guerra” e una “sotto-guerra”, vale a dire la forma embrionale di un altro genere di guerra»[18].

4) Il potere indiretto. Diversamente dagli imperi europei dell’era moderna dove la potenza colonizzatrice (e dominante) aveva responsabilità per la gestione dei territori soggetti, nel caso delle forme di dominio contemporanee, proprio perché esercitato più con strumenti politici che formalizzate giuridicamente, la responsabilità della potenza (o del potere) egemone non è giuridicamente configurabile. Anche se poi è chiaro che dietro a certi belligeranti e a certe guerre, vi sono potenze che «tirano i fili». Ma è una situazione estremamente comoda quella di uno Stato (o altro soggetto) che esercita un potere senza assumerne la responsabilità. Per questo è molto ricercata e sviluppata in questo tempo di pacifismo imperante (e d’ipocrisia diffusa), anche se non sconosciuta nei secoli passati.

5) Il consenso di terzi nell’esercizio di prerogative sovrane. È questo, come scrive Bodin che de-sovranizza il principe (v. sopra citato rif. nota 11). Nella realtà la dipendenza politica di uno Stato da un altro si è sviluppata, nel corso del XX secolo, in forme diverse, prima sconosciute o comunque meno frequentate.

Tipica è la dipendenza «ideologica» (a partire dalle repubbliche giacobine), dopo la pausa del XIX secolo, è aumentata nel secolo passato; il fattore d’incremento principale è stato il partito (e quindi lo Stato) totale, in effetti anche transnazionale. Com’è evidente nel comunismo «organizzato» prima nel Comintern e poi nel Cominform, ma anche nella diffusione, già nel secondo anteguerra, di partiti fascisti, giunti per lo più al potere nei rispettivi Stati a seguito dell’occupazione militare delle potenze dell’Asse.

La stessa dipendenza economica è incrementata (ideologicamente). Se si reputa ottimale un assetto libero-scambista, questo, in generale è preferibile: ma se si vuole negare che uno Stato abbia il diritto d’imporre limitazioni alla circolazione di merci, servizi e persone, anche nei casi di necessità estrema (eccezione), non lo è. Al contrario: il tutto riduce drasticamente la legittimità del  potere politico, il quale istituito per il conseguimento del bene comune, trova in questo la propria regola di comportamento.

Altri tipi di dipendenza – spesso correlativi alla «permeabilità» degli Stati, si possono sviluppare attraverso il progresso tecnologico: se i due bravi colonnelli sopra citati configurano un atto di guerra con attacchi informatici, il relativo mezzo può essere utilizzato come strumento d’influenza e quindi di dipendenza.

Il potere mediatico può ottenere lo stesso risultato: anche in tal caso la corrispondente forma di guerra, ossia la guerra psicologica può convertirsi, in periodo di pace, in un’influenza/dominio sull’opinione pubblica di un popolo, determinandone scelte e orientamenti.

6) La negazione del nemico. L’aspirazione diffusa alla pace, convertita in «dottrina» dalle ideologie pacifiste che hanno come connotato comune di aver trovato l’elisir per eliminare la lotta (i mezzi sono diversi secondo l’una o l’altra)[19] comporta anche la negazione del nemico; ma la lotta è una condizione generale della politica, e l’ostilità (attuale o potenziale) ne è il corollario (e il presupposto).

La negazione del nemico è l’altra faccia di quella della guerra (convenzionale o meglio, tradizionale): solo assai più radicale. Per cui si crede che evitando la prima venga meno anche il secondo; nella realtà anche mancando quella la competizione per il potere tra diversi gruppi umani rivali continua ad esistere, e a generare altre forme di lotta per il potere: quelle, sopra ricordate, dei «bravi colonnelli» cinesi.

7) Pluralismo e responsabilità. Il pluralismo e le creazioni di aree – per lo più riferibili al diritto privato (quello che Hauriou chiamava droit commun – internazionale per natura) – attraverso Tribunali internazionali, costituiscono altre occasioni appetibili di rendere permeabili gli Stati. Ancor di più quando norme e decisioni internazionali divengono vincolanti attraverso meccanismi appositi, previsti anche per disposizione costituzionale (come l’art. 10 della nostra Costituzione). La responsabilità del sovrano è così dispersa – come il potere – nell’organizzazione policratica e nelle riserve di competenza correlate. Un’esigenza e assetto condivisibile ma che crea delle ghiotte opportunità di influenza.

Nella realtà il diritto, sia che consista in trattati che in decisioni di Corti interne o internazionali, secondo il pensiero politico (e giuridico) classico non poteva prevalere sulla politica e sulla necessità di protezione della comunità che la connota. Vale in generale ciò che diceva Bismarck dei trattati «Nessuna grande nazione potrà essere indotta a sacrificare la propria esistenza sull’altare della fede nei patti».

8) L’economia cosmopolitica e l’economia politica. Scriveva Friedrich List che i primi economisti come «Quesnay, che fece sorgere per primo l’idea della libertà universale del commercio, fu il primo ad allargare le ricerche su tutto il genere umano, senza però tener conto del concetto di nazione»[20].

In realtà List capiva assai bene come tra economia «cosmopolitica» e «politica» il fundamentum distinctionis era proprio l’insopprimibilità della politica come essenza (à la Freund) e come protezione dell’esistenza e conseguimento del bonum commune. Se le idee di Adam Smith sono astrattamente fondate, sono del tutto applicabili solo in un contesto senza guerra e senza volontà di dominio (cioè nel collodiano paese dei balocchi o qualche utopia del genere). Infatti scrive di Smith «Anche se, qua e là, parla della guerra, succede solo di passaggio e assai raramente. Tutti i suoi argomenti si basano sulla pace eterna…Evidentemente Adam Smith ha concepito la pace come pace eterna al modo dell’abate di St. Pierre». E lo stesso J. B. Say, il quale «chiede esplicitamente, per poter concepire l’idea della libertà di commercio, che si ammetta l’esistenza di una Repubblica Universale»[21]; e che se avesse scritto di economia politica (e non cosmopolitica) «difficilmente avrebbe potuto fare a meno di partire dal concetto e dalla natura della nazione e di dimostrare quali cambiamenti essenziali l’economia del genere umano deve subire per il solo fatto che il genere umano è suddiviso in nazionalità distinte, formanti un fascio di forze e di interessi, e poste, nella loro libertà naturale, di fronte ad altre società simili a loro»[22].

E List sostiene che «Tutti gli scrittori teorici hanno ripetuto questo errore. Anche Sismondi chiama l’economia politica “la science qui se charge du bonheur de l’espèce humaine”». Differente è la politica. Questa ha il compito di proteggere l’esistenza (particolare) di una comunità umana e come conseguire il bene comune della stessa[23].

Ed è perciò concettualmente e (spesso) oggettivamente contrapposta al principio cosmopolitico. List ricorda che Thomas Cooper «nega perfino l’esistenza della nazionalità. Egli chiama la nazione “una invenzione grammaticale fatta solo per evitare perifrasi, una cosa inesistente (a non entity) che esiste solo nelle teste degli uomini politici”»[24] affermazione che l’economista tedesco considera coerente «perché è chiaro che se si ammette l’esistenza della nazione, con la sua natura ed i suoi interessi, si presenta anche la necessità di modificare l’economia della società umana in relazione a questi interessi speciali»[25].

E proseguiva insistendo sugli inconvenienti, per l’economia di una nazione, che possono derivare dal differente grado di sviluppo con le altre; onde per beneficiare realmente di un sistema di libero scambio internazionale occorre che le comunità nazionali raggiungano «un uguale grado di civiltà, di formazione politica e di potenza»[26]; per cui «Perché la libertà di commercio possa agire liberamente e naturalmente, occorre prima di tutto che i popoli meno progrediti vengano portati, mediante interventi  di vario genere, allo stesso livello di sviluppo al quale è pervenuta l’Inghilterra»[27].

List, che è considerato spesso un avversario del laissez-faire, appare più esattamente come un realista difensore delle insopprimibili esigenze e presupposti della politica (e del politico).

9) I diritti umani. Che dei diritti umani e delle loro violazioni si sia fatto un uso improprio (per l’intervento negli affari – un tempo interni – degli Stati sovrani) è cosa spesso affermata e nota. Già Hobson stigmatizzava l’analogo uso, da parte della Gran Bretagna nel XIX secolo dell’affermazione che «la nostra politica imperiale e coloniale è animata dalla volontà di diffondere in tutto il mondo le arti del libero autogoverno di cui godiamo in patria» e la contestava affermando che «alla vasta maggioranza dei popoli del nostro impero noi non abbiamo attribuito alcun vero potere di autogoverno, né abbiamo alcuna seria intenzione di farlo, né d’altra parte crediamo seriamente che sia possibile farlo» dato che «dei trecentosessantasette milioni di sudditi che vivono fuori dalle isole britanniche, non più di undici milioni, ossia uno su trentaquattro, hanno una qualche forma di autogoverno per quanto riguarda la legislazione e l’amministrazione»[28] e che «da quando le prime luci del nuovo imperialismo negli anni settanta hanno dato piena coscienza politica all’impero, è divenuto un vero luogo comune del pensiero liberale sostenere che la missione imperiale dell’Inghilterra è quella di diffondere l’arte del libero governo»[29].

Un giudizio simile mutatis mutandis, merita l’uso strumentale dei diritti umani.

  1. Le idee sopra elencate sono le principali giustificazioni ideologiche di una globalizzazione che cerca di eliminare (o ridurre) i limiti che la politica e gli Stati possono porle.

In effetti le controindicazioni che una situazione del genere possa provocare sono già indicate nel pensiero politico (ed economico) di cui gli autori sopra ricordati costituiscono una (quantitativamente) piccola parte.

Il primo di tali inconvenienti è che l’ordine mondiale globalizzato non si pone – o non lo fa adeguatamente – il presupposto e la conseguenza che si accompagnano a quello: ossia il potere e la responsabilità.

Maurice Hauriou sosteneva che «il potere è una libera energia della volontà che si fa carico d’intraprendere il governo di un gruppo umano attraverso l’ordine ed il diritto»[30]. In tale definizione, proseguiva, vi sono tre elementi essenziali: 1) che il potere è una libera energia della volontà; 2) che il potere è un imprenditore di governo; 3) e che lo fa con la creazione dell’ordine e del diritto. Nelle concezioni globalizzatrici, a parte il richiamo all’idea d’impero, d’altra parte non meglio precisata, questa è soprattutto di assai dubbia praticabilità. Infatti in primo luogo si pone il problema di chi è lo Stato imperiale. Forse gli USA? E allora perché, malgrado guerre umanitarie e interventi di peace-keeping, non riescono a «normalizzare» i popoli (e gli Stati) occupati dalla NATO (o da coalizioni di Stati membri della NATO)[31]. E Cina e Russia che fanno?

Per cui l’idea d’impero – data la scarsa probabilità che la «testa» ne siano gli USA, diventa evanescente, ma più realistica. Così nel notissimo saggio di A. Negri e M. Handt, «Impero» in cui la forma di governo dell’Impero è una galassia formata da organizzazioni di Stati, Banca             mondiale, clubs vari e multinazionali[32]. È chiaro che un sistema siffatto, in effetti policratico, è «governabile» solo a prezzo di guerre, talvolta «tradizionali» (anche se mascherate da «operazioni di polizia internazionale»), più spesso asimmetriche (nel senso dei colonnelli cinesi più volte ricordati): a regolarlo sono assai più i rapporti di forza che il diritto.

Per cui come un governo siffatto possa garantire un’impresa di governo attraverso l’ordine e il diritto è difficile da immaginare. Di fatto non c’è un governo nel senso di un centro di riferimento in fatto e in diritto irresistibile; non c’è neppure una volontà, che richiede di essere personale (o pluripersonale) di un organo deputato a decidere (parlamento, consiglio dei ministri, Capo dello Stato), ma solo procedure informali riconducibili ad accordi, evidentemente fondati sui rapporti di forza; non c’è neanche un ordine, intesto nel senso di ordine sotto un’autorità (e una gerarchia) riconosciuta[33]; ne è configurabile un diritto – almeno completamente – perché questo va comunque distinto – come scriveva Hauriou – in droit disciplinaire (quello emanato dall’istituzione e basato sul rapporto di comando-obbedienza) e droit commun (quello fondato sulla socievolezza umana e quindi internationale)[34]. E il droit disciplinaire qui  manca (il che non significa che non vi sia il rapporto comando-obbedienza).

  1. Scrive Freund peraltro che il bene comune – scopo dell’azione politica – si distingue, secondo il presupposto dell’amico/nemico (e del comando/obbedienza) nei due aspetti della sicurezza esterna e della concordia interna. Ma, in una società globalizzata la prima ha un senso depotenziato, almeno se la globalizzazione è intesa, come generalmente ritenuto, quale percorso per eliminare guerra e ostilità. Una volta che si fantastica di toglierle di mezzo, il problema (si immagina) è risolto. Quindi niente Stati (in senso westphaliano) né «politica» in un mondo globalizzato.

Quanto alla concordia interna, fondata più sul presupposto del comando-obbedienza, che su quello dell’amico-nemico, questo appare un obiettivo ancor più difficile da conseguire per un potere globalizzatore. Alla base di quella c’è il romano idem sentire de re publica, cioè la condivisione in un gruppo umano della fiducia in istituzioni, valori, interessi nonché la consapevolezza di una comune appartenenza (per lingua, tradizione, religione). Ovviamente tutti tali elementi determinano la particolarità e la specificità del gruppo politico, come tale già contrapposto ad un potere che si pretende universale[35].

Peraltro, nel processo di formazione delle unità politiche è l’idem sentire, o per dirla alla Payne, il common sense comunitario che favorisce e determina il costituirsi dell’unità politica e non viceversa (o per lo meno è questo il percorso normale e maggiormente praticato).

Questo in una società planetaria manca o è carente e inidoneo a costituire una base di consenso e condivisione a un potere universale, mentre fondamentalisti, nazionalisti, gruppi etnici (e così via) tuttora hanno la capacità di costituire sintesi politiche. Finché le identità delle varie comunità saranno così diverse è bizzarro pensare che, nella modestia di un sentire comune «universalista» si possa costituire (qualcosa che somigli a) una unità politica.

In Europa le ultime costituite, cioè Italia e Germania, a parte i fattori unificanti (lingua, territorio, «razza», consuetudini, e per l’Italia la religione cattolica), hanno richiesto un’opera di convinzione dello spirito pubblico durata oltre mezzo secolo (almeno: dall’età napoleonica a oltre metà dell’800); e comunque diverse guerre. Pretendere di costruirne anche solo un surrogato a tavolino e con la collaborazione di banche e burocrazie è frutto di aspirazioni scambiate per realtà possibili.

  1. Senza le condizioni possibili per realizzare l’unità politica, come può fondarsi un ordine internazionale «globalizzato»?

Machiavelli nel Principe scriveva che «Dovete adunque sapere come e’ sono dua generazioni di combattere: l’uno, con le legge; l’altro, con la forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo, delle bestie. Ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo: pertanto ad uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo»[36]. Tale passo è stato interpretato in più modi e d’altra parte il pensiero denso e la scrittura efficace e concisa del Segretario fiorentino esprimono spesso meno parole che giudizi: uno dei quali è quello, ripreso secoli dopo da de Maistre che dove non c’è sentenza c’è lotta. Istituzioni (politiche) leggi, sentenze e ciò che presuppongono (cioè consenso, idem sentire, tradizione e così via) sono sistemi per produrre ordine e decisioni alternativi alla lotta. Giudizio che anche nei tempi presenti appare confermato. Dopo la caduta dell’ordine di Yalta – che era un ordine di sistemi politici «regionali» (occidente, comunismo, e – al massimo – «terzo mondo») le guerre convenzionali e «innovative» appaiono aumentate, ed estese a regioni del pianeta prima risparmiate, come l’Europa orientale, il Caucaso e parte del Medio Oriente. Dei soggetti «guerreggianti» oltre agli Stati e ai movimenti di liberazione nazionale, abbiamo un po’ di tutto.

D’altra parte la stessa invocazione alla «pace» e alla riduzione degli armamenti appare diventata uno strumento di guerra. Se la deterrenza della guerra consiste nel fatto che i contendenti possono arrecarsi danno reciproco, il limitare giuridicamente la possibilità di reazione è il tentativo di usare del diritto per impedire – nella maggior parte dei casi – la resistenza alla forza, e così cristallizzare i rapporti di potere, mantenendone le ineguaglianze.

Il che è soprattutto temibile nel caso di guerre condotte con mezzi non violenti, come quelle descritte dai «bravi colonnelli». Il tutto finisce col somigliare ad una rivisitazione attualizzata alla situazione contemporanea dei Trattati ineguali tra potenze europee ed asiatiche dell’800.

Con in più due caratteri specifici: che – per lo più, ciò serve a ridurre i rischi dell’aggressore, il quale, se sa di non dover subire una reazione violenta, può tranquillamente esercitare l’azione non violenta. E la seconda, usuale, che il tutto più che nei trattati è sancito attraverso la persuasione dell’opinione pubblica. La pace (intesa come non-violenza) è così mezzo di dominio.

Che «forza» e «legge» siano modi di combattere, come scrive Machiavelli, ossia d’imporre la propria volontà, è spesso dimenticato; così del pari, è – anche se in misura minore – trascurato che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari. La «legge» senza forza è inutile: la forza senza legge è arbitrio violento.

Nella realtà occorrono entrambi. Se la combinazione di forza e regola è la normalità del governo dei gruppi umani, così come il potere responsabile è l’ordinatore ideale, quello che si profila nel mondo globalizzato appare tra i meno preferibili. Perché si risolve nell’affidare prevalentemente alla forza e all’astuzia (del potere esistente) il massimo della potenza disponibile senza la prospettiva che possa riuscire a creare un ordine che sia veramente tale.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

[1] V. Corso di diritto internazionale, Padova 1933, p. 115.

[2] V. «poiché la regola dell’indipendenza internazionale dei soggetti, non è assoluta, ma ha delle eccezioni, ne viene che un soggetto può assumere una posizione di superiorità verso un altro, in base allo stesso diritto internazionale, e quindi si possono avere degli Stati che sono titolari di una potestà sovrana di mero diritto internazionale su Stati che, per la loro posizione sempre internazionale, sono subordinati ai primi e per ciò non sovrani. Così, p. es., nel protettorato» op. loc. cit.

[3] V. «Come si è visto, che un soggetto sia per diritto internazionale sovrano rispetto ad un altro non sovrano, nel senso che su questo eserciti una potestà, non è la regola, ma l’eccezione» op. cit.

[4] Op.cit., p. 117; e conclude «data la grande varietà che il protettorato può assumere, è difficile formulare principii generali, ma si può affermare che essi implicano sempre una limitazione della capacità di diritto e inoltre la perdita in taluni casi, o la diminuzione in altri, della capacità di agire».

[5] Op. cit., p. 118

[6] Anche giuridicamente, ma solo fino a un certo punto. Diversamente dallo «status» dei protettorati, le limitazioni vi sono, ma a parte la minore entità, non si traducono in una condizione stabile e regolata da dipendenza, ma a modifiche secondarie, ma talvolta significative, dei diritti degli stessi. Così le collaborazioni tra amministrazioni civili e militari.

[7] «Le nostre opinioni sugli Dei, la nostra sicura scienza degli uomini ci insegnano che da sempre, per invincibile impulso naturale, ove essi, uomini o Dei, sono più forti, dominano» v. La guerra del Peloponneso trad. it. di P. Sgroj V, 105/110.

[8] Qu’est-ce le tiérs État trad. it. di G. Troisi Spagnoli, in Opere Tomo I, Milano 1993, pp. 255-257.

[9] Scrive Bodin «Se dunque il principe sovrano è per legge esente dalle leggi dei predecessori, ancor meno egli sarà obbligato a osservare le leggi e le ordinanze fatte da lui stesso: si può ben ricevere la legge da altri, ma non è possibile comandare a se stesso, così come non ci si può imporre da sé una cosa che dipende dalla propria volontà, come dice la legge: nulla obligatio consistere potest, quae a voluntate promittentis statum capit; ragione necessaria, che dimostra in maniera evidente come il re non possa essere soggetto alle leggi» Six livres de la République, trad. it. di M. Isnardi Parenti, Torino 1988, p. 360.

[10] Op. cit., p. 407 (il corsivo è nostro).

[11] Op. cit., p. 480.

[12] Op. cit., p. 481.

[13] «E in breve abbiamo dimostrato le assurdità intollerabili che conseguirebbero se i vassalli fossero sovrani, anche nel caso che non abbiano nulla che non dipenda da altri; e che cosa avverrebbe se si considerassero uguali il padrone e il servitore, il signore e il suddito, chi presta giuramento di fedeltà e chi lo riceve, chi comanda e chi è obbligato all’obbedienza» (il corsivo è nostro) op. loc. cit.

[14] Op. cit., p. 503.

[15] Op. cit., p. 511 (il corsivo è nostro).

[16] V. J. Freund secondo cui «i giuristi, seguiti da certi filosofi della politica, hanno cercato di spogliare della sovranità il comando. E Bodin è in parte responsabile di questa opera» L’essence du politique, Paris 1965, p. 117.

[17] V. La science sociale traditionnelle, rist. in Ecrits sociologiques, Dalloz, Paris 2008, p. 233 ss.

[18] Guerra senza limiti, L.E.G., Gorizia 2001, p. 39 e i colonnelli aggiungono «Comunque si scelga di definirla, questa nuova realtà non può renderci più ottimisti che in passato. Ciò perché la riduzione delle funzioni della guerra in senso stretto non implica affatto che quella guerra abbia cessato di esistere. Anche nella cosiddetta era postmoderna e post-industriale la guerra non sarà mai eliminata del tutto. E’ solo tornata a invadere la società in modi più complessi, più estesi, più nascosti e sottili», op. loc. cit. (il corsivo è nostro).

[19] V. Sul pacifismo e sulla pace le considerazioni di Freund, op. cit., pp. 620 ss; v. A. Salvatore, Il pacifismo, Roma 2010. In genere sull’incompatibilità tra sovranità dei popoli e globalizzazione v. l’attento studio di Alain de Benoist, Oltre la sovranità, Arianna Editrice, Bologna 2012, in particolare pp. 97-106.

[20] Das nationale system der Politischen Ökonomie, trad. it. Di H. Avi e P. Tinti Milano 1972, p.149 (il corsivo è nostro); e prosegue «Quesnay tratta evidentemente dell’economia cosmopolitica, cioè di quella scienza che insegna come tutto il genere umano può raggiungere il benessere, mentre per contro l’economia politica ed altre scienze si limitano ad insegnare come solo una data nazione possa raggiungere il benessere, la civiltà e la potenza, nelle condizioni mondiali date e per mezzo della sua agricoltura, industria e commercio. Adamo Smith diede alla sua dottrina la medesima estensione, ponendosi il compito di giustificare l’idea cosmopolitica dell’assoluta libertà del commercio mondiale… Adamo Smith non si pose il compito di trattare dell’oggetto dell’economia politica, vale a dire della politica che ogni paese deve seguire per fare dei progressi nelle sue condizioni economiche. Egli intitola la sua opera: Della natura e delle cause della ricchezza delle nazioni, cioè di tutte le nazioni delle quale si compone il genere umano. In una parte speciale della sua opera egli parla dei diversi sistemi dell’economia politica, ma solo con l’intenzione di dimostrare la loro vanità e per provare che al posto dell’economia politica o nazionale deve subentrare l’economia universale».

[21] E prosegue «Quei principi, però, che riguardano gli interessi di nazioni intere come tali ed in rapporto alle altre nazioni, formano invece l’economia pubblica (économie publique). Mentre l’economia politica tratta gli interessi di tutte le nazioni, di tutta la società umana in generale», op.cit., p. 50 (i corsivi sono nostri).

[22] Op. loc. cit. (il corsivo è nostro).

[23] Come scrive Freund: «qual è il bene specifico dell’attività politica… come Hobbes non cessa di ripetere il bene comune dello Stato e quello del popolo che formano insieme una collettività politica. In effetti se gli uomini continuano a vivere in collettività politiche, è perché vi trovano un interesse. Ci sono forti probabilità che se la natura umana non trovasse alcuna soddisfazione (bien) in tale genere di vita nessuna unità politica potrebbe essere stabile e durevole», v. Qu’est ce-que la politique, Paris 1965,p. 38.

[24] Op. cit., p. 151.

[25] Op. loc. cit..

[26] Op. cit., p. 155.

[27] Op. cit., p. 159.

[28] V. Imperialism. A study, trad. it., di L. Meldolesi, Milano 1974, p. 102.

[29] Op. cit., p. 105.

[30] Précis de droit constitutionnel, Sirey, Paris 1929, p. 14.

[31] Volutamente ho rispolverato il termine di «normalizzazione» di bresneviana memoria, perché, malgrado tutto, l’intervento del 1968 in Cecoslovacchia del patto di Varsavia (cioè di un vero impero regionale) riuscì a ricondurre all’«obbedienza» una nazione riottosa, senza che ciò degenerasse in guerre civili o partigiane: fu un intervento di successo, come, in passato, molti del XIX secolo. Che poi il comunismo sia imploso è un fatto che trascende la dimensione politica e strategica dell’ordine nell’impero sovietico: il crollo del comunismo è dovuto all’incompatibilità del sistema con i presupposti del politico e, più in generale, con le innate tendenze dell’uomo.

[32] Il carattere informale e non strutturato del potere globalizzatore è stato notato da molti. Tra i quali ricordiamo F. Cardini, La Globalizzazione, Rimini 2004; G. Ferrara, Derubati di sovranità, Vicenza 2014.

[33] Che è poi il senso agostiniano di ordine e di pace «la pace della città è l’ordinata concordia dei suoi cittadini nel comandare e nell’obbedire; la pace della città celeste è la più perfetta e armoniosa concordia nel gioire di Dio e nel godere vicendevolmente in Dio; la pace di tutte le cose è la tranquillità dell’ordine. E l’ordine è la disposizione degli esseri uguali e disuguali che assegna a ciascuno il posto che gli conviene» v. De civitate Dei, trad. it., Roma 1979, p. 1161.

[34] V. M. Hauriou, op. cit., p. 97 ss.

[35] Come scrive M. Veneziani Comunitari o liberali, Laterza, Bari 2006,p. 105 «Da una parte la globalizzazione congiunta all’internazionalismo porta a superare i confini territoriali; ma può esistere una comunità illimitata, che coincide alla fine con l’umanità? Puoò esistere cioè una comunità che non riconosce tratti specifici, provenienze condivise, tradizioni comuni ma solo la comune appartenenza al genere umano? Più giusto in questo caso è parlare di cosmopolitismo e non di democrazia comunitaria»; il che pone il problema del politico e della sua pretesa estinguibilità.

[36] Principe XVIII (il corsivo è nostro).

IL DESTINO DEGLI EUROPEI. (2/2), di Pierluigi Fagan

IL DESTINO DEGLI EUROPEI. (2/2)

[Prima puntata, qui] Vediamo allora meglio quali possibili eccezioni si possono avanzare alla correlazione massima sovranità = grande Stato. Innanzitutto si possono comparare solo entità che abbiamo qualche forma di analogia, ad esempio, uno stesso livello di sviluppo. Se il Vietnam (che ha comunque 90 milioni di abitanti) cresce impetuosamente è anche perché proviene da una recente conversione all’economia produttivo-scambista nata in occidente. Questa dinamica di “lancio” che si ottiene all’inizio dei processi di sviluppo, non è ripetibile nei paesi molto maturi come quelli europei soprattutto dell’ovest. La seconda discriminazione taglia gli Stati che fungono da snodo banco-finanziario, i depositi o mercati della ricchezza con opacità fiscale e benevolenza giuridica. Lussemburgo, Lichtenstein, Cipro, Malta, Singapore, Svizzera et simili, sono come piccoli vascelli pirata che fanno categoria ma solo a certe condizioni che non sono raggiungibili da chi ha milioni di individui in popolazione. I casi misti come Irlanda od Olanda non cambiano il giudizio finale. La terza è il contesto, trovarsi come la Corea del sud tra Giappone e Cina e stante che anche la Corea ha iniziato il suo sviluppo solo da qualche decennio, non è come trovarsi al centro dell’Africa, tra Tanzania, Angola e Sudan. Così per i Paesi in target dello sviluppo delle Vie della seta cinesi o per la centralità che la Turchia ha sia verso l’Oriente che verso il Mediterraneo. Vale per le opportunità ma vale anche per i problemi, l’Italia ad esempio, ha volente o nolente, il problema del rapporto con Francia e Germania. Se come tutti ritengono, l’Asia sarà il fuoco del futuro sviluppo planetario (già oggi 60% della popolazione mondiale) essere stato in Asia avrà problemi ed opportunità diverse dall’essere stato in Europa, in un caso le condizioni di possibilità vanno ad aprirsi, nell’altro -tendenzialmente- a chiudersi. La quarta sono gli stati con materia-prima che poi sembrano portarsi appresso anche la relativa “maledizione”, è chiaro che fanno categoria a sé e che nessuno stato europeo si trova in questa condizione, anzi siamo tutti dipendenti da materie prime ed energie ampiamente esterne. La quinta è il momento e l’arco storico. Stiamo cioè parlando di un problema che si presenta nel recente e che si imporrà ancor più decisivamente nel futuro, riferirsi al passato per reperire casi di successo economico nello spazio piccolo, fosse anche il neo-keynesismo post bellico e ricostruttivo degli stati europei anni ’60, non ha alcuna utilità.  Questa discussione fatta qualche anno fa con un amico, vedeva come contro-caso la Finlandia ed il suo gioiello Nokia. Oggi, la finlandese Nokia è stata venduta all’americana Microsoft ed è stata venduta perché forte di esser stata un primum movens, non poteva poi reggere la concorrenza asiatica, a prescindere da quanto fosse appoggiata dal suo stato di riferimento. Competere su certe produzioni avanzate con chi, come la Cina, sfornerà assieme all’India il 63% dei laureati in materie scientifiche entro il 2030 (OECD-OCSE), sarà dunque molto difficile. Altresì, è certo che i grandi stati saranno in grado di mobilitare grandi capitali per R&S, si veda il caso americano DARPA o per sviluppo infrastrutturale come fa la Cina e si apprestano a fare gli USA. Il caso Finlandia dice anche che i casi da porre in dibattito vanno valutati in un corso storico decennale altrimenti si finisce come Ricardo a credere che anche il Portogallo con le sue bottiglie di vino porto, aveva “solide” opportunità di vantaggio comparato con cui partecipare alla danza del libero mercato mondiale. Era proprio List a contraddire questo assunto molto generico, una economia-Stato dovrebbe avere una buona parte delle sue produzioni fondamentali interne, se non vuole essere maltrattata dalla potenza produttiva di qualche “fabbrica del mondo” esterna, magari coadiuvata dalla cannoniere come la patria di Ricardo ci ha insegnato. I piani di re-industrializzazione in Francia ed USA, dicono che la favola bella della mano invisibile che mette ordine nel mondo del mercato, è stata illusione che ieri c’illuse e dalla quale oggi dovremmo risvegliarci in fretta. Vale anche per le valute, dipendere dalla valuta di un altro Stato sottrae ovviamente sovranità. Ma naturalmente la valuta deve essere poi di un peso che venga riconosciuto dal mercato, non basta avere carta e tipografia di proprietà.  La sesta discriminazione deve poi escludere quei paesi che di madre o seconda lingua inglese, hanno davanti a loro nel mercato globalizzato una più ampia prospettiva per l’economia dei servizi che oggi rappresenta dal 70% in su del totale contributo al Pil degli stati ad economia matura. La settima è la verifica oltre economica. Definire sovrana la Corea del sud, vista la dipendenza che ha dalla protezione militare americana, pecca di manica molto larga. Purtroppo è proprio il fatto militare, tanto il suo piano produttivo che di  effettiva potenza, a condizionare grandemente l’autonomia dei paesi e s’illude chi legge solo come geopolitica la dipendenza militare poiché gli stati sono sistemi integrati. E’ difficile ospitare una base NATO e mettersi ad amoreggiare con l’economia cinese accettando yuan contro valuta nazionale, perché prima parte una telefonatina, poi qualche tentativo di destabilizzazione per rischio di disallineamento. Di contro, pensare di avere autonomia militare partendo da un singolo stato europeo è ovviamente fuori di senso. Infine, è chiaro che i rapporti tra Paesi dotati di maggior massa e potenza, militare ed economica, quindi politica, determineranno i regolamenti dei giochi planetari, influiranno su gli standard, sulle policy delle istituzioni globali, su i lineamenti giuridici del sistema mondo a cui tutti, volenti o nolenti, dovranno partecipare in vario modo ed intensità. A gli altri, rimarrà l’opzione tra il come ed il quanto integrarsi in un gioco in cui si troveranno gettati senza alcuna voce in capitolo, sapendo che il protettore che si sceglieranno sarà inevitabilmente anche il proprietario del sistema che darà loro i limiti di possibilità. Il soggetto UE che compare nelle classifiche per Pil è un mero ente statistico, non è un soggetto intenzionato, non fa investimenti di alcun tipo, non sviluppa ricerca propria, non è autonomo militarmente (e si fa imporre ad esempio l’ostracismo commerciale alla Russia che gli sarebbe partner naturale), non partecipa al consesso internazionale con voce in capitolo.

Tornando alle premesse  iniziali è chiaro che nulla di tutto ciò impone leggi ferree di dimensioni, si potranno avere casi particolari di buona tenuta in qualche nicchia economica sebbene precaria nel tempo ed assai assediata muovendosi nei limiti dati dall’allineamento geopolitico a qualche superpotenza, la dinamica però della distribuzione dei pesi e delle egemonie, ci sembra tendenzialmente orientata. Hobsbawm scriveva che ai tempi ottocenteschi del dibattito sulla taglia dei nuovi stati, se non proprio legge, faceva chiara tendenza la sequenza dal locale al regionale e dal regionale al nazionale, su fino al mondiale perché sebbene a molti intelletti metafisici sfugga, nel frattempo la popolazione aumenta ed è ovvio che un macrosistema sempre più denso si ripartisce in sottosistemi per avere un ordine per quanto dinamico. La destinazione finale di questa sequenza non è l’impero-mondo, di nuovo incurabile metafisica politica, ma una tavola rotonda di quasi pari che cooperano ed in parte competono tenendosi in reciproco equilibrio e non accettando la prevaricazione di alcuno.  Sembra meno stabile di un impero-mondo ma in realtà è così che si organizza la complessità in natura, ovunque la si osservi distribuisce peso in molteplici, complessi ed interrelati.

Come detto queste considerazioni sono variamente presenti già nel dibattito ottocentesco, addirittura Alexis de Tocqueville prevedeva un futuro bipolare in cui l’Europa sarebbe stata espropriata di significato e potenza da i due giganti americano e russo. Kalergi nel 1923, prevede non solo America e Russia (la suo tempo già URSS) ma anche Giappone e Cina. Schmitt vede britannici come al solito impegnati a spezzettare l’Europa per evitare si venga a formare un soggetto per loro minaccioso, americani, russi e di nuovo l’Asia mentre il destino della noce schiacciata nella morsa Stati Uniti – Russia/Asia angustia anche Spinelli e Rossi. Nel frattempo, i meno di venti Stati europei nella cartina politica europea del 1914, sono diventati cinquanta[1]. La scomparsa dell’impero austro-ungarico, la riduzione di quello germanico, l’implosione sovietica che ha liberato quindici nuovi Stati (non solo europei) e quella jugoslava altri sei, i riconoscimenti di sovranità dopo la seconda guerra mondiale che seguivano anche la logica di interposizione tra fronte occidental-americano ed Unione sovietica, la compiacenza con gli stati-banche in cui dare asilo politico ai capitali in cerca di libertà dal giogo fiscale, furono processi tutti interni alla logica sub-continentale che è andata dalla parte opposta al discorso che qui sviluppiamo. Logica sì interna ma anche molto manipolata dai due giganti URSS ed USA, la sovranità in Europa è un concetto al tramonto dalla fine delle seconda guerra mondiale. Le questioni scozzese, basca, catalana, corsa, fiamminga e vallone e via di questo passo in un  elenco sempre più lungo, promettono altre eventuali invaginazioni. Di contro. Il processo unionista dalla CECA del ’51 a Maastricht – Lisbona – euro, ha dato l’impressione di compensare questa coriandolizzazione delle sovranità europee, operando sintesi a più alti livelli. Ma le ha operate davvero?

Troppo vasto e complesso il sistema europeo allo stato attuale dell’opera per addentrarci al suo interno, rimaniamo all’esterno considerandolo “un” sistema (UE+euro). Allo stato attuale sia dell’opera che delle intenzioni (sia dei fatti che dei discorsi), il sistema unionista europeo è una confederazione, una alleanza su base di trattati, alcuni pensano, vorrebbero, sognano possa poi diventare una federazione, cioè uno Stato ma che una confederazione diventi una federazione non è affatto detto e tra gli assai pochi esempi storici, èsignificativa solo la Svizzera, confederazione per circa sei secoli e poi federazione dal 1848. Proprio la Germania e la sua formazione unificata in Impero nel 1871, ci dice non fu certo lo Zollverein fatto inizialmente con l’Austria a portare all’unificazione. Ci fu una guerra contro l’Austria (tra “tedeschi”) e poi la creazione di  un problema tale da farsi dichiarare guerra dalla Francia di Napoleone III, per spingere i riottosi principi tedeschi a farsi inglobare dai prussiani sulla spinta unificatrice del comune nemico.  Si ricordi poi sempre che la nostra tendenza alla modellistica astratta (confederazioni, federazioni, Stati, unioni, leghe etc.) occulta le particolarità decisiva di dimensione e contesto. Se ad esempio, gli Stati Uniti d’America nascono fondendo colonie oltremare di una unica sovranità, che si sono ribellate con una guerra d’indipendenza, in un continente praticamente vuoto, abitato da 2,6 milioni di anglosassoni con la stessa lingua, cultura e religione e nel disinteresse geopolitico dell’epoca, questo “esempio” non è di nessuna utilità per il caso europeo. E se le confederazioni si sono create storicamente soprattutto come alleanze militari, cosa comporta una confederazione economica che ha poi chiamato una moneta unica per evitare i potenziali conflitti sulle parità di cambio, che sta ora chiamando leggi commerciali, standard, leggi fiscali e di bilancio che arrivano fino al cuore della sovranità economico-politica degli Stati nazionali? Soprattutto, è quella del sistema economico una logica che può supplire alla mancanza di un più nitido processo di unificazione dichiaratamente politico? Decisamente, no. Una confederazione economico-monetaria con qualche forme giuridica di omogeneizzazione rimane un sistema vago, non è un soggetto multipolare intenzionato, è una gerarchia di sovranità comandata dal o dai più forti. Una confederazione economico-monetaria ordinata dai principi imposti dal soggetto più massivo (la Germania), contrattati e scambiati con contro-concessioni esclusive al junior partner francese,  non ha alcuna possibilità di diventare una federazione in cui gli stati entrino col desiderio sincero di sciogliersi in un totale maggiore della somma delle parti poiché non siamo in regime cooperativo ma competitivo, non è una fusione, è un’annessione.

Il sistema economico nel suo pensiero, nasce già in uno stato e non tratta minimamente di stati, anzi, nella sua versione ideologica neo-liberale che ne è ideologia ortodossa tanto de definire le altre ideologie economiche “eterodosse” (!), spinge verso il “meno Stato e più mercato” come se le comunità umane territoriali fossero riducibili al loro mercato, una credenza la cui assurdità lascia esterrefatti soprattutto volgendoci a coloro che sembrano pure prenderla sul serio.  Il sistema economico europeo assomiglia strutturalmente al sistema della credenza cristiana del medioevo. Ogni società piccola o grande, medioevale o moderna, è attraversata da fatti economici quanto religiosi ma  quello che Schmitt chiamava il “nomos” della terra, chiama la partizione politica e giuridica, non quella economica, né quella religiosa. L’islam ha provato alle sue origini a comprendere in un unico Stato (califfato-sultanato) tutte le terre dei credenti ma si è ogni volta frantumato perché per quanto comune sia la credenza spirituale e financo parte della legge (sharia), questo è solo un di cui delle società territorializzate. Gli ebrei hanno in effetti fatto nazione senza vincolarsi ad uno stato territoriale (almeno fino alla nascita di Israele), ma sono l’unico esempio storico in merito ed hanno anche pagato alti prezzi per questa atipicità sgradita -in genere- alla gran parte delle popolazioni territorializzate. Quando le popolazioni crebbero in Europa e le nuove partizioni politico-territoriali statali andarono in urto con l’ecumene cristiano, prima si ruppe l’unità cattolica con Lutero, poi ci fu uno sciame di conflitti che con Augusta – Westfalia sancì definitivamente il “cuis regius, eius religio”, la sottomissione del religioso al politico. Anche Enrico VIII inventò la chiesa anglicana per non aver intromissioni di sovranità da parte del continente (papato romano) così come i britannici hanno poi ribadito con la Brexit nei confronti del’UE. Per quanto si voglia complicare la faccenda, arriva sempre un punto di decisione (la fatidica domanda “chi decide?”) in cui o si segue una logica eteronoma (sistema della credenza, sistema economico e soprattutto finanziario che tendono a superare i confini, sistemi che tendono all’universale) o una logica autonoma e l’unica logica autonoma che esiste è quella politica, la sovranità che la comunità esercita su un territorio. Io non posso vivere accanto ad un vicino che risponde alla sovranità di un micro-stato fondato su una ex-piattaforma petrolifera che rilascia passaporti on line e dire che effettivamente facciamo “società”. Io faccio società coi miei simili, lui è straniero, ognuno risponde a sistemi con logica diverse, non c’è “in comune”, abbiamo firmato due diversi contratti sociali.

In effetti il sistema europeo attuale, è una sistema di Stati-nazionali dominato da i due più forti, la Germania e la Francia, ed è un sistema economico, in parte monetario e poi parzialmente giuridico che non ha nulla a che fare con un processo di unificazione politica. Lamentarne la scarsa democraticità ha poco senso perché è una libera alleanza economica contratta da soggetti sovrani, non direttamente dai popoli sottostanti. I popoli sottostanti semmai dovrebbero lamentarsi della scarsa democrazia dei loro Stati ma una volta che i parlamenti-governi hanno deliberato questo o quello ed avranno regolato i loro pesi nei rapporti di forza tra stati nel loro Consiglio dell’Unione (cioè della confederazione), nel sistema confederale si farà questo o quello com’è ovvio che sia. Questo sistema non ci pensa nemmeno un po’ a diventare un sistema federale, cioè un futuro stato anche perché il fine dovrebbe ordinarne il processo, cosa che non avviene osservando il processo “unionista” in atto. Se si volesse fare uno Stato comune è tutt’altro il processo di pur lenta sintesi progressiva che occorrerebbe fare. Se economicamente ci piace fare sistema con l’Ungheria e perché no con la Turchia piuttosto che con Israele come ad un certo punto qualcuno proponeva,  solo un pazzo scriteriato può pensare di fare uno stato federale europeo con i britannici e i turchi, i polacchi ed i tedeschi, gli scandinavi ed i greci. Per quanto sia difficile liberarsi dall’impianto mentale che ci hanno mineralizzato in testa, un impianto che parla di economia come nel medioevo si parlava di Dio, della mano invisibile come si parlava della Provvidenza,  del debito pubblico come si parlava del peccato,  invito i lettori e lettrici a recuperare un minimo di autonomia mentale e fare l’elenco dei punti che connotano una sovranità e domandarsi quale principi culturali, educativi, stili di vita, interessi geopolitici, forme economiche, lingue che aiutano a pensare oltreché comunicare, tradizioni storiche e politiche, odi reciproci, avrebbero in comune i candidati europei a fare uno Stato assieme?  Forse -appunto-, solo gli odi reciproci.

Si dirà “be’ certo non è facile ma dobbiamo provarci proprio per quanto hai sin qui sostenuto con il principio di taglia minima”. Ma il punto è che, a parte il fatto che non ci stiamo affatto provando perché se ci stessimo provando davvero dovremmo fare tutt’altre cose per fare uno Stato comune, se il “principio di taglia minima” ci dà il pavimento della casa comune da costruire, c’è un altro principio da osservare e che ci dà il tetto: il principio di omogeneità relativa.  Non stare da soli ed unirsi a qualcuno non porta ad unirsi a tutti, se non altro perché agisce il principio naturale di progressività che dal semplice si arrampica lungo la scala della complessità, scala che ha pioli, che non è un collasso spazio-temporale per il quale si va da 0 a 100. Sebbene con la meccanica quantistica abbiamo scoperto che contrariamente a quanto ritenuto nel medioevo la natura fa salti, li fa per passare da un sistema ad un altro sistema, non per passare direttamente dall’elettrone all’Universo, gli elettroni guidano solo il salto che dall’atomo porta alla molecola.  Quali sarebbero le molecole da creare per salire lungo processo di sintesi dell’estrema eterogeneità europea? Quali sarebbero cioè le fusioni politiche, costituzionali ed a quel punto certo “democratiche” e sovrane di maggior taglia, possibili? Quali sarebbero le forme della prima semplificazione della complessità europea che s’illude (o fa finta di illudersi dandoci vaghi sogni come gli inconcepibili “Stati Uniti d’Europa”) di passare dai molti all’uno perché abbiamo la stessa moneta? Quelle che ci indica il principio di omogeneità relativa.

Se riuscissimo a liberare la mente dagli impianti mentali che utilizziamo per pensare le cose, impianti che tra liberali globalisti, neo-liberisti con tendenze anarco-capitaliste, marxisti praticamente senza una teoria dello Stato, sovranisti semplificati, post-moderni confusi e confondenti,  non sembrano centrati sulla natura intrinseca del problema che abbiamo, se riuscissimo a sostituire gli ordini del pensiero economico che di loro natura sono del tutto inidonei per pensare a Stati e sovranità, con ad esempio quelli del pensiero geo-storico che oltretutto parla di cose realmente esistite e successe e non di interessi materiali travestiti da metafisica, penso sarebbe intuitivamente compreso cosa s’intende con “principio di omogeneità relativa”. In breve, come italiani o francesi o spagnoli o inglesi o germani (che sono un sistema storico ben meno preciso dei primi quattro), si formarono in nazione partendo da gruppi diversi non proprio uguali ma con “qualcosa” in comune, così stati di maggior taglia semmai si volessero seguire le conseguenze principali del principio di taglia minima, saranno possibili solo tra coloro che hanno avuto e quindi hanno “qualcosa in comune”, per seguire quello di omogeneità relativa.

Con ciò concludiamo tornando all’apertura di questo scritto, lì dove si indicavano le quattro-cinque famiglie storico culturali europee che si pongono a metà tra la partizione stato-nazionale attuale e l’idea astratta di popolo europeo magari ammassato nei quanto mai improbabili Stati Uniti d’Europa. Come i britannici hanno un loro istinto formatosi nella geo-storia di lungo periodo in quella che è di per sé un’isola, come gli iberici, gli italici ed i greci (ma anche i danesi e gli scandinavi) sono popoli di penisole, così i germano scandinavi o i latino-mediterranei e gli slavi almeno quelli del nord, hanno una loro geo-storia comune o quantomeno fortemente intrecciata. Questo “in comune” culturale, linguistico, geopolitico, storico, istituzionale, sociale, di stile di vita, di valori, di religioni è l’unico presupposto per tentare la scalata alla complessità per fare nuovi macro-Stati. Il punto è tutto nell’impianto mentale che usiamo per fare analisi e sintesi, per fare descrizioni e darci norme. Usando un impianto economicista appaiono possibili edopportune alcune cose, usando un impianto geo-storico, altre, il primo ragiona per mercati il secondo per Stati, il primo è astrattamente cosmopolita il secondo s’impegna al più concreto livello di far convivere diverse nazioni tra loro perché ne riconosce la storica esistenza sistemica, il primo si basa sul diritto del più forte e non potrà mai esser democratico, il secondo è politico, quindi costituzionale, sovrano ed idoneo alla pretesa di democrazia. Il primo si basa su una “fede”, il secondo sulla ragione.

Se pensate sia opportuno far fronte ai tanti e svariati problemi che abbiamo velocemente elencato  in termini di adattamento tra le nostre popolazioni al mondo complesso e multipolare, denso e competitivo, con un impianto economicista e non geo-storico,  continuate a costruire il vostro mercato comune dominato dalla potenza condominiale franco-tedesca, uniti dalla ritrovata pace reciproca fatta pagare a tutti quelli che gli stanno attorno. Potrete anche andare in giro a raccontarvi che la fine della storia saranno gli Stati Uniti d’Europa, tanto quanto il papa ed i suoi grassi e laidi cardinali e preti andavano in giro nel medioevo a raccontare che con loro si realizzava l’ecumene del regno di Dio in terra mentre rubavano terre e ricchezze al popolo ignaro, sottomesso e pregante. Oppure se seguite un impianto sovranista elementare potrete concentrarvi con soddisfazione a dire l’esatto contrario di quello che dicono i neo-liberali. Non costruirete nulla che sia possibile nel mondo nuovo ma vi toglierete la soddisfazione di non esservi omologati a parole. Nei fatti lo sarete comunque dato che o soverchiati dai dominanti “europeisti” o semmai beneficiati di qualche rimbalzo d’opinione messi davvero nelle condizioni di tornare allo Stato-nazione di taglia europea, sarete comunque soggetti a più poteri eteronomi, quelli dei sempre più potenti sistemi vaghi e quelli dei sistemi non vaghi come gli Stati Uniti e la Cina.

Se invece siete davvero convinti che Stato e sovranità se non proprio degli universali siano almeno quanto di più logico la storia ci mostra in termini di auto-organizzazione ed auto-nomia delle umane forme di vita associata, se non riuscite a trovare il perché non applicare i due principi connessi della taglia minima e dell’omogeneità relativa, allora dovrete staccare lo Stato e la nazione  e concluderne che solo una grande Stato federale, costituzionale e democratico tra popolazioni relativamente omogenee, nel nostro caso i  popoli latino-mediterranei, ci può dare le migliori condizioni di possibilità di avere un futuro degno del nostro passato[2]. Incrociando i principi di taglia minima e di omogeneità relativa, restando nel limite di ciò che è geo-storicamente suggerito, occorre cominciare a pensare a Stati in grado di essere un polo nel gioco multipolare[3], altrimenti la sovranità sarà da parziale a nulla.

Il destino degli europei, quindi,  è tutto nel sistema col quale lo pensiamo.

[Fine. 2/2, qui la prima puntata]

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[I libri usati per accompagnare il testo sono altrettanti contributi utilizzati dall’Autore per sviluppare il ragionamento]

[1] Poco meno di cinquanta stati su circa 200 in cui si compone il mondo fa il circa 25%, ma rispetto alle terre emerse, Europa è solo il 3,5%. Così, se lo stato medio statistico mondiale è su i 37,5 milioni di abitanti, solo 7 stati europei pareggiano o superano questa media. E’ evidente che il frazionismo europeo ha uno standard tutto suo, figlio della peculiare geo-storia di tempi che non sono più.

[2] Ne abbiamo parlato ed argomentato più volte nei nostri scritti. Il riferimento teorico è ad A. Kojéve, L’impero latino, (in Il silenzio della tirannide), Adelphi, 2004. Più di recente, era una linea indagata anche dall’economista, oggi scomparso, Bruno Amoroso. Ricordiamo ancora una volta che una Unione federale tra Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Grecia e Cipro (da vedere Malta), sarebbe composta da duecento milioni di individui che manterrebbero ampie autonomia nei precedenti confini nazionali, ma con devoluzione anche a livelli macro-regionali e provinciali, stante che “democrazia” è una forma politica inversamente proporzionale alla quantità di persone che debbono giungere alla decisione politica. Questo soggetto varrebbe la terza economia del mondo e sarebbe senz’altro un soggetto di peso per i giochi multipolari, a partire da tutti quelli che americani, russi, israeliani e monarchie del Golfo stanno già giocando nel mare davanti casa: il Mediterraneo. Per non parlare dell’Africa o dei possibili rapporti di amicizia col Centro – Sud America ispano-portoghese.

[3] Il nostro ragionamento prende quindi a contesto principale il mondo, non le vicissitudini europeiste o il sistema dell’euro che tanto -giustamente- condizionano l’attuale analisi politica. Va però segnalato che non pochi economisti di buonsenso, tra cui l’ultimo J. Stiglitz, L’euro, Einaudi, 2017, da tempo hanno conseguito che ragionando per aree monetarie ottimali (Mundell 1961), l’area latino mediterranea ha una sua omogeneità parziale interna così ce l’ha quella dei paesi nord europei, ma le due non ce l’hanno tra  loro. Stante che l’idea di avviarci ad una discussione su un possibile nuovo macro-Stato latino-mediterraneo non ha obiettivi politici concreti immediati, già coordinarsi tra questi stati all’interno del sistema UE e promuovere una secessione dell’euro-sud, andrebbe nella direzione auspicata. Se non altro per trattare con qualche minaccia di poter “rovesciare il tavolo”, evenienza la cui necessità hanno scoperto i greci quando si sono trovati a dover dar seguito alle loro promesse elettorali con Syriza. Soprattutto le malconce sinistre di questi paesi stritolati dalla morsa infernale del sistema bruxellese, ne gioverebbero visto che sono immobilizzate dal doppio legame tra “superamento delle nazioni e dei nazionalismi” da una parte e “rifiuto degli impianto neo-ordo-liberisti” che connotano l’attuale costruzione dall’altra. La sinistra occidentale, alimentata ad overdosi di idealismo, dovrebbe recuperare presto una qualche attitudine pragmatico-realista se non vuole scomparire definitivamente. Fare un progetto latino-mediterraneo ci sembra una possibile alternativa ai vaneggiamenti su un’Europa democratica (idea promossa da un economista, non a caso),  e della democrazia impotente del ritorno all’impossibile autonomia nazionale.

 

IL DESTINO DEGLI EUROPEI (1/2), di Pierluigi Fagan

Continuiamo ad alimentare i “” di Pierluigi Fagan, confidando in un proficuo dibattito. Tratto da https://pierluigifagan.wordpress.com/2018/02/01/il-destino-degli-europei-1-2/

IL DESTINO DEGLI EUROPEI. (1/2)

La definizione di “europei” è geo-storicamente, notoriamente, precaria. Ma, per quanto precaria come ogni definizioni di “popolo-nazione”, concetto che ha spesso bordi sfuggenti[1], ha senso in posizioni comparative. Si constata l’esistenza dell’europeo quando lo si mette accanto al non europeo. Al suo interno, il sistema europeo, risulta dotato di molti sottosistemi ognuno con all’interno un sottosistema che a sua volta ha un sottosistema e così via. Al secondo livello, dopo gli “europei” e prima di arrivare alle “nazioni”, si trovano le grandi famiglie storico-culturali che sono per lo meno quattro: gli europei del nord che includono anglosassoni, germani e scandinavi; gli europei del sud-ovest che includono francesi, iberici, italici e greci (i franchi erano popoli appartenenti sia a questo sistema ed in parte al precedente) detti “greco-latino-mediterranei”; gli europei del nord-est (polacchi, cechi, slovacchi, ungheresi e baltici) e quelli del sud-est i balcanici, bulgari e rumeni. Due di queste aree sono storicamente attratte dal fuori del sistema europeo: gli anglosassoni che hanno avuto storica propensione atlantica e comunque in generale “oceanica”; l’area del sud-est bulgara-rumena-moldava che è contigua all’Ucraina e quindi all’area ponto-russa e quella balcanica dove si mischiano popolazioni ortodosse (Montenegro, Macedonia, Serbia)  cattoliche (Slovenia e Croazia) e musulmane (Bosnia Erzegovina,  Albania), dove la dominazione ottomana ha lasciato impronte durevoli data una presenza in loco per più di cinque secoli.

Dopo lo shock di metà del Trecento (la Peste Nera), la storia degli europei si è sviluppata lungo cinque direttrici. La prima è stata un costante crescita demografica che è giunta a moltiplicatori significativi già da metà XIX secolo per poi assestarsi ed ultimamente ristagnare, se non ad  invertirsi. Nel frattempo, il resto del mondo è cresciuto molto di più per cui se ai primi del XX secolo, gli europei dominavano il mondo anche attingendo al loro peso (20% del mondo, circa), oggi questo peso si è di molto contratto (8%) e viepiù si contrarrà nell’immediato futuro. La seconda direttrice è stata quella che a partire dalla fine del XV secolo in Francia, Inghilterra, Spagna e Portogallo, si sono formati stati che manterranno fino ad oggi più o meno la loro dimensione nativa, arrivando ad omogeneizzare le loro popolazioni interne in “nazioni”. Da qui il significato originario, prettamente europeo,  di “Stato-nazione”, stati che tendono a coincidere con una popolazione che ha una sua relativa omogeneità storico-culturale. Ciò che appare abbastanza nitido nell’origine dello Stato-nazione europeo  nell’Europa occidentale del XV-XVI secolo, lo diventa molto meno mano a mano che ci spostiamo ad est. La terza direttrice è quella di una inversione tra ordinatori per la quale proprio a partire dalla pace di Augusta (1555) e poi Westfalia  (1648), si afferma sempre più l’ordinatore politico aristocratico-militare a scapito dell’ordine medioevale che includeva quello religioso che spesso sovra-ordinava tutti gli altri o comunque interferiva pesantemente. Ma a partire dalla successiva Gloriosa rivoluzione britannica (1688-89), si assiste anche da una modificazione interna all’ordinatore politico (e militare) che diventa sempre più un sistema binario con quello economico affiancando all’aristocrazia una nuova borghesiaprima commerciale, poi industriale e finanziaria. Ciò in ragione di un potente sviluppo della stessa attività economica, espansione il cui inizio si nota già da dopo la Peste Nera. La quarta direttrice accompagna le prime tre. Popolazione, Stati e loro ordinatori, soprattutto quelli economici e militari, si allacciano tra loro in una dinamica che se in parte porta ad una lunga sequenza di guerre europee interne, almeno sino al 1815, dall’altra porta ad una progressiva appropriazione del resto del mondo tramite colonie e poi imperi. L’ultima direttrice, la quinta, parte dalla conflittualità endemica in quel territorio europeo che sembra fatto apposta per produrre popolazioni diverse senza che nessuna di esse abbia mai potuto pensare di sottomettere tutte le altre realizzando una unità imperiale. Crollati i Romani, dopo Carlo Magno e forse Carlo V e dopo il penultimo grande tentativo di Napoleone (l’ultimo fu quello di Hitler), i britannici allora dominanti, sovraintendono una sorta di pace armata che dura quasi un secolo nel quale gli europei si dedicano per lo più alla conquista e consolidamento delle proprie colonie/imperi in accompagno ad una fase di crescita economico-materiale e di equilibrio di potenza nelle relazioni reciproche. L’esternalizzazione della concorrenza interna dona una pausa ma poi si torna a fare i conti in casa una volta affermatesi le sovranità dei tedeschi e degli italiani. Alla vigilia della prima guerra mondiale, l’Europa sembra assestata  in grandi partizioni che semplificano il governo della sua parte centro-orientale dove troviamo l’Impero tedesco, quello austro-ungarico e quello russo e null’altro. Ma tra la seconda metà del XIX secolo e il 1915, si creano anche i presupposti del disastro europeo. Gli europei torneranno imperterriti a scannarsi tra loro mentre il resto del mondo si emancipa dal loro dominio. Il sistema europeo non è più isolato o dominante il mondo come è stato nelle prime due lunghe fasi (antico-medioevo e moderno), il mondo circonda l’Europa e le pone la domanda su ciò che vorrà e potrà essere nel nuovo contesto[2]. Questa domanda esterna rivolta a tutte le nazioni e stati europei, si riflette sulla loro stessa consistenza e sulle loro dinamiche di relazione. Se lo Stato-nazione è stato l’attore della storia europea moderna, la successiva storia complessa nella quale siamo entrati, sembra porre seri limiti a questo sistema nato per adattarsi ad un diverso contesto.

Leggendo alcuni ragionamenti politici e strategici di questo ultimo secolo e mezzo, si nota che già verso la fine del XIX secolo, prima quindi dell’inizio della grande conflitto in due puntate che coinvolgerà l’intero mondo e produrrà tra gli 80-90 milioni di morti distruggendo tutti i presupposti di potenza degli europei (e gli stessi diritti di eccezionalità dei suoi fondamenti culturali) , si presentava una forte preoccupazione per una situazione-mondo che disegnava scenari nei quali l’Europa nel suo complesso, andava a perdere la sua centralità/dominio. Era una consapevolezza ancora appena intuita del fatto che tra Stati Uniti d’America, Russia, Giappone (e qualcuno, sopratutto dopo la prima guerra mondiale vedrà con preveggenza anche un nuovo massiccio attore: la Cina), il “mondo” non era più quello di una volta. Soprattutto non era più una massa informe che “chiamava” l’opera di partizione, dominio e sfruttamento da parte degli europei. Questa consapevolezza si rinforza all’indomani della prima guerra mondiale poiché già lì si può toccare con mano il sorpasso di potenza degli Stati Uniti d’America  rispetto alla Gran Bretagna in quel 1919 da cui inizia il “secolo americano”. Dalla Pan Europa del conte Coudenhove-Kalergi (1922)[3], al tramonto dell’Occidente di Spengler (1923)[4], alle più tarde riflessioni di Schmitt (1938-39)[5], nel mentre alcuni intelletti ragionano problematicamente sul rapporto tra stato interno al sub-continente ed il resto del mondo, le dinamiche competitive e il disequilibrio di potenza europeo portano alla seconda definitiva disgrazia, quel secondo conflitto che accelererà la verticale perdita di potenza del sistema europeo nel suo complesso. Anche il manifesto europeista di Ventotene (1941-1944)[6], parte sia dalla necessità di sedare la secolare coazione bellica degli europei, sia dalla necessità di prender atto che ormai le questioni non sono più solo quelle interne al sub-continente ma anche quelle del rapporto tra questo come sistema integrato ed il più vasto e problematico mondo, quel mondo “grande e terribile” di cui si accorge anche Gramsci. Da Kelergi a Spinelli, nessuno di questi progetti europeisti partiva dalle sole considerazioni economiche, partivano tutti da considerazioni storiche, culturali, politiche e geo-strategiche, parlare di Europa solo con le lenti economiche e monetarie è nevrosi tipicamente contemporanea.

Come si riflette nel pensiero questa tramontante condizione europea? Nel suo “Nazioni e nazionalismi dal 1780”, E. Hobsbawm [7]ci dà conto di un dibattito a più voci che sorse già nel XIX secolo che, rispetto alla consistenza degli stati, prendeva la forma di un vero e proprio principio indicatore: il “principio di taglia minima”. L’economista tedesco -per altro in linea di massima liberale (ma di buonsenso)- F. List (1841), aveva introdotto più generali considerazioni sulla dimensione e forma dei sistemi economici nazionali, anticipato in parte dall’economista canadese John Rae (1834) e prima ancora dal federalista americano Alexander Hamilton sulle relazioni tra nazione, stato ed economia. Di List, Hobsbawm, riferisce la convinzione che “… la nazione doveva possedere sufficiente estensione territoriale da formare una unità in grado di svilupparsi. Nel caso quindi non raggiungesse questa estensione non avrebbe giustificazione storica[8]. A questo dibattito prendevano parte dal Dictionnaire politique di Garnier-Pagès del 1834 che definiva “ridicola” la pretesa di sovranità di entità come il Portogallo ed il Belgio, a John Stuart Mill, Giuseppe Mazzini, Frederich Engels, il nazionalista economico irlandeseArthur Griffin. Senza un adeguato livello di popolazione e risorse, non era possibile dare al principio astratto di sovranità politica la concretezza di un adeguato sistema economico. Altresì, secondo List, i sistemi economici nazionali dovevano essere per molti versi “protetti” durante l’infanzia, prudentemente “semi-aperti” nell’adolescenza e definitivamente partecipanti a network libero-scambisti solo quando in grado di competere alla pari o giù di lì e sempre che avessero il peso per farlo. Lo seguiva il prussiano Gustav Cohn che confermava i vantaggi dei Gross-staaten riferendosi ai casi britannici e francesi, traendone addirittura una normativa di una futuro processo di costruzione progressiva di stati sempre più grandi, qualcosa di simile ai ragionamenti futuri di C. Schmitt sul Gross-raum. I termini Kleinstateerei (sistemi di mini-stati) o balcanizzazione perpetueranno in sintesi, questo auto-evidente giudizio di insufficienza per sovranità non in grado di partecipare ai sistemi mondiali che s’andavano formando, sia dal punto di vista della consistenza economica, finanziaria e valutaria, sia come poi si rivelerà plasticamente nei due conflitti, dal punto di vista militare. Ai primi del XX secolo , c’era anche una sottile polemica di molti europei (anche liberali) contro quel “diritto all’autodeterminazione dei popoli” (anche i più microscopici) concepito dal presidente americano Wilson, un idealista-astratto nel migliore dei casi, un furbo manipolatore del divide te impera secondo i più maligni.   Visto che i pensatori tedeschi sembrano i più convinti assertori di questa scalata alla potenza data da soglie minime di dimensioni, val bene ricordare che l’attuale Germania unita, è di circa un terzo più grande di Gran Bretagna, Francia ed Italia e nella speciale classifica di Stati per Pil, è superata dal Giappone che è quasi mezza volta più grande, dagli Stati Uniti che sono quattro volte più grandi, dalla Cina che è diciassette volte più grande mentre viene insidiata nel suo quarto posto, dall’India che ha proporzioni di poco inferiori alla Cina. Del resto, nello studio PWC[9] su i leader economici per Pil al 2050, la Germania, che è l’unico paese europeo previsto nella top ten è solo nona, sopravanzata da tutti paesi più grandi (tra cui le new entry Indonesia, Brasile, Russia e Messico). Quest’ultima considerazione porta  a sottolineare come il “principio di taglia minima”, essendo un principio relativo, se nel XIX secolo era relativo a gli stati europei tra loro, oggi e sempre più domani, lo sarà rispetto a ben diversi standard mondiali. La conformazione geo-storica dell’Europa non è affatto sintonica con lo standard che si andrà sempre più affermando sul pianeta e le sue parti avranno non poche difficoltà storico-culturali a passare dal riferimento sub continentale a quello mondiale. Nelle nostre culture sociali e politiche l’economia è dominante e l’argomento è dominato da una ideologia che non prende affatto in considerazione la dimensione degli stati, solo modelli astratti.

Su questo punto dimensionale c’è da segnalare che, lungo il Novecento, il resto del mondo è cresciuto prepotentemente di dimensione, contribuendo a quella iper-inflazione demografica per la quale da i 1.500 milioni di inizio secolo, siamo oggi arrivati ai 7.500 milioni e tra trenta anni ai 10.000 milioni di cui gli europei saranno un minima frazione (poco più o forse meno del 5%). Ma a questa discontinuità potente se ne aggiunge un’altra, quella per la quale soprattutto dal discorso di Deng Xiaoping sul “socialismo con caratteristiche cinesi” del 1982, già da poco prima o da poco dopo, l’intera Asia si è volta al sistema economico moderno formatosi in Europa già nel XVII-XVIII secolo, seguita più di recente da Sud America ed Africa. Naturalmente la globalizzazione ha ulteriormente potenziato questa crescita di volume e peso economico e finanziario del resto del mondo, ma questo si sarebbe comunque sviluppata magari accompagnato ad una più tipica internazionalizzazione[10]. I progetti sulle vie della seta cinesi, nonché le nuove istituzioni internazionali come l’AIIB o la SCO o i BRICS, in prospettiva l’imprescindibile sviluppo soprattutto dell’Africa , dicono che l’ambiente competitivo del’economia-mondo, si farà sempre più affollato. Proprio il declino del ruolo degli USA come supervisore e promotore del mercato mondiale che ormai va per conto suo, il loro trincerarsi verso una più realistica posizione di giocatore superpotente ma non più in grado di imporre standard di gioco mondiali a tutti, l’apertura quindi di un fase multipolare del tutto inedita a livello mondiale[11], fanno pensare ad un futuro ordine mondiale molto dinamico, in cui il peso e la potenza daranno le carte migliori in ogni tavolo di gioco, sia che si agisca, sia che si contrattino le regole sul come agire. Vale per l’economia, la finanza, le valute, la disciplina dei flussi migratori, le energie e materie prime, le questioni ambientali, lo sviluppo delle aree influenza, il mercato delle armi, gli ombrelli atomici, la crescita o la decrescita controllata, la politica economica, lo sviluppo delle nuove tecnologie, lo sviluppo tecno-scientifico in generale,  i rapporti tra civiltà e grandi credenze, il modello economico e quello sociale, nonché quello politico, nel cui campo si registra il declino delle forme post-belliche della democrazia rappresentativa occidentale. La “potenza” è classicamente definita dal rapporto tra volume economico e forza militare e la potenza è quella che serve per farsi largo nella oscura selva dei temi più sopra appena accennati. Questo è il mondo complesso che pone le domande a gli europei sulla loro organizzazione interna, la consistenza, la strategia di adattamento alle nuove condizioni che rendono obsoleto ogni riferimento al periodo moderno ormai terminato.

Il “principio di taglia minima” dice a gli Stati che oggi e viepiù domani dovranno fare i conti con la resilienza del proprio sistema economico nazionale, che significa anche in quali produzioni potranno essere autonomi se non esportatori e di quali esser dipendenti, cioè importatori più o meno obbligati, che significa anche di quale meta sistema che dalla R&S va in relazione con la capacità produttiva interna ci si dota, che significa anche con quale valuta si partecipa alla rete di scambi internazionali, che significa anche quale sovranità fiscale si ha in regime di libera circolazione dei capitali o scegliendo una minore libertà come ci si approvvigiona di capitali d’investimento, che vale per politiche di gestione degli scambi internazionali che non significa autarchia ma regolazione fine e selettiva delle aperture-chiusure in base all’ovvio principio di reciprocità, non trascurando i problemi di forza militare (anche solo difensiva), di peso nelle relazioni internazionali che sceglieranno gli standard dei modi di vita planetari (diritti sociali e del lavoro, ambiente, condizioni di lavoro, stile di vita). Tale principio di taglia minima è relativo, nel senso che va comparato alle taglie di coloro che s’individuano come competitor principali, dei differenti contesti in cui si è collocati ed è relativo anche nel senso che non per forzadobbiamo diventare tutti inquadrati in sistemi di 1,5 miliardi di persone come Cina ed India sembrano indicare.

Prima però di analizzare velocemente le eccezioni a questa freccia che sembra puntare a produrre una megafauna di soggetti più potenti, occorre ricordarci che i soggetti di cui stiamo parlando, i soli soggetti previsti da questo descrizione del mondo odierno e futuro, non sono soggetti vaghi. Vaghi sono tutti i sistemi che non hanno una intenzionalità politica direttiva del loro comportamento. Sistemi nebbiosi come quelle dell’Impero negriano, la “globalizzazione”, le “élite mondialiste”, le civiltà, il “mercato regolato dalla mano invisibile”, il “capitalismo apolide”, l’Occidente o l’Oriente o l’islam, Internet e le sue vaste diramazioni virtuali, tutte le organizzazioni formali ed informali sovranazionali, sono senz’altro sistemi, ma sistemi vaghi. Russia, Cina, Stati Uniti, India, Germania, Giappone ed i nuovi affluenti, non sono sistemi vaghi. La loro sovranità serve proprio a districarsi in questa rete piena di problemi e di opportunità che taglia orizzontalmente o diagonalmente la verticalità sovrana che dal problema o dall’opportunità porta all’intenzionalità, al fare scelte, a fare leggi, a mobilitare risorse, a fare piani e strategie, a metterle in pratiche ed a correggerle all’occorrenza. Lo Stato come un’entità politica sovrana, costituita da un territorio e da una popolazione che lo occupa, declinato in istituzioni, diritto, forza militare ed una specifica cultura, soggetto a problemi di vicinato, di relazione e scambi, Stato non aggettivato con nazione o moderno o democratico o capitalistico o quant’altro di carattere eurocentrico e recentista, esiste dalla nascita delle società complesse, or sono seimila anni fa. Imperi, città-Stato, regni, principati, comuni, federazioni (non confederazioni che sono semplici alleanze su base di trattato), califfati, sultanati, khanati, non importa quindi con qual spazio o forma giuridica a variabilità culturale li si intenda, sono Stati[12]. La storia e la logica non ci hanno sino ad oggi dato altro modo di intendere  le forme organizzate al completo livello di sovranità. Se non ci interessa la sovranità, possiamo ben perderci in post moderni sogni o incubi da fluttuazioni quantistiche tipo schiuma del falso vuoto, comunità che s’inseriscono in reti di reti acentriche magicamente autoregolate, finte sovranità formali comandate e strattonate dal diritto del più forte in qualcuno dei giochi orizzontali o diagonali (mercato, partecipazione ad alleanze miliari come complementi, varie forme di servitù o schiavitù volontaria), soggettività desideranti cosmopolite, metafore che vorrebbero assimilare il virtuale di Internet al reale del Mondo, ma a noi qui non interessa questo mondo del possibile per quanto improbabile. Vorremmo rimanere stretti ad un realismo concreto e quindi fare i conti con l’unica forma di individuazione conosciuta in questo contesto, lo Stato. Per quanto intersecato da altri sistemi, lo Stato è l’unità metodologica del discorso sull’ambiente in cui vivono ed agiscono i gruppi umani, famiglie, classi, popoli, civiltà, alternative non se ne vedono. Le potenti interferenze alla sovranità, che non vorremmo dar l’impressione qui si vogliano sottovalutare, esistono e sono proprio quelle che chiamano una sovranità dotata di autonomia e potenza, solo gli Stati forti potranno governare queste interferenze. Né gli USA, né la Cina, né la Russia, né l’India, né il Giappone sembrano soffrire di quella “crisi dello Stato” che potrebbe essere una sindrome europea peggiorata dalle forme che si stanno sviluppando nell’Unione, nel sistema-euro e dal nanismo degli Stati del sub-continente, in rapporto al ben diverso standard che si va affermando nel mondo grande.

Dicevamo che quello della taglia minima è un principio che sembra puntare a stati più grandi come standard di un mondo multipolare, demograficamente denso, saturo di soggetti in competizione, almeno per coloro che ambiscono ad alti livelli di autonomia. Sulla natura di questo mondo siamo ancora incerti in quanto non si è mai verificato nella storia del pianeta e si sta formando e definendo proprio ora. Altresì è del tutto impensato come si potrebbero formare questi stati più massivi visto che l’unico esempio storico che abbiamo sono le annessioni di tipo imperiale, quindi in forma coattiva, di cui è ben difficile immaginare un futuro storico in un mondo denso, affollato e competitivo[13]. Mondo denso, affollato e competitivo, è una descrizione che dice multipolare e multipolare porta con se il principio di equilibrio di potenza. L’equilibrio di potenza fa sì che tutti osservino tutti, non appena uno si sbilancia diventando più forte e minaccioso, molti altri si compattano per bilanciarne il peso. L’equilibrio di potenza in un sistema anarchico come quello mondiale, funge da principio auto-regolatore. Erroneamente l’accademia anglosassone che spadroneggia nella disciplina della Relazioni Internazionali ha ritenuto quello unipolare un ordine massimo, quello bipolare un ordine dinamico e quasi-stabile e l’ordine multipolare un disordine anarchico, al pari di coloro che ritenevano il governo dell’Uno quasi-divino, quello dei Pochi accettabile ma instabile e quello dei Molti l’inferno in terra. Come è evidente, questa è teologia politica, metafisica e pure scadente. Più è grande la massa da ordinare più questa si suddivide in sistemi (pianeti, sistemi solari, galassie, ammassi di galassie), sistemi plurali tra loro in interrelazione, tendono a formare reti e nodi/hub ed un hub è propriamente ciò che chiamiamo “polo”, tanti hub, tanti poli. Più grande e denso il sistema più hub ed articolazioni ci sono, questo indica la multidisciplinare cultura della complessità che taglia in orizzontale gli steccati disciplinari tra scienze dure, umane e sapere umanistico. Multipolare in un sistema denso e massivo, non sarà un sistema con poche superpotenze e qualche potenza regionale, ci saranno anche medie potenze, alleanze regionali, reti di cointeressenze, partecipazioni a tema nei network che uniranno stati più piccoli a quelli più grandi che fanno “hub” di un certo polo. Naturalmente, più potente sarà il nodo/hub, maggiore la sua sovranità, maggiore il suo grado di autonomia[14]. Tanta pluralità complessa, tendenzialmente autoregolata dal principio di equilibrio di potenza, potrà permettere la sovranità a Stati medio – piccoli, se sì a quali condizioni?

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[1] Il concetto di popolo o nazione è soggetto ad una doppia traenza, esaltante e critica. Di recente è stato ripubblicato il classico  di Benedict Anderson, Comunità immaginate, Laterza 2018, che noi abbiamo integrato col forse più ampio saggio di Hobsbawm sunazioni e nazionalismo che citeremo dopo e dal più vecchio ma sempre interessante, F. Chabod, L’idea di nazione, Laterza, 1961-2011”. Si tenga ben distinto il concetto di nazione da quello di nazionalismo, la nazione è un sistema, il nazionalismo ne è esaltazione ideologica, l’una non porta per forza all’altro. In breve, nell’ambito della storia europea, lo Stato del XVI secolo, si affermerebbe ancora su un concetto debole ed eterogeneo di nazione e sarebbe proprio la sua affermazione a mettere ordine e precisione nella definizione della nazione. Questo porta alcuni a dire che furono gli Stati a creare le nazioni, probabilmente per ragioni di opposizione dialettica a coloro i quali sostengono il contrario. In verità, sembrerebbero estreme tutte e due le posizioni. Se come pare, il Giuramento di Strasburgo che è del 842 d.C., contiene doppie formulazioni in proto-francese ed alto-tedesco antico, si deve conseguire che i due ceppi linguistici si formarono molto presto e si svilupparono all’interno di due areali che avevano buone ragioni geografiche per ritenersi relativamente omogenei e distinti. Ciò non porta a dire che alla nascita della moderna Francia, esistesse una compatta e del tutto omogenea comunità nazionale di “francesi” e certo l’istituzione dello Stato favorì la successiva omogeneizzazione, ma tutto ciò non vuol neanche dire che non esistessero caratteristiche storico-culturali di omogeneità relativa precedenti. Altresì, le ragioni che sostengono la definizione propria di nazione, sono molte e non sempre tutte presenti nell’analisi di questa o quella identità nazionale. Hobsbawm, sulla scorta anche di Anderson, ne conclude che nella misura in cui un gruppo umano si crede nazione, è una nazione, estremizzando forse un po’ troppo il lato soggettivo della questione. Personalmente, ritengo che quello di nazione sia un concetto dai bordi sfumati e dalla giustificazione variabile, ma che compare a fuoco e significante in comparazione: esistono francesi, italiani e spagnoli ed un francese non è un italiano che non è uno spagnolo che non è un francese. Ovviamente, le nazioni statalizzate possono avere nel loro territorio altre sub-nazioni, così come appartenere a sistemi di livello superiore (uno spagnolo è anche un ispanico, un latino, un europeo, un occidentale). “Bordi sfumati” significa anche che questi sistemi, ai loro confini difficili da tracciare con precisione, si mischiano con altri sistemi. Quale sia il popolo dei germani propriamente detti, ad esempio, è problema diverso dal domandarsi chi sono esattamente gli inglesi, la geografia e la storia che in essa si è ambientata, fa la differenza tra maggiore o minore precisione.

[2] Una visione generale dei processi europei si può rinvenire in vari libri di “grandi narrazioni storiche”, da Arrighi a Landes, da Bairoch a Braudel. Una, attenta proprio alle dinamiche di potenza nell’arco storico che va dal 1500 al 1987, è: P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, 1989-1999

[3] R. Caudenhove-Kalergi, Pan-Europa, il Cerchio, 2017

[4] O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente (varie edizioni, l’ultima è Longanesi 2008)

[5] C. Schmitt, Stato, Grande Spazio, Nomos, Adelphi, 2015

[6] A. Spinelli, E. Rossi, Il manifesto di Ventotene (varie edizioni, l’ultima è Mondadori 2017)

[7] Einaudi, 1991-2002

[8] p. 35

[9] https://www.pwc.com/gx/en/issues/economy/the-world-in-2050.html

[10] La differenza tra globalizzazione ed internazionalizzazione è poco notata. Essa è nella semantica, se la seconda è una rete tra nazioni, la prima non aspetta il formarsi di un sistema per tessitura tra le sue parti, impone un sistema unico a cui tutte le parti si iscrivono trovando istituzioni e norme valide per tutti. Scambiare la globalizzazione per il motore unico della crescita degli scambi commerciali tra stati è un errore, la globalizzazione ha inciso sulle forme, non ha creato il fenomeno. La confusione terminologica è propedeutica a quella mentale. Non è vero che siccome Trump rifiuta i trattati di libero scambio pluri-nazionali allora diventa nazionalista e porta gli USA a ritirarsi dal mondo, questa è voluta confusione mentale indotta. Trump ha solo detto che invece di trattati pluri-nazionali, lui ne vuole fare altrettanti one-to-one. Solo un facente finta di essere stupido può confondere le due cose. L’una modalità di commercio internazionale si affida alla mistica della mano invisibile, la seconda si affida al conto di bottega di entrate (export) ed uscite (import) valutando caso per caso, sia la reciprocità, sia il saldo finale.  “Magicamente”, dopo un anno di articoli scriteriati sull’argomento, recentemente a Davos, molti si sono accorti della differenza tra commercio sregolato e contrattato sulle singole partite. Poiché non possiamo pensare che all’Economist o Foreign Affaris siano davvero così stupidi, ne dobbiamo concludere che si tratta di guerre ideologiche che si disputano l’egemonia presso il vasto pubblico che non sa proprio di cosa si stia parlando e scodinzola come i cani di Pavlov al pronunciarsi dei propri vaghi concetti di riferimento “globalista”, “libertà”, “nazione”, “egoista”, “isolazionista”, “sovranista”, etc.

[11] Sistemi multipolari locali come nel Rinascimento italiano o in Europa nel secolo della pax britannica (il “Concerto” delle nazioni tra circa 1815-1914) possono costituire solo riferimenti vaghi. Entrambi furono sistemi in tutt’altra condizione demografica e di sviluppo e le loro dinamiche erano parte di un meno ampio contesto.

[12] Su una possibile archeologia della sovranità, sembra molto promettente l’ultima fatica congiunta di D. Graeber e Marshall Sahlins: https://haubooks.org/on-kings/

[13] Sul concetti di -impero- si veda l’indagine dello storico: H. Munkler, Imperi, il Mulino, 2008

[14] Autonomia non significa starsene per conto proprio, significa darsi la legge da sé, sottomettersi solo alla propria intenzione.

GAS, TERREMOTI E GEOPOLITICA_IL CASO OLANDESE, di Piergiorgio Rosso

Qui sotto il sintetico ma efficace testo prodotto da Piergiorgio Rosso e pubblicato al seguente link    http://www.conflittiestrategie.it/la-politica-energetica-ue-terremotata-di-piergiorgio-rosso

L’8 gennaio scorso la regione olandese di Groningen è stata interessata da un terremoto di 3,6° della scala Richter con epicentro a circa 4 km di profondità, esattamente all’altezza del più grande giacimento metanifero europeo, in grado di soddisfare per cinquanta anni, con gli attuali standard di consumo, il 5% del fabbisogno europeo. E’ il più forte di una serie di terremoti verificatisi alla fine dell’anno in una zona, sino a metà anni ’60, del tutto priva di attività sismica. A metà degli anni ’80, a vent’anni dall’inizio dell’attività estrattiva, si iniziano a registrare i primi sussulti e con l’inizio del nuovo millennio l’attività comincia ad essere avvertita dalla popolazione sino ad arrivare, nel 2012, ad un primo terremoto della stessa scala di quello di gennaio, in una zona per altro priva di sistemi di edificazione antisismici. Il legame tra l’attività estrattiva e i movimenti tellurici è ormai riconosciuto da tutti, compresa l’azienda estrattrice. A seguito della novità i governi hanno provveduto a limitare l’attività di estrazione sino a ventilare la possibilità di riduzione del 44%; un taglio che, unitamente ai risarcimenti in corso, renderebbe, tra l’altro, poco conveniente la prosecuzione dei prelievi. Le implicazioni economiche per il paese sarebbero enormi sia dal punto di vista fiscale che da quello della dipendenza energetica in quanto trasformerebbero l’Olanda da paese esportatore a importatore. Le implicazioni geopolitiche sarebbero, probabilmente, ancora più pesanti. L’Olanda è un fulcro commerciale per tutta l’Europa centro settentrionale; è la sede europea di gran parte delle multinazionali estere, specie americane; è uno dei paesi che ha sostenuto in maniera più oltranzista la politica euroamericana antirussa, compresi l’attività militare nella zona baltica e in Ucraina e l’inasprimento delle sanzioni antirusse. L’amara scoperta di una realtà di dipendenza dalle forniture gasifere della Russia e dal sistema di gasdotti russotedeschi potrebbe spingere ad una inedita riconversione degli obbiettivi strategici di politica estera o almeno ad una attenuazione dell’oltranzismo. Il nesso causale non è meccanico e predeterminato, come in ogni nesso che lega l’economia alle scelte geopolitiche. I costi dell’ostinazione potrebbero però rivelarsi pesanti se non insostenibili. Per gli altri stati europei il ragionamento è analogo e potrebbe portare ad una ulteriore divaricazione tra di essi rispetto alle relazioni con il gigante ad Oriente. Buona lettura_Giuseppe Germinario

La politica energetica UE … terremotata di Piergiorgio Rosso

gas

L’estrazione di gas naturale a Loppersum (Groningen – Paesi Bassi) è stata interrotta con effetto immediato a seguito dell’ordinanza dell’ente statale supervisore delle miniere olandesi (SoDM). L’ordinanza subito accolta dal Ministro degli Affari Economici Eric Wiebes, seguiva un forte terremoto – scala 3.6 Richter – avvertito in tutta la città di Groningen, il sesto in ordine di tempo ed il più forte in un solo mese. Da tempo l’attività sismica in quella zona è sotto osservazione da parte degli enti preposti ed è condivisa l’opinione secondo cui essi sono causati dall’attività di estrazione del gas naturale che ha raggiunto un livello tale da abbassare la pressione nei giacimenti al di là dei livelli di guardia per la stabilità geologica. Il SoDM ha anche scritto che l’estrazione di gas naturale dovrà necessariamente dimezzarsi nel prossimo futuro da un livello di 22 Miliardi di m3 (BCM) ad un livello di 12 BCM all’anno: “ .. sarà una tremenda questione sociale” ha detto il Ministro Wiebes. Il gas naturale serve più di 7 milioni di famiglie olandesi, il sistema industriale e la rete elettrica dell’intero paese. Non solo, l’Olanda è esportatrice netta di gas naturale tramite contratti a lungo termine con Belgio, Francia, Germania ed Inghilterra. Il mantenimento degli impegni sarà costoso per le casse dell’erario olandese che vedrà ribaltarsi la posizione commerciale/finanziaria del settore da esportatore ad importatore netto. Uno scenario da incubo. Una transizione accelerata alle rinnovabili come vorrebbero Verdi e organizzazioni non governative, sarebbe estremamente costosa per lo Stato e per le famiglie. L’unica alternativa realistica a breve termine (5-10 anni) è importare gas naturale da paesi come Norvegia, Qatar o Russia. Un nuovo gasdotto dalla Norvegia richiede tempo così come un nuovo ri-gassificatore per l’LNG dal Qatar, mentre i gasdotti dalla Russia già ci sono (via Germania) e aumenteranno la loro capacità con la costruzione del North Stream-2.
Accettare questa realtà sarebbe come ricevere uno schiaffo in faccia per il governo olandese e per l’Unione Europea il cui impegno per la diversificazione delle fonti di approvvigionamento di gas naturale è sinonimo di diminuzione della quota di mercato di Gazprom. La Russia, minacciata da nuove sanzioni dalla UE ed in rotta di collisione col governo olandese sulla questione dell’abbattimento del volo MH17 in Ucraina, si porrà come l’unica àncora di salvezza dell’intera economia dell’Europa nord-occidentale.
Il terremoto di Groningen aprirà un vaso di Pandora: si tornerà a discutere di North Steam-2 e di dipendenza europea dal gas russo nel prossimo futuro, ma in uno scenario completamente diverso da prima.

(libere citazioni da: https://oilprice.com/Energy/Energy-General/Dutch-Gas-Goals-Rocked-By-Earthquakes.html)

GEORGE SOROS, LA PARABOLA DI UN FILANTROPO_ di Gianfranco Campa e Giuseppe Germinario

Anche quest’anno George Soros ha avuto a disposizione, probabilmente si è concesso, a Davos oltre un’ora di vaticinio. Un privilegio di minuti concesso solo a numero selezionatissimo di astanti. Ad ascoltarlo e vederlo viene in mente questa frase di Melville:  «Dal cuore dell’Inferno, io ti trafiggo! In nome dell’odio, sputo il mio ultimo respiro su di te, maledetta bestia!» Ha avuto modo di prendersela con il carattere monopolistico di Google e Facebook, con la loro capacità di manipolazione, controllo e selezione dei flussi di dati e di formazione degli orientamenti personali e delle società. Un pericolo estremo soprattutto se tale propensione dovesse trovare sostegno e accondiscendenza in regimi autoritari come Russia e Cina. Giudica i Bitcoin, buon per lui, un prodotto troppo speculativo. Soros è però fiducioso: « E’ solo questione di tempo prima che il loro monopolio sia interrotto. La loro fine verrà con le regole e le tasse. E la loro nemesi sarà la commissaria Ue alla concorrenza, Margrethe Vestager» L’Unione Europea, con essa i vecchi e nuovi leader dell’Europa Occidentale, ha quindi per il momento sostituito gli Stati Uniti nel ruolo di paladina della libertà . Cosa intendano per tutela della libertà i novelli templari lo lasciano intuire la composizione e le intenzioni dei vari Comitati di Salute Pubblica in procinto di essere costituiti. Strano, perché la campagna contro la disinformazione è comunque partita dagli “ambienti più politicamente corretti” statunitensi i quali più si sono distinti nella partigianeria ossessiva. In mancanza di una sponda istituzionale solida e sicura a casa propria non resta che affidarsi, al momento, agli epigoni di qua dell’Atlantico. Non che il problema sia irrilevante. Sia Facebook che soprattutto Google, ma anche sempre più i gestori della rete stanno assumendo uno straordinario e crescente potere di manipolazione non solo dei comportamenti individuali, civili e politici, ma anche, attraverso il controllo dei flussi di dati e dei comandi, dello stesso sistema produttivo e di comunicazione. Un controllo che potrebbe limitare la libertà di movimento e di azione di altri manipolatori, come Soros, adusi ad altre e ben più diversificate pratiche, anche le più prosaiche. Le varie “primavere” sparse nel mondo sono lì a ricordarcelo. Per questo “Padre del Globalismo”, tra i tanti, si tratta però di una contingenza, di un accidente destinati ad esaurirsi rapidamente nell’onda lunga della storia “Reputo chiaramente l’amministrazione Trump un pericolo per il mondo, ma lo considero puramente un evento transitorio che scomparira` nel 2020, se non prima. Do al presidente Trump credito per il modo brillante di motivare la sua base, ma per ogni numero di sostenitori c’è un numero egualmente motivato di oppositori. Per questo mi aspetto una valanga democratica nelle elezioni di medio termine 2018″ Con i diciotto miliardi di dollari ( http://italiaeilmondo.com/2017/10/22/un-torrido-inverno-di-giuseppe-germinario/ ) attualmente messi a disposizione dalla sua Open Society, George Soros saprà dare sicuramente il suo personale contributo, con le buone o le cattive, alla “motivazione” e all’afflato ideale dei novelli fustigatori. Dovesse richiedere il sacrificio di qualche martire, tanto meglio; ogni libertà, specie la propria, richiede un tributo e un sacrificio, meglio se di altri. Da parte sua il portafogli, da altri in mancanza di questo o di altro può essere sufficiente la vita. Anche in Italia, negli ambienti più insospettabili, gli adepti non mancano e dopo le elezioni numerosi usciranno allo scoperto. Qualcuno, addirittura, trepida per le sue condizioni di salute; vedi la “Stampa” di oggi.

Qui sotto i link relativi all’intervento di George Soros_ Gianfranco Campa-Giuseppe Germinario

Taccuino francese: il ritorno della Vandea, di Roberto Buffagni

Taccuino francese: il ritorno della Vandea

 

Nello scorso novembre, Patrick Buisson[1] ha pubblicato un libro molto interessante: La grande histoire des guerres de Vendée[2]. Non l’ho letto, ma da quel che ne dicono le recensioni non credo ci racconterà  molto di nuovo sulla terribile repressione rivoluzionaria dell’insorgenza vandeana.

Il libro resta di grande interesse, ma per altre ragioni. Anzitutto, per l’autore. Patrick Buisson è uno storico, un giornalista e un militante politico di primo piano della destra francese. E’ stato consigliere di Sarkozy nella sua prima campagna elettorale (2007); seguendo i suoi consigli, Sarkozy non solo ha vinto le elezioni presidenziali, ma per la prima e unica volta nella storia politica francese ha strappato sette punti elettorali al Front National. La campagna elettorale suggerita da Buisson, che appartiene alla destra francese conservatrice di ascendenza maurrassiana[3], batteva su tutti i temi cari al FN, anzitutto l’identità nazionale (alla quale fu poi intitolato un ministero). Buisson, però, nel corso della presidenza Sarkozy, ha dovuto toccare con mano le conseguenze di una circostanza che non gli sarà sfuggita, ma che forse aveva sottovalutato: l’altro principale consigliere del suo candidato era Alain Minc[4], cioè l’esatto opposto ideologico di Buisson, un liberal-progressista che “ha superato la distinzione destra/sinistra”; e infatti, nell’elezione presidenziale del 2017 Minc ha sostenuto la candidatura del centrista républicain Alain Juppé finché ha avuto chances, per poi passare nel campo di Emmanuel Macron, il candidato su misura per lui. In sintesi: Sarkozy, un abile tattico senza principi, ha usato la linea conservatrice e populista di Buisson in campagna elettorale per prendere voti, e una volta al governo ha seguito la linea liberal-progressista di Minc (così perdendo l’elezione del 2012). Insomma: passata la festa, gabbato lo santo.

Non l’ha presa bene, Buisson. Dopo un ultimo tentativo con Sarkozy nel 2012, quando ha tentato inutilmente di persuadere sia il candidato sia il partito a uscire dalla trappola del Front Républicain – la conventio ad excludendum contro il Front National costruita da Mitterrand per garantire ai socialisti il congelamento di metà della destra francese, e la rendita di posizione che ne conseguiva per il PS – Buisson si è allontanato dai Républicains, ha pubblicato La cause du peuple, un libro di violentissima critica a Sarkozy e alla destra liberale[5] che ha avuto spinosi contraccolpi giudiziari, e si è dedicato alla battaglia politico-culturale per la riforma della destra francese.

L’obiettivo strategico della battaglia di Buisson è la fondazione di una destra conservatrice autentica, accomunata da tradizioni, valori e ideologie non liberali o francamente antiliberali (gaullisti di destra e gaullisti sociali, cattolici reazionari, maurrassiani, etc.). Sul piano operativo, l’obiettivo si può raggiungere solo attraverso una spaccatura e una rifondazione: la spaccatura dei Républicains tra liberali/conservatori non liberali e antiliberali, e la rifondazione del Front National su basi nazionaliste, antiliberali, conservatrici, cattoliche (grossolanamente: la linea che si identifica in Marion Maréchal Le Pen[6], contro quella che si identifica in Marine, e prima di Marine in Florian Philippot[7]). In termini pragmatici, per Buisson i conservatori francesi, sinora politicamente rappresentati dai Républicains, devono prendere la guida di una nuova formazione politica di destra antiliberale e antiprogressista, e diventare il corpo ufficiali di un esercito le cui truppe sono costituite dall’elettorato popolare, sociologicamente e geograficamente periferico, del Front National.

Un’altra ragione d’interesse de La grande histoire des guerres de Vendée è il suo prefatore, Philippe de Villiers[8]. Il visconte vandeano Philippe de Villiers è stato leader del fronte sovranista che nel referendum del 2005 bocciò la proposta di costituzione europea promossa dalla UE; ed è fratello maggiore di Pierre de Villiers[9], il capo di stato maggiore delle FFAA francesi che si è recentemente dimesso (applaudito dalle truppe) dopo un violento scontro con il presidente Macron sui finanziamenti alle forze armate.

Terza e ultima ragione d’interesse del libro, il suo soggetto. Non solo perché la guerra civile di Vandea e il terrore di Stato che sterminò  i combattenti vandeani sono una memoria tuttora viva e politicamente attiva in Francia; ma perché non ho il minimo dubbio che Buisson abbia sottolineato, nel suo libro, come la Convenzione rivoluzionaria abbia decretato la durissima repressione delle insorgenze legittimiste e cattoliche sulla base di un consenso elettorale che definire minoritario è dir poco: su 7 MLN di aventi diritto (suffragio ristretto), solo il 10% espresse un voto valido. L’analogia con la ridotta legittimazione popolare di Emmanuel Macron (al secondo turno, 40% circa sul totale degli aventi diritto, con un record storico di astensione e schede bianche o nulle) è lampante[10].

Non è da ieri che uomini di cultura e politici propongono alle destre francesi questa linea francamente conservatrice, che non è mai riuscita ad affermarsi. Ma rispetto a ieri, oggi c’è una grossa novità: che il successo di Emmanuel Macron l’ha resa l’unica linea politica praticabile, se la destra francese non vuole mettere una pietra tombale sulla sua lunga storia. L’abilissima operazione di “taglio delle estreme” che ha condotto Macron alla presidenza ha resuscitato la “destra di situazione” liberale e orleanista[11] che si cristallizzò nel 1830: nell’odierna riedizione, i centristi e gli europeisti/mondialisti di entrambi i maggiori partiti francesi, PS e Républicains, vengono risucchiati dal “movimento di governo” En Marche!  e svuotano dall’interno i partiti da cui provengono. Li svuotano di personale politico, di clientele, di voti, di finanziamenti e soprattutto di ragioni d’esistere. Li svuotano di ragioni d’esistere, perché a dettare la strategia politica tanto del PS quanto dei Républicains è tuttora il paradigma del Front Républicain, l’adattamento francese dell’ “arco costituzionale antifascista” italiano inventato da Mitterrand negli anni Ottanta[12]: e come hanno dimostrato plasticamente le presidenziali del 2017, non esiste blocco sociale, ideologia, formazione politica più adatta ed efficace per battere il Front National del centrismo orleanista di Macron, che si situa all’esatto opposto del blocco sociale e dell’ideologia del Front National e ne è per così dire il negativo fotografico.

Quindi, chi all’interno del PS e dei Républicains vuole ritrovare ragioni d’esistere al di là del nudo e crudo richiamo della gamelle, e non si vuole allineare con il centrismo orleanista di Macron, è costretto a spezzare il cerchio magico del Front Républicain, e a prendere atto che è finita l’alleanza storica tra il liberalismo e il conservatorismo a destra, tra il liberalismo e il socialismo a sinistra. Esattamente come nel 1830, il  liberalismo puro coincide, oggi, con il pensiero e le forze economiche e politiche socialmente dominanti. C’è però una differenza sostanziale tra il 1830 e il 2018, una differenza che è la chiave politica di tutto: che nel 1830 il suffragio elettorale era censitario e ristretto, nel 2017 universale: e per quanto il sistema politico-mediatico possa manipolarlo con le campagne di guerra psicologica, con le leggi elettorali maggioritarie, etc., non può permettersi di abolirlo, perché il suffragio universale è la “formula politica” (Mosca)[13] che lo legittima. E’ questo, il punto debole del liberalismo, che è democratico soltanto suo malgrado. Il liberalismo non è mai riuscito a diventare “popolare”, perché sin dalla sua premessa metodologica non si rivolge ai popoli e alle comunità, ma agli individui.

In sintesi. Stravincendo e mettendo con le spalle al muro tanto la sinistra quanto la destra, il liberalismo orleanista di Macron costringe entrambe ad affrontare e tentar di sciogliere un nodo metapolitico di portata storica: la dialettica dell’illuminismo e il precipitato storico della Rivoluzione francese. Il mondialismo liberale è la manifestazione storica della dialettica dell’illuminismo, del progressismo e dell’universalismo, culturale e politico, che li accompagna. Illuminismo e universalismo sono trascrizioni secolarizzate – amputate della dimensione metafisica e propriamente religiosa – del cristianesimo. L’opposizione al mondialismo è dunque costretta ad essere, volens nolens, opposizione all’illuminismo e all’universalismo politico[14]; e la linea di frattura politica che divide i campi tende a coincidere con la linea di frattura culturale che divide l’Europa sin dal tempo delle guerre di religione[15].

Ecco perché nel 2018 ritorna di attualità la Vandea. Ed ecco perché nella campagna elettorale presidenziale del 2017 due soli candidati hanno incentrato la loro proposta intorno alla ripetizione della parola “patrie”: Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon. Per Marine, non c’è bisogno di spiegare. Per Mélenchon, la spiegazione che propongo è questa: con la reiterazione martellante della parola “patrie”, Mélenchon manifesta il tendenziale distacco della sinistra francese dal liberalismo, e cerca di ritrovare le radici democratiche rousseauiane della sinistra giacobina e socialista. Non è un caso che anche Alain de Benoist, che ha designato il liberalismo come nemico principale del suo campo politico, abbia dedicato una crescente attenzione a Rousseau[16]: perché il liberalismo trionfante tende a separarsi dalla democrazia.

I progetti di ridefinizione politica e partitica oggi in corso in Francia e non solo in Francia, insomma, sono la manifestazione di superficie di un movimento tettonico profondissimo, che costringe gli europei e gli occidentali a ripensare la loro storia, la loro filosofia e la loro religione (o irreligione). Proprio per questo, le vicende politiche francesi che ho brevemente illustrato sin qui interessano direttamente anche l’Italia. Le differenze storiche tra le culture politiche francese ed italiana sono molte, e non superficiali. Ma in profondità, il sommovimento geologico culturale tocca l’Italia come la Francia. Ne vedremo, probabilmente, gli effetti di superficie dopo le prossime elezioni politiche del marzo 2018. Anche da noi, il blocco sociale e politico liberale tenterà di operare il “taglio delle estreme”, con l’ausilio, a destra, delle quinte colonne Berlusconi e Maroni, a sinistra delle formazioni dissidenti dal PD, e usando come massa di manovra il Movimento 5 Stelle, che grazie alla sua “impoliticità”[17] si candida a essere usato come “ago della bilancia” in una manovra machiavellica di superamento della distinzione tra destra e sinistra storiche. Se l’operazione “taglio delle estreme” riuscirà, l’effetto a breve termine sarà devastante per il campo antimondialista e antiUE; a medio e lungo termine, però, sarà benefico e liberatorio, perché farà coincidere la linea di frattura politica con la linea di frattura culturale e sociale reale e principale.

[1] https://fr.wikipedia.org/wiki/Patrick_Buisson. Per una esposizione approfondita delle sue posizioni, i francofoni possono seguire questa sua conferenza del maggio 2017: https://youtu.be/Hj_B708sCWY

[2] La grande histoire des guerres de Vendée, Perrin, Paris 2017

[3] https://fr.wikipedia.org/wiki/Nationalisme_int%C3%A9gral

[4] https://fr.wikipedia.org/wiki/Alain_Minc

[5] Qui una recensione simpatizzante : https://www.polemia.com/la-cause-du-peuple-de-patrick-buisson/

[6] https://fr.wikipedia.org/wiki/Marion_Mar%C3%A9chal-Le_Pen

[7] https://fr.wikipedia.org/wiki/Florian_Philippot

[8] https://fr.wikipedia.org/wiki/Philippe_de_Villiers

[9] https://fr.wikipedia.org/wiki/Pierre_de_Villiers_(militaire)

[10] http://www.lefigaro.fr/elections/presidentielles/2017/05/07/35003-20170507ARTFIG00164-apres-une-abstention-et-un-vote-blanc-record-macron-attendu-au-tournant.php; https://www.rtbf.be/info/monde/detail_presidentielle-francaise-emmanuel-macron-obtient-66-06-de-voix-selon-les-resultats-quasi-definitifs?id=9600231

[11] Ne ho parlato diffusamente qui: http://italiaeilmondo.com/2017/09/29/taccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni/ . “Destra di situazione” significa una destra che non è tale per i valori e l’ideologia che propone, ma per il posizionamento relativo nella dialettica parlamentare; come fu appunto la destra orleanista nel 1830, che a sinistra escludeva repubblicani e bonapartisti, a destra i legittimisti.

[12] Mitterrand, un politico di abilità machiavellica, fece di tutto per promuovere a dignità di pericolo nazionale il Front National di Jean-Marie Le Pen, erede di Vichy e dell’OAS, piazzandolo nello spettro politico-ideologico allo stesso posto in cui stavano il fascismo e i suoi eredi in Italia, così ridefinendo i confini della legittimità politica in Francia a scapito della destra, e garantendo alla sinistra un vantaggio permanente in ogni competizione elettorale. A sinistra, nessun nemico (Mitterrand vinse la sua prima campagna presidenziale, nel 1981, con l’appoggio decisivo del Partito Comunista Francese, allora forte di un 15% di voti) a destra, un confine invalicabile.

[13] https://fr.wikipedia.org/wiki/Gaetano_Mosca

[14] Ne ho parlato qui: http://italiaeilmondo.com/2017/09/29/taccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni/

[15] Ne ho parlato, dialogando con Alessandro Visalli, a proposito della “Dichiarazione di Parigi” firmata da un gruppo di studiosi conservatori di chiara fama: http://italiaeilmondo.com/category/dossier/autori-dossier/roberto-buffagni/

[16] Qui un articolo liberamente scaricabile: https://s3-eu-west-1.amazonaws.com/alaindebenoist/pdf/relire_rousseau.pdf

[17] E’ “impolitico” un movimento politico che non designa l’avversario, e dunque non designa neppure l’amico. La sua impoliticità lo predispone all’eterodirezione, all’essere usato come massa di manovra e come “ago della bilancia” in una manovra politica spregiudicata “al di là della destra e della sinistra”.

PROPOSITI PER IL NUOVO ANNO: TORNIAMO A PENSARE UN PIANO B PER L’EUROPA, di Pierluigi Fagan

Qui sotto un articolo di Pierluigi Fagan del quale a breve pubblicheremo una videointervista.

Il tema dell’Europa e delle possibili dinamiche future che interesseranno i suoi stati, posto nel pezzo,risulta ancora più attuale alla luce del recente incontro tra Paolo Gentiloni, Presidente del Consiglio uscente e Emmanuel Macron, Presidente della Repubblica di Francia. Un incontro importante più che per i contenuti specifici per la decisione di addivenire entro il 2018 ad un vero e proprio trattato bilaterale. Sino ad ora l’unico trattato importante di questo genere ha riguardato la Francia e la Germania, ormai cinquantacinque anni fa. Gli sviluppi prossimi ci diranno se si tratta di un evento estemporaneo, utile soprattutto alla Francia a porsi come cerniera tra parte dell’area europea mediterranea e la Germania oppure di un atto dirompente che porterà alla formazione in Europa di aree di influenza distinte e sempre più strutturate. Impressionante la totale assenza nel discorso di Gentiloni, al quale vanno riconosciute notevoli doti di ironia, di un qualsiasi accenno ai colpi di mano e alle forzature che la classe dirigente e la diplomazia francese hanno prodigato negli ultimi anni a cominciare dalla Libia per arrivare alle scorribande nei settori della telefonia e al recente pesante intervento nell’accordo Fincantieri-STX. Alla nostra decadente classe dirigente è ancora sufficiente propinare una buona dose di retorica europeista per sublimare, è il termine utilizzato recentemente dal Ministro della Difesa Pinotti, ancora una volta l’interesse nazionale, rinunciando con ciò a priori a porre basi solide di trattative con gli altri attori europei. Basta osservare la mappa dei posti occupati in sede comunitaria per comprendere l’importanza e il punto di vista da cui partono i nostri cosiddetti rappresentanti_Giuseppe Germinario

PROPOSITI PER IL NUOVO ANNO: TORNIAMO A PENSARE UN PIANO B PER L’EUROPA.

PROPOSITI PER IL NUOVO ANNO: TORNIAMO A PENSARE UN PIANO B PER L’EUROPA.

In Europa è in atto una unione tra 27 stati, con una sezione rinforzata che adotta una moneta comune a 19 Paesi. Cosa s’intende per “Unione”? Nei fatti, l’Unione europea è una confederazione. Una confederazione altro non è che una alleanza intorno ad uno o più aspetti della politica interstatale. Tali alleanze sono giuridicamente regolate da un trattato o da una rete di trattati. Una confederazione, nonostante l’assonanza, non ha nulla a che fare con una federazione. Una federazione  è un modo di organizzare internamente uno stato sovrano mentre nella confederazione gli stati associati rimangono sovrani individuali tranne che per le questioni che hanno deciso di mettere assieme nell’alleanza. Nessuno al momento ha dichiarato, né sembra avere intenzione ed obiettivo, di voler fare della confederazione europea una futura federazione[1].

Il perno del piano confederale europeo, non è la Germania,  è la Francia. L’ Unione europea è in primis, è in essenza e ragion d’essere, il trattato di pace tra Francia e Germania, convivenza storicamente difficile che ha segnato la storia europea negli ultimi due secoli. Lo stato della relazione tra Francia e Germania è oggi in un impasse. La Francia ha superato la crisi politica di una paventata affermazione delle forze politiche più nazionaliste e critiche su i prezzi di sovranità pagati da Parigi per serrare Berlino in una rete di condivisioni che senza portare ad alcuna effettiva fusione che ripetiamo, in realtà nessuno vuole, garantisse l’impossibilità di ritrovarsi in una situazione di reciproco conflitto. La soluzione alla temuta crisi francese che arrivava alle elezioni con una classe politica devastata,  è stata una faccia nuova, un partito nuovo, una classe dirigente presuntivamente nuova, una triplice novità formale per continuare la strategia politica ed economica ormai tradizionale dell’area euro-liberale, francese nello specifico. A sei mesi dalle elezioni però, Macron ancora non si è politicamente espresso, sta aspettando di siglare un accordo sostanziale con la Merkel, ma la Merkel è alle prese con la difficile soluzione della sua crisi per la formazione di un governo stabile in Germania.

Di questo patto franco-tedesco al cuore del progetto confederale, che tutti suppongono esistere (e che parte dal Trattato dell’Eliseo del 1963) ma di cui nessuno conosce precisamente il contenuto, fanno parte le due grandi aree costitutive i sistemi di vita associata: l’economico-monetario e, prossimamente, il militare[2]. Quanto all’economico, è fuori di discussione che le regole sono e verranno imposte dalla Germania, sebbene la stessa Germania avrà interesse a salvaguardare la posizione di Macron. Macron è chiamato ad operare in maniera sostanziale sulle  forme socio-economica della Francia, la quale ha goduto sino ad oggi di molti permessi speciali in termini di allineamento alle severe linee stabilite dalla Germania e condivise dai paesi del nord Europa. Questo intervento è improcrastinabile ma a Macron dovrà esser garantita qualche contropartita effettiva altrimenti il dissenso che il suo intervento provocherà in Francia, lo brucerà. Macron è per molti versi l’ultima possibilità per la Francia, se salta è imprevedibile la rotta che potrebbe prendere l’esagono. Ecco allora che in attesa la Merkel si possa presentare al tavolo della trattativa franco-tedesca,  a dicembre spunta fuori un Rapporto strategico di difesa e della sicurezza nazionale  della Repubblica francese ed un paper congiunto di think tank francesi e tedeschi, di cui è interessante seguire i ragionamenti[3]. Questa mossa, più della nebulosa frittura di parole vuote che ha viaggiato nel pubblico dibattito sotto l’etichetta “Europa a più velocità”, sembra prefigurare la mossa francese per sdoganare una nuova fase strategica della confederazione europea: a voi l’economia, a noi la difesa.

Questi documenti dicono che si è attori geopolitici, si è giocatori in grado di sedersi al tavolo del gioco di tutti i giochi del mondo multipolare, giocatori in grado di imporre e non subire una strategia a protezione e promozione dei propri interessi sovrani, laddove -in termini di politica estera- si verificano le piene condizioni di autonoma decisione politica, capacità operative, autonomia produttiva dei sistemi d’arma. La sequenza in realtà va letta al contrario, senza una autonomia produttiva di competitivi sistemi d’arma né si è operativamente in grado, né si può esser sovrani politicamente. Stante la necessità ovvia di discutere, precisare e firmare tra Francia e Germania documenti di intenti chiari, la prima condizione necessaria sarà chiarire le questioni relative ai soldi,  a gli investimenti nella ricerca, sviluppo e produzione dei nuovi sistemi d’arma. Qui ci sono tre problemi.

Il primo è che i due consoli confederali, sul fatto militare sono asimmetrici poiché mentre la Francia ha costantemente cercato di reggere il passo della competizione sull’argomento, la Germania si è volutamente astenuta[4] avendone come doppio vantaggio sia una maggior leggerezza di bilancio pubblico, sia la libertà, forse anche più importante, di spadroneggiare economicamente dato che non costituiva una minaccia militare.

Il secondo non è esattamente un problema ma una constatazione. Ora che non c’è più l’UK e che Trump, da una parte reclama il “giusto” contributo alla NATO di cui però gli USA e la stessa UK rimangono i comandanti in capo e visto che l’interesse geo-strategico anglosassone andrà nel tempo e divergere da quello sub continentale, la necessità di recuperare la piena sovranità di difesa si fa improcrastinabile. Ma questa è anche una opportunità poiché sarà cifra del nuovo mondo multipolare, aumentare gli investimenti in arma[5], investimenti che oltre che occupazione, portano notoriamente ad un parallelo grande sviluppo tecnologico che ha positivi fall-out sull’economia civile. In più, essere competitivi su questo importante segmento, oltre che autonomia, porterà vantaggi all’export e con l’export militare oltreché bilancio si fa strategia poiché così come si è sovrani se si è autonomi, non lo si è se si dipende dalle forniture terze, appunto le forniture che una nuova industria europea d’armi potrebbe garantire ai partner geopolitici che verranno catturarati nella propria sfera d’influenza. Su questo punto, Cina, Russia ed ovviamente USA sono già molto presenti, l’UK ha già deliberato di voler sviluppare una propria nuova competitività, Turchia ed Arabia Saudita, nel comprare armi dai russi, hanno chiesto di avere in patria anche gli impianti industriali per produrle, preludio per l’acquisizione di un know how di partenza che possa emanciparle -almeno in parte-  dalla dipendenza verso terzi. Avere un mercato di sistemi d’arma plurale, sarà necessario in un mondo multipolare e chi sarà solo compratore non sarà autonomo, quindi sovrano.

Il terzo punto invece torna a presentare problemi. E’ chiaro, sottintende Macron, che tutto ciò ha dello straordinario, quindi prescinde dalle norme economiche standard tanto care ai tedeschi, stante che la Francia è sicuramente almeno all’inizio in vantaggio sull’argomento, ovvero reclamerà la parte del leone sullo sviluppo di questa strategia il che le permetterà di bilanciare il negativo dei tagli e degli interventi per neo-liberalizzare l’economia transalpina con importanti investimenti e relativa occupazione nel nuovo sviluppo di questo settore.  Ma questo punto rischia di non essere digeribile per gli stomaci tedeschi che notoriamente non hanno l’elasticità tra le loro qualità digestive. Tre sono le difficoltà digestive tedesche: la prima è condividere il potere tenendosi l’economico ma sostanzialmente subordinandosi su quello di politica estera dove per altro non è affatto detto che la pura strategia geopolitica tedesca -come poi vedremo-  vada naturalmente a coincidere con quella francese; il secondo è che ogni eccezione al rigore, all’austerity, alla rigidità dei limiti eventualmente concessi ai francesi accenderà la già baldanzosa opposizione tedesca ma anche quella di tutti i Paesi europei costretti invece al più rigido allineamento; il terzo è che, in linea generale, i tedeschi non amano sentir parlare di armi, eserciti, guerre anche solo temute e ventilate e francamente anche molti altri nel mondo e nell’Europa stessa.

Si tenga infine conto che al di là degli interessi francesi in termini di equilibrio di potere ai vertici della confederazione, il seggio francese al Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite potrebbe presto esser revocato se non fosse in grado di rappresentare qualcosa di più che la sola Francia ed inoltre, come abbiamo già ripetutamente notato negli ultimi mesi, la Francia sa che una eventuale perdita del suo potere e ruolo nel quadrante occidentale africano, sarebbe per lei esiziale. Perdita che va anticipata portando Germania ed anche Italia a condividere i costi di presenza e manovra nell’area. Questo obiettivo, affiancare alla già fitta rete di disposizioni ed istituzioni comuni sul piano economico la cui egemonia strategica è tutta in mani tedesche, una nuova rete di interessi e strategie concrete sul piano della difesa, è essenziale per Macron e la Francia, lo è in chiave di bilanciamento europeo ma prima ancora, lo è sul piano dell’esistenza futura della Francia stessa.

In sintesi, i due consoli della confederazione sembrano voler andare ad un rinforzo con spartizione e bilanciamento della loro diarchia, quella fase che è stata pomposamente annunciata come “Europa a più velocità”. Per quanto l’iper produzione di discorso economico e valutario imperi ancora oggi nelle analisi sulla causa unica dei processi europei, nel mondo “grande e terribile”, si ragiona ormai da tempo coordinando interessi economici, valutari e geopolitici. Russia, Cina, la nuova America di Trump, l’India, le locali potenze islamiche (Arabia Saudita/EAU, Turchia, Iran, Egitto, Pakistan), ma anche la Corea del Sud ed il Giappone, sono già alle prese con questo tipo di gioco sconosciuto a gli osservatori economici e non è un caso che al di là delle specifiche convenienze nel necessario riequilibrio delle forze tra Germania e Francia sia proprio quest’ultima a portare avanti l’argomento in uno scenario discorsivo altrimenti ingombro di fiscal compact, euro e bilanci. Il patto per una nuova fase confederale quindi, dovrà basarsi su due egemonie, quella economica e valutaria tedesca e quella di difesa e politica estera francese che poi porteranno i due a dover contrattare, l’un con l’altro, anche gli aspetti di cui sono leader dato che i due argomenti sono strettamente intrecciati. La confederazione europea, lungi dal voler diventare uno Stato federale, tenderà ad evolversi legando tra loro ulteriormente i due contraenti il trattato di pace, accentrando sempre più su di loro i poteri decisivi. Tutto questo ci porta a due considerazioni. La prima è che nonostante le sue difficoltà di sviluppo ed attuazione, questa strategia non ha -al momento- alternative se non portare l’intero e decennale progetto confederale sull’orlo o oltre l’orlo del collasso, non ha alternative ovviamente stante l’attuale assetto della confederazione europea ed il suo decennale percorso. La seconda è che occorre cominciare a prevedere un piano B, pensare appunto ad una alternativa, sia perché certo l’avranno certo fatto tanto i francesi che i tedeschi, sia perché il piano A certo non può piacere ad un italiano che non abbia un cervello seriamente danneggiato.

Quale potrebbe essere un piano B per i tedeschi? La Germania potrebbe non sentire così pressante la necessità di dotarsi di una potenza  militare, in fondo una blanda politica estera già la fanno a traino dei loro interessi economici. Potrebbero aderire alle richieste di Trump di incrementare i contributi NATO, magari più assegni e mezzi tecnici che uomini, magari facendoli pesare sull’altro piatto della bilancia sbilenca, ovvero la bilancia commerciale. Altresì, ai tedeschi, è probabile interessi non rompere tutti i legami con gli inglesi temendo grandemente la britannica concorrenza banco-finanziaria ed anche geopolitica relativamente all’area dell’est Europa a cui i tedeschi guardano come loro Grossraum (grande spazio) naturale e dove già agisce in maniera disordinante gli Stati Uniti. E’ natura di una Germania potenza solo economica avere interesse ad adottare, come sino ad oggi hanno fatto, un basso profilo geostrategico, amici di tutti perché gli affari si fanno con tutti. Una Germania più assertiva e schierata, potrebbe essere una Germania meno benvenuta in sede di commercio internazionale. Una Germania tendenzialmente ambigua, passiva e neutrale, come sino ad oggi è stata, potrebbe piacere anche alla Russia con la quale la Germania ha un dialogo geo-storico longevo e naturale. Una resistenza passiva tedesca a gli intenti francesi, un convenire ma ritardare, accettare ma complicare, non dispiacerebbe in fondo neanche a molti altri partner europei certo non contenti di dover diventare feudo periferico non solo dell’economicismo tedesco ma anche del militarismo francese. Alcuni poi, soprattutto i Paesi dell’est e dell’area balcanica, preferiscono dichiaratamente sottomettersi direttamente all’ombrello USA/NATO rispetto ad un ipotetico esercito europeo, poiché ravvedono forte il comune interesse a contenere la Russia ed è certo che per contrastare l’ipotetico contro-potere dei due europei, gli americani useranno molto questa leva. Non incrinare troppo i rapporti con questa area che i tedeschi ritengono per loro decisiva, potrebbe esser vantata come causa per rallentare o dilungare la costruzione di una effettiva alleanza militare più stretta. Nel caso poi di una ipotetica implosione dell’euro e della stessa UE, la Germania forte del suo ruolo economico nell’area del nord Europa, può sempre contare su un grande spazio di più di 6000 mld  US$ di Pil. Infine, extrema ratio, la teoria geopolitica dice che al di là delle contingenze attuali, un sistema binario Germania – Russia sarebbe assai temibile per tutti e non poco conveniente per entrambi i partner (energia/mano d’opera  vs tecnologia). Non è detto quindi che la Germania seguirà con convinzione il piano A francese che per lei ha convenienze problematiche  e comunque ha diverse opzioni alternative.

E la Francia? Quale potrebbe essere un piano B per i francesi? La Francia è notoriamente una sorta di media europea, occidentale quanto centro europea, meridionale quanto settentrionale, franca quanto latina, atlantica quanto mediterranea e da ultimo neoliberista non meno che storicamente statalista. Se non si concretizzasse lo sviluppo della strategia di diarchia coi tedeschi, consapevole pur con dolore di lesa maestà che da sola non andrebbe da nessuna parte, non le rimarrebbe che il Mediterraneo, i Paesi latini. Una più stretta confederazione tra i Pesi latini mediterranei, conterebbe su una popolazione di circa 200 milioni, per un Pil di poco meno di 6000 mld US$ che avrebbe, per consistenza, il terzo posto nella classifica mondiale. Dal seggio nel Consiglio di sicurezza a tutti tavoli in cui si discutono le regole del nuovo gioco del mondo, fino al proporsi come terzo nella dialettica cinese – americana, nonché potendosi così garantire il diritto di primazia sulla sempre più turbolente area mediterranea, questo sistema ha molti punti di prospettiva.  Questa configurazione avrebbe una qualità in più rispetto a quella attuale ovvero una certa omogeneità relativa delle popolazioni e delle istituzioni dei Paesi associati. E’ ad esempio chiaro che i latino mediterranei avrebbero tutt’altro atteggiamento nei confronti di una loro eventuale moneta comune alternativa, tutto quanto di indigeribile c’è nell’attuale sistema dell’euro, potrebbe non esserci in questa diversa configurazione, ad esempio una moneta d’aiuto a rientrare dai picchi più gravi di indebitamento, una moneta a disposizione per investimenti e politiche espansive, una moneta diversamente prezzata su i mercati internazionali ovvero maggiormente di supporto all’export. Proprio i francesi potrebbero trarre molto giovamento da scambi regolati da una valuta meno impegnativa dell’euro, poiché più di altri volti a mercati non europei. Ma anche la politica estera sarebbe più naturalmente condivisibile dal momento che la dicitura “latino-mediterranea” richiama appunto un comune quadro geografico e storico di lunga durata, un quadro di interessi comuni naturali poiché amalgamati da un tempo e spazio comune. Portoghesi e spagnoli, potrebbero aprire a più strette relazioni col mondo centro-sud americano mentre Africa occidentale e mediterranea e Medio Oriente sarebbero altrettanto naturale obiettivo di relazioni multiple e strategiche, anche in termini di sviluppo, sviluppo viepiù potenziato dall’utilizzo di una moneta libera dai dogmi tedeschi. Soprattutto, questa seconda linea avrebbe maggiori possibilità di puntare con decisione ad un esito finale chiaro e pre-definito, un esito il cui obiettivo potrebbe ordinare tutto il precedente processo di condivisione: una futura effettiva fusione istituzionale federale, quindi politica, quindi democratica. Sulle questioni strategiche decisive, non ci sarebbe decisione possibile nell’ipotetico futuro parlamento federale latino-mediterraneo, senza accordo tra Francia ed Italia che farebbero assieme il 63% dei seggi parlamentari. Questo piano B però, non è oggi nelle agende dei decisori francesi.

Una federazione dei pesi latino-mediterranei è pensabile a differenza degli impossibili Stati Uniti d’Europa e questa prospettiva è l’unica che può riquadrare la doppia esigenza di superare lo stato nazionale da una parte e darsi un nuovo sistema ordinabile politicamente e democraticamente dall’altra, creando un soggetto geopolitico di tutto rispetto per i giochi multipolari. L’Unione europea o il sistema dell’euro non sono sistemi politici e quindi democratici proprio perché sono confederazioni, alleanze laddove le alleanze sono degli accordi contrattati da Stati sovrani. Questi Stati si definiscono e cercano di essere (pur in maniera molto approssimata) “democratici” ma solo al loro interno, in termini di trattati internazionali agiscono tramite mandato nazionale stante che effettivamente, le deleghe nel voto di rappresentanza, contengono in genere assai poco in termini di contenuto condiviso su ciò che effettivamente va fatto -con chi e come- in politica estera. L’omogeneità strutturale tra i Pesi latino-mediterranei, a partire dalla lingua che è poi il presupposto di ogni costruenda nazionalità, ma anche la cultura (incluso il fondo religioso), lo stile di vita, lo spirito, oltreché come abbiamo accennato l’interesse economico e geopolitico che sono i due assi centrali di ogni strategia di sopravvivenza nel nuovo mondo complesso e multipolare, danno consistenza e lasciano intravedere possibilità di ulteriore sviluppo storico di questa idea.

E l’Italia? L’Italia ha tre strade davanti a sé.

La prima è quella di continuare a farsi trascinare dentro i meccanismi della insidiosa confederazione europea. Qui va chiarito ai meno realisti, ovvero coloro che pensano che una cosa basta pensarla per renderla possibile, che questo non porterà mai a nessuna ipotetica federazione degli Stati Uniti d’Europa che oltreché nessuno davvero vuole e comunque impossibile in linea di principio[6]. Poiché nessuno ha in animo la costituzione di una unione politica democraticamente contendibile, è da stamparsi bene in mente che un assetto confederale mai e poi mai potrà esser soggetto a decisioni democratiche, richiedere la “democrazia” in una confederazione non ha semplicemente senso. Si sta quindi accettando la lenta dissipazione di ogni forma democratica in favore di trattative dirette e non pubbliche  tra Paesi forti, ovvero Francia e Germania, ma questo sacrificio non sembra poter avere un fine compensatorio da tutti gli altri condivisibile. I tedeschi non accetteranno mai di rimandare le decisioni politiche, economiche, fiscali, valutarie che li riguardano ad un parlamento democratico poiché quasi due terzi di quel parlamento, nel caso del sistema euro, voterebbe per un diversa politica monetaria. Quanto all’Italia nell’attuale Unione, non si tratta di nostra mancanza di protagonismo o bassa assertività o pugni sul tavolo, noi -semplicemente- non abbiamo alcuna ragione, peso, potenza e possibilità di intrometterci nel trattato di pace franco-tedesco. Dopo aver ceduto la politica economica ai tedeschi, cederemo anche la politica estera ai francesi, poi altri pezzi di sovranità ad entrambi, diventando come quei personaggi dei film horror che si trovano nello stato di non morte, privati ormai di ogni potere per dirsi vivi, eppure formalmente ancora con un Presidente, una bandiera, un inno nazionale, una squadra di calcio e poco altro, imbozzolati in una Unione che ci toglie più di quanto ci dà, senza neanche la falsa promessa di poter un giorno sperare di avere una democratica sovranità condivisa.  Più si va avanti nella costruzione della ragnatela confederale, più -nei fatti- diventerà praticamente impossibile divincolarsi e disfarsene.

La seconda strada davanti a noi, è quella di pensar possibile e necessario un rimbalzo violento da questa situazione ovvero immaginare una uscita dall’euro e da questa UE, per decisione unilaterale o come gli apparentemente  più realisti sperano ovvero aspettando la sua conflagrazione spontanea. Questa conflagrazione spontanea rischia però di essere puro wishful thinking. Al di là delle notevoli difficoltà in cui si dibattono e dibatteranno i tedeschi ed i francesi nel regolare i loro contraddittori reciproci rapporti di potere all’interno dei vertici confederali, è molto difficile immaginare sia accettabile per le rispettive élite e per buona parte dei rispettivi sistemi-paese, una demolizione controllata dell’Unione e dell’euro. In questi casi, al crescere delle contraddizioni, si preferisce il cercar di mettere toppe di qui e di lì, anche per anni, pur di non ammettere che il matrimonio non regge più ed è ora di andare dagli avvocati. Né la maggioranza dei tedeschi, né dei francesi, sembra così scontenta della loro collocazione ai vertici confederali da spingere ad un collasso. Se Macron è l’ultima speranza francese ed anche tedesca, in un modo o nell’altro, finirà il suo primo ed anche un secondo mandato e semmai se ne riparla fra dieci anni, dieci anni che non ci possiamo permettere. La nostra uscita unilaterale -invece- è cosa che possono pensare solo gruppetti di indomabili utopisti dalla penna arrabbiata, che sta bene scritta su qualche foglio o pagina web ma che nel “mondo grande e terribile” delle cose reali, non ha alcuna possibilità concreta di realizzarsi.

Poi c’è la terza possibilità. Questa è la via del farci noi per primi, catalizzatori di un interesse latino-mediterraneo, un interesse che oggettivamente c’è almeno in potenza e che nessuno cura. Andrebbe fatto anche solo per formare un contro-potere che sebbene non invitato nel privé franco-tedesco, potrebbe comunque cercare di intromettersi su molte questioni. Il gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia ed Ungheria) potenziato oggi anche con l’Austria, mostra come posizioni chiare e concrete, possono opporsi alla ragnatela tessuta dai franco-tedeschi, opponendo dei “no” che poi diventano delle importanti basi di successiva trattativa. Ma andrebbe fatto anche per perseguire una linea strategica alternativa che aiuti le contraddizioni dell’Unione e dell’euro a far implodere o indebolire le strutture che ingombrano il campo delle possibilità. Andrebbe fatto anche solo per spingere una Francia che per gran parte delle sue élite rimane franca e nord europea, a prenderla in considerazione come alternativa, anche per influire nelle loro dinamiche politiche interne, ma anche in Italia dove all’europeismo confederale del PD si oppongono mugugni di vario tipo che non paiono in grado di prefigurare alcuna vera alternativa viabile.

Andrebbe fatto per prefigurare un piano B che per noi sarebbe A, un piano che dovremmo fare anche a prescindere dalle spinte ad uscire dalla ragnatela euro-confederale, poiché anche riottenendo -non si sa come-  una ipotetica autonomia di ripristinata sovranità, nel mondo multipolare in cui siamo entrati, un Paese di 60 milioni di persone tra l’altro con sempre più anziani, su i piani energetici, economici, valutari e militari, delle nuove tecnologie e relativi investimenti di ricerca e sviluppo, nella gestione di una politica estera rivolta all’Africa ed ai problemi migratori, non può che avere una autonomia meramente formale[7]. Se l’Unione e l’euro sono i problemi ravvicinati in cui i poteri delle nostre decisioni vanno rinforzati, quelli di una minorità oggettiva in balia di russi, cinesi, indiani, trambusti africani ed islamici, britannici con rinnovato spirito piratesco ed americani alle prese con la loro inevitabile contrazione di potenza, lo sono in immediata e certa prospettiva. La sovranità -in teoria- decide certo come giocare la partita ma questa ha i limiti che sono imposti dal tavolo di gioco, le grandi dinamiche del mondo complesso e la strategia di gioco dei giocatori principali.  La sovranità dipende da condizioni di possibilità che riceve da contesti che non controlla, “sovranità” suona come un assoluto ma è un relativo.

Cosa saremo tra venti anni? Le forze sociali, intellettuali e politiche che si identificano con le idee di democrazia popolare, di emancipazione, di volontà di liberazione dal dominio delle logiche economiche e delle loro interpretazioni più estreme, neo-liberali o ultra-capitalistiche o come le si voglia definire, italiane ma anche latino-mediterranee, dovrebbero a nostro avviso, pensare a questa strada poiché è l’unica strategia che si fa carico non solo di dire no ai poteri dominanti ma anche di dire si ad altre forme di potere stante che i nostri sistemi di vita associata debbono per forza avere strutture con poteri[8]. Lamentandosi, criticando, insultando, corrodendo con le parole, i pensieri e le strutture dominanti, non accade nulla di concreto, accade qualcosa se realisticamente al problema dato si dà non la risposta A ma quella B, senza un piano B non c’è alcuno sbocco possibile ai crescenti malumori verso l’euro e l’UE, non c’è alcun peso negoziale da far valere a difesa dei nostri interessi minimi. Se si vuole essere forza alternativa occorre una viabile idea alternativa, questa di una confederazione dei più simili che attragga i francesi su una via alternativa,  vale in vista di negoziazioni su gli sviluppi dell’attuale UE ed euro ma di più vale in vista di una piena federazione politica latino-mediterranea. Questo di un futuro soggetto politico al contempo dotato di massa e pienamente sovrano e democratico,  è l’unico che vediamo, possibile e desiderabile.

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[1] La recente ricerca YouGov condotta in alcuni Paesi europei (dic.’17) sull’idea di Schulz di puntare alla concreta realizzazione degli Stati Uniti d’Europa ha dato risultati interessanti: d’accordo un 30% in Germania ed un 28% in Francia, percentuali invece gravemente minoritarie in Svezia, Finlandia, Danimarca e Norvegia. Altri Paesi non sono stati intervistati ma si può immaginare una forte contrarietà all’est ed una forse maggior adesione a sud. Come la solito il campione scelto dall’istituto di ricerca è molto esiguo ma più in generale, è molto dubbio che sia chiaro a gli intervistati il complesso portato di questa opzione. Difficile da immaginare che il restante 70% di francesi e tedeschi sia convertibile e soprattutto lo siano i tedeschi una volta chiarito che questo progetto porterebbe ad uno strappo con la propria area naturale di partner nord europei e che semmai gli Stati Uniti d’Europa andrebbero fatti  solo tra Germania e l’Europa latino-mediterranea. Se dopo 25 da Maastricht, questo è il sentimento, non si vede per quale ragione esso possa evolvere in positivo nei prossimi otto anni (Schulz parlava infatti di un processo costituzionale da chiudere nel 2025), soprattutto quando dall’empireo delle petizioni di principio si dovesse passare ai dettagli concreti.

[2] A novembre, è partita la Permanent Structured Cooperation (PeSCo) all’interno dell’UE con 22 partecipanti su 27. Dal 2021 ci sarà anche un Fondo europeo per la difesa e con il Rapporto annuale comune sulla difesa (CARD), costituiranno la base per lo sviluppo di questa nuova gamba della confederazione. Al momento, il tutto si muove ancora nell’ambito della NATO ma non credo sia questa la destinazione finale pensata dai francesi. QUI  

[3] Un articolo che presenta le idee dei piani: QUI  (all’inizio dell’articolo il link al pdf della Repubblica francese). Il documento congiunto SWP-IFRI – QUI 

[4] Un rapporto presentato al Parlamento tedesco nel 2014, dava un quadro disastroso dello stato di condizione della Bundeswehr. Da allora gli investimenti sono aumentati e così gli arruolati ma la strategia tedesca sembra esser un’altra. Con il Framework Nation Concept, ha dato il via all’accorpamento di alcune divisione estere (olandesi, rumeni e cechi, ma già si parla anche di scandinavi), ovvero formazioni di battaglioni misti tra tedeschi e stranieri. La strategia tedesca è sempre la stessa, legare i partner con molteplici fili, ognuno dei quali singolarmente poco rilevante, che nell’insieme però riducano l’altro ad una condizione di compromissione tale da rendere impossibile l’eventuale distacco. QUI 

[5] Dal 2005, ogni anno si è verificato un aumento dei volumi dei trasferimenti d’arma nel mondo (SIPRI Yearbook 2017 QUI ). C’è poi da vedere i volumi dei trasferimenti non ufficiali che si pensano ingenti. La Francia è il quarto esportatore nel mondo dopo USA, Russia e Cina. La Francia è anche il terzo Paese per dotazione nucleare. Pur avendo un esercito ritenuto oggi al di sotto dei minimi standard di efficienza, la Germania ha però continuato a sviluppare industria militare (sopratutto armi a mano e mezzi di terra) ed è oggi il quinto esportatore. Francia e Germania hanno annunciato di voler sviluppare un nuovo caccia comune di quinta generazione, teoricamente competitivo con gli F-35 USA.

[6] Non possiamo qui dettagliare le ragioni di questa apodittica affermazione. Invero però, prima di esser noi coloro che negano una possibilità, dovrebbero esser coloro che la mettono sul tavolo a presentare le proprie ragioni. Che persone serie e intellettulmnete e politicamente responsabili, possano pensare ad una idea del genere senza che ne esista la benché minima traccia di un serio studio di possibilità, fattibilità, opportunità, dice di quanto -in fondo- si stia facendo del puro intrattenimento. Si usa l’idealità degli “Stati Uniti d’Europa” che si basano su un analogia insostenibile (con gli Stati Uniti d’America ovviamente), per non pensare le cose concrete. Dico solo che quando gli americani decisero di risolvere le loro contraddizioni unioniste, lo fecero con una sanguinosa guerra ma sopratutto erano -in tutto- circa trenta milioni e parlavano pure la stessa lingua! In linea generale, tutto il dibattito sul tema Europa, sembra essere gravato da una molteplicità di modi con cui se ne legge la sostanza. Pensare che l’Unione europea sia d’origine una macchinazione delle élite neoliberiste o il trattato di pace tra Francia e Germania, cambia parecchio in termini di analisi. Fare finta sia un oggetto contendibile politicamente dai popoli e non una alleanza contrattata da capi di Stato, ognuno con il peso che gli compete secondo la dura logica della potenza, ci porta a perdere tempo appresso a discussioni irrealistiche ed infondate.

[7] L’esiguo e pur ostinato “movimento sovranista”, dovrebbe farsi un serio esame di coscienza. E’ davvero necessario illudere coloro che pur hanno avvertito l’insostenibilità dell’attuale situazione, con l’opzione di una presunta sovranità nazionale risorgimentale e mazziniana? Al di là dello sfoggio di originalità retorica, quanto può esser sovrano uno stato europeo nato nel XV secolo come dimensione, quando cioè le questioni inerivano solo i nostri rapporti interni al subcontinente? Saremo sovrani di cosa in un mondo in cui un cartello di fondi può attaccare la tua valuta e farne oscillare il prezzo in maniera da farti fallire in un pomeriggio? Nell’essere vaso di coccio tra vasi di ferro in qualsiasi rapporto commerciale bilaterale potremmo far valere i nostri interessi? Non essendo autonomi energeticamente ancora per molto tempo, in attesa di volgerci alle energie alternative, quanto dovremmo mediare la nostra sovranità? Con una popolazione in contrazione e sempre più anziana come la difenderemo?  Saremo sovrani lasciando che tutto il mondo scorrazzi nel Mediterraneo vendendo armi ed organizzando guerre sulle coste dirimpette? Dichiarandoci pacifici in un mondo che si sta armando a piene mani? Diventando cosa in un mondo complesso, multipolare, ipertecnologico, instabile e sempre più competitivo? Convincendo come, una massa critica di almeno un 60% di connazionali votanti, per portare avanti questo miraggio fondato su slogan inconsistenti, sempre che i servizi segreti esteri e le stesse élite che ci dominano dall’unificazione del ’61, ce lo lascino fare?

[8] L’idea di un contro-potere latino-mediterraneo, è presente qui e là sebbene non supportata da una più convinta attenzione, sopratutto da parte italiana. Più di un anno fa, Tsipras ha promosso un forum di coordinamento dei Paesi latino mediterranei -EUROMED- che  si è già riunito tre volte ed un quarta sarà il prossimo 10 Gennaio a Roma. Questa “alternativa mediterranea” è presente nei programmi di France Insoumise di J-C Mélenchon, come di Podemos e certo non dispiacerebbe al Bloco de Esquerda portoghese. L’intero movimento italiano critico verso UE ed euro dovrebbe riflettere sulla propria dispersività concettuale e sull’assenza di una vocazione ad alleanze strategiche. Improbabile il risolvere problemi inter-nazionali partendo solo dal dentro di una nazione.

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